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Parrocchia di san Simpliciano – Ciclo di 5 incontri sul tema
Difetto di speranza
Malattia del nostro tempo e medicina del vangelo
tenuti da don Giuseppe Angelini, nei lunedì di ottobre/novembre 2014
2. Le “passioni tristi”: passaggio al registro clinico (o cinico)
Lettura iniziale: Qohelet 12, 1-8, la grande elegia sulla terza (o quarta) età della vita
Nella stagione civile più recente, la competenza privilegiata sul difetto di speranza sembra passata da letterati e
filosofi a sociologi e psicologi. Il difetto stesso cambia profilo: da tragedia passa al profilo più modesto del disagio.
Il pericolo non è il non senso, ma il malessere. Il rimedio è cercato non nella direzione dello sfondamento del cielo,
ma in quella delle medicine, in ogni caso delle terapie, soprattutto delle psicoterapie.
Passaggio al postmoderno
Se dovessimo affidarci alle date, il riferimento più significativo sarebbe il’68: la sognante utopia di quegli anni in
fretta passa, e lascia il posto al piagnisteo.
Se invece che alle date ci affidiamo alla vicenda del pensiero, il passaggio dalla tragedia al disagio è bene descritto
dalla diagnosi della La condizione postmoderna (J. F. Lyotard, 1979); il saggio diventa un classico: tutti parlano
ormai del nostro tempo come di stagione postmoderna. Dai grandi ideali, o dalle grandi narrazioni, o dalle
ideologie, si passa al bricolage.
Il denominatore comune delle ‛grandi narrazioni’ era la lettura della storia come progresso. Il mito del progresso
finisce insieme alla fine dei grandi valori (libertà, uguaglianza e fraternità).
Si afferma nella stessa coscienza diffusa il paradigma della discontinuità, e della pluralità irriducibile degli
approcci; nella morale, nella religione e in genere nella “visione del mondo”, ma anche nella ricerca psicologica e
sociologica.
L’uso del termine postmoderno si è affermato nella lingua corrente per designare appunto la fine delle grandi
sintesi circa il senso della storia, ma anche circa il senso della vita. Ogni discorso generalizzante sul senso del
vivere, ogni sintesi che possa fungere quale orizzonte assiologico della vita comune, è escluso. La vague
postmoderna comporta la resa a una pluralità ingovernabile dei possibili approcci alla causa umana.
Lo si chiama pluralismo; in realtà si tratta di abdicazione pura e semplice alla possibilità di comunicare. Il consenso
non può essere cercato intorno alle figure della vita buona; ma solo intorno alle figure della vita sana. Il benessere,
assegnato alla competenza esclusiva del singolo, mette tutti d’accordo.
Lo stacco coscienza/cultura
Se scaviamo alla radice scorgiamo questo fenomeno: la cultura cessa di valere come coibente della vita comune.
Rimane la necessità di regole. Esse non sono più però quelle fissate da senso comune, ma quelle richieste dalla
esteriorità delle coscienze, la privacy.
Il termine cultura è qui usato nell’accezione antropologica e non aristocratica: la cultura è il complesso delle forme
simboliche, mediante le quali i significati elementari del vivere trovano oggettivazione nella vita comune. La
cultura non è fatta di parole, affermazioni o dottrine; ma di una lingua e di un ethos che funge da supporto per la
lingua stessa.
L’oggettivazione sociale dei significati elementari del vivere è condizione necessaria dell’intesa sociale. Ed è
necessaria anche in ordine alla formazione della coscienza individuale. Fino a pochi decenni fa – in certa misura
fino ad oggi – la cultura antropologica fungeva come prima attestazione del codice morale, del codice dunque della
vita buona.
Con il passaggio al postmoderno la cultura cessa di apparire agli occhi del singolo come codice morale; essa appare
come repertorio di possibilità alternative, in ordine all’invenzione di una vita personale. Il difetto di speranza, o di
senso della vita, è interpretato come una ragione di disagio, a quale rimediare con risorse cliniche, anziché come
interrogativo cosmico, al quale dare risposta con un vangelo.
La fine della cultura come sistema assiologico
Il crescente difetto di evidenze morali è uno dei tratti qualificanti del postmoderno. Esso è evidente a genitori,
insegnanti, educatori in genere; è poco rilevato dalla letteratura più influente a livello pubblico. Ma proprio l’eclisse
della morale, dell’imperativo nella vita degli abitanti della città, li espone in maniera inesorabile al dubbio, quindi
al difetto di speranza. Esso è conseguente alla fine della forma morale della vita.
Un caso esemplare: la questione del ‘gender’
Un’illustrazione efficace della fine della forma morale è offerta dall’aspro e confuso dibattito sul gender. La
categoria diventa di uso pubblico corrente soltanto a seguito all’impiego di J. Butler e delle altre ideologhe della
liberazione sessuale. Ma era stata elaborata prima, da I. Illich, che se ne serviva tuttavia per uno scopo opposto: non
per rivendicare la libertà del singolo, ma per denunciare il processo di deperimento del codice. La progressiva
indeterminazione del gender è espressione del più generale processo di indeterminazione della cultura
“vernacolare”. Illich elabora la nozione di uomo vernacolare a procedere dalla cifra della convivialità. Soltanto
attraverso la consuetudine di vita un gruppo umano radicato in un luogo giunge a elaborare una lingua e un codice
pratico dei significati elementari della vita. Il genere è una matrice importante di convivialità. L’universo
vernacolare finisce. Il contatto precoce e indifferenziato con l’universo sterilizza la capacità del vernacolare di dare
forma all’universale. La cancellazione della differenza maschio/femmina è appunto una delle espressioni maggiori,
o addirittura l’espressione maggiore della sterilizzazione del vernacolare.
La fine della storia
Nello stesso senso della fine del moderno va la tesi della fine della storia enunciata nel 1992 da F. Fukuyama. Il
processo evolutivo dell'umanità – il mito centrale dell’epopea moderna, un processo che aveva coinvolto
l’economia, la politica e la cultura, avrebbe ormai raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo; da allora si
starebbe aprendo una fase di conclusione della storia in quanto tale. L’universalismo sollecita la cancellazione della
memoria.
Dalla tragedia al disagio
La fine del moderno, e della storia, propizia il passaggio dei discorsi pubblici sulla condizione umana dal registro
della tragedia a quello del disagio.
Il disagio lamentato – dalla società adulta – è soprattutto quello dei giovani. Ad essi sono attribuite “passioni tristi”.
Il disagio è certo anche degli adulti, ma di esso oggi si parla in termini di depressione, anziché di angoscia e
disperazione. Appunto il passaggio al registro clinico induce il parallelo privilegio accordato alle condizioni
‘marginali’, vissute come tali e trattate come tali.
Gli anziani
Marginali sono prima di tutti gli anziani, il cui numero cresce. Il fenomeno opera per se stesso come fattore di
depressione del coefficiente di speranza. Gli anziani poi appaiono per se stessi a rischio di depressione. A motivo
dell’inattività, ma soprattutto a motivo del difetto di attese e di riconoscimento. La malinconia degli anziani
dovrebbe accendere interrogativi a proposito della civiltà tutta, e invece accende interrogativi che riguardano al
massimo i farmaci e le iniziative di ‘animazione’.
Gli anziani sono, depositari di una memoria che dovrebbe apparire patrimonio irrinunciabile per le nuove
generazioni. Sono depositari addirittura di una sapienza. Appunto il visibile difetto di apprezzamento per tale
sapienza spegne la vivacità del vecchio. E spegne per altro lato la competenza umana che la loro testimonianza
dovrebbe garantire alla società tutta.
I malati
Marginali sono i malati, che pure aumentano nel numero, perché la vita si allunga. La lunga convivenza con la
malattia propone per se stessa un compito nuovo: come vivere il tempo della malattia quale tempo di vita e non
come una sospensione del tempo della vita? Di fatto accade che l’assoluta dominanza di un approccio medicale
rimuova gli interrogativi di carattere morale: come vivere la malattia? Quali compiti propone alla libertà? come
mette in crisi la vita normale? quali conversioni impone? Gli unici interrogativi affrontati sono quelli dell’anestesia,
e delle abilità residue, della loro preservazione e valorizzazione.
I bambini, i minori in genere
Il riflesso più serio del passaggio al postmoderno si riferisce al rapporto tra le generazioni. Attraverso quel rapporto
si dovrebbe realizzare l’educazione, molto prima che mediante le scuole. La pedagogia moderna non lo ha
riconosciuto; essa oggi è di fatto finita; ha ceduto il posto alle scienze dell’educazione. Esse si occupano di
apprendimento e di salute mentale, non di crescita umana.
I giovani: le “passioni tristi”
Tra tutti i gruppi sociali ‘marginali’ il più considerato e problematico è quello dei giovani, o degli adolescenti.
L’adolescenza diventa stagione della vita interminabile. Perché i modelli mimici adottati dagli adolescenti sono
oggi in prevalenza non quelli della generazione adulta, ma quelli proposti dall’industria dei consumi. Il risultato è
l’epoca delle passioni tristi (2004). La gran parte dei giovani che ricorrono ai servizi di consulenza psicologica e
psichiatrica non sono affette da sofferenze d’origine psicologica, ma riflette la tristezza diffusa della società
contemporanea, la sua insicurezza e la sua precarietà. Che ragione c’è dunque che siano gli psicologi a occuparsi di
crisi che non sono del singolo, ma della società tutta? Dovrebbero essere tutti gli educatori; dovrebbe essere tutta la
generazione adulta.
L’osservazione è pertinente. La descrizione dei giovani di oggi è fondamentalmente attendibile: essi sono
minimalisti, utilitaristi, in tutti i modi cinici. Ma le cause di tale minimalismo dei giovani, l’ “evaporazione del
padre”, non è riconosciuta. Quindi neppure sono indicati i rimedi praticabili. Se il modello per trovare la via della
vita è l’esperimento, se il criterio di valore è la cosiddetta autorealizzazione, non stupisce che dominino nella vita
sociale le passioni tristi.
Per capire il disagio giovanile occorre un modello di pensiero antropologico che metta a tema la differenza tra
fiducia primaria e speranza virtuosa; che pensi quindi quel processo temporale attraverso il quale soltanto si passa
dall’una all’altra. La riflessione teorica deve disporre gli strumenti concettuali per chiarire il difetto della cultura
contemporanea.
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