L`uomo nascosto nel cuore

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FP.it 12/2013
“L’uomo nascosto nel cuore” si vestirà di luce
ANTONIETTA AUGRUSO
Nella sua prima venuta fu avvolto in fasce e posto in una stalla,
nella seconda si vestirà di luce come di un manto
(San Cirillo di Gerusalemme)
L’attesa è compagna del movimento: attendere senza cedere alla pigrizia e all’immobilismo, né
lasciarsi prendere da frenetici preparativi esterni. Parlo di un movimento spesso non percepibile a
occhio nudo, una dinamica dell’interiorità, diversa dall’intimismo. Una preparazione attenta e delicata
che non sommerga l’atteso, nel groviglio dei preparativi rumorosi e a volte vuoti. La comprensione
degli eventi, del loro senso, dipende anche dal tempo che vi si dedica, cercando forme sane di sosta e
di progettazione. Un peso rilevante ce l’ha il silenzio: credo che sia uno degli ornamenti principali del
nostro uomo nascosto nel cuore. Più volte in questa rubrica abbiamo condiviso il desiderio di un
silenzio sano e profondo che è alla radice di ogni percorso inteso come ricerca della verità.
Vorrei che la preparazione a questo nuovo Natale fosse così, per avere il senso che merita. Non
è la frase quasi rituale e scontata: “Il Natale non è importante per i regali!”. E poi l’attenzione ai regali
assorbe parecchio della nostra attesa e gioia. Bisogna tentare di non cadere nella rassegnazione della
routine e ritrovare motivi per stupirsi d’altro, pur essendo consapevoli che i gesti, i riti e le
celebrazioni saranno quelli di sempre.
Come la rosa
Una pianta mi ha stupita! L’associo al percorso spirituale della vita di ognuno: è la rosa di
Gerico, detta pianta della risurrezione. Apparentemente senza vita, diventa un bozzolo secco in
condizioni avverse, ma resiste a lungo e si prepara alla vita. A contatto con l’acqua dischiude
completamente i propri rami acquisendo un vellutato color verde e assume un aspetto completamente
diverso.
Ci sono tante leggende legate a questa pianta. La più diffusa narra che la Vergine Maria, sulla
strada di Nazaret, si dissetò con l’acqua racchiusa nel cuore della rosa e, grata alla pianta, la benedisse
donandole vita eterna: è quasi il paradigma della vita dei credenti. Ci accartocciamo su noi stessi,
veniamo sballottati dalle tempeste improvvise del vento, correndo a velocità superiori alle forze che
possediamo, e in tutto questo la nostra bellezza viene nascosta, ma l’incontro può definitivamente
trasformarci. La visita della donna di Nazaret cambia il destino della rosa di Gerico: l’acqua le
restituisce la bellezza originaria! Incontrare Maria significa poter accedere all’acqua per sempre.
Paradossalmente questo dipende anche da noi, dal desiderio d’apertura verso la storia, dalla
coscienza di un kairòs da riconoscere, custodire, coltivare. È l’atteggiamento che aiuta a non mettere
tra parentesi la consapevolezza, più o meno serena, che siamo sospesi tra un “già” e un “non ancora”.
Come la rosa attendiamo l’acqua e pronunciamo le parole della donna di Samaria: “Signore, dammi di
quest’acqua” (Gv 4,15).
Attingere a pozzi nuovi
L’ascolto è una delle vie importanti per conoscersi, vale per ogni rapporto umano, ma vale
anche nella relazione che, nella fede, viviamo con il Signore (2Cor 5,6-8).
Solo dopo il dialogo e l’ascolto attivo la samaritana corre e manifesta agli altri la meraviglia
dell’incontro (cf Gv 4,29). Nel dialogo tra Gesù e la donna non c’è ombra di umiliazione o
moralismo, per questo non c’è menzogna! Gesù chiede a lei da bere e la conduce ad auto
comprendersi in una nuova prospettiva (cf Gv 4,13-15). Il tempo per attingere è tempo di dubbi, di
scontri, di verifiche dolorose, ma anche di ri-partenze. E ancor prima di attingere a volte ci vuole la
pazienza di scavare in luoghi impensati, per accorgersi che esistono altre possibilità.
FP.it 12/2013
Nessuna delle tappe che si vivono è priva di senso, ma è di vitale importanza interrogarsi e dare
un nome alle cose, come ha dovuto fare Isacco presso Gerar, dove si accaniva a custodire i vecchi
pozzi del padre Abramo. Soltanto dopo il confronto con la storia di conflitti e litigi e il coraggio di
migrare, si giunge all’acqua del nuovo pozzo Recobot (che significa “spazioso”), si costruisce un
altare e si pianta la tenda (cf Gen 26,22).
La sorprendente unità della Parola nelle Scritture permette al credente di individuare dimensioni
che sembrano caratteristiche strutturali dell’uomo. Secondo il racconto, Isacco deve mettersi in
cammino perché la sua relazione con il popolo che lo ospita è ormai a rischio. È una relazione ferita
apparentemente dall’invidia dei Filistei: “Abimelech disse ad Isacco: ‘Vattene via da noi, perché tu sei
molto più potente di noi’” (Gen 26,16).
Ma in realtà Isacco aveva fatto il furbo - come aveva già fatto Abramo - mentendo sul suo
rapporto con Rachele (Gen 26,7). Quando accetta di porsi in una forma diversa con l’altro, stabilendo
la distanza senza esasperare il conflitto, scorge vicino a sé anche il Signore, e la benedizione si ripete
(Gen 26,24). Allora Isacco potrà attingere altra acqua in spazi liberi (Gen 26,32s). Egli impara a non
cedere al delirio di onnipotenza, a sottrarsi e prendere il largo.
Capita ad ogni essere umano di capire i limiti delle situazioni, ma succede spesso il contrario,
che il senso d’orgoglio cocciuto e testardo renda ostinati e rigidi, e così l’acqua non si trova:
“L’onnipotenza è la non accettazione da parte dell’essere umano dei limiti della sua condizione.
L’onnipotenza consiste nell’abbandonare la condizione umana per accedere a ciò che non si è: e
diventare dei, l’essere umano, allora farà a meno di Dio o si considererà Dio”.1 Gli stessi discepoli
non sono immuni da un simile atteggiamento (cf Mt 18,1-5).
Tra Betlemme e il cielo
E Dio si fa bambino, riportandoci in tutt’altra prospettiva: la speranza riparte dai piccoli.
Bambino è anche sinonimo di vulnerabilità, Betlemme ancora oggi ce lo ricorda. Così come il suo
impoverimento ci mette sotto gli occhi i frutti della devastazione dei poteri forti. Eppure a molti è
quasi sconosciuta la storia di tante comunità schiacciate dal delirio di onnipotenza di altri: “Ogni
potere è violenza sugli uomini, verrà l’ora in cui non ci sarà il potere di Cesare, né qualunque altro
potere. L’uomo entrerà nel regno della verità e della giustizia dove non sarà necessario alcun potere”.2
La Chiesa nelle celebrazioni liturgiche suggerisce di non dimenticare che la tentazione
dell’onnipotenza è nel cuore di ogni singola persona. Anche per questo nella preparazione al Natale
un verbo frequente è: vegliate! La vigilanza permette di stare desti, di non lasciarsi andare e trascinare
dalle correnti. Ma l’aspetto più bello del vigilare è il condurci alla delicatezza dei rapporti, alla
trasfigurazione del cuore, mettendolo in guardia dalla tentazione di diventare cuore di pietra (Ez
36,26). Si tratta di uno stile di vita che è prima di tutto dono di grazia, ma è anche frutto della
consapevolezza che siamo pellegrini verso uno scenario nuovo (1Cor 5,1-10), e attendiamo, come
nelle doglie del parto, la rivelazione dei figli di Dio (cf LG 48). La Bibbia ci conduce ad una
interiorizzazione ricca di significato, vigilare è l’atteggiamento fondamentale del credente. È desto chi
attende e si adopera con fiducia per un mondo che cambierà, pur sapendo che passa la scena di questo
mondo, perché Egli trasfigurerà il nostro corpo mortale (Fil 3,20-21).
La veglia non è solo uno stato mentale, è un modo di vivere, coltivando l’attesa. Ciò aiuta a non
assolutizzare se stessi, e a cogliere con realismo i bagliori della novità nella stessa opacità degli
scenari della storia, come dice il profeta: “Sentinella, quanto resta della notte? La sentinella risponde:
‘Viene il mattino poi anche la notte, se volete domandare domandate, convertitevi, venite!’” (Is 21,1112). Bisogna coltivare il desiderio di tornare a Betlemme, per ricordare il cielo. È un paradosso che
Gesù stesso ha vissuto nella sua vita così umana e così perfettamente divina! Rimanere tra Betlemme
e il cielo, ed essere presenti: “Non limitiamoci a meditare solo la prima venuta, ma viviamo in
funzione della seconda”.3
Il senso dell’Avvento è anche la scoperta di questa umile cooperazione che il Signore ci ha
consegnato per la nascita del mondo nuovo. Umile: perché radicata nella vita dei piccoli della terra
(Mt 25,45), e costruita sulla vocazione fondamentale di tutti e di ciascuno: la vocazione all’amore
(1Cor 13). Dunque, radicata profondamente nell’humus, ma con lo sguardo rivolto oltre.
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Avvento e Natale 2013
Scendere nel cuore
Molti degli incidenti stradali notturni, di cui si parla sui giornali, e tanti conflitti familiari finiti
in tragedia, sono frutto di un atteggiamento malato nei confronti della vita. Che dire poi delle grandi
scelte strategiche che si concludono con massacri di popolazioni intere! Il cammino verso Betlemme e
la preparazione al Natale non possono presentarsi come semplice folklore, devono condurci ad una
riflessione profonda. È sano alimentare domande che aiutano a crescere e a stare in guardia dalle
fughe costruite a tavolino: l’ossessione della carriera, l’immagine di un corpo impeccabile e sempre
giovane, la notorietà pubblica, il denaro facile e abbondante, ecc. Tutti palliativi contro la
consapevolezza che non siamo Dio.
Eppure siamo a sua immagine: “Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore
saggio. Ritorna, Signore: fino a quando?” (Sal 90,12-13). Contare i nostri giorni è un esercizio
liberante, perché dispone ad una considerazione nuova della storia.
I maestri di spiritualità c’insegnano che la preghiera è un oceano di rigenerazione dove
l’incontro con la misericordia del Signore permette di vivere una sorta di trasfigurazione continua:
interrogarsi ma anche affidarsi per non cedere alla desolazione. Quando il pellegrino va dallo starets
per comprendere la pratica della preghiera perpetua il maestro gli dice: “Ti è stato concesso di capire
che né la saggezza di questo mondo né un mero desiderio di conoscenza conducono alla luce celeste
dell’orazione perpetua, ma che al contrario, essa si trova nella povertà di spirito e nell’esperienza
attiva di un cuore semplice”.4 Nel viaggio verso Betlemme la dimensione della ricerca, della fiducia,
della lode non può mancare.
La preghiera aiuta a non rimanere cardiolesi e ci sollecita al discernimento: “Pregai e mi fu
elargita la prudenza, implorai e venne a me lo spirito di sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai
un nulla la ricchezza al suo confronto” (Sap 7,7-8). Come faceva Salomone, anche per noi la sapienza
va invocata, ricercata, riconosciuta, perché essa: “Pur rimanendo in se stessa, tutto rinnova e
attraverso i secoli, passando nelle anime sante, prepara amici di Dio e profeti” (Sap 7,27).
La contemplazione della Natività di Gesù è memoria della Sapienza che ha assunto la natura
umana, e in questo meraviglioso scambio (Leone Magno) si rinnova l’invito a ravvivare la coscienza
della vita come viaggio. E nel silenzio della vigilanza si comprende l’urgenza di costruire la
grammatica del dialogo che fa germogliare pace e giustizia, segni visibili della terra che si apre al
cielo: “Non con la spada infatti conquistarono la terra, né fu il loro braccio a salvarli; ma la tua destra
e il tuo volto, perché tu li amavi” (Sal 44,4).
1
2
3
4
S. PACOT, Torna alla vita, Queriniana, Brescia 2003, 85.
M. A. BULGAKOV, Il maestro e Margherita, Newton Compton, Roma 2009, 28.
“Dalle Catechesi di S. Cirillo di Gerusalemme, vescovo”, citato in Liturgia delle Ore, I, 139.
Racconti di un pellegrino russo, Rusconi, Milano 1977, 30.
Antonietta Augruso
Docente di Religione - Via Eurialo, 91 - 00181 Roma
http://www.usminazionale.it/2009_12/augruso.htm
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Il mistero del Natale
S. Edith Stein (Teresa Benedetta della Croce ocd)
I giorni del Natale
Quando i giorni diventano via via più corti, quando, nel corso di un inverno normale cadono i
primi fiocchi di neve, timidi e sommessi si fanno strada i primi pensieri del Natale. Questa semplice
parola emana un fascino misterioso, cui ben difficilmente un cuore può sottrarsi.
Ma per il cristiano - e in particolare per il cristiano cattolico - Natale è anche qualcos’altro. La
stella lo guida alla mangiatoia col Bambino Gesù, che porta la pace in terra. L’arte cristiana ce lo pone
davanti agli occhi in innumerevoli e delicate immagini, mentre antiche melodie, da cui risuona tutto
l’incantesimo dell’infanzia, lo cantano.
Nel cuore di colui che vive con la Chiesa, i canti dell’Avvento risvegliano una santa e ardente
nostalgia, e a chi si disseta alla fonte inesauribile della sacra liturgia il grande profeta dell’incarnazione ripete, giorno dopo giorno, le sue grandiose esortazioni e promesse: “Stillate, cieli, dall’alto, e
le nubi piovano il Giusto! Il Signore è vicino! Adoriamolo! Vieni, Signore, e non tardare! Esulta,
Gerusalemme, sfavilla di gioia, perché viene a te il tuo Salvatore!”.
Dal 17 al 24 dicembre le grandi antifone gridano con un desiderio e ardore crescente il loro
“Vieni a salvarci”. Sì, quando la sera gli alberi di Natale luccicano e ci si scambiano i doni, una
nostalgia inappagata continua a tormentarci e a spingerci verso un’altra luce splendente, fintanto che
le campane della Messa di mezzanotte suonano e il miracolo della Notte Santa si rinnova su altari
inondati di luci e di fiori: “E il Verbo si fece carne”. Allora è il momento in cui la nostra speranza si
sente beatamente appagata.
Seguire il Figlio incarnato di Dio
Ognuno di noi ha già sperimentato una simile felicità del Natale. Ma il cielo e la terra non sono
ancora divenuti una cosa sola. La stella di Betlemme è una stella che continua a brillare anche oggi
in una notte oscura. Già all’indomani del Natale la Chiesa depone i paramenti bianchi della festa e
indossa il colore del sangue: Stefano, il protomartire, che seguì per primo il Signore nella morte, e i
bambini innocenti, i lattanti di Betlemme e della Giudea, che furono ferocemente massacrati dalle
rozze mani dei carnefici.
Che significa questo? Dov’è ora il giubilo delle schiere celesti, dov’è la beatitudine silente della
notte santa? Dov’è la pace in terra? “Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Ma non tutti sono di
buona volontà. Per questo il Figlio dell’eterno Padre dovette scendere dalla gloria del cielo, perché il
mistero dell’iniquità aveva avvolto la terra.
Le tenebre ricoprivano la terra, ed Egli venne come la luce che illumina le tenebre, ma le
tenebre non l’hanno accolto. A quanti lo accolsero Egli portò la luce e la pace; la pace col Padre
celeste, la pace con quanti come essi sono figli della luce e figli del Padre celeste, e la pace interiore
e profonda del cuore; ma non la pace con i figli delle tenebre.
Ad essi il Principe della pace non porta la pace, ma la spada. Per essi Egli è la pietra
d’inciampo, contro cui urtano e si schiantano. Questa è una verità grave e seria, che l’incanto del
Bambino nella mangiatoia non deve velare ai nostri occhi. Il mistero dell’incarnazione e il mistero del
male sono strettamente uniti. Alla luce, che è discesa dal cielo, si oppone tanto più cupa e inquietante
la notte del peccato. Il Bambino protende nella mangiatoia le piccole mani, e il suo sorriso sembra già
dire quanto più tardi, divenuto adulto, le sue labbra diranno: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e
affaticati”.
Alcuni seguirono il suo invito. Così i poveri pastori sparsi per la campagna attorno a Betlemme
che, visto lo splendore del cielo e udita la voce dell’angelo che annunciava loro la buona novella,
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Avvento e Natale 2013
risposero pieni di fiducia: “Andiamo a Betlemme” e si misero in cammino; così i re che, partendo dal
lontano Oriente, seguirono con la stessa semplice fede la stella meravigliosa. Su di loro le mani del
Bambino riversarono la rugiada della grazia, ed essi “provarono una grandissima gioia”.
Queste mani danno e esigono nel medesimo tempo; voi sapienti deponete la vostra sapienza e
divenite semplici come i bambini; voi re donate le vostre corone e i vostri tesori e inchinatevi umilmente davanti al Re dei re; prendete senza indugio su di voi le fatiche, le sofferenze e le pene che il
suo servizio richiede. Voi bambini, che non potete ancora dare alcunché da parte vostra: a voi le mani
del Bambino nella mangiatoia prendono la tenera vita prima ancora che sia propriamente cominciata;
il modo migliore di impiegarla è quello di essere sacrificata per il Signore della vita.
“Seguitemi”, così dicono le mani del Bambino, come più tardi diranno le labbra dell’uomo
adulto. Così dissero esse al giovane amato dal Signore e che ora fa anche parte della schiera disposta
attorno alla mangiatoia. E S. Giovanni, il giovane dal cuore puro e semplice, lo seguì senza
domandare: Dove? A che scopo? Abbandonò la barca del padre e andò dietro al Signore su tutte le
sue strade, fino al Golgota.
“Seguimi”, questo invito percepì anche il giovane Stefano. Egli seguì il Signore nella lotta
contro le potenze delle tenebre, contro l’accecamento della testarda mancanza di fede; gli rese
testimonianza con le sue parole e col suo sangue; lo seguì anche nel suo spirito, nello spirito
dell’amore, che combatte il peccato, ma ama il peccatore e intercede per l’assassino davanti a Dio
anche in punto di morte.
Di fronte ad essi sta la notte dell’indurimento e dell’accecamento incomprensibile: gli scribi,
che sono in grado di dare informazioni sul tempo e sul luogo in cui il Salvatore del mondo deve
nascere, ma che non deducono alcun "Andiamo a Betlemme!"; il re Erode, che vuole uccidere il
Signore della vita. Di fronte al Bambino nella mangiatoia gli spiriti si dividono. Egli è il Re dei re e il
Signore della Vita e della morte, pronuncia il suo “Seguimi”, e chi non è per lui è contro di lui. Egli
lo pronuncia anche per noi e ci pone di fronte alla decisione di scegliere fra luce e tenebre.
Il corpo mistico di Cristo
Dove il Bambino divino intenda condurci sulla terra è cosa che non sappiamo e a proposito
della quale non dobbiamo fare domande prima del tempo. Una cosa sola sappiamo, e cioè che a quanti
amano il Signore tutte le cose ridondano in bene. E inoltre che le vie, per le quali il Salvatore conduce,
vanno al di là di questa terra.
O scambio mirabile! Dio è diventato un figlio degli uomini, affinché gli uomini potessero
diventare figli di Dio. Uno di noi aveva lacerato il legame della figliolanza divina, uno di noi doveva
di nuovo riannodarlo e pagare per il peccato. Ma nessun discendente di questa progenie antica, malata
e imbastardita, era in grado di farlo. Su di essa andava innestato un ramoscello nuovo, sano e nobile.
Egli è divenuto uno di noi, anzi di più ancora, una cosa sola con noi.
Questa è infatti la cosa meravigliosa del genere umano, il fatto che siamo tutti una cosa sola.
Se le cose stessero diversamente, la caduta dell’uno non si sarebbe tirata dietro la caduta di tutti gli
altri. Egli è il nostro capo, noi le sue membra. Se mettiamo le nostre mani nelle mani del Bambino
divino e rispondiamo con un "sì" al suo "Seguimi", allora siamo suoi, è libera la via perché la sua vita
divina possa riversarsi in noi.
Non è ancora la contemplazione beata di Dio nella luce della gloria; è ancora l’oscurità della
fede, però la nostra vita non è più di questo mondo ed è già un’esistenza nel regno di Dio. Tale
regno sopravvenne in maniera diversa da come ce lo si era immaginato in base ai salmi e ai profeti. I
romani rimasero i padroni del paese, e i sommi sacerdoti e gli scribi continuarono a tenere il popolo
povero sotto il loro giogo. Chiunque apparteneva al Signore portava invisibilmente il regno di Dio in
sé. Egli non si vide alleggerito dei pesi dell’esistenza terrena, anzi ne vide aggiungere degli altri; ma
dentro era sorretto da una forza alata, che rendeva dolce il giogo e leggero il peso. La vita divina, che
viene accesa nell’anima, è la luce che è venuta nelle tenebre, il miracolo della Notte Santa.
http://www.moscati.it/Ital5/Edith_Natale.html
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