1 Un altro modo di pensare il tempo: Nietzsche e l`eterno ritorno dell

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Un altro modo di pensare il tempo: Nietzsche e l’eterno ritorno
dell’uguale.
Interrogarsi sul tempo non significa necessariamente cercare di darne una
definizione. Non si tratta infatti di de-finire, cioè di porre fine alle nostre
domande fissando il tempo in una formula, come nella formula platonica “il
tempo è l’immagine mobile dell’eternità”. Si tratta invece di interrogarsi
sulla forma del tempo, sul modo del suo movimento, anche proprio sulla sua
forma geometrica: chiedersi se esso, nel suo sviluppo dinamico, si comporti
come una linea o un cerchio, o qualcosa d’altro.
Lo scopo è quello di comporre un discorso inattuale sulla temporalità, in
linea con le “Considerazioni inattuali” di Nietzsche, composizione degli
anni settanta dell’ottocento (nel progetto dovevano essere 12, anche se poi
ne furono realizzate solo 4) chiamate così per la loro tendenza ad agire
contro le idee e i miti della contemporaneità del suo autore. Le inattuali,
nelle intenzioni di Nietzsche, dovevano agire contro il tempo presente e a
favore di un tempo a venire. Perché i temi toccati, pur essendo argomenti
classici della cultura e della filosofia, vengono affrontati secondo
prospettive e punti di vista che in pochi, in pochissimi, tra gli intellettuali
contemporanei di Nietzsche, si sarebbero presi il disturbo di condividere o
anche solo di prendere in considerazione.
La memoria
Cominciamo dal tema della memoria e occupiamoci della seconda inattuale,
intitolata “Sull’utilità e il danno della storia per la vita”. In questa il giovane
Nietzsche, filologo non ancora trentenne, si permette di mettere sul banco
degli imputati la storia, la cultura storiografia, lo storicismo.
La domanda da cui parte la sua invettiva è semplice, eppure già il porla fa
vacillare tutto l’edificio su cui si basa la nostra cultura: la storia, è utile o
dannosa? Con questa domanda Nietzsche si chiede se la storia merita di
essere perseguita, studiata, se merita di essere un punto di riferimento in
base al quale impostare l’esistenza e l’educazione umana.
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Ma utile o dannosa a che cosa? Alla cultura umanistica nella sua totalità,
alla politica, al singolo individuo, alla ricerca scientifica?
No, la domanda di Nietzsche è: la storia, è utile o dannosa… alla vita?
E la risposta è altrettanto semplice, ma, appunto, inattuale:
certamente la storia può avere una certa utitilità: se serve ad alimentare il
presente, a vivificare le nostre vite, a energizzare il presente attraverso la
memoria di ciò che è stato. Ma per fare questo deve anche sopportare di
essere trasformata, trasfigurata, manipolata: deve essere considerata più
come un’opera d’arte che come una ricerca obiettiva della verità. Bisogna
operare una scelta: non la storia a ogni costo, ma quella particolare
prospettiva storica che serve a energizzare un popolo o un singolo
individuo. Solo così può essere utile. Non semplicemente come scienza, ma
piuttosto come arte.
Il pericolo infatti è quello di cadere nell’eccesso di storia, perché troppa
conoscenza uccide l’azione. Troppo passato, troppa attenzione a ciò che è
accaduto ieri, schiaccia il presente, pesa sui cuori e sulla testa degli uomini
impedendo l’azione, la libertà, la manifestazione del coraggio.
Il nozionismo storico, così come il nozionismo della cultura in generale,
così come la cultura stessa, è messa da Nietzsche sul banco degli imputati.
Sapere non è un bene sempre e comunque: può essere negativo per la vita,
dannoso per il nostro vivere, per la salute del nostro corpo. Secondo
Nietzsche l’uomo oggi appare misteriosamente isterilito e vuoto. La causa è
che la cultura si è staccata dai bisogni reali, non è più legata alla vita, e si è
trasformata in “indigeribili pietre del sapere, che rumoreggiano nello
stomaco senza generare niente, nemmeno una ricchezza interiore”. Queste
pietre del sapere, questi quanti di conoscenza, appena mandati a memoria,
devono essere messi da parte, e sostituiti da altri quanti di sapere. E così via
all’infinito. Tutto ciò che impariamo, o per meglio dire che ingurgitiamo,
non produce nulla nel nostro organismo, non ha conseguenze sulle nostre
vite e sulle nostre convinzioni di fondo.
Siamo o non siamo d’accordo? La situazione che Nietzsche denuncia è
quella dell’intero occidente: l’occidente, possiamo vederlo come un enorme,
insaziabile stomaco, che crede di poter mangiare tutto e digerire tutto quello
che mangia. E mangia tutto: ingoia ogni cibo nell’illusione di riuscire a
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capire ogni cosa a cui si applica, di poter disporre di qualsiasi conoscenza,
civiltà, storia, costume, meditazione. Non c’è niente che non possa
ingurgitare: le civiltà dei secoli passati, tutta la sterminata antichità del
genere umano, così come ogni altra cultura della terra: l’India, la Cina,
l’Australia, le tribù amazzoniche. Noi crediamo di avere la chiave per
capire, e anche ovviamente per giudicare, ogni altro modo di stare al mondo,
ogni altra civiltà, fede, qualsiasi idea sul mondo e sull’uomo. Ovviamente, il
tutto sempre dal nostro punto di vista, che è quello dominante, quello che ha
ragione. L’occidente è un enorme stomaco che inghiotte ogni cosa, che ha
inghiottito ogni cosa, l’unico problema è che così facendo si è bruciato la
lingua, e non sente più il sapore di niente. È questo che Nietzsche condanna
della cultura odierna.
Tornando al tema specifico della storia, qual è l’antidoto che Nietzsche
propone, il modo per rendere la storia meno dannosa, per evitare che un
eccesso di storia limiti l’agire dell’uomo? la risposta è semplice: l’oblio. Noi
dobbiamo imparare a dimenticare. Dobbiamo coltivare l’oblio.
Nietzsche afferma infatti che “chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo,
dimenticando tutto il passato, chi non sa stare su un punto senza vertigini e
paura, come una dea della vittoria, non saprà mai che cos’è felicità”.
Dunque, di questo scritto, due sono i punti che ci interessano. Primo,
Nietzsche si permette di mettere sul banco degli imputati ciò che ci fonda e
ci definisce come occidentali.
La nostra cultura storica, di cui andiamo fieri, e tutta la cultura in generale,
cioè il fiore all’occhiello dell’occidente, ciò che ha portato nel suo sviluppo
dalle lettere alla scienza, alla tecnica, al nostro dominio sul mondo.
Ebbene, la storia può essere contraria alla vita, rischia di ucciderla.
È possibile? ci convince? Ci abbiamo mai pensato?
Secondo: per Nietzsche l’oblio è un valore. Oblio è anche ignoranza. Come
è possibile che l’ignoranza sia posta come qualcosa di buono? Come
qualcosa da coltivare?
Ecco perché appunto si chiamano considerazioni inattuali. Perché sono fuori
luogo rispetto alla cultura dominante. Ai pensieri consueti e alle nostre
certezze.
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Nessuno oggi si chiede se la storia sia utile o dannosa per la vita. Magari se
sia utile o inutile, questo in molti se lo chiedono, ma non utile o dannosa.
Nietzsche se lo chiedeva, sapendo di essere una voce fuori dal coro.
Platonismo rovesciato.
Nietzsche esprime molto presto il centro della sua filosofia, abbastanza
presto per un filosofo, già negli anni 70 –71, a ventisette anni:
“la mia filosofia, platonismo rovesciato: quanto più è lontano dal vero ente,
tanto più è puro, bello e migliore. La vita nella parvenza come fine”.
Platonismo, dice Nietzsche, non Platone. Questo è già un punto importante.
Anche Heidegger sottolinea quanto fosse profonda la conoscenza di Platone
da parte di Nietzsce, che conosceva troppo bene il filosofo di Atene per fare
l’errore di identificarlo con il platonismo. Platone non è quello che studiamo
nei manuali, l’inventore del mondo delle idee e delle essenze. È un filosofo
che si pone domande rispetto a una nuova visione del mondo che vede
profilarsi all’orizzonte del proprio pensiero, di un pensiero che tra l’altro
cambierà il mondo. La filosofia è infatti in origine una macchina da guerra,
non un dibattito da terza pagina dei giornali, come è ridotta oggi.
Secondo il platonismo, il mondo sensibile è apparenza, il luogo della
menzogna, dei sensi che ci ingannano. Questo mondo qui dove noi ci
affanniamo, non è il luogo della verità, ma delle copie del vero. E infatti per
sussistere il nostro mondo ha bisogno di un fondamento, di un altro mondo
che sta da un’altra parte: l’iperuranio, l’aldilà. In questo altro mondo stanno
le idee, le essenze, le matrici che poi ritroviamo come copie quaggiù,
nell’imperfezione e nell’approssimazione della nostra terra polverosa.
Questa scrivania, queste sedie, sono solo copie, ma l’originale sta da
un’altra parte, in un ultrasensibile abitato da essenze e concetti.
Questo è il gioco del platonismo: il mondo dei sensi, sta in piedi grazie al
mondo delle verità, al mondo dell’aldilà, popolato di idee.
Anche l’arte rientra in queso gioco. Un quadro che raffigura, per esempio
delle scarpe, come il quadro di Van Gogh che ritrae delle scarpe sporche e
usurate, forse di una contadina, o forse proprio le sue, ridotte così dal suo
continuo camminare per le strade di Arle, è copia di una copia. Distante dal
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vero due gradini. Il quadro è copia delle scarpe sensibili che sono copia
delle scarpe nel mondo delle idee. Distante due passi dalla verità.
Quindi l’arte, per il platonismo, è dannosa per la vita. Platone la condanna e
la relega a uno degli ultimi posti nell’educazione delle giovani generazioni
nella sua Repubblica. E stiamo parlando dell’arte del mondo greco, cioè
dell’arte più copiata, più lodata e per molti versi ritenuta irraggiungibile.
Architettura, scultura, letteratura, pensate solo alla tragedia attica, a Eschilo
e Sofocle, se non a Omero. Stiamo parlando dell’eccellenza dell’espressione
artistica di tutti i tempi. Qui allora anche Platone, nel 300 a.c., interpretando
l’arte come qualcosa che mente e che si distacca dalla verità, scrive le sue
considerazioni inattuali, come Nietzsche farà 2000 anni più tardi. Nietzsche,
l’anti-platonico per eccellenza, compie un gesto rivoluzionario analogo a
quello che già compì Platone.
Rovesciare infatti, per Nietzsche, non significa semplicemente intendere che
se per il platonismo il mondo dei sensi è falso, per Nietzsche sarà proprio
questo mondo qui quello vero. Le cose non sono mai, nei grandi filosofi,
così superficiali.
Tempo.
E adesso finalmente possiamo affrontare il tema principale. Il tempo.
Umberto Galimberti è un filosofo di chiara ispirazione nicciana. Egli
sostiene che tutto è cristianesimo nell’occidente. Qualsiasi espressione
culturale, artistica, scientifica ha in comune con il cristianesimo la stessa
struttura portante, cioè la stessa architettura, gli stessi valori di riferimento.
È un’affermazione molto forte che andrebbe sviscerata e spiegata in tutti i
suoi ambiti. Pensiamo solo al fatto che qui Galimberti sta dicendo che la
scienza ricalca i valori del cristianesimo. Il che a prima vista può apparire
strano.
Ovviamente noi adesso prendiamo questa affermazione nella sua prospettiva
temporale. Cioè a livello di determinazione e configurazione del tempo.
Allora possiamo dire che tutto quello che abbiamo creato in occidente
condivide con il cristianesimo la stessa interpretazione della temporalità.
Per il cristianesimo il passato è peccato, il presente redenzione, il futuro
felicità eterna, paradiso, premio.
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Il tempo è scandito da una linea retta: peccato-redenzione-felicità. Ieri colpa,
oggi sofferenza e lavoro per redimerci, e domani felicità… eterna.
E per la scienza? La scienza è stata per secoli avversaria della religione:
pensiamo alla condanna per eresia di Galileo, a Bruno bruciato vivo in
campo dei fiori.
La religione ha combattuto la scienza con tutti i mezzi
Eppure, cosa condividono scienza e cristianesimo?
Per la scienza il passato è ingnoranza, che per un uomo di sapere equivale al
peccato, pensiamo a Socrate che dice che una vita senza conoscenza non
vale la pena di essere vissuta; il presente è ricerca, il futuro verità.
La stessa linea retta del cristianesimo la ritroviamo anche nella scienza,
nonostante il forte scontro tra le due, che sembrano andare in direzioni
opposte: la fede da una parte e la verità razionale dall’altra.
Ieri ignoranza, oggi ricerca per sanare l’ignoranza, domani la verità
sull’universo o le verità sull’universo. E la verità, attenzione, sarà verità
eterna sul mondo.
Anche se oggi gli scienziati devono fare i modesti e approntare discorsi
relativistici sulla verità, la questione è come ce la dice Popper: lo scienziato
crede che stiamo salendo sulla cima della montagna, quando ci arriveremo
scopriremo la verità. Adesso la cima è coperta dalla nebbia, ma la ricerca la
farà svanire.
Forse che la teo-logia non è altro che una teo-logica? Cioè la logica delle
nostre categorie filosofiche e matematiche applicate al divino?
Andiamo avanti. Per il marxismo il passato è ingiustizia, il presente
rivoluzione, il futuro comunismo, quindi ritorno alla giustizia, redenzione
della situazione di ingiustizia.
Anche il marxismo, che afferma che la religione è l’oppio dei popoli, e che
occorre una politica scientifica per uscire dalla preistoria dell’umanità,
intendendo per preistoria proprio la nostra storia caratterizzata dal sistema
capitalistico, condivide la linea retta del cristianesimo.
Infine, per la psicanalisi il passato è trauma o nevrosi, il presente analisi, il
futuro salute.
E anche qui, ormai la riconosciamo, ritroviamo la stessa linea redentiva.
E allora? di cosa stiamo parlando?
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Teniamo sempre presente la seconda considerazione inattuale di Nietzsche e
la domanda che egli pone: la storia è utile o dannosa alla vita?
Il punto è che per il cristianesimo la vita non è qui, non è ora, hic et nunc,
ma laggiù, in un futuro fatto di salvezza ed eternità.
Allo stesso modo per la scienza la verità non è qui e adesso, ma domani,
quando tutta la verità del mondo sarà svelata. E se anche questo sogno non
dovesse realizzarsi, il progresso scientifico continuerà all’infinito,
scoprendo sempre nuove verità. Cioè, scoprendo sempre di nuovo la stessa
verità declinata nelle sue forme infinite. E la verità non sarà, appunto, mai
qui e mai ora, ma sempre postulata a domani, cioè in un aldilà
irraggiungibile.
Per il comunismo, inteso come u-topia politica, u-topia come a-topos, non
luogo, luogo che qui non c’è ma per il quale bisogna combattere proprio nel
nostro presente. Ma il presente del capitalismo e della lotta di classe non ha
senso se non per il là del comunismo realizzato.
L’occidente, in tutte le sue creazoni, pensa il presente, l’adesso, solo per il
passato che lo ha ipotecato e per il futuro come effetto di redenzione.
Il presente non esiste autonomamente, non sta in piedi da solo, ma sempre
per ciò che deve accadere domani in relazione a ciò che è accaduto ieri.
È qui che si inserisce il lavoro spietato di Nietzsche: egli non è un filosofo
che vuole imporre la sua filosofia contro altre filosofie, la sua lotta non si
limita a una dialettica tra concezioni diverse rispetto all’ente, ma ha la forma
di una critica contro tutta la cultura.
E infatti si scaglia contro il cristianesimo, la scienza, la politica, contro tutta
la cultura, perché tutta la cultura condivide le stesse strutture temporali che
annientano il presente.
È da questa prospettiva che emerge la concezione del tempo in N, è qui che
si trova la genesi del pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale.
Aforisma n. 341 della Gaia Scienza.
“Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo
nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: “questa vita, come tu ora
la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli
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volte, e non ci sarà mai in essa niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni
piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni cosa indicibilmente piccola e
grande della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e
successione”.
Questo è l’eterno ritorno dell’uguale. La vita non è più una linea retta che
rimanda sempre a un domani per la sua realizzazione, ma è un’interminabile
ripetizione di se stessa. Una ininterrotta e identica ripetizione di quello che
abbiamo vissuto così come lo abbiamo vissuto, di quello che stiamo
vivendo, di quello che vivremo.
Questo aforisma ha un titolo: il peso più grande. Il peso più grande è quello
che ci schiaccia, perché impossibile da sopportare. Infatti, prosegue
Nietzsche, al sentire una tale ipotesi, “non ti rovesceresti a terra,
digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure
hai forse vissuto una volta un attimo immane, in cui questa sarebbe la tua
risposta: “tu sei un dio e mai intesi cosa più divina!?””.
Il peso infatti, oltre a schiacciarci e trascinarci in basso, verso l’abisso, è
anche qualcosa che permette di ancorarci, di installarci con decisione, di
insediarci. L’àncora tiene ferma la nave. Ma insediarci dove? A questa
domanda a questo punto dovremo sapere rispondere: nella vita, ovviamente,
nel presente della vita.
Nietzsche conclude l’aforisma così “se quel pensiero ti prendesse in suo
potere, la domanda che ti porresti sarebbe: “vuoi tu questo ancora una volta
e ancora innumerevoli volte?” quanto dovresti amare te stesso e la vita, per
non desiderare più alcun’altra cosa che quest’ultima eterna sanzione, questo
suggello?”
Kundera.
Prima di concludere lasciamo un momento dal parte la filosofia e
occupiamoci di letteratura.
Facciamo una breve incursione nel romanzo di Milan Kundera
“L’insostenibile leggerezza dell’essere”.
In questo romanzo l’autore sostiene che l’idea dell’eterno ritorno è
misteriosa e che con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo.
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Si chiede perché Nietzsche abbia ipotizzato che un giorno ogni cosa si
ripeterà così come l’abbiamo vissuta, e che anche questa ripetizione debba
ripetersi all’infinito.
Cosa significa questo folle mito?
Per capirci qualcosa lo rovescia, esamina la questione dell’eterno ritorno
per negazione.
In opposizione a un’ipotesi di ripetizione infinita delle nostre vite, Kundera
ipotizza una vita che accade una sola volta, e poi sparisce. In questo caso, la
conseguenza è che proprio la vita, questa cosa per noi massimamente
importante, viene privata di ogni senso, di ogni peso. Diventa un’ombra. È
morta già in precedenza ed è come se non fosse mai stata.
Ricordiamoci che Nietzsche sostiene che il pensiero dell’eterno ritorno è il
peso più grande, mentre qui Kundera afferma che la vita che accade una sola
volta è la cosa più leggera: per quanto le nostre vite possano essere terribili,
belle, complicate; questo terrore, questo splendore e questa complicazione
non significano nulla.
E a questo punto inserisce degli esempi per farci capire che cosa intende.
Di una vita così intesa non occorre tener conto, come di una guerra fra due
stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla
faccia della terra, benché trecentomila neri vi abbiano trovato la morte tra
torture indicibili.
Nello stesso senso, dice, se i francesi fossero convinti che la rivoluzione del
1789 dovesse ripetersi all’infinito, il loro giudizio su Robespierre sarebbe
molto diverso, e gli storici giudicherebbero diversamente un Robespierre
che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi. Ma visto che siamo tutti
convinti che questo evento non si ripeterà, la sete di sangue di Robespierre,
il suo aver decapitato centinaia di francesi, determina giudizi molto più
blandi e leggeri.
Al contrario, l’idea dell’eterno ritorno elimina dal nostro giudizio sulla
storia la circostanza attenuante della fugacità, perché se ogni secondo delle
nostre vite si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all’eternità
come cristo sulla croce. È un’idea terribile. Su ogni gesto grava il peso di
una insostenibile responsabilità.
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Se all’opposto la vita accade una volta sola, siamo nell’ambito di una
meravigliosa leggerezza.
Epperò, il romanzo di Kundera, che dovrebbe essere un elogio della vita che
accade una volta e sparisce, non si intitola la meravigliosa leggerezza
dell’essere, ma l’insostenibile leggerezza dell’essere.
Il fardello più pesante, infatti, ci opprime e ci piega, ma nella poesia di tutti i
tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il
fardello più pesante è allo stesso tempo l’immagine del più intenso
compimento vitale.
Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più
leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, diventi
solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di
significato.
L’insostenibile peso dell’essere che si ripete infinite volte, ma anche
l’insostenibile leggerezza dell’essere che accade una volta e sparisce.
Sembra che siamo in un vicolo cieco.
Che cosa scegliere, allora, la pesantezza o la leggerezza?
Conclusione.
La vita che accade una sola volta e poi sparisce è equiparabile all’ateismo,
altro tema cardine della filosofia nicciana. Kundera si interroga a lungo sulla
morte di dio, citando più volte che se dio muore tutto è lecito, ma niente ha
più peso.
Ma noi ora sappiamo che se tutto l’occidente è cristiano, anche ogni sua
manifestazione lo sarà, cioè, lo sarà anche la manifestazione anti-cristiana
per eccellenza: l’ateismo.
Vediamo: per il cristiano la vita è una linea retta, un fiume che scorre per
poi sfociare nell’oceano infinito del dio, nell’infinito pieno della divinità.
E per l’ateo?
La vita è allo stesso modo una linea retta, ancora un fiume dunque, che
scorre e che alla fine sfocia sempre in un oceano, ma non più nell’infinito
pieno della divinità, bensì nell’infinito vuoto del nulla.
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In realtà non c’è nessuna differenza. Infinito pieno o infinito vuoto, oceano
chiamato dio e oceano chiamato nulla non fanno nessuna differenza. La
struttura temporale sottesa è la stessa.
La vita è sempre una linea che si realizza nella morte o nella vita eterna. Lo
stesso concetto del tempo soggiace sia al cristiano che al cristiano
rovesciato, l’ateo.
Ma credere o non credere in dio, dovrebbe comportare almeno un differente
modo di vivere. Perché credere in dio comporta il rispettare una certa
morale, fatta di privazioni, senso del peccato, comandamenti, precetti, e via
di seguito.
Mentre il non credere a nulla dovrebbe portare a concepire la vita in modo
più godereccio, libertino, al godimento dell’attimo e del presente. Nietzsche
in realtà dovrebbe insegnare l’ateismo, cioè la linea retta, il fiume del vivere
che sfocia nel nulla.
E invece no. Perché anche per l’ateo il presente è un passaggio fugace che
accade una sola volta, e ciò che resta è solo un futuro di morte e silenzio. Il
godimento, il libertinismo, come ci insegna Kundera, non hanno peso. La
mancanza dell’àncora di dio porta la vita a essere reale solo per metà. Ogni
azione è tanto libera quanto priva di significato. Il presente vissuto dall’ateo
è fumo, vapore, niente di consistente, niente che abbia un peso.
Ecco perché Nietzsche ci butta addosso il peso enorme dell’eterno ritorno:
perché questa visione cambierebbe il modo di vivere degli uomini.
Il problema è che nessuno, oggi, vive nel presente. Noi non abitiamo l’ora e
il qui. Tutti i luoghi che frequentiamo: strade, case, amici, amori, relazioni,
lavoro soprattutto, sono solo luoghi di passaggio verso un futuro che ci
realizzerà o che ci annienterà. Ci siamo costruiti un’esistenza dove il
presente è disabitato. Dove tutto è fatto in vista di un futuro, di un aldilà,
conseguenza di un passato da redimere.
L’occidente e caratterizzato dal mancato godimento del presente. Dal
mancato piacere del presente. Dalla mancata intensità del vivere il presente.
L’errore è quello di aver creato altri mondi al di là del nostro mondo dei
sensi, perché questo porta a un processo di de-materializzazione della vita.
Il contromovimento che Nietzsche propone con l’eterno ritorno dell’uguale
sta nel costringere l’uomo a concentrare tutte le energie nel circolo infinito
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che ripete questa stessa vita ancora una volta e ancora infinite volte. E
quindi di concentrarsi sull’attimo, sull’istante, sull’adesso.
L’eterno ritorno è la visione di un disco rotto che ritorna incessantemente su
se stesso, impedendo agli uomini di scappare in altri mondi, in soluzioni
esterne, in fedi verso altre redenzioni.
Al fine, finalmente, di riprenderci l’istante. Di tornare a colonizzare il
presente.
Chi non ci crede, sostiene Nietzsche, chi non crede all’eterno ritorno, avrà
“nella sua coscienza una vita fugace” che è la stessa cosa che dice Kundera,
cioè una vita senza peso.
E anche se questo pensiero è solo una possibilità tra le altre, e forse una
possibilità che oggi ci appare poco plausibile “anche il pensiero di una
possibilità può sconvolgerci e riplasmarci. Pensate a quali effetti ha sortito
la possibilità della dannazione eterna!”
Cosa fare allora: credere a questa strana possibilità, non crederci, prendere
questo pensiero come una follia o uno scherzo, o cercare di assimilarlo?
Nietzsche ci dà un suggerimento: ognuno di noi deve “vivere in modo da
poter desiderare di vivere di nuovo, in modo da poter dire: questa era la
vita? ebbene, ancora una volta! – e infine, per mettere un po’ di pepe ai
nostri giorni sereni, conclude: “e in ogni caso tu rivivrai!”
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