struttura del fatto illecito

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“STRUTTURA DEL FATTO
ILLECITO”
PROF. FERNANDO BOCCHINI
Università Telematica Pegaso
Struttura del fatto illecito
Indice
1
LA CLAUSOLA GENERALE DI RESPONSABILITÀ CIVILE DA FATTO ILLECITO --------------------- 3
2
IL FATTO DANNOSO E IL NESSO DI CAUSALITÀ ---------------------------------------------------------------- 5
3
IL DANNO INGIUSTO ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8
4
IMPUTABILITÀ E COLPEVOLEZZA ----------------------------------------------------------------------------------- 9
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Struttura del fatto illecito
1 La clausola generale di responsabilità civile da
fatto illecito
Nel fissare le fonti delle obbligazioni l’art. 1173 c.c. stabilisce che le obbligazioni derivano
da contratto, da fatto illecito o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità
dell’ordinamento giuridico. E il codice civile delinea con la fondamentale regola dell’art. 2043 c.c.
la disciplina essenziale del fatto illecito: il c.d. illecito extracontrattuale, per distinguersi dal c.d.
illecito contrattuale, che più specificamente si configura come illecito da inadempimento di
obbligazione. Nella formulazione dei giuristi si è anche soliti indicare tale modello di responsabilità
anche come “responsabilità aquiliana” dal nome del tribuno romano che la promosse 1.
In particolare, con l’art. 2043 è introdotta una clausola generale sulla responsabilità civile da fatto
illecito, anche se la rubrica della norma sembra limitarne la portata al solo risarcimento del danno.
Come è nell’essenza delle clausole generali, anche la clausola dell’art. 2043 si presta ad abbracciare
una vasta fenomenologia giuridica ed è suscettibile di applicazione nel tempo per consentire di
comprendere le nuove ipotesi che la realtà materiale continuamente propone. E’ una tecnica di
normazione elastica che consente la determinazione del precetto giuridico secondo l’evolvere
dell’ordinamento: è nell’essenza delle clausole generali di consentire la vitalità dei testi normativi
oltre la previsione delle fattispecie che ne hanno determinato la nascita.
Alla stregua dell’art. 2043 “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno
ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto al risarcimento del danno”. E’ una norma generale
e astratta per riferirsi ad ogni soggetto che compie un atto illecito e per comprendere qualunque
fattispecie di illecito. Con tale norma è dunque accolto il principio della atipicità dell’illecito, per
riferirsi la norma non già a fattispecie predeterminate, ma a tutte le figure di illecito, quale che sia la
morfologia sociale nella quale il singolo illecito possa articolarsi. E’ l’affermazione normativa del
tradizionale principio etico, prima che giuridico, che impone ad ogni soggetto di non arrecare danni
ad altri (neminem laedere), quale essenziale fattore di convivenza civile e di coesione sociale. Nella
Relazione al codice civile si segnala come, sotto la rubrica “fatti illeciti” si sia inteso comprendere
“quei comportamenti e quelle situazioni dell’uomo, rispetto ad altre persone e a cose, contrastanti
1
Fu un plebiscito romano del III secolo a.C., denominato Lex Aquilia de damno (iniuria dato), ad introdurla. La
disciplina intendeva punire chi avessero arrecato (dato), con un comportamento contrario al jus (iniuria), un danno a
beni ad altri appartenenti (c.d. responsabilità ex delicto).
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col principio generale che impone ai singoli, nello svolgimento della propria attività, di non
cagionare danni ad altri” (Relaz. al Re, n. 793).
Acclarato il generale principio della rilevanza giuridica del fatto illecito quale fonte di
obbligazione, è possibile disarticolare l’ampia previsione dell’art. 2043, verificando la struttura
dell’illecito disegnata dalla norma. Si vedrà peraltro, come anticipato nelle precedenti lezioni sulla
responsabilità civile, come l’impianto dell’art. 2043 è tutto nel segno del fatto dannoso al fine di
sanzionare la condotta antigiuridica tenuta, mentre una evoluzione della cultura giuridica in materia,
sollecitata dalle sopravvenute normative, è complessivamente protesa alla valutazione dell’evento
dannoso nella prospettiva di riparazione del danno ingiusto inferto, secondo una impostazione che
tende a privilegiare la tutela della vittima, piuttosto che indulgere alla punizione dell’autore
dell’illecito, atteggiandosi la sanzione dell’autore del danno come mezzo di tutela del soggetto
danneggiato. E’ il generale principio della pluralità dei criteri di imputazione della responsabilità
civile, come del resto, in qualche modo, già emerge da alcune specifiche previsioni del codice
civile, nelle quali affiorano modellazioni di responsabilità ora nel segno dell’aggravamento, ora
addirittura di segno oggettivo (artt. 2047 ss. cc.).
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2 Il fatto dannoso e il nesso di causalità
Nel delineare la struttura dell’illecito l’art. 2043 menziona “qualunque fatto doloso o colposo che
cagiona ad altri un danno ingiusto”. Emergono dunque due profili di osservazione: uno oggettivo,
rappresentato dal fatto produttivo del danno e dall’evento dannoso, e un altro soggettivo, espresso
dalla imputabilità e dalla colpevolezza. Si è peraltro anticipato nelle precedenti lezioni sulla
responsabilità civile e meglio si vedrà in seguito come il concorso dei due profili non rappresenti
più il necessario e costante presupposto della responsabilità civile, emergendo sempre più
diffusamente ipotesi di responsabilità civile maggiormente attente a valorizzare l’ingiustizia del
danno subito con l’intento di riparazione del soggetto danneggiato, anche se il criterio soggettivo
della imputabilità e della colpevolezza continua a svolgere un ruolo di più diffusa significazione e
rilevanza dell’illecito civile.
Venendo in particolare al fatto dannoso, c’è anzitutto da rilevare come il riferimento al “fatto”
piuttosto che all’atto, come un criterio soggettivo suggerirebbe, si giustifica con il dato che spesso
la responsabilità si ricollega ad una situazione di fatto in cui il soggetto si trova, in rapporto ad una
cosa o nella esplicazione di un servizio, per cui si prescinde dall’osservazione di un suo
comportamento rilevando giuridicamente la posizione assunta come tale e in quanto tale (es.
responsabilità per danno cagionato da cose in custodia ex art. 2051; responsabilità del proprietario
per la rovina di edificio ex art. 2053).
Il fatto dannoso (profilo oggettivo) risiede dunque nel fatto materiale, concretantesi in una posizione
o in un comportamento produttivo di danni a terzi, anche se non tenuto personalmente ma tenuto da
altri: in ogni caso si risponde per non essere stata tenuta la condotta dovuta secondo legge per
evitare il danno.
Il comportamento dell’autore del danno può essere commissivo o omissivo a seconda che il danno
inferto si ricolleghi ad un atto compiuto (es. investimento di un pedone) o ad una mancata
attivazione nell’osservanza di un obbligo giuridico (es. mancato soccorso del pedone investito).
E’ noto peraltro che, nell’esperienza sociale, la produzione dei danni si collega più spesso ad un
concorso o a una sequenza di accadimenti umani e naturali variamente collegati, che insieme
determinano l’evento dannoso da cui consegue il pregiudizio del soggetto leso. E’ il c.d. nesso di
causalità, per cui l’autore del danno è tenuto al risarcimento dei danni provocati dal suo
comportamento. Poiché in natura la catena della causalità potrebbe essere infinita o comunque
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molto dilatata, c’è da stabilire giuridicamente quando la catena si interrompe nella prospettiva
dell’autore del danno. C’è cioè da stabilire fino a quale anello della catena causale possa l’autore
del danno rispondere per i danni conseguenti all’evento dannoso: è questa propriamente la c.d.
causalità giuridica. E’ ormai diffusa opinione e indirizzo costante della giurisprudenza che debba
aversi riguardo ad causalità adeguata tra condotta ed evento dannoso, nel senso di una sequenza
causale degli eventi rilevanti nella produzione del danno secondo la comune esperienza. Secondo
una diffusa impostazione, nota come teoria “della condicio sine qua non”, il nesso di causalità è
riscontrabile quando, senza quel comportamento, il danno non si sarebbe verificato. Si è anche
precisato che sono da ricondurre alla condotta rilevante solo quegli effetti che conseguono a
comportamenti di quel tipo e al ricorrere di quelle circostanze, secondo una legge statisticoprobabilistica (c.d. criterio della causalità adeguata). Restano fuori dalla causalità giuridica quegli
eventi eccezionali o straordinari che fuoriescono dalla sequenza causale, determinando una
interruzione del nesso causale. Si faccia il caso dell’investimento di un pedone che ha riportato lievi
ferite: se nell’accompagnamento in ospedale l’auto che accompagna il ferito è, a sua volta, investita
da altra auto che provoca la morte dei passeggeri, l’autore del ferimento del pedone non risponderà
della morte dello stesso in quanto lungo la catena causale che ha portato alla sua morte si è inserito
un fatto nuovo e straordinario determinativo esso stesso e autonomamente della morte del pedone;
così come l’autore del ferimento non risponderà della morte del pedone se la stessa consegue al
crollo dell’ospedale ove è stato ricoverato a seguito dell’incidente).
Non c’è una specifica disciplina civilistica della causalità giuridica nella produzione dell’evento
dannoso. Un riferimento è contenuto nel codice penale che disciplina il rapporto di causalità (art. 40
c.p.) e il concorso di cause (art. 41 c.p.). In sede civile è possibile trarre utili riferimenti dal
combinato disposto degli artt. 2056 e 1223 c.c. Per l’art. 2056, relativo alla valutazione del danno, il
risarcimento dovuto al soggetto danneggiato va determinato secondo le disposizioni operanti in
tema di responsabilità contrattuale, tra le quali è specificamente indicato l’art. 1223. Ebbene, alla
stregua di tale norma, il risarcimento del danno deve comprendere così la perdita subita come il
mancato guadagno in quanto ne siano “conseguenza immediata e diretta”. Ne consegue che anche il
fatto dannoso deve porsi in rapporto di causalità immediata e diretta rispetto all’evento dannoso e
alle conseguenze che da questo derivano.
Poiché peraltro il nesso eziologico è utilizzato in una prospettiva giuridica, consegue che la
valutazione della sequenza causale va condotta in relazione al susseguirsi delle fattispecie
giuridicamente rilevanti. Per la giurisprudenza della Suprema Corte “Ai sensi degli art. 40 e 41 c.p.,
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un evento è da considerarsi causa di un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si
sarebbe verificato in assenza del secondo; ma l’applicazione di tale principio, temperato dalla
regolarità casuale, ai fini della ricostruzione del nesso eziologico, va applicata alla peculiarità delle
singole fattispecie normative di responsabilità civile, dove muta la regola probatoria, per cui mentre
nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige
la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (Cass., Sez. un., 11
gennaio 2008, n. 581).
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3 Il danno ingiusto
Per l’art. 2043 componente essenziale dell’illecito è la produzione di un evento dannoso ingiusto, e
cioè antigiuridico in quanto in contrasto con l’ordinamento giuridico (comportamento contra ius).
Nella tradizionale impostazione l’ingiustizia consisteva nella lesione di un diritto soggettivo, che
specificamente si ravvisava nei diritti assoluti (esistenziali e di proprietà), quali espressioni massime
e più significative della soggettività giuridica.
L’accrescersi delle situazioni soggettive protette dall’ordinamento, in virtù della scelta personalista
operata dalla Carta costituzionale e poi dalla normativa europea, ha condotto ad offrire rilevanza
giuridica alla lesione di ogni interesse giuridicamente protetto dall’ordinamento. Il problema
dell’individuazione del danno ingiusto implica la valutazione comparativa di due interessi
contrapposti, tendenzialmente e in astratto degni di tutela: da un lato, c’è l’interesse del soggetto
agente all’esplicazione dell’attività, come strumento di efficienza economica; dall’altro c’è
l’interesse del soggetto danneggiato alla riparazione dell’interesse leso, come presidio di tutela della
sua sfera giuridica e in prospettiva della stessa personalità.
In assenza di previsione di figure tipiche di illecito, la qualificazione di illecito consegue alla
selezione degli interessi contrapposti, alla stregua della tavola dei valori dell’ordinamento. Funzione
della responsabilità è quella di trasferire il danno dalla sfera giuridica dove è stato inferto a una
diversa sfera giuridica (più spesso dell’autore del comportamento dannoso ma anche di differenti
soggetti). Perciò il giudizio di illiceità, come in generale ogni valutazione giuridica, si presenta
necessariamente storicizzato nel tempo e nello spazio, in funzione di tutela di interessi che si legano
a valori dell’ordinamento. Il giudizio di illiceità è evoluto dal fatto all’evento e conseguentemente
dalla sanzione dell’autore alla riparazione del soggetto danneggiato. In ipotesi di lesione di un
interesse meritevole di tutela, l’obbligo di riparazione sarà ricondotto ad altro soggetto, che ha
tenuto il comportamento dannoso o che si trova in una determinata situazione produttiva del danno,
secondo un criterio di colpevolezza (come previsto dalla regola generale dell’art. 2043) o alla
stregua di differenti criteri di collegamento, anche se l’interesse leso non si collega ad una figura di
diritto soggettivo.
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4 Imputabilità e colpevolezza
Affianco ai due elementi oggettivi (fatto dannoso e evento dannoso) l’art. 2043 annovera un
elemento soggettivo per la configurazione dell’illecito: la imputabilità e la colpevolezza. E’ un
sistema che tende a incentrare la responsabilità intorno al carattere sanzionatorio dell’illecito:
meccanismo che trova già nel codice civile significative eccezioni (es. la responsabilità per fatto
degli ausiliari: 2049 c.c.) e che ha ricevuto dalla legislazioni successive crescenti deroghe nella
prospettiva della riparazione dell’interesse leso.
La imputabilità, prevista dall’art. 2046 c.c., consiste nello stato di capacità di intendere e di volere
al momento del compimento del fatto dannoso, a meno che lo stato di incapacità derivi da colpa
dello stesso agente. E’ una capacità naturale o di fatto, la cui verifica è rimessa all’apprezzamento
del giudice, secondo regole di comune esperienza e di scienza operanti nel caso concreto. E’
introdotto un criterio generale di verifica dello stato soggettivo che prescinde dalla capacità legale
di agire, per favorire un meccanismo elastico che valorizza le circostanze del caso concreto. E così
anche il minore o l’interdetto in un momento di lucido intervallo sono passibili di responsabilità,
ove ritenuti in grado di comprendere, nel caso concreto, la portata dannosa del proprio
comportamento e di egualmente autodeterminarsi alla relativa esecuzione. Viceversa non sono
responsabili soggetti maggiorenni, legalmente capaci, non in grado di assumere al momento del
fatto dannoso un comportamento consapevole produttivo di danno.
In ogni caso, come si è visto, lo stato di incapacità naturale non deve derivare da colpevolezza nel
porsi in tale situazione (ad es. l’atto illecito compiuto dal soggetto ubriaco o sotto l’effetto di
stupefacenti).
La colpevolezza indica un criterio di valutazione della condotta dell’autore del danno, che
presuppone la imputabilità del fatto dannoso. Il codice civile non detta una disciplina della
colpevolezza: per le relative figure è possibile accedere alle qualificazioni contenute del codice
penale, dove la colpevolezza si articola nelle due specie del dolo e della colpa. In particolare,
disciplinandosi l’elemento psicologico del reato, si considera il delitto come “doloso o secondo
l'intenzione”, quando l'evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell'azione od omissione e da
cui la legge fa dipendere l'esistenza del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza
della propria azione od omissione (art. 40, comma 1, c.p.); mentre si considera il delitto come
“colposo o contro l'intenzione”, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si
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verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline (art. 40, comma 3, c.p.).
Il dolo si esprime dunque nella intenzionalità dell’azione rivolta all’evento dannoso, con la
consapevolezza dell’antigiuridicità del danno provocato (c.d. animus nocendi). Una ipotesi di
applicazione legislativa si rinviene nel compimento degli atti emulativi ai sensi dell’art. 833 c.c.
La colpa esprime invece una deficienza dello sforzo diligente dovuto. Si atteggia in varie forme in
ragione della concreta situazione e dell’impegno richiesto al soggetto agente. Assume la veste della
negligenza quando c’è inosservanza di regole di salvaguardia di terzi; della imprudenza, per
inosservanza di regole di prevenzione del danno; della imperizia, per inosservanza delle regole
tecniche professionali; si aggiunge infine una generale forma di negligenza per inosservanza di
leggi e regolamenti.
Con riguardo al tipo di condotta tenuta dal soggetto agente, bisogna comunque compiere una
valutazione comparativa tra la gravità del rischio della condotta e l’utilità realizzata e
correlativamente tra i costi di riduzione del rischio e il valore della utilità realizzata.
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