La terapia cognitivo-comportamentale per il Disturbo di Personalità

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Psicologia & Giustizia
Anno XVII, numero 1
Gennaio – giugno 2016
LA TERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE PER IL DISTURBO DI
PERSONALITA’ ANTISOCIALE.
UNA BREVE REVIEW DELLE TEORIE E DELLE EVIDENZE.
G.P. Mazzoni1, C. La Mela2
Questa breve review analizza e riassume alcuni lavori sull’efficacia di diverse modalità di
trattamenti cognitivo-comportamentali per individui con caratteristiche di personalità antisociali.
Attualmente, l'enfasi è sulla individuazione precoce e la prevenzione di comportamenti antisociali.
Sono necessarie ulteriori ricerche per supportare l’efficacia di queste modalità di trattamento.
This brief review examines and summarizes some work on the effectiveness of different methods of
cognitive behavioral treatments for individuals with antisocial personality traits. Currently, the
emphasis is on early detection and prevention of anti-social behavior. Further research is needed to
support the effectiveness of these treatment modalities
Pochi trattamenti sono stati testati per il Disturbo di Personalità Antisociale (di seguito ASPD) e per
la psicopatia, tra questi sono presenti ricerche su soggetti singoli e pochissimi lavori che
comprendono trial controllati con partecipanti randomizzati all’interno di gruppi sperimentali, che
vedono la presenza di gruppi di controllo (Gannon, et al., 2015). Si reperiscono inoltre per lo più
lavori sul trattamento di comportamenti di soggetti antisociali, giudicati colpevoli di reati. Una
review del 2010 sui trattamenti psicologici per l’ASPD, ha trovato undici studi in totale, che
rispondono a criteri statistici (Gibbon, Duggan, Stoffer, Huband et al, 2010); tuttavia soltanto
pochissimi possono essere considerati dagli autori come specifici per l’ASPD (Gannon et al., 2015;
Davidson, Tyrer, Tata, Cook et al. 2009). Questi lavori infatti approfondiscono il trattamento di una
serie di condizioni associate a questo quadro clinico, che includono l’abuso di sostanze e di alcol,
episodi di rabbia e di violenza, e la messa in atto di comportamenti criminali. Inoltre alcuni di questi
studi analizzano trattamenti diversi come la terapia basata sulla mentalizzazione o interventi di sola
gestione del caso, e solo alcuni di questi sembrano ispirarsi ad un modello di Terapia Cognitivo1
Psicologo e Psicoterapeuta, Co-responsabile Unita di Psicoterapia per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Casa di Cura Poggio Sereno, Firenze Didatta Scuola Cognitiva Firenze, Gruppo “Studi Cognitivi
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Psichiatra e Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva Firenze (SCF), Gruppo “Studi Cognitivi
Comportamentale (CBT) (Gibbon, Duggan, Stoffer, Huband et al, 2010). La stragrande
maggioranza dei lavori, presenti in letteratura, sembra inoltre centrare il focus dell’intervento sulla
riduzione del rischio relativa agli atti criminali e ai comportamenti di abuso di sostanze (Cullen et
al., 2012). Davidson et al. (2009) a dodici mesi di follow-up riportano una riduzione dei
comportamenti aggressivi (di tipo verbale e non) nel gruppo trattato con la CBT (intervento che ha
mostrato promettenti effetti nel trattamento di altre forme di disturbi di personalità), e in quello di
trattamento usuale (TAU); tuttavia, in questo lavoro, la CBT emergerebbe come scarsamente
efficace nel migliorare in questi soggetti il funzionamento sociale e le credenze in relazione agli
altri. Sia il medesimo lavoro, sia quello pubblicato dal gruppo di Merlowe sembrano riportare la
scarsità di efficacia del trattamento cognitivo-comportamentale (raffrontato al TAU) nel ridurre i
comportamenti di addiction in soggetti con ASPD, rispetto ai comuni abusatori di sostanze, tuttavia
non tutti i lavori confermano questa negativa prognosi. Anche Messina et al. (2003) riportano nel
loro lavoro un dato di ricerca non confortante: l’efficacia del trattamento di disintossicazione nei
soggetti antisociali sarebbe principalmente attribuibile all’intervento di gestione delle contingenze
(CM), rispetto alla CBT. E’ da sottolineare, tuttavia, un ulteriore aspetto: questo ultimo lavoro
sembrerebbe contraddire e differire da una moltitudine di studi recenti (Marlowe, et al., 2007),
nell’indicare l’ASPD come un predittore non negativo della responsività al trattamento di individui
in comorbidità con altri quadri clinici. Tuttavia negli ultimi 25 anni sono stati pubblicati un numero
di lavori che suggeriscono che gli interventi basati sulla CBT possono avere anche su pazienti con
“comportamenti antisociali” risultati positivi (Armalius, Andreassen, 2009). Sono stati pubblicati i
risultati di un noto programma di CBT (Timmerman, & Emmelkamp, 2005) condotto in un centro
carcerario olandese. La maggior parte dei detenuti reclutati soddisfaceva i criteri per l’ASPD ed
alcuni per la psicopatia e i membri dello studio avevano tutti ricevuto un training di formazione
specifico per questo tipo di intervento. I risultati di questo lavoro come di successivi (Cullen et al.,
2012) suggeriscono l’efficacia statisticamente significativa di un trattamento ospedaliero della
durata di circa due anni e mezzo, intramurale, nel migliorare le skills coping, il benessere
individuale e il funzionamento interpersonale di detenuti con disturbi di personalità antisociale
(Timmerman, et al., 2005). Si osservava inoltre un miglioramento di tipo sintomatico (misurati con
scale di ansia, depressone e dissociazione) ed una modifica di aspetti relazionali: i detenuti si
dimostravano meno concentrati sui loro bisogni, manifestando maggior interesse per gli altri. Il
positivo impatto della terapia CBT, sulla psicopatia viene valutato nella meta-analisi di Salekin
(2002): questo lavoro analizza 42 studi internazionali di interventi psicologici, condotti dal 1940 al
1990 per individui classificati come psicopatici (sfortunatamente gli studi utilizzano differenti
criteri per la diagnosi di psicopatia: quali il costrutto di Cleckley, Hare, Craft, Partridge ed altri
ancora). I pazienti reperiti vengono sottoposti ad un intervento di terapia di gruppo e comparati con
gruppi di controllo. Complessivamente in questa review emergerebbe un miglioramento
complessivo dei soggetti attribuito ad interventi cognitivo-comportamentali che varia tra il 25% e il
62%, escludendo i soggetti che non hanno portato a termine gli interventi. Da una moltitudine di
studi tuttavia emerge il dato che soggetti con livelli di psicopatia sembrano beneficiare del
trattamento in maniera minore rispetto ai pazienti non psicopatici. Nel complesso, al momento non
è possibile formulare alcuna conclusione definitiva circa l’esito della terapia per soggetti
psicopatici. Non da ultimo, sono da annoverare all’interno dell’ambito di ricerca dello “spettro
antisociale” una moltitudine di indagini che hanno utilizzato come categoria privilegiata per
l’osservazione quella dei “sex offender” diagnosticati come psicopatici, studiando le relazioni tra
questa sottocategoria di soggetti, la terapia di tipo comportamentale e la recidiva. In presenza di
buoni indici comportamentali per gli interventi, (quali alti livelli di attenzione durante le sessioni di
lavoro, buon livello di partecipazione al lavoro di gruppo, interazioni positive tra i vari membri,
aderenza e qualità negli homework assegnati), emergerebbe un più alto livello di recidiva nei reati,
se raffrontati con i gruppi di controllo. Lavori diversi (Barbaree, 2005; Marques, Nelson, West, et
Day, 1994) fortunatamente non confermano tali pessimistici e sconfortanti esiti. Complessivamente
tuttavia, la stragrande maggioranza delle pubblicazioni (Barbaree, 2005) conferma, che la presenza
di diagnosi di psicopatia (diagnosticata utilizzando la Psychopathy Checklist-Revised (PCL-R) è
correlata con più alti livelli di recidiva dei comportamenti criminali. Barbaree (2005) riporta
all’interno di un suo lavoro su detenuti per reati sessuali, ad un follow up fino a sei anni, una
percentuale di recidiva di “reato generico” (comprendenti generiche offese) del 42%, mentre
relativamente a nuovi reati di tipo violento (di tipo sessuale o no) del 24%. Nonostante ciò, da
molti clinici la CBT è considerata come un modello terapeutico efficace su individui detenuti e
criminali psicopatici. Alla luce dell’importanza riscontrata in buona parte della letteratura circa
l’intervento in età precoce sui comportamenti antisociali, come prevenzione ad una “carriera
antisociale”, molti gruppi di ricerca sembrano indagare tale aspetto. Armelius (2009) in questo
recente lavoro illustra gli effetti della CBT nel ridurre la recidiva di comportamenti criminali, in
adolescenti all’interno di strutture residenziali. La review include dodici lavori con gruppo di
controllo, che vedono tutti la presenza di partecipanti misti per sesso (8 lavori solo su soggetti di
sesso maschile) di età compresa tra i 12 e i 21 anni, (con una età media di 15-16), condotti in tre
paesi: USA, Canada e Gran Bretagna tra il 1973 e il 2005. I risultati sembrano incerti e
suggeriscono che l’intervento CBT sarebbe più efficace del trattamento standard nel ridurre i
comportamenti criminali ai follow up di 12 ma non a 6 e 24 mesi. Tuttavia dal presente lavoro non
emergono evidenze circa la superiorità della CBT, rispetto a trattamenti alternativi attualmente in
uso, suggerendo che anche altri tipi di terapie potrebbero produrre simili risultati (Armelius, 2009).
Gli autori (Armelius et al. 2009) affermano, tuttavia, che sono al momento pochi i trattamenti
presenti in letteratura per permettere conclusioni circa possibili alternative alla CBT. Le ricerche
comprendono soggetti prevalentemente di sesso maschile, raramente il campione è misto, quasi
inesistenti gruppi di sole donne, prevalentemente di età adulta, con lavori che si estendono all’età
adolescenziale, tra i 15-18 anni. I gruppi etnici sono per lo più misti e i sottogruppi di origine non
sono ben identificati, tuttavia, tra questi prevale la tipologia caucasica. Gli studi escludono per lo
più partecipanti che presentano in comorbidità al disturbo di personalità, disturbi mentali maggiori
(es. schizofrenia, disturbo schizoaffettivo e disturbo dipolare) e ritardi cognitivi (Gibbon, Duggan,
Stoffers, Huband, et al., 2010). I lavori pubblicati includono individui che vivono liberi all’interno
della comunità, o soggetti detenuti all’interno di Istituti penitenziari, come pazienti degenti in
Strutture sanitarie. Gli interventi psicologici sono prevalentemente di gruppo o misti, più raramente
di tipo individuale. La durata è di circa un anno, con un range che va indicativamente da minimo di
2-3 mesi, fino ad un massimo di circa 30 mesi, con un numero di poche ore di terapia la settimana
(circa 2 ore di media per sessione). Scarseggiano, tuttavia, informazioni relative il rapporto tra
l’intensità e la lunghezza dei trattamenti e i risultati di maggior o minore efficacia ottenuti sia alla
fine dell’intervento, che a distanza di tempo (Armelius, Andereassen, 2009). Il trattamento
dell’ASPD e della psicopatia al momento sembra essere contornato da
un atteggiamento
abbastanza pessimistico. Molti lavori evidenziano infatti la presenza di dimensioni psicologiche di
personalità antisociale come un importante predittore negativo negli interventi clinici (Larochelle,
Diguer, Laverdière, et al., 2010). I programmi di terapia prevedono per lo più uno strutturato
programma manualizzato step by step per migliorare la gestione dei soggetti antisociali nel loro
funzionamento psicosociale. Il trattamento indicativamente proposto è basato su una varietà ed una
moltitudine di interventi di tipo cognitivo e comportamentale quali:
a) ristrutturazione dei pensieri irrazionali e delle credenze centrali, basati sul modello cognitivo
della psicopatologia di Beck (1976) ed di Beck e Freeman (1990);
b) la modifica del comportamento mediante tecniche di token economy (quali rinforzo, shaping,
modeling, time out sul modello di Skinner;
c) acquisizione di abilità di coping e di skills sociali (Culle net al., 2012), poiché secondo autori
come Sperry (2004) soggetti ASPD presenterebbero deficit di abilità e necessiterebbero di interventi
di potenziamento delle loro abilità;
d) miglioramento della consapevolezza sociale e di se stessi, mediante la riduzione dei
comportamenti oppositivi e l’acquisizione di comportamenti pro sociali;
e) il miglioramento della consapevolezza sociale e la fiducia in se stessi;
f) la gestione di risposte allo stress quali ansia e aggressività;
g) la modulazione di stati quali la distruttività, l’aggressività, l’ostilità e la rabbia;
h) miglioramento del benessere globale;
i) padroneggiamene delle abilità di relapse-prevation;
l) training di rilassamento;
m) gestione di aspetti di psicosociale nella vita dei pazienti.
Inoltre è possibile annoverare la presenza in letteratura di interventi (Davidson, et al., 1996) che
inspirano i loro principi di terapia alla schema focus therapy di Young (Chakhssi, et al., 2014) e alla
Terapia Dialettico Comportamentale. Questo ultimo approccio terapeutico, concepito per pazienti
Borderline trattati all’interno di contesti clinici, è stata più recentemente applicata anche a soggetti
colpevoli di reati contro la legge (Quinn, & Shera, 2009). Nel complesso, le misure di efficacia del
trattamento sembrano concentrarsi nella gran parte dei lavori pubblicati su indici di tipo
comportamentale (es. percentuale di recidiva nei reati e numerosità di drop-out), sintomatologici
(es. livello di aggressività, rabbia ed impulsività) o di tipo globale (es. qualità della vita e
funzionamento sociale), a scapito di misure di outcome, relative alla modifica dei tratti di
personalità, e del funzionamento cognitivo dei soggetti quali schemi, credenze e bias cognitivi
disfunzionali (Chakhssi et al., 2014). La verifica nel cambiamento dei partecipanti reperiti nei lavori
di ricerca, sembra essere scarsamente focalizzata sulla modifica degli aspetti cognitivi a vantaggio
di pattern comportamentali (es. presenza o no di lavoro stabile, misura nell’abuso di sostanze). Il
monitoraggio degli outcomes, quando presente si colloca prevalentemente a 3, 6 o 12, più raramente
a 24 mesi dalla fine dell’ intervento.
Complessivamente al momento non sembra possibile pervenire ad un risultato certo circa l’efficacia
nel trattamento CBT per soggetti all’interno dello “spettro antisociale”. Tuttavia, con tutti i limiti
annoverati nel presente lavoro, i più studiati approcci al trattamento del “comportamento
antisociale” nelle sue varie forme sembrano essere una o più variazioni della Terapia CognitivoComportamentale (Gannon, et al., 2015)
Inoltre gli scarsi lavori sulle tipicità cognitive, quali le modalità di elaborazione di informazioni e di
significati in soggetti antisociali (Mancini et al., 2008; Dodge, & Pettit, 2003), non sembrano però
per lo più legarsi all’intervento, che appare caratterizzarsi come un protocollo, standardizzato, poco
specifico e modicamente personalizzato, finalizzato alla modifica di aspetti compresenti all’interno
di
questo quadro clinico, ma scarsamente concentrato sulla comprensione e sulla
concettualizzazione dei soggetti nella loro più ampia organizzazione di funzionamento emotivo e
cognitivo.
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