ETICA - modelli storici

annuncio pubblicitario
KANT Le forme della volontà
tesi per un’etica autonoma
il progetto, l’edificio, gli effetti
(Immanuel Kant 1724 – 1804)
[Tre fasi in intersezione al percorso numerico:
le tappe del percorso
1. il progetto (un bilancio storiografico e la direzione da prendere)
2. l’edificio (i principi reggenti la costruzione e l’ordinamento)
3. gli effetti (il fondamento, i postulati generali per una visione oggettiva della morale all’insegna
della completezza)
[il progetto: il bilancio storico e la direzione]
1. la valenza etica dell’Illuminismo (richiamo)
1.1. “sapere aude”, la valenza etica del sapere: L’illuminismo è l’età in cui l’uomo accetta il
rischio del pensiero; «il coraggio di far uso del proprio intelletto».
«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso.
Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se
stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla
mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un
altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto
dell’illuminismo.» (Kant 1784 Che cos’è l’Illuminismo)
1.2. non età illuminata ma età illuministica (il carattere infinito del sapere)
«Se ora si domanda: — Viviamo noi attualmente in una età illuminata? — dobbiamo rispondere: —
No, bensì in un’età di illuminismo—. Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli
uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano esser posti in grado di valersi
sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è
ancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a
emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da
una minorità a loro stessi imputabile diminuiscano a poco a poco» (ivi)
1.3. la ricerca critica dei fondamenti è la definizione delle possibilità e dei limiti (la colomba
leggera o lieve). La conoscenza dei limiti è condizione per garantire l’efficacia dell’azione.
«La matematica ci dà uno splendido esempio di quanto possiamo spingerci innanzi nella
conoscenza a priori, indipendentemente dall'esperienza. È vero che essa ha che fare con oggetti e
conoscenze solo in quanto si possono presentare nell'intuizione: ma questa circostanza vien
facilmente trascurata, perché l'intuizione stessa può essere data a priori, e perciò difficilmente si può
distinguere da un concetto puro. Eccitato da una siffatta prova del potere della ragione, l'impulso a
spaziare più largamente non vede più confini. La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende
l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello
spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone
troppo angusti limiti all'intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto
dell'intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché
non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le
sue forze per muovere l'intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione
allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un
buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni di ogni specie per confortarci
sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica.»
L’obiettivo dichiarato dell’intera esplorazione critica delle facoltà dell’uomo è quello di “Erigere un
tribunale, che garantisca [la ragione] nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno
1
fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi. (Kant 1781, 1787,
Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000).
L’esame che la ragione svolge su se stessa è preliminare a qualsiasi indagine sulla realtà e
condizione per uno sviluppo regolare e sistematico della ricerca scientifica. La completezza della
ragione in tale direzione di analisi è insieme individuazione di ciò che è conoscibile e l’indicazione
di ciò che risulta inconoscibile per definizione. L’individuazione del limite, dell’ambito di corretto
esercizio della ragione, non è un’attestazione di debolezza ma la premessa per l’uso della ragione;
eloquente in tal senso la metafora della “colomba leggera”.
2. l’impostazione trascendentale della filosofia condizione di autonomia del soggetto
nell’intero campo delle sue possibilità (mente, volontà, sentimento)
2.1. trascendentale come metodo, come obiettivo e come oggetto. La corretta impostazione del
completo piano di indagine sulle facoltà dell’uomo si deve fondare, secondo Kant, su una
distinzione preliminare, che egli pone al centro di tutta la sua riflessione, tra le possibilità e la realtà
delle cose. La ragione critica non indaga la realtà delle cose, ma le possibilità della mente:
bisognerà allora stabilire fin dove essa possa spingersi ed entro quali limiti debba arrestarsi.
«Conoscere qualcosa a priori significa conoscerla per la sua più pura possibilità» (Kant, Principi
primi metafisici della scienza della natura)
Kant definisce trascendentale l’indagine che egli intende condurre: si occuperà infatti «non tanto di
oggetti, quanto invece del nostro modo di conoscere gli oggetti, nel senso che un tale modo di
conoscenza deve essere a priori». La strategia dell’indagine trascendentale mira a isolare e studiare
analiticamente quelle forme del soggetto che, in quanto a priori (non derivate dall’esperienza,
anche a loro si applica il termine trascendentale: si tratta di forme trascendentali della mente)
rendono possibile al soggetto l’esperienza conoscitiva (non derivano dall’esperienza, ne sono la
condizione); naturalmente in quanto tali forme sono proprie del soggetto, l’universo delle
conoscenze che ne deriva sarà tale per il soggetto umano e non pretenderà di svelare l’essenza del
mondo, di descrivere la realtà quale essa è in sé o agli occhi di un’altra ipotetica intelligenza non
umana.
2.1.1. note al termine trascendentale e differenze. L’indagine che studia i principi a priori della
conoscenza e segnala «che e come certe rappresentazioni vengono applicate, o sono possibili,
esclusivamente a priori» è chiamata da Kant «trascendentale». La filosofia è dunque trascendentale
quando si presenta come teoria della possibilità a priori dell’esperienza in generale.
La filosofia medievale denominava «trascendentali» tutte quelle nozioni destinate a esprimere le
specificazioni dell’essere considerato al livello di massima universalità, prima della sua
articolazione in modi dell’essere, in categorie. Trascendentali erano dunque, secondo la
sistemazione scolastica: essere, cosa, uno, altro, vero, buono; essi costituivano le specificazioni
generalissime dell’essere, i generi supremi della riflessione metafisica. Anche in Kant l’espressione
trascendentale indica la capacità di andare oltre l’esperienza, ma la direzione di questo superamento
è totalmente cambiata: il trascendentale supera l’esperienza non perché indichi essenze oltre il dato
sensibile o l’essere in sé, ma perché indaga gli elementi a priori della conoscenza, le condizioni
formali dell’esperienza. Trascendentale è dunque la natura delle forme che appartengono al
soggetto e lo studio di come esse rendono possibile una conoscenza sintetica a priori. Il termine
trascendentale definisce una filosofia la cui indagine conoscitiva verte sull’uomo in quanto soggetto
autonomo, a livello di definizione formale dell’esperienza, fonte e artefice dei processi che
riguardano la conoscenza, le decisioni morali, il sentimento avvertito nella prospettiva di in un fine.
2.2. i tre ambiti dell’indagine trascendentale: «Ogni interesse della mia ragione (così lo
speculativo, come il pratico) si concentra sulle tre domande: che cosa posso sapere? che cosa devo
fare? che cosa posso sperare?». Le tre “critiche” delle tre “facoltà”: della ragion pura (conoscenza),
della ragion pratica (volontà), del giudizio (sentimento).
2
3. la morale: la filosofia pratica alla ricerca dei principi della ragione pratica
«La ragione da se stessa determina la condotta»
La rivoluzione copernicana che ha condotto Kant a porre il soggetto al centro del mondo delle
conoscenze di cui è ordinatore e legislatore fa da supporto anche alle ricerche etiche condotte dopo
la pubblicazione (1781) della Critica della ragion pura; anche queste indagini seguono l’obiettivo
di porre in evidenza l’autonomia dell’uomo nei limiti e nei mezzi delle proprie facoltà esplorando il
campo delle possibilità a priori della ragione nel suo aspetto pratico.
3.1. Una constatazione e una distinzione: morale eteronoma e morale autonoma
«Per assolvere il nostro compito è di estrema importanza astenersi dal pretendere di trarre la realtà
del principio del dovere da una particolare proprietà della natura umana. Infatti il dovere dev’essere
una necessità praticamente incondizionata dell’azione e deve pertanto valere per tutti gli esseri
ragionevoli (come i soli a cui è possibile in generale che si applichi un imperativo) e soltanto in
conseguenza di ciò deve valere come legge per ogni volontà umana. Al contrario, ciò che consegue
dalla particolare disposizione naturale dell’umanità, da determinati sentimenti e tendenze e anche,
se possibile, da un particolare indirizzo proprio della ragione umana non necessariamente valido per
la volontà di ogni essere razionale, può certamente fornirci una massima ma non una legge, un
principio soggettivo secondo il quale possiamo agire in base a tendenze e inclinazioni, non un
principio oggettivo secondo il quale siamo comandati di agire anche se ogni nostra tendenza,
inclinazione o disposizione naturale fosse contraria; sicché la sublimità e la dignità intrinseca del
comando del dovere si manifesta tanto più quanto meno le cause soggettive sono favorevoli ad esso,
anzi quanto più gli sono contrarie, senza che ciò determini il minimo indebolimento della necessità
della legge o ne sminuisca in qualche modo la validità.» (Kant 1785 Fondazione della metafisica
dei costumi) Il dovere, il concetto e l’essenza di dovere, è un modo di essere proprio, originario e
incondizionato della natura razionale dell’uomo, della sua ragione in quanto pensiero e principio di
azione; quindi della ragione e della volontà considerate nella loro essenza e natura, per se stesse. Il
dovere non è una caratteristica particolare (di individualità soggettive considerate solo nella loro
particolarità concreta storica), parziale o occasionale della ragione e della volontà e nemmeno un
principio o imperativo esterno ad esse.
Nel 1785 Kant affida alle stampe la Fondazione della metafisica dei costumi. L’opera non
rappresenta il suo primo intervento su temi etici, ma è il primo, dopo la pubblicazione della Critica
della ragion pura, in cui il tema etico viene affrontato nella prospettiva della filosofia critica.
Seguendo tale prospettiva Kant ricerca i principi a priori dell’agire morale, le forme universali che
guidano la volontà umana nella vita pratica, orientandola verso azioni morali.
Il problema morale viene qui affrontato non a partire dall’esperienza dei comportamenti e dalle
norme esteriori, ma attraverso la ricerca delle condizioni ideali della perfezione morale dell’uomo:
Kant non intende descrivere la realtà di fatto dell’agire morale, i suoi moventi psicologici e
particolari, ma le forme universali del «dover essere», i principi a priori secondo i quali si deve
agire. In queste analisi si impone quindi, ancor più pressantemente di quanto non fosse nella ricerca
dei fondamenti gnoseologici, la necessità di prescindere dall’esperienza per definire le possibilità
della ragione e della volontà; la dipendenza della ragione dall’esperienza o da autorità esterne
impedirebbe all’uomo di essere autonomo e libero artefice della propria moralità e renderebbe
soggettiva ogni ricerca dei fondamenti dell’etica.
3.1.1. morali eteronome (al plurale). Nelle opere in cui Kant affronta, secondo la prospettiva
critica, il problema morale (la Fondazione della metafisica dei costumi del 1785, la Critica della
ragion pratica del 1788, la Metafisica dei costumi del 1797) si fa sempre più netto il rifiuto delle
pretese fondative (autofondative) e di pretesa autonomia delle filosofie morali elaborate dalla
tradizione di carattere religioso, politico, consuetudinario:
3.1.1.1. esse si risolvono tutte, a giudizio di Kant, in elenchi di precetti sentiti come obblighi esterni
cui l’uomo si piega solo per garantirsi la salvezza, la felicità, l’accettazione, il successo,
3
riconoscimento, plauso ecc.; esse prospettano infatti comportamenti orientati verso fini (quali il
piacere, la felicità, la salvezza ecc.) che vanno oltre l’azione stessa;
3.1.1.2. nelle loro radici storiche sono tra loro inconciliabili, spesso contraddittorie; difficilmente
sono riportabili a condizioni di moralità generale; non trovano nella coscienza e nella libertà del
soggetto la propria fondazione, ma si giustificano sul comando di autorità esterne al soggetto: sono
morali “eteronome”;
3.1.1.3. non trovando il loro fondamento etico nella volontà dell’uomo e nella sua ragione, ma in
autorità, comandi premi e fini esterni, condannano l’uomo alla dipendenza, lo conservano nella
minore età. Principale ostacolo alla ragione pratica, nei vari campi del suo impegno di ricerca e
proposta, è, secondo Kant, la convinzione che essa trovi le proprie forme non in se stessa, ma in
elementi esterni, quali possono essere l’educazione o l’esperienza di vita, o in tavole di norme
ispirate da una divinità trascendente. Una simile impostazione conduce l’uomo a rinunciare alla
propria ragione e a restare perennemente sotto tutela; ogni atteggiamento servile ha qui la sua
premessa. L’agire dell’uomo che si ispira a simili presupposti ed è determinato unicamente da leggi
e valori esterni, da inclinazioni, abitudini, passioni, non può dirsi morale in quanto non trova origine
e giustificazione nella sua libera volontà e in scelte guidate dalla sola ragione.
3.1.2. morale autonoma (al singolare). Kant progetta, invece, di rifondare la scienza etica sulla sola
ragione umana, l’unica fonte di principi che conferisce all’azione i caratteri di universalità e di
autonomia indispensabili a ogni azione morale; a tale scopo la riflessione morale non parte
dall’analisi dei contenuti delle azioni morali, ma delle condizioni della moralità, poste dal soggetto,
del tutto a priori o trascendentali, poste cioè dalla ragione nella sua naturale ed essenziale
destinazione pratica. Anzi, occorre mettere al bando l’esame dei modi in cui la conoscenza empirica
influenza il formarsi di una teoria etica normativa. Come la ragion pura trova nelle proprie forme a
priori le regole della sua attività conoscitiva, così la ragion pratica (la ragione in quanto guida
all’azione) trova nei propri imperativi formali (si tratta di una ragion pura pratica) i criteri ispiratori
di ogni comportamento etico. «La volontà — afferma Kant — non è dunque esclusivamente
sottoposta alla legge, ma vi è sottoposta in modo che essa debba essere considerata come istituente
essa stessa la legge.» La ragione, oltre a un uso teoretico, ha infatti un uso pratico: essa fornisce
all’uomo non solo conoscenze, ma anche indicazioni generali di comportamento; è la ragione,
infatti, che determina la volontà ad agire moralmente: «la sua vera destinazione può essere solo
quella di produrre una volontà buona, non come mezzo per qualche altro scopo, ma come buona in
se stessa».
[edificio: i principi reggenti la costruzione e l’ordinamento]
3.2. Fondazione di una morale autonoma: la ragion pura pratica, la volontà sommamente
buona
In quanto mira a restituire alla morale una piena autonomia e all’uomo la caratteristica di soggetto
libero e responsabile, la riflessione filosofica di Kant sul problema etico ha come obiettivo
l’indicazione dei principi e dei concetti specifici dell’etica: il fondamento di una morale autonoma è
costituito dalla «ragion pratica» o dalla «volontà sommamente buona». Con queste due espressioni
Kant indica un unico e identico principio, considerato nel primo caso a partire dalla funzione
regolativa generale della ragione, nel secondo caso a partire dalla libertà come condizione
imprescindibile di una scelta morale. Si tratta dell’analisi del modo di essere a priori,
trascendentale, e quindi formale che caratterizza la ragione nella sua destinazione pratica o la
volontà come fonte e principio dell’agire etico dell’uomo. Una simile impostazione, che tende a
fornire con completezza le condizioni a priori dell’agire umano, ha il chiaro obiettivo di dimostrare
l’assoluta autonomia della ragione umana in campo pratico.
3.2.1. La ragione umana, considerata come principio e regola dell’azione, fonda una morale
universalmente valida, basata su leggi e tuttavia libera, poiché ha la propria origine in ogni
individuo in quanto soggetto razionale; per lo stesso motivo Kant indica, a fondamento di una
morale autonoma, la volontà definita come «sommamente buona»; essa è tale perché, considerata
4
come principio attivo di un essere razionale, decide e genera comportamenti ispirandosi ai criteri
universali propri della ragione (assunta come unico principio del volere) e non a fini esterni al
soggetto razionale.
3.2.2. La volontà è buona, non in virtù dei suoi risultati o delle sue attitudini, ma in virtù della sua
natura interiore (e rimane tale anche quando non è in grado di fatto di attuare le sue intenzioni
buone). Il valore di un’azione morale risiede pertanto nel motivo determinante della volontà.
3.2.3. Anche dal punto di vista oggettivo, considerata cioè nella sua finale e definitiva realizzazione
(il “sommo bene”), la volontà morale implica per sé l’assoluta bontà, identificandosi con la ragione
stessa nella sua finalità pratica; volontà e ragione costituiscono il solo e unico principio e
fondamento di una morale autonoma. Sono così poste le basi per un’etica filosofica; fondata sulla
sola ragione, essa indica le condizioni, i concetti e i principi a priori che rendono possibile la
scienza, l’azione e il giudizio morale.
[passaggi in sintesi e schema (espositivo riassuntivo):
- la tesi: «La ragione da se stessa determina la condotta»
- la fonte: la ragione umana, considerata come principio e regola dell’azione, fonda una morale
universalmente valida;
- la natura della ragione nella sua destinazione pratica: il dovere; non è una caratteristica particolare,
parziale o occasionale della ragione e della volontà e nemmeno un principio o imperativo esterno ad
esse ma esprime la natura e le capacità della ragione;
- la ragion pratica è volontà: è la ragione, infatti, che determina la volontà ad agire moralmente: «la
sua vera destinazione può essere solo quella di produrre una volontà buona, non come mezzo per
qualche altro scopo, ma come buona in se stessa»; la ragione come principio regolativo, considerata
nella sua destinazione pratica, è volontà, e volontà “sommamente buona” in quanto fonte delle
condizioni di moralità, principio della legge e del dovere e quindi, in quanto principio, libera.
- un’impostazione trascendentale: si presentano le condizioni della moralità, poste dal soggetto, del
tutto a priori o trascendentali, poste cioè dalla ragione nella sua naturale ed essenziale destinazione
pratica (non un’indagine empirica ma trascendentale);
- la sfida in atto: gestire la relazione tra i concetti estremi (solitamente antitetici) di libertà e legge,
oggettività e soggettività (principio oggettivo e principio soggettivo), universalità e individualità; è
la strada di una moralità basata su leggi e sul dovere e tuttavia libera, poiché ha la propria origine in
ogni individuo in quanto soggetto razionale.
- la direzione concettuale e di impostazione: definire la libertà non contro la legge ma in termini di
autonomia e cogliere le leggi come espressione e condizione di libertà.]
3.3. Condizioni di autonomia della morale: la libertà espressa nei principi a priori dell’agire
morale (imperativi categorici)
L’autonomia della ragione nel determinare l’azione secondo propri principi oggettivi e universali si
fonda sulla libertà; quest’ultima è infatti una condizione a priori della ragione pratica e della
volontà etica, il presupposto indispensabile dell’azione morale. Intesa come capacità di determinarsi
secondo la sola ragione, indipendentemente da desideri, inclinazioni, sensazioni e passioni, la
libertà della ragione e della volontà permette all’individuo di assumere comportamenti scelti per se
stessi e non condizionati da sollecitazioni esterne; la volontà è libera in quanto obbedisce al proprio
imperativo etico (ricorda Spinoza: libertà – necessità della propria natura) che prescrive a ciascuno
di giudicare la sua azione come morale solo se la massima che la ispira può valere come legge
universale della ragione.
3.3.1. Imperativi categorici. Kant presenta questo principio con l’espressione «imperativo
categorico» non perché esso si imponga come un’autorità esterna o in forma coercitiva, ma in
quanto si presenta come condizione ideale che non ha altri presupposti e fini all’infuori di quelli
rappresentati dalla realizzazione della natura libera e razionale dell’uomo.
Gli imperativi categorici forniscono criteri generali di comportamento, o meglio criteri di moralità
5
delle azioni e delle massime che le ispirano; non determinano azioni specifiche, non impongono una
precisa condotta; sono principi a priori della ragione nella sua destinazione pratica.
3.3.1.1. Si tratta di imperativi definiti categorici in quanto esprimono un’azione oggettivamente
necessaria per se stessa, senza altro fine; sono direzioni o comandi della ragione che si impongono
di per sé alla volontà, suggerendole criteri di comportamento e non precetti concreti o azioni
definite.
3.3.1.2. Poiché impongono alla volontà di assumere come massima di comportamento quei criteri
che possono valere come norme universali, estensibili a tutti gli uomini, sono formali: prescindono
dalle concrete situazioni contingenti, si limitano a suggerire i principi etici generali cui l’uomo
dovrà uniformare la sua condotta se vorrà agire moralmente.
3.3.2. Le tre formule dell’imperativo categorico. Nelle diverse situazioni del vivere quotidiano,
l’uomo dovrà agire (ma si tratta di una forma non cogente di dovere) ispirandosi alle indicazioni
dell’imperativo categorico.
3.3.2.1. Nella sua prima formula l’imperativo categorico propone di agire seguendo principi
universali, massime universalizzabili: «agisci come se la massima della tua azione dovesse essere
elevata dalla tua volontà a una legge universale di natura»;
3.3.2.2. Nella sua seconda formula l’imperativo categorico propone di agire trattando se stessi e gli
altri uomini come fine e mai come mezzo dell’azione che si intende compiere; la seconda formula
dell’imperativo categorico enuncia: «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia
in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»;
3.3.2.3. Nella sua terza formula l’imperativo categorico propone di agire in piena autonomia, come
se ciascuno fosse legislatore di sé; la terza formula afferma: «agisci in modo che la tua volontà
possa istituire una legislazione universale».
3.3.3. I caratteri dell’imperativo categorico mettono in luce la natura dell’etica autonoma.
In particolare e fondamentalmente:
3.3.3.1. la natura formale dell’etica. Formulati in modo imperativo, i principi della morale kantiana
sembrano appartenere a un’etica costrittiva, incapace di rispettare la condizione prima di ogni agire
morale: la libertà. In realtà essi sono soltanto la traduzione in forma operativa della ragione pratica.
Con essi la ragione pone le condizioni di eticità e non vincola ad alcun contenuto preciso, non
presentano all’uomo leggi definite e prescrittive o norme di comportamento e tanto meno precise
azioni; se così fosse verrebbe a crearsi una morale eteronoma, in cui il soggetto non è principio, in
senso morale, del suo agire ma si limita ad eseguire leggi e precetti considerati validi e morali per se
stessi. Proprio in quanto formali, gli imperativi della ragione non contrastano con la libertà, ma
esprimono l’essenza della volontà dell’uomo per natura e definizione tesa a sviluppare con pienezza
l’intero campo delle azioni etiche; dunque è proprio la natura formale dell’imperativo categorico ad
esprimere la libertà dell’uomo e della ragione in termini di autonomia.
3.3.3.2. incrocio: imperativo, massima, azione. Kant indica con il termine «massima» i principi
soggettivi dell’agire. Il termine non designa né decisioni concrete, né regole pratiche particolari, né
norme oggettive secondo le quali agire, ma principi e regole generali che il singolo decide di
seguire nelle proprie azioni e che determinano concretamente le sue scelte (ad esempio, aiutare in
ogni circostanza chi è nel bisogno, non seguire mai la regola dominante del momento ecc.).
3.3.3.3. cerca la massima. L’elemento da sottoporre all’esame di moralità esercitato dall’imperativo
categorico è la massima (solo indirettamente l’azione). Anche se la massima è il movente prossimo
di ogni azione non sempre risulta evidente allo stesso soggetto che agisce quale sia la massima
effettiva che determina la sua azione, solo la riflessione sul proprio agire consente all’uomo di
individuare le massime e i principi soggettivi del comportamento; spesso infatti questi non vengono
professati, restano sottintesi e abitudinari e solo con difficoltà l’uomo riesce a cogliere e
formalizzare in modo esplicito e pieno i principi direttivi delle proprie azioni; (il mio gesto di
elemosina a quale massima si ispira? voglio aiutare chi è nel bisogno, spero che gli altri facciano
altrettanto con me, avverto una gratificazione emotiva, posso parlare della mia generosità, segnalo
una distanza sociale a mio vantaggio ecc.).
6
3.3.3.4. la massima è considerata da Kant come fonte immediata dell’eticità soggettiva delle azioni
umane, in quanto è la massima che colloca l’azione nella sfera e sotto il giudizio di moralità, degli
imperativi categorici e riferendola al soggetto intenzionalmente. Sono gli imperativi categorici a
decidere della loro moralità oggettiva in quanto forniscono criteri universali per valutare la moralità
delle massime con le quali ogni persona tende a regolare le proprie condotte individuali (ad esempio
la massima della solidarietà, dell’amicizia, dell’indifferenza, della competizione ecc,). Ma è la
massima (principio soggettivo) a tradurre in agire etico soggettivo, personale, individuale (non
lasciandolo nella forma generale universale) l’imperativo categorico (principio oggettivo); ed è lei
anche, e di conseguenza, a consentire la relazione tra azione e imperativo categorico e a rendere
possibile così un giudizio di moralità dell’azione stessa, attraverso la moralità della massima:
«un’azione compiuta per dovere riceve il suo valore morale non dallo scopo che si deve
raggiungere per suo mezzo, ma dalla massima in base alla quale è stata decisa: quindi tale valore
non dipende dalla realtà dell’oggetto dell’azione, ma esclusivamente dal principio della volontà in
base al quale l’azione è stata compiuta».
3.3.3.5. la verifica del ruolo dell’imperativo categorico. L’imperativo categorico afferma il criterio:
l’azione è morale se la massima che la ispira è universalmente estendibile. La strada di verifica (di
tipo sbrigativamente utilitaristico) è la contraddizione: è morale quella massima la cui estensione
universale non crea una contraddizione di cui lo stesso soggetto che agisce sarebbe vittima (se la
mia azione è ispirata dalla massima “odia sempre il tuo prossimo”, qualora la massima venisse
universalizzata io stesso ne verrei colpito diventando vittima e mezzo dell’odio altrui).
3.3.3.6. nella massima la volontà è principio. I principi formali della ragion pratica, che
costituiscono le condizioni supreme e assolute dell’eticità (gli imperativi categorici), si rivolgono
alla volontà operante nelle massime perché la massima è il principio che rende attribuibile al
singolo (e quindi moralmente a lui imputabile) l’azione; solo così la volontà è principio dell’agire
morale.
3.3.4. la distinzione tra mezzi e fini e il concetto eticamente indispensabile e fondante di una realtà
fine a se stessa: «Ogni essere razionale esiste come fine in se stesso»
La seconda formula dell’imperativo categorico si fonda sull’esistenza di una realtà fine a se stessa,
che non potrà mai, moralmente, essere considerata come un mezzo. «L’imperativo pratico sarà
pertanto il seguente: agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di
ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.» (Kant, Fondazione) Con
queste parole Kant introduce e spiega questo imperativo: «Ma se si suppone che ci sia qualcosa la
cui esistenza in se stessa abbia un valore assoluto, qualcosa che, in quanto fine in se stesso, possa
essere il principio di leggi determinate, in esso e soltanto in esso può consistere il principio di un
imperativo categorico possibile, cioè di una legge pratica. Ora, io dico: l’uomo e, in generale, ogni
essere ragionevole, esiste come fine in se stesso, non semplicemente come mezzo per essere usato
da questa o quella volontà; ma in tutte le sue azioni, sia quelle che lo concernono in proprio sia
quelle che concernono gli altri esseri ragionevoli, deve sempre essere considerato nello stesso
tempo come fine.» (Kant, Fondazione) La seconda formula dell’imperativo categorico ribadisce
come al centro dell’etica si collochi l’umanità (non il singolo uomo), proclamata come fine a sé.
3.3.4.1. Servendosi del concetto di realtà fine a sé espresso da Kant nella terza formula
dell’imperativo categorico diverse e nuove sensibilità etiche, antiche e contemporanee (ad esempio
Hans Jonas), estendono in concetto di “realtà fine a sé” ad ambiti diversi e più vasti di quelli della
sola umanità, allo scopo di scongiurare una (totale) riduzione a mezzo, senza diritti, di ciò che non è
umano come gli animali, le piante, le risorse, l’ambiente ecc.
3.3.4.2. La formula espressa da Kant sembra attenuare l’idea di una appartenenza e definizione
assoluta dell’uomo come fine a sé, sia perché l’attenzione dell’imperativo verte non sull’uomo
inteso nella sua singolarità specifica ma sull’umanità, sia perché introduce espressioni che
attenuano il legame uomo-fine (anche, semplicemente: «sempre anche come fine e mai
semplicemente come mezzo»).
7
3.3.5. La morale autonoma, in forza dei criteri espressi dai propri imperativi categorici è in grado di
recuperare, con effetti di rifondazione, le morali eteronome; ne verifica la moralità
(l’universalizzazione possibile) e ne rilancia la forza dentro i cammini della libertà.
[effetti: il fondamento i postulati generali per una visione oggettiva della morale all’insegna della
completezza; come nella “dialettica trascendentale” in campo teoretico (Critica della Ragion pura)]
3.4. fondamento e postulati dell’imperativo categorico
3.4.1. il fondamento nella libertà (o come la legge e la libertà, componenti imprescindibili della
morale, apparentemente antitetiche ma altrettanto coerentemente poste in stretta e essenziale
relazione - Spinoza, Rousseau…- si compongono per definizione nella teoria etica di Kant) . In un
mondo fisico nel quale l’uomo riconosce relazioni necessarie, leggi universali che determinano ciò
che accade (tali le conclusioni della Critica della ragion pura sulla natura del mondo fenomenico),
si prospetta per l’uomo uno spazio di scelta, una sfera di autonomia che può avere il suo
fondamento solo nella libertà di agire; si tratta della legge morale, cioè non eteronoma, che si fonda
sulla libertà dell’uomo come principio, in forza della caratteristica della ragione umana che è
legislatrice e luogo di necessità a priori in campo teoretico (nella ragione scientifica), legislatrice e
luogo di libertà in campo pratico (nella ragione etica); la libertà definisce il campo della morale, la
ragione pratica la realizza attraverso le forme a priori, norme, definite nell’imperativo categorico.
Esiste dunque un ambito di leggi e necessità solitamente indicato con il termine natura (che
comprende anche l’uomo come essere naturale); esiste un ambito di leggi e libertà e si tratta
dell’umanità, dell’uomo in quanto essere razionale capace perciò di volontà secondo ragione in
campo teoretico e in campo pratico.
3.4.1.1. La libertà si presenta come un postulato della ragion pratica: benché non possa essere
dimostrata (dedotta da principi), non ha debolezza concettuale, ma ha la forza che è propria della
natura dei principi / postulati. La libertà dell’uomo deve essere accolta come una realtà oggettiva
sulla base di ragionamenti propri dei principi; in proposito due ragionamenti (solo analiticamente
distinguibili): 1. la legge morale postula la libertà al fine di rendere possibile un agire morale che,
come tale, può essere fondato solo sulla scelta; 2. la legge e i principi morali esprimono la ragione
umana pratica nelle sue proprie condizioni di azione; condizioni trascendentali, a priori e universali
e quindi libere.
3.4.1.2. L’autonomia della ragione nel determinare l’azione secondo propri principi oggettivi e
universali si fonda cioè sulla libertà; quest’ultima è una condizione a priori della ragione pratica e
della volontà etica, il presupposto indispensabile dell’azione morale. Intesa come capacità di
determinarsi secondo la sola ragione, indipendentemente da desideri, inclinazioni, sensazioni e
passioni, la libertà della ragione e della volontà permette all’individuo di assumere comportamenti
scelti per se stessi e non condizionati da sollecitazioni esterne; la volontà è libera in quanto
obbedisce al proprio imperativo etico; esso prescrive a ciascuno di giudicare la sua azione come
morale solo se la massima che la ispira può valere come legge universale della ragione.
3.4.2. la visione oggettiva dell’imperativo categorico (l’imperativo categorico considerato come
oggetto, come realtà oggettivata): il sommo bene.
3.4.2.1. come premessa di metodo generale (più volte comparsa). L’efficacia di un sistema teorico
si misura anche a partire dalla idea della sua completa realizzazione; la versione oggettiva di una
teoria completamente attuata e, con ciò, l’idea di perfezione e quindi di uno scopo, fanno sorgere la
teoria come realtà e come oggetto. Come Kant ha ampiamente dimostrato nella sezione della
Critica della Ragion pura, la Dialettica trascendentale, presentando le tre idee a priori della
ragione, anche nel campo pratico, come in campo teoretico, non si tratta di dimostrare l’esistenza di
tale realtà completa (situazione che porterebbe a distruggere ogni movimento nel settore) ma di
delinearne il modello con completezza e individuare, come processo ulteriore di ricerca, le
condizioni e i postulati (perciò non dimostrati) su cui la teoria si deve fondare per raggiungere
8
proprio quella completezza che il sistema teorico richiede per potersi considerare “scientificamente”
legittimato. «Se si vuol definire che cosa sia uno scopo secondo le sue determinazioni
trascendentali (senza presupporre niente di empirico, come sarebbe il sentimento di piacere), esso
è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento
reale della sua possibilità); e la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto è la finalità (forma
finalis). Così, quando non si pensa semplicemente la conoscenza di un oggetto, ma l’oggetto stesso
(la sua forma o la sua esistenza) come un effetto, possibile solo mediante un concetto dell’effetto
medesimo, allora si pensa uno scopo.» (Kant, Critica del Giudizio, p.63). In questo contesto
l’oggetto è pensato come scopo; non come una realtà oggettiva contenuto di descrizione e scopo
globale dell’azione morale. Il concetto di sommo bene, si configura come un concetto di sapore
religioso-escatologico, trasferito in campo etico per indicare lo scopo dell’agire morale dell’uomo.
Dal punto di vista della teoria, l’articolazione dei concetti nelle forme di una realtà pensata in
termini di oggetto diventa la verifica della piena e coerente fattibilità e funzionalità di un concetto;
mai in termini di un percorso concluso ma di una tendenza teoretica al sistema completo dei
pensieri in un campo dato; è uno strumento euristico.
3.4.2.2. applicazione etica del metodo generale. Tale è il concetto di “sommo bene” in Kant: non la
descrizione di una situazione etica oggettiva, ma la versione oggettiva della teoria etica, l’oggetto di
un concetto indicante il fine immanente e la definizione della legislazione morale in piena
attuazione; la situazione che si delinea nell’ipotesi di una piena realizzazione degli imperativi
categorici e non è un fine che si collochi all’esterno dell’azione etica e dei suoi principi. Il sommo
bene (come ogni versione oggettiva delle teorie) ha una funzione euristica: l’analisi del sommo bene
porta infatti alla scoperta e indicazione di tutte le condizioni di cui l’etica ha bisogno per la sua
piena pensabilità e ideale realizzazione (sempre concettuale); condizioni che vengono indicate come
postulati del sommo bene, cioè postulati dell’oggetto dell’imperativo categorico (o postulati della
teoria etica in generale definita con completezza sistematica).
3.4.3. postulati dell’oggetto (della versione oggettiva) dell’imperativo categorico (del sommo bene):
l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima (il tema del limite e del suo trascendimento nell’etica)
Con i due altri postulati — dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio — si chiude la
riflessione etica di Kant: anch’essi non dimostrabili quanto alla loro fisica esistenza, costituiscono il
necessario presupposto perché l’uomo possa sperare di raggiungere in una dimensione etica che
raccoglie e supera le esperienze storiche individuali, quel sommo bene, unione di felicità e virtù,
precluso alle singole persone. In tale prospettiva Dio si presenta come il garante assoluto di tale
unione, l’immortalità dell’anima come la condizione oggettiva di tale possibilità.
3.4.3.1. Dio è un’esigenza morale ma non è fonte dei principi che determinano la moralità dei
precetti e delle azioni morali. «La certezza della legge morale è per noi legata immediatamente con
la certezza di un nesso di diversa natura fra le nostre azioni, un nesso come quello che si offre nella
successione empirico – temporale delle cause e degli effetti. Ammettere l’“essere” di Dio vuol dire
nient’altro che affermare la certezza incondizionata di questo nesso intelligibile. [non si tratta
dunque di una dimostrazione di esistenza] Dio non è un essere dato per sé il quale debba tradurre in
realtà l’ordine morale, ma è semplicemente un altro nome per indicare l’interiore e incondizionata
certezza di quest’ordine medesimo.» (E. Cassirer)
«Un’elaborazione maggiore di idee morali, che fu resa necessaria dalla legge morale
estremamente pura della nostra religione … senza che né più ampie conoscenze della natura, né
giuste e sicure vedute trascendentali vi conferissero, esse produssero un concetto dell’Essere
divino, che noi oggi teniamo per vero, non perché la ragione speculativa ci convinca della sua
verità, ma perché esso s’accorda perfettamente coi principi morali della ragione. … Nella misura
in cui la ragion pratica ha diritto di guidarci, noi non riterremo le azioni obbligatorie perché sono
comandi di Dio, ma le considereremo comandi di Dio perché ad essi noi ci sentiamo internamente
obbligati. … La teologia morale è, dunque, soltanto di uso immanente, cioè per adempiere la nostra
missione qui nel mondo…» (Critica della ragion pura, o.c. p.620-621)
9
3.4.3.1.1. Ritorna qui un motivo centrale, quello della distinzione tra morale autonoma e morale
eteronoma, ma anche quella della loro contemporanea esistenza, relazione e cogenza. Dati che si
trasformano cioè non nella reciproca opposizione o antitesi ma nel problema della relazione tra
morale autonoma e morale eteronoma.
Per un verso occorre prendere consapevolezza che ciò che viene abolito dentro di noi, a noi ritorna
dal di fuori. Non possedere, o ignorare e negare, criteri formali propri e universali di moralità
significa porsi in sudditanza, mettersi a disposizione di morali eteronome preformulate il cui fine
non è l’umanità nella sua piena e libera realizzazione (nel Sommo bene) ma il sistema morale
stesso, storicamente determinato e strumentale, con l’ordine che su di esso si vuole costruire.
Dunque la fine del principio della libertà e la fine della possibilità stessa di una morale umana.
Per un altro verso occorre prendere atto che nessuna morale eteronoma ha forza, valore ed efficacia
se non sul presupposto “trascendentale” di una morale autonoma. L’assenza di una morale
autonoma e di una sua specifica fondazione trascendentale, si traduce nella situazione per cui ogni
morale viene dall'esterno e si impone come eteronoma, ma così resta "in superficie" e diventa
costrittiva e inefficace, o per lo meno non partecipata. La morale, abolita dentro di noi, ritorna dal di
fuori ma come un fatto esterno e non sul fondamento trascendentale della libertà e della ragione
pratica. Ritorna alla mente l’abusata frase di Kant: il cielo stellato sopra di noi, la legge morale
dentro di noi; interpretando: nessuna morale esterna, cioè storicamente definita per vie proprie e
complesse, può aver peso ed efficacia senza porsi a confronto e basarsi, come su di un esame critico
preliminare, sulla legge morale a priori. Si tratta di principi trascendentali della ragion pratica, cioè
non si fa riferimento a morali soggettive, sedi dell’arbitrio individuale, ma sulle condizioni morali
universali, razionali-pratiche (della ragion pratica), di moralità.
In termini psicanalitici: «Il ritorno dall'esterno - "direttamente nel reale" dirà Lacan – di quello che è
stato "abolito" all'interno rende impossibile al soggetto di soggettivare l'elemento estraneo che
"ritorna" dal reale.» (Recalcati Massimo 2016, Jacques Lacan, Volume II. La clinica psicoanalitica:
struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, 154)
3.4.3.2. L’affermazione dell’immortalità dell’anima, presentata nel campo dell’indagine morale
(non nel campo della analisi dimostrativa e deduttiva delle forme a priori della ragione), non si
presenta come una affermazione metafisica (o fisica) di esistenza né dell’anima, né della sua
immortalità, ma è la versione etica della teoria e delle convinzioni diffuse circa l’immortalità. Il
sommo bene, non raggiungibile dai singoli individui (ma a cui nessun individuo intende
moralmente rinunciare nelle proprie aspirazioni e, soprattutto, in coerenza con la logica della
propria ragione espressa dagli imperativi categorici, secondo «il fine, che per ogni essere
ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario.») ha un
contesto di realizzazione se l’azione etica degli uomini non cessa con la loro esistenza, li supera,
sopravvive alla loro vicenda personale e diventa costitutiva di una umanità veramente etica in cui
l’azione degli uomini e dei popoli si ispira agli imperativi pratici della ragione. Da qui parte il sogno
kantiano di una civiltà mondiale ispirata alla pace.
«È necessario che tutta intera la nostra vita sia subordinata a massime morali; ma è insieme
impossibile che ciò accada, se la ragione non unisce con la legge morale, che è una semplice idea,
una causa efficiente, che per la condotta a norma di quella determini un esito esattamente
corrispondente ai nostri fini supremi, sia in questa, sia in un’altra vita. Senza dunque un Dio e
senza un mondo per noi ora invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti
di approvazione e di ammirazione, ma non motivi di proposito e di azione, poiché esse non
adempiono tutto il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura,
determinato a priori, e necessario.» (Kant, Critica della ragion pura, 617)
3.4.3.2.1. L’etica o la filosofia si presenta come una esposizione della ragione nella sua destinazione
pratica, cioè esposizione dell’universalità etica soggettiva, dei suoi principi, fini ed esiti. Per una
ipotesi di piena realizzazione della ragion pratica nella sua destinazione strutturale al sommo bene,
Kant postula il concetto della immortalità dell’anima. Anima intesa come idea psicologica della
10
ragione (l’assoluta e incondizionata unità del soggetto pensante che è già oggetto di presentazione e
analisi nella sezione della Critica della Ragion pura, la dialettica trascendentale), non come
sostanza o realtà cui possa competere l’esistenza come sostanza. Intesa come idea della ragione,
l’anima riprende nell’etica i tratti espressi dal concetto di immortalità formulata in senso etico; si
tratta degli esiti dell’agire etico di ciascuno che contribuisce alla costituzione di un patrimonio
storico trasmesso in narrazione e in risultati, destinati a incrementare, nell’ipotesi della loro bontà,
la tensione dell’umanità complessiva verso il bene. Immortalità dell’anima è usata qui per esprimere
una efficacia dell’agire che va oltre la morte individuale di ciascuno, in una immortalità appunto di
carattere etico.
3.5. la ragione etica e la politica: per (verso) una società illuminata
La realizzazione delle potenzialità della ragione, che Kant descrive nelle tre «critiche», esige
particolari condizioni politiche e un lungo processo storico che egli studia in numerosi scritti e
articoli di agili dimensioni: Idea di una storia dal punto di vista cosmopolitico (1784), Che cos’è
l’illuminismo? (1784), Congetture sull’origine della storia (1786), Per la pace perpetua (1795), Se
il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798). La tesi di fondo di queste opere è
che il fine ultimo della storia sia la completa esplicazione delle disposizioni razionali degli uomini;
questa crescita della ragione e della cultura è il frutto di un «disegno della natura», una sorta di
«provvidenza», di forza storica che agisce dolcemente sugli uomini spingendoli a promuovere
«quell’avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, anche se lo conoscessero, non farebbero un
gran caso».
3.5.1. In questa visione negativa Kant riprende la tesi cristiana dell’esistenza nell’uomo di un «male
radicale», di una predisposizione verso il male che si riproduce nell’interiorità dell’uomo; essa
viene contrastata non da una religione che si fonda sul culto della rivelazione, ma da una religione
che trova espressione nella ragione e fondamento nella morale (La religione nei limiti della ragione,
1793). Così intesa la religione dà vita a una repubblica morale, una «chiesa invisibile» e non
istituzionale, fondata sulla virtù e composta da tutti gli uomini giusti.
3.5.2. Perché si compia l’età della ragione, Kant ritiene necessario che si realizzi un nuovo assetto
politico internazionale: l’antagonismo («insocievole socievolezza») che è stato nella storia degli
uomini uno stimolo a progredire, a superarsi, deve essere controllato, regolato da costituzioni che
perseguono, mediante il diritto, l’ordine, la pace e la giustizia. Kant prospetta, in proposito, una
federazione di stati con governi repubblicani i cui reggitori esercitino il potere in conformità con la
legge espressa dalla volontà generale; un parlamento sovranazionale si assumerà il compito di
dirimere i conflitti, mediare gli antagonismi, orientando il suo impegno e le sue disposizioni verso
la pace.
Nella cornice di questa comunità internazionale di stati che propugnano come più alto valore la
pace, l’umanità potrà dispiegare la propria razionalità, realizzando simultaneamente le proprie
potenzialità e quelle della storia, i fini della cultura e quelli della politica. Questo è il regno dei fini
in cui culmina l’agire etico degli uomini, oltre la loro vicenda personale.
3.5.3. Kant non concepisce la società come una sorta di accordo tra privati che restano nel loro
isolamento o nella loro contrapposizione e vengono utilitaristicamente a patti; la metafora che egli
usa per indicare la tendenza estrema di una simile società è quella nota di una “società di diavoli”
per la quale comunque servono, talvolta, delle regole, ma non certo derivanti dai principi della loro
ragione morale. Si tratta qui di quella società in cui le norme sono vissute come vere e proprie e
insopportabili costrizioni esterne; società esprimibile con il felice ossimoro usato da Kant: società
della “insocievole socievolezza”. Problema che è esplicitamente formulato da Kant: «come dare a
una moltitudine di esseri razionali, che ai fini della loro conservazione esigono tutti delle leggi
generali alle quali però ognuno nel suo intimo tende a sottrarsi, un ordine ed una costituzione tali
che, malgrado i contrasti derivanti dalle loro private intenzioni, queste si neutralizzino tuttavia l’una
con l'altra, di maniera che essi, nella loro condotta pubblica, vengano infine a comportarsi come se
11
non avessero affatto tali cattive intenzioni.» (Kant Immanuel, 1795 Progetto per una pace perpetua,
in Scritti politici, Torino 1965, p.312)
3.5.4. Dunque, la libertà va intesa non tanto come “diritto di natura” ma la condizione naturale
dell’uomo; senza libertà non c’è umanità; quindi siamo qui in situazione morale. La politica
trasforma quella libertà in diritto, allo scopo di garantirne la fruizione; questa situazione comporta
che si regolamenti la libertà naturale nella forma di un diritto positivo a garanzia della libertà stessa,
quindi della umanità e della società civile. Il diritto positivo è riconoscimento della dignità umana.
«L’essere umano e dunque una realtà pre-giuridica, di cui il legislatore riconosce la dignità, che
comporta il conferimento di diritti per la sua piena realizzazione. La dignità è pertanto un’idea
regolativa (kantiana) che postula l’attribuzione di diritti umani. I diritti umani non sono dunque
«diritti naturali»: essi sono invece un postulato, ossia un imperativo, fondato sul riconoscimento
della dignità della persona, rivolto al legislatore perché dia ad essi una forma giuridica positiva.»
(Gozzi Gustavo 2010 Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino,
Bologna, 332) Ritorna la centralità del principio di moralità: «la prospettiva kantiana ha posto
l’essere umano sempre e solo come fine e mai come oggetto.» (Gozzi 2010, 333)
4. temi in dibattito e questioni aperte
4.1. il metodo dialettico
Kant: dialettica e idee. Tendenza della ragione è trovare per la conoscenza condizionata dai dati
dell’esperienza quell’incondizionato con cui la catena dei concetti formulati dall’intelletto trova una
unità compiuta e sistematica. In tale compito di sistematicità la ragione guarda alle idee come ai
propri punti focali: si tratta di principi propri della ragione, e quindi a priori, che indicano la
completezza incondizionata nei tre campi di possibile sistematicità: cosmo, io, Dio. In quanto
principi propri della ragione svolgono un compito regolativo che consiste nel prescrivere e guidare
l’intelletto verso la composizione dei propri concetti in una unità sistematica e assoluta. La
rilevanza del compito proposto dalle idee sembra trovare ulteriore forza nei tentativi della ragione di
dimostrare l’esistenza metafisica di questi principi, di presentare cioè le idee come realtà
trascendenti e non solo principi trascendentali, indicatori di realtà e non indicatori di progetto. In
questo sforzo di autosuperamento, di dimostrazione dell’esistenza e definizione di quella totalità
che è nella ragione come principio ordinativo, la mente umana si avvolge in contraddizioni,
paralogismi, antinomie, sofismi…in una selva di errori dai quali viene salvata solo attraverso una
implacabile attenzione critica che la ragione stessa, come antidoto interno, è in grado di attivare,
restituendo così alle idee il loro specifico ruolo di principi logici di sistematicità. «I concetti della
ragione…sono semplici idee, e non hanno certamente nessun oggetto in un’esperienza qual sia, ma
non perciò essi designano oggetti immaginati e insieme ammessi come possibili. Essi sono pensati
soltanto problematicamente per fondare in relazione ad essi (quali funzioni euristiche) i principi
regolativi dell’uso sistematico dell’intelletto nel campo dell’esperienza.» (Critica della ragion pura,
p. 590)
4.2. determinatezza, finitudine e il tema della morte nella dialettica logica generale e nella
dialettica dell’agire umano (la dialettica del finito, della finitudine e del suo interno
trascendersi)
Kant: il tema del limite come opportunità e definizione. La filosofia critica di Kant affida al limite
la chiarificazione delle possibilità della ragione, della volontà e del sentimento, la definizione delle
rispettive forme a priori, la correttezza nell’esercizio delle tre facoltà dell’uomo, la possibilità di
controllarne riflessivamente il comportamento e risolvere errori ed aporie. Il limite dunque diventa
definizione e fondamento di un uso della ragione che permette all’uomo di muoversi verso un’età
illuminata, sorretta dal coraggio del far uso delle proprie facoltà.
Come bilancio tematico finale.
12
Il tema della morte incide fortemente sull’etica in quanto interferisce con i progetti e gli scopi del
vivere umano; ma ad incidere ed essere determinante non è la morte in sé ma il tipo di rapporto che
il singolo conserva con la certezza del morire. La rimozione della certezza della morte di fronte al
desiderio dell’immortalità o alla scelta della sola dimensione presente, oppure, al contrario, il
mettere in conto la morte come tratto che delinea il tempo dato a ciascuno si traducono in una
diversa assunzione di responsabilità etica nei confronti del presente; le due prospettive immettono
nei progetti e nell’agire etico una dimensione temporale di lunghezze ben diverse quando nello
scegliere e nell’agire si ragiona anche intorno agli effetti possibili e prevedibili, e di lunga durata,
delle nostre azioni.
La dialettica del superare e conservare attribuisce alla “finità” e al suo necessario perire (il togliersi
della finità, il suo negarsi) la caratteristica di quella immortalità etica che Kant poneva a postulato
del concetto di sommo bene. Si tratta di riflessioni che pongono all’etica, come finalità interna, il
concetto del convergere delle azioni, necessariamente finite, verso quella realizzazione etica infinita
e sistematica nella quale la loro stessa finità trova attuazione e scopo e trova quindi il proprio
termine e il proprio perire (la finità viene eticamente tolta, come negazione della negazione), per
procedere nella direzione di «un mondo per noi ora invisibile ma sperato»: «… senza un mondo per
noi ora invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti di approvazione e di
ammirazione, ma non motivi di proposito e di azione, poiché esse non adempiono tutto il fine, che
per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori e
necessario». (Kant, Critica della ragion pura, 617). Dunque è nella dimensione etica della volontà,
della ragion pratica che acquista rilevanza il tema del superamento del limite.
A conclusione, le tappe del percorso
1. il progetto (un bilancio storiografico e la direzione da prendere)
2. l’edificio (i principi reggenti la costruzione e l’ordinamento)
3. gli effetti (il fondamento i postulati generali per una visione oggettiva della morale all’insegna
della completezza)
Appendice
L’urgenza di una ripresa e riscrittura.
[un classico, Kant, ripreso; è “classico” in quanto capace di suscitare l’attenzione della mente,
fornire strumenti di lettura, indicare direzioni interpretative]
La rilettura proviene dalle riflessioni di Hans Jonas svolte nell’opera: Jonas Hans 1979 Il principio
responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, ed. Einaudi, Torino 1993
1. La nuova situazione: il limite delle forme umane è modificato, potenziato dallo strumento: la
tecnica e il suo destino di dominio; la sua naturale tendenza all’assoluto.
Il problema attuale legato alla potenza della tecnica (il nuovo contesto di deinòs).
Seguendo la logica della sua affermazione, la tecnica non può fare solo ciò che non riesce a fare;
non conosce cioè limiti al proprio intervento se non quelli che derivano dal campo delle sue
possibilità e vede come ostacoli inammissibili per sé, e conseguentemente per il progresso e per la
libertà, ogni limite esterno. In nome di tali valori, nessun settore della realtà può essere precluso a
priori all’intervento e all’azione della tecnica; sciolta (solutus ab, assoluto) da ogni limite e vincolo
si afferma come un Assoluto.
1.1. «Tra le categorie che siamo soliti impiegare per orientarci nel mondo, l’unica che ci pone
all’altezza dello scenario dischiuso dalla tecnica è la categoria di assoluto. “Assoluto” significa
sciolto da ogni legame (solutus ab), quindi da ogni orizzonte di fini, da ogni produzione di senso, da
ogni limite e condizionamento. Questa prerogativa, che l’uomo ha attribuito prima alla natura e poi
a Dio, ora si trova a riferirla non a se stesso, come lasciavano presagire la promessa prometeica e la
promessa biblica quando alludevano al progressivo dominio dell’uomo sulla natura, ma al mondo
delle sue macchine, rispetto alla cui potenza, per giunta iscritta nell’automatismo del loro
potenziamento, l’uomo, come scrive G. Anders, risulta decisamente inferiore e inconsapevole della
13
sua inferiorità.» (Galimberti Umberto 1999 Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano p. 40-41)
1.2. «Soltanto con il dominio del pensiero e con il potere della civiltà tecnica che ne conseguì, una
forma di vita, «l’uomo», è stata messa in grado di minacciare tutte le altre (e quindi anche se
stessa). «La natura» non poteva correre un rischio maggiore di quello di far nascere l’uomo e ogni
concezione aristotelica della teleologia autopropulsiva e globalizzante della natura nella sua totalità
(physis) è confutata da ciò che neppure Aristotele poteva presagire. Per lui era la ragione teoretica
nell’uomo a emergere sulla natura, sicuramente però senza esserle di danno, dato il suo carattere
contemplativo. L’intelletto pratico emancipato, che ha generato la «scienza», un’erede di
quell’intelletto teoretico, contrappone invece alla natura non soltanto il suo pensiero, ma anche il
suo agire, in un modo che non è più compatibile con il funzionamento inconsapevole del tutto.
Nell’uomo la natura ha distrutto se stessa e soltanto nella disposizione morale di quest’ultimo (che
noi, al pari di ogni altra cosa, le possiamo ancora attribuire) ha lasciato aperta un’incerta possibilità
di controbilanciare la sicurezza sconvolta dell’autoregolazione.» (Jonas Hans Il principio
responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, ed. Einaudi, Torino 1993, pp.175-177).
2. La riscrittura dell’etica. Due direzioni: 1. ampliare l’individuazione della realtà fine a sé; non
solo l’uomo ma l’intera natura; 2. un nuovo imperativo categorico (categorico e quindi espressione
dell’umano): il principio responsabilità.
Assunzione di responsabilità nei confronti del mondo (Hans Jonas). Dunque, per una nuova etica:
l’etica della responsabilità.
«La responsabilità oggi: il futuro minacciato e l’idea di progresso. Il futuro dell’umanità e il futuro
della natura. La solidarietà di interesse con il mondo organico.»
«Il futuro dell’umanità costituisce il primo dovere del comportamento umano collettivo nell’era
della civiltà tecnica divenuta, modo negativo, «onnipotente». In esso è evidentemente incluso il
futuro della natura in quanto condizione sine-qua-non; ma, anche indipendentemente da ciò, si tratta
di una responsabilità metafisica in sé e per sé, dal momento in cui l’uomo è diventato un pericolo
non soltanto per se stesso, una per l’intera biosfera. Persino se i due aspetti fossero separabili, ossia
anche se in un ambiente di vita devastato (e in gran parte ricostruito artificialmente) fosse possibile
per i nostri discendenti una vita nominalmente umana, la pienezza vitale della terra, prodottasi nel
corso di un lungo processo creativo della natura e adesso affidata a noi, avrebbe di per se stessa
diritto alla nostra tutela. Ma poiché i due aspetti non sono in effetti separabili, se non a prezzo di
una caricatura dell’immagine dell’uomo, - poiché nel punto decisivo e cioè davanti all’alternativa:
«conservazione oppure distruzione», l’interesse dell’uomo coincide nel senso più sublime con
quello del resto della vita in quanto sua dimora cosmica, - possiamo trattare entrambi i doveri come
se fossero uno solo, ricorrendo al concetto guida di dovere verso l’uomo, senza per questo cadere in
una visione riduttiva antropocentrica. L’esclusiva fissazione sull’uomo in quanto diverso dal resto
della natura può significare solo immiserimento, anzi disumanizzazione dell’uomo stesso, atrofia
del suo essere anche nel caso fortunato della conservazione biologica, il che dunque contraddice il
suo fine dichiarato, sanzionato proprio dalla dignità del suo essere, in un’ottica veramente umana
rimane alla natura la sua dignità propria, che si contrappone all’arbitrio del nostro potere. In quanto
da lei generati, siamo debitori, verso la totalità a noi prossima delle sue creature, di una dedizione di
cui quella verso il nostro essere costituisce soltanto la punta più elevata. Ma questa, correttamente
intesa, comprende in sé tutto il resto.» Jonas Hans Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà
tecnologica, ed. Einaudi, Torino 1993, pp.175.
14
Scarica