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Vie occidentali e orientali al
capitalismo
/ 31.10.2016
di Peter Schiesser
Le fusioni tra giganti dell’economia sono un interessante barometro. Permettono di farsi un’idea
delle tendenze in atto nella società e nel tessuto produttivo di una nazione. Da quando ci si è messa
anche la Cina, acquisendo a colpi di miliardi aziende occidentali, si possono scorgere anche le
dinamiche dei rivolgimenti geopolitici che stanno trasformando il mondo.
Prendiamo l’ annunciata acquisizione di Time Warner da parte di AT&T. Il numero due della
telefonia mobile e numero uno della diffusione tv via cavo negli Stati Uniti vuole acquisire per 85
miliardi di dollari uno dei maggiori produttori televisivi. Non è l’unico esempio, negli Stati Uniti, di
fusioni tra distributori e produttori di contenuti, informazioni, video. In un mondo sempre connesso
in cui si trasferiscono quantità inimmaginabili di informazioni, sembra che la via del guadagno debba
passare dagli schermi in cui proiettiamo la nostra quotidianità.
La realtà, però, è un’altalena di successi ed insuccessi: persino Apple ristagna dopo la geniale
invenzione dell’iphone, su Samsung e gli smartphone esplosivi stendiamo un velo pietoso, Twitter
sente la concorrenza di Instagram e Snapchat e annuncia un taglio del 9 per cento del suo personale
(3860 dipendenti soltanto), Verizon riflette se ritirare l’offerta di acquisto di Yahoo per 4.8 miliardi
di dollari dopo la scoperta di importanti falle nel sistema di sicurezza del motore di ricerca.
La corsa all’oro nell’era dell’informazione conosce fortune prodigiose ed epiloghi rovinosi. Era già
successo con la prima «bolla» hi-tech, agli inizi del Duemila. Protagonista, in quanto azienda in
vendita, ancora Time Warner, acquirente AOL. Un insuccesso da manuale. Va concesso che allora il
prezzo fu di molto superiore (160 miliardi di dollari) e il rapporto tra costo dell’operazione e utile di
Time Warner di otto volte peggiore a quello dell’acquisizione AT&T-Time Warner.
Ciò non toglie che il mondo economico legato alla produzione e diffusione di informazioni sia
costretto ad adattarsi a continui rapidi cambiamenti. I colossi dell’Occidente stanno tentando di
posizionarsi per mantenere o accrescere la loro egemonia in questa nuova era economica, ma si
espongono a rischi di nuova natura.
In Cina le cose vanno diversamente. Qui c’è un’élite politica che subordina le acquisizioni in
Occidente ad una strategia di sviluppo dell’economia nazionale. Il rinascente Impero celeste si sta
trasformando da economia produttiva a economia di consumo. In un’economia mondiale che
ristagna, una crescita, che dev’essere a ritmi sostenuti per raggiungere ampie fette della
popolazione, può esserci solo se si stimolano anche i consumi interni. La Cina sta attraversando una
fase di maturazione della propria forma di capitalismo, in cui non basta più produrre solo a basso
prezzo per l’estero. Ma per poter offrire alla popolazione e al resto del mondo la qualità necessaria
per competere in ambito globale occorre un sapere tecnologico che la società comunista cinese non
ha saputo produrre. Quindi, si comprano aziende occidentali di punta – nel 2016 per 206,6 miliardi
di dollari, il 212 per cento in più rispetto al 2015. E si cerca spazio nei consigli di amministrazione di
aziende occidentali.
Succede anche in Svizzera. L’offerta di acquisizione per 44 miliardi di dollari per Syngenta da parte
di Chem China è nota. Altre sono meno eclatanti; quest’anno si contano sei acquisizioni, tante come
nei due anni precedenti, scrive la «Neue Zürcher Zeitung», che cita un’interessante dichiarazione di
un esperto in materia di fusioni (26.10.2016): lo scetticismo riguardo l’arrivo dei cinesi in aziende
europee si sta dissipando. I cinesi non sono arrivati per comandare, non cambiano la dirigenza delle
aziende, sono arrivati per imparare e per approfittare della maturità tecnologica delle società che
hanno acquistato. Hanno obiettivi a lunga scadenza, non cercano il profitto immediato e le loro
offerte sono generalmente allettanti. Ben altra esperienza rispetto alle acquisizioni da parte di
società americane ed europee, cui seguono regolarmente dolorose ristrutturazioni e cambi della
dirigenza, pur di conseguire rapidi guadagni.
Ma l’apporto cinese risulta interessante anche per le aziende svizzere. Sempre la Nzz rileva che
nell’ultimo anno il numero di consiglieri cinesi è cresciuto del 30 per cento a 524 consiglieri (su
436’104). L’interesse è reciproco: alle aziende svizzere interessa la rete di conoscenze che i
consiglieri hanno in patria, ai cinesi interessa il know how e la qualità svizzera.
Ma anche qui c’è un rischio: Chem China e molte altre aziende cinesi sono di proprietà dello Stato.
Che garantisce buoni prezzi di acquisto e contro i rischi di insolvenza. Ma, come scrive Lucio
Caracciolo a pagina 29, la pletora di aziende statali poco produttive rappresenta un rischio sistemico
per l’economia cinese. Da cui l’Occidente non può chiamarsi fuori.
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