Barbara Cavagnero

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La crisi e i suoi tempi; i cambiamenti in atto.
Breve discorso sugli strumenti
Dott.ssa Barbara Cavagnero Sociologa Educatrice presso il Centro Diurno
Macondo del CSM di Martina Franca,
Dr. Alberto Bozzani Responsabile CSM Martina Franca Crispiano
Le teorie degli anni 50 e 60 nelle quali la crisi veniva definita come un
evento potenzialmente trasformativo (Caplan, 1964; Lindemann, 1944;
Scott, 1980) un “turbamento dello stato di equilibrio di un soggetto
legato ad un ostacolo che si frappone ad un obiettivo importante della
vita” (Caplan, 1964), trascinavano con se, attraverso le soluzioni
proposte, l’ideologia del trattamento e della prevenzione con la
conferme del mandato di controllo della psichiatria.
Ci è sembrato interessante operare una piccola ricerca etimologica per
esprimere un tentativo di definizione di crisi che si adatta meglio al
nostro modo di operare: la parola crisi ( crisis) deriva dal verbo greco
crino separare ed è dotata di diversi significati fra cui quelli di esitosoluzione (Tucitide) e di scelta ( Aristotele).
Già dal significato etimologico appare chiaro che partendo dalla rottura
di un equilibrio (anche drammatica e rapida) indica la separazione
(crino) fra un prima e un dopo temporale e quindi necessariamente di
contenuto e porta con sé il significato di scelta e successivamente di
esito e soluzione.
Questi significati etimologici pure diversi fra loro hanno in comune una
caratteristica di congiunzione fra due o più termini: stato di benessere o
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malattia, passato presente, individuo e contesto (famiglia, amici, affetti,
scuola, lavoro) e sono inestricabilmente connessi con la storia
dell’individuo. Quello che vogliamo sottolineare è il significato
profondamente relazionale della crisi. Non c’è crisi che non si determini
e che non trovi la sua espressività all’interno delle relazioni
dell’individuo. Da questo ragionamento appare chiaro che qualsiasi
intervento di crisi debba avere come focus le relazioni dell’individuo e
i luoghi e tempi in cui queste si estrinsecano. Quindi inevitabilmente
luogo principe dell’intervento diventa il domicilio delle persone. Il
luogo dove si svolgono i fatti più salienti della loro vita, dove si
intrecciano le relazioni familiari, amicali, e di vicinato, o dove al
contrario si mette in scena la solitudine e l’assenza di relazioni.
Ancora oggi molti servizi pubblici, dove non prevale l’abbandono,
sono costruiti sul modello ambulatoriale
dove vige il modello
relazionale duale improntato al rapporto medico paziente. Questo
rapporto è costruito su una profonda disuguaglianza: tutto il sapere e il
potere da una parte e tutte le mancanze anche in termini di malattia
dall’altra. Gli ambulatori così diventano luoghi di selezione, di
separazione, di esclusione sociale. Questo potrebbe sembrare fin troppo
banale se non ci ricordassimo di quello che ha significato il manicomio
in termini di esclusione relazionale e di quello che ancora oggi,
significano
i modelli basati sulla ospedalizzazione in termini di
esclusione relazionale.
In questi 20 anni abbiamo cercato viceversa di costruire un servizio che
funzionasse come moltiplicatore e facilitatore di relazioni centrato sulla
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presa in carico e la continuità terapeutica le cui caratteristiche salienti ci
sembra di poter riassumere schematicamente in una serie di punti
 Costruzione di un equipe multidisciplinare tramite anzitutto la
circolazione di saperi e la condivisione della responsabilità.
 Accessibilità, sia con la politica del libero accesso sia con la
politica dei tempi: servizi aperti almeno 12 ore per 6 giorni a
settimana.
 Non selezione e pertinenza della domanda ma tendenza a
cogestire anche problematiche di confine, mettendo in gioco
collaborazioni con altre agenzie sociali e sanitarie.
 Precocità dell’intervento, non liste d’attesa.
 Atteggiamento progettuale e non di attesa ambulatoriale.
 Prevenzione del ricovero con gestione di crisi domiciliare e
utilizzo del day hospital.
 Gestione diretta del ricovero ospedaliero con presenza dei
nostri operatori in tutte le sue fasi (ammissione, degenza,
dimissione).
Presentiamo adesso alcuni risultati del lavoro di questi anni con
riferimento ai ricoveri e alle attività
Fino ad ora ci siamo riferiti alle strategie valide per l’affrontamento della
crisi vissuta come evento rapido e drammatico definita nei testi di
psichiatria con termini quali: scompenso psicotico acuto, bouffe delirante,
episodio maniacale acuto crisi depressiva ecc ecc.
Ma se ritorniamo al significato di separazione del verbo greco di cui
parlavamo all’inizio e se pensiamo alle nostre vite e a come può essere
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lungo complicato e doloroso chiudere una fase ed aprirne un'altra,
inaugurare un nuovo equilibrio, ci rendiamo conto che i tempi della crisi
dipendono solo dal punto di vista dell’osservatore e di quanto a lungo
questi sia disposto ad accompagnare le vite delle persone.
Quali sono i luoghi d’osservazione di questi mutamenti, di queste crisi, se
non i luoghi dove la persona vive, dove la persona si confronta con il
proprio quotidiano? In quei luoghi la relazione che andiamo a tessere non
è medicalizzata ed incentrata sui sintomi o sulla terapia. ma sull’affrontare
insieme il vivere quotidiano, con i suoi problemi, resi impossibili ed
enormi dalla fragilità soggettiva del momento: la lavatrice che non si sa
usare, le pulizie domestiche, le bollette da pagare, il coniuge saturo ed
intollerante di un periodo di crisi troppo lunga, i vicini troppo attenti, il
riuscire a fare la spesa per una famiglia di 4 persone con la pensione
d’invalidità, la tentazione di restare nel letto a fumare, il doposcuola per i
figli, il fidanzato che è sparito, il topo dietro il frigo, l’olio e il sale
contaminati di continuo dai farmaci e quindi tossici, ecc ecc
Abbiamo osservato persone, uomini e donne, affrontare lunghi e terribili
periodi di scompenso della durata di anni (2- 3) così profondo da essere
accompagnato da malattie fisiche e che facevano sorgere nell’equipe
curante i fantasmi, mai morti, dell’incurabilità o dell’espulsione, il
desiderio della soluzione finale.
Abbiamo visto poi questi uomini e queste donne faticosamente risalire,
rimontare fino ad ottenere equilibri di vita probabilmente migliori di quelli
lasciati.
Su questo piano e se si vuole avere il tempo e il fiato necessari per
affrontare crisi di questa lunghezza e profondità accompagnando gli
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individui nella elaborazione di nuovi equilibri di vita, gli strumenti per la
costruzione di percorsi di rimonta devono cambiare totalmente anche se si
intrecciano inestricabilmente con quelli precedentemente discussi. Stiamo
parlando della
 capacità di accogliere affettuosamente, con il tempo che è il tempo
dell’uomo e non delle classificazioni diagnostiche, la persona in
difficoltà:
esistono
percorsi
lentissimi
che
vedono
mutamenti
apparentemente insignificanti che nei percorsi d’affetto cambiano il
modo di vedersi nel mondo (stare a tavola insieme a tutti gli altri
mangiando un piatto di legumi e fra lo scherzo e il serio commentare…
“ah se mi vedesse mia madre, io che mangiavo solo pasta al sugo…”).
 della capacità di ricostruire o costruire ex novo la speranza di relazioni
sociali autonome con gli strumenti che voi tutti conoscete (accoglienza
generica di lunga durata, feste, gite, cinema, teatro, bagni di mare
laboratori dei generi più disparati, nei luoghi della città o nei luoghi
deputati alla riabilitazione come i centri diurni.). quando questi interventi
sono abbastanza prolungati nel tempo e intensi e significativi, possono
costruirsi
spontaneamente
gruppi
autonomi
“comitive”
che
si
riappropriano dei luoghi del territorio, andando a ballare il sabato sera o
nuove coppie di giovani adulti che iniziano relazioni affettive.
 Capacità di mantenere un rapporto costante con le famiglie, attrici non
responsabili, ma decisive nella vita dell’individuo.
 capacità di lavorare sulla costruzione o ricostruzione delle reti formali e
informali attorno alle persone nei luoghi dove vivono. Il mantenimento
di queste ( commercianti, vicinato, parroci, amici ecc), anche durante le
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lunghe fasi di crisi, conserva il senso di appartenenza salvaguardando
l’identità dell’individuo ed è fonte di apprendimento per la comunità.
 capacità di favorire un lavoro sulla costruzione del sè interiore e di
identità multiple che sconfiggano l’unidimensionalità
dell’essere
malato, utente, assistito, come condanna definitiva e totalizzante. Stiamo
parlando dei gruppi di self help e delle associazioni, stiamo parlando di
opportunità concrete di vita connesse all’abitare e al lavorare: stiamo
parlando delle borse lavoro, dei tirocini, della possibilità di creare gruppi
appartamento.
(Dobbiamo rimarcare che le istituzioni pubbliche devono assumere la
responsabilità e l’onere dell’implementazione e del sostegno delle
cooperative sociali di tipo B (accantonando l’odiosa retorica dello “stare
autonomo” sul mercato) e di politiche pubbliche centrate sull’abitare).
A questo punto del nostro ragionamento viene legittima una domanda:
siamo ancora nel centro dell’azione di contrasto al disagio o ci stiamo
occupando della difesa di una nicchia, di un gruppo minoritario in via
d’estinzione?
Ci viene utile ricordare che di questo aveva già parlato Franco Basaglia
(lettera da New York, Il malato artificiale 1966), al ritorno dal suo
viaggio sabbatico in USA. In quel paese infatti l’amministrazione
Kennedy nel ’63 aveva decretato l’apertura dei centri di salute mentale;
Basaglia era interessato a quanto accadeva negli USA in quanto vi
intravedeva il nostro possibile futuro politico istituzionale e parlò in
quell’occasione di una “dilatazione del campo della malattia” con una
conseguente estensione del controllo della devianza al di fuori del
manicomio.
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Quest’operazione è oggi sotto gli occhi di tutti. Sempre più spesso il
comportamento umano viene selezionato ed organizzato in complesse
classificazioni diagnostiche che spaziano dai disturbi di personalità alla
compulsione allo shopping, ai disturbi alimentari, ai casi sotto soglia di
tutte le categorie patologiche possibili fino all’etichettamento
diagnostico di molte espressioni del disagio dei bambini (sindrome
ADHD) ed al loro riconoscimento a posteriori negli adulti.
La risposta è la delega della gestione di queste problematiche agli
specialisti con le loro relative soluzioni tecniche (vedi l’enfasi posta sui
progressi delle neuroscienze e sull’utilizzo degli psicofarmaci descritti
come dei rimedi sempre più specifici e mirati).
Emblematico è l’uso degli psicofarmaci nei bambini, che viene ormai
apertamente sconsigliato da diverse ed autorevoli agenzie internazionali
( National Istitute of Mental Healt, 23.04.2004; Lancet, 24.04.2004;
Canadian Mental Association Journal, 02.03.2004; Juredini J. N. et all
BMJ 2004).
Sembra in altre parole che la comunità, nelle società sviluppate, con
l’abbandono dei rituali secolari che la organizzavano sia pervasa da uno
smarrimento che la rende incapace in larghe fasce di affrontare con
mezzi autonomi problemi banali se pur basilari quali l’incertezza per il
futuro (sindrome da attacchi di panico), l’educazione dei figli, (ADHD,
disturbi di personalità), l’educazione alimentare (disturbi alimentari) e
sempre più richieda soluzioni tecniche.
Con questa nuova utenza sembrano in gran parte inefficaci i tradizionali
mezzi della presa in carico è quindi necessario che i servizi, evitando di
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costruire una serie infinita di piccoli ambulatori specialistici, mettano in
campo nuove strategie.
Pur non rinunciando alla presa in carico dei casi gravi quale compito
centrale del servizio e non rinunciando altresì alla presa in carico e cura
di queste persone portatrici di multiformi espressioni di disagio, ci
sembra importante lavorare sulla costruzione di politiche di salute
mentale comunitaria che tengano conto di questioni quali la
prevenzione, la promozione della salute mentale e la questione più
generale dei diritti.
Come esempio di questo sforzo citeremo il lavoro progettuale operato
insieme agli altri enti e servizi e al privato sociale nell’ambito della
progettazione legata alle legge 328 e ai relativi piani di zona. Abbiamo
riservato la maggioranza delle risorse dedicate agli adulti alle questioni
del lavoro (borse lavoro), e la questione dell’abitare (gruppi
appartamento). Per quanto riguarda i minori poi nel nostro ambito
abbiamo costruito un tavolo di progettazione interservizi che, tramite
riunioni periodiche fra tutti i servizi che a vario titolo si occupano di
minori (servizi sociali del comune, csm, sert, utr, servizio di
integrazione scolastica, tribunale dei minori), ha avuto quale obbiettivo
quello di siglare un protocollo d’intesa che si occupasse di individuare
una porta unica di accesso per la domanda e la costituzione di mini
equipe interservizi su progetto che fossero in grado di cogestire le
situazioni problematiche. Questo lavoro è stato precursore dei contenuti
della legge 328 ed è sfociato nella formulazione di una serie di progetti
all’interno dei piani di zona.
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I progetti vanno dalla attività d’informazione, sensibilizzazione,
prevenzione di situazioni di abuso e maltrattamento dei minori alla
assistenza educativa domiciliare alla mediazione in ambito scolastico.
Gli interventi, saranno coordinati dal gruppo interservizi. Saranno
erogati da operatori provenienti dal privato sociale, avendo come
luoghi, quelli della comunità.
Le finalità saranno: la formazione di base con finalità di prevenzione
generale, rivolta a operatori dell’area sanitaria, socio assistenziale
pedagogica e socioeducativa. La gestione diretta del disagio in ambito
scolastico (mediazione scolastica) o familiare (assistenza educativa
familiare) per minori in condizioni di rischio evolutivo per
l’appartenenza a nuclei familiari multiproblematici.
Le direttrici che informano questi progetti sono, come risulta chiaro, la
domiciliarità intesa come intervento nei luoghi di lavoro e di vita delle
persone e il tentativo di non medicalizzare il disagio e il sostegno a
gruppi significativi della comunità, innanzitutto alle famiglie.
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