RTF - Biblioteca Italiana per i Ciechi

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LE ISTITUZIONI DEI CIECHI*
Carlo Monti
Premessa
Il riscatto dei ciechi in Italia è, storicamente, opera dell’Unione Italiana dei Ciechi che ha
condotto, nel corso nel tempo, battaglie decisive per garantire a questa minoranza di cittadini,
il diritto all’istruzione e al lavoro, premessa indispensabile per la loro integrazione sociale.
All’inizio del secolo XX i ciechi, inabilitati dal Codice Civile, erano condannati a vivere in
condizioni di miseria e di povertà. Gli istituti ad essi dedicati, pur presenti in gran parte del
territorio nazionale, erano unicamente dei ricoveri da cui gli ospiti uscivano, tranne rare
eccezioni, per suscitare pietà in occasione di qualche manifestazione di beneficenza o di
qualche funerale.
Oggi i disabili visivi sono in grado di studiare nella scuola di tutti; occupano dignitosi
posti di lavoro; sono integrati nella società, anche se molti sono ancora gli ostacoli da
superare per il conseguimento delle pari opportunità.
Nata e cresciuta come “associazione di rappresentanza”, l’Unione Italiana dei Ciechi ha
saputo promuovere, presso le pubbliche Istituzioni, le legittime aspirazioni dei disabili visivi
ad essere cittadini tra i cittadini e ha garantito i servizi necessari a concretizzare tali
aspirazioni, favorendo, nello stesso tempo, la costituzione di altre Istituzioni con specifiche
finalità: la Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, La Biblioteca Italiana per i
Ciechi “Regina Margherita”, prima, l’Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione
(I.ri.fo.r.), l’Unione Italiana Volontari pro Ciechi (Un.I.Vo.C.), poi.
In questa sede, insisteremo, soprattutto, sulla storia dell’Unione Italiana dei Ciechi, che
coincide con la storia della emancipazione dei minorati della vista, ma presenteremo anche
una scheda sintetica per la Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita” che, pur
essendo nata – per così dire – da una costola dell’Unione, merita considerazioni più
dettagliate rispetto ai cenni contenuti della storia dell’Unione.
*
Continuiamo la pubblicazione delle lezioni che hanno composto il corso on-line sull’educazione dei
minorati della vista, organizzato nel 2003 dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi. Crediamo di
fare cosa gradita a tutti coloro che si occupano delle discipline tiflologiche e che non vi hanno potuto partecipare
[ndr].
L’Unione Italiana dei Ciechi
L'Unione Italiana dei Ciechi nasce a Genova il 26 ottobre del 1920 come capolavoro di
interpretazione storica e di genialità creativa. Aurelio Nicolodi, insieme con un gruppo
ristretto di amici che, come lui, nella guerra appena conclusa avevano perduto la vista,
comprende che la cecità acquisita nei campi di battaglia costituisce un credito di enorme
valore morale e sociale, un patrimonio ideale la cui consistenza poteva essere facilmente
misurata con il metro del sentimento nazionale e patriottico dominante in quegli anni. Erano
da poco terminate le Conferenze della pace che avevano restituito all'Italia i territori irredenti
consentendo il compimento dell'unità nazionale avviata nel Risorgimento, ma limitando,
nello stesso tempo, la realizzazione di aspirazioni espansionistiche che andavano al di là
dell'obiettivo raggiunto. La consapevolezza, sempre più radicata e diffusa, della "vittoria
mutilata", nella sua doppia valenza di esaltazione e di depressione, rafforza e consolida in
molti settori della società civile e dello schieramento politico il prestigio di coloro che hanno
duramente pagato per il bene della Patria. Nicolodi lo comprende lucidamente e, mentre altri
avrebbero strumentalizzato le tensioni crescenti nel Paese per farle confluire nel calderone
nazionalistico e irrazionalistico dell'arditismo e del fascismo, egli avrebbe speso tutto il suo
prestigio al servizio di un progetto ispirato ai valori della solidarietà e della giustizia sociale.
In altri termini, la capacità di comprendere lo spirito del tempo e il senso della storia si
traduce in un progetto geniale di riscatto e di emancipazione di uomini condannati, come lui a
vivere nell'ombra e a subire tale condizione - e qui stava la differenza - come stigma di
esclusione sociale e di emarginazione, perché privi di quella luce che in lui derivava dal
sacrificio compiuto e dalla legittimazione che esso assumeva nel contesto dei valori
dominanti. Il cieco di guerra, acuto interprete del suo tempo, avrebbe fatto, dunque, della sua
condizione umana ed esistenziale, uno strumento di generosa condivisione e di costruzione di
una alternativa radicale che, negli anni, si sarebbe rivelata geniale, perché capace di ribaltare
la collocazione sociale dei ciechi civili italiani e, conseguentemente, la loro immagine, il loro
vissuto, avviando un irreversibile processo di superamento dell'emarginazione e di
promozione dell'integrazione. Su tale felice interpretazione della realtà storica del primo
Dopoguerra si basava, dunque, il coraggioso progetto fondativo dell'Unione Italiana dei
Ciechi, concepita come strumento per traghettare i privi della vista dall'orizzonte immobile e
improduttivo della pietà e della commiserazione alla ribalta di un impegno attivo e
determinante per il proprio avvenire di uomini e di cittadini. Si trattava, insomma, di
abbandonare il terreno franante della sterile filantropia pietistica per concepire un disegno
fondato su una valutazione rigorosamente scientifica delle potenzialità dei ciechi e degli spazi
operativi che ne consentono la piena espressione per la crescita personale e l'integrazione
nella società. Con la fondazione dell'Unione Italiana dei Ciechi, che nel 1923 si sarebbe
costituita in Ente morale, i non vedenti italiani avevano a disposizione uno strumento di
aggregazione, di elaborazione, di tutela e di rappresentanza: erano finalmente in grado di
porsi come interlocutori attivi nei confronti delle Istituzioni e della società civile, di gestire in
prima persona i loro problemi, prima affidati unicamente alla beneficienza di qualche
filantropo, e di essere, quindi, protagonisti del loro riscatto. Su questa strada che conduce,
faticosamente, l'impostazione delle problematiche della cecità dalla pietà alla scienza,
particolarmente proficuo fu l'incontro tra Nicolodi e Augusto Romagnoli. Egli non solo seppe
comprendere che la condizione imprescindibile per il riscatto dei ciechi andava identificata
nel superamento dell'ignoranza e nell'istruzione, ma fu in grado di elaborare una progettualità
pedagogica fondata sul rigore del metodo scientifico e, per questo, dotata di straordinaria
efficacia didattica. Gli Istituti per ciechi che, all'inizio del secolo, erano semplici ospizi privi
di aperture verso la società e di sbocchi verso il futuro, diventano luogo di educazione e di
istruzione, strumento, insomma, di crescita, di maturazione e di apprendimento. In stretta
connessione con l'istruzione, il secondo ineludibile passo verso l'integrazione sociale è
rappresentato dal lavoro: a questa esigenza, fondamentale per ogni cittadino, l'Unione
fornisce una prima rilevante risposta con la costituzione dell'Ente Nazionale di Lavoro per
Ciechi del 1934, che costituirà una prima esperienza di lavoro integrato fra non vedenti e
vedenti e che consentirà a non pochi privi della vista di affermare la propria dignità di uomini
liberi dal bisogno e dalla beneficenza altrui. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale,
ormai non più lontana, i laboratori dell'Ente, specialmente quelli destinati alla fabbricazione
di scarpe per i militari, avrebbero funzionato a pieno ritmo incrementando l'occupazione di
lavoratori non vedenti. Ma gli anni della guerra consentono a Nicolodi di segnalare una
qualità, forse insospettata, dei privi della vista, chiamandoli, come aereofonisti volontari, a
collaborare con l'esercito italiano al servizio della contraerea e della difesa del territorio
nazionale dall'aviazione nemica. I ciechi in grigio-verde potevano così offrire una nuova
testimonianza delle loro capacità e del loro impegno ad essere uomini tra uomini anche nella
drammaticità del momento presente. Tuttavia la guerra, come era inevitabile, si avvia verso il
suo epilogo tragico: l'8 settembre '43 avvia la spaccatura del Paese, apre la stagione della
Resistenza e della lotta di liberazione. Il profondo clima di divisione che spacca l'Italia e che
contrappone aspramente i militanti di opposte ideologie si riflette anche nel mondo della
cecità: si costituiscono - e sono particolarmente attivi nell'ambiente fiorentino dove opera la
Sede Centrale dell'Unione e l'Ente Nazionale di Lavoro - i gruppi antiunionisti che
ingenerosamente accusano Nicolodi e la Dirigenza associativa di collaborazionismo,
scambiando una inevitabile contiguità politica con una adesione ideologica che non fu mai
espressa. Alla fine, anche per l'importante opera di mediazione svolta da alcuni uomini vicini
alla base operaia in cui più radicata era la protesta antiunionista, la ragione prevale e l'unità si
ricompone. Il Paese, però, esce dalla guerra materialmente e ed economicamente distrutto: la
fase della ricostruzione avrebbe chiesto a tutti enormi sacrifici, ma anche un radicale
mutamento di impostazione culturale e di visione programmatica. In questo clima
generalizzato di trasformazione, in cui, dappertutto, si avverte la sofferenza e la gioia della
rinascita, anche l'Unione Italiana dei Ciechi si rinnova e si affida a uomini nuovi. Si apre così
la fase della Presidenza Bentivoglio.
Trasferita la Sede centrale dell'Associazione da Firenze a Roma, per renderla più vicina
alle Istituzioni, avviata la pubblicazione di un organo ufficiale di stampa, Il Tiflologo,
ribattezzato, poi, con la nota denominazione de Il Corriere dei Ciechi, con l'intento di
diffondere all'esterno il programma associativo, l'Unione Italiana dei Ciechi stabilisce
proficui contatti con l'Assemblea Costituente e offre il suo contributo per la definizione di
alcuni articoli caratterizzanti della nuova Carta costituzionale, quali l'art. 3 e l'art. 38,
impegnandosi da subito nella individuazione di alcune linee essenziali del nuovo Stato
democratico e solidarista. Tuttavia i contenuti socialmente più avanzati della Carta
costituzionale restano, in quegli anni, una mera enunciazione programmatica espressione di
una rivoluzione promessa, vagamente compensativa di una rivoluzione mancata. La vita reale
dei ciechi italiani resta, pertanto, enormemente lontana da quell'orizzonte di "pari
opportunità" indicato dalla nuova Costituzione e si dibatte nel dramma della miseria e della
disoccupazione. Venute meno le richieste legate alla produzione bellica l'Ente Nazionale di
Lavoro per Ciechi, costretto, peraltro, ad affrontare le nuove condizioni di mercato
determinate dal rientro dei reduci, riduce notevolmente le sue capacità occupazionali, mentre
coloro che escono dagli istituti non riescono a trovare uno sbocco lavorativo. Né esiste un
accettabile riconoscimento economico della minorazione visiva, al di là del modestissimo
assegno alimentare. In questo clima di disperazione e di consapevolezza si compie la "marcia
del dolore" che porterà un gruppo di non vedenti coraggiosi a sfilare a piedi, per le strade del
centro Italia da Firenze a Roma, sorprendendo l'opinione pubblica e il mondo politico.
L'evento era stato avviato da ambienti esterni all'Unione, ma concepito e concretizzato sotto
la sapiente regia di Paolo Bentivoglio e della Dirigenza associativa che, alla fine, riesce a
piegare le ostinate resistenze governative. Sulla base, così, di una maggioranza politicamente
anomala per quegli anni, uno schieramento transpartitico che condivide l'impostazione di
alcuni uomini politici, quali Orazio Barbieri, Giovanni Pieraccini e Giorgio La Pira determina
l'approvazione della prima legge che riconosce l'incidenza economica della minorazione
visiva. Il primo passo verso il superamento di una concezione pietistica dell'assistenza e verso
la realizzazione dello stato sociale era compiuto. Parallelamente si moltiplicano gli sforzi per
adeguare i programmi di insegnamento degli istituti alle nuove esigenze soprattutto sul piano
della formazione professionale, in vista del raggiungimento di importanti traguardi sul piano
occupazionale. Si perviene così al varo di alcune leggi sul collocamento dei centralinisti
telefonici, dei massaggiatori (come allora si chiamavano) e degli insegnanti, vere e proprie
pietre miliari per il superamento della emarginazione e per l'affermazione della dignità dei
non vedenti. Istruzione, assistenza, lavoro costituivano da sempre il trinomio programmatico
dell'Associazione: durante gli anni della Presidenza Bentivoglio costituiscono anche le
coordinate di un percorso che ha condotto i privi della vista al raggiungimento di significativi
traguardi.
La Presidenza Bentivoglio si chiude quando ormai nell'aria si avvertono i prodromi
della tempesta che per un decennio avrebbe agitato e scosso la società italiana. Sarebbe
toccato a Giuseppe Fucà guidare l'Unione attraverso questa tempesta e cogliere la direzione
verso cui orientare una navigazione difficile, ma sempre sicura nelle mete da raggiungere e
negli obiettivi da conseguire. Le passioni ideologiche del '68, nella loro frenesia rinnovatrice,
puntano a scuotere dalle fondamenta l'edificio politico e sociale esistente in nome di una
utopia egualitaria che spesso rischia di appiattire le differenze e di confondere le specificità
all'interno di un globalismo indistinto e astrattamente totalizzante. La lotta ad oltranza contro
il "sistema" si esprime attraverso una contestazione radicale che mira ad azzerare l'esistente,
ma che, spesso, manca, al di là degli slogans, di una alternativa realistica. Anche l'Unione
entra nel vortice della contestazione e rischia di esserne travolta, in nome di alcune
schematiche enunciazioni di principio: l'handicap in genere e, quindi, anche la cecità non è
tanto una limitazione oggettiva quando il prodotto di un determinato assetto sociale: è su di
esso, pertanto, che occorre intervenire, ribaltando gerarchie consolidate e concezioni
sclerotizzate che espellono ai margini della società tutti coloro che non incarnano i modelli
imposti dai detentori del potere e dell'egemonia sociale. L'Unione Italiana dei Ciechi è, di
fatto, essa stessa una organizzazione sclerotizzata funzionale alla logica della emarginazione
e del mantenimento delle gerarchie sociali precostituite. Il processo di integrazione sociale
deve essere guidato e realizzato dai pubblici poteri in una prospettiva di omogeneità che
sconfigga le pratiche settorialistiche e le tentazioni corporative. Le scuole speciali sono
ghettizzanti e vanno cancellate in nome di un pieno inserimento di tutti i portatori di handicap
nella scuola di tutti. L'epoca dell'autogestione dell'handicap da parte di coloro che ne sono
portatori è finita in nome di una gestione pubblica del disagio sociale che implica la rinuncia
dei disabili ad essere protagonisti delle proprie scelte per diventare destinatari di più eque e
competenti scelte altrui. L'Unione di Fucà, tuttavia, resiste: accetta la trasformazione da Ente
di diritto pubblico ad Ente di diritto privato; si adegua alla struttura regionalistica che il Paese
viene assumendo alla metà degli anni '70 scorgendo in essa una ricchezza da valorizzare,
piuttosto che una sciagura da respingere; si impegna fortemente per l'integrazione scolastica,
pur denunciando la mancanza di una adeguata strategia politica e pedagogica; strappa, infine,
al Parlamento e al Governo una grande vittoria con il conseguimento dell'indennità di
accompagnamento al puro titolo della minorazione.
Quando Giuseppe Fucà lascia la presidenza attiva dell'Associazione, poco prima della
sua prematura scomparsa, il tramonto dell'illusione che aveva attraversato il decennio
precedente è ormai evidente: il primato del pubblico e la filosofia dei servizi, frutto di un
sociologismo astratto e disattento, più che di una mentalità autenticamente solidaristica,
stavano naufragando sull'onda di una disgregazione sociale sempre più vistosa che aveva
raggiunto il culmine con le gesta del terrorismo e alle attese messianiche della palingenesi
subentrava l'egoistico riflusso nel proprio privato, malinconico preannuncio di un progressivo
disimpegno delle istituzioni dalle problematiche più scottanti della società civile. Anche per
l'Unione s'imponeva una riflessione, un mutamento di strategia capace di interpretare la
transizione e di offrire risposte adeguate. Roberto Kervin, che fu alla guida dell'Associazione
nella prima metà degli anni '80, anziché approfondire i termini di tale interpretazione e
formulare una coerente impostazione programmatica, attraverso gli strumenti del dibattito
interno, della comunicazione e del dialogo all'esterno, preferì optare per la divisione
all'interno e lo scontro all'esterno. Il linguaggio associativo ufficiale si fa aspro ed esaspera
orgogliosamente una sorta di patriottismo associativo che spesso manca di realismo,
accreditando un'immagine di forza che rischia, talvolta, di porsi come il surrogato di una
diffusa consapevolezza di disorientamento e di oggettiva debolezza. Non manca qualche
successo, come quello rappresentato dalla ben nota legge 113 del 1985, ma nel complesso la
tenuta associativa appare piuttosto fragile.
Sarebbe toccato a Tommaso Daniele, Presidente dell'Unione a partire dall'86, l'arduo
compito di ricostruire l'unità interna e di rilanciare all'esterno l'immagine dell'Associazione. Il
primato del dialogo, il contatto costante e organico con la periferia, l'attenzione a nuovi
soggetti associativi, quali le donne e i giovani, la comunicazione attiva con l'opinione
pubblica e la società civile, il confronto pacato e convincente con le forze politiche, la
mappatura attenta dei bisogni emergenti, l'apertura alle nuove tecnologie, il senso
dell'immagine del non vedente e dell'Associazione, la ricerca di nuovi spazi che consentano
all'Unione di erogare quei servizi che le istituzioni continuano a negare, la difesa ad oltranza
delle conquiste irrinunciabili costituiscono le linee guida di una presidenza che ha
progressivamente modernizzato la struttura associativa affiancando al tradizionale ruolo di
rappresentanza quello della gestione dei servizi. Il fulcro della nuova politica dei servizi è
l'I.Ri.Fo.R. che, nel corso della sua breve vita, sostenuto finanziariamente da una legge
fortemente voluta dall'Unione, ha svolto una ingente mole di lavoro nei tre settori che lo
caratterizzano della ricerca, della formazione e della riabilitazione. Esso ha consentito la
diffusione dell'informatica fra i privi della vista, ha formato gli operatori largamente
utilizzati, poi, per la organizzazione di numerosi corsi di orientamento e mobilità, nonché di
autonomia personale, ha inaugurato, primo nel mondo, un progetto formativo per giornalisti
non vedenti, ha sperimentato nuovi profili professionali, ha aperto, insomma, al centro come
alla periferia, nuovi orizzonti e soddisfatto nuovi bisogni in un momento storico in cui sempre
più acuta è da parte dei non vedenti la sensibilità per la qualità della vita e la soluzione dei
problemi legati alla quotidianità esistenziale e all'autonomia da tutte le forme di
condizionamento prodotte dalla minorazione. Ma, nell'ambito dei servizi determinanti sono
stati i risultati conseguiti per il Centro Nazionale del Libro parlato, sostenuto finalmente da
una legge che ne garantisce uno stabile finanziamento, dalla Biblioteca Italiana per i Ciechi,
dalla Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi, dalla Sezione Italiana dell'Agenzia
Internazionale per la Prevenzione della Cecità, strutture, queste ultime, esterne all'Unione, ma
ad essa legate in uno sforzo sinergico di cui l'Unione stessa costituisce il polo aggregante. Né
mancano, negli anni che scorrono attraverso gli ultimi tre Congressi nazionali, importanti
successi sul terreno tradizionale della rappresentanza, dalla Legge 120 che apre ai non
vedenti le porte della carriera direttiva, alla Legge 29 che tutela i diritti dei terapisti non
vedenti della riabilitazione in un orizzonte, peraltro bisognoso ancora di una sistemazione
organica, alla Legge 284 che delinea nuove prospettive per i ciechi pluriminorati e per gli
ipovedenti. Ma questi e altri risultati tanto significativi non sarebbero stati raggiunti senza il
consenso che l'Unione è riuscita a guadagnarsi attraverso la visibilità della propria immagine
e alla costante opera di promozione affidata ai Raid, ai Premi Braille e alla mostra "Dialogo
nel buio" e all'ambulatorio mobile per la prevenzione della cecità. L'Unione di oggi ha
saputo, dunque, felicemente coniugare la modernità dei suoi obiettivi alla modernità della sua
impostazione strategica e alla capacità di comunicare all'esterno, quanto all'interno, attraverso
i più efficaci strumenti dalla stampa associativa rinnovata ad internet. Muovendo da queste
realizzazioni e dalla consapevolezza delle profonde trasformazioni in atto nel Paese ispirate al
principio del pubblico risparmio, ma anche a concetti come quelli di decentramento e
sussidiarietà, il Congresso del '97 ha lanciato la sfida di una Rivoluzione copernicana che ha
come fulcro l'efficienza e la funzionalità delle strutture periferiche chiamate a svolgere
compiti nuovi e determinanti. Su questo terreno, ne siamo certi, si giocherà l'avvenire
dell'Unione Italiana Ciechi che ha dinanzi a sé ancora molti obiettivi da raggiungere
specialmente nell'ambito dell'integrazione scolastica e della formazione professionale, del
lavoro, del recupero dei ciechi pluriminorati, della riabilitazione degli ipovedenti, degli
anziani. Solo un forte spirito di coesione e uno spiccato senso di appartenenza sostenuti dalla
competenza dei dirigenti periferici potranno garantire il raggiungimento dei risultati e
l'efficacia di una regia già tracciata e lucidamente interpretata dalla Presidenza e dalla
Direzione Nazionale.
La Biblioteca Italiana per i Ciechi
La prima biblioteca per i ciechi fu fondata a Firenze, per iniziativa della Regina
Margherita di Savoia, alla fine dell’Ottocento: essa, però, non riuscì a svilupparsi. Fu, poi,
l’Unione Italiana dei Ciechi a fondare a Genova la Biblioteca italiana per i ciechi, destinata,
invece a svolgere un ruolo determinante per l’accesso dei ciechi alla cultura. Trasferita, dopo
pochi anni a Milano e poi nella Villa Reale di Monza, al fine di preservarla dai
bombardamenti nel 1943, è, attualmente, ospitata in un moderno palazzo nei pressi del centro
di Monza. La Biblioteca Italiana per i Ciechi “Regina Margherita”, la principale biblioteca
del settore in Italia, possiede, oggi, un ingente patrimonio librario differenziato (volumi
Braille, audiocassette, testi su supporto informatico, testi a caratteri ingranditi ad uso degli
ipovedenti), che ammonta a circa cinquantamila titoli, frutto di un lungo e paziente lavoro.
L’opera di trascrizione, infatti, ha seguito lo sviluppo della tecnologia ed è stata compiuta,
inizialmente, attraverso l’uso delle tavolette Braille, poi delle macchine dattilografiche e, solo
in anni più recenti, attraverso l’uso delle macchine punzonatrici e delle presse, cui è seguita
l’introduzione delle stampanti su carta strettamente collegate alla utilizzazione del computer.
Lo scopo istituzionale della struttura è identificabile nel soddisfacimento delle esigenze
culturali e di apprendimento dei minorati della vista, le cui richieste vengono evase attraverso
un capillare servizio di prestito che raggiunge gli utenti a domicilio e che si articola attraverso
un’offerta vasta e articolata comprendente testi letterari e scientifici, periodici e spartiti
musicali, tutti disponibili, oggi, in una tiratura adeguata alla domanda dell’utenza. La
biblioteca è fortemente impegnata anche nella diffusione della cultura tiflologica e nel
sostegno all’integrazione scolastica. Nel primo settore occorre ricordare l’istituzione del
Centro di Documentazione Tiflologica di Roma, biblioteca specializzata sul versante della
tiflologia, e la pubblicazione di opere tiflologiche in nero destinate agli specialisti, ai
ricercatori e agli operatori scolastici. Nel secondo settore, occorre ricordare l’istituzione di
tredici Centri di Consulenza Tiflodidattica, che si affiancano ai tre Centri della Federazione
Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi e si avvalgono di personale specializzato, cui è affidato
il delicato compito di offrire consulenza alle famiglie, alla scuola, alle Aziende Sanitarie
Locali e agli alunni minorati della vista. La Biblioteca, inoltre, ha stipulato una convenzione
con l’A.N.C.I. (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per la trascrizione dei testi scolastici
e con l’Associazione Italiana degli Editori che consente la diffusione dei prodotti editoriali
nei formati più idonei a consentirne la fruizione da parte dei minorati della vista.
Riferimenti bibliografici
Ceppi, E. (1981). I minorati della vista. Roma: Armando.
Galati, D. (a cura di) (1996)., Vedere con la mente. Milano: Franco Angeli.
Monti, C. (1994). Quando la cronaca diventa storia: la lezione del ’54. Firenze: UIC.
Monti, C. (a cura di) (1997). Antologia del Corriere dei Ciechi: una voce al servizio di
un’idea. Roma: I.Ri.Fo.R.
C. Monti, C. (1997). Una Presidenza per una società che cambia. Il Corriere dei Ciechi,
52 (19), 2-10.
Monti, C. (2000). In cammino verso il traguardo delle pari opportunità: la rivoluzione
culturale dell’Unione Italiana dei Ciechi. Roma: UIC.
Carlo Monti,
docente di filosofia, presidente
del Consiglio Regionale Toscano
dell’Unione Italiana dei Ciechi
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