98-CEIpc - Progetto Culturale

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Modelli culturali e processi di integrazione:
quale progetto per l'Europa di domani?
Pierpaolo Donati
1. Premessa: quale progetto per l'Europa?
1.1. L'Italia è riuscita a “entrare in Europa”, nel senso di aver conseguito l'obiettivo di
farsi includere nel ristretto club degli Stati-nazione che daranno vita alla moneta unica. Lo
ha fatto a prezzo di grossi sacrifici (una pesante imposizione tributaria e un controllo
sistemico che hanno frenato lo sviluppo economico e sociale, con ripercussioni
decisamente negative sull’occupazione e sulle autonome capacità di iniziativa della società
civile) e senza poter prevedere quello a cui andrà incontro. Nonostante ciò, tutti siamo
convinti che il cosiddetto ingresso in Europa debba essere una meta da perseguire, e
nessuno può ragionevolmente pensare che un'Italia fuori dell'Europa potrebbe essere
migliore.
Di conseguenza, il progetto culturale della Chiesa italiana si interroga sul nuovo
orizzonte europeo a cui l'euro darà vita. Nel mio contributo, non intendo - evidentemente delineare lo scenario e i suoi possibili sbocchi sotto il profilo economico, e neppure sotto
quello strettamente politico, ma invece sotto il profilo specificatamente socioculturale.
L'interrogativo è: a che cosa andiamo incontro, come cattolici italiani, sotto il profilo delle
interazioni e degli esiti culturali una volta che per noi diventerà effettiva a tutti gli effetti
l'integrazione nella nuova Europa?
1.2. La situazione è ben nota, e non vorrei soffermarmi in modo analitico sulla parte
descrittiva. Solo per richiamarla, basterà citare i Lineamenta del Sinodo Europeo (1998, pr. 7):
«La cultura in sé appare oggi in Europa come una qualità assoluta e onnicomprensiva della
persona, mentre manifesta una grande precarietà, che consiste in una frammentazione
manipolata contro la fede in Gesù Cristo. È in atto un tentativo di eliminare il riferimento a
questa fede come elemento fondante e origine della cultura europea stessa e della sua unità.
Si assiste al sorgere di una cultura giuridica che propone modelli di comportamento nei
quali sono assenti i valori del Vangelo».
Su questo scenario, di una cultura europea sempre più individualistica, cioè attratta
nell'orbita di un individualismo etico radicale istituzionalizzato, e perciò incerta, disorientata
e debole, si innestano i processi di confronto con le altre culture portate dai processi
immigratori, che diventeranno sempre più massicci per via della nota depressione
demografica delle popolazioni europee autoctone. Come non vedere gli enormi problemi di
confronto fra culture tanto diverse, che richiedono un dialogo al proprio interno e con
l'esterno, ma in condizioni in cui il dialogo stesso diventa più difficile proprio a motivo
della mancanza di premesse e requisiti necessari ad un incontro significativo, pacifico,
solidale, nell'orizzonte di un processo di globalizzazione (mondialità) che si fa sempre più
impellente?
L'Unione Europea, come si sa, punta sui fattori economici (Trattato di Maastricht e
successivi) come fonti privilegiate di integrazione, pensando che, dall'unità economica,
derivi anche quella sociale e culturale. La convergenza sui parametri economici è
considerata come la premessa necessaria per evitare di porre il problema dell'integrazione
sulla base di scelte etiche, considerate impraticabili, se non impossibili.
Di fronte a questo scenario, occorre pensare ad un progetto che non veda la cultura
come un sottoprodotto dell'economia. Un tale progetto presenta estreme difficoltà, e in
particolare deve essere tale da evitare sia il fondamentalismo sia il vuoto culturale. Per
questo si deve basare su un pensiero generativo, costruttivo, capace di connettere le
differenze senza fare violenza ad alcuno, senza voler colonizzare questa o quella cultura,
ma, al contrario, orientato a valorizzare ciò che di buono vi è in ogni cultura. Questo
pensiero non può che essere un pensiero relazionale agìto nel quadro dei diritti umani (e
non solo civili, politici, economici e sociali). È mia convinzione che il pensiero cristiano
abbia queste caratteristiche (P. Donati, 1997b) e che pertanto abbia buone possibilità di
costituire un framework accettabile in modo universalistico.
Un tale pensiero è progettuale nel senso e nella misura in cui riesce a ‘gettare oltre
l'esistente’ (pro-jectum) un'idea di società buona, o almeno decente (per dirla con A.
Margalit), in cui le distinzioni del passato siano sostituite da altre distinzioni, più umane.
Voglio in sostanza dire, e lo dico in grande sintesi, che, se è vero che la situazione attuale è
il prodotto della modernità, fare un progetto significa pensarlo in termini di
dopo-moderno.
Dobbiamo prendere atto che l'attuale situazione culturale in Europa è l'esito di una
secolarizzazione infinita la quale, ultimativamente, è il prodotto del gioco fra le due grandi
ideologie della modernità, il liberalismo e il socialismo. Queste ultime hanno avuto
certamente tanti meriti, ma, per il modo in cui attualmente bloccano lo sviluppo culturale,
rischiano di produrre il collasso dell'Europa sotto il profilo del senso umano. Non
possiamo dimenticare che è dalla dialettica fra liberalismo (lib) e socialismo (lab) che
proviene la sfida mortale all'umanesimo (non solo occidentale), nonostante certe radici
umanistiche della modernità liberale e socialista (basterebbe solo ricordare autori come A.
de Tocqueville e Ch. Péguy). Chi avesse qualche dubbio potrebbe proficuamente riflettere
sul pensiero di N. Luhmann, a questo riguardo.
La crisi della coscienza europea, fatta di disgregazione etica e sociale che si manifesta in
una crescente solitudine di moltitudini di persone umanamente allo sbando, è il prodotto di
un gioco congiunto fra lib e lab. Se non vediamo questo, non saremo neppure in grado di
comprendere dove possano stare i rimedi, i quali, a mio avviso, consistono essenzialmente:
nel ripensare la relazione fra coscienza e cultura (l'incapacità di dare un senso alla propria
vita e alle singole azioni nasce dalla mancanza di relazioni umane e sociali significative), nel
comprendere che un sistema sociale non può procedere spingendo da un lato sul mercato
(di profitto) e dall'altro predisponendo misure di coesione e inclusione sociale di tipo
compensatorio e assistenziale. Poiché la rottura del legame fra coscienza umana e cultura e
la configurazione della società sul binomio mercato-stato come asse fondante sono
caratteristiche dell'assetto lib-lab, è su questo assetto che dobbiamo appuntare la nostra
attenzione e pensare in termini alternativi.
Ciò significa cominciare a mettere in crisi le idee fondamentali dell'assetto lib-lab oggi
dominante in Europa. Queste idee, per ricordarne solo le principali, sono basate sui
seguenti assiomi: che la politica si faccia in base alla distinzione destra/sinistra (anziché su
altre distinzioni), che i rapporti fra i gruppi sociali debbano essere gestiti in termini di
inclusione/esclusione (anziché in termini relazionali), che la cittadinanza sia statuale o non
sia. È a questo progetto alternativo che vorrei dare corpo in questo breve contributo. Esso
prende il nome di una ‘cittadinanza societaria’ vista come superamento di quella statuale
(oggi neo-corporativa, lib-lab) tipica della modernità europea. Il fulcro di tale progetto sta
nel basare la cittadinanza, a tutti i livelli (da quello locale, a quello regionale, nazionale,
europeo e infine mondiale), su un duplice fondamento: innanzitutto, che la cittadinanza sia
l'espressione politica della socialità propria della sfera pubblica quando questa è eticamente
qualificata, anziché eticamente neutra o indifferente; e che il condividere un ‘mondo
comune’ (nel senso di H. Arendt) fra soggetti e culture differenti si basi sul principio di
sussidiarietà, anch'esso moralmente qualificato, e cioè declinato in senso personalistico
anziché come mera divisione funzionale (tecnica) del lavoro a fini di decentramento e di
efficienza, e in modo pieno (cioè come principio promozionale dell'Altro) anziché in modo
puramente difensivo (cioè come mera salvaguardia delle comunità minori rispetto a quelle
maggiori). Al fondo, si vede che il progetto di cui si parla, per essere viabile, deve trovare
un sostituto alla distinzione-guida che è stata fondamentale nella modernità, quella fra lib e
lab, ovvero fra destra e sinistra: la mia convinzione è che la distinzione-guida che può
sostituire la precedente sia quella fra umano e non-umano, o, per dirla in modo più
sociologico, fra società dell'umano (società prodotta come relazione umana) e società
tecnica (società prodotta da e mediante la tecnica) (P. Donati, 1993).
1.3. Il progetto culturale non è, né deve essere, a mio modesto avviso, un piano
razionalistico, ingegneristico, di costruzione di un qualche edificio prefigurato sulla carta.
Piuttosto è, o dovrebbe essere, la costruzione di una comunità di discorso, di un linguaggio
comune, di un comune codice culturale, con cui e attraverso di cui orientare la società
europea verso criteri di comune vita associata che possano ridondare a beneficio non solo
dei popoli europei, ma anche del resto del mondo. L'Europa di Maastricht e dell'euro non
può essere un club esclusivo di paesi ricchi che vogliono soprattutto mantenere e
incrementare il loro benessere in competizione con l'America del Nord e il Giappone, a
detrimento dei paesi in via di sviluppo o delle aree più povere del mondo.
Se tutto questo è vero, come io credo, allora il progetto culturale della Chiesa italiana
deve essere la definizione di un orizzonte di finalità, e di concrete vie per perseguirle, che
possa realizzare un'Europa significativa dal punto di vista degli ideali umani che essa
incorpora e si propone di realizzare, alla luce di una visione cristiana della vita e della storia.
Il progetto deve essere la configurazione di una società di diritti umani (e non solo quelli
civili, politici ed economico-sociali tipici della modernità) che possa valere per il mondo
intero.
La tesi che vorrei proporre è che un tale progetto si pone necessariamente come
alternativa ad un sistema - quello della società europea contemporanea, nata dalla
modernità europea - che produce livelli apprezzabili di ricchezza materiale e di sicurezza
sociale, ma che non produce più senso umano, anzi produce malessere, e inoltre non è
esente da rapporti sociali iniqui al proprio interno e con il resto del mondo.
Siamo entrati, così si dice, in Europa: a quando ne eravamo usciti ? E poi, di che tipo di
ingresso si tratta ? Ingresso a che cosa ?
I cattolici italiani devono porsi questi interrogativi non solo e non tanto dal punto di
vista economico, quanto da quello culturale. Che cosa significa l'espressione - divenuta
corrente nel linguaggio quotidiano - di “entrare in Europa”?
Pochi, credo, potrebbero rispondere a questa domanda. È assai difficile dire in che cosa
dobbiamo ‘farci europei’ sotto il profilo culturale e sociale, una volta che si lascino da parte
i parametri di Maastricht e - più in generale - le considerazioni economiche.
Le domande che ci sfidano suonano piuttosto così: l'Italia che “entra in Europa” troverà
modelli culturali più o meno validi rispetto a quelli che ha già? Troverà più o meno fede
religiosa di quanta non ne veda al proprio interno? Con quali altre culture (in particolare
religiose) dovrà confrontarsi? Quali modelli culturali troverà in Europa e quali dovrà
assumere a suo paradigma ove voglia essere considerata una società ‘veramente’ europea?
Come potrà compararsi con questi modelli, fino a che punto lo potrà fare e con quali esiti?
Queste e altre domande sono di una estrema complessità. Non posso e non voglio
affrontarle in questa sede. Dirò solo che le classi dirigenti italiane che hanno realizzato la
convergenza economico-monetaria non si sono poste questo problema. Semplicemente ce
lo hanno lasciato come un problema da risolvere, possibilmente - a loro dire - dopo che si
sarà veramente realizzata l'Europa economica.
Eppure, è evidente a tutti che il cosiddetto ingresso in Europa implica, per l'Italia,
confrontarsi con Paesi in cui il cattolicesimo è in maggiore difficoltà che da noi, Paesi che
hanno modelli culturali prevalenti che corrispondono a tradizioni alternative a quella
cattolica, come le tradizioni protestanti, liberali e in generale secolarizzate e secolarizzanti.
La sfida, dunque, è grande. Anche perché l'Europa è profondamente divisa da cleavages
culturali che la percorrono in tutte le direzioni, secondo le distinzioni Ovest/Est,
Nord/Sud e altre ancora, che non possono trovare facilmente una composizione. E poi
quale tipo di composizione è auspicabile e/o percorribile?
Come affrontare l'inevitabile confronto che il contesto socioculturale dell'Italia, già
molto divisa in se stessa, dovrà affrontare nel momento in cui si faranno sempre più forti e
concrete le pressioni per realizzare convergenze con gli altri Paesi su comuni orientamenti
culturali e, in senso lato, comuni politiche sociali, ben oltre i comuni interessi economici?
1.4. In questo breve contributo, io vorrei delineare uno scenario plausibile e offrire
ragionevoli indicazioni che siano utili ad un progetto culturale che consenta ai cattolici
italiani di non subire passivamente il confronto europeo, ma anzi di essere protagonisti e
offrire un contributo originale.
A mio avviso, bisogna partire da un dato di fatto, l'estrema eterogeneità delle culture in
Europa, e da un'esigenza, quella di costruire una “casa comune”, in modo da rispettare
quanto di meglio vi è nelle differenti tradizioni culturali e allo stesso tempo metterle in
sinergia, senza alimentare propositi né di colonizzazione né di omologazione da parte di
una cultura sulle altre.
Dal mio punto di vista, questo Progetto si identifica, allora, nel concepire la costruzione
dell'Europa come costruzione di una specifica ‘cittadinanza societaria europea’. Ed è
all'illustrazione di questa idea-guida che vorrei dedicare l'intero contributo.
Il senso della proposta sta in questo. Che solo una cittadinanza societaria ad hoc può
consentire di pensare il futuro dell'Europa in termini di:
- equilibrio dinamico fra processi di integrazione e differenziazione culturale;
- di valorizzazione delle specifiche radici culturali europee (greco-latine-cristiane), senza
incorrere negli errori di una modernità che, mentre ha in apparenza valorizzato l'uomo, è
incorsa nella fine del soggetto umano e in una cultura che enfatizza - anziché un sano e
legittimo pluralismo - un “pluralismo indifferenziato” (Fides et ratio, pr. 5) basato sul
neutralismo etico;
- evitando le attuali tendenze societarie che generano disorientamento, rischio e
incertezza, non già quali effetti indesiderati e in qualche modo inattesi, ma invece quali
'condizioni normali' e strumenti previsti e programmati opportunisticamente all'interno di
un progetto evoluzionistico e pragmatico, proprio dell'attuale establishment europeo, il quale
rischia di portarci dritti dritti verso l'implosione della società.
In ultima analisi, si tratta di ri-pensare i fondamenti del processo di civilizzazione, cioè di
costruzione di una nuova società civile (P. Donati, 1997a), e di fare questo senza negare, ma
anzi valorizzando la missione evangelizzatrice della Chiesa. Come cercherò di spiegare, ciò
implica prendere le distanze dall'attuale Progetto Europeo basato su un assetto lib/lab e su
una configurazione societaria che procede liquidando le proprie radici culturali, per
delineare un'alternativa plausibile. Questa alternativa deve essere costruita sulla distinzione
umano/non-umano.
2. La crisi della cittadinanza moderna europea
2.1. I modelli culturali trovano la loro integrazione, così come il loro conflitto, in una
sfera pubblica che siamo soliti chiamare della cittadinanza. Il problema che l'Europa oggi
ha è quello di decidere se tale sfera debba essere moralmente neutra (in-differente sul piano
etico) oppure invece moralmente qualificata.
Ora, è un fatto che la cittadinanza europea tipicamente moderna è entrata in crisi quanto
più ha scelto la via del neutralismo etico. La crisi non si riferisce tanto alla democrazia
come sistema di governo (le istituzioni politiche rappresentative non sono generalmente in
causa), quanto al nucleo del suo assetto istituzionale, cioè alle istituzioni che garantiscono e
promuovono quel complesso di diritti che siamo soliti chiamare diritti di cittadinanza.
La crisi della cittadinanza moderna, impostata sulla omogeneità culturale della nazione
che sta dietro lo Stato-nazione, ha a che fare soprattutto con novità nell'ambiente culturale
(in senso sistemico) della politica. L'ambiente culturale della cittadinanza, infatti, non
produce più motivazioni, valori, norme che siano in sintonia con le istituzioni del moderno
Stato-nazione democratico. È per questo motivo che, alla lunga, anche la democrazia
potrebbe correre seri pericoli. Di qui una crisi senza precedenti: diventa possibile una
democrazia senza cittadinanza (o con ridotta cittadinanza) moderna, così come diventa
possibile una cittadinanza senza democrazia (o con limitata democrazia) moderna. È la fine
della modernità. La mia tesi è che sono in atto processi che, assieme ad alcune continuità,
presentano forti discontinuità con il progetto moderno della cittadinanza, e della
democrazia come forma omogenea di sistema politico. Gli aspetti ‘regionali’ rappresentano
solo una dimensione di una crisi assai più complessa.
Se un progetto culturale ha un senso, oggi in Europa, questo senso lo deve avere (e
trarre) in quanto risposta a questi fenomeni.
2.2. Le democrazie europee sembrano in una empasse più grave di quella americana.
Poiché in Europa lo Stato gioca un ruolo più decisivo, allorché lo Stato entra in crisi
sembra che tutto l'edificio della cittadinanza venga rimesso in discussione.
La domanda che ci si pone è: in Europa, e in Italia in particolare, l'attuale crisi della
cittadinanza porterà ad un rilancio della stessa, oppure ad una involuzione, oppure ad una
americanizzazione della politica, o a che altro ancora? Quali che possano essere gli sbocchi,
un fatto è certo, anche se non tutti sembrano accorgersene: è finita l'epoca della continuità
moderna. Siamo di fronte alla nascita della cittadinanza postmoderna. Come dobbiamo
intenderla?
Alcuni ritengono che, al di là delle fluttuazioni odierne, le istituzioni fondamentali della
cittadinanza moderna possano essere mantenute e anche incrementate qualora si restringa
l'idea di cittadinanza ad un ‘nucleo emancipativo forte’. Altri pensano che si debba
de-giuridificare la cittadinanza, e farne una questione di libertà di ‘dissenso’ nell'ambiente
del sistema politico. Altri rilevano le difficoltà, ma anche la necessità di includere le
differenze culturali e ascrittive (non di tipo acquisitivo parsonsiano) nelle istituzioni di
cittadinanza ereditate della modernità. Altri ancora, propongono una nuova
generalizzazione di valori, sotto forma di “bene comune” o ancora sotto forma di un diritto
di “condivisione universale”.
Quali che siano le analisi e le proposte di fuoriuscita dalla crisi attuale, in ogni caso a me
sembra che esse portino la cultura della cittadinanza al di là del "codice statuale" verso
quello che chiamo un “codice societario" della cittadinanza: la cittadinanza quale
espressione della società anziché dello Stato (P. Donati, 1993).
3. Positività e limiti della proposta lib-lab
3.1. La cittadinanza moderna, caratterizzata dalle forme liberali e socialiste, è stata
certamente una conquista significativa e con conseguenze enormi per la vita sociale. Essa
ha consentito di liberare energie umane vincolate a legami ascrittivi e così costruire una
“società aperta” preoccupata allo stesso tempo di preservare e incrementare libertà ed
uguaglianza (B. Turner, 1986, pp. 134-136). Che tale conquista possa essere descritta anche
come meccanismo della differenziazione sociale (come pensano i funzionalisti sistemici),
nulla toglie al fatto che essa sia stata prodotta come risultato di un'azione storica
intenzionale, ‘volontaristica’, portata avanti da movimenti culturali e sociali orientati ad una
idea di ‘emancipazione umana’.
Dal punto di vista sociologico, il principale risultato è stato una certa valorizzazione
dell'individuo umano contro la sua ‘chiusura’ in gruppi sociali localistici, particolaristici, di
tipo ‘corporativo’.
Si è avuta così una fioritura senza precedenti delle libertà civili, innanzitutto quelle di
parola, opinione, associazione, di praticare la propria fede religiosa, di stipulare contratti, e
in generale di muoversi fra ambiti sociali in precedenza separati da barriere insuperabili.
Tutti fenomeni che hanno consentito una enorme crescita di soggettività umana e
corrispondenti iniziative sociali.
Le preoccupazioni per l'uguaglianza sociale hanno, in generale, teso a contemperare gli
effetti asimmetrici prodotti dalle libertà liberali e ad introdurre maggiori garanzie nelle
opportunità di accesso ai beni sociali per le grandi masse di popolazione.
Che la valorizzazione dell'individuo abbia messo in gioco, e anzi abbia portato a
eliminare le relazioni sociali, riducendo la persona (individuo-in-relazione) a mero ‘Io’
(soggetto monadico), è un fatto. Che libertà ed uguaglianza siano diventati codici
simbolico-normativi dell'evoluzione sociale che operano ‘automaticamente’ anziché
‘ideologicamente’ (cioè come procedure - anche amministrative - più che come forze
intenzionali e come norme rinvianti a dei presupposti morali), è - per certi versi - un'altra
realtà. Ma, nella società, gli individui puri non esistono e i meccanismi funzionali non
operano privi di senso umano, come attribuzione di un significato alle operazioni che la
società e gli agenti sociali compiono o ‘sentono’ di dover compiere.
L'espansione della cittadinanza nei secoli XIX e XX ha certamente implicato una
continua esplorazione e affermazione di ciò che significa contare come individuo umano
nella vita sociale. E questo ha significato, come ancora significa, interrogarsi sui “diritti
umani” in quanto distinti da quelli inclusi nelle forme di cittadinanza storicamente
realizzate.
Seguendo in tutto o in parte le note tesi di T.H. Marshall (1950), molti autori hanno
evidenziato come la moderna cittadinanza occidentale abbia sviluppato i diritti sociali di
uguaglianza nella cornice delle libertà civili e politiche. Quale che sia il modo e il quantum di
interazioni fra questi diversi tipi di diritti (o dimensioni della cittadinanza), il principale
problema che, con Marshall e dopo di lui, rimane aperto è se la società contemporanea
attenda solo una progressiva estensione, come moltiplicazione e dilatazione, dei diritti intesi
secondo la modernità (nell'assunto che la modernità sia un ‘progetto incompiuto’ che
attende solamente di essere ‘portato sino in fondo’), oppure se la società odierna manifesti
una messa in causa, con forti discontinuità o addirittura con radicali modificazioni, di ciò
che costituisce un diritto di cittadinanza. Una discontinuità che chiama in causa l'ambiente
‘umano’ esterno al diritto e alla politica.
3.2. La risposta a questo interrogativo si è manifestata storicamente, negli ultimi decenni,
in modi assai differenti. Due esperienze, fra le altre, sono state paradigmatiche: quella
marxista e quella lib-lab.
La prima, dopo un periodo storico di eccezionale espansione, è fallita. La seconda
sembra invece avere avuto un notevole successo. Ma è dubbio se, in che misura e qualità,
possa interpretare e anche ‘guidare’ il processo storico in corso, nel passaggio al
postmoderno.
3.3. Sulla concezione marxista della cittadinanza non è il caso di soffermarsi a lungo. In
generale, essa ha oscillato fra due poli. Da un lato, ha tratto le conseguenze dalla sfiducia di
Marx verso i compromessi politici e verso il diritto come espressione della società
borghese, e dunque ha cercato di svelare il fatto che la cittadinanza liberal-democratica,
sarebbe, in realtà, un “re nudo”. Dall'altro, ha cercato di sviluppare, nello stesso tempo, i
potenziali di emancipazione della cittadinanza moderna come strumento di progresso
sociale, per quanto ‘mistificato’ fintanto che la società non raggiunga lo stadio del
‘comunismo reale’. Nel complesso, questa concezione ha mantenuto, come ancora
mantiene, l'idea che la cittadinanza moderna sia essenzialmente una risposta ai problemi
sociali generati dal capitalismo, e in un certo senso una sovrastruttura di questi. Una
sovrastruttura che, in parte in modo intenzionale (consapevole) e in parte in modo
meccanico (per logica evoluzionistica), lavora comunque in direzione della liberazione
dell'umanità da ogni forma di repressione e sfruttamento.
Circa la struttura del complesso della cittadinanza, la posizione ideologica del marxismo
classico afferma il primato dell'economico nella dinamica sociale e quindi non rinuncia
all'idea che le variabili economiche determinino quelle politiche di governo della società.
Secondo i neomarxisti, invece, si dovrebbe riconoscere un qualche spazio e una relativa
autonomia ad altri fattori, culturali e/o normativi. Ma, anche in quest'ultimo caso, il
discorso sulla cittadinanza non riesce a liberarsi dalle ipoteche del politico, dal momento
che gli elementi culturali e/o normativi restano pur sempre incorporati (o comunque sono
interpretati) dal politico. I diritti di cittadinanza sono considerati come istituzionalizzazione
politica (=per forza di potere) di bisogni materiali di tipo collettivo, inerenti a quello che
Marx chiamava il “singolo sociale”.
Il grande limite delle posizioni marxiste, pur variegate fra loro, sta nel fatto di leggere la
cittadinanza come un gioco limitato alle relazioni fra sistema economico e politico, fra le
spinte disugualitarie (supposte tali) del primo e le garanzie (supposte tali) del secondo. In
tale quadro, la cittadinanza viene ad essere configurata come uno strumento di
emancipazione provvisoria, sempre incompiuta fintanto che non arrivi il “comunismo”,
cioè non venga socializzato il sistema economico nel suo complesso. I diritti sono concepiti
come ‘conquiste’ sociali che debbono essere prese con la forza (vuoi fisica, come nel primo
marxismo, vuoi con la forza dell'opinione e del voto politico nelle forme più
democratiche). La loro funzione è quella di riconoscere dei ‘bisogni collettivi’ che debbono
essere ‘soddisfatti’.
Per l'ortodossia marxista, il linguaggio dei diritti mantiene un carattere ideologico
‘borghese’. E il comunismo è ancora, in linea di principio, quell'assetto della società in cui i
diritti, sia come patti sia come costrizioni storico-sociali contingenti, non dovrebbero più
essere ‘necessari’.
Nelle forme revisionistiche, invece, si riconosce una relativa autonomia al diritto come
espressione di una realtà autonoma indispensabile, non riducibile ad un artificio per
mascherare la disuguaglianza fra le classi sociali. In quest'ultima forma il pensiero
neomarxista muta notevolmente, perché riconosce che la disuguaglianza sociale ha una
pluralità di forme e di fonti, in particolare culturali, che sono relativamente indipendenti
dalle basi puramente economiche della società. Ma le ambiguità non sono risolte. Anziché
aversi un trattamento differenziato delle diverse sfere di vita, si ritorna sempre ad un
qualche ‘primato del politico’, e del politico ‘sistemico’.
Ovviamente, dire ciò non significa misconoscere il fatto che alcuni concreti movimenti
storici di ispirazione marxista hanno rappresentato importanti fattori per l'allargamento dei
diritti di cittadinanza alle classi sociali subalterne e alle categorie sociali emarginate (donne,
poveri, immigrati, ecc.).
3.4. È invece la via lib-lab che ha avuto di recente un notevole rilancio. Per essa, la
cittadinanza è un complesso di diritti degli individui che deve corrispondere al disegno di
una società ‘pluralista’.
Ho detto di ‘diritti’ e non anche di ‘doveri’ volutamente, perché, per quanto i secondi
siano o sembrino in qualche modo impliciti, essi non sono direttamente e chiaramente
esplicitati (su questo importante aspetto ritornerò più oltre). Si tratta della concezione
‘vittoriosa’ dell'Occidente sul "comunismo orientale". Dobbiamo perciò analizzarne
positività e limiti più in dettaglio.
Vediamone innanzitutto le positività.
Ralf Dahrendorf (1994), notoriamente uno dei massimi campioni del pensiero lib-lab,
pone la domanda fondamentale: in che cosa consiste la qualità della cittadinanza? La
domanda non è teoretica, ma storica: essa viene riferita alla società europea moderna e
contemporanea, in particolare guardando alle vicissitudini della cittadinanza dopo una
decade, quella degli anni '80, che è stata ricca di due grandi avvenimenti: da un lato una
forte crescita economica in Occidente (benché si sia trattato in parte di un capitalismo
d'azzardo e selvaggio, basato anche sulla contrazione di debiti e prestiti), e dall'altro la
caduta del comunismo all'Est.
Per capire tali eventi, in buona misura inattesi, dice Dahrendorf, bisogna comprendere
che le società moderne e contemporanee operano su due grandi ‘temi’, che sono i due poli
che rendono la società aperta e progressiva. Il primo tema ha a che fare con la crescita e
con l'ampliamento del raggio delle scelte, ossia con il lato dell'offerta (supply side) di nuovi
approvvigionamenti (provisions). L'altro tema ha a che fare con l'accesso alle scelte che
vengono offerte, quindi con le opportunità intese come ‘biglietti di ingresso’ ai beni offerti,
cioè a dire con le intitolazioni (entitlements) a diritti.
A suo avviso, la cittadinanza appartiene precisamente al lato politico della intitolazione
di questa figura (entitlement side), che - a suo parere - non ha alcun carattere sistemico. In
breve, secondo Dahrendorf la cittadinanza è uno status universalistico conferito in modo
incondizionato a individui (e solo individui) sulla base di un criterio essenzialmente politico:
il diritto di cittadinanza viene attribuito come intitolazione per l'accesso a determinati beni
o prestazioni dello Stato-nazione. Evidentemente, se lo Stato dà questa intitolazione,
occorre che abbia qualcosa da offrire. E per questo è necessario che, prima, il mercato
abbia potuto lavorare liberamente per produrre beni e servizi.
In concreto, per l'approccio lib-lab, la cittadinanza è il risultato di un regime politico che
estende progressivamente la combinazione fra offerte (provisions), date dal mercato, anche
quello culturale, e intitolazioni a diritti (entitlements), date dallo Stato. Tutti riconoscono
che, negli anni '50 e '60 questa combinazione ha funzionato bene (sulla base del modello
keynesiano), mentre negli anni '70 si è inceppata. Gli anni '80, invece, sono stati
caratterizzati dalla crescita nell'offerta (degli approvvigionamenti della supply side economy) e
dal declino di molti entitlements (messa al margine di molte intitolazioni universalistiche, non
solo di quelle di welfare).
All'inizio degli anni '90, e nella prospettiva dell'anno 2000, Dahrendorf vede tre grandi
problemi, o sfide, alla cittadinanza.
Il primo consiste nella esistenza, anzi nella emergenza, di una ‘sottoclasse’ (underclass),
grossomodo definita come l'insieme degli individui socialmente marginali o esclusi, i cui
problemi possono essere risolti soltanto con una estensione dei diritti come intitolazioni di
cittadinanza.
Il secondo consiste nella riemergenza di spinte culturali che comportano sentimenti di
appartenenza a gruppi etnici particolari i quali mettono in crisi lo Stato moderno. Ad avviso
di Dahrendorf, queste spinte alla autodeterminazione nazionale (secondo le etnìe) sono
dannose e comunque rappresentano un pericolo per la cittadinanza. Egli ritiene che la
cittadinanza fiorisca negli Stati nazionali che sono eterogenei quanto alle etnie e alle
tradizioni culturali locali o particolari, mentre deperisce nelle nazioni omogenee e
autodeterminate (egli insiste sulla seguente differenza: le nazioni, a suo dire, sono ‘tribù di
uguali’, mentre gli Stati-nazione sono costruzioni consapevoli per il bene comune, il
commonweal). In base a ciò, egli si oppone con forza all'idea di una “Europa delle regioni”,
come all'idea di un'Europa delle diverse culture, che, sempre a suo avviso, sarebbe “una
pessima formula che ci riporterebbe alle tribù”.
Il terzo problema è quello ecologico, dell'habitat umano. Qui si gioca la terza grande
pressione per dare maggiore potere ai cittadini. I rischi che minacciano la vita umana sul
pianeta sono oggetto di nuove richieste di entitlements. “Non sono sicuro, egli afferma, se si
possa stipulare una titolarità ad un ambiente vivibile per tutti noi come cittadini del mondo,
e con ciò ad azioni che la sostengano, ma qualcosa di tal genere dovrebbe entrare
nell'agenda della cittadinanza”.
3.5. Il disegno lib/lab è chiaro e non manca di una sua capacità di persuasione.
Alla base della struttura di cittadinanza ci sono i diritti umani e civili (non meglio
specificati) il cui nocciolo è la libertà. Su tali diritti debbono essere erette le istituzioni
politiche capaci di realizzarli attraverso intitolazioni che debbono offrire opportunità
piuttosto che determinare degli obiettivi o prescrivere particolari norme o sentieri di azione
alla gente. Tali intitolazioni debbono essere universalistiche e incondizionate.
Ma possiamo continuare a vivere nella libertà? A questa drammatica domanda, che egli
stesso si pone, Dahrendorf risponde di non essere per nulla sicuro di quale sarà la risposta
della società. “Freedom above all” è il suo motto, come programma per la sopravvivenza. La
società aperta è, a suo avviso, l'unica risposta che abbiamo per sopravvivere nella libertà. E
i diritti di cittadinanza, che costituiscono per lui il "cuore" della società aperta, debbono
essere riformulati non dalla gente comune (che, a suo avviso, è alquanto disorientata), ma
da ‘menti precise’ che non li utilizzino per fini deviati o per proteggere e mascherare
interessi particolari anche se diffusi. «Alla fine della strada da percorrere - così conclude
Dahrendorf - deve esserci la visione di Immanuel Kant di una società civile mondiale».
Si può, in breve, sintetizzare il pensiero lib-lab in questi termini. La cittadinanza è una
estensione di diritti operata dalle istituzioni politiche (statuali o sovranazionali) nei
confronti degli strati sociali esclusi dai beni prodotti attraverso il libero mercato, mediante
nuove garanzie di accesso a tali beni. Anche se la cosiddetta underclass fosse soltanto il 5%
della popolazione, il resto della società non potrebbe vivere tranquilla sapendo che una
parte di essa non gode dei fondamentali diritti di sopravvivenza.
Chi assicura questa cittadinanza? Il “soggetto garante” di tale istituto, e del suo
progresso, deve essere - secondo Dahrendorf - ‘qualcuno’ che prende il posto delle élites
borghesi della prima modernizzazione. Nuove élites illuminate, insieme economiche e
politiche, succedendo alla prima borghesia liberale, dovrebbero da un lato aumentare
l'offerta di beni di mercato e dall'altro allargare i diritti di accesso a tali beni a cerchie
sempre più ampie, e alla fine, alla totalità della popolazione. Come ciò possa avvenire non è
ben chiarito da Dahrendorf. Quel che è certo è che la sua concezione della cittadinanza
non elimina di certo il dubbio che si tratti di una strategia delle classi dominanti per
mantenere il governo della società. La concezione di Dahrendorf si inscrive nel filone delle
strategie elitarie: da un lato c'è una élite economica la quale garantisce che vengano offerti
beni economici; dall'altro c'è una élite politica che, agendo nelle istituzioni mediante partiti
che governano secondo regole democratiche, garantisce che gruppi sempre più vasti di
popolazione possano accedere a tali beni senza condizioni.
3.6. In questo disegno, si può apprezzare il fatto che la cittadinanza venga intesa come
un principio di equità redistributiva. Ne sono però evidenti anche i molti limiti.
Innanzitutto di osservazione sociologica.
a. Nell'approccio lib-lab, la società è un intreccio di economico e politico, il resto è
irrilevante per la cittadinanza, è sfera ‘privata’. Si capisce bene dove vada a finire la
religione: nella sfera delle preferenze meramente private, senza alcuna incidenza sociale o
pubblica. Questa impostazione, lungi dal valutare - come dovrebbe - le sfere socioculturali,
le mette completamente da parte. Le differenze culturali, tra le quali quelle che forgiano le
identità nazionali, sono per lui solo un ostacolo alla cittadinanza. Si noti: le dimensioni
culturali, tra cui, ovviamente, le caratteristiche religiose ed etniche, non hanno cittadinanza.
b. In questo approccio, non esiste alternativa ad una cittadinanza intesa quale
combinazione fra liberalismo e socialismo. Secondo Dahrendorf, la struttura politica non
deve farsi carico altro che di una possibilità, quella di combinare libertà ed uguaglianza
nell'accesso alle intitolazioni di cittadinanza sullo sfondo di una sola premessa e promessa:
“libertà contro sistema”. La solidarietà sociale non entra nel discorso, né come base del
consenso democratico che deve sostenere l'estensione e il mantenimento delle intitolazioni,
né come - essa stessa - titolo di cittadinanza per le forme sociali che si orientano su di essa.
c. Nell'approccio lib-lab, la cittadinanza, per definizione incondizionata, mette i cittadini
in uno status di 'ricettori'. Una delle conseguenze è che la cittadinanza viene a confondersi
con l'assistenza, anche se le intitolazioni sono date come diritti, e non come benefici
discrezionali. Ciò comporta un equivoco silenzio sui doveri. È evidente che, in generale, la
cittadinanza implica doveri (per esempio pagare le tasse), ma nell'approccio di Dahrendorf i
doveri non hanno relazioni strutturate con i diritti e possono anche venire meno (ad
esempio, per certi gruppi di persone marginali, che si suppone non possano dare nulla alla
società). In questa impostazione, proprio il fatto di considerare la cittadinanza come un
puro e semplice conferimento di status, comporta che coloro i quali si trovano in condizioni
socialmente deboli e marginali vengano confermati in una posizione considerata incapace
di qualunque scambio socialmente rilevante.
3.7. A fronte di questa impostazione, la domanda che si pone è: tali assunzioni sono
capaci di identificare una cittadinanza adeguata ad un progetto culturale europeo, in
particolare ove lo si voglia perlomeno compatibile con una ispirazione cristiana?
C'è più di un motivo per affermare che la prospettiva lib-lab, che è poi quella dell'attuale
establishment europeo, e che si identifica con le proposte più innovative (come la
cosiddetta “terza via” di Tony Blair, una sorta di mixage fra lib e lab, basato sulla conflazione
centrale di agency e struttura sociale), sia fondamentalmente incompatibile con una visione
cristiana di un'Europa significativa sotto il profilo culturale. In corrispondenza ai tre assunti
di cui sopra, si può rilevare almeno quanto segue.
a. Ciò che sta fuori del binomio Stato-mercato non è irrilevante agli effetti della
cittadinanza, non è mero ‘privato’, ma anzi contiene dimensioni essenziali per la
cittadinanza. Chi ha detto che realizzare una sempre più piena cittadinanza significhi
annullare la rilevanza delle differenze culturali (ovvero di identità) che nascono fuori dal
mercato e dal politico? Si può condividere l'idea che “la cittadinanza non sarà mai completa
finché non sia cittadinanza mondiale”. Una tale prospettiva difficilmente può trovare degli
avversari teorici, anche se poi non tutti ne traggono le necessarie conseguenze. Ma il punto
è un altro: ci si deve chiedere se il passaggio dalla cittadinanza della città-Stato alla
cittadinanza dello Stato-nazione e poi a quella di comunità sovranazionali (come quella
europea), fino a quella mondiale, sia possibile se e solo se vengono rimosse le identità
primarie. Al contrario, se si deve dar credito alle ricerche empiriche, si deve prendere atto
che la crisi odierna della cittadinanza sta proprio nel fatto che essa non riesce a rispondere
ad esigenze di identità socioculturale che si formano fuori dell'area Stato-mercato, e dunque
che tale crisi è precisamente una conseguenza di corsi di azione e iniziative che hanno
pensato di poter rendere tali identità irrilevanti per la sfera politica.
b. La cittadinanza concepita essenzialmente come problema di bilanciamento fra libertà
(esigenze antisistemiche) ed uguaglianza (come valore funzionale all'ampliamento delle
libertà) evita di misurarsi con i problemi di regolazione sociale che tale impostazione
comporta, specie nelle società tardo-moderne. Non c'è bisogno di essere “ossessionati dal
problema dell'ordine sociale”, come polemicamente qualcuno sostiene, per riconoscere che,
per il suo modo di funzionare, l'operatore simbolico che combina libertà ed uguaglianza alla
maniera lib-lab genera enormi problemi sociali connessi all'erosione dei circuiti di reciprocità
(ristretta e allargata) che deriva da un uso improprio dei codici mercantili e politici in sfere
di relazioni sociali che non sono né mercantili né politiche. Anche se si può essere
d'accordo sul fatto che la pianificazione (come ogni sistema basato su una programmazione
precettorale) non è una risposta regolativa che possa funzionare, è tuttavia evidente che la
combinazione lib-lab è quasi muta sui problemi della regolazione complessiva dei sistemi
sociali odierni.
c. Una cittadinanza intesa e praticata per definizione come intitolazione senza condizioni
solleva il problema della mancanza di reciprocità nelle aspettative e nei comportamenti che
intercorrono fra individui e Stato, come fra gli stessi soggetti della cittadinanza. Una tale
cittadinanza rischia sempre di tradursi in assistenzialismo, e in concreto di dipendere dalle
risorse di cui le élites possono disporre in rapporto agli alti-e-bassi delle congiunture
economiche.
3.8. I pensatori lib-lab non sembrano aver capito molto delle discontinuità storiche che si
sono aperte negli anni '80. Non hanno veramente compreso perché il welfare state basato su
orientamenti lib-lab sia entrato strutturalmente (e non contingentemente) in crisi, per
ragioni legate alla sua propria logica interna che non dipendono solo da difficoltà nel
funzionamento del mercato, o della burocrazia, o nel reperimento delle risorse. Inoltre, i
pensatori lib-lab non hanno compreso il senso delle emergenze regionali (nazionali), che
interpretano come ri-emergenze “tribali” (così Dahrendorf le definisce), anziché quali
espressioni di culture comunitarie che, su un certo territorio, tentano una ridefinizione delle
relazioni fra universale e particolare (R. Gubert, 1992). Ancora: i pensatori lib-lab non
danno indicazioni su come possano essere ancora estesi ed allargati i diritti (intitolazioni) in
presenza di sistemi fiscali che, come quello italiano, sono stati portati al limite delle loro
capacità impositive (oltre al fatto di essere basati sull'inefficienza e sull'iniquità).
Più in generale, i pensatori lib-lab non hanno capito che il gioco della cittadinanza
moderna intesa come creazione di ricchezza attraverso il mercato e poi di redistribuzione
per via di intitolazioni, mediante meccanismi universalistici (in quanto) centralizzati, è un
gioco che è giunto al suo limite. Beninteso, l'idea che l'inclusione nel sistema politico possa
risolvere i problemi dei gruppi sociali emarginati garantendo loro condizioni di miglior
benessere materiale non è certamente divenuta obsoleta. Ma il meccanismo di inclusione
non può venire assicurato semplicemente attraverso una sempre ulteriore generalizzazione
di strumenti centralizzati e di corrispettive garanzie di sicurezza sociale materiale. Intendere
lo sviluppo della cittadinanza solo come estensione del welfare state pubblico significa
modellare la società su una “forma panottica” (mi riferisco al Panopticon di J. Bentham) di
controllo sistemico che, oltre a non poter risolvere una quantità di problemi sociali,
produce enormi effetti perversi. Un tale approccio rimane comunque troppo normativo, e
diventa insostenibile a partire dal momento in cui ci si rende conto del fatto che gli
stereotipi del benessere universalistico nascondono ampie variazioni nel trattamento degli
individui e delle famiglie.
Inoltre: dove trovare quella élite illuminata, cui Dahrendorf si appella, che dovrebbe oggi
garantire il progresso sociale per le masse escluse (diseredati, immigrati clandestini, drop-out
people, ecc.)? E poi: chi assicura che il meccanismo della cittadinanza come semplice
allargamento delle intitolazioni possa ancora funzionare laddove crescono le aspirazioni e le
pretese? E laddove ci siano crisi congiunturali o strutturali profonde della economia? E che
dire dei nuovi migranti? Per essi, si deve pensare solo in termini di rifiuto/accesso ad una
cittadinanza universalistica e incondizionata oppure possono esistere altre forme di
soluzioni intermedie, adatte a situazioni temporanee o di transito da un territorio ad un
altro? Purtroppo, a tutte queste domande Dahrendorf non può rispondere.
Mancando un quadro adeguatamente complesso, Dahrendorf non può dare indicazioni
operative soddisfacenti sui maggiori problemi che sfidano oggi la cittadinanza: la
sottoclasse (underclass), l'autodeterminazione nazionale e regionale, i problemi dell'habitat
umano.
Egli non si rende conto che i nuovi mali sociali non consistono tanto in problemi di
disuguale accesso alla distribuzione delle opportunità offerte dal mercato, ma soprattutto in
problemi di giustizia nelle concrete relazioni sociali e culturali, singole e generalizzate. Per
questo motivo il suo appello alla “libertà” come soluzione-principe suona stonato e vuoto,
e lui stesso lo avverte. Il fatto è che Dahrendorf non sembra aver capito come i tempi siano
cambiati.
Lo stuolo di coloro che condividono le posizioni à la Dahrendorf è veramente grande,
anche se, ovviamente, con mille sfumature diverse. Non tutti, comunque, anche fra i teorici
della cittadinanza lib-lab, condividono una impostazione individualistica, per quanto
moderata e corretta da istituzioni di giustizia redistributiva. Nella riflessione
storicosociologica c'è chi ritiene che non si possa accettare l'individualismo metodologico
come base della concezione lib-lab della cittadinanza. All'interno del pensiero liberale, poi,
cresce il numero di studiosi interessati ad un “superamento” della prospettiva
individualistica come base della cittadinanza, una volta che diventi evidente l'incompatibilità
fra individualismo e cittadinanza (P. Birnbaum, J. Leca eds., 1991). Viene così elaborata la
distinzione fra “modelli individualistici” e “modelli altruistici” come stili differenti e per
molti aspetti del tutto divergenti della tradizione liberale (A. Besussi, 1992). Mentre, per
converso, il pensiero socialista si mostra più incline a incorporare elementi liberali,
soggettivi, negoziali, plurali (G. Andrews ed., 1991). Si tratta di riflessioni che possono
aprire un campo interessante di nuove prospettive di confronto e convergenza fra differenti
approcci culturali.
4. La differenziazione della cittadinanza europea e i suoi problemi di
integrazione universalistica
4.1. La mia argomentazione centrale è che, ferma restando la validità di una certa parte
delle analisi storico-empiriche degli studiosi lib-lab (riferite al passato), la concezione della
cittadinanza che essi esprimono, in quanto si rifà ad argomenti del tutto tradizionali e in
buona misura superati, è inadeguata ad affrontare lo scenario dell'Europa postmoderna. In
altri termini, se i contenuti, le forme e le procedure della cittadinanza a cui essi si
riferiscono sono stati distintivi della società moderna, borghese e industriale, tali
caratteristiche non connotano più le distinzioni-guida per i problemi della cittadinanza nelle
cosiddette società complesse. Per comprendere e affrontare le difficoltà della cittadinanza
nel nuovo contesto storico-sociale e culturale, occorre un nuovo framework concettuale
capace di osservare se e come venga prodotta una nuova legittimazione culturale.
4.2. Bisogna innanzitutto mettere a fuoco e approfondire l'idea, tutta moderna, che la
cittadinanza sia un ideale, un'opzione o una scelta “di sinistra”. Complessità, dopotutto,
significa che la distinzione destra/sinistra assume altri significati e viene anche sostituita da
altre distinzioni-guida.
La distinzione destra/sinistra, nata e sviluppata in un ambito storico e ideologico legato
alla dialettica idealistica (hegeliana e posthegeliana), può essere stata chiara fino ad ieri, ma
non lo è più oggi. È per questo che, da qualche tempo a questa parte, è sorto un vivace
dibattito su che cosa significhi asserire che la cittadinanza moderna è “di sinistra”.
Molti si chiedono: possiamo saltare a piè pari quanto Luhmann (1990) ha dimostrato,
cioè il fatto che destra e sinistra sono diventati i termini di una opposizione binaria (sempre
invertibile e reversibile) che serve alla differenziazione funzionale di un sistema che procede
‘opportunisticamente’?
La filosofia lib-lab più o meno implicitamente assume che l'espressione “di sinistra”
significhi prendere partito per l'identità cittadinanza=emancipazione, e che quest'ultima
coincida sic et simpliciter con più libertà (individuale) e più uguaglianza (sociale). Ma questa
impostazione, rimanendo totalmente all'interno della antropologia moderna, non guarda in
faccia le nuove realtà. Essa si rifiuta di prendere atto che:
a. in quanto la modernità significa incessante e crescente separazione fra individuale e
sociale, alla fine, ciò che ne consegue è che la combinazione sinergica di libertà individuale
ed uguaglianza sociale non solo ‘salta’ o è sempre meno tenibile, ma anzi si ribalta in
fenomeni imprevisti, come sono i nuovi ‘egoismi’ e vaste patologie sociali, dette appunto
della modernità;
b. se nella modernità il meccanismo binario destra/sinistra aveva una ‘direzione’ (l'idea
di emancipazione-liberazione dal dominio, di ogni tipo), nel postmoderno tale direzione
scompare, perché non c'è più una meta di liberazione finale, e con ciò il gioco dello
"scavalcamento a sinistra" che aveva contraddistinto il progresso moderno perde di senso.
Non a caso la maggior parte dei pensatori lib-lab, anche se non tutti, hanno difficoltà nel
parlare di “postmodernità”. Una espressione - a loro avviso - assai poco sensata. Schiavi,
sudditi, cittadini: è una sequenza che essi assumono come una storia ‘progressiva’ in
qualche modo necessaria, pur nella contingenza delle sue fasi e stadi di realizzazione.
In generale, l'idea che la moderna cittadinanza occidentale possa anche configurare o
addirittura generare nuove illibertà e nuove disuguaglianze, che insomma possa mangiarsi la
coda, viene ammessa solo da pochi. Questa ‘dimenticanza’ era già stata denunciata da
Dahrendorf in un saggio sul “cittadino totale”, negli anni '70, ma lui stesso sembra poi
averlo dimenticato nel corso del tempo. Lo riconoscono invece oggi solo coloro i quali
accettano un confronto con la realtà.
Se nella trattazione della gran parte dei pensatori lib-lab questi dubbi non sorgono è
perché, per essi, la cittadinanza è una idea (o un ideale, se si preferisce) contro-fattuale, che
si lascia assorbire senza residui nell'idea moderna di emancipazione: per loro cittadinanza
ed emancipazione sono non solo co-rispondenti, ma la stessa e identica cosa. Ma
l'emancipazione che cos'è?
La risposta è abbastanza semplice: per loro emancipazione è una combinazione
(ibridazione) ottimale di libertà liberale e di uguaglianza socialista. A fondamento della
cittadinanza, a loro avviso, c'è una condivisione di alcuni princìpi ovvero una "costituzione
di libertà": un assetto etico e giuridico della società, in breve un regime politico, basato sul
valore della scelta individuale e su una teoria contrattualistica della scelta collettiva.
Cittadinanza, dunque, è il mix, il ponte, la sinergia, o come altro la si possa pensare, fra le
due grandi ‘tradizioni moderne’: il ‘primo '89’ (1789, rivoluzione francese) e il ‘secondo '89’
(1889, seconda internazionale). Sulla linea di tale continuità sarebbe uscito il ‘terzo '89’,
ossia la caduta dei regimi comunisti europei.
Adesso, i problemi si ridurrebbero, a loro parere, a quelli di una nuova etica pubblica (S.
Veca, 1990, pp. 46-47). È questa la soluzione che io chiamo del neoindividualismo
democratico, della quale è sociologicamente dimostrata la inadeguatezza ad affrontare i
problemi che nascono dalla crisi del welfare state postbellico. Fra le altre cose, essa porta a
configurare, di fatto, una duplice cittadinanza: quella di chi è forte sul mercato, e quindi ha
un potere di scambio con lo Stato, e quella di chi, non avendo nulla da scambiare, deve
interamente dipendere dallo Stato per poter effettivamente fruire dei diritti a cui ha titolo.
I pensatori lib-lab si rendono ben conto delle difficoltà operative della loro proposta (o
visione), ed è forse anche per questo che molti di essi cercano di superare tali difficoltà
attraverso il radicamento del concetto di cittadinanza nella generalizzazione del concetto di
dignità umana, ovviamente uguale per uomini e donne. Ma, sfortunatamente, esso viene
espresso “entro l'orizzonte della recente modernità” (Veca, 1990, p. 19): il che significa che
‘dignità umana’ diventa un insieme indeterminato di aspettative di uguaglianza
contro-fattuali, difficili da giustificare e ancor più da perseguire. Al punto che l'idea di
uguaglianza può anche mascherare forme di meritocrazia regressiva (ad esempio: l'ideologia
dell'uguaglianza uomo-donna finisce oggi per legittimare una ‘meritocrazia repressiva’, per
la quale chi non ha successo - uomo o donna che sia - è esso stesso colpevole, come
individuo, del suo fallimento).
Certamente nessuno può sottovalutare l'importanza, i meriti e l'afflato morale della
concezione lib-lab. Essa è stata sempre mossa dall'intento di una crescente libertà umana,
per tutti gli esseri umani, nella preoccupazione delle condizioni di uguaglianza formale e
materiale che possono sostanziare e garantire una maggiore valorizzazione della autonomia
dei soggetti individuali. Ma ne è anche troppo evidente e scoperto il carattere euro-centrico
e ideologico. Né sfugge la portata utopica dello ‘sfondamento culturale’ che ha inteso e
intende produrre: per essa, cittadinanza non è più, come il pensiero classico o un
autolimitato punto di vista politologico potrebbero suggerire, la specifica relazione politica
che lega fra loro i consociati, ma diventa un ideale normativo di vita per l'intera società, che
ne assorbe e ne forgia l'etica, dunque anche le dimensioni pre e meta-politiche.
È su tale base che i pensatori di cui si parla arrivano alla conclusione che la cittadinanza
oggi e domani dovrebbe realizzare l'ideale kantiano rimasto incompiuto. Con le parole di
Veca (1990, p. 57), “non è impossibile” pensare all’utopia della società civile dei cittadini
del mondo, cioè “pensare in modo non patetico o fatuo a una fraternità o solidarietà di
specie”.
La prospettiva, inutile dirlo, è allettante, e sarebbe scorretto criticarla come semplice
utopismo. Ma ci si chiede: se la cittadinanza (europea) viene concepita come relazione che
connette gli esseri umani in quanto individui di una ‘specie’, dove ci porta la proposta
lib-lab? Non ci troviamo forse ancora una volta di fronte al sogno di una ‘secolarizzazione
infinita’ dell'antica idea, introdotta nella storia umana dal e con il cristianesimo, che esiste
una fraternità universale fra gli uomini derivante dal fatto di essere tutti figli di Dio? È
possibile tradurre un siffatto ideale in una filosofia politica senza alcun fondamento
religioso (un “minimo di religione” come Tocqueville direbbe) e, in parallelo, senza alcun
fondamento di ‘verità’ (che i pensatori lib-lab debbono per forza di cose ritenere
‘dogmatico’)?
Molti studiosi, come sappiamo (tra cui N. Bobbio, 1990), rispondono di sì. Ma c'è da
avere seri dubbi, perché la politica è politica, non religione, neppure una ‘religione laica’, e
la prima non può funzionare da equivalente della seconda. La politica non può dare le
prestazioni (‘religiose’) che i pensatori lib-lab si aspettano.
Può essere segno di un animo grande intendere la cittadinanza come ‘emancipazione
integrale’ dell'uomo, ma la cittadinanza è e resta solo e soltanto una relazione politica.
Come tale, essa deve bensì relazionarsi ai diritti dell'uomo, ma non può includerli. I diritti
dell'uomo non sono dominio della politica, ma semmai ‘ambiente’ di quest'ultima, e ogni
tentativo di assimilazione o inclusione totale dell'uomo nel cittadino porta, dietro l'idea di
emancipazione (in particolare quella moderna), ad una qualche forma di ‘totalitarismo’, che
non necessariamente deve essere pensato e agito in forme apertamente autoritarie di
governo. Almeno questa è l'esperienza storica dal primo '89 ad oggi. I pensatori lib-lab non
ci offrono dati o motivi per pensarla diversamente.
Chi è partito pensando, dentro la sfera politica latamente intesa, di costruire una società
come pura cooperazione in assenza di vincoli pre e meta-consensuali, ha dovuto subire le
secche smentite della storia. Come i pensatori lib-lab possono allora, oggi, pensare alla
cittadinanza in quanto istituzionalizzazione di una società di liberi ed uguali al di là della
scarsità e dell'economia, dell'autorità e della politica e dei vincoli di tutte le religioni
universali? Essi sono consapevoli di prospettare un'utopia. Sociologicamente, il problema è
che la pensano come possibile alla maniera dei moderni, mentre la società postmoderna
esige criteri per distinguere fra utopie sensate e utopie insensate.
Essi si affidano ancora alla vecchia distinzione destra/sinistra, mentre quest'ultima ha
perso di significato (anche se non di funzione, come Luhmann insegna). Non vedono che
essa è stata sostituita dalla distinzione umano/non-umano. La cittadinanza postmoderna si
caratterizza, infatti, per mettere al centro del suo stesso modo di costruirsi come codice
simbolico, la distinzione fra il carattere umano e non-umano di ciò a cui si riferisce, mentre
utilizza la distinzione fra destra e sinistra solo come procedura. Per affrontare questo
scenario non servono più le vecchie distinzioni.
5. Quale integrazione socioculturale per l'Europa di domani?
5.1. La mia opinione è che, ferma restando l'intelligenza dell'analisi e la capacità di
esprimere posizioni ‘esemplari’, i pensatori lib-lab si riferiscono a temi antichi e presentano
argomenti in buona misura non adeguati alla situazione attuale. La loro proposta è piena di
promesse, ma occorre avere consapevolezza sufficiente delle discontinuità che si sono
aperte negli anni più recenti rispetto alla problematica, alla concezione e alla pratica
tipicamente moderne della cittadinanza.
Fare un passo in avanti implica fare i conti con almeno tre questioni di fondo che sono
largamente disattese dai pensatori lib-lab.
1) Primo, la cittadinanza è certo espressione di un contratto sociale, ma tale contratto ha
comunque delle premesse che non sono contrattuali. In breve, nella cittadinanza ci sono
elementi che sono il risultato di interessi, strategie e rapporti di forza, ed elementi che
rappresentano cose non negoziabili. I pensatori lib-lab lo riconoscono a parole, ma poi non
affrontano il problema alla radice, perché fare ciò comporterebbe un discorso sui diritti
della persona umana e delle formazioni sociali che i loro schemi di analisi e valutazione non
contengono.
2) Secondo, la cittadinanza è e resta per loro una questione (una attribuzione) che si
gioca nelle combinazioni e intrecci fra Stato e mercato, con una conseguente sottostima,
quando non una vera e propria svalutazione, di ciò che, nella società, sta fuori del mix
Stato-mercato. Essi vedono nel pluralismo sociale e culturale non già una base ed una
espressione della cittadinanza, ma qualcosa di ambivalente per essa, quasi fosse una sorta di
permanente ‘attentato alla cittadinanza’, arrivando a considerare il terzo settore o privato
sociale - tutto sommato - come una sorta di ‘diminuzione della cittadinanza’.
3) L'idea lib-lab di cittadinanza è e rimane una questione di ‘elargizione’ di diritti concordata, meritata o conquistata -, la quale presuppone che vi sia un grande ‘distributore’
(o ‘riconoscitore’) di tali diritti, sia esso lo Stato-nazionale o un Ente composto di
Stati-membri. Ma nella società tardomoderna la cittadinanza non ha più nello Stato il suo
centro e/o vertice. I diritti sorgono ora in buona misura fuori della organizzazione statuale
data e dei suoi riconoscimenti di diritto positivo, e si riferiscono alla persona umana e alle
formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. È questo che diventa nuovamente il
‘centro’ della questione cittadinanza, come fu all'inizio dell'epoca moderna. È difficile
pensare che, per quanto latente e indicibile esso sia, si possa fare a meno di affrontare il
discorso antropologico che sostiene questa ‘svolta’. Il che non toglie, anzi implica, che lo
Stato si riorganizzi ad un livello di garanzie universalistiche ancora più elevato.
Un discorso realmente nuovo sulla cittadinanza, oggi, non può evitare di fare i conti con
queste tematiche, che sono del tutto postmarshalliane: la cittadinanza diventa una nuova
relazione fra cittadino e persona umana, e si pone con ciò un nuovo scenario. O la
cittadinanza presta un'attenzione alla condizione esistenziale umana in quanto tale o va
perduta.
Il discorso sulla cittadinanza oltre la modernità richiede, dunque, molto di più di una
realizzazione dei princìpi dell''89. La cittadinanza moderna può ben essere una questione di
perfettibilità o di utopia incompiuta. Ma quella postmoderna deve necessariamente essere
un'altra cosa: diventa una questione di trattamento della condizione umana in situazioni di
elevata diversità. Diventa un problema di riconoscimento e gestione della dissimiglianza, e
dunque investe le stesse basi culturali della democrazia e dei diritti. Non è solo, per dirla in
breve, una questione di diversità nei modi o nei mezzi che possono realizzare la
cittadinanza secondo una continuità storica che si pensa come l'unica possibile.
5.2. I teorici del postmoderno hanno capito tutto ciò. Essi prendono atto che le società
complesse si caratterizzano per una crescente, e non evitabile, differenziazione e
autonomizzazione dei “diversi ambiti di significato” (F. Crespi) o diversi “sottosistemi della
società” (N. Luhmann). Poiché ogni ‘sfera di vita’ (famiglia, religione, azienda, scienza),
ovvero ogni sottosistema diventa un ambito di significati e interazioni specifico
(autopoietico), esso può entrare in contrasto con gli altri. Il che avviene (anzi deve
avvenire) se deve essere prodotta o almeno assecondata la differenziazione e
autonomizzazione di ogni ‘soggetto’ (dall'individuo ai vari attori collettivi).
Se a questo si aggiunge la crisi dei valori religiosi e razionali, nonché delle ideologie, che
in realtà è un processo sinergico e interattivo rispetto a quello della differenziazione sociale,
si vede perché e come la cittadinanza moderna entri necessariamente in crisi: perché di
necessità cresce il divario fra mondi della vita quotidiana e istituzioni politiche. E non c'è
possibilità di ricondurre ‘il tutto’, significato dalla cittadinanza, ad una unica ‘sintesi
universalistica’: «la domanda politica tende a spostare l'accento dalle richieste tradizionali di
maggiore uguaglianza, di liberazione dallo sfruttamento e di più equa distribuzione delle
risorse, verso richieste di riconoscimento dei diritti alla propria differenza in condizioni
naturali e sociali che assicurino la realizzazione del proprio ideale privato di vita» (F. Crespi,
1992).
La solidarietà del sistema societario nazionale si frammenta e al suo posto subentrano
solidarietà locali, etniche, limitate o a corto raggio, che questi autori interpretano come
identità particolaristiche e separate. Si pone con ciò il problema di come ricomporre questi
particolarismi in unità sociali che, pur dando spazio alle autonomie che caratterizzano il
rispetto del pluralismo, siano in grado di rifondare la solidarietà sociale di base su valori
universalistici (anche se non universalmente condivisi). Si prende atto che le soluzioni
neoliberali e quelle ecologiste sono del tutto insufficienti. La prima perché pensa di poter
costruire la convivenza civile semplicemente sul riconoscimento di procedure o di regole
generali comuni che consentano di ‘giocare tutti i giochi’. Una tale soluzione non può, si
osserva, mobilitare le coscienze: una siffatta idea presuppone la presenza di identità
individuali già fortemente consolidate su basi universalistiche (‘natura umana’, idea di
razionalità, di libertà, ecc.). La seconda perché, per quanto grave sia il problema ambientale,
rimanda a valori positivi che possono essere costruiti solo in un più ampio orizzonte di
senso.
Dove cercare allora la soluzione? F. Crespi ritiene che un vero superamento del
particolarismo dovrebbe essere cercato in direzione di una nuova attenzione alla condizione
esistenziale come tale, pur nella consapevolezza dei profondi e insuperabili limiti che
abbiamo nella sua conoscenza. Da un lato, infatti, la differenza di ciascuno è indicibile, se
non riducendola ad una etichetta (uomo/donna, nero/bianco, nord/sud,
etero/omo-sessuale, ecc.); dall'altro, tuttavia, c'è la consapevolezza di un comune essere
insieme in una situazione di vita, anche se non ne conosciamo tutti gli elementi.
La formazione dell'identità proprie dei soggetti, dice Crespi, potrebbe allora avvenire
non sulla base di etichette particolaristiche, ma sulla base del fatto che ciascuno, in quanto
partecipante ad una società, ha la possibilità di sviluppare il proprio ‘potere intrinseco’,
ossia la capacità di gestire le contraddizioni che emergono nel rapporto tra le esigenze
individuali e quelle collettive, tra il bisogno di rassicurazione e stabilità e quello di
promuovere innovazioni che rispondano alle mutevoli condizioni dell'esistenza storica.
Il concetto di ‘potere intrinseco’ indica l'autonomia individuale senza definirne in modo
specifico le caratteristiche, altro che come ‘forza attiva socialmente responsabile’. La
proposta interpretativa è suggestiva. Ma ci si chiede: chi assicura questa responsabilità
sociale? Crespi riconosce che una siffatta cultura politica non solo oggi non esiste, né è
programmabile, ma si dovrebbe avvalere di nuove forme di mediazione (simbolica), le quali
tuttavia - come tutte le forme di mediazione simbolica - rischiano sempre di distorcerla e
tradirla (Crespi, 1989).
Crespi respinge la soluzione che conferisce un primato al modello normativo (di ogni
modello normativo) sul vissuto soggettivo. Tale soluzione, egli afferma, è caratteristica della
“tendenza di destra”, che si distingue per ritenere il vissuto come fonte di pericolosa
indeterminatezza, privilegia il problema dell'ordine su ogni altro, e giustifica le istanze della
ragione strumentale propria dell'apparato tecnologico. Per contro, “essere di sinistra”
significa, a suo avviso, “affrontare senza schemi preordinati la realtà complessa che emerge
dalle trasformazioni in atto”, approfondendo il problema del rapporto fra etica e politica
attraverso la capacità pratica di saper gestire in maniera più equilibrata il rapporto fra le
forme di determinazione normativa che assicurano la stabilità sociale e le dimensioni
indeterminate che emergono dalla effettiva esperienza individuale e collettiva.
In conclusione, il discorso postmoderno sulla cittadinanza approda ad un bivio. O si
adotta la soluzione luhmanniana e si lasciano perdere i contenuti ‘umanistici’ della
cittadinanza, abbandonando ogni idea di emancipazione/liberazione, e considerando la
cittadinanza solo come un puro meccanismo della inclusione funzionale, sottosistema per
sottosistema a seconda delle contingenze. Oppure si deve sperare che possano sorgere
nuove forme di mediazione simbolica della nostra esperienza umana che sappiano
conciliare l'attenzione alle differenze individuali con il riconoscimento di una comune
condizione esistenziale. Questa seconda prospettiva è indubbiamente più attraente. Ma la
sua coscienza critica non lascia trasparire molte speranze, perché essa stessa avverte che le
forme mediative cui si appella saranno sempre riduttive e che, in ogni caso, non potranno
avere alcun ‘fondamento’, se non nella loro stessa contraddizione. Come si possa realizzare
la promessa di una cittadinanza migliore con i mezzi, anche pragmatici, necessari. Ciò resta
affidato alla nostra coscienza esistenziale.
Diversamente dai pensatori lib-lab, che si muovono ancora nel quadro della modernità,
per la quale il problema della cittadinanza è e resta quello di ricondurre la politica ad una
‘filosofia normativa’ che sappia progressivamente combinare più libertà e più uguaglianza, il
problema dei teorici del postmoderno è dunque un altro. Nella misura in cui essi teorizzano
la de-normativizzazione della cittadinanza, tutti i suoi ‘contenuti’, inclusa libertà ed
uguaglianza, diventano problematici, oltreché differenziati, autonomi, separati: non è
comunque possibile che si possa pensare di tenerli assieme, tantomeno, per così dire,
‘dall'alto’ di un qualche ordine sociale.
La società dovrebbe riconoscere i diritti umani, ma non ci sono né basi fondative né
condizioni sociologiche per potere fare questo. Cittadinanza diventa l'uguale diritto degli
individui e dei gruppi sociali alla differenza e alle opzioni particolari. Diritto che deve essere
garantito dal sistema politico. Così viene re-interpretato T. H. Marshall, anche dai
neofabiani, nella convinzione che la sua concezione della politica fosse quella secondo cui
lo Stato deve creare e difendere la cittadinanza come complesso di condizioni che
conferiscono ai cittadini il potere di fare e di essere ciò che essi desiderano, a condizione
che gli altri cittadini abbiano gli stessi diritti e poteri.
Che si prenda la strada di un esistenzialismo sofferto, o quello di una nuova fioritura di
associazionismo civile, nell'un caso come nell'altro le basi normative della cittadinanza sono
considerate perdute. Credo che questo sia anche il senso della tesi secondo cui viene
emergendo una sorta di ‘civismo postmoderno’, concetto con il quale si “vuole cogliere
l'ecumenismo razionale, il pragmatismo normativo, la destoricizzazione del sociale, la
ricerca del rispettabile e la de-realizzazione della società come un complesso di
atteggiamenti misurabili empiricamente che guidano l'azione sociale postmoderna” (V.
Belohradsky, 1989, p. 247).
5.3. La situazione attuale è in buona misura descrivibile nei termini di un confronto fra
gli schemi normativi lib-lab(cittadinanza come emancipazione) e il loro ribaltamento
de-costruzionista postmoderno (cittadinanza come critica di ogni mediazione simbolica in
quanto riduttiva, e sviluppo del ‘potere intrinseco’ degli individui nel riferimento al Dasein).
Di fronte a tale confronto, è forse possibile intravedere fenomeni che alludono ad un altro
modo, dissimile, di pensare, vivere e attuare la cittadinanza. Un modo che, nella varietà,
tiene conto delle differenze come pluralità di una comune sfera pubblica, relazionale e
sinergica. Per comprendere tali fenomeni bisogna osservarli attraverso alcuni
concetti-guida: i) la differenziazione delle dimensioni della cittadinanza, ii)
l'autonomizzazione dei suoi diversi livelli, iii) l'esigenza di una loro integrazione relazionale
(che può andare dalla semplice co-esistenza o compatibilità, fino a nessi funzionali più
stretti; in generale, però, si tratterà di una integrazione reticolare a maglie larghe).
La cittadinanza si differenzia non solo in quanto complesso di diritti (per cui diventa
problematica qualunque catalogazione dei diritti, come quella che li distingue in civili,
politici e sociali), ma anche in quanto complesso di relazioni fra i vari diritti.
5.4. La differenziazione lungo le dimensioni amministrative e di valore avviene oggi in
maniera accelerata, in concomitanza con l'esplosione delle richieste per nuovi diritti di
cittadinanza. Tale differenziazione comporta la ricerca di nuovi strumenti sia per
attualizzare le varie componenti della cittadinanza sia per coordinarle relazionalmente. In
altri termini, la cittadinanza:
A) deve darsi nuovi meccanismi di scambio adattativo fra diritti/doveri;
G) deve darsi nuovi fini e scopi situazionali relativamente ai diritti/doveri;
I) deve darsi nuovi standard (regole) di integrazione associativa fra diritti/doveri;
L) deve darsi nuovi orientamenti di valore nei diritti/doveri.
E deve fare tutto ciò relazionalmente, se il processo deve evitare, il più possibile, di
pervenire a situazioni ingestibili per il livello troppo spinto di inflazione e conflitto fra i
diritti.
La cittadinanza si differenzia al proprio interno anche in relazione alle dimensioni
territoriali cui si riferisce: al livello locale (la città e sue articolazioni), al livello di regione, di
nazione, di comunità sovranazionali e della comunità internazionale (Onu).
In altri termini, le dimensioni amministrative e di valore non sono le stesse a seconda dei
vari contesti territoriali: un certo diritto o una certa relazione fra diritti non può essere
trasferita sic et simpliciter da un livello all'altro.
5.5. Con ciò si pongono enormi problemi di ‘integrazione’, sia per quanto riguarda le
varie dimensioni della cittadinanza, sia per quanto concerne i livelli territoriali della sua
implementazione. Che cosa darà coesione, se non proprio unità, alla cittadinanza? Non
dovrebbe essere proprio la cittadinanza, come titolo globale di appartenenza, a funzionare
da elemento societario integrativo per eccellenza? Così, appunto, non è più. La cittadinanza
statuale non può più offrire questo tipo di prestazioni ‘integrative’, se non divenendo
reticolare e plurale, il che ne trasforma completamente il modo di essere sia rispetto alla
concezione organica tradizionale sia rispetto alla configurazione moderna assunta nello
Stato-nazione. L'integrazione deve essere cercata nel ‘reticolo’, non in un suo punto
privilegiato.
Si deve, infatti, prendere atto che la cittadinanza moderna entra in crisi:
a. perché vengono meno i presupposti culturali che sostenevano l'universalismo delle
mete; la critica ad ogni forma di ‘dogmatismo’ (inclusa l'idea che la cittadinanza sia
dell'individuo in quanto ‘uomo’) non può essere arrestata;
b. perché, venendo meno la legittimazione e la possibilità o capacità di perseguire il bene
comune, il collettivismo deve cedere all'individualismo; l'individuale deve prevalere sul
sociale, dal momento che quest'ultimo contiene una connettività limitante;
c. perché i sistemi complessi devono evitare di perseguire l'integrazione; un tale
orientamento risulta dannoso agli effetti della loro capacità di adattamento, e quindi viene
percepito come rischioso e contraddittorio; per il loro funzionamento le società
postmoderne debbono far prevalere il senso del conflitto sul senso dell'integrazione;
d. in una società orientata ai risultati (achievement-oriented) non c'è posto per gli status
ascrittivi, neppure, quindi, per quello della cittadinanza; le comunicazioni, tutte le
comunicazioni, non sarebbero possibili (accessibili) se vi fossero delle appartenenze
ascrittive.
Questi fenomeni possono essere visti come frammentazione e particolarizzazione. E
non c'è dubbio che, per molti versi, lo siano. Globalmente considerata, infatti, la
cittadinanza perde il suo carattere di appartenenza, il suo consistere di un insieme
strutturato di titolarità (uno standard di civilizzazione), e il suo carattere ugualitario
incondizionato (l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge). Si deve prendere atto
che, per così dire, la cittadinanza non può che essere commisurata, se non proprio
graduata, per ciascuno. La storia degli assegni familiari in Italia, con riferimento a quanto è
successo negli anni '80, ne costituisce un esempio emblematico, in quanto, da universalistici
che erano, tali assegni sono passati ad essere sempre più condizionati, cioè dati a fasce
sempre più ristrette di famiglie (selezionate in base a criteri di neoindividualismo
democratico). Più in generale, diventa impensabile (se non impossibile) che i cittadini di
Stati diversi abbiano lo stesso paniere di diritti/doveri.
Ma i fenomeni di crisi della cittadinanza statuale, che la concezione lib-lab ha contribuito
a mettere in rilievo, possono anche essere visti, dal lato opposto, come aperture di nuove
possibilità, risorse, strategie di costruzione delle solidarietà necessarie ad una qualche forma
di ‘integrazione’ della cittadinanza a scala differenziata, su nuove basi. Quali?
a. In base a presupposti culturali di un universalismo che potrebbe essere generalizzato a
scala mondiale (diritti dell'uomo), mentre prende corpo e si attua in forme distinte a scala di
‘comunità locali’.
b. In base ad un bene comune definito relazionalmente, sempre in modo differenziato
alle varie scale.
c. In base ad una solidarietà concepita non più come fattore di inclusione che divide (o
separa o particolarizza), ma come legame creativo di risorse, dunque come relazione che
crea nuove connessioni e anche generalizzazioni.
d. In base alla presa d'atto che l'’accesso funzionale’ ai diritti non si ha nel vuoto, ma in
un contesto, il quale richiede una gestione delle appartenenze, cioè delle identità ascritte.
La prospettiva di analisi suggerita da Dario Rei (1989) per una cittadinanza “oltre il
welfare” sollecita più di un approfondimento in questa direzione allorché osserva che: “il
contesto della inclusione politica garantita dalle istituzioni pubbliche definisce il lato visibile
della cittadinanza, ma lascia fuori il campo della esperienza concreta e relazionale dei
soggetti, ossia il contesto della loro identificazione sociale. D'altra parte, le crescenti
difficoltà di fondare i diritti su un modello razionale economico dell'individuo suggeriscono
l'ipotesi che l'individualità sia una costruzione sociale modellata storicamente da culture e
valori. Occorre guardare ad una antropologia più complessa dell'individuo soggetto, che
non nasconde nella sua ombra o in un quadro formale di attese le relazioni in cui si
riconosce: affettive, di genere, di generazione; le solleva alla consapevolezza della sua
autodefinizione e ne fa la base dei suoi processi di determinazione. Pesa e valuta la diversità
compresente degli interessi, delle obbligazioni e delle opzioni, alla luce delle responsabilità e
degli impegni verso gli altri. Una tale antropologia invita a distinguere fra diritti che
universalizzano l'io a criterio esclusivo di scelta e di azione (non senza esiti
autocontraddittori) e diritti che scrivono una trama istituzionale comune, in quanto sono
regole e risorse per l'espressione di una soggettività autonormativa e relazionale. Si è parlato
di una ‘democrazia dei cittadini solidali’, capaci di rappresentare a se stessi e nelle istituzioni
l'intreccio complesso di relazioni che nella soggettività si annodano” (D. Rei, 1992, pp.
14-16).
Se una nuova cittadinanza può darsi, così conclude Rei, essa non può venire né prima né
dopo i cittadini solidali, ma può solo procedere insieme con loro: “in altri termini, essa non
può avere qualità e significati divergenti dai mezzi di fiducia, scambio e governo che
circolano nella società e modellano le relazioni sociali”. Dallo “Stato dei cittadini” si deve
davvero passare ad una nuova “società dei cittadini”.
5.6. Persona umana e reticolarità sociale: questi sembrano essere i punti fra i quali si
snoda la cittadinanza postmoderna.
Laddove la cittadinanza moderna è la possibilità di accesso a ruoli uguali per tutti (salvo
poi dover constatare e legittimare le differenze di outcome), e la cittadinanza postmoderna è
la possibilità di accesso alla comunicazione uguale per tutti (fatte salve le differenze che
vengono lasciate ai singoli sottosistemi con i loro codici), si direbbe che la nuova
cittadinanza societaria postfunzionalista sia una relazione che si instaura in un framework di
ordine interattivo. Un ‘ordine’ di realtà in cui la mediazione culturale non ha un primato
indipendente dal senso del soggetto che la interpreta e agisce; cioè un ordine in cui il
progetto culturale non si appiattisce sulla mera richiesta di conformità normativa, ma si
apre alla produzione di senso soggettivo e inter-soggettivo.
Di recente, Achille Ardigò ha osservato che il progetto culturale non dovrebbe tanto
affidarsi a “certezze politiche e sociologiche” (peraltro sempre più scarse), quanto piuttosto
dovrebbe mirare a far sorgere, nelle coscienze personali dei laici, credenti e non, un agire
libero-e-responsabile capace di creatività e apertura carismatica. Egli giustamente ricorda
che la missione della Chiesa cattolica, se vuole - come deve - superare dilacerazioni sociali e
culturali, “non può ricondursi in prevalenza all'efficacia di una mediazione culturale, perché
nessuna lezione morale razionalmente proposta può avere efficacia, nelle scristianizzate
moltitudini di persone, senza che prima nelle coscienze e nelle volontà più lontane siano
insorte domande personali e interpersonali di senso, per merito di carismi religiosi. Non
possiamo convertire la gente del postmoderno solo o tanto con precetti e sillogismi.
Occorrono carismi e creatività personali e interpersonali” (A. Ardigò, 1998, p. 48).
Il richiamo di Ardigò è più che opportuno e sensato. Tuttavia, per non incorrere in
equivoci, è necessario ricordare che il senso/intenzione della singola coscienza, se non può
essere mera conformità cognitiva (adequatio rei et intellectus) e tantomeno normativa, non può
però essere neanche un atto soggettivistico: il senso è fondamentalmente senso di una
relazione, si attua nella relazione e, anzi, è esso stesso relazione (che altro è la coscienza
cristiana se non l'atto di essere in relazione a Cristo, in qualunque situazione ci si trovi? Per
il cristiano, la coscienza sta nel ‘sentire con Cristo’, nell'avere gli stessi sentimenti di Cristo come dice S. Paolo -, sia per riguardo alla mente o sfera intellettiva, sia per riguardo al
cuore o sfera affettiva e della volontà).
L'atto di chiarimento del senso, l'atto di dare un senso (l'husserliano atto di Sinngebung),
non consiste né nella mera assunzione di un ‘oggetto’ (sia esso una cosa, un simbolo, un
valore, una regola), né in un atto puramente intra-coscienziale. Esso consiste in (e quindi
dipende da) la relazione che il soggetto ha con l'Altro da sé, in quanto verità, vita, via da
seguire, quindi con gli altri che sono significativi in quel senso. Solo così può essere e
diventare un atto pienamente umano, distinto da un atto (relazione) che umano non è. La
mediazione culturale consiste, perciò, non già in una norma di mera conformità, ma nella
relazione pienamente umana, cioè nel nesso fra libertà-e-responsabilità relazionale che c'è
nella donazione di senso. È un farsi relazionale, rispetto all'Altro che è significativo in
termini veritativi. In quanto relazione, l'agire dotato di senso è un'altra cosa dal puro
comportamento di adesione acritica, di passività, di abitudinarismo, così come è un'altra
cosa rispetto ad una mozione puramente psichica intra-individuale (ovvero a quello che F.
Crespi denomina il ‘potere intrinseco dell'individuo’). La relazione è veramente tale se è
autotrascendimento, autosuperamento verso l'Altro, un andare verso l'Altro non per
catturarlo, né tantomeno negarlo, ma invece per valorizzarlo (alla fine, questo è l'amore del
prossimo, come base di quella ‘civiltà dell'amore’ di cui ha parlato Paolo VI).
Se la mediazione non è puramente orizzontale, come accade nella cultura lib-lab (in cui
gli individui si confrontano in termini di uguali libertà ed opportunità), ma è anche verticale
(capace di trascendenza), dov'è la paura dell'immigrazione? Dov'è la paura dell'Altro? Ma
per perdere la paura dell'Altro, e diventare capaci di sostenere un dialogo e un confronto
positivo con l'Altro (fatto di fiducia, reciprocità, sussidiarietà), occorre vedere che la
mediazione che sostiene la solidarietà è di ordine differente dalle mediazioni che reggono
l'uguaglianza e la libertà (intese in senso moderno). Ecco perché non bastano né la “mano
invisibile” del mercato liberale (A. Smith) né la “mano visibile” dello Stato (sia esso
giacobino o hegeliano, di destra o di sinistra), ma occorre un terzo codice - relazionale,
civilizzatore, che sta su un altro piano, non riducibile ai primi due - della solidarietà
praticata come principio di sussidiarietà: ti aiuto in modo da renderti più autonomo e
quindi più capace di reciprocità, all'interno di reti di scambio che non operano né sul metro
del guadagno-profitto né su quello del potere-comando. Ed è questo il mondo del privato
sociale o terzo settore, che non può e non deve essere ridotto a ruota di scorta del mercato
e/o dello Stato, ma deve invece avere la dignità di un terzo polo simmetrico rispetto agli
altri due, istituzionalmente (secondo Costituzione) tale da configurare una società civile
distinta e distante dal sistema politico e dal mercato for profit, per quanto in relazione
sinergica con essi (P. Donati a cura di, 1996).
Se si vedono le cose in questo modo, si può allora intendere quanto il concetto di
societarismo che ne deriva differisca dalla versione liberale e anche da quella lib-lab:
societarismo qui significa non già valorizzazione del polo privato-particolaristico, né
tantomeno la sua opposizione a quello pubblico-universalistico, ma l'orientamento e la
prassi a far emergere la cittadinanza - nelle sue diverse componenti (morali, sociali,
politiche e civili) - dall'intreccio fra particolare e universale, fra individuale e collettivo, fra
privato e pubblico, nella distinzione relazionale di tali sfere.
La cittadinanza societaria mette l'accento sul carattere di sociabilità e di societalità dei
diritti-doveri che le ineriscono, in quanto consiste di un complesso di diritti-doveri primari
e secondari che gli individui hanno in relazione gli uni con gli altri. Essa rimarca sia il
carattere relazionale dei diritti-doveri individuali, sia i diritti-doveri delle forme associative.
E tratta il problema della cittadinanza non come un fatto normativo ‘dall'alto’, ma come
una concreta esperienza - ovviamente avente un risvolto normativo, però ‘dal basso’, dalle
volontà personali - di appartenenza a un insieme di relazioni che costituiscono gli individui,
le famiglie e i gruppi sociali più ampi come soggetti di cittadinanza in specifici momenti e
luoghi.
La cittadinanza societaria postcorporativa non ignora, né nasconde, il fatto che, in tali
specifici momenti e luoghi, l'esperienza dell'essere cittadini è il più delle volte - di fatto, se
non di diritto - disuguale e differenziale. Ma, anziché rimuovere tale constatazione, o
risolverla in termini corporativi, promuove forme di riconoscimento e di organizzazione
delle disuguaglianze e delle differenze nei termini di una ‘gestione delle appartenenze’ che
opera in base a criteri ispirati a finalità solidaristiche e universalistiche, mediante strumenti
di reciprocità, fra i vari soggetti della cittadinanza.
Si apre una fase storica, o, in termini sociologici, una semantica societaria in cui la
cittadinanza assume la forma di un complesso di diritti-doveri delle persone e delle
formazioni associative che articola la vita civica in ‘autonomie universalistiche’ capaci di
integrare la generalità dei fini con pratiche di autogestione. Questa è la sfida che la società
europea, sempre più complessa e articolata anche in termini culturali, lancia a se stessa. Tale
sfida si chiama ‘cittadinanza societaria’ o delle autonomie socioculturali.
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