Annali del Dipartimento di Filosofia (Nuova Serie), XVIII (2012), pp. 217-254 Naturalizzazione: vie e ostacoli1 Alberto Peruzzi Can epistemology be naturalized? The question has more than one sense. There are many forms of both the naturalistic stance and its denial in relation to different topics and by means of different strategies. Only some of them are instantiated in the existing literature. After a taxonomy of the range of possible forms of naturalism and anti-naturalism, the paper suggests an emergentist view which shifts the issue from psychology to cosmology. Keywords: naturalized epistemology, antinaturalism emergentism, entwined naturalism. 1. Di nomi e verbi Nel linguaggio comune, il sostantivo “naturalista” indica qualcuno che, spesso a livello amatoriale, si dedica allo studio di piante animali rocce minerali, così come si trovano nell’ambiente “naturale”, mentre il verbo “naturalizzare” è comunemente usato in rapporto all’acquisizione della cittadinanza di uno stato e la procedura relativa, di “naturalizzazione”, è regolata da norme che variano da uno stato all’altro. In filosofia, sostantivi, aggettivi e verbi che ho messo fra virgolette sono associati a due orientamenti di pensiero contrapposti: “naturalismo” 1 Versione ampliata della lezione tenuta il 16 gennaio 2013 per il Dottorato di Ricerca in Filosofia, Università di Firenze. La lezione seguiva la traccia delle diapositive, già da tempo in rete, usate per una conferenza che avevo fatto il 17 febbraio 2004 per il Corso di Epistemologia Generale e Applicata, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Le diapositive, per il loro carattere ellittico, sono risultate enigmatiche a coloro che le hanno “sfogliate” senza aver avuto l’opportunità di ascoltare l’esposizione cui erano di supporto. Inoltre, i dottorandi presenti alla lezione del 16 gennaio 2013 hanno chiesto chiarimenti che il poco tempo a disposizione impediva di fornire. Ciò mi ha indotto a rielaborare la serie di diapositive, giungendo ben presto al convincimento che fosse necessario redigere in forma testuale la trattazione del tema così come l’avevo esposto, con l’aggiunta dei chiarimenti, cioè in forma di esplorazione ricognitiva, finalizzata a una tassonomia di possibili posizioni circa la naturalizzazione dell’epistemologia. Documentando questo intento, il presente testo illustra anche alcuni caratteri fondamentali del lavoro filosofico. http://www.fupress.com/adf ISSN 0394-5073 (print) ISSN 1824-3770 (online) © 2013 Firenze University Press 218 Alberto Peruzzi e “antinaturalismo”, ciascuno dei quali si articola in più modi e si concreta in più posizioni teoriche, ciascuna con la sua storia, i suoi autori di riferimento, le sue ragioni. L’alternativa non sembra riguardare la diversa forma mentis di chi indaghi con appassionata discrezione l’ambiente naturale o, rispettivamente, di chi a tale indagine preferisca quella in laboratorio; né allude alla scelta tra una politica di liberalizzazione e, rispettivamente, una politica restrittiva circa la concessione dei diritti di cittadinanza a immigrati. Tuttavia, l’alternativa riguarda anche il valore filosofico da dare all’attività dei naturalisti che un tempo raccoglievano, nei loro taccuini, annotazioni e schizzi a matita di quanto incontravano nei loro viaggi intorno al mondo; e in senso traslato riguarda i diritti di cittadinanza – ... quella dei filosofi nello stato di natura. Nel dibattito filosofico degli ultimi decenni i termini “naturalismo”, “naturalizzazione” e “naturalizzare” sono stati usati prevalentemente in riferimento all’epistemologia: coloro i quali sottoscrivono la Tesi secondo cui le asserzioni epistemologiche, in linea di principio, esprimono conoscenze, alla stessa stregua di quelle che si trovano nelle scienze della natura, sono “naturalisti”. Coloro che respingono quest’idea e sottoscrivono, invece, l’Antitesi secondo cui la “naturalizzazione” dell’epistemologia non è possibile perché ci sono proprietà concetti qualità, di pertinenza dell’epistemologia, che non si possono “naturalizzare”, si dicono “antinaturalisti”. Si sono ormai formati due partiti. A quale dare il voto? Esploreremo la questione naturalismo vs antinaturalismo senza far riferimento alle auctoritates e alla letteratura relativa, preoccupandoci esclusivamente di mettere a fuoco la gamma di forme che i due orientamenti possono assumere. Alcune di queste forme si trovano già esemplificate nella letteratura esistente, altre no. Si tratta di capire bene cosa c’è da naturalizzare, come naturalizzarlo e, allo stesso tempo, quale sia il significato di “naturalizzare”. Il tipo di riflessione che oggi diciamo “epistemologica”, genericamente intendendola come analisi o come dottrina, come critica (da krino) o come vera e propria teoria della conoscenza, non è l’unica cosa che ci si è proposti di “naturalizzare” o ci si è proposti di negare che sia naturalizzabile. Il problema, infatti, si pone anche per altre discipline, come l’etica, la logica o l’estetica, e mediatamente per ciò che ne è oggetto. Da un lato, le proprietà sulla cui naturalizzazione si discute con riferimento a queste diverse discipline sono abbastanza diverse; dall’altro, le rispettive aree tematiche s’intersecano. Quindi bisogna fare attenzione a non confondere e a non dividere più di quanto sia opportuno. Sono due esigenze ugualmente importanti, ma la seconda presuppone la prima. Come in ogni altro campo dello scibile umano, anche in filosofia occorre innanzitutto preoccuparsi di non fare confusione e conviene preoccuparsene subito, non dopo essersi schierati. Naturalizzazione: vie e ostacoli 219 Perciò l’esplorazione che faremo sarà guidata dalla preoccupazione di distinguere i diversi sensi del naturalismo e dell’antinaturalismo. Solo una volta fatte le distinzioni del caso, e non saranno poche, potrà entrare in campo la preoccupazione inversa e così, nella parte conclusiva, saranno accennati i motivi per adottare una cornice che permetta di restringere progressivamente la gamma delle opzioni possibili, a testimonianza del fatto che la pulizia delle lenti dei nostri occhiali resta prioritaria ma non è esaustiva dell’attività filosofica. 2. Cominciando le pulizie Non solo i termini “naturalizzazione” e “antinaturalizzazione” interessano aree diverse della filosofia ma, anche se ne limitiamo l’analisi all’uso che ne viene fatto nel discorso epistemologico, alcune tra le nozioni interessate non appartengono all’epistemologia in maniera esclusiva. Per esempio, le nozioni di verità, significato e intenzionalità sono sicuramente usate e/o tematizzate nell’epistemologia ma riguardano, con pieno diritto, anche logica, semantica, scienze cognitive e filosofia del linguaggio. Anzi, proprio perché queste nozioni hanno attirato grande attenzione da parte sia di sostenitori sia di detrattori del progetto di naturalizzare l’epistemologia, tale pertinenza multipla è particolarmente significativa. La natura trasversale di verità, significato e intenzionalità, la loro problematicità e la loro non-univocità segnalano che un impegno a sostenere o rifiutare un progetto di “naturalizzazione” esige prima di tutto un chiarimento di questo termine, peraltro inteso in più modi già all’interno dell’ambito epistemologico. Anche se non potremo contentarci di aver distinto la gamma di accezioni del termine, dobbiamo averle distinte per operarne una selezione; ed è bene rendersi conto fin d’ora che non si tratta di un compito lessicografico, bensì propriamente filosofico, perché ci troviamo di fronte a una contrapposizione modale fra una Tesi e un’Antitesi: la Tesi afferma la possibilità di naturalizzare l’epistemologia, l’Antitesi nega questa possibilità. L’epistemologia ha per oggetto la conoscenza e, siccome il principale (se non esclusivo) campione, esempio e modello, di conoscenza che abbiamo a disposizione è la conoscenza della natura, Tesi e Antitesi ammettono una declinazione fondamentale in base alla quale: la Tesi (naturalismo) implica che, in linea di principio, la conoscenza della natura fa parte della natura, mentre l’Antitesi (anti-naturalismo) implica che la conoscenza della natura non fa parte della natura e, in simmetrica linea di principio, nessun progresso conoscitivo potrà mai far sì che ne faccia parte. Vi invito a notare che si tratta nuovamente di due asserzioni modali – un punto su cui bisognerà tornare. 220 Alberto Peruzzi Questa, beninteso, non è l’unica declinazione possibile di Tesi e Antitesi. Per esempio, ce n’è anche una meno impegnativa, secondo la quale chi accetti una tesi di naturalizzazione si limita a dire che c’è qualche componente nella conoscenza umana che si lascia naturalizzare, e rispettivamente chi neghi la tesi di naturalizzazione si limita a dire che c’è qualche componente nella conoscenza, non necessariamente della natura, che non può essere ricondotto a entità e processi naturali. Tra poco vedremo come si possa dar forma più precisa a simili declinazioni. Tuttavia, il vantaggio della declinazione fondamentale, e più impegnativa, cioè quella relativa all’integrale naturalizzazione della conoscenza-dellanatura, è che permette ai contendenti di specificare in maniera precisa gli argomenti pro o contro la naturalizzazione – o almeno più precisa che in relazione a (eventuali) conoscenze d’altro genere. Com’è facile immaginare, quest’ultima considerazione trova ben scarso seguito. La questione di fondo – come ho anticipato – non è confinabile all’epistemologia. Dal momento che Tesi e Antitesi comportano un riferimento alla verità, al significato e alle proprietà intenzionali che soggiacciono alla capacità di riferirsi a qualcosa e di produrre/comprendere asserzioni su stati di cose accessibili alle scienze della natura, Tesi e Antitesi interessano anche la filosofia del linguaggio e la filosofia della mente. Se è immediato rendersi conto che, coinvolgendo le nozioni di verità e di significato, Tesi e Antitesi riguardano specificamente la semantica, è non meno immediato rendersi conto che il rimando a proprietà delle strutture e degli atti mentali correlati con le proprietà intenzionali fa sì che Tesi e Antitesi abbiano a che fare con la natura dei processi cognitivi. Ovviamente, per chi sostiene che la nozione di verità è spuria o che tale è la nozione di significato, o che lo sono entrambe, l’impegno verso Tesi o Antitesi si trasferisce in un impegno verso le nozioni che dovrebbero permettere di eliminare ogni riferimento alla verità e/o al significato. Non meno ovviamente, per chi sostiene che la semantica è una scienza cognitiva, non ci sono differenze sostanziali tra lo status delle tre nozioni. Per di più, Tesi e Antitesi hanno un raggio più vasto d’applicazione, perché si possono formulare anche per l’etica e per l’estetica. La più generale tesi di naturalizzazione è quella che riconduce tutti i valori a fatti, tutte le proprietà valutative/normative a proprietà naturali, tutti i principi di valore a leggi di natura (più le condizioni al contorno pertinenti). Si potrebbe quindi pensare che il giardino dei sentieri che si biforcano non abbia fine. Invece, riconosciuti i diversi caratteri che la naturalizzazione assume in ambiti diversi, è significativo che gli schemi argomentativi adoperati nei vari ambiti si somiglino e talvolta non differiscano per nulla, nella loro struttura generale, da quelli pertinenti all’epistemologia, senza con ciò dimenticare che da un ambito all’altro i contenuti cambiano. Naturalizzazione: vie e ostacoli 221 La ricorrenza trasversale di nozioni e di schemi argomentativi consente di semplificare il confronto tra Tesi e Antitesi – il che è un indubbio vantaggio – ma si presta facilmente a usi impropri, dai quali si può trarre motivo per contestare tale ricorrenza oppure per giudicarla poco rilevante. Chi voglia contestarla farà leva sulle differenze di contenuto e introdurrà ipotesi ulteriori finalizzate a impedire che una nozione, o uno schema argomentativo, concernente un ambito specifico sia trasferibile senza sostanziali modifiche a un altro ambito. Chi invece voglia non contestarla ma ridurne la significatività insisterà sul carattere formale-astratto di nozioni e schemi ricorrenti oppure introdurrà ipotesi ulteriori finalizzate a ridurre le differenze di un ambito dall’altro. Qualunque sia l’opzione favorita, le relative motivazioni sono non meno problematiche del quadro di idee che dovrebbero servire a chiarire ed eventualmente correggere, pertanto ne ometterò l’esame in questa ricognizione esplorativa. 3. Cautele anti-disastro Prender posizione su questioni di fondo formulate in un lessico mal definito è uno dei passatempi prediletti dei filosofi. Questo passatempo produce danni a catena – anzi, disastri. Che prediletto sia anche da parte di chi fa altre professioni, è di scarso conforto. Non c’è di che stupirsi se, di fronte a una questione tanto importante quanto controversa, molte persone che come professione fanno o insegnano filosofia preferiscono, prudentemente, collazionare pareri e chiosarli piuttosto che prender posizione. Lo spirito di quanto ho detto fin qui, con l’esplicito invito a evitare confusioni e l’enfasi sulla molteplicità di sensi di uno stesso termine, dovrebbe suffragare una simile scelta prudenziale. Purtroppo, una prudenza perpetuantesi abitua all’acrasia e anche così si producono danni a catena – anzi, disastri. La paura di scegliere così come l’ansia di “appartenere” convergono nella diseducazione a esplorare. In filosofia, né le reazioni istintive né le esclamazioni hanno titolo. Chi, ansioso di prender posizione, non si preoccupa di evitare vaghezza e ambiguità nel caratterizzare l’oggetto del discorso, deve pur sempre addurre delle ragioni. Queste, essendo viziate da vaghezza e ambiguità, fanno sì che la presa di posizione da esse motivata sia inefficace, nel senso che non porta a nulla che faccia progredire la disciplina chiamata “filosofia”, perché in un altro senso l’efficacia è indubbia: la trascuratezza cui alludo è costume diffuso e, per esempio, consente l’organizzazione di un grande numero di convegni e la pubblicazione di un grande numero di articoli o libri, che altrimenti non avrebbero ragion d’essere. A difesa dei bassi standard comunitari, c’è chi replica adducendo l’ineliminabile indeterminatezza e plurivocità di qualunque termine. Tale 222 Alberto Peruzzi replica, curiosamente, suppone di essere né indeterminata né plurivoca: almeno in questo caso coloro ai quali è rivolta avrebbero titolo a intendere perfettamente i termini usati! Parimenti, i motivi dell’acrasia non ricadono sotto la stessa. La consapevolezza della risultante vacuità è abilmente evitata sia da chi ha urgente bisogno di prender posizione sia da chi se ne ritrae e, anche laddove – con rara testimonianza d’umiltà – faccia capolino, non è valutata dagli stessi come sufficiente a interrompere il passatempo. Venendo da queste alte nebulose al nostro caso: per poter essere qualcosa di definito, Tesi e Antitesi presuppongono che siano state specificate numerose idee, a cominciare dalle quattro di seguito elencate: α) un’idea della natura, β) un’idea dell’ambito delle scienze naturali, γ) un’idea della metodologia delle scienze naturali, δ) un’idea di che cosa è / deve essere / può essere l’epistemologia (per comodità, si fa per dire, limitatamente alla conoscenza-della-natura). Pertanto, prima di andare avanti nel confronto tra argomenti pro e argomenti contro la naturalizzazione dell’epistemologia, bisognerebbe aver cura di specificare le idee α-δ – e, se ci tenete, altro ancora. Darò invece per scontato che queste quattro idee siano già chiare e che al riguardo ci sia generale consenso. A scanso di equivoci: se ora non lo dessi per scontato, la ricognizione appena iniziata dovrebbe essere molto più lunga e sarebbe dedicata in gran parte al chiarimento preliminare di α-δ, finendo per trattare altri temi, alcuni dei quali molto distanti da quello dichiarato nel titolo, con tutti i relativi link tra tema e tema. Sareste così indotti a pensare, come novelli zenoniani, che prima di raggiungere la tartaruga, cioè entrare nel merito, vi sono ancora altri link da esplicitare, sempre e di nuovo. Perfino se pensaste che tutto è linkato, linkabile e linkando con tutto, come prevede lo spirito del tempo, non trarreste alcun beneficio da una simile esperienza linkologica, in aggiunta a quella che la vostra dose quotidiana di link già vi offre. Dunque, vi sto chiedendo di condividere non poche e non banali assunzioni. Immagino che una simile richiesta, giustamente, non vi piaccia, ma l’alternativa sarebbe quella di rinunciare a un’analisi delle vie della naturalizzazione e dei loro ostacoli e preferisco supporre che questo vi piaccia ancora di meno. Qui terminano le avvertenze preliminari, che avevano come unico scopo quello di ricordare che, per evitare discorsi a vuoto, i su indicati presupposti devono essere esplicitati e specificati, anche se non è possibile in quest’occasione dar seguito all’onere.2 Troppo spesso, infatti, si affronta 2 Poiché i maldisposti non mancano mai, anticipo una loro presumibile insinuazione ad personam: che l’invito sia retorico e basta, mancando il reale intento di colmare in seguito la lacuna. Spiacente, ma in alcuni lavori ho già fornito un discreto numero di chiarimenti relativamente ad α-δ. Naturalizzazione: vie e ostacoli 223 il problema della naturalizzazione senza curarsi di simili avvertenze. E i risultati sono, come già anticipato, disastrosi. Piuttosto che offrirne un campionario, con ampia bibliografia, è preferibile cominciare a far chiarezza – tenendo a mente il debito non assolto circa α-δ. 4. Scienze naturali e scienze umane La controversia degli ultimi decenni sulla naturalizzazione si presenta come una grande novità. Si presenta così, ma è vero solo in parte. Primo: mutatis mutandis, si potrebbero rintracciare sotto altre vesti lessicali i caratteri della controversia in discussioni che hanno avuto luogo fin dall’antichità. Secondo: per molti aspetti questa controversia ripercorre il sentiero di una precedente e ne eredita il rischio di inconcludenza. Mi riferisco alla quaestio circa la linea divisoria tra scienze umane e scienze naturali: quaestio topica della filosofia a cavallo tra Ottocento e Novecento, poi rianimatasi, sulla scorta del neoempirismo, a proposito della scientificità della storia. Anche in questo caso, la quaestio si era definita, con toni non meno accesi, già a partire dalla rivoluzione scientifica del Seicento. Non lo dico solo a titolo d’informazione. Lo dico perché i disastri ai quali ho alluso si trovano già esemplificati dalle risposte che molti filosofi hanno dato alla domanda (U-N) Le scienze umane sono riducibili o no alle scienze naturali? Anche per questa domanda si ripropone l’esigenza di precisare α-δ, in modo da rendere espliciti i numerosi presupposti che sono in essa impliciti, a cominciare da che cosa accomuni le “scienze umane” e che cosa accomuni le “scienze naturali”. I presupposti sono davvero troppi perché valga la pena di impegnarsi a rispondere prima di aver fatto un bel po’ di lavoro, consistente nell’esplicitarli, distinguerli indicandone le motivazioni e chiarirli uno per uno. Di nuovo: siamo sicuri che, dopo questo lavoro, la domanda abbia ancora un senso univoco? Se invece ne avesse due, sette, o venticinque? In tal caso ci ritroviamo un altro ventaglio di domande. Molto probabilmente, ahimè, il ventaglio risulterà privo del fascino che la vaghezza della domanda esercitava. Se vogliamo ridurre il ventaglio (privilegiando un aspetto della domanda rispetto agli altri), siamo chiamati a produrre argomenti che difficilmente consentono ai filosofi di restar a guardare la ricerca scientifica dal di fuori. Cominciando a fare questo lavoro ci accorgiamo ben presto di due impossibilità, in qualunque modo s’intenda rispondere alla domanda (U-N). In primo luogo, è impossibile che la differenza tra scienze naturali e scienze umane stia nell’oggetto di studio, perché chimica e biologia, 224 Alberto Peruzzi che sono scienze naturali, riguardano anche il funzionamento dell’oggetto di studio delle scienze umane. (Banale? Tanto meglio.) In secondo luogo, è impossibile che il discrimine sia da collocare fra prevedibilità e imprevedibilità, o fra linearità e complessità dei sistemi, perché questo discrimine si manifesta già all’interno dell’ambito delle scienze naturali. In terzo luogo, vi invito a non cadere vittime di un equivoco alquanto diffuso, derivante dal credere che l’eventuale irriducibilità delle scienze umane a quelle naturali sia dovuta al fatto che le scienze umane esigono un autoriferimento (un’autoriflessività, un’autocoscienza) che le scienze naturali non esigono. Finché siamo noi a valutare l’oggettività di qualunque asserzione che facciamo, così come la sua verità e la sua scientificità, e finché una qualunque scienza non può prescindere da tale valutazione, il carattere autoreferenziale risulta ubiquo: è presente in ogni scienza. Se poi c’è chi non se n’è ancora accorto, non sarà certo la sua manchevolezza a stabilire una divisione fra due tipi di conoscenze. Per sublime simmetria, un simile invito complica la vita non solo a chi voglia rispondere No a (U-N) ma anche a chi voglia rispondere Sì. Perché, ammesso che le scienze umane si riducano a scienze naturali, se poi l’epistemologia relativa, inclusiva degli aspetti autoreferenziali, non è suscettibile d’essere naturalizzata, la riduzione proposta ha una valenza ridotta rispetto alle attese. Dunque la risposta deve includere anche una precisazione del concetto di “riduzione” e la precisazione deve fare al caso. Perché queste due condizioni siano soddisfatte bisogna rispondere a un’altra domanda: che cosa s’intende per riducibilità? 5. Tre ambiti del naturalismo La Tesi è espressione basilare del naturalismo, inteso come atteggiamento di pensiero, prospettiva e infine programma di ricerca. Se qualcuno di voi pensa che con questo ho detto ben poco – perché ogni asserzione filosofica di fondo non può che essere così intesa a meno di scadere a dogma –, non mi offendo. Innanzitutto, si tratta di vedere come la Tesi prenda corpo in relazione ad ambiti d’indagine diversi. Se ne possono infatti distinguere tre versioni, rispettivamente associate a tre grandi temi della riflessione filosofica: mente (M), linguaggio (L) e scienza (S). Se del mondo naturale che gli esseri umani cercano di comprendere fa parte la sua stessa comprensione, questa comprensione riguarda tanto le capacità mentali degli esseri umani quanto i prodotti di tali capacità, la razionalità e la scienza, la competenza linguistica e la struttura delle proposizioni in cui si esprime la conoscenza. In una formulazione orientativa, le tre versioni corrispondono alle tesi seguenti. Naturalizzazione: vie e ostacoli 225 NatM. I fenomeni mentali si possono spiegare come entità facenti parte dell’ordine naturale, le proprietà che li caratterizzano essendo empiricamente e intersoggettivamente accessibili. NatL. I significati sono entità d’interfaccia fra linguaggio e mondo spiegabili in termini di sistemi e processi governati da leggi di natura (per esempio, in termini di correlazioni causali). Se un pensiero è il significato di una proposizione, l’analisi del pensiero umano è analisi del linguaggio e della sua interfaccia naturale con il mondo. NatS. Il pensiero scientifico, con acclusi i principi della scientificità, è anch’esso oggetto delle scienze ed è spiegabile in queste. Quanto a NatM, il requisito dell’intersoggettività esclude evidenze idiosincratiche in prima persona. Quanto a NatL, qualora i significati siano trattati come fenomeni mentali, si ritorna a NatM. Quanto a NatS, chi sostiene questa tesi parte, di norma, dalla psicologia cognitiva, ma i suoi argomenti non sono necessariamente tenuti a restare confinati a essa, ovviamente intesa come scienza naturale; inoltre, quel che vale per i principi del pensiero scientifico vale per i concetti usati nell’esprimere i principi e per i criteri su cui si fa affidamento per definire il metodo scientifico. Dato che in natura si trovano corpi, ovvero oggetti materiali (come atomi, stelle, pianeti, cellule, batteri e trichechi), ciascun tipo di naturalismo impegna verso una qualche ipotesi materialistica. Che in natura non si trovino solo corpi, è lapalissiano, ma l’aggiunta di campi e forze non cambia il quadro ai fini del ragionamento in corso. Più in particolare: in vista della correlazione fra ciascuna delle quattro forze fondamentali e un tipo di particella, la distinzione tra un impegno ontologico verso oggetti e uno verso proprietà e relazioni non può essere mantenuta (ma nel seguito non sfrutterò quest’osservazione). Nel caso di NatM ci dev’essere uno stretto legame tra mente umana e corpo umano; nel caso di NatL ciò che fa di un oggetto materiale X un simbolo che sta per un altro oggetto Y deve essere compreso in termini di oggetti, proprietà e relazioni, indagabili nelle scienze naturali; nel caso di NatS, concetti, principi e criteri alla base di qualsiasi scienza sono anch’essi indagabili da ciò che essi rendono possibile. Dunque, anche la logica e ogni altra area di studi che trovi espressione nel linguaggio umano riguardano proprietà naturali degli esseri umani (qualora entrassimo in contatto con intelligenze aliene, la loro logica e il loro linguaggio dovrebbero essere studiati tenendo conto della loro architettura cognitiva, legata a sua volta alla loro corporeità, comprensibile in rapporto all’ambiente in cui si è formata). In questo senso la cognizione, anche se va oltre l’ambito della percezione, non schiude 226 Alberto Peruzzi le porte dell’Essere ad aspetti non-naturali degli esseri umani; e se nella struttura della scienza, del linguaggio o della mente, sono presenti aspetti legati alla cultura, il rispettivo tipo di naturalismo implica che anch’essi – tra i quali rientrano aspetti di pertinenza dell’economia, della sociologia e dell’antropologia – siano spiegabili in termini naturali. (Annotazione lessicale: ogni aspetto che sia considerato reale ma non facente parte della natura si dice solitamente “sovrannaturale”, ma se i fenomeni si radicano in qualcosa che sta sotto sarebbe preferibile dire “sottonaturale”; volendo unire il sopra e il sotto, potete anche usare il termine “metafisica” – in accezione neutra, non offensiva o salvifica.) Da un ambito all’altro, in un’impostazione naturalistica è all’opera un presupposto implicito a cascata: cioè, che tutto quel che esiste (o meglio, tutto quel che possiamo legittimamente affermare che esiste) è parte della natura, che tutto ciò che è parte della natura riguarda corpi campi e forze nelle loro mutue relazioni, e che tutto ciò che riguarda corpi ecc. è accessibile alla conoscenza umana – entro le le scienze che si dicono naturali. Dunque, la naturalizzazione dell’epistemologia passa per descrizioni e spiegazioni che in linea di principio sono fornite da teorie fisiche, chimiche, biologiche; e di conseguenza l’epistemologia non può far riferimento a oggetti e processi che trascendono l’ambito delle scienze naturali. Se poi si accetta una ulteriore tesi di riducibilità di ogni livello di complessità della natura al livello corrispondente alle teorie fisiche, i tre tipi di naturalismo convergono verso una qualche forma di fisicalismo. Sul senso, nient’affatto univoco, da dare a questa convergenza vi invito a riflettere, perché il campo d’indagine della fisica cambia con l’avanzare delle teorie, con l’incremento delle tecniche sperimentali e con nuove evidenze osservative. Quindi “fisicalismo” significa cose diverse a seconda di che cosa fa parte, o non fa parte, della fisica. Ora, le scienze della natura, e soprattutto la fisica, fanno ampio uso della matematica. Se la matematica fosse riducibile a logica, come i “logicisti” hanno teorizzato, quanto detto fin qui sarebbe sufficiente sia al naturalista sia all’antinaturalista, in ciascuno dei tre ambiti, per non porsi specifici problemi di naturalizzazione per quanto riguarda la matematica: i problemi relativi allo status della matematica sarebbero scaricati su problemi relativi alla logica. L’antinaturalista che ammette il logicismo si vede ridurre la rosa delle possibili obiezioni circa il ruolo della matematica in ciascun ambito, ma a titolo di compenso, gli basta argomentare che la differenza tra un ragionamento corretto e uno scorretto (con quel che ne segue) non è naturalizzabile. Il naturalista che ammette il logicismo non può più far leva su argomenti relativi alle motivazioni naturali del contare e misurare, ma a titolo di compenso gli basta mostrare Naturalizzazione: vie e ostacoli 227 che i principi della logica sono naturalizzabili. Chi invece è convinto che il logicismo sia erroneo, non può evitare problemi specifici riguardanti specifici aspetti di nozioni e teorie matematiche. Personalmente, sono convinto che la matematica offra conoscenze, dunque non è solo un linguaggio (o una collezione di linguaggi), e che queste conoscenze non rientrano nella logica. In passato ho fornito argomenti a sostegno di tale convinzione e, se stanno in piedi, allora chi si pone il problema della naturalizzazione della matematica esclusivamente in termini di analisi logica del linguaggio fornisce una soluzione insoddisfacente. Resta il fatto che la logica e la matematica si servono di, e si riferiscono a, oggetti, procedure, strutture, costruzioni, che per il loro carattere formale, schematico, astratto, non è per niente chiaro come possano far parte della materia subiecta delle scienze naturali. Se la conoscenza di oggetti procedure strutture costruzioni che s’incontrano in matematica non è di tipo linguistico, allora il naturalista è tenuto ad affidarsi a un’analisi abbastanza diversa da quella che i filosofi analitici hanno fornito della matematica e tale diversità è tutta da articolare in merito a NatM e a NatL, perché potrebbe anche essere sfruttata dall’antinaturalista. Per quanto riguarda NatS – dunque risalendo dal caso specifico della conoscenza matematica alla conoscenza in generale della natura –, se ogni conoscenza della natura è controllabile intersoggettivamente mediante osservazioni ed esperimenti, anche l’epistemologia, se esprime una qualche conoscenza, dev’essere elaborata in una forma che sia intersoggettivamente accertabile, in conformità con il metodo razionale-sperimentale seguendo il quale, all’interno del discorso scientifico, le teorie sono organizzate deduttivamente, correlate a modelli e i modelli testati sperimentalmente e a loro volta correlati a insiemi di osservazioni, per giungere poi a selezionare gli asserti epistemologici in funzione del loro maggiore o minore accordo con i dati e in funzione del loro potere esplicativo. Senza escludere che, se gli asserti epistemologici non esprimono alcuna conoscenza, possa ugualmente avere senso una naturalizzazione dell’epistemologia (in maniera analoga a come in medicina si può pensare di dar conto dell’effetto placebo), farò l’ipotesi che esistano conoscenze propriamente epistemologiche. È a proposito del loro status che l’opposizione Tesi-Antitesi si fa avvincente. 6. E tre riduzioni La biasimevole ma voluta genericità delle osservazioni precedenti ha un vantaggio: quello di scansare la vertenza circa il rapporto fra conoscenze teoriche e conoscenze osservative, così come quella circa i tratti che dovrebbero caratterizzare il metodo scientifico (anche inteso 228 Alberto Peruzzi generosamente come unione di molti metodi diversi). Tuttavia, sarebbe poco convincente chi si limitasse a dire che l’epistemologia è naturalizzabile senza specificare in quale modo ha intenzione di procedere per naturalizzarla, o almeno – tanto per cominciare – almeno per naturalizzare qualche componente dell’epistemologia e, per inferenza, qualche componente della conoscenza.3 Per simmetria con le formulazioni del naturalismo nelle tre aree d’interesse su indicate – filosofia della mente, filosofia del linguaggio, filosofia della scienza –, ci sono tre modi in conformità ai quali la specificazione richiesta è fornita: NatM specifico: la psicologia si riduce alle neuroscienze. NatL specifico: la teoria del significato si riduce a una teoria causale del riferimento. NatS specifico: l’epistemologia si riduce alla biologia evoluzionistica. Sono tre ben distinte riduzioni che poi possono anche combinarsi fra loro. Così come appena enunciate, vogliono dire poco finché gli argomenti a loro sostegno sono taciuti. Ci troviamo in presenza di tre dichiarazioni d’intenti e di tre linee di ricerca. Niente di più. Per uscire dal vago, occorre indicare, rispettivamente, un modello del cervello in termini del quale spiegare i fatti psichici, occorre indicare quali eventi causano quali significati e occorre indicare quali processi evolutivi conducono a selezionare certe condizioni di razionalità (asseribilità garantita, ecc.) piuttosto che altre. Anche se combinate tra loro (impresa tutt’altro che facile e raramente tentata), nessuna delle tre asserite riduzioni ha condotto a risultati tali da poter dichiarare che l’epistemologia è stata naturalizzata o, quanto meno, che, a parte dettagli secondari, è ormai assicurato il successo di ciascuna riduzione. Di ciò sono consapevoli gli stessi naturalisti. Quelli di loro che non lo sono, dovrebbero esserlo. Comunque, se i naturalisti non possono cantar vittoria, gli anti-naturalisti che insistono sui difetti di questo o quello specifico tentativo di naturalizzazione non hanno ancora confutato la tesi che l’epistemologia è naturalizzabile. Ciò è, o dovrebbe essere, di misera consolazione per i naturalisti: se i difetti indicati ci sono e non si sa trovare un modo per rimediare, il progetto di naturalizzazione resta una pia o perversa dichiarazione d’intenti. Le tre specificazioni della Tesi, benché abbiano molti sostenitori, non escludono altre possibili specificazioni, ambito per ambito. Si tratta dunque di trovarne una che funzioni in ciascun ambito, avendo ben 3 Vedi oltre, § 8. Naturalizzazione: vie e ostacoli 229 chiaro – scusate se lo ripeto – che non ci si può limitare ad affermare l’esistenza di una strategia di naturalizzazione, diversa da quelle difettose finora elaborate, senza sapere come specificarla nei dettagli. Abituarsi a disquisire dei massimi sistemi e a perdersi poi nell’alchimia delle varianti è la peggior cosa che possa capitare a un giovane che voglia fare della filosofia una professione. Perciò il lavoro classificatorio qui appena iniziato dovrà pur avere un motivo che non lo rende fine a se stesso ... 7. Antinaturalismo e Quadrato degli Opposti L’Antitesi impegna ad argomentare che l’epistemologia non è naturalizzabile. Benché anche l’antinaturalismo sia in primo luogo un atteggiamento di pensiero piuttosto che una dottrina, ha ugualmente bisogno di articolarsi. Di fatto, e direi anche in linea di principio, le vie dell’antinaturalismo, in quanto reattivo, si definiscono in corrispondenza alle vie del naturalismo. Qualcuno di voi potrebbe pensare che anche il naturalismo è reattivo e non sbaglierebbe, perché chi si preoccupa di affermare la Tesi e poi di svilupparla specificandola ambito per ambito, lo fa in contrasto con credenze precedenti, siano esse ingenue o elaborate in una cornice metafisica, come quella storicamente associata al dualismo mente-corpo e alla credenza nell’immortalità dell’anima. C’è però una differenza fra i due casi: lo sviluppo della Tesi può aver luogo anche senza questa funzione reattiva, mentre non esiste un modo di argomentare l’Antitesi che non si fondi sulla negazione di argomenti a sostegno della Tesi. La cosiddetta “fallacia naturalistica” – sulla quale mi soffermerò più avanti – sembra smentire quanto ho appena affermato, ma sembra soltanto, perché anch’essa fa riferimento a caratteri propri del tipo di verità che le scienze naturali offrono. Piuttosto, per contestare la differenza che ho indicato, bisognerebbe trovare una proprietà che esprimesse in positivo la non-naturalizzabilità. Non conosco nessuno che sia riuscito a trovarla e dubito che questa proprietà ci sia. Però, potreste provarci voi. Nell’attesa che qualcuno trovi questo modo, mi atterrò al senso reattivo dell’Antitesi e dunque ai tre modi fondamentali di negare il naturalismo: NO a NatM (generico o specifico), NO a NatL (generico o specifico), NO a NatS (generico o specifico). Onde evitare di credere che le categorie in cui incasellare gli argomenti a sostegno del naturalismo e quelli a sfavore siano fissate una volta per tutte e onde non ricadere in uno dei consueti battibecchi in materia, vi propongo un esercizio in quattro passi: 1) elencare il maggior numero di motivi per negare la formulazione generica di NatM; 2) individuare una formulazione specifica di NatL o NatS che sia al riparo da almeno uno di tali 230 Alberto Peruzzi motivi; 3) trovare un nuovo motivo, specifico, contro tale formulazione; 4) ripetere questi tre passi sostituendo, in 1), NatM con NatL e poi con NatS ovviamente facendo le sostituzioni opportune in 2). Si tratta di un esercizio di ginnastica concettuale, utile non solo a vincere i pre-giudizi in materia, perché prepara anche a comprendere i rapporti tra due grandi forme di naturalismo, “locale” e “globale”, e due corrispondenti forme di antinaturalismo. Questi rapporti si lasciano riassumere in un nuovo Quadrato degli Opposti, in cui i quattro vertici sono NatA, NatE, NatI e NatO. NatA (naturalismo “globale”), che afferma la congiunzione della tesi in tutti e tre gli ambiti, cioè: NatM ∧ NatL ∧ NatS. NatE (antinaturalismo “globale”), che nega il naturalismo “locale”, cioè: ¬ [NatM ∨ NatL ∨ NatS], ovvero NatM ∧ ¬NatL ∧ ¬NatS. NatI (naturalismo “locale”), che afferma la disgiunzione delle tre tesi, cioè: NatM ∨ NatL ∨ NatS. NatO (antinaturalismo “locale”), che nega il naturalismo “globale”, cioè: ¬NatM ∨ ¬NatL ∨ ¬NatS. Le relazioni logiche tra i vertici sono esattamente quelle del classico Quadrato degli Opposti. A qualcuno di voi potrà non piacere che due posizioni antinaturalistiche si indichino come NatE e NatO invece che come Anti-NatA e Anti-NatI. Nulla impedisce di fare uso di questa seconda etichettatura, ma così facendo è meno palese la corrispondenza con il Quadrato degli Opposti relativo alla sillogistica. Il quadrato ha senso unicamente se riferito ai tratti caratterizzanti di ciascun ambito, essendo ovvio che senza L non c’è S. 8. Naturalizzazione a due vie Ora occorre fare un passo indietro perché c’è un’inferenza che la Tesi di fondo, per così dire, “sottende”: è un’inferenza cruciale, che è già stata menzionata ma non ancora discussa. Poiché, oltre a menzionarla, l’ho implicitamente sfruttata, sono tenuto ad argomentarla. Mi riferisco al tacito assunto secondo cui la naturalizzazione è a due vie: la via ML→LO dal metalinguaggio al linguaggio oggetto e la via LO→ML dal linguaggio al metalinguaggio. La prima impegna ad affermare che se l’epistemologia è naturalizzabile allora lo è anche la conoscenza, la seconda impegna ad affermare l’inverso. Il diagramma seguente illustra le due vie. Naturalizzazione: vie e ostacoli 231 (ML) L’EPISTEMOLOGIA è naturalizzabile (LO) La CONOSCENZA è naturalizzabile Anche se non è detto che ogni forma di naturalismo sia tenuta a sottoscrivere entrambe le inferenze, è un dato di fatto che sia i naturalisti sia gli antinaturalisti danno per buona l’equivalenza. A giustificazione di questo fatto, quali argomenti si possono produrre? L’argomento che segue ha il pregio della brevità. Ad ML→LO Se non valesse l’implicazione ML→LO e (per ipotesi) l’epistemologia fosse naturalizzabile, l’epistemologia conterrebbe asserti di carattere analogo a quelli delle scienze naturali ma nei quali si parla di qualcosa di non-naturale. Ciò obbligherebbe a dire che la conoscenza trascende la natura, anche se i criteri in base ai quali la nozione di conoscenza è definibile – e in base ai quali la conoscibilità della natura è giustificabile – non trascendono la natura. Strano, ma di per sé non ancora assurdo. Per escludere la possibilità che valga ML ma non LO, e garantire con ciò la via dall’alto in basso, è sufficiente aggiungere due ipotesi, indicate come h* e h**. (h*) Almeno alcune delle asserzioni che vertono sulla conoscenza, e che ci impegniamo a sottoscrivere, esprimono conoscenze. Se non abbiamo conoscenze su ciò che trascende la natura, ci potranno anche essere conoscenze che non concernono direttamente qualcosa di naturale, ma il loro significato è comprensibile solo grazie ad altre conoscenze che, per quanto in maniera inconsapevole, concernono la natura. A ciò si aggiunga che ciò che ci impegniamo a etichettare come “conoscenze” – in quanto tali, degne di assenso – è espresso basilarmen- 232 Alberto Peruzzi te da proposizioni che abbiamo motivo di considerare vere (o valide o corrette o empiricamente suffragate ... – mettete pure l’aggettivo di maggior conforto) e non da proposizioni cui è possibile attribuire verità indipendentemente da ciò che crediamo e abbiamo giustificazioni per credere. Da h*, congiunta con la Tesi, segue che almeno alcune conoscenze presenti nel discorso epistemologico hanno un fondamento naturale. Per generalizzare, basta che (h**) ogni asserzione che esprima una conoscenza è (deve poter essere) epistemologicamente giustificata. A sostegno di h** depone il fatto che siamo noi a giudicare delle nostre pretese conoscitive e non un oracolo esterno (chiamato pure “Realtà”). Qualora ci sia qualcuno tra voi che trova lacunoso il mio ragionamento, è invitato ad accorgersi che quel che eventualmente manca è altrettanto legittimo di h* e h**. Ad LO→ML Se non valesse l’implicazione LO→ML, cioè, se la conoscenza fosse naturalizzabile ma non lo fosse l’epistemologia, allora ciò che i filosofi affermano sulla conoscenza non sarebbe qualcosa che i filosofi possono dire di sapere, dunque non avrebbe titolo a essere accettato come vero (valido, giusto, corretto, legittimo, ecc.). Chi asserisca qualcosa che sa non essere asseribile è un (auto-)imbroglione e chi asserisca qualcosa che non accetta come vero (valido ecc.) sta mentendo: chi imbroglia o mente viola una massima del dialogo fra animali razionali. Se per caso non si rende conto di asserire qualcosa che per coerenza non può accettare, è bene informarlo. Chi è incoerente viola comunque un’altra massima. Ora, i filosofi – a meno che stiano recitando – pretendono che quanto dicono con forza assertoria sia accettato come vero (valido ecc.) da coloro ai quali lo dicono e, per equità, questi hanno il diritto di supporre che i filosofi non imbroglino e non mentano. Ciò vale in particolare per l’asserita coerenza dell’ipotesi che la conoscenza sia naturalizzabile ma non l’epistemologia: tale asserzione, se esprime una conoscenza, deve (per ipotesi) poter essere spiegata in termini naturalistici, ma essendo un’asserzione epistemologica (sempre per ipotesi) non potrebbe essere così spiegata. La contraddizione impone di optare per una delle premesse e respingere l’altra. La scelta più ragionevole è quella espressa dal condizionale seguente: (k*) se è asseribile che p è un fatto conoscitivo, anche l’asseribilità di p è un fatto conoscitivo. Naturalizzazione: vie e ostacoli 233 Infatti, la validità di k* è garantita dalle ipotesi h* e h** discusse in relazione a ML→LO, in base alle quali le asserzioni epistemologiche sono espressione, diretta o indiretta, di una qualche conoscenza della natura. E poiché le ipotesi h* e h** sono già state argomentate, la conclusione è che chiunque s’impegni ad affermare NatA oppure NatI e poi proceda a specificare, ambito per ambito, la via da seguire ai fini della naturalizzazione dell’epistemologia, è tenuto ad accettare entrambe le vie. Dunque il suo discorso si presta a essere contraddetto già in merito a qualche aspetto della conoscenza (della natura) e, se va incontro a un ostacolo, quest’ostacolo si ripercuote sulla naturalizzazione della conoscenza. 9. Completamento della tassonomia La tassonomia delle forme di naturalizzazione e, corrispondentemente, di antinaturalizzazione non è ancora conclusa. Dopo il Quadrato degli Opposti relativo alla versione locale o globale di Tesi e Antitesi, c’è una ulteriore tripartizione, dovuta al fatto che Tesi e Antitesi si prestano a essere intese in tre sensi diversi: metodologico, ontologico, e semantico (o semantico-epistemico). Ciascuno di essi si configura, di default, come indipendente dagli altri. Dunque abbiamo tre versioni della Tesi: Versione metodologica: è legittimo/indispensabile adottare i metodi d’indagine delle scienze naturali nello studio della conoscenza. Versione ontologica: le entità cui ci riferiamo per descrivere o giustificare o spiegare la conoscenza hanno lo stesso status ontologico delle entità cui ci riferiamo per descrivere / giustificare / spiegare i fenomeni naturali. Versione semantica: i concetti di cui ci serviamo nella descrizione / giustificazione / spiegazione della conoscenza sono dello stesso tipo dei concetti usati nelle teorie fisiche, chimiche ecc. Ovvero: l’accesso epistemico agli uni non differisce dall’accesso epistemico agli altri. Se le proprietà delle entità sono assimilate a entità, la versione ontologica copre anche le proprietà. Altrimenti, la naturalizzazione delle proprietà rimanda alla versione semantica. Simmetricamente, avremo tre forme in cui l’Antitesi è a sua volta formulabile. Ci sarà un antinaturalismo metodologico, uno ontologico e uno semantico. Ciascuna delle tre versioni, e specialmente la terza, al pari di ciascuna delle rispettive negazioni, avrebbe bisogno di varie precisazioni, la cui assenza tuttavia non pregiudica la tassonomia. A tale proposito vi propongo due esercizi. Il primo consiste nel chiedersi se faccia davvero una differenza, nella versione metodologica, limitarsi alla “legittimità” dell’uso dei metodi delle scienze naturali o 234 Alberto Peruzzi sostenerne la “indispensabilità”. Se la risposta è no, l’esercizio è finito. Se è sì, continua chiedendosi se e come tale differenza agisca nei confronti delle versioni ontologica e semantica. Il secondo esercizio consiste nell’immaginare qualcuno che produca argomenti per sottoscrivere una di queste tre versioni e nello stesso tempo produca argomenti per rifiutarne un’altra. La letteratura esistente offre esempi della relativa casistica. Volendo mantenere la tassonomia sul piano più generale possibile, come già nel caso del Quadrato degli Opposti, anche in merito alla versioni metodologica, ontologica e semantica si configurano due orientamenti fondamentali: c’è un naturalismo forte, che s’impegna con tutte e tre le versioni, e uno debole che s’impegna ad accettarne almeno una. Specularmente, avremo un antinaturalismo debole e un antinaturalismo forte. Naturalismo forte: congiunzione delle 3 versioni. Naturalismo debole: disgiunzione delle 3 versioni. Antinaturalismo forte: negazione del naturalismo debole. Antinaturalismo debole: negazione del naturalismo forte. A questo punto possiamo combinare la distinzione tra forma locale e globale, della tesi con la distinzione tra versione forte e debole. Ne risultano quattro possibili tipi di posizione naturalistica: Naturalismo globale forte Naturalismo globale debole Naturalismo locale forte Naturalismo locale debole. Specularmente, avremo quattro tipi di posizione anti-naturalistica. Si tratta, in tutti e otto i casi, di tipi di posizione e non di specifiche posizioni, perché le posizioni effettivamente assunte pro o contro il naturalismo riguardano le specifiche opzioni che si adottano in merito a problemi di filosofia della mente, filosofia del linguaggio e filosofia della scienza, nonché in merito alla particolare metodologia / ontologia / semantica, proposta o respinta. Se non si specificano tali opzioni, se non le si motivano né ci si impegna a chiarirne i dettagli, non si va da nessuna parte, ma… a questo punto cominciate a capire il senso polemico della tassonomia: benché non sufficiente, è necessaria. Purtroppo, gli esercizi che richiede di fare non sono stati fatti dalla maggior parte dei filosofi che si sono premurati di prendere posizione in merito al naturalismo. Non avendoli fatti, molti ragionamenti, pro o contro, sono viziati. Chiunque si lamenti del fatto che, anche se fossero stati fatti, l’esito sarebbe lacunoso, evidentemente non capisce la differenza tra condizione necessaria e condizione sufficiente. Naturalizzazione: vie e ostacoli 235 Certo, nel caso in cui si riesca a mostrare, su un piano così generale, che uno degli otto tipi di posizione confligge con principi che abbiamo motivo di considerare indispensabili nell’architettura della conoscenza umana, c’è un bonus: ci risparmiamo di dover entrare nel merito di questa o quella dottrina epistemologica all’interno di uno stesso tipo. A ciò si aggiunga che la gamma degli otto tipi di posizione si riduce sottoscrivendo ipotesi ulteriori, che rimuovono la reciproca indipendenza delle tre versioni. Immagino che quest’idea sia la prima cosa che vi è venuta in mente. Ma come darle seguito? Per esempio, qualcuno potrebbe sostenere che l’impegno ontologico si misura con quello semantico; e qualcun altro potrebbe sostenere che l’impegno semantico sia strettamente collegato alla scelta di un particolare orientamento metodologico. Infine, sempre restando su un piano così generale, qualcuno potrebbe proporsi, come obiettivo, di escludere sette tipi per restare con uno solo. Sarebbe una gran bella impresa! Ma anche qualora uno di voi ci riuscisse, il successo nell’impresa non basterebbe ancora a elaborare né una soddisfacente naturalizzazione (il che è ormai chiaro) né una sua soddisfacente negazione (il che è meno chiaro): nel primo caso occorrerebbe entrare nel merito delle specifiche teorie sulle quali fare affidamento per dar corpo alla Tesi, nel secondo occorrerebbe entrare nel merito delle specifiche ipotesi metateoriche sulle quali fare affidamento per dare corpo all’Antitesi. Lo so che il lavoro necessario a questo scopo è scomodo, perché comporta che il discorso filosofico si misuri con problemi logici, matematici o scientifici che hanno bisogno di molto tempo solo per essere capiti; quindi potrà suscitare una certa antipatia in chi non è abituato a fare filosofia entrando nel loro merito, ma è semplicemente fallimentare lasciarvi credere che in filosofia è possibile cavarsela con ciò che è comodo. Anticipo subito un’obiezione: dopo tutte queste distinzioni, non vi sto forse suggerendo che la tassonomia fin qui messa a punto è poca cosa? No, non è poca cosa evitare le confusioni che ricorrono nella letteratura circa la naturalizzazione dell’epistemologia. Se ci si fosse preoccupati di evitarle, non ci sarebbe stato motivo di indugiare tanto su preliminari che si ramificano in maniera perversa. Solo un novello Barone Rampante, che dal piano metateorico non abbia alcuna intenzione di scendere sul piano teorico, può ritenersi soddisfatto. Dunque, capisco bene che il discorso fatto fin qui sembri cervellotico e perfino controproducente ai fini di un diretto impegno sulle questioni che oggi sono dibattute circa la natura della mente, del linguaggio o della scienza. La sua funzione è propedeutica, o meglio: profilattica. Qui, la profilassi è quella che serve a evitare confusioni, ma non è fine a se stessa: è guidata dall’esigenza di precisare le ipotesi su come sia possibile 236 Alberto Peruzzi risolvere una serie di problemi inerenti alla naturalizzazione. È vero che tale profilassi non riesce a selezionare un tipo di posizione fra le otto possibili e poi una specifica posizione fra quelle del tipo selezionato; ciò nonostante, data la frequenza con cui si confonde un tipo di naturalismo con un altro, e un tipo di antinaturalismo con un altro, i benefici della profilassi non sono da sottovalutare: bloccano tutti gli argomenti confusi e ne esigono la riformulazione, preparando così il terreno a una discussione più proficua. Non ho fatto un solo nome di coloro che sono intervenuti nella controversia. La preoccupazione di fondo era quella di mostrare che non esiste “il” naturalismo e che lo stesso vale per “la” sua negazione. Se la mancanza di nomi è imperdonabile, fa anch’essa parte della profilassi: un argomento filosofico non deve aver bisogno di un nome proprio per essere “buono” e, inoltre, la mancanza di nomi è servita a prospettare forme di naturalismo e antinaturalismo ancora da esplorare. Beninteso, nulla osta all’esemplificazione dei diversi tipi di naturalismo e antinaturalismo con riferimento alla letteratura. Diciamo che è un altro esercizio; e chi di voi ci tenga tanto a farlo si renderà conto che l’etichettatura aggiunge poco. Quel che manca è piuttosto un diretto impegno ad acquisire familiarità con questioni teoriche relative a specifiche discipline come la logica, la linguistica, l’intelligenza artificiale, la geometria, la fisica, la biologia evoluzionistica, la neurofisiologia. 10. Strategie di riduzione Nel momento in cui si entra nel merito di teorie concernenti gli specifici caratteri del linguaggio, della mente o della scienza, la questione di fondo, per il sostenitore di una qualche forma di naturalismo, diventa: mostrare che questi caratteri possono ridursi a caratteri che rientrano nella materia subiecta delle scienze della natura. A tale scopo occorre addurre una prova o, come minimo, mostrare che non ci sono ostacoli in linea di principio, con ciò intendendo che gli ostacoli noti possono essere superati. (NB: questo resta un minimo argomentativo, perché non esclude la possibilità di altri ostacoli.) Per l’anti-naturalista la questione di fondo si articola in maniera simmetrica: mostrare che almeno uno dei suddetti caratteri non è riducibile (e, se l’antinaturalista è anche un olista, ne basta uno per escludere la riducibilità anche degli altri). Da parte dell’anti-naturalista occorre dunque mostrare che le prove addotte o adducibili non funzionano. Qui il minimo consiste nell’argomentare che i tentativi di riduzione finora messi in atto sono fallimentari. Qualora la sua replica vada oltre, cioè, si estenda dalle addotte alle adducibili, la loro classe dev’essere a sua volta Naturalizzazione: vie e ostacoli 237 governata, perché per affermare che “Non è possibile provare che p”, bisogna passare in rassegna tutti i modi in cui una prova di p può essere ottenuta e non solo i modi finora seguiti. Da parte di entrambi occorre fare un elenco completo degli ostacoli che si frappongono e descriverli con precisione. Il che vien fatto di rado. La polemica verte piuttosto su due tipi di asserzioni manchevoli: quelle con cui si afferma che X è riducibile a Y ma non si sa ancora come e quelle con cui si afferma che X non si riduce a Y ma non si sa se possa ridursi a Z (con Z ≠ Y). La manchevolezza è comprensibile: né l’uno né l’altro sono infatti onniscienti. Ma allora farebbero bene a non promettere o a non escludere in maniera così risoluta (non essendo capaci di governare la classe delle prove, o delle controprove, possibili). A loro difesa si può osservare che ogni discussione filosofica è sempre relativa a ciò che è conosciuto, giudicato vero, dotato di significato, allo stato attuale delle conoscenze, non sub specie aeternitatis. Giusto, ma la filosofia tende a fare sempre un passo in più e, se non lo facesse, le asserzioni filosofiche sarebbero solo un ibrido fra credenze proprie del senso comune e ipotesi scientifiche. In ciò, la filosofia somiglia alla matematica più di quanto desideri. Nel riconoscere la limitazione di prove e controprove a ciò che è attualmente noto, non c’è alcun bisogno di invitare a cospargersi il capo di cenere e far professione di scetticismo o di relativismo. L’antinaturalista che insista sulla fragilità della conoscenza umana fa uso di un argomento che gli si ritorce contro, rendendo non definitivi i suoi argomenti contro la possibilità di naturalizzare l’epistemologia. D’altra parte, il naturalista che insista sul progresso delle conoscenze scientifiche non può assicurare che in futuro non si scopra qualcosa di contrario alle sue asserzioni. L’interesse della controversia deve dunque risiedere in altro. Le tre versioni del naturalismo prefigurano strategie distinte, con le quali ci si propone di conseguire una prova della Tesi o almeno di suffragarla nella maniera più ampia possibile alla luce della attuali conoscenze. In tutti e tre i casi si tratta di una strategia riduttiva, che ora prende la forma di una riduzione metodologica, ora di una riduzione ontologica, ora di una riduzione semantica (o semantico-epistemica). Ciascuna può, sì, essere pensata come autonoma dalle altre due, ma può anche – come già accennato – collegarsi alle altre mediante ulteriori ipotesi. In tutti e tre i casi l’idea intuitiva è che qualcosa che a prima vista non sembra avere i caratteri di ciò che indagano le scienze della natura “si riduce” a qualcosa che invece ha questi caratteri. Purtroppo, quest’idea intuitiva non porta molto lontano. La nozione di “riduzione” ha bisogno di essere precisata. Per cominciare, in tutti e tre i casi SI SUPPONE che, parlando della riduzione di X a Y, X non trovi espressione in un asserto isolato, o in un insieme di asserti l’uno staccato dall’altro, ma sia qualcosa 238 Alberto Peruzzi cui corrisponde un insieme di asserti organizzati in base a rapporti di dipendenza logica, dunque organizzati al meglio in una teoria, con i suoi bravi principi, le sue brave definizioni e i suoi bravi argomenti, messi nero su bianco. Lo stesso dicasi per Y. E se questa SUPPOSIZIONE non vale? Bisogna fare un ulteriore lavoro preparatorio prima di asserire che X si riduce, o non si riduce, a Y. Che si tratti di due metodi a confronto, di due ontologie o di due sistemi di condizioni semantico-epistemiche, l’uno e l’altro devono essere esprimibili in forma di un sistema di enunciati, da ricondursi a un insieme finito di principi o assiomi. Direte che quasi mai nelle controversie filosofiche ci si rimbocca le maniche per fare questo lavoro, che si chiama “assiomatizzazione”. E con ciò? Non vedo perché la scarsità dei buoni esempi dovrebbe indurvi a seguire i cattivi. Forse i filosofi non sono capaci di fare un lavoro del genere? Ma prove che ne siano capaci sono offerte dalla stessa storia del pensiero filosofico. Dunque è legittimo supporre che i filosofi interessati a prendere posizione nella controversia naturalismo/anti-naturalismo siano capaci di fare il lavoro richiesto anche se tendono a scansarlo. E allora come si precisa il concetto di riduzione? L’analisi logica ha portato a individuare un criterio, che considero canonico, anche se è possibile sviluppare altri modi, più raffinati, di precisare il concetto. Chi intenda avvalersi di un diverso criterio è dunque pregato di addurre i vantaggi che offre rispetto al criterio che considero canonico. Se non è in grado di addurli, è legittimo ignorare le sue lamentele. Le alternative finora emerse vanno incontro a un difetto che già Aristotele aveva raccomandato di evitare ogniqualvolta si fornisce una definizione che voglia essere conoscitivamente vantaggiosa, cioè, il difetto di definire obscura per obscuriora. Stabilito, dunque, che il concetto di riduzione si precisa nel confronto fra due teorie T e T’ e SUPPOSTO che a questo scopo le teorie devono entrambe essere assiomatizzate (e possibilmente espresse in un linguaggio formalizzato), il criterio canonico di riduzione è il seguente: T’ si riduce a T se e solo se sono soddisfatte due condizioni: – ogni termine primitivo di T’ è definibile nel linguaggio di T; – ogni teorema di T’ è dimostrabile in T. Due esempi di riduzione: la termodinamica si riduce alla meccanica statistica e l’aritmetica si riduce alla teoria degli insiemi. Due controesempi: la meccanica quantistica non si riduce alla meccanica classica, la teoria delle categorie non si riduce alla teoria degli insiemi. Entrambe queste coppie di esempi e controesempi sono di rilevanza storica. Come Naturalizzazione: vie e ostacoli 239 potete immaginare, per fornire le quattro rispettive prove, il discorso si farebbe molto lungo. Non entrerò nel loro merito. Mi limiterò ad alcuni chiarimenti di portata generale, di seguito elencati come (a)-(e). (a) Quando si esige che, prima di dire se una teoria T’ si riduce o no a un’altra T, entrambe debbano essere assiomatizzate, si esige che siano espresse in linguaggio matematico da cima a fondo? No, ma se sono espresse in linguaggio matematico è più facile controllare se davvero T’ si riduce a T, o no. Obiezione: “La risposta non è definitiva, perché il linguaggio matematico impiegato potrebbe non essere il più appropriato”. Giusto. E allora? Se ne dovrebbe inferire che tutto è incerto e che ognuno può tenersi le idee più strampalate? No, si profila piuttosto il compito di specificare un ulteriore criterio, di adeguatezza, per la formalizzazione di un certo corpus di conoscenze (in T’) e poi di un altro corpus (in T). D’altronde, il criterio di riduzione non serve a nulla se non si è stati bravi a formalizzare e a trovare gli assiomi giusti: un compito che non è per niente un giochetto, non ci sono garanzie anticipate del suo successo né si può prevedere, in generale, quali conseguenze abbia la scelta di un insieme di assiomi invece che un altro ai fini del confronto fra T e T’. (b) Il prerequisito di formalizzazione e assiomatizzazione per i due sistemi di conoscenze a confronto non deriva da una fissazione maniacale nei confronti della logica e della matematica ma è finalizzata allo scopo di garantire che, quando si usa un qualsiasi dato termine, esso abbia un significato univoco e, quando si fa un’asserzione, sia chiaro quali sono le premesse di quanto si asserisce. (c) Le clausole di definibilità e dimostrabilità (condizioni 1. e 2. del criterio) sono interconnesse, nel senso che non sono indipendenti l’una dall’altra: per definire un termine t del linguaggio di T’ mediante uno o più termini del linguaggio di T può esserci bisogno di dimostrare qualcosa in T; e per dimostrare che un enunciato p dedotto dagli assiomi di T’ è deducibile dagli assiomi di T, può esserci bisogno di aver definito in T certi termini presenti nell’enunciato p. (d) Anche avendo prestato scrupolosa attenzione a tutto quanto precede, non è escluso che sorgano problemi circa l’impiego che si fa di un risultato di riduzione teorica o della prova che un tale risultato non è possibile. Basti pensare al modo in cui il Teorema di Incompletezza per l’aritmetica elementare è stato usato, o abusato, per sostenere l’irriducibilità della mente a un insieme di procedure meccaniche. (e) I sostenitori di una qualsiasi forma di naturalizzazione sono spesso descritti come fautori del “riduzionismo”. I loro oppositori sono descritti (e per lo più, si descrivono) come “anti-riduzionisti”. Il che è fuorviante e tendenzioso: fuorviante perché la riduzione può essere estremamente complessa, comportando nozioni nuove che portano a modificare una 240 Alberto Peruzzi precedente formulazione di T; tendenzioso perché il termine “riduzione” sollecita una reazione di antipatia, come quando si esclama “L’uomo non si riduce a un ammasso di cellule!” o “Si vergogni! Lei sta riducendo la questione a una banalità”. Così, chi è a favore di una riduzione teorica passa subito male e chi è a sfavore passa subito bene. L’artificio retorico paga – non c’è dubbio –, ma efficacia persuasiva non implica correttezza argomentativa. 11. Tra riduzione ed emergenza Alla domanda “Che cosa c’è?” la risposta logica è “Tutto”. Ma tutto cosa? Dipende non solo da ciò che ammettiamo come valore di una variabile, ma da quanti tipi di variabili ammettiamo, ognuno corrispondente a un tipo di entità. E allora: quanti tipi di entità ci sono? Quante teorie reciprocamente indipendenti dobbiamo ammettere? Una teoria potrebbe supporre l’esistenza di una totalità limitata di enti tra i quali intercorrono poche relazioni e ridursi a una teoria in cui si fa riferimento a totalità molto più ampie e con molte più relazioni. Per un’altra teoria potrebbe succedere l’inverso. C’è un famoso principio di economia ontologica, il quale recita: entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. Se lo facciamo nostro in relazione a tutta la gamma di entità cui normalmente ci riferiamo in un dato linguaggio, dobbiamo mettere in atto una politica di eliminazione della maggior parte di esse, restando con un (il?) minimo indispensabile di entità: quelle che permettono di dar conto di ogni altra entità (oggetto, cosa) cui ci riferiamo, senza dover rinunciare a nessuna delle verità al riguardo. Tipicamente, se si tratta di un linguaggio scientifico relativo a un particolare dominio empirico, l’eliminazione è più facile da gestire rispetto al caso nel quale ciò cui ci riferiamo riguarda l’insieme di esperienze della vita di tutti i giorni così come espresse nel linguaggio ordinario. Non meno tipicamente, il principio-rasoio è usato, e simmetricamente contestato, in malo modo: si ignora, o furbescamente si fa finta di ignorare, che non sono solo gli enti che contano ma anche le loro relazioni, dunque anche le modalità con cui si combinano, e i corrispondenti principi. C’è un solo rimedio: indicare con chiarezza quali sono le relazioni che si suppone intercorrano “orizzontalmente” tra gli enti che consideriamo eliminabili e quali sono le relazioni “orizzontali” tra gli enti candidati a essere sufficienti. Fatto questo, bisogna indicare con altrettanta chiarezza le relazioni sistematiche “verticali” fra i due piani e dunque anche tra i due sistemi di relazioni “orizzontali”. Quando i due piani sono ricchi di enti e di relazioni ma sono descritti in linguaggi molto diversi, c’è un complicato lavoro di interpolazione Naturalizzazione: vie e ostacoli 241 da fare, passando per linguaggi-ponte. Una parte cospicua dei lavori di filosofia analitica saltano tutti i passaggi intermedi, ambito per ambito, e si affrettano a discutere la riducibilità o irriducibilità dell’ontologia del senso comune a un’ontologia regimentata, uniforme, soggiacente a tutti gli ambiti. A parte la difficoltà di compiere un simile salto senza rompersi la testa, bisogna stare attenti a non fare confusione tra dire che quel che non si lascia ridurre non esiste e dire che quel che si lascia ridurre esiste. Chi afferma l’eliminabilità di qualcosa dal cosiddetto “arredamento del mondo”, non intende dichiarare non-esistente quel che prima si credeva che esistesse, bensì asserire che non c’è bisogno di postularne l’autonoma esistenza, perché essa è riconducibile all’esistenza di altre entità (con le loro relazioni e con i principi al riguardo). Per fare un esempio: dicendo che non c’è bisogno di postulare l’esistenza di molecole come entità primitive se le molecole sono insiemi di atomi, non s’intende dire che le molecole non esistono; s’intende, piuttosto, che basta supporre che esistano gli atomi e che si possano isolare i principi che individuano certi insiemi di atomi, tra loro uniti da legami di un certo tipo, “molecolari”, e che li distinguono da meri insiemi di atomi. L’eliminativismo non è necessariamente naturalistico; inoltre, può avere caratteri diversi da un ambito a un altro e, anche all’interno di uno stesso ambito, si possono mettere in atto più strategie di riduzione eliminativa. In semantica ne sono state esplorate parecchie, ma tutte incorporano l’idea seguente: circa le asserzioni che normalmente crediamo di capire, possiamo renderci conto che, se hanno un senso scientificamente accettabile, ne hanno uno un po’ diverso da quello inteso, perché ciò di cui normalmente parliamo è in realtà qualcosa che è definibile a partire da altre entità, delle quali non parliamo nel linguaggio comune (per esempio, non parliamo del “tensore metrico”). Il piccolo problema dell’eliminativismo è che dovrebbe essere formulato evitando tutti quanti i termini che per gli eliminativisti sono problematici, mentre non è facile capire come riuscirvi saltando i passaggi intermedi fra l’ontologia del senso comune e quella di una teoria chimico-fisica o logico-matematica. Gli eliminativisti fanno tipicamente ricorso alla composizione degli enti, ma in primo luogo non sono tenuti a ricorrervi e in secondo luogo, se c’è corrispondenza tra composizionalità ontologica e semantica, tale ricorso non è univoco. Sul piano semantico, il principio di composizionalità stabilisce che il significato /riferimento di un’espressione composta è determinato da 1) il significato/riferimento delle espressioni componenti, e 2) il modo della composizione. Una simile formulazione generica, però, serve a poco. Bisogna specificare quale è il modo della composizione, anzi i modi, dunque quali relazioni basilari, di rilevanza logica, intercorrono tra 242 Alberto Peruzzi le espressioni. Se ci atteniamo alla forma più comune, anche se imprecisa, del principio, il riduzionismo semantico implica l’esistenza di specifici atomi di significato/riferimento. In genere, i critici della composizionalità attaccano la condizione 1) e dimenticano che c’è anche la condizione 2). In genere, gli anti-naturalisti contestano il principio, ma per generosità suppongo che lo contestino non dimenticando la 2). Mettendo da parte l’antipatia viscerale che il principio suscita in molti, sarebbe comunque raccomandabile che l’argomento addotto contro la composizionalità fosse corretto. Invece, è tipicamente viziato da due errori: in primo luogo, si trascura il fatto che l’insieme dei cosiddetti atomi semantici cui si riduce qualunque descrizione da noi comunemente adoperata (per riferirci a qualcosa nel linguaggio comune) può essere associato a una teoria di campo e, in secondo luogo, si trascura il fatto che la composizionalità ammette più specificazioni, le quali possono anche essere compatibili con l’idea espressa da “il tutto è maggiore della somma delle parti”.4 Se dimentichiamo tutto questo, ci ritroviamo di fronte all’aut-aut tra un riduzionismo volgare e un antiriduzionismo non meno volgare: il primo illustrato da asserzioni come “Il cervello non è altro che un insieme di cellule”, il secondo dal facile trionfo su tali asserzioni conseguito da chi si compiace di ricordarci che nel mondo convivono tipi di entità radicalmente diversi, dotate di proprietà idiosincratiche e governate da principi (quando presenti) che sono totalmente diversi da un tipo all’altro. Entrambe le forme di volgarità sono compatibili con l’adozione di un principio di composizionalità, benché solitamente si dia per scontato che l’antiriduzionismo, volgare o non volgare, lo escluda. Non appena ci preoccupiamo di evitare i guai che derivano dall’autaut, la più generale alternativa tanto al riduzionismo quanto all’antiriduzionismo volgari consiste in una forma di naturalizzazione che prende il nome di “emergentismo”. Anzi, non appena riduzionismo e antiriduzionismo escono dalla volgarità, si avvicinano da bande opposte a una qualche versione di emergentismo. Qualora non fosse chiaro, con questo termine non s’intende una dottrina che teorizzi uno stato di incombente calamità; né l’emergere in questione ha a che fare con iceberg o isole vulcaniche; tanto meno si riferisce a paesi in rapida crescita o all’affermarsi di giovani talenti in società. Chiarimento del tutto superfluo, direte. Bene, ma c’è uno schema cognitivo soggiacente a tali usi non meno che a quello qui inteso, perché ogni tipo di “emergenza” presuppone uno sfondo, o ambiente, a parti4 A quelli di voi che fossero interessati alla distinzione tra le forme di composizionalità segnalo “Compositionality up to parameters”, Protosociology, 21, 2005, pp. 41-66. Naturalizzazione: vie e ostacoli 243 re dal quale un oggetto, struttura o sistema, prende forma. Inoltre, da una stessa serie di costituenti si possono ottenere, in funzione di vincoli “ambientali” mutevoli, più strutture complesse, fra loro diversificate, aventi caratteristiche “nuove” rispetto a quelle dei costituenti, senza che ci sia nulla che cada dal cielo e senza che si debba supporre un disegno teleologico, se non quello che le “emergenze” una dopo l’altra tracciano da sé plasmando un paesaggio epigenetico.5 12. Linee di sviluppo dell’emergentismo L’emergentismo si presenta solitamente come concezione naturalistica, anche se potrebbe anche essere proposto da chi nega il principio della chiusura causale, che non meno solitamente è considerato parte essenziale della concezione naturalistica. Non potendo entrare ora nel merito della chiusura causale, basti osservare che, anche come concezione naturalistica, se ne possono dare versioni diverse, corrispondenti ai quattro tipi fondamentali di naturalismo, e a ciascuna versione è associata un’ipotesi circa l’emergere di sistemi complessi. Agli occhi di molti, l’emergentismo appare come un compromesso: se da un lato non richiede il coraggio dei riduzionisti, dall’altro perde la comodità offerta da un generico antiriduzionismo. Questo è solo uno dei diffusi fraintendimenti che circolano nei confronti della nozione di emergenza. Perciò vi rivolgo tre inviti. Il primo è a non pensare che l’emergentismo abbia necessariamente, o esclusivamente, a che fare con le proprietà della mente. Il secondo invito è a non pensare che il radicamento nello sfondo di ciò che emerge dallo sfondo implichi una qualche forma di atomismo semantico-epistemico, in aggiunta o in alternativa agli atomi materiali. Questa presunta implicazione non vale neanche facendo proprio un principio di composizionalità inteso come affermazione che tutte le proprietà di un intero siano definibili a partire dalle proprietà delle parti (proprie) che lo compongono. L’implicazione vale solo se la composizionalità è intesa in senso insiemistico classico, cioè, come estensionalità: due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi. Il terzo invito riguarda la caratterizzazione dell’emergentismo come una forma di naturalizzazione non riduzionistica: molti antinaturalisti sfruttano l’assunto secondo cui, se ci fosse davvero emergenza, essa comporterebbe il rifiuto di ogni composizionalità e che, se le strutture emergenti fossero davvero descrivibili nei termini dello sfondo da cui 5 Circa le proprietà di un sistema “emergente”, si vedano le Precisazioni : http:// eprints.unifi.it/archive/00000822/. 244 Alberto Peruzzi emergono, una simile naturalizzazione sarebbe, per forza, riduzionistica e, ut sic, atomistica. In filosofia della mente, quest’assunto si trova esemplificato negli argomenti contro la sopravvenienza così come in quelli a favore. L’assunto trascura il fatto che una teoria T cui un’altra T’ si riduca può essere – come già detto – una teoria di campo, dunque relazionista e trascura il fatto che fra le teorie T’ che non si riducono a T, ci sono quelle che identificano una sottoclasse di modelli di T e dunque non possono contraddire T. Accogliendo questi tre inviti non avreste ancora garantito l’irriducibilità di qualcosa che è naturale ma complesso a qualcosa che è naturale ma semplice (vedi le condizioni 1. e 2.), né avreste garantito una qualche comprensione di ciò che è naturale e complesso; tanto meno avreste segnato un punto a favore di un generico riduzionismo. Se in filosofia del linguaggio e in filosofia della mente si vuol discutere utilmente di composizionalità e di emergenza di una struttura da un’altra, non si può scansare l’impegno a fornire una definizione di entrambe le nozioni e, a seguire, l’impegno a specificare le modalità dell’emergenza di una struttura da un’altra. Con ciò si prospetta altro lavoro ancora per i filosofi. Nel corso del Novecento l’emergentismo ha avuto varie formulazioni, per lo più slegate dalle querelles sull’ontologia che hanno coinvolto i filosofi analitici. Nel quadro di un’ontologia stratificata su più piani, corrispondenti a livelli stabili di organizzazione sistemica, è possibile assiomatizzare una forma particolare di emergenza, il cui carattere dialettico è espresso in termini matematici, grazie a un concetto – quello di aggiunzione – che è al centro della teoria delle categorie.6 Il modello risultante si affianca ad altri modelli di naturalizzazione emergente, come quelli che prendono il nome di: – teoria dei sistemi dinamici (non-linearità, stabilità lontana dall’equilibrio, complessità); – epistemologia genetica, estesa da sistemi naturali a sistemi artificiali (con riferimento a pattern non prestabiliti di apprendimento); – teoria dell’enazione, come visione dialettica dell’interazione organismo-ambiente; – grammatica cognitiva; – fenomenologia naturalizzata. I rapporti fra i rispettivi modelli di emergenza sono ancora da indagare. Per quanto riguarda il modello in termini categoriali, è di particolare 6 Si veda il fascicolo monografico di Axiomathes, 12/1, 2001; in particolare, pp. 227-260. Naturalizzazione: vie e ostacoli 245 interesse che si applichi direttamente alla semantica e dunque serva a elaborare un modello dell’emergenza dei concetti: s’incentra infatti sul processo “lifting topologico-categoriale” mediante il quale, a partire da schemi primitivi di interazione corporea con l’ambiente, si costituisce il significato di qualunque proposizione. Pur avendo con tutte e cinque le prospettive su elencate una serie di punti in comune, quest’ultimo modello se ne differenzia per le nozioni matematiche di cui si serve, le quali da un lato offrono una cornice molto generale e dall’altro riescono a esprimere come la spazialità naturale soggiacente alla costituzione dell’esperienza ordinaria si trasferisca a ogni altro dominio semantico-cognitivo. Il che può rappresentare un passo decisivo a favore della Tesi. Per equità, un grande difetto del modello consiste nella mancanza di una descrizione e spiegazione di come, sul piano biologico, gli schemi inerenti alla spazialità emergano, ragion per cui il modello si vede costretto a ricorrere a schemi di percezione-azione la cui genesi è semplicemente assunta come avente la forma categoriale prevista dal modello stesso. Le cinque prospettive su elencate, al pari del modello in questione, nascono da problemi scientifici in ben determinati campi di ricerca e fanno uso di strumenti formali anche molto diversi, ad esempio per quanto concerne le relazioni tra parte e tutto o tra stati stabili di un intero e processi di trasformazione delle parti. In un caso possiamo trovarci di fronte a una naturalizzazione di aspetti di pertinenza epistemologica che fa affidamento sulla dinamica non lineare delle interazioni fra due sistemi (un sistema S1 conoscente-agente e un sistema-oggetto S2 che viene modificato da S1). In un altro caso possiamo trovarci di fronte a uno sviluppo della concezione darwiniana dell’evoluzione che, indagando la co-evoluzione e i suoi non arbitrari equilibri, giunge a un modello della genesi di un sistema “conoscitivo”. In un altro caso ancora si affronta, in termini di dinamica topologica, la morfogenesi di strutture semantiche ed epistemiche. Nel caso del modello emergentista incentrato sul “lifting topologico-categoriale”, la teoria che fa da sfondo è la teoria delle categorie (e, per quelli di voi che avessero una qualche familiarità con questa teoria, aggiungo che il concetto chiave è quello di “costruzione universale”). A parte le differenze tra una prospettiva e l’altra, la linea seguita è naturalistica ma non è riduzionistica, anche se da un caso all’altro le ragioni per cui non è tale cambiano. Negli ultimi decenni sono stati fatti pochi sforzi per individuare punti di convergenza fra queste diverse linee di ricerca e non si ancora pervenuti a un quadro teorico unitario. Se a un dottorando in filosofia teoretica dovessi consigliare dei temi su cui indirizzare la propria attenzione, fra essi ci sarebbe sicuramente quello relativo alla possibilità (o no) di combinare queste diverse linee e all’individuazione degli ostacoli che impediscano di combinarle. 246 Alberto Peruzzi Per quelli fra voi che hanno una formazione più legata alla tradizione analitica, i vantaggi derivanti dai modelli di naturalizzazione emergente possono esser colti esaminando specifiche questioni di semantica dei linguaggi naturali e confrontando tali modelli con i più noti approcci naturalistici alle nozioni di significato, riferimento e verità. Entrando nel merito, è facile accorgersi che nella letteratura degli ultimi decenni tali questioni sono semplicemente slittate dall’ambito della filosofia del linguaggio a quello della filosofia della mente. Lo slittamento, invece di colmare le eventuali lacune lasciate dalla semantica d’ispirazione analitica, ha comportato guai ulteriori. Per esempio, in filosofia della mente si è discusso molto di zombie, intesi come esseri indiscernibili da noi quanto al comportamento, ma privi di stati intenzionali (emotivi e cognitivi). Nei confronti dell’ipotesi degli zombie, la replica che scaturisce dalla prospettiva emergentista, così come essa si articola lungo le linee che ho appena descritto, è diversa dalla replica che fa riferimento a proprietà causali “sopravvenienti”, perché questa seconda replica è legata a un’idea di fisicalismo che gli sviluppi della fisica dei sistemi dinamici complessi mettono in dubbio. Cioè, se adottiamo un naturalismo emergentista è possibile ammettere proprietà mentali non riducibili alla struttura fisica del cervello, senza doversi ritrovare una soggettività che miracolosamente accede a proprietà non-naturali. 13. La super-obiezione Al di là delle obiezioni addotte contro questo o quel tipo di naturalizzazione in rapporto a un particolare ambito, c’è un ostacolo di fondo, che è anzi il maggiore ostacolo per chiunque intenda l’epistemologia come una specifica axiologia: ogni programma di naturalizzazione va incontro a quella che è indicata appunto come fallacia naturalistica. Benché storicamente emersa in relazione all’etica, la fallacia si trasferisce ad ogni altro ambito, passando dall’etica all’estetica, alla filosofia della matematica e all’epistemologia. Dunque, la prova della fallacia è d’importanza decisiva. Se a qualcuno di voi sta venendo in mente che, per evitare l’ostacolo, basta trovare un modo per impedire il trasferimento, posso dirvi subito che è inutile cercarlo, perché la fallacia si produce in ciascun ambito anche in maniera indipendente dal trasferimento: un fatto particolarmente significativo che getta luce retrospettiva sulla distinzione delle forme di naturalismo e antinaturalismo, perché la loro tassonomia non poteva legittimare in alcun modo una frammentazione della riflessione filosofica. Una volta evitate le confusioni, la tassonomia voleva infatti servire a una migliore caratterizzazione di quella visione del mondo che, al netto delle differenze di ambito disciplinare, ciascuno ritiene di poter sottoscrivere. Naturalizzazione: vie e ostacoli 247 Presumo che conosciate già la fallacia. Conviene comunque richiamarne brevemente le linee di fondo e la ragione per cui essa costituisce un ostacolo per un’epistemologia naturalizzata. In etica, la fallacia naturalistica è stata denunciata da molto tempo. Il problema da cui essa si genera era implicito già nei più antichi dibattiti su come potessero convivere libero arbitrio e determinismo dei rapporti causali in natura. I valori morali sono definibili in termini di fatti naturali? I valori fondano norme e le norme selezionano alcune linee d’azione rispetto ad altre, mentre i fatti sono quel che sono, che si segua una norma o no. Se i fatti sono contingenti, i giudizi di valore non lo sono (o almeno aspirano a non esserlo), ma anche se i fatti sono necessari – e dunque le norme che si fondano sui valori risultano superflue – si tratta di due diversi tipi di necessità. Qualora le qualità morali fossero definibili in termini di qualità naturali, pensieri e comportamenti degli esseri umani sarebbero o inscindibili da una specifica situazione e di conseguenza privi di quella portata generale che invece i principi etici intendono avere, oppure sarebbero soggetti alle leggi naturali che governano tutte le possibili situazioni, contro l’ipotesi che una qualsiasi norma, poggiante su un valore, presuppone un libero volere e la libertà di seguirla o no. Senza libertà non c’è, infatti, responsabilità. Il bene, il giusto, il dovere, ... , sono valori, non proprietà naturali degli stati di cose, ivi compresi gli stati mentali. Insomma, i valori non sono fatti (biologici, sociali, antropologici) né sono deducibili da fatti e i principi etici hanno una validità di tipo diverso da quella delle leggi di natura. Quindi non è possibile naturalizzare l’etica. In filosofia della matematica, la fallacia naturalistica ha assunto, da più di un secolo, le sembianze dello psicologismo, secondo il quale le leggi della logica e della matematica non farebbero altro che descrivere il modo in cui è, di fatto, strutturata la mente umana. Lo psicologismo è stato il bersaglio di varie critiche. La struttura-base di quelle critiche si può riassumere partendo dal riconoscimento che le verità logiche e matematiche sono necessarie (se la matematica si riduce a logica, basta ovviamente parlare di verità logiche). Ebbene, se queste verità si fondassero sul modo in cui siamo fatti e, nello specifico, su com’è fatta la nostra mente, esse – così procede l’argomento – discenderebbero da stati contingenti della natura, perché tali sono i fatti psichici; ma niente che sia necessario si può fondare su qualcosa che sia contingente. Dunque, l’autonomia razionale delle verità logiche e matematiche, cioè, la loro indipendenza dalla realtà effettiva composta di stati di cose i quali sono contingenti, è in contrasto con la possibilità di naturalizzarle, perché ciò comporterebbe la riduzione di verità di un tipo a verità di tipo opposto. Anche se l’epistemologia non facesse alcun uso di principi etici 248 Alberto Peruzzi e di principi matematici, non potrebbe fare a meno di servirsi di principi logici. Ma anche nel caso che si riusca a rinunciare al loro carattere necessario, il discorso epistemologico comporta comunque delle valutazioni di correttezza, verità, asseribilità, oggettività circa le proposizioni che affermiamo su fatti, stati di cose, e in particolare stati mentali, dati empirici, situazioni, contesti o qualunque altra cosa su cui verta una proposizione che riteniamo esprimere una conoscenza. La stessa distinzione tra credere che e sapere che rimanda a una valutazione del genere, a parità di fatti soggiacenti. Inoltre, ogni valutazione del genere contiene implicitamente o esplicitamente un rimando a nozioni modali: si pensi, per esempio, all’uso dei condizionai controfattuali per assicurare il carattere nomico dei principi della fisica. Pertanto, non si tratta solo di descrivere fatti inerenti al modo in cui il rapporto soggetto-oggetto si realizza (è fisicamente implementato). Poiché ciò che chiamiamo conoscenza e i caratteri che le sono ascritti nell’epistemologia fanno riferimento a nozioni valutative e modali, neppure l’epistemologia è naturalizzabile. Mi sono forse dimenticato che ci sono aspetti essenzialmente soggettivi del conoscere: i qualia epistemici? In effetti, alla denuncia della fallacia naturalistica si accompagna spesso (anche se non necessariamente) la contestazione della riducibilità degli aspetti in prima persona degli stati intenzionali e dei giudizi di valore. Indubbiamente, lo status peculiare ascritto ai qualia pone una questione delicata, che ha suscitato varie reazioni, dall’asserire che gli aspetti in prima persona della conoscenza sono dispensabili all’asserire che essi sono ineliminabili dalla descrizione del mondo benché non trovino posto nella scienze della natura. Data l’estrema problematicità del tema e degli argomenti pro o contro l’eliminabilità dei qualia (che cosa si prova a sapere che p invece che semplicemente a credere che p?), ho preferito puntare sulle due forme classiche di denuncia della fallacia naturalistica che prendono forma in relazione all’etica e alla filosofia della matematica, come punti di riferimento per la fallacia in relazione all’epistemologia. Senza escludere che si possano mettere a punto anche altre strategie argomentative contro tutti i progetti di naturalizzare l’epistemologia, le due che ho descritto bastano a far capire l’ostacolo che si frappone a tali progetti. A ciò si aggiunga che se la fallacia naturalistica non riguarda un qualche tipo di fatti naturali bensì tutti, allora blocca anche quelle strategie che intendessero ridurre i valori a un insieme più ampio di caratteristiche naturali – quelle proprie della natura umana più quelle proprie, diciamo, dell’ambiente, dell’ecosistema terrestre o altre ancora. Qualunque fenomenologo avesse voluto contestare lo psicologismo, si sarebbe trovato a mal partito con il condizionale controfattuale Naturalizzazione: vie e ostacoli 249 Se gli uomini non esistessero, continuerebbe a essere vero che se gli uomini non esistessero non esisterebbe alcuna verità perché il riconoscimento stesso tanto della verità quanto della falsità (o inintelligibilità) di questo condizionale dipende, dopotutto, dalla natura umana. In particolare, la verità (al pari della falsità) coinvolge le capacità intenzionali della nostra mente. A meno che queste capacità siano sovrannaturali, il problema di fondo è semplicemente slittato, non risolto da chi sottoscrive il condizionale precedente. Per accorgersene, basta fare una piccola variazione sul tema. Considerate il condizionale controfattuale Se fossimo diversi da come siamo, allora ... e provate a completarlo nel modo che vi sembra giusto. Dopodiché, chiedetevi quali argomenti potete addurre per legittimare la sensatezza, o “intelligibilità”, del condizionale così come l’avete completato. Prima o poi vi ritroverete di fronte una domanda: quanto contingente è la possibilità che esistiamo? La conoscenza presuppone, infatti, che esista un soggetto conoscente; e la conoscibilità presuppone la possibilità della sua esistenza. 14. Raccogliere la sfida Le varie forme di naturalismo che abbiamo distinto non sono tra loro equivalenti: hanno presupposti diversi e conseguenze diverse. Se optiamo per una qualche forma di naturalizzazione, dobbiamo fornire argomenti a sostegno della scelta e mostrare che le relative obiezioni, associate alla corrispondente forma di anti-naturalismo, si possono parare. Se optiamo per una soluzione inversa, dobbiamo fare l’analogo. È un esercizio di ingegneria concettuale di tutto rispetto. Sarebbe sbagliato, però, inferirne che la filosofia non è altro che questo. La consistenza degli esercizi argomentativi proposti si misura con quanto aiutano a evitare equivoci dannosi ai fini di un ben altro scopo: quello di arrivare a un quadro coerente di idee che copra sia la conoscenza della natura sia la natura stessa. E gli esercizi non sono finiti. Una volta elencati quattro grandi tipi di naturalismo, è stata suggerita la fecondità di una prospettiva emergentista. In quale di questi quattro tipi giudicate più opportuno collocare l’emergentismo? Questa domanda è un invito a pensare alla molteplicità di modi in cui ciascuno dei quattro tipi può essere ulteriormente articolato in modo da selezionare un particolare pattern di emergenza. Si tratta, al contempo, di valutare quale opzione emergentista consenta di affrontare meglio la sfida della fallacia naturalistica. Allo stato attuale delle conoscenze, ciascun approccio naturalistico presenta inconvenienti: 250 Alberto Peruzzi innanzitutto, è lacunoso e, non appena si cerca colmarne le lacune, finisce per confinarsi a un particolare ambito. Come rimediare? Vent’anni fa è stata avanzata una proposta in merito, quella di un “naturalismo intrecciato” (entwined naturalism), incentrata su un’idea che combina alcuni caratteri dei diversi modelli di naturalizzazione emergente su elencati e porta a collocare l’epistemologia all’interno della cosmologia, integrando le classiche questioni inerenti alle “condizioni di possibilità” della conoscenza con questioni relative alle “condizioni di possibilità” dell’esistenza di un soggetto conoscente. Era e tuttora resta un’ipotesi di lavoro, che necessita di numerose precisazioni e deve essere messa alla prova, in relazione ai vari problemi filosofici che riguardano la mente, il linguaggio e la scienza. Il primo e finora unico impiego di un simile tipo di naturalismo ha riguardato le radici della competenza semantica. Pur essendo un tema di chiara rilevanza per l’epistemologia, sarebbe prematuro affermare che la soluzione prospettata si estende all’epistemologia in toto. C’è dunque molto lavoro da fare e vale la pena impegnarsi in questo lavoro, perché le concezioni epistemologiche cui si contrappone presentano maggiori inconvenienti. Se anche dovesse risultare erronea, l’individuazione degli errori sarebbe sempre meglio dei sommessi annunci che Hic sunt leones – ai quali va il plauso di molti –, così come sarebbe meglio di inconcludenti promesse di riducibilità che i posteri, da noi non interpellabili, si vedranno chiamati a mantenere. Per aiutare a capire il senso del “naturalismo intrecciato”, la via seguita nel saggio in cui questo termine è stato introdotto7 è una via per contrapposizione, cioè passa per una serie di obiezioni ad alcuni dei più comuni approcci antinaturalistici. Volendo darne una formulazione compatta e in positivo, il senso del termine si può riassumere dicendo: (U) L’universo alleva conoscitori di se stesso allevando conoscitori di se stessi. E = Epistemologia; C = Conoscenza; U = Universo (la cui evoluzione, nel corso del tempo, segue la forma della U nel senso indicato dalla freccia) 7 Si veda l’appendice agli Annali del Dipartimento di Filosofia - Università di Firenze, IX, 1993, Olschki, Firenze 1994, pp. 225-334. Naturalizzazione: vie e ostacoli 251 È più che comprensibile l’impressione di eccessiva genericità, enigmaticità o banalità, che (U) produce. Perciò è doveroso aggiungere che per mettere alla prova l’intreccio dialettico di mente e mondo così come si esprime in (U) occorre entrare nei minimi dettagli del modo con cui la fallacia naturalistica è stata presentata ed esplorare le conseguenze che (U) ha in relazione alle questioni concernenti il realismo in epistemologia, alla scelta tra fondazione intuitiva o razionale del bene morale, e allo status della necessità matematica. È ovvio che per condurre quest’indagine non ci si può limitare all’analisi del linguaggio (epistemologico, in primis). Peccato che la maggior parte dei filosofi del linguaggio, della mente e della conoscenza continuino a relegare la ricerca sul piano dell’analisi metalinguistica, lungo sentieri già battuti da più di un secolo e ormai richiusi su di sé. A questo punto sento il bisogno di tornare su un equivoco. Essendo un equivoco molto diffuso, vorrei richiamare la vostra attenzione sull‘importanza di evitarlo. Mi riferisco al fatto che una delle forme più discusse di naturalizzazione è quella che corrisponde alla “epistemologia naturalizzata” nel senso in cui quest’espressione è stata introdotta: cioè, molti pensano ancora che la naturalizzazione non possa fare altro che prendere la forma di una riduzione dell’epistemologia a psicologia, semmai intendendo la psicologia in un senso un po’ diverso da quello in cui, prima del cognitivismo, la si è voluta presentare come scienza del comportamento umano libera da ogni rimando a stati mentali che non siano disposizioni al comportamento. La proposta di ridurre l’epistemologia a psicologia è stata indubbiamente una tappa importante del dibattito filosofico, ma, come spero che vi sia ormai chiaro, la naturalizzazione dell’epistemologia può prendere altre strade, che non interessano solo la psicologia, senza contare che la stessa psicologia cognitiva ha imboccato, dagli anni Sessanta in poi, strade diverse da quella del comportamentismo. Tenendo conto di questi sviluppi, ci vuol poco ad accorgersi che, se una “epistemologia naturalizzata” comporta l’adesione sia a una variante di comportamentismo sia all’olismo delle credenze, allora una semantica adeguata degli enunciati contenenti espressioni per modalità epistemiche è irraggiungibile, come la tartaruga zenoniana. A chi trovi eccessiva l’affermazione precedente segnalo che, di fatto, la somma comportamentismo + olismo delle credenze non ha finora permesso di sviluppare alcuna ragionevole naturalizzazione dell’epistemologia, e che anche in linea di principio la somma è problematica, in virtù degli argomenti che la linguistica generativa ha messo in campo contro i modelli a feedback e in virtù di argomenti contro l’olismo delle credenze, tra i quali gli argomenti contro la permeabilità cognitiva delle percezioni. Special- 252 Alberto Peruzzi mente chi si dichiara un “empirista” non dovrebbe sottovalutare le prove empiriche a sostegno del carattere modulare dei sistemi percettivi. Questi argomenti non escludono che si possa elaborare un’epistemologia naturalizzata in altri modi, purché non si ignori lo sviluppo che nel frattempo le scienze cognitive hanno avuto. La psicologia è una delle scienze cognitive ed è ragionevole pensare che la naturalizzazione dell’epistemologia sia riferita alle scienze cognitive nel loro insieme e non solo a una di esse. Se poi, oltre che dell’architettura dei sistemi percettivi, si tiene conto della corporeità, umana o non-umana, nell’architettura della competenza semantica ed epistemica di un agente, naturale o artificiale, i modelli di naturalizzazione emergente su elencati aiutano a capire il ruolo fondamentale che strutture non linguistiche hanno nella costituzione del significato. Interessa valorizzare questo ruolo? Allora l’idea che fare filosofia equivalga a fare analisi del linguaggio si rivela un vicolo cieco tanto per chiunque intenda sottoscrivere la Tesi quanto per i sostenitori dell’Antitesi. All’interno delle prospettive di ricerca riconducibili all’emergentismo si collocano indagini che stanno già promuovendo un diverso modo di fare filosofia. Tra esse sono di particolare interesse alcune aree d’indagine: dal progetto di una IA non rappresentazionale (nelle aree della robotica e delle nanotecnologie) allo studio della funzione di certi neuroni o “assemblee” di neuroni, come i neuroni-specchio, dall’emergere dei concetti come attrattori di un sistema dinamico alla centralità cognitiva del processo di metaforizzazione. 15. Ultime obiezioni e risposte Vi sarà venuta in mente (spero) un’obiezione: anche se da un punto di vista euristico l’orientamento naturalistico ha prodotto di più dell’orientamento anti-naturalistico, questo non prova che si debba sottoscrivere una qualche forma di naturalismo. Una seconda obiezione (già menzionata, peraltro) riguarda l’impostazione di tutto il discorso: a dispetto dello spazio dato alla tassonomia di forme assunte o assumibili dal naturalismo e dall’antinaturalismo, sembra che quella tassonomia non abbia il rilievo teoretico che ci si poteva attendere, perché chi adotta il punto di vista naturalistico non può limitarsi a sottoscriverlo in un ambito e non in un altro, o solo in un senso e non anche negli altri sensi. (E lo stesso dicasi per chi adotta il punto di vista anti-naturalistico.) Una terza obiezione è che, anche se la tassonomia avesse rilievo, non sembra essere indispensabile per quella particolare forma di naturalizzazione emergentista che è stata suggerita. Ovvero, gli argomenti a sostegno di essa non hanno bisogno di tutte le distinzioni precedenti. Naturalizzazione: vie e ostacoli 253 Risposta alla prima obiezione: è vero che non c’è un rapporto di consequenzialità, ma ... attenzione a non esagerare nella difesa dei diritti degli scolastici che si rifiutavano a guardare attraverso il cannocchiale. A supporto dell’obiezione si potrebbe anche aggiungere che tesi di impossibilità (le quali, cioè, affermano che qualcosa con i tali e talaltri caratteri non è possibile) si rivelano non meno feconde di tesi di possibilità: basti pensare a quanti risultati sono seguiti alla dimostrazione del Teorema di Incompletezza per l’aritmetica. Bene, e con ciò? Fermo restando che la fecondità non è l’unico parametro da considerare per l’adozione o il rifiuto di una filosofia, e fermo restando che gli argomenti anti-naturalistici e, in primo luogo, la denuncia della “fallacia naturalistica”, sono stati un ottimo stimolo a precisare le ipotesi e le strategie di naturalizzazione, non si può trascurare che le acquisizioni stimolate dall’orientamento naturalistico, implicito o esplicito, hanno permesso di capire e spiegare molti fatti che prima non erano spiegati – e la cui mancanza di spiegazione sembra non dare alcun fastidio ai sostenitori dell’Antitesi. Risposta alla seconda e alla terza: queste obiezioni mettono semplicemente il carro davanti ai buoi. Cioè, danno per scontato che Tesi e Antitesi abbiano, o possano avere, un significato indipendente da ogni ambito, immune all’approccio che si sceglie – per esempio: metodologico o ontologico? –, indifferente all’impegno teorico che ci si assume in senso riduzionistico o antiriduzionistico. Il percorso che ho proposto voleva aiutarvi a capire che un simile assunto ha scarso sostegno e facilita una lunga serie di confusioni. Non ci sono forse rischi opposti derivanti da tale percorso? Non ho alcuna esitazione ad ammetterlo. Per chi è iscritto a un dottorato di filosofia è d’immediata comprensione che mantenendosi all’interno del seminato non si corrono rischi. (In particolare non si corre il rischio di dire qualcosa ...) Anzi, il percorso scelto ha un inconveniente aggiuntivo: ci sono molti problemi in più. La compatibilità di una versione di naturalismo (o di antinaturalismo) con un’altra versione non è garantita in alcun modo; e garantirla è un problema tanto meno facile da risolvere quanto più consapevoli siamo della gamma di possibili varianti della Tesi e dell’Antitesi. È vero, ma insieme agli esercizi che favoriscono questa consapevolezza c’è anche una proposta teorica in base alla quale i problemi in più si possono risolvere. Per risolverli ci vuole un armamentario concettuale diverso da quello della tradizione epistemologica? E cosa altro ci si aspettava? Per progredire, oltre alla fiducia in sé, occorre misurarsi con le frontiere dell’attuale ricerca, non con le frontiere della ricerca di un secolo fa. È improbabile che qualcuno vi abbia mai detto che un problema filosofico è stato risolto. È invece probabile che qualcuno vi abbia fatto 254 Alberto Peruzzi credere che tutti i problemi filosofici sono irrisolvibili. Se anche in entrambi i casi fossi in errore (e ne sarei lieto), resterebbe il fatto che, per dichiarare soluto, solubile, insoluto o insolubile un problema filosofico non si può pensare che sia sufficiente servirsi di strumenti d’analisi a portata di mano, quanto mai familiari, i meno avanzati invece dei più avanzati. Se qualcuno vi ha indotti a credere che sono sufficienti, siete ancora in tempo per liberarvi da questa comoda furbizia. D’altra parte, il tempo delle elucubrazioni misteriosofiche è finito, come è finito quello di un compiaciuto ritiro in un limbo lessicale. Non c’è ragione per cui un giovane filosofo (maschio o femmina) sia dispensato dall’impegnarsi nei confronti dei modelli esplicativi dei processi in cui il linguaggio, la mente e la conoscenza si costituiscono, né – con riferimento al confronto tra Tesi e Antitesi – c’è ragione per cui si senta autorizzato a considerare concetti e conoscenze nel loro stato stazionario, limitando il proprio lavoro all’analisi del linguaggio in cui gli enunciati epistemologici sono espressi, alla ricostruzione storica della vertenza, o a una comparazione meta-meta-epistemica come quella qui condotta. Le condizioni necessarie non sono sufficienti per fare filosofia.