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Il decentramento del soggetto 1. Friedrich Nietzsche
Giorgio De Chirico, La Metafisica, da http://i48.tinypic.com
Atteggiamento genealogico e atteggiamento metafisico
Nietzsche ha cercato di introdurre in filosofia una nuova metodologia di ricerca che
viene definita “genealogia”. L’atteggiamento genealogico consiste essenzialmente
nell’indagare cose, problemi e valori partendo da domande differenti da quelle
della tradizione metafisica. La domanda tipica del modo di procedere metafisico
è sempre “Che cosa?”. È la domanda che risuona continuamente, ad esempio, nei
dialoghi platonici, dove Socrate chiede continuamente ai suoi interlocutori che cos’è il
bello, che cos’è il coraggio, che cos’è la giustizia ecc. Questa forma della domanda non
è affatto neutra e priva di effetti, ma predetermina i caratteri della risposta. Chiedere
“Che cosa?” presuppone una risposta basata su un elemento unico, e richiede che
tale unicità sia permanente e predomini sulle espressioni molteplici.
La domanda del metodo genealogico nietzschiano è invece “Chi?”. (Sul tema
della contrapposizione tra domanda metafisica e domanda genealogica in Nietzsche
cfr. G. DELEUZE, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, cap. III). Interrogarsi
sul soggetto significa, pertanto, chiedersi chi ha istituito la forma di esistenza che
definiamo soggetto, in quali circostanze, in quale campo di forze, con quali effetti?
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Il soggetto
La risposta di Nietzsche a queste domande si basa sul
ritenere il soggetto una costruzione, una invenzione
dovuta soprattutto a esigenze di rassicurazione. Concepire il
soggetto come una sostanza, come qualcosa di unico e
fondamentale, rende più stabile e conoscibile una realtà in
continuo
mutamento:
“Soggetto:
è
questa
la
terminologia del nostro credere in un’unità attraverso
tutti i diversi momenti di altissimo sentimento della realtà;
noi intendiamo questo credere come effetto di una sola
causa,
crediamo
al
nostro
credere
fino
al
punto
di
fantasticare, per amor suo, di una ‘verità’, di una ‘realtà’, di una ‘sostanzialità’.
“Soggetto” è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi
siano opera di un solo sostrato (Wirkung eines Substrats); ma siamo noi che
abbiamo creato ‘l’uguaglianza’ di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e
accomodarli, non l’uguaglianza” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in
Opere, Adelphi, Milano, 10-[19], pp. 115-116).
Coscienza e corpo
Il fondamento e il principio gerarchico di questa unità immaginaria vengono
posti in una parte spirituale, definita come coscienza, anima o spirito, nettamente
contrapposta al corpo e alla materia che le sono subordinati. Nella filosofia
metafisica si compiono, infatti, “enormi errori”: una “assurda sopravvalutazione della
coscienza, il farne un’unità, un’essenza, ‘lo spirito’, ‘l’anima’ […] la coscienza come
suprema forma raggiungibile, come specie massima dell’essere […] il ‘mondo vero’
come mondo spirituale” (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere,
Adelphi, Milano, 14-[146], p. 119).
Il soggetto imprigiona la vita
Il soggetto è quindi una forma che riduce e imprigiona forze essenziali della
vita: tutto ciò che è molteplice, in divenire, libero, corporeo, materiale, viene
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svalutato e negato in nome di valori superiori o trascendenti. La stessa coscienza, se
vogliamo cercare il momento della sua comparsa, ha cominciato a esistere all’interno
di un gioco di forze, di un rapporto fatto di comando e obbedienza: “A che scopo in
generale una coscienza […]? A me sembra peraltro che, rispetto a intere razze e
catene di generazioni, le cose stiano in questo modo: laddove il bisogno, la
necessità, hanno lungamente costretto gli uomini a comunicare tra loro […]
mi è lecito procedere alla supposizione che la coscienza in generale si sia sviluppata
soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione – che sia stata all’inizio
necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo (in particolare tra colui che comanda e
colui che obbedisce), e soltanto in rapporto al grado di questa utilità si sia inoltre
sviluppata” (F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, Adelphi, Vol.V, t. II, §354).
L’uomo, figura transitoria
L’uomo è per Nietzsche una figura destinata a tramontare. Zarathustra, appena
disceso dalla montagna, comincia il suo annuncio dicendo che “l’uomo è qualcosa che
deve essere superato”, che è solo uno stadio intermedio. “L’uomo è un cavo teso tra
la bestia e il superuomo, - un cavo al di sopra di un abisso […] La grandezza dell’uomo
è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una
transizione e un tramonto”. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Prologo, §3,4). Il
superuomo (Übermensch) non è affatto un uomo potenziato, che possiederebbe le
stesse caratteristiche umane in misura accresciuta. L’oltreuomo – come si potrebbe
anche tradurre il termine usato da Nietzsche – è una diversa forma di esistenza
della quale bisogna essere capaci.
Il superuomo
Nelle ultime opere di Nietzsche – soprattutto nello Zarathustra – è possibile cogliere
alcuni caratteri dell’oltreuomo. Ci limitiamo qui a esaminarne tre: la corporeità, la
creatività del fanciullo e la capacità di fare proprio l’eterno ritorno.
Contro la scissione gerarchica tra anima e corpo, tra ragione e passioni,
Nietzsche afferma la razionalità profonda dell’Io-corpo: “il risvegliato e sapiente
dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una
parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione, una pluralità
con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo
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corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo
strumento e un giocattolo della tua grande ragione” (Così parlò Zarathustra, Dei
dispregiatori del corpo).
Le tre metamorfosi dello spirito
Il primo dei discorsi di Zarathustra menziona tre metamorfosi dello spirito. Nella prima
domina la figura del cammello, che rappresenta gli atteggiamenti di rinuncia, di
senso del dovere, di umile sottomissione ai valori riconosciuti dalla religione, dalla
società e dalla tradizione. La seconda figura è quella del leone, che combatte
attivamente e si libera da tutti i pesi che il cammello accettava di portare. Il leone è
una necessaria forza di liberazione, ma ancora più importante è “creare nuovi
valori – di ciò il leone non è ancora capace”. Il fanciullo fa ciò che nemmeno l’energia
del leone era in grado di fare, e cioè vivere re-iniziando l’esistenza attraverso la
sperimentazione di valori nuovi: “Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio,
un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì” (cfr. Così
parlò Zarathustra, Delle tre metamorfosi).
L’eterno ritorno
Nietzsche contrappone due modi di concepire l’eterno ritorno. Il primo consiste
nel farne la ripetizione meccanica di ciò che è già accaduto. “Che accadrebbe se,
un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue
solitudini e ti dicesse: ‘Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla
ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di
nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa
indicibilmente piccola e grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella
stessa sequenza e successione’?” Se l’eterno ritorno è questo, il suo verificarsi non
può che suscitare angoscia e disperazione: “Non ti rovesceresti a terra, digrignando i
denti e maledicendo il demone che così ha parlato?” (La gaia scienza, in Opere,
Adelphi, Vol.V, t. II, §341). Ma dell’eterno ritorno è possibile un’altra concezione, che
si trova in uno dei testi più complessi dello Zarathustra, La visione e l’enigma. Qui si
vede “un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve
serpente nero penzolava dalla bocca” (cfr. Così parlò Zarathustra, La visione e
l’enigma). Il pastore può evitare di essere soffocato dal serpente nero del tempo
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circolare solo facendo qualcosa, e cioè mordendo la testa del serpente e sputandola
lontano. Il morso che salva dal soffocamento del tempo circolare è la decisione di
fare proprio integralmente l’eterno ritorno. Ciò significa accettare sia il peso del
passato sia l’indeterminazione di un futuro in cui la creazione di valori non è
garantita da alcuna necessità. Questa duplice accettazione permette l’intensità del
presente, permette cioè di vivere il presente come se dovesse ritornare eternamente.
“Non mirare verso beatitudini, benedizioni, grazie, lontane e sconosciute ma vivere in
modo tale che vogliamo vivere ancora una volta e vogliamo vivere così per l’eternità!
Il nostro compito ci si accosta in ogni momento” (Frammenti postumi 1881-1882, 11
[161], in Opere, Adelphi, vol. V, t. II, p. 389).
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