Transdisciplinarità e decima epistemologica

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Giuseppe Giordano1
Transdisciplinarità e decima epistemologica
Costruire competenze trasversali nei nuovi licei 2
Introduzione
“L’inferno è un luogo dove nulla si connette con nulla” è la frase di Vartan Gregorian scelta
come esergo del manifesto del nostro incontro: non poteva essere più adatta e calzante.
Il tema, l’esigenza, che ci spinge a riflettere oggi pomeriggio è proprio la difficoltà a
superare l’isolamento delle singole discipline, un sorta di monadismo tematico che rende sordi a
tutto il resto e crea un vero e proprio “inferno”.
Ma alla frase di Vartan Gregorian vorrei affiancare un’altra affermazione altrettanto icastica,
che potrà costituire lo sfondo, l’orizzonte di senso attorno a cui ruoteranno le mie riflessione (anche
sulla base di riflessioni di pensatori molto più autorevoli di me). L’affermazione che potrebbe farci
da guida è del grande filologo del secolo scorso Giorgio Pasquali, il quale sosteneva che «le
discipline non esistono: esistono soltanto problemi»
Nella prospettiva di dover parlare di trans-disciplinarità, di movimento tra ambiti del sapere,
di “decima epistemologica”, l’affermazione di Pasquali mi sembra costituire una buona chiave
interpretativa.
Vorrei procedere articolando il mio discorso in due parti: una prima di analisi della
situazione, quasi una sorta di anamnesi diagnostica; una seconda di presentazione di rimedi possibili
e cura, ma senza potere indicare una prognosi.
Anamnesi-diagnosi
Il quadro dell’insegnamento che ci si presenta di fronte – e questo vale a ogni livello [forse
escluso quello primario, e poi vedremo perché] – è quello di una offerta poliedrica e sfaccettata
dello scibile umano nelle sue diverse forme e conquiste, con accentuazioni diverse dovute ad
attitudini di alunni e insegnanti. La scuola dovrebbe cercare di evitare – se essa ha una funzione
primariamente formativa [la vera riforma della scuola dovrebbe “imporre” il massimo della
formazione e non individuare già percorsi professionalizzanti: ma di ciò potremo parlare, se vorrete,
in sede di discussione] – sbilanciamenti. Che questo però sia un problema è evidente; ed è evidente
da tempo, se già nel 1909, Benedetto Croce osservava che «una scuola, che fosse semplice cultura
delle attitudini individuali, sarebbe addestramento e non educazione, fabbrica di utensili, non vivaio
di attività spirituali e creatrici. Il vero specialismo è l’universalismo, e il vero universalismo lo
specialismo: l’universale non opera se non specificandosi, ma la specificazione non è davvero tale
se non contiene in sé l’universalità. Scissi i due termini, che sono per natura indivisibili, si ha o lo
sterile generalizzare o lo stupido particolareggiare; e in quest’ultimo verso hanno peccato i tempi
nostri, come altri tempi nel verso opposto».
Se Croce, in un discorso di ampio respiro, vedeva nell’oscillare tra generalizzazioni vuote
(parlare di foreste senza indicare alberi) e particolarizzazioni miopi (capaci di far perdere la foresta
per seguire i singoli alberi) il male del suo tempo; se è vero che questo male è perniciosamente
presente anche oggi; è tuttavia fondamentale notare che nell’ambito dell’insegnamento è più
rilevante, da un punto di vista problematico, il problema della specializzazione (quando non,
addirittura, iper-specializzazione) disciplinare.
Il nostro tipo di scuola e di università è fondato sulle discipline. E questa divisione di grande
successo ha finito, però, con il produrre un modello di trasmissione del sapere poco adatto a una
Professore di Storia della filosofia contemporanea e Filosofia della scienza presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università degli Studi di Messina.
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Il testo qui presentato è lo schema di una conversazione con il collegio dei docenti tenuta presso il Liceo Ainis di
Messina. L’autore ringrazia il preside, prof. Elio Parisi e, soprattutto, la prof.ssa Josette Clemenza per avere costruito
l’occasione per l’incontro.
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società complessa e globalizzata, dove la rete (e non penso soltanto a internet) è l’unica metafora
esplicativa calzante perché mostra in maniera evidente come tutto sia interconnesso e collegato.
Edgar Morin – pensatore che molto ha riflettuto sui problemi dell’educazione in una società
complessa – ha definito il nostro modello di istruzione “scuola del lutto”, che ha il suo coronamento
nell’Università: «La scuola della Ricerca è una scuola del lutto. /Ogni neofita che entra nella ricerca
si vede imporre la rinuncia fondamentale alla conoscenza. Lo si convince che l’epoca dei Pico della
Mirandola è passata da tre secoli, che ormai è impossibile costituirsi una visione dell’uomo e del
mondo insieme. /Gli si dimostra che la crescita dell’informazione e la sempre maggiore eterogeneità
del sapere superano ogni capacità di immagazzinamento e di trattazione da parte del cervello
umano. Gli si assicura che non bisogna lamentarsene, ma felicitarsene. Dovrà quindi dedicare tutta
la sua intelligenza ad accrescere quel sapere determinato. Lo si inserisce in una équipe
specializzata, e in questa espressione il termine sottolineato è “specializzata”, non “équipe”».
La “scuola del lutto” è la manifestazione istituzionale di quella che Ortega y Gasset ha
definito “barbarie dello specialismo”. Si tratta di un fenomeno che prende le mosse dalla
specializzazione in ambito scientifico per estendersi a tutti i campi del sapere. Contro questo
fenomeno si sono levate voci importanti del Novecento. Farò alcuni esempi e di filosofi e di
scienziati.
Proprio Josè Ortega y Gasset ha osservato che «in ogni generazione, lo scienziato, per dover
sempre ridurre il suo ambito di ricerca, [è andato] progressivamente perdendo contatto con le altre
parti della scienza, vale a dire con una interpretazione totale dell’Universo, che è l’unica a meritare i
titoli di scienza, cultura, civiltà europea».
Procedendo nella direzione indicata negativamente da Ortega si arriva a quel paradosso dello
specialista citato, in quello che è un vero e proprio libro di filosofia, dall’etologo Konrad Lorenz:
«Il progresso inevitabile nella divisione del lavoro in campo culturale spinge in modo inarrestabile
tutti i mestieri dell’uomo, soprattutto nel settore scientifico, a una sempre maggiore
specializzazione. Alla fine di questo processo lo specialista, come dice così bene una battuta
celebre, saprà sempre di più su sempre di meno, e alla fine saprà tutto su niente»
Per quanto possa essere trattato con ironia, lo specialismo disciplinare è un problema. Lo è
al punto che un altro grande della scienza del Novecento, il biochimico Erwin Chargaff – lo
scopritore delle regole di accoppiamento di acidi e basi negli acidi nucleici – arriva a fare una
riflessione soltanto apparentemente ovvia e banale. Scrive: «Riesce difficile non ammettere che chi
domina un’opera intera, non ne tragga maggior vantaggio di chi lucida spasmodicamente l’una o
l’atra pietruzza del mosaico, giacché in tal modo non se ne ricaverà mai più un’immagine
completa».
Il monito di Chargaff sembra rivolto non soltanto alla micro settorializzazione delle scienze,
ma anche a certe esasperazioni, ad esempio, dello strutturalismo novecentesco in letteratura o alla
restrizione dell’ambito di competenza all’interno delle specialità mediche.
E al coro – ma altri ancora si potrebbero chiamare in causa – si aggiunge anche il filosofo
Karl Raymund Popper, il quale osserva: «La scienza [ma anche la filosofia], si sarebbe talvolta
tentati di dire, non è altro che senso comune illuminato e responsabile – senso comune allargato
dall’esercizio del pensiero critico immaginativo. Ma è, in realtà, più di questo: essa rappresenta il
nostro desiderio di sapere, la nostra speranza di liberarci dall’ignoranza e dalla grettezza mentale,
dalla paura e dalla superstizione, ivi incluse l’ignoranza dell’esperto, la grettezza mentale dello
specialista».
Uno dei frutti avvelenati dello specialismo – guidato, come si diceva, dal paradigma
scientifico della modernità – è non solo la parcellizzazione delle discipline, ma addirittura lo
scontro fra esse, a partire da quello fra le cosiddette “due culture”. In questo caso, sarebbe più
opportuno parlare, visti i risultati ai quali si giunge, di “due inculture”. Seguiamo Edgar Morin: «La
cultura, ormai, non solo è frammentata in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi. La
grande disgiunzione tra la cultura umanistica e quella scientifica, delineatasi nel XIX secolo e
aggravatasi nel XX secolo, provoca gravi conseguenze per l’una e per l’altra. La cultura umanistica
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è una cultura generica, che attraverso la filosofia, il saggio, il romanzo alimenta l’intelligenza
generale, affronta i fondamentali interrogativi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce
l’integrazione personale delle conoscenze. La cultura scientifica, di tutt’altra natura, separa i campi
della conoscenza; suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino
umano e sul divenire della scienza stessa. La cultura umanistica tende a diventare come un mulino
privato del grano costituito dalle acquisizioni scientifiche sul mondo e sulla vita, che dovrebbe
alimentare i suoi grandi interrogativi; la cultura scientifica, privata di riflessività sui problemi
generali e globali, diventa incapace di pensarsi e di pensare i problemi sociali e umani che pone».
A questo punto, prima di passare alla pars costruens del discorso, anche per ricapitolare, è
bene soffermarci e fare il punto su che cosa è una disciplina. Sempre Morin così la definisce: «La
disciplina è una categoria organizzatrice in seno alla conoscenza scientifica; vi istituisce la divisione
e al specializzazione del lavoro e risponde alla diversità dei domini delle scienze. Sebbene sia
inglobata in un contesto scientifico più vasto, una disciplina tende naturalmente all’autonomia, con
la delimitazione delle sue frontiere, il linguaggio che essa si dà, le tecniche che è portata a elaborare
o a utilizzare ed eventualmente con le teorie che le sono proprie».
La definizione moriniana di disciplina mette bene in chiaro che si tratta di un modo di
organizzare in maniera distinta e autonoma ambiti di conoscenza. Se vogliamo ricostruire una sorta
di “cosmogonia” della cultura europea, dobbiamo constatare come da una originaria posizione
“soltanto” filosofica, da lì si sia dipartito un cammino di ricostruzione di ambiti disciplinari sempre
più precisi, ma anche più ristretti, che hanno portato alla situazione attuale: quella di
un’organizzazione del sapere che tanti successi ha ottenuto, ma che reca in sé elementi pericolosi.
Scrive ancora Morin: «L’istituzione disciplinare comporta nel contempo un rischio di iperspecializzazione del ricercatore e un rischio di “cosificazione” dell’oggetto studiato, del quale si
rischia di dimenticare che è estratto dal contesto o costruito. L’oggetto della disciplina sarà allora
percepito come una cosa autosufficiente; i legami e le solidarietà di questo oggetto con altri oggetti,
trattati da altre discipline, saranno trascurati, così come lo saranno i legami e le solidarietà con
l’universo di cui l’oggetto fa parte. La frontiera disciplinare, il suo linguaggio e i suoi concetti
isoleranno una disciplina rispetto alle altre e rispetto ai problemi che scavalcano le discipline».
Eclatante esempio di “cosificazione” è, dinanzi agli occhi di tutti, l’economia moderna, che
ha preteso di “scientificizzarsi”.
L’ultimo tassello dell’anamnesi e dell’esame dello stato attuale del “paziente” riguarda il
modello di insegnamento imposto dalla specializzazione disciplinare.
In campo musicale, il compito di guida nell’esecuzione è affidato a colui che conosce tutti
gli strumenti, e, in virtù di questa conoscenza generale, il direttore d’orchestra riesce ad
armonizzare e far collaborare i solisti più diversi e i suoni più disparati.
Nella scuola delle discipline, invece, a che cosa assistiamo? Tanti grandi solisti eseguono la
loro partitura, lasciando all’alunno il compito di armonizzare tutti gli assolo: all’alunno, quello che
ne sa di meno!
Proposta terapica
Passiamo alla terapia, tenendo presente l’affermazione di Pasquali – “Non esistono
discipline: esistono soltanto problemi” – da cui eravamo partiti.
Questa affermazione è in perfetta sintonia con lo spirito che sottende ai discorsi
“pedagogici” di Morin. Infatti, un modo di superare la parcellizzazione disciplinare, di andare oltre
la “scuola del lutto”, è quello di cambiare atteggiamento generale: seguendo un detto di Michel de
Montaigne, Morin propone di mirare a produrre “teste ben fatte” piuttosto che “teste ben piene”.
Questo significa usare le discipline, almeno inizialmente, come mezzi per affrontare da più aspetti
problemi. Allora, in primo luogo questo significa individuare delle aree problematiche, sulle quali
far convergere l’elaborazione del sapere disciplinare.
Morin ne individua sette e le definisce “i sette saperi necessari all’educazione del futuro”.
Essi sono:
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1. La cecità della conoscenza – cioè il non interrogarsi della conoscenza su sé stessa;
2. I principi di una conoscenza pertinente – la capacità di contestualizzare e correlare le
informazioni;
3. Insegnare la condizione umana – cogliere cioè l’uomo nella sua interezza di essere fisico,
biologico, psichico, culturale, sociale, storico;
4. Insegnare l’identità terrestre – inquadrare tutti i saperi in una dimensione planetaria, visto
che planetaria è la nostra comunità di destino;
5. Affrontare le incertezze – abituare all’impossibilità della previsione puntuale e a gestire il
cambiamento con flessibilità;
6. Insegnare la comprensione – comprendendo (si scusi il gioco di parole) che la comprensione
è tutto (sia mezzo sia fine) nella comunicazione umana;
7. L’etica del genere umano – un’etica che deve essere costruita a partire dalle coscienze e
dalla coscienza di appartenere a un’unica Terra-Patria.
Così si esprime Edgar Morin. Ma per tornare più specificamente al nostro problema e al
nostro percorso, quello che dobbiamo auspicarci e cercare di attuare è che le discipline (nel loro
specialismo) acquisiscano consapevolezza di non essere “monadi” autosufficienti, acquisiscano cioè
consapevolezza di un orizzonte di senso comune per potere interagire le une con le altre
(intervenendo alla risoluzione di problemi).
Questo, allora, significa avviare un percorso che pone attenzione al problema del modo di
apprendere: non è un problema di contenuti, ma di ri-apprendere a pensare.
Certo, tutto ciò richiederebbe una riforma di tutti gli ordini di scuola e una “riconversione”
degli insegnanti di tutti i livelli. E questa riforma può essere sintetizzata ricordando ancora una volta
la affermazione di Giorgio Pasquali, puntando l’attenzione sui problemi e non esclusivamente sulle
discipline (e il loro modo peculiare di affrontare ognuna i suoi o gli stessi problemi), indirizzando
cioè le discipline ad esempio sui sette saperi moriniani.
Tornado direttamente alle discipline, anche senza averne esplicita contezza, la scienza delle
discipline è andata spesso avanti grazie a quello che Isabelle Stengers definisce “propagazione di
concetti”, “nomadismo concettuale”. Esempio eclatante le suggestioni introdotte dal fisico Erwin
Schrödinger in campo biochimico con il suo famoso saggio What is life?, che suggerì a Watson e
Crick che anche la vita potesse essere costituita di “mattoncini” come le particelle subatomiche
della fisica. E sull’importanza euristica dell’uso della metafora nella scienza, ormai sussistono pochi
dubbi.
Qui entra in gioco la differenza fra trans-disciplinarità e inter-disciplinarità. Il “nomadismo
concettuale” è un esempio di trans-disciplinarità, di passaggio di idee e modi di guardare alla realtà
da un settore a un altro. Siamo in ambito di ricerca, di invenzione, di produzione di pensiero. È
possibile la trans-disciplinarità, invece, nell’insegnamento, nella pratica dell’insegnamento? La
trans-disciplinarità nell’insegnamento non è pertinente al singolo docente o alla singola disciplina.
È quel modo di coordinare gli approcci nella prospettiva della risoluzione di un problema. Transdisciplinare è un istituto o una università che anziché articolarsi nelle tradizionali materie e facoltà,
costituisce dei raggruppamenti sulla base di problemi.
Quella che si dovrebbe praticare nella scuola (e pure nelle Università) – anche come primo
passo verso la trans-disciplinarità – è l’inter-disciplinarità. Sappiamo tutti che è difficile e che la
specializzazione disciplinare ci fa delegare allo studente l’armonizzazione: ecco, lo sforzo deve
tendere proprio a far sì che i docenti trovino un tema che, insieme, possono “aggredire”, facendo
vedere allo studente la complementarità dei saperi.
Quello che mi sento di dire è che noi, oggi, possiamo praticare l’inter-disciplinarità (con
fatica e sforzi), ma dobbiamo insegnare – come atteggiamento metodologico – la transdisciplinarità.
Per potere fare tutto questo, per potere arrivare davvero a contaminare i saperi e le
discipline, dobbiamo iniziare in qualche modo. Ora, se il problema fondamentale è di autoconsapevolezza degli ambiti disciplinari di appartenere a contesti più ampi, a reti interconnesse; se
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il problema è questo, un passo opportuno per iniziare può essere costituito da quella che Morin
chiama “decima epistemologica”.
La decima epistemologica si presenta a più livelli. In una prospettiva generale – osserva
Morin - «al fine di sviluppare e diffondere un modo di pensare che permetta la riforma, si
tratterebbe di istituire in tutte le Università e in tutte le facoltà una decima epistemologica o
transdisciplinare, che preleverebbe il 10% del tempo dei corsi per un insegnamento comune che
verta sui presupposti dei differenti saperi e sulle possibilità di farli comunicare».
Quella che viene presentata nel brano appena letto è una decima esplicitamente
“transdisciplinare”. Si tratta dell’indicazione di uno spazio comune da dedicare al cogliere le
connessioni, interrogandosi su una serie di punti che riguardano tutte le discipline. Morin sostiene
che «la decima potrebbe essere dedicata a:
•
la conoscenza delle determinazioni e dei presupposti della conoscenza;
•
la razionalità, la scientificità, l’obiettività;
•
l’interpretazione;
•
l’argomentazione;
•
il pensiero matematico;
•
la relazione tra il mondo umano, il mondo vivente, il mondo fisico-chimico, il
cosmo stesso;
•
l’interdipendenza e le comunicazioni fra le scienze […];
•
i problemi di complessità nei diversi tipi di conoscenza;
•
la cultura umanistica e la cultura scientifica;
•
la letteratura e le scienze umane;
•
la scienza, l’etica, la politica ecc.
La decima consentirebbe di elaborare i dispositivi che permettono le comunicazioni tra le scienze
antroposociali e le scienze della natura».
Questa decima “generalizzata”, almeno al momento, è un sogno. Perché si possa però
realizzare si deve iniziare da qualche parte. E la parte da cui prendere le mosse sono proprio le
singole discipline. Dobbiamo iniziare a riscuotere decime nelle singole discipline, costruendo così i
presupposti per una proficua comunicazione tra discipline. E questo lo possiamo fare già adesso;
singolarmente; in ogni aula. Il problema è: come farlo? Che cosa è una decima epistemologica nel
contesto di una disciplina?
La decima può configurarsi tanto come ricostruzione storica quanto come riflessione
metodologica. Ogni disciplina, per acquisire una profonda consapevolezza di senso, deve
ripercorrere la propria genesi, ma deve anche porsi questioni di legittimità metodologiche ed etiche.
Si tratta di un processo di storicizzazione della disciplina, che mette in questione l’esistenza stessa
di “scienze pure” insieme all’idea di “verità” della conoscenza.
La decima è quindi una autobiografia che è anche autocritica (o autodifesa). Quella che deve
emergere è la specificità logica e metodologica, che permette la coesistenza di discipline
informative e di discipline formative (anche se i confini sono sempre sfumati).
Ma la specificità non deve costruire barriere o avviare – come abbiamo sperimentato nella
nostra cultura – un tentativo di unificazione metodologica.
Se, proprio in quest’ultima prospettiva, la decima si connota come autocritica nei confronti
della presunzione delle discipline che il proprio metodo è il migliore, le stesse discipline eviteranno
quel problema – causa di separazioni e contenziosi di preminenza – che già Giambattista Vico
stigmatizzava come “boria dei dotti”. Riconoscere i limiti della propria disciplina, il non avere il
monopolio metodologico e veritativo, apre alla complementarità fra i saperi. Il termine
“complementarità” rinvia a un principio enunciato in fisica da Niels Bohr nel 1927: si tratta di un
vero concetto “nomade”, che ha ampiamente travalicato i confini entro i quali era nato. Oggi è un
vero e proprio principio, per usare una terminologia moriniana, “meta-pan-epistemologico. Hanno
scritto Ilya Prigogine e Isabelle Stengers che «la vera lezione da imparare dal principio di
complementarità, e che forse può essere tradotta in altri campi di conoscenza (come Bohr cercò di
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fare per tutto il corso della sua vita), consiste nel sottolineare la ricchezza della realtà, che straripa
da ogni possibile linguaggio, da ogni possibile struttura logica. Ogni linguaggio può esprimere solo
una parte, anche se con successo. Così la musica non è esaurita da nessuno dei suoi stili, il mondo
del suono è troppo più ricco di ogni linguaggio musicale, che sia la musica esquimese, quella di
Bach o di Schönberg; ma ogni linguaggio è una scelta, un’esplorazione elettiva e in quanto tale
possibilità di pienezza».
Tutti i saperi, per la loro parte, in maniera complementare, cooperando ci possono dare
un’immagine a tutto tondo della realtà, che nessuno può esaurire da solo.
Ma queste sono solo parole, intenzioni. Per realizzarsi c’è bisogno dei professori. Siamo tutti
professori, sia quelli (pochi) capaci di produrre idee nuove, sia quelli capaci di comunicarle,
trasmetterle con entusiasmo e “contagiare” i giovani. Allora vorrei concludere, leggendovi le parole
di un grande pensatore del Novecento, Ludwig von Bertalanffy, il padre della “teoria generale dei
sistemi”. Si tratta di un brano lungo, ma vale la pena leggerlo per intero: «Vorrei chiudere con una
nota più distesa, con un tributo a quella figura leggermente ridicola che è il professore. La nostra
società lo tiene certamente nel posto a lui assegnato all’interno dell’ordine gerarchico umano: egli
viene decisamente dopo il manager, per non parlare del medico moderno sciamano, di attrici
televisive di second’ordine, di indossatrici o pugili; salvo il caso che contribuisca alla creazione
della superbomba o escogiti una pubblicità per deodoranti particolarmente efficace. Non c’è molto
di che vantarsi. /Tuttavia egli detiene una segreta vendetta. Le idee muovono la materia e in un certo
senso i professori sono i nascosti manovratori delle marionette della storia: coloro che creano le
visioni del mondo, i valori, i problemi e le soluzioni; in breve, quel simbolico sipario su cui si
rappresenta ogni scena del gran dramma della storia. /Il modo in cui nel medioevo il nobile e il
servo sentirono ed ebbero esperienza di sé, fu inventato dai professori del tempo, cioè dai Padri
della Chiesa. Il Rinascimento, che letteralmente creò un uomo nuovo, fu opera di professori, anche
se allora non si chiamavano così: di Leon Battista Alberti, dell’Accademia del Cimento, di
Leonardo, di Michelangelo e di altri. La guerra dei Trent’anni, che distrusse un terzo della
popolazione dell’Europa centrale, fu un dibattito teologico fra sant’Agostino e san Tommaso,
trasposto nella lotta per il potere fra i principi europei e su sanguinosi campi di battaglia. La
Rivoluzione francese e gli Stati Uniti furono invenzioni di Voltaire, Rousseau e degli Enciclopedisti
francesi. L’Unione Sovietica fu ideata da Karl Marx nella rotonda sala di lettura del British
Museum. E così fino ai giorni nostri. La Weltanschaung, la visione della vita e del mondo,
dell’uomo della strada – quello che vi ripara l’automobile o vi vende una polizza di assicurazione –
è un prodotto di Lucrezio Caro, Newton, Locke, Darwin, Adam Smith, Ricardo, Freud e Watson –
anche se potete tranquillamente scommettere che chi esce dalla scuola secondaria o anche
dall’università non ha mai sentito parlare della maggior parte di costoro, e conosce di Freud
unicamente le notizie che gli pervengono dalla colonna della “piccola posta” del suo giornale.
Siamo noi professori che, in ultima analisi, fabbrichiamo le lenti attraverso cui gli uomini guardano
il mondo e se stessi, per quanto poco essi se ne rendano conto e siano consapevoli di chi è stato a
mettere gli occhiali sul loro metaforico o metafisico naso. /Oso affermare che siamo noi i grandi
registi della storia. È questa la ragione per cui lo sforzo intellettuale è qualcosa di più della raccolta
di fatti o della creazione di ingegnosi congegni. È una responsabilità enorme: e noi dobbiamo
tenerle testa».
Penso che queste parole debbano darci – anche a noi che trasmettiamo idee –
consapevolezza e orgoglio del nostro ruolo; penso che debbano farci comprendere che non c’è
riforma dell’insegnamento, non c’è acquisizione di senso delle discipline, non c’è decima
epistemologica che non debba passare dagli insegnanti. In questo quadro, saremo tutti noi artefici e
(almeno in parte) responsabili del futuro della cultura e dell’apprendimento.
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