EVOLUZIONE BIOLOGICA

annuncio pubblicitario
EVOLUZIONE BIOLOGICA
INTRODUZIONE
La teoria dell'evoluzione è indubbiamente la teoria più importante in campo biologico sia per le sue
potenzialità scientifiche sia per gli stimoli intellettuali che da essa derivano. Non esiste un settore
della biologia che non sia stato condizionato dalla teoria dell'evoluzione e numerose discipline al di
fuori della biologia ne sono state fortemente influenzate. Vale la pena di sottolineare come la
biologia evoluzionistica sia una disciplina molto ampia e in continua espansione, ricca di argomenti
ancora dibattuti ed estremamente vitale. I biologi che compiono ricerche sui meccanismi e sui
processi dell'evoluzione biologica, utilizzano metodi di lavoro estremamente diversificati e
affrontano lo studio di aspetti del mondo vivente che interessano scale temporali di varia ampiezza:
possono osservare la reazione di determinati composti chimici in una provetta nell'arco di pochi
minuti, seguire gli spostamenti di un animale nella savana per alcuni giorni o mesi, oppure cercare
fossili in formazioni rocciose risalenti a diversi periodi geologici. La teoria dell'evoluzione può
essere messa alla prova in tutti questi diversi contesti. Non solo: l'enorme varietà nella colorazione
delle penne degli uccelli o le stranezze nella forma di alcuni pesci, come anche il curioso
comportamento del gatto di casa quando fa le fusa, acquistano tutti, alla luce della teoria evolutiva,
un significato più ampio che va ben al di là delle semplici considerazioni di natura estetica o
affettiva sul singolo fenomeno osservato. Sulla base della teoria dell'evoluzione scopriamo che tutte
le caratteristiche di un organismo, sia che riguardino la forma, il colore, il comportamento o
qualsiasi altro aspetto, possono essere messe in relazione tra loro e con quelle di altri organismi e
possono essere interpretate per scoprirne il valore adattativo o per rintracciare i segni del passato:
sotto questo punto di vista, la teoria evolutiva è l'unica teoria a cui si possa seriamente attribuire un
ruolo unificante per tutti i campi della biologia. Come dice Theodosius Dobzhansky (1900-1975),
uno dei maggiori evoluzionisti del nostro secolo: «Niente ha senso in biologia se non alla luce
dell'evoluzione».
GENERALITÀ
Ma cosa significa evoluzione? Evoluzione significa cambiamento, un cambiamento che può
riguardare l'aspetto esteriore, la fisiologia, il comportamento di un organismo e sicuramente il suo
patrimonio ereditario, tra diverse generazioni. Invece, cambiamento non significa necessariamente
evoluzione: un organismo può cambiare durante la sua crescita, ma in questo caso non evolve in
senso darwiniano. Infatti, i fenomeni evolutivi non riguardano il singolo organismo, ma la sua
discendenza.
Perché un organismo dovrebbe evolvere? I principali artefici dell'evoluzione sono il cambiamento
delle condizioni ambientali nel corso del tempo e la variazione genetica casuale. La variabilità
costituisce il materiale su cui agisce l'evoluzione, mentre la direzione di tale cambiamento viene
stabilita dalle condizioni ambientali. Non potendo prevedere né l'uno né l'altro di questi fenomeni,
non possiamo nemmeno prevedere il cambiamento futuro. L'evoluzione biologica ha una direzione
(imprevedibile) ma non una finalità, il termine "progresso" è avulso dagli studi di biologia
evoluzionistica e la grande diversità delle specie viventi è frutto di un cambiamento durante il
quale, a partire da un singolo antenato comune, si sono verificate ramificazioni, biforcazioni, vicoli
ciechi e modificazioni della stessa linea evolutiva. E sono proprio il cambiamento e la biforcazione
delle linee evolutive degli organismi i principali argomenti affrontati dalla biologia evoluzionistica.
Altro concetto fondamentale della teoria evolutiva è quello di adattamento. L'adattamento è un
termine che si riferisce a quelle proprietà degli organismi che permettono loro di sopravvivere e
riprodursi. Gli esempi di adattamento che si possono trovare in natura sono innumerevoli. Occorre
tener presente però che non tutte le caratteristiche morfologiche o comportamentali degli esseri
viventi possono essere considerate adattative, anche se quelle adattative sono decisamente le più
comuni e una spiegazione alla loro presenza deve essere fornita.
BREVE STORIA DELLA BIOLOGIA EVOLUZIONISTICA
L'EVOLUZIONE SECONDO LAMARCK
Il naturalista che per primo propose la teoria dell'evoluzione, secondo la quale tutti gli esseri viventi
avrebbero subito nel corso del tempo continue trasformazioni, fu Jean-Baptiste de Lamarck (17441829), agli inizi del XIX secolo. Secondo la sua ipotesi, definita del trasformismo, i caratteri
acquisiti durante lo sviluppo individuale sarebbero ereditabili: l'adattamento sarebbe dunque il
risultato di modificazioni corporee prodottesi durante la vita degli individui in seguito all'uso o al
disuso di determinati organi e da questi trasmesse ai loro discendenti. Per esempio, un uomo che fa
molta ginnastica dovrebbe dar vita a figli con maggiore tendenza a sviluppare muscoli una volta
divenuti adulti.
LA TEORIA DI DARWIN
La giusta formulazione dei meccanismi evolutivi fu elaborata da Charles R. Darwin (1809-1882) ed
esposta nel celebre libro L'origine delle specie, pubblicato nel 1859. Darwin spiegò gli adattamenti
e la formazione di nuove specie con la teoria della selezione naturale secondo cui solo alcuni
individui di una popolazione contribuiscono in maniera consistente alla generazione della prole,
mentre gli altri individui contribuiscono meno o per niente. Poiché le caratteristiche della prole
riflettono quelle dei genitori, i caratteri dei genitori che hanno prodotto più figli diverranno sempre
più frequenti nelle generazioni successive e la composizione genetica della popolazione cambierà
nel tempo.
LA SINTESI MODERNA
Nonostante i vari tentativi di affossare la teoria darwiniana e la difficoltà da parte dell'ambiente
scientifico fino all'inizio del secolo di accettare la teoria della selezione naturale, questa sopravvisse
e prese speciale vigore a partire dagli anni Venti, grazie in parte alla riscoperta degli esperimenti di
Gregor J. Mendel, fondatore della genetica e agli sviluppi degli studi biometrici (biometria). Fu
infatti grazie alla riconciliazione tra le teorie mendeliane e allo studio della variabilità dei caratteri
nelle popolazioni naturali che si arrivò alla cosiddetta "sintesi moderna" della teoria dell'evoluzione,
o "neo-darwinismo", o "teoria sintetica dell'evoluzione". I nomi legati a questa fase sono quelli
del matematico inglese Ronald A. Fisher (1890-1962), del genetista John B. S. Haldane (18921964) e del matematico americano Sewall Wright (1889-1988), i quali nei primi anni Trenta
pubblicarono i fondamenti di quella disciplina detta genetica di popolazioni che costituisce il
legame tra le leggi della genetica di Mendel e la variabilità osservabile nelle popolazioni naturali.
La genetica a sua volta si orientò verso gli studi evoluzionistici grazie al lavoro di Theodosius
Dobzhansky (1900-1975), nato in Russia ma attivo negli Stati Uniti, e ai suoi studi sull'evoluzione
delle popolazioni del moscerino della frutta, la drosofila. Altri ricercatori inglesi come E. B. Ford e
H. B. D. Kettlewell lavoravano sul campo studiando la selezione nelle popolazioni naturali e
fondando la cosiddetta "genetica ecologica". Un altro nome strettamente legato a questa fase di
fioritura degli studi di biologia evoluzionistica è quello di Julian S. Huxley (1887-1975), il quale
per primo introdusse il termine "sintesi moderna" e divulgò a un più vasto pubblico i concetti teorici
elaborati da Fisher, Haldane e Wright. La strada dell'evoluzionismo è stata irta di ostacoli (e lo è per
vari aspetti tuttora). Negli anni Trenta vi erano molti studiosi di sistematica (G. C. Robson e O. W.
Richards) che non accettavano né le teorie di Mendel né tantomeno quelle di Darwin, oppure
genetisti come il tedesco R. Goldschmidt che sostenevano la teoria delle macromutazioni, secondo
la quale le specie evolvono non attraverso la selezione di piccole varianti ma bensì con il succedersi
di mutazioni dagli effetti rivoluzionari. Sebbene l'opera di Darwin si intitolasse L'origine delle
specie, il problema di come effettivamente si originassero le specie non veniva affrontato dall'autore
e in effetti la discussione riguardo al problema dell'origine delle specie è tuttora molto viva. Ernst
Mayr (1904-2005), che aveva lasciato la Germania nazista insieme a Goldschmidt, si è occupato
molto di speciazione (cioè delle modalità con cui si originano nuove specie) e della definizione del
concetto di specie, con una serie di conseguenze importanti a livello degli studi di sistematica. In
effetti la biologia sistematica, un ramo che si occupa di definire gruppi di esseri viventi e di
classificarli sulla base delle loro affinità, fu la prima disciplina a subire gli effetti della sintesi
moderna, attraverso la revisione dei suoi metodi e delle sue conclusioni. Altro grande innovatore fu
il paleontologo americano George G. Simpson (1902-1984), il quale applicò la sintesi moderna agli
studi paleontologici confutando tra l'altro la credenza di allora secondo cui le serie fossili sarebbero
state espressione di una tendenza implicita delle specie a evolversi in una specifica direzione. Così,
verso la metà degli anni Quaranta, la sintesi moderna aveva influenzato più o meno tutti i campi
della biologia ma la strada doveva essere ancora difficile e le idee contrastanti.
LE CRITICHE ALLA TEORIA SINTETICA
Con lo sviluppo della biologia molecolare, a partire dagli anni Sessanta, la scala secondo cui
mettere alla prova le nuove teorie ha raggiunto le dimensioni delle singole molecole proteiche e una
grande quantità di dati ha confermato la sintesi moderna anche a livello molecolare. I lavori del
genetista di popolazioni giapponese Motoo Kimura hanno tuttavia messo in evidenza il ruolo
importante del caso nel cambiamento evolutivo sia a livello proteico che, in seguito, anche a livello
del DNA, dimostrando che la maggior parte dei cambiamenti evolutivi delle sequenze del DNA è
neutrale nei confronti dell'evoluzione (teoria neutralista). Sulla scala opposta, quella della
paleontologia, gli americani Niels Eldredge, S. J. Gould e S. M. Stanley hanno proposto, dopo un
accurato studio delle testimonianze fossili a livello di macroevoluzione, la teoria degli equilibri
intermittenti, secondo la quale l'evoluzione delle specie non procederebbe in maniera graduale, ma
ci sarebbe un'alternanza tra lunghi periodi di stasi e brevi ma intensi periodi di cambiamento
evolutivo.
I CREAZIONISTI
Tutt'oggi, nonostante l'enorme mole di studi e di conferme, molte persone ignorano o addirittura
avversano la teoria dell'evoluzione. Il caso più lampante è quello del movimento creazionista
americano che nega l'esistenza dell'evoluzione e propone una specie di "creazionismo scientifico".
Il movimento sembra così influente, se non scientificamente almeno dal punto di vista politico, che
alcuni famosi evoluzionisti (S. J. Gould, paleontologo di Harvard, D. Futuyima, biologo
evoluzionista dell'Università dello Stato di New York, R. Dawkins, professore di zoologia
all'Università di Cambridge) sono stati indotti a scrivere articoli o interi volumi in difesa
dell'evoluzione. Ancora una volta, l'importanza e il grande potere interpretativo della teoria
dell'evoluzione fanno sì che essa venga considerata un ostacolo, non tanto per le implicazioni
biologiche che comporta, ma per il ruolo in cui l'uomo viene relegato e più in generale per le
implicazioni filosofiche.
L'EVOLUZIONE E' UN FATTO
Nonostante l'evoluzione sia ormai ritenuta un fatto incontrovertibile, può essere utile fornire un
ristretto numero di esempi che permettano, anche a chi è completamente digiuno di argomentazioni
teoriche, di difendersi dall'ignoranza o dalla malafede. Cercare prove a sostegno dell'evoluzione
significa trovare prove scientifiche che una specie si sia evoluta nel corso del tempo e argomentare
su questa base contro coloro che sostengono la fissità delle specie e la loro separata creazione. Le
prove di questo tipo sono innumerevoli e comprendono prove osservabili direttamente su piccola
scala, prove deducibili dalla relazione tra varie strutture (molecolari, o semplicemente
morfologiche) presenti nei vari organismi viventi, e prove riscontrabili attraverso lo studio delle
documentazioni fossili. La teoria dell'evoluzione, nella sua semplicità, ha reso chiari e intellegibili
questi fenomeni rimasti oscuri ed enigmatici per lunghissimo tempo durante lo sviluppo degli studi
biologici.
PROVE DIRETTE
Alcune prove dell'evoluzione possono essere osservate direttamente: sono fenomeni evolutivi su
piccola scala osservabili in un arco di tempo compatibile con la durata della vita umana. Forse il più
famoso è quello della Biston betularia, una farfalla notturna la cui forma scura (melanica) costituiva
solo l'1% della popolazione in una zona vicino a Manchester nel 1848 mentre ne costituiva il 99%
nel 1898, in seguito all'industrializzazione. Questa forma di melanismo industriale è piuttosto
diffusa oggi in tutti i paesi industrializzati e rappresenta una caso classico di selezione naturale.
Ecco cosa è accaduto alle farfalle di Manchester nel secolo scorso: a causa dell'annerimento da
fuliggine degli alberi su cui si posavano, le varianti più chiare di questi insetti risultavano più
evidenti agli occhi dei predatori e venivano perciò catturate più facilmente dagli uccelli mentre le
varianti più scure venivano avvantaggiate a ogni generazione. Così, con il trascorrere delle
generazioni, le forme scure sono diventate le più diffuse e frequenti.
Questo esempio dimostra che nonostante si abbia l'idea che l'evoluzione sia un processo lento non
deducibile da prove dirette, tuttavia essa può effettivamente essere osservata "in atto" ed è questo lo
scopo di molti studi riguardanti la microevoluzione.
Il cambiamento evolutivo può anche essere prodotto artificialmente. La selezione artificiale operata
dall'uomo nel corso di migliaia di anni ha dato origine a varietà di piante coltivate con raccolti
sempre migliori, a galline che depongono uova in numero sorprendente, mucche che producono
grandi quantità di latte, un'enorme varietà di razze di cani e piccioni, il tutto attraverso la selezione
di particolari caratteristiche tra una generazione e l'altra. I risultati della selezione artificiale
forniscono una prova evidente che le specie possono andare incontro a cambiamenti evolutivi in
tempi relativamente brevi.
Il fatto che in natura si osservino specie ben distinte tra loro non significa che non ci sia una certa
gradualità nella variazione. L'argomento dell'apparente separazione tra le diverse specie in natura
viene spesso impugnato da coloro che credono nella creazione separata di ciascuna specie per opera
divina. Due specie ritenute tali, se osservate in particolari zone geografiche, possono apparire come
sfumare l'una nell'altra, tanto da far seriamente dubitare che esse siano effettivamente due specie
diverse piuttosto che una sola specie variabile a seconda della località geografica. In questi casi la
definizione stessa di specie sembra difficile, tuttavia, la variabilità è la norma in natura, e ogni
tentativo di rendere discreto ciò che invece è continuo deve essere considerato una semplice
comodità operativa e pedagogica.
TESTIMONIANZE FOSSILI
A volte le testimonianze fossili mostrano tutti i passaggi attraverso i quali da una singola specie se
ne sono formate due, ma il più delle volte si è in grado solamente di osservare il risultato del
processo senza avere accesso alle fasi intermedie. Un eccezionale fossile che testimonia
l'evoluzione degli uccelli a partire dai rettili è costituito dall'Archaeopteryx, nel quale caratteri
rettiliani sono mescolati come in un mosaico con quelli degli uccelli (evoluzione degli uccelli).
Purtroppo ritrovamenti come questi non sono frequenti e a volte mancano gli anelli di congiunzione
che permettano una ricostruzione completa del quadro evolutivo. In ogni caso, la continuità di
alcune serie fossili, come quelle di alcune diatomee, alghe unicellulari dotate di un guscio rigido,
può essere portata come prova fossile di un processo di evoluzione. Inoltre, studiando i caratteri di
ciascuna classe di vertebrati odierni, si è portati a stabilire una rete di relazioni: i pesci, come gli
anfibi allo stato larvale, ma diversamente dai rettili, dagli uccelli e dai mammiferi, hanno le
branchie, ma gli anfibi hanno quattro zampe come gli altri vertebrati terrestri, a differenza dei pesci.
Si sarebbe portati quindi a supporre una progressione evolutiva dai pesci agli anfibi fino ai rettili e
infine ai mammiferi. In effetti, lo studio dei fossili testimonia esattamente questa gerarchia e i primi
vertebrati a comparire nelle rocce più antiche sono appunto i pesci seguiti dagli anfibi, dai rettili e
infine dai mammiferi (evoluzione degli animali).
Le testimonianze fossili indicano anche una continua modificazione di strutture: specie che
esistevano un tempo non esistono più e sono state sostituite dai loro discendenti, e sembra logico
pensare che i meccanismi che agiscono oggi nel determinare l'evoluzione delle specie abbiano agito
anche in passato quando l'uomo non poteva essere lì per osservarle. In questo modo dalla piccola
scala temporale che rappresenta il nostro livello di osservazione si passa a una scala diversa, molto
più grande, che riguarda i cambiamenti evolutivi che dai primordi della vita hanno portato alla
grande varietà delle forme viventi attuali.
OMOLOGIE
Anche se la varietà è ciò che sorprende maggiormente quando si studiano le forme viventi, allo
stesso tempo è sorprendente notare come le innovazioni vere e proprie siano relativamente scarse.
Come ha fatto notare un collega di Darwin (Milne Edwards) in una frase riportata dallo stesso
Darwin ne L'origine delle specie: «La natura è prodiga di varietà ma avara di innovazioni». E' come
se l'evoluzione lavorasse con un grado sorprendente di inventiva ma tendenzialmente solo sul
materiale che ha già a disposizione. Da questo deriva il fatto che due specie prese a caso in natura
presentano un qualche grado di somiglianza. La similitudine può essere generalmente di due tipi:
una similitudine per omologia e una similitudine per analogia. Squali, delfini e balene possiedono
tutti una forma idrodinamica che può essere spiegata con la loro attitudine al nuoto: questi animali
hanno una forma analoga perché condividono uno stesso modo di vita: le ali degli insetti, degli
uccelli e dei pipistrelli sono strutture analoghe necessarie al volo. Se si considera invece l'arto degli
anfibi, dei rettili, degli uccelli e dei mammiferi, si può osservare come, a parte specifiche modifiche
presenti negli individui adulti, questo sia sempre un arto a cinque dita (pentadattilo). Non esiste una
ragione ambientale o funzionale perché l'arto di questi animali debba sempre essere a cinque dita.
In effetti, dato il diverso utilizzo che le specie ne fanno, l'arto si è modificato in una moltitudine di
forme diverse, ma l'anatomia comparata ha evidenziato come la struttura a cinque dita sia sempre
riscontrabile in queste diverse classi di vertebrati. Questo tipo di somiglianza veniva chiamato dai
morfologici prima di Darwin "piano della natura", una definizione in aria di misticismo, totalmente
priva di spiegazione scientifica. La spiegazione scientifica alla luce dell'evoluzione risulta molto
semplice: l'arto è a cinque dita perché anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, discendono tutti da un
antenato comune anch'esso pentadattilo. Questo tipo di somiglianza dovuta alla condivisione di un
antenato comune, viene detta omologia. E omologie possono essere trovate a ogni livello
dell'organizzazione della vita: dagli arti alle molecole fino alle sequenza di DNA.
Sono proprio le omologie tra le specie viventi e quelle fossili che mostrano in maniera inconfutabile
il fatto che entrambe abbiano avuto origine da un antenato comune. Alcune di queste omologie
sono immediatamente molto convincenti: le balene, sebbene non abbiano gli arti posteriori, hanno,
seppur fortemente ridotti, un femore e le ossa del bacino, così come i boa e i pitoni. Queste strutture
vengono dette vestigiali e nel caso delle balene e di alcuni serpenti, suggeriscono la loro origine da
animali a quattro zampe. La fauna che popola le caverne presenta generalmente occhi ridotti e
assenti, forme vestigiali un tempo funzionali negli antenati che vivevano all'aperto. L'uomo
presenta un'appendice dell'intestino che probabilmente funzionava nei suoi lontani antenati come
cavità digerente accessoria: oggi questa appendice forse non ha funzioni particolari e anzi spesso si
infetta provocando l'appendicite e rendendo necessaria la sua asportazione. Non tutte le strutture
vestigiali sono prive di funzione: sembra che in una balena fossile risalente a 40 milioni di anni fa
le ossa del bacino funzionassero come supporto durante l'accoppiamento! Come si vede la natura è
veramente prodiga di variazioni. Per rimanere in tema di balene e per riprendere il tema
dell'avarizia della natura si può considerare il fatto che i fanoni e la pinna dorsale delle balene, che
sono semplicemente delle produzioni cutanee, sono le sole strutture che non rappresentino
modificazioni di parti del corpo presenti negli altri mammiferi. Il pungiglione delle vespe è una
modificazione dell'organo utilizzato in altri insetti per deporre le uova (è questo il motivo per cui
pungono solo le femmine); lo zoccolo del cavallo si sviluppa a seguito di un rallentamento della
crescita delle dita laterali e un'accelerazione di quella del dito medio; la struttura portante delle ali
di un pipistrello si ottiene attraverso l'eccezionale sviluppo delle dita dell'arto anteriore; le ali di una
manta altro non sono che pinne pettorali enormemente sviluppate; gli sfiatatoi dei cetacei sono
narici traslate nel posto più congeniale per poter respirare con la testa sott'acqua. D'altro canto
queste variazioni sul tema possono a volte portare a degli inconvenienti: dobbiamo estrarre i denti
del giudizio perché la nostra mascella è diventata più corta di quella dei nostri antenati per ospitare
lo stesso numero di denti. Dobbiamo assumere vitamina C poiché i nostri antenati mangiatori di
frutta avevano perso la capacità di sintetizzarla.
PROVE EMBRIOLOGICHE
Anche lo studio dello sviluppo embrionale fornisce delle interessanti indicazioni e permette di
intuire l'origine di organismi diversi da antenati comuni. Le prime fasi dello sviluppo embrionale in
tutti i vertebrati sono sorprendentemente simili tra loro e un embrione precoce di anfibio è
difficilmente distinguibile da un embrione precoce di mammifero. Come si può spiegare questo
fatto se non con l'ipotesi di una comune discendenza? Se non discendessero dai rettili, perché gli
uccelli presentano denti in certe fasi dello sviluppo embrionale e ne sono privi allo stadio adulto?
Se non ci fosse una parentela comune tra tutti i vertebrati, perché in un certo stadio l'embrione
custodito nel grembo materno di una tranquilla signora di una città del XX secolo dovrebbe
presentare degli abbozzi di branchie?
I PILASTRI DELLA TEORIA EVOLUTIVA
LA SELEZIONE NATURALE E LA VARIAZIONE
Una femmina di merluzzo atlantico di dieci anni può rilasciare nell'acqua fino a 2.000.000 di uova.
Se tutte queste uova schiudessero e se tutte le larve sopravvivessero fino allo stadio adulto, nel giro
di pochi decenni ci prenderemmo tutti a pesci in faccia. La verità è che in media di questi due
milioni di uova, ben 1.999.998 non arrivano a dare vita a un individuo adulto. In molte specie
animali la mortalità è concentrata nei primi stadi di sviluppo, in altre è diluita nel corso del tempo.
Anche in specie che producono una discendenza estremamente poco numerosa, come gli elefanti, è
stato calcolato dallo stesso Darwin che se tutti gli individui nati da una coppia sopravvivessero, in
circa 700 anni ci sarebbero 19 milioni di elefanti loro discendenti. E' chiaro che nel mondo non
esistono risorse sufficienti per alimentare un mare denso di merluzzi né una terra coperta di elefanti.
E' per questo che gran parte della prole di tutti gli animali e delle piante muore prima di riprodursi.
Il problema è quello di stabilire chi sopravvive. A volte può essere una questione di fortuna, ma più
in generale sopravvive chi è in grado di competere con successo con altri individui, chi è in grado di
sfuggire meglio al predatore, chi è in grado di resistere meglio a un'infezione, cioè un insieme di
proprietà che gli anglosassoni chiamano fitness. La lotta per l'esistenza è un'espressione metaforica
che non ha niente a che vedere con la lotta fisica, ma che descrive le grandi difficoltà che un
organismo deve affrontare per crescere e riprodursi (comportamento animale). La selezione
naturale, come motore dell'evoluzione, opera grazie a questa elevata fecondità sfruttando la
variabilità presente nei caratteri della progenie. Così nel fenomeno di melanismo industriale
osservato per la prima volta in Biston betularia, una delle prove dirette dell'evoluzione, la selezione
naturale favoriva a ogni generazione quelle varianti più scure che, avendo meno probabilità di
essere predate, riuscivano ad arrivare con successo alla riproduzione. La prole di queste varianti più
scure ereditava la caratteristica colorazione dei genitori ma a sua volta presentava un grado di
variabilità nella colorazione. Di nuovo, le varianti più scure venivano selezionate. Quindi, perché vi
sia selezione naturale, ci deve essere una riproduzione, una variabilità e un'ereditabilità.
Vale la pena di osservare come la selezione naturale produce l'evoluzione creando specifici
adattamenti. La popolazione di Biston betularia si è evoluta in cinquant'anni verso una colorazione
scura e questa colorazione rappresenta un adattamento all'annerimento delle cortecce degli alberi
dovuto all'inquinamento. Questo modello di ragionamento può essere applicato anche a un evento
su una scala di milioni di anni come quello dell'evoluzione degli anfibi dai pesci: tra i 360 e i 370
milioni di anni fa, l'abbassamento del livello del mare probabilmente facilitò l'evoluzione di alcuni
adattamenti alla vita terrestre. La selezione naturale operò per favorire quelle varianti che
sviluppavano caratteristiche più adeguate alla vita terrestre, fornendo le basi per l'evoluzione degli
anfibi e determinandone gli adattamenti.
Per avere un'idea della variabilità presente in natura, basta guardarsi intorno e osservare come non
esistono due esseri umani uguali, a meno che non siano gemelli omozigoti. La variabilità è presente
a ogni livello della vita, a livello delle strutture macroscopiche come gli organi o gli arti, così come
a livello delle cellule, a quello delle proteine o delle sequenze di DNA. In ciascuna popolazione
esiste una variabilità e questa, presente a ogni livello, può risultare in una variabilità nella fitness
degli organismi che compongono la popolazione. Gli organismi che hanno una fitness maggiore
hanno anche una maggiore probabilità di riprodursi e di contribuire in misura consistente alla
generazione successiva.
ORIGINE DELLA VARIABILITÀ
Se la variabilità è uno degli aspetti più rilevanti negli esseri viventi, ci si può chiedere quale sia la
sua origine. L'unione dei diversi corredi cromosomici (cromosomi) nel corso della riproduzione
sessuale è fonte di variabilità; inoltre negli animali l'immigrazione può contribuire a un aumento
della variabilità quando si verificano accoppiamenti fra individui appartenenti a popolazioni diverse
della stessa specie e provenienti da parti lontane dell'areale. Ma la sorgente primaria di variabilità è
costituita dalle mutazioni. La maggior parte delle mutazioni sono probabilmente dovute a errori di
copiatura del DNA durante la fase di replicazione e possono coinvolgere un singolo gene così come
interi cromosomi. La maggior parte delle mutazioni prodotte sperimentalmente è letale per
l'individuo portatore, ma in ogni caso queste rappresentano una fonte importantissima di variabilità.
E' importante inoltre sottolineare che la necessità di adattamento di una specie a particolari
condizioni ambientali non influenza in alcun modo l'insorgenza di particolari mutazioni. Queste
sono infatti casuali rispetto alla direzione dell'adattamento. La mutazione che permette alla giraffa
di avere un collo leggermente più lungo di quello dei suoi predecessori non avviene perché un collo
più lungo è necessario per raggiungere i rami più alti. La mutazione avviene e basta! E' compito
della selezione naturale favorire quegli individui che presentano mutazioni vantaggiose comparse
casualmente.
LA DERIVA GENETICA
Se nelle popolazioni relativamente grandi la variabilità e la selezione naturale costituiscono i
principali fattori chiamati in causa per spiegare i cambiamenti evolutivi, in una popolazione piccola
e isolata come per esempio una popolazione insulare, può accadere che, da una generazione
all'altra, si perda una certa quantità di variabilità genetica per motivi casuali. Infatti, essendo la
popolazione molto piccola, gli individui riproduttivamente maturi del momento possono non essere
portatori di tutti i caratteri della popolazione. Se vi sono dei caratteri ereditari più frequenti rispetto
ad altri è probabile che, sempre per effetto del caso, questi caratteri tendano a essere gli unici
presenti nelle generazioni discendenti e che, proprio per questo motivo, tali popolazioni tendano a
diventare razze geografiche o addirittura specie distinte. Questo fenomeno, detto deriva genetica,
contribuisce, accanto alla selezione naturale, al cambiamento evolutivo.
L'ADATTAMENTO
Oltre al fatto che le forme di vita esistenti sulla Terra presentino una grande diversità e variabilità,
gli organismi viventi hanno anche un'altra caratteristica fondamentale che è quella di essere adattati
all'ambiente in cui vivono, cioè di avere strutture e funzioni idonee e specializzate a favorirne o
garantirne la sopravvivenza in quel particolare ambiente. In una visione evolutiva, gli organismi
devono affrontare una serie di problemi che vengono posti loro dall'ambiente: variazioni della
temperatura, attacco da parte dei predatori, infezioni parassitarie, scarsità di cibo. Nel corso delle
generazioni, la selezione naturale, lavorando sulla variabilità ereditaria presente nelle popolazioni,
crea le soluzioni via via migliori a questi problemi. Il risultato finale è che l'organismo risulta essere
adattato all'ambiente in cui vive. La teoria dell'evoluzione per selezione naturale si basa su tre
fondamentali principi: la presenza di una variabilità tra diversi organismi, l'ereditabilità di questa
variazione, e il fatto che varianti diverse contribuiscono in modo differente al numero di discendenti
nelle generazioni successive. L'adattamento non è contemplato in questi tre punti e Darwin stesso lo
introdusse come quarto principio sostenendo che quei caratteri che aumentano la probabilità di
sopravvivenza e il successo riproduttivo di un individuo, hanno anche una maggiore probabilità di
essere conservati nelle generazioni successive. E' importante sottolineare come l'adattamento si
riferisca alle condizioni ambientali presenti: se a volte si osserva un carattere che non sembra
perfettamente adattativo, può essere che la selezione naturale non abbia ancora avuto il tempo di
renderlo adeguato alle nuove condizioni ambientali. Questa rincorsa tra gli adattamenti necessari e
le mutevoli condizioni ambientali è un meccanismo che offre notevoli spunti di studio e di
osservazione e che può aiutare a spiegare perché la maggior parte delle specie apparse nel corso
della storia della Terra siano estinte come emerge dall'analisi dell'evoluzione degli animali e da
quella dell'evoluzione delle piante. Ma possiamo asserire che la teoria della selelezione naturale
spiega tutti gli adattamenti conosciuti? In realtà, anche se apparentemente potrebbe sembrare
difficile, tutti gli adattamenti possono essere spiegati attraverso la selezione naturale, direttamente o
indirettamente.
L'ADATTAMENTO E' UN CONCETTO RELATIVO
Anche se l'adattamento (vedi paragrafo precedente) è un fenomeno generalmente riscontrabile
negli esseri viventi, esistono delle caratteristiche che sembrano non essere adattative e quindi non
attribuibili a selezione naturale. Per esempio l'acquisizione di una particolare forma da parte della
conchiglia di un mollusco gasteropode può essere dovuta a vincoli che si esercitano nel corso del
suo sviluppo embrionale, oppure una particolare morfologia può non essere possibile perché le
leggi dell'embriologia (o a volte le leggi fisiche) non lo consentono. Non tutti i cambiamenti
evolutivi sono dunque adattativi. Per esempio, potremmo avere una qualche difficoltà nel trovare un
significato adattativo ai capezzoli del maschio dell'uomo: questi costituiscono infatti prodotti
secondari di geni necessari allo sviluppo degli organi sessuali. L'adattamento è inoltre un concetto
relativo: una zebra che corre più veloce lascerà più discendenti solamente se il problema principale
da risolvere è quello di sfuggire dai predatori. Se il problema è invece di dover resistere a una
malattia, la zebra più adattata sarà quella che presenta la resistenza contro quella specifica malattia.
Se si osserva una testuggine marina arrancare sulla sabbia per deporre le uova, certamente non si ha
l'impressione che le sue zampe siano adattate per questo particolare compito, la testuggine
comunque si muove sulla sabbia meglio di una balenottera spiaggiata. L'adattamento in questo
senso deve essere considerato un compromesso e l'evoluzione può essere paragonata a un ingegnere
che debba continuamente fare compromessi: potrebbe progettare un serbatoio per la benzina a
prova di bomba, ma il peso della vettura sarebbe tale che il consumo di carburante diventerebbe
insostenibile. Così la morfologia di un'aringa è un compromesso tra i requisiti idrodinamici di un
nuotatore infaticabile (un corpo affusolato e una pinna caudale falcata) e la necessità di non essere
troppo visibile ai predatori che nuotano nelle acque sottostanti (un corpo compresso lateralmente);
la nostra lingua ha un ruolo sia nella masticazione sia nell'emissione di suoni e la sua morfologia
deve risultare in un compromesso tra queste due necessità; la possibilità di mantenere la postura
eretta ci permette di trasportare oggetti e bambini ma ci espone comunque a problemi di mal di
schiena!
Un aspetto importante dei caratteri adattativi, prendendo in considerazione le differenze tra due
specie per un determinato carattere, è che queste non sono necessariamente differenze nel grado di
adattamento ma possono bensì essere soluzioni alternative a uno stesso problema. Il rinoceronte
indiano ha un solo corno mentre quello africano ne ha due, ma non c'è motivo di ritenere che un
corno solo sia un adattamento contro i predatori indiani e che due corni rappresentino un
adattamento contro i predatori africani. Molto più semplicemente, si può pensare che le due specie
siano partite da condizioni iniziali leggermente diverse e che abbiano reagito alle condizioni esterne
(predatori) in maniera leggermente diversa. Sulla base di queste considerazioni e ricordando che
alcuni cambiamenti evolutivi sono del tutto casuali, non bisogna eccedere nel tentativo di trovare
una spiegazione adattativa per tutti i fenomeni biologici. L'adattamento comunque esiste ed è
costantemente osservabile nel mondo che ci circonda: un pesce ha le pinne come adattamento al
nuoto così come un cetaceo, un uccello ha le ali adattate al volo e lo stesso vale per un pipistrello o
per una farfalla. Questa convergenza di forme tra linee evolutive indipendenti testimonia il
fenomeno adattativo.
RIPRODUZIONE, SESSO E ADATTAMENTO
Il problema dell'adattamento riguarda anche la nascita e il mantenimento del sesso. Una femmina
che si riproduca per semplice riproduzione asessuata produrrà femmine che a loro volta si
riproducono asessualmente. Invece una femmina che ha bisogno di un partner per riprodursi, avrà
mediamente una prole costituita da metà maschi e metà femmine. Se supponiamo che ciascuna
femmina abbia due figli, le femmine che si riproducono asessualmente saranno semplicemente il
doppio alla seconda generazione, mentre il numero di quelle che si riproducono sessualmente
rimarrà costante. Ciò rappresenterebbe uno svantaggio, in termini evolutivi, per la riproduzione
sessuata che condurrebbe a una minore fitness. Immaginiamo ancora che una femmina matura abbia
un corredo genetico ideale, perfettamente adattato all'ambiente in cui essa vive. La femmina
asessuata trasmetterà intatto questo corredo. La femmina sessuata trasmetterà invece solo metà dei
suoi geni alla prole, perché l'altra metà verrà fornita da un maschio, da un estraneo che potrebbe
non essere affatto adattato al suo ambiente. In questo modo la prole della femmina asessuata
potrebbe avere vantaggi notevoli rispetto a quella della femmina sessuata. Quale significato
adattativo può avere dunque la riproduzione sessuale rispetto all'evoluzione? Una risposta potrebbe
essere formulata considerando che la riproduzione sessuata genera variabilità e che questa
variabilità può essere vantaggiosa alla progenie perché gli offre una gamma più vasta di possibilità
di rispondere alle mutevoli condizioni ambientali. In ogni caso, l'esistenza e il mantenimento della
riproduzione sessuale rimangono ancora un mistero dal punto di vista evolutivo. Sempre legate al
sesso sono delle particolarità di alcuni organismi che mettono in luce l'imperfezione di certi
adattamenti. I maschi di molti uccelli hanno un piumaggio vistoso e sorprendentemente colorato
che essi mettono in mostra attraverso una serie di rituali durante il corteggiamento. Certo è che la
femmina tenderà a scegliere il maschio la cui performance le sembrerà migliore. Ma che ne è del
pericolo in cui incorre il maschio di fronte a un predatore portandosi in giro una livrea simile?
Questo tipo di caratteri vengono detti deleteri e generalmente sono rappresentati dai caratteri
sessuali secondari, ossia da quei caratteri che non vengono direttamente messi in gioco durante
l'atto riproduttivo o nella cura della prole. La coda del pavone è uno degli esempi più noti. L'uccello
sarà scelto dalla femmina per la sua splendida livrea e per il suo straordinario rituale, ma che dire
quando viene attaccato da un predatore ed è costretto a scappare, appunto, con la coda tra le gambe?
Evidentemente, in molti animali, almeno per i maschi, il successo riproduttivo è più importante del
rischio di predazione.
LE UNITÀ DELLA SELEZIONE
Siamo abituati a studiare la vita a diversi livelli di organizzazione: il DNA, le proteine, le cellule, i
tessuti, gli organi, gli organismi. Gli organismi possono essere parte di gruppi sociali con diversi
gradi di parentela e formare delle popolazioni. Una o più popolazioni costituiscono una specie e
diverse specie possono costituire una comunità ecologica. La domanda che ci si pone adesso
riguarda il livello a cui agisce la selezione naturale. Per certi adattamenti è piuttosto semplice
osservare come vengano favoriti gli individui che li posseggono (questo vale nel caso delle pinne di
un pesce o delle ali di un uccello), ma altre volte è più difficile riconoscere il beneficiario delle
strutture, delle funzioni dei comportamenti o di altre caratteristiche osservate, ossia, in termini
evolutivi, riconoscere l'unità di selezione. Il lemming è un roditore che vive nella tundra artica le
cui popolazioni ogni 2-3 anni subiscono degli incrementi tali da costringerle a compiere delle
emigrazioni in massa. Durante questi esodi è stato osservato un comportamento apparentemente
assurdo. Se arrivano in prossimità del mare o dei corsi d'acqua, i lemming non si fermano ma vi si
gettano dentro in massa e molti annegano. La domanda è la seguente: chi viene avvantaggiato da
questo comportamento? E questo rappresenta dunque un adattamento? Nel caso in cui rappresenti
un adattamento, certo non è un adattamento che privilegia il singolo lemming che si getta nell'acqua
senza salvagente. Alcuni studiosi hanno pensato che questo suicidio collettivo possa rappresentare
invece un adattamento che favorisce la popolazione nel suo insieme, rendendola meno numerosa e
di conseguenza rendendo più disponibili le risorse alimentari. La selezione agirebbe sul gruppo
piuttosto che sull'individuo. Questa visione delle cose è stata ampiamente criticata, ma in alcuni
casi sembra che possa esistere realmente un tipo di selezione di gruppo, anche se questa non
rappresenta certo la spinta portante dell'evoluzione. Secondo una visione più moderna, la selezione
naturale beneficia i geni e gli individui che ne sono portatori. Da studi più recenti pare che i
lemming che annegano non sono così numerosi: quando il cibo comincia a scarseggiare, verso la
fine dell'inverno, i lemming migrano in grandi gruppi frettolosi e probabilmente non si accorgono
dei piccoli laghi o delle distese di acqua che vengono create dallo scioglimento delle nevi. Se il
comportamento di annegamento collettivo fosse adattativo significherebbe che ciascun lemming
che annega ha dei geni "nobili" che lo spingono a sacrificarsi per il bene del gruppo. Mettiamo il
caso che pochi lemming non abbiano questo gene: dopo il tuffo nell'acqua i lemming nobili
morirebbero mentre quelli più furbi rimarrebbero sulle sponde a guardar morire i loro nobili
compagni. Quel che è certo è che alla generazione successiva il gene "nobile" sarebbe presente con
una frequenza infinitamente minore rispetto alla generazione precedente e così via fino alla sua
completa scomparsa. Una visione estremista nell'altro senso vede gli organismi come semplici
contenitori di geni, creati dai geni stessi per far sì che essi possano replicarsi e lasciati morire una
volta che questo compito viene assolto. L'ipotesi è suggestiva. In questa prospettiva, è chiaro che
l'evoluzione non può e non deve essere vista come un processo che tende verso l'armonia e la
stabilità: al contrario la norma è il contrasto e la disarmonia. La natura può apparire bella ai nostri
occhi, ma avvicinando lo sguardo si colgono tutti gli aspetti più stridenti e conflittuali. Questa
visione del "gene egoista" può a volte apparire inadeguata a descrivere delle situazioni: sono quelle
in cui appare il comportamento altruistico. Un genitore che rischia la propria vita per difendere la
prole così come le caste sterili presenti nelle vespe, nelle api, nelle formiche e nelle termiti che si
curano altruisticamente delle compagne arrivando addirittura al sacrificio della propria vita,
rappresentano paradossi apparenti riguardo alle unità di selezione. Che vantaggio può trarre una
madre a mostrarsi al predatore per evitare che questo divori la sua progenie, o un'ape operaia che
punge e muore per difendere la regina? J. B. S. Haldane, un famoso genetista inglese, una volta
scrisse che non avrebbe sacrificato la sua vita per un singolo fratello ma lo avrebbe fatto per due
fratelli o per otto cugini. In effetti, la selezione favorisce il comportamento altruistico nei casi in cui
è diretto verso individui che condividono il nostro patrimonio ereditario e che ci assicurano una
discendenza. Le api operaie sono sterili, ma sono anche tutte sorelle e si devono, in senso evolutivo,
preoccupare del rispettivo stato di salute, nel senso che i geni della singola ape per questo
comportamento altruistico saranno avvantaggiati perché favoriscono la continuità del proprio
patrimonio ereditario. Con un fratello o una sorella condividiamo metà del nostro patrimonio
ereditario, con un cugino ne condividiamo un ottavo. E' questo il senso dell'affermazione di
Haldane.
A ogni modo, i geni nella stragrande maggioranza dei casi sono le unità di selezione e prima di
considerarne altre di ordine superiore occorre sempre una certa cautela e un attento studio.
D'altro canto non bisogna mai scordare che un gene "nudo" non può di certo sopravvivere. Esso ha
bisogno di un contorno che gli permetta di replicarsi, di resistere alle condizioni ambientali esterne
e di rendersene il più possibile indipendente. Chiaramente la selezione agirà anche su questo
livello superiore di organizzazione, ossia, e siamo ritornati al punto di partenza,
sull'individuo.
LA SPECIAZIONE
Prescindendo dalle molteplici definizioni del concetto di specie, l'evento cruciale per l'origine di
una nuova specie è comunque sempre l'isolamento riproduttivo. Di conseguenza, per capire come
due specie si originano da una singola specie preesistente, bisogna comprendere i meccanismi
attraverso i quali si forma una barriera riproduttiva tra la specie ancestrale e quella nuova da essa
derivata. Vi sono varie possibilità: la formazione di due specie distinte può essere il risultato di
processi evolutivi che interessano popolazioni isolate dal punto di vista geografico; oppure la nuova
specie può evolversi in zone contigue, adiacenti rispetto alla specie ancestrale; una terza situazione
è quella in cui, a partire da una singola popolazione, le due specie si evolvono nella medesima area
geografica. Questi tre diversi meccanismi vengono detti rispettivamente speciazione allopatrica,
speciazione parapatrica e speciazione simpatrica. Per raccontarli senza ricorrere a descrizioni troppo
complesse consideriamo due specie immaginarie, una di "pincopallini" e una di "pincopalloni". Per
far sì che una specie di pincopalloni si origini da una specie iniziale di pincopallini, occorre che
all'interno di quest'ultima specie vi sia una variante genetica con le caratteristiche tipiche dei futuri
pincopalloni e che queste varianti non amino molto i pincopallini e tendano preferenzialmente a
riprodursi tra di loro. Questa preferenza può essere rafforzata nel corso del tempo e in seguito i
pincopalloni potrebbero cominciare a mangiare cose leggermente diverse dai pincopallini, a
preferire il mare alla montagna, la notte dal giorno. Alla fine del processo, da una popolazione
iniziale si avranno due popolazioni separate e isolate riproduttivamente anche dal punto di vista
genetico. A questo punto i pincopallini e i pincopalloni potranno essere considerati due specie. In
particolare ci si può domandare perché e in quali circostanze la nuova variante genetica evolva.
SPECIAZIONE ALLOPATRICA
La variabilità, come specificato più volte, è una caratteristica intrinseca di tutte le popolazioni
naturali. La variazione geografica è un aspetto importante di questa variabilità e ogni popolazione
di una specie è diversa sotto molteplici aspetti dalle altre popolazioni della stessa specie. Gli stessi
caratteri che vengono solitamente usati per distinguere una specie sono essi stessi soggetti a
variazione geografica e la selezione naturale tende a favorire queste piccole differenze per dar vita a
varianti che siano meglio adattate alle diverse zone geografiche di diffusione della specie. Nel caso
della speciazione allopatrica, due popolazioni vengono separate da una barriera geografica, quale un
monte, un fiume, ecc. Nel corso del tempo, non essendoci contatti né incroci, le due popolazioni
cominceranno a divergere. Questo può avvenire per effetto delle mutazioni: essendo le mutazioni
casuali esse possono determinare cambiamenti completamente diversi nelle due popolazioni.
Inoltre, la divergenza può essere favorita da fattori diversi della selezione naturale nei due ambienti:
diversi predatori, diverse risorse alimentari e diversità di clima impongono una diversa direzione al
cambiamento. La divergenza può avvenire però anche per semplice effetto del caso: in due
popolazioni di dimensioni ridotte i fenomeni di deriva genetica possono determinare l'affermazione
di caratteristiche peculiari a ciascuna di esse. Così a un certo punto avremo una popolazione di
pincopallini e una popolazione di pincopalloni. Se la barriera persiste nel tempo, le due popolazioni
rimarranno separate e non avremo prove dirette del fatto che siano effettivamente specie diverse.
Se, al contrario, per un qualche motivo, la barriera viene meno (per prosciugamento del fiume
oppure semplicemente per migrazione), i pincopallini e i pincopalloni entreranno nuovamente in
contatto e potrebbe succedere che gli elementi necessari a riconoscersi come membri di una stessa
specie siano scomparsi. In questo caso, le due popolazioni costituiranno due specie differenti. La
speciazione allopatrica è un processo molto importante ai fini dell'evoluzione e sembra essere
piuttosto comune come si potrebbe supporre dagli innumerevoli casi di variazione geografica
documentati.
SPECIAZIONE PARAPATRICA
Nel caso della distribuzione spaziale cosiddetta parapatrica, i pincopallini che inizialmente
occupano una certa area geografica a un certo punto incominciano ad avere mire espansionistiche e
a occupare una zona contigua. Mettiamo il caso che queste zone contigue siano piuttosto diverse
ecologicamente da quella originaria e che qui la selezione naturale favorisca pincopallini con la
coda lunga e prensile. In questa popolazione si accumuleranno nuove varianti genetiche e le
differenze tra i pincopallini appartenenti alle due popolazioni (quella centrale e quella periferica)
tenderanno ad aumentare. Il primo passo della speciazione parapatrica è quello della formazione, al
confine tra le due popolazioni, di una zona dove sono presenti ibridi, ossia gli incroci tra i membri
delle due popolazioni di pincopallini. Se gli ibridi non sono svantaggiati, le due popolazioni
rimarranno semplicemente due varianti geografiche della stessa specie di pincopallini collegate da
un flusso genico che impedisce la speciazione. Può tuttavia avvenire che gli ibridi vengano
eliminati dalla selezione naturale come nel caso di pincopallini ibridi con la coda né lunga né corta,
che non può servire ad arrampicarsi sugli alberi e che anzi è loro di impedimento nella corsa per
sfuggire ai predatori di pincopallini. In questo caso, poiché la selezione naturale avvantaggerà le
coppie che hanno una prole senza coda o quelle che hanno una prole con coda lunga, la popolazione
di pincopallini con coda lunga tenderà a essere isolata riproduttivamente da quella senza coda,
completando il processo di speciazione parapatrica. Un esempio di zona ibrida lo abbiamo quasi
sotto gli occhi. La cornacchia grigia che si incontra così spesso ai bordi delle strade italiane
appartiene alla specie Corvus corone. Se partendo dall'Italia meridionale ci dirigiamo verso nord, ne
osserveremo parecchie durante il nostro cammino, questo finché non superiamo le Alpi ed entriamo
in Francia. A questo punto cominceremo a vedere solo cornacchie del tutto simili come forma e
abitudini a quelle viste fino a quel momento, ma completamente nere. A uno studio più attento si
potrà osservare come le due cornacchie sono diverse sotto molteplici altri aspetti oltre che per il
colore. Nel corso dei pochi chilometri che ci separano dalla cornacchia grigia abbiamo attraversato
inconsapevolmente una zona di ibridazione. Infatti i meccanismi di isolamento riproduttivo tra le
due varianti geografiche di cornacchia non si sono ancora evoluti. Se questo succedesse, si
avrebbero due specie e il meccanismo di speciazione sarebbe quello parapatrico.
SPECIAZIONE SIMPATRICA
L'ultimo meccanismo che rimane ancora da descrivere è quello della speciazione simpatrica.
L'esistenza effettiva di questo meccanismo come fenomeno di speciazione risulta ancora piuttosto
controversa negli studi di biologia evolutiva. Si può immaginare comunque che nella popolazione
di pincopallini ci siano delle varianti tra le quali, per esempio, alcuni pincopallini con un becco
piccolo e altri con un becco più grande. La dimensione del becco determina il tipo di cibo che i
pincopallini possono assumere. Mettiamo che i pincopallini con il becco grande siano in minor
numero rispetto a quelli col becco piccolo e che di conseguenza cibandosi di semi più grandi non
siano in competizione con gli altri, ma che anzi abbiano a disposizione cibo in grandi quantità, si
nutrano di più e facciano più figli. La selezione naturale favorirà gli incroci che daranno una
progenie in grado di cibarsi meglio e così può avvenire che i pincopallini col becco grande
comincino a scegliere i partner simili a loro. Si potranno così formare meccanismi di isolamento
riproduttivo tra le due varianti di pincopallini e alla fine si potrà assistere alla nascita di una nuova
specie, quella dei pincopalloni, che in questo caso sarebbe meglio chiamare "pincobecconi". Le
condizioni per la speciazione simpatrica sono più restrittive rispetto agli altri meccanismi poiché
necessitano della presenza di varianti stabili (dette polimorfismi - come i pincopallini dal becco
grande e quelli dal becco piccolo) all'interno di una stessa popolazione, di varianti che vengano cioè
mantenute dalla selezione naturale.
EVOLUZIONE E CLASSIFICAZIONE
DARE ORDINE ALLA NATURA
Le specie viventi descritte fino a oggi sono circa un milione e mezzo e il loro numero aumenta
costantemente mano a mano che nuove specie vengono descritte. La descrizione di una specie è uno
dei compiti fondamentali del tassonomo, ossia di colui che si occupa di classificare gli organismi.
La classificazone degli esseri viventi deve rispettare una gerarchia di livelli precostituita e ciascun
tassonomo si occupa di attribuire gli organismi alle categorie corrette di questa gerarchia. Ma qual'è
la necessità di classificare gli organismi secondo una gerarchia? Innanzitutto è necessario stabilire
delle regole nell'enorme varietà degli esseri viventi, in modo da dare una sistematicità allo studio
della natura, ossia in modo da stabilire una nomenclatura e un ordine. Questo risulta utile perché fra
gli studiosi e anche fra la gente comune ci si possa intendere sul significato di un termine e anche
perché il fatto di cercare un ordine conduce necessariamente alla ricerca di somiglianze e differenze
tra i vari organismi. Queste somiglianze e differenze riflettono la storia evolutiva e di conseguenza
la classificazione a sua volta è tendenzialmente conforme ai rapporti evolutivi tra le diverse specie.
Il livello più alto della gerarchia tassonomica è il regno: si distingue, per esempio, il regno animale
da quello vegetale. Il secondo livello è costituito dal phylum: il phylum dei cordati include diverse
classi fra cui i pesci, gli anfibi, i rettili, gli uccelli e i mammiferi, mentre il phylum degli artropodi
include, per esempio, gli insetti, i crostacei, gli aracnidi e altri invertebrati. Il livello successivo è
rappresentato dall'ordine: i mammiferi vengono classificati in 33 ordini, tra i quali l'ordine dei
primati che include anche l'uomo e le scimmie. Un ordine può essere composto da più famiglie, le
famiglie da più generi e infine il genere può essere rappresentato da più specie. Ciascun organismo
vivente viene definito attraverso la combinazione di due termini, una nomenclatura che viene detta
binomia, proposta nel XVIII secolo dal sistematico svedese Carlo Linneo, fondamentale sia in
botanica che in zoologia): il primo termine si riferisce al genere il secondo alla specie. Il lupo,
Canis lupus, appartiene al genere Canis come lo sciacallo, Canis aureus. Insieme, questi due
animali vengono classificati, come la volpe, che però appartiene al genere Vulpes, nella famiglia dei
canidi. Insieme agli orsi, ai procioni, alle donnole, alle iene, ai leoni e alle foche, i canidi
appartengono all'ordine dei carnivori. Questi ultimi, a loro volta, insieme a molti altri ordini
costituiscono la classe mammiferi. Risalendo ancora nella scala gerarchica della classificazione
animale, i mammiferi appartengono con i pesci, gli anfibi, i rettili e gli uccelli al phylum dei cordati.
Non essendo né piante, né funghi, né batteri, i lupi infine sono inclusi nel regno animale. Questa
gerarchia, regno, phylum, ordine, classe, famiglia e genere (tranne per quanto riguarda la specie) è
una costruzione artificiale. Infatti, la natura non presenta nessun livello gerarchico e le categorie dei
viventi variano con continuità, a volte sfumando le une nelle altre. Questa gerarchia però risulta
essere di una certa utilità pratica dal punto di vista didattico per classificare gli organismi dai più
semplici ai più complessi.
CLADISMO E FENETICA
Esistono diverse scuole di tassonomia che utilizzano metodi e filosofie differenti per classificare gli
organismi. La scuola cladistica, o filogenetica, tende a costruire un sistema nel quale gli organismi
vengono raggruppati in categorie che rispecchiano i loro rapporti di parentela. Secondo il suo
fondatore, Willi Hennig, si tratta di trasformare un albero genealogico in classificazione in base a
determinati criteri. I caratteri vengono analizzati e riconosciuti come caratteri ancestrali oppure
come caratteri derivati (cioè caratteri evolutivamente più avanzati e moderni) e tale criterio è la
guida per la ricostruzione filogenetica e l'inquadramento sistematico di animali e piante. Invece la
scuola fenetica considera il maggior numero possibile di caratteri, indipendentemente dal loro
significato evolutivo, e li utilizza con metodi di elaborazione matematica (tassonomia numerica).
Essa rinuncia a priori a operare una ricostruzione evolutiva degli organismi e mira a una
classificazione di ordine pratico. I risultati dei due tipi di metodologia possono essere
completamente diversi. Per esempio, gli uccelli e i coccodrilli hanno un antenato in comune più
recente rispetto all'antenato comune di coccodrilli e lucertole. La scuola fenetica metterebbe
coccodrilli e lucertole vicini in una classificazione, la scuola filogenetica unirebbe in uno stesso
gruppo uccelli e coccodrilli. Entrambi i sistemi classificatori soffrono di alcuni limiti. Il metodo
fenetico non dà informazioni sulle relazioni di parentela fra gli organismi. E' possibile che nella
classificazione vengano lasciati fuori dei caratteri importanti ma non inquadrabili numericamente.
La scuola filogenetica, da parte sua, pur essendo decisamente più oggettiva, può a volte essere
piuttosto incerta e lacunosa proprio perché la storia evolutiva di una specie e i suoi rapporti
filogenetici con altre non sempre sono chiari o ben conosciuti. Recentemente una nuova scuola di
classificazione, la tassonomia evolutiva, ammette l'uso di entrambi gli approcci metodologici
(l'analisi filogenetica dei caratteri e l'elaborazione numerica), unificando in un unico metodo i
vantaggi delle due scuole precedenti.
IL CONCETTO DI SPECIE
DAL CRITERIO MORFOLOGICO AL CONCETTO BIOLOGICO
I biologi sono pressoché tutti d'accordo nel ritenere la specie l'unità fondamentale della
classificazione biologica mentre mostrano una diversità di vedute per quanto riguarda la sua
definizione. Questa controversia è di tipo teorico mentre, per problemi pratici, come per esempio
distinguere due specie di gabbiani in una baia, si ricorre generalmente a un approccio di tipo
morfologico. Una guida al riconoscimento degli uccelli darà una serie di indicazioni generalmente
piuttosto semplici per distinguere un passero da un cardellino. Il problema insorge però quando due
popolazioni di una stessa specie che vivono in località geografiche diverse mostrano caratteri
diversi. E in effetti questo tipo di variazione, che viene detta variazione geografica, è piuttosto
frequente in natura, ed è presente anche nell'uomo (variabilità dell'uomo). Altre volte, la definizione
pratica di una specie risulta molto più complessa, come nel caso di specie che sfumano
gradualmente le une nelle altre nell'arco della loro distribuzione geografica. In questi casi,
l'approccio semplicemente morfologico non è adatto per il fatto che, trattandosi di specie
discendenti da un antenato comune, è probabile che ci siano delle popolazioni intermedie non
chiaramente distinguibili come specie separate. Così i biologi evoluzionisti hanno cominciato a
proporre diverse definizioni del concetto di specie. La più antica è senza dubbio quella morfologica
secondo cui la specie viene definita come un gruppo comprendente una serie di organismi che si
somigliano tra loro e che sono distinguibili da un altro gruppo. Nel 1969 il biologo evoluzionista
Ernst Mayr (1904) definì una specie come un insieme di popolazioni naturali in grado di incrociarsi
tra loro (interfeconde) e isolate riproduttivamente da altre popolazioni simili. Questo è il concetto
biologico di specie, certamente il più diffuso anche se non universalmente accettato. Ponendo
l'accento sulla riproduzione, la specie può venir anche identificata con il suo patrimonio genetico.
Due individui che non possono accoppiarsi tra loro e quindi non possono neanche scambiarsi geni,
di conseguenza sono isolati dal punto di vista riproduttivo e appartengono a due specie diverse. Dal
punto di vista pratico, definire una specie secondo questo concetto risulta essere piuttosto difficile:
dovremmo seguire il passero e il cardellino durante tutta la loro stagione riproduttiva e vedere se
non ci siano degli ibridi in giro. Chiaramente il criterio morfologico è molto più diretto in questo
caso ed è pienamente giustificato dal concetto biologico di specie per il semplice fatto che i caratteri
morfologici in comune tra due individui della stessa specie sono indicatori della loro interfecondità.
Molto spesso però i membri di una stessa specie non hanno affatto caratteri uniformi, ossia al loro
interno si distinguono molti tipi morfologici: è questo il caso delle specie cosiddette politipiche
(formate da molte razze geografiche distinte). Le popolazioni che compongono ciascuna razza
possono comunque incrociarsi tra loro e quindi appartengono alla stessa specie. Il morfologo
classico invece non resisterebbe alla tentazione di distinguere le popolazioni come specie diverse.
Al contrario, può succedere che due popolazioni morfologicamente identiche siano invece isolate
riproduttivamente, motivo per cui vanno considerate specie diverse (si parla in questo caso di specie
sorelle), anche se per il morfologo esse costituirebbero una singola specie. L'argomento riguardante
il concetto biologico di specie può essere ulteriormente approfondito: ci si può chiedere a questo
punto quali siano i meccanismi che impediscono l'incrocio tra diverse specie. Una cavalla è
piuttosto restia a incrociarsi con un asino poiché genererebbe una prole sterile (il mulo) e tutti gli
sforzi che compirebbe per trasmettere i suoi geni diventerebbero vani alla generazione successiva.
E' chiaro quindi che la selezione naturale deve aver agito e agisce tuttora in maniera molto
consistente per mantenere vivi i meccanismi d'isolamento riproduttivo. Le specie non si incrociano
per una moltitudine di motivi: perché hanno habitat differenti, perché hanno periodi riproduttivi
diversi, diverse modalità di corteggiamento e linguaggi diversi. Tutto questo fa sì che le specie
abbiano un'identità genetica ben definita e che vengano prodotti ibridi sterili.
IL CONCETTO ECOLOGICO
Oltre ai concetti già esaminati, esiste un altro concetto di specie basato sulle caratteristiche
ecologiche delle popolazioni naturali: tale concetto definisce una specie come l'insieme di quegli
organismi che occupano la stessa nicchia ecologica. Il concetto ecologico di specie sottolinea
quei motivi più generali per i quali la selezione limita in pratica l'incrocio tra diverse specie. Dal
punto di vista ecologico, la selezione limiterebbe la formazione di ibridi poiché questi non sono ben
adattati. Gli ibridi ricevono geni da due specie diverse e questi geni necessariamente, dato il distinto
passato evolutivo delle due specie in esame, non possono interagire in maniera adeguata. In
sostanza gli ibridi non sono né carne né pesce. E in natura, secondo i sostenitori di questo
approccio, non ci sarebbe posto per tali organismi poiché la natura è divisa in zone adattative, con
dei salti tra l'una e l'altra. Ciascuna zona adattativa è definita in maniera piuttosto precisa e ogni
specie vi si è adattata nel corso della sua storia evolutiva. L'ibrido non sarebbe in grado di sfruttare
alcuna zona adattativa e necessariamente non potrebbe sopravvivere. Questo concetto spiega in
sostanza perché in natura gli ibridi siano così rari e pone l'accento sulla selezione naturale come
principale promotore dell'identità di una specie. In realtà, il concetto biologico e quello ecologico di
specie sono strettamente legati: se i membri di una specie si incrociassero con una gamma troppo
ampia di partner, dando vita a una progenie disadattata, la selezione agirebbe cercando di far loro
aggiustare il tiro, in sostanza di essere un po' più selettivi nelle loro scelte sentimentali.... In questo
senso l'approccio ecologico e quello biologico si possono integrare.
LA SPECIE CLADISTICA
Le argomentazioni teoriche riguardanti la definizione del concetto di specie possono essere
spostate su un terreno diverso, quello storico. La specie è visibile oggi, ma la sua storia evolutiva
dura forse da milioni di anni. In questa visione prospettica come possiamo distinguere una
specie dal suo predecessore? A che punto della linea evolutiva possiamo inserire una
ramificazione o una divergenza? Né il concetto morfologico (per la sua arbitrarietà) né quello
biologico (come conoscere le abitudini riproduttive di una specie estinta?) né il concetto ecologico
(non sempre si riescono a ricostruire le caratteristiche ecologiche di forme fossili) ci possono
aiutare a questo riguardo. Una soluzione obiettiva potrebbe provenire dalla scuola cladistica (o
filogenetica) di classificazione (cladismo). La specie cladistica può essere definita come
quell'insieme di organismi che occupano una linea evolutiva compresa tra due punti di
biforcazione. Questo elimina qualsiasi arbitrarietà nel suddividere la linea evolutiva. Un altro
concetto che prende in considerazione il passato evolutivo delle specie è il cosiddetto concetto
evolutivo che definisce la specie come una sequenza di popolazioni tra gli antenati e i discendenti
che si evolvono separatamente da altre linee evolutive.
CONSIDERAZIONI FINALI
Come si vede le definizioni sono molteplici e riguardano diversi aspetti della realtà complessa del
fenomeno specie. In natura la variabilità è la norma e rendere discreto qualcosa che si presenta
come un continuum sia dal punto di vista spaziale che sotto il profilo temporale risulta comunque
un procedimento articolato. Il problema è di ordine filosofico: le specie, ma anche i generi, le
famiglie, le classi, esistono veramente in natura o sono delle categorie imposte artificialmente
dall'uomo? Per quanto riguarda la specie, il concetto biologico e forse anche quello ecologico,
definiscono qualcosa di realmente esistente, mentre non si può dire lo stesso per il concetto
cladistico o evolutivo. E' già qualcosa. Ma che dire dei raggruppamenti superiori? Per molto tempo
questi sono stati definiti attraverso attributi soprattutto morfologici. Si è già visto precedentemente
come la scelta di questi attributi sia piuttosto soggettiva. A questa considerazione possiamo
aggiungere un'ulteriore osservazione: quando un gruppo di giapponesi scende da un autobus, agli
occhi di un europeo sembrano pressoché tutti uguali (ma lo stesso vale per i giapponesi quando
sono gli europei a recarsi in Giappone). Tuttavia, se un europeo vivesse in Giappone per qualche
tempo probabilmente sarebbe in grado di distinguere anche due gemelli. Il criterio morfologico ha
un livello di soggettività molto elevato e se i raggruppamenti superiori fossero basati su questo
criterio dovremmo concludere che in natura non esistono e che sono solo delle semplificazioni utili
e necessarie quando ci si avvicina allo studio della natura.
MACROEVOLUZIONE
Quando si affrontano problemi relativi a fenomeni che avvengono a un livello al di sotto della
specie si parla di microevoluzione. La speciazione è un meccanismo che viene studiato al di sotto
del livello di specie e pertanto è un meccanismo microevolutivo. Quando si abbandona questo
livello di osservazione e si incominciano a osservare i cambiamenti evolutivi su larga scala si
stanno affrontando invece dei problemi di macroevoluzione. La domanda principale che ci si pone
ampliando questa scala di osservazione è la seguente: la macroevoluzione è una microevoluzione
estrapolata a una scala temporale molto più ampia oppure è un fenomeno a se stante, non
incompatibile, ma che prevede meccanismi diversi rispetto a quelli della microevoluzione? Lo
strumento fondamentale per lo studio della macroevoluzione è costituito dalla misura del tasso di
evoluzione di una struttura o di una specie a partire dalla datazione dei reperti fossili.
IL TASSO DI EVOLUZIONE
Il tasso di evoluzione è una misura facilmente calcolabile una volta che i fossili siano stati datati.
E' una funzione della differenza tra la struttura esaminata nell'individuo più moderno rispetto a
quella dell'individuo ancestrale diviso l'intervallo di tempo trascorso. Lo studio dei tassi di
evoluzione permette per esempio di osservare come il tasso di evoluzione dei mammiferi sia più
rapido di quello dei molluschi, come generalmente le forme di vita più complesse subiscano
un'evoluzione più rapida rispetto a quelle più semplici. Inoltre è stato suggerito, sempre attraverso
lo studio dei tassi di evoluzione, che le specie tendono a evolvere più rapidamente durante i
fenomeni di speciazione piuttosto che tra di essi. Quest'ultimo argomento costituisce la base di una
delle controversie attuali riguardante la macroevoluzione, quella tra i sostenitori della teoria degli
equilibri intermittenti e i sostenitori del gradualismo.
GLI EQUILIBRI INTERMITTENTI
L'incompletezza dei reperti fossili aveva creato qualche problema allo stesso Darwin poiché questi
non mostravano cambiamenti evolutivi graduali. Da allora molti paleontologi si misero al lavoro
per cercare di trovare esempi fossili di cambiamenti evolutivi graduali. Due di loro in particolare,
Niels Eldredge e Stephen J. Gould, hanno concentrato la loro attenzione sui meccanismi di
speciazione allopatrica: se i pincopalloni (vedi esempio nel precedente paragrafo) evolvono in
un'area geograficamente diversa da quella della specie ancestrale di pincopallini, queste due
lasceranno fossili solo nelle rispettive aree che abitano, a meno che i pincopalloni non reinvadano le
aree occupate dai pincopallini. In questo caso, la nuova specie avrà la sua completa dignità di
pincopalloni e sarà probabilmente piuttosto diversa dalla specie ancestrale dei pincopallini. Quando
il paleontologo troverà i resti di queste antiche specie, troverà fossili di pincopallini e di
pincopalloni negli stessi strati di roccia, ma non troverà forme intermedie di pincopallonini. Di
conseguenza, il cambiamento evolutivo sembrerà non essere graduale semplicemente per il fatto
che il processo di divergenza è avvenuto altrove. Da questa considerazione i due studiosi si sono
spinti oltre e hanno proposto una teoria che viene detta "degli equilibri intermittenti" in cui
sostengono i seguenti punti fondamentali:
1) le specie evolvono soprattutto per suddivisione delle linee evolutive: il nuovo si origina a partire
dalla specie ancestrale per divergenza;
2) le nuove specie evolvono rapidamente;
3) le nuove specie si originano a partire da una piccola popolazione della forma ancestrale,
4) la nuova specie si origina in una piccola porzione dell'area di distribuzione della specie
ancestrale - preferenzialmente in una zona isolata periferica.
IL GRADUALISMO
In opposizione a quanto enunciato dai sostenitori della teoria degli equilibri intermittenti (vedi
paragrafo precedente), i sostenitori del gradualismo sostengono invece che generalmente i
pincopallini si modificano gradualmente nel tempo dando vita ai pincopalloni, che questa
trasformazione è graduale e lenta e che coinvolge tutta la popolazione originale di pincopallini. La
differenza sostanziale tra le due teorie riguarda il tasso di evoluzione durante e tra gli eventi di
speciazione. Nel caso del gradualismo, il tasso è costante nel corso del tempo, al contrario, per i
sostenitori degli equilibri intermittenti, questo tasso è molto elevato al momento della suddivisione
della linea evolutiva mentre tra gli eventi di speciazione il cambiamento evolutivo è molto piccolo o
inesistente, una condizione che Eldredge e Gould chiamano "stasi". La controversia è ancora molto
attuale e ha avuto il grande merito di stimolare un gran numero di studi orientati in maniera molto
precisa a cercare di suffragare l'una o l'altra posizione teorica. Ancora molto lavoro è necessario per
chiarire i meccanismi macroevolutivi, ma lo stimolo intellettuale fornito da due teorie contrastanti
sembra ricco di prospettive e di chiarimenti. Il tutto a favore della comprensione della storia
evolutiva.
FENOMENI MACROEVOLUTIVI
Lo studio della macroevoluzione, oltre a determinare i tassi di evoluzione e i meccanismi attraverso
i quali il cambiamento si attua (vedi paragrafi precedenti), si pone anche il problema di definire i
modi in cui le transizioni tra i grandi gruppi di animali ebbero luogo. L'evoluzione dei mammiferi e
degli uccelli a partire dai rettili, la conquista della terraferma da parte degli anfibi o delle piante
terrestri, l'evoluzione di organismi pluricellulari a partire da organismi unicellulari, sono tutti
argomenti che richiedono una spiegazione sulle modalità attraverso le quali la vita ha raggiunto la
ricchezza attuale. Altro argomento importante negli studi sulla macroevoluzione riguarda il
fenomeno della coevoluzione, con cui si indica l'evoluzione interdipendente di due (o più) specie
che abbiano una chiara relazione ecologica e che traggano entrambe benefici dalle interazioni.
Come esempio si può considerare quello di una specie di formica ampiamente diffusa in Europa
(Formica fusca) che utilizza come nutrimento una sostanza prodotta da un organo particolare di un
bruco. Il motivo per il quale il bruco produce tale secreto sembra essere unicamente quello di
nutrire la formica. La formica in compenso protegge il bruco da una serie di pericolosi parassiti. Il
fenomeno, molto diffuso in natura, viene chiamato mutualismo. L'evoluzione del comportamento
della formica (difesa dai parassiti) e quella dell'organo del bruco sono strettamente legate. Da un
punto di vista evolutivo, si può immaginare che con l'aumentare del liquido prodotto, la formica
abbia avuto la tendenza a scoraggiare sempre di più i parassiti che avessero potuto indebolire o
uccidere questa fabbrica ambulante di delizie. Questo comportamento protettivo a sua volta
avvantaggiava il bruco, e rendeva evolutivamente vantaggiosi gli organi più attivi nella produzione
della sostanza. In questo caso, come in altri, si crea così una specie di gara, che tende verso il bene
comune di entrambe le specie. Questo tipo di meccanismo produce cambiamento evolutivo e per
questo viene detto coevoluzione. Un altro tipo di coevoluzione riguarda il rapporto tra l'ospite e il
parassita: un miglioramento nelle capacità del parassita deve necessariamente comportare, prezzo la
vita o la morte, un aumento nel corso dell'evoluzione delle capacità difensive dell'ospite.
L'evoluzione del sistema immunitario ha molto a che vedere con fenomeni coevolutivi. Questa
"corsa agli armamenti" può essere evidente anche quando si vadano a studiare i fossili di prede e
predatori del passato e li si confrontino con forme attualmente viventi. Si nota come la dimensione
del cervello aumenti in entrambi, sia nella preda che nel predatore, nel corso del tempo. Più furbo il
predatore, più furba si deve fare la preda per sfuggirgli, più furba la preda più furbo deve diventare
il predatore per catturarla e così via. Se l'intelligenza di una preda o di un predatore è legata alla
dimensione del cervello, vi sarà un aumento del volume cerebrale nel corso del tempo nelle diverse
specie di prede e predatori. Attenzione però, qui si sta parlando di tempi evolutivi su grande scala
(decine di milioni di anni) e di una serie di specie nel corso del tempo: questo concetto non si può e
non deve essere esteso all'uomo, la qual cosa significherebbe considerare stupido chi ha la testa
piccola, come hanno tentato studiosi in malafede del secolo passato. Il cervello di Albert Einstein
(1879-1975), ha un peso che rientra perfettamente nella media. Questo dovrebbe servire sempre
come monito a tutti coloro che tentano, attraverso argomentazioni pseudo-evolutive, di giustificare
atteggiamenti razzisti o discriminanti in un contesto che non ha niente a che vedere con quello
evolutivo.
LA TEORIA NEUTRALISTA
A livello molecolare, l'importanza relativa della selezione naturale nell'evoluzione è stata
recentemente messa in discussione dalla cosiddetta "teoria neutralista" proposta dal genetista di
popolazioni giapponese Motoo Kimura. Secondo questa teoria, basata su una serie di osservazioni
effettuate a livello molecolare, l'evoluzione è dovuta essenzialmente a mutazioni neutrali nei
confronti della selezione, ossia a cambiamenti che non migliorano né peggiorano la fitness
dell'individuo. I neutralisti sostengono quindi che la maggior parte dei cambiamenti evolutivi delle
molecole siano dovuti a una deriva genetica casuale, mentre secondo i sostenitori della selezione
naturale è quest'ultima a determinare l'evoluzione, anche a livello delle molecole. La teoria
neutralista non prevede che la deriva casuale spieghi ogni cambiamento evolutivo e la selezione
naturale è ancora necessaria per spiegare l'adattamento. Ciò che tende a sottolineare la teoria
neutralista è che gli adattamenti che si osservano in natura siano rappresentativi solo di una
minoranza di tutti i cambiamenti evolutivi che sono presenti e registrati nel DNA. A livello del
DNA e delle proteine, secondo i neutralisti, il caso ha un effetto fondamentale e, di conseguenza, la
maggior parte del cambiamento che si osserva a questo livello è un cambiamento non adattativo. La
discussione tra le due scuole, quella neutralista e quella tradizionalista, è tuttora piuttosto vivace e
l'argomento denso di interesse e di conseguenze sul piano teorico.
USI E ABUSI DELLA TEORIA EVOLUTIVA
GLI ABUSI
Scienziati di epoche passate e anche recenti hanno spesso dimostrato pregiudizi razziali estendendo
teorie formulate in contesti particolari per mettere in luce pesanti pregiudizi sociali. La
discriminazione contro gli afroamericani, contro gli indiani d'America, contro gli ebrei, e in genere
contro qualsiasi tipo di "diversità", ha cercato basi scientifiche e trovato sostenitori dall'Ottocento
fino ai nostri giorni. Questi pregiudizi purtroppo alimentano ancora, navigando nel mare
dell'ignoranza, sentimenti razzisti nelle moderne società attuali. Una parte influente del mondo
scientifico ha avallato e sostenuto questi atteggiamenti - non si dimentichi mai che alla stesura del
manifesto della razza, il fondamento della discriminazione e la base razionale del genocidio degli
ebrei, hanno partecipato eminenti scienziati in Germania, in Francia e anche in Italia, dove alla
riunione per la stesura del manifesto capeggiata dal gerarca fascista Starace il 13 luglio del 1938
parteciparono ben 10 accademici delle università italiane che sottoscrissero il documento.
Il concetto di sopravvivenza del più adatto, estrapolato dal contesto darwiniano, fu in passato
utilizzato per giustificare come inevitabile la povertà dei ceti sociali più deboli, la superiorità di
quelli più agiati, il colonialismo, l'imperialismo inteso come conseguenza inevitabile della
"supremazia" biologica della razza occidentale. Niente di biologico e di scientificamente corretto
esiste in questi atteggiamenti, i risultati di alcune ricerche sono stati manipolati in maniera
meschina, gli esperimenti disegnati con vizi di fondo e prospettive distorte. Elementi derivati
dalla teoria evolutiva furono applicati anche alla criminologia: Cesare Lombroso (1835-1909), un
medico italiano della seconda metà dell'Ottocento, tentò di determinare una relazione tra la
fisionomia dei delinquenti e quella delle scimmie, affermando che il criminale è tale dalla nascita.
In maniera grottesca Lombroso cercò di dimostrare la tendenza al crimine nelle specie animali per
giustificare il proprio approccio alla criminologia. L'equazione animale = criminale fu spinta a
conseguenze ridicole, addirittura postulando una somiglianza significativa tra l'asimmetria del volto
di alcuni criminali con quella delle sogliole, nelle quali entrambi gli occhi risiedono su una sola
parte del corpo, oppure stabilendo che le prostitute avessero una tendenza ad avere piedi prensili
come quelli delle scimmie. Il pensiero di Lombroso fu determinante e la sua influenza si manifestò
per molti anni nei circoli penali. Ancora oggi, saltuariamente, il comportamento criminale viene
messo in relazione con caratteristiche fisiche ma la malafede è più sottile e utilizza studi di genetica
per tentare di dimostrare le sue ipotesi fallaci, dimenticando quanta fondamentale importanza
riveste l'ambiente sociale nella formazione di tendenze criminali. E allora si cerchi sempre di avere
ben presente questo piuttosto che cercare di ascrivere il comportamento violento di persone
disperate a caratteristiche fisiche o genetiche.
FILOSOFIA
L'impatto della teoria dell'evoluzione sul pensiero filosofico e sulla posizione dell'uomo nella natura
determinò una rivoluzione culturale. L'uomo pre-copernicano pensava di essere al centro
dell'universo e che questo fosse stato creato per lui e a causa di lui. Keplero, Galileo e Newton più
tardi cambiarono l'immagine dell'universo e dell'uomo: la Terra fu vista come un pianeta piuttosto
piccolo ruotante intorno a un Sole molto più grande; niente sfere celesti ma soltanto il vuoto, altri
pianeti e galassie; l'uomo perduto negli spazi cosmici. Darwin rappresentò in un certo senso il
Newton della biologia, dimostrando che le specie biologiche, uomo compreso, non sono comparse
sulla Terra come un pacchetto preconfezionato. Ogni specie discende da progenitori diversi e
diversa è la sua storia evolutiva. La diversità dei viventi è una conseguenza dell'adattamento ad
ambienti differenti; l'infinita varietà di strutture e funzioni rende possibile un'infinita diversità di
modi di vita. La specie umana presenta però una particolarità rispetto alle altre specie animali:
l'adattamento all'ambiente in cui vive viene fortemente mediato dalla cultura. Di generazione in
generazione, l'eredità culturale viene trasmessa, svincolando l'uomo, almeno parzialmente, dai
condizionamenti dell'ambiente fisico in cui vive. Il concetto del divenire e la trasformazione
vengono visti alla luce dell'evoluzione come caratteristiche fondamentali del mondo biologico. Il
divenire diventa di conseguenza un processo onnipresente, che può essere esteso a tutto l'universo.
E' evidente come questa impostazione cambi in maniera decisiva la posizione dell'uomo nella
natura. L'universo sta andando da qualche parte? Dove? La serena regolarità delle leggi fisiche
dell'universo, la quale ci permetterebbe forse di fare sogni più tranquilli, viene stravolta da questo
costante cambiamento. Anche se i meccanismi attraverso i quali opera l'evoluzione inorganica sono
diversi da quelli che interessano l'evoluzione biologica e l'evoluzione culturale dell'uomo, il
divenire e il movimento rappresentano il contesto in cui l'uomo si viene a trovare. Divenire e
movimento sono concetti entrati nella scienza grazie alla teoria evolutiva: l'universo non è statico
ma dinamico. Il movimento a sua volta ha una direzione e vi sono state molte controversie tra i
teorici della biologia evoluzionistica sul fatto che questo movimento fosse più o meno assimilabile
a un progresso. In realtà, la nozione di progresso non è applicabile all'evoluzione animale: esiste
una direzione nel cambiamento ma il termine progresso ha una connotazione etica che non ha
niente a che vedere con i processi che governano l'evoluzione delle strutture e degli organi: un
batterio che si riproduce in maniera vertiginosa e che lascia una moltitudine di discendenti in poche
ore è forse meno progredito di una dinamica coppia metropolitana con il loro amatissimo figlio
unico? La concezione di progresso nel mondo animale è fortemente influenzata dal nostro
antropocentrismo. In questo contesto ci si può chiedere che cosa rappresenti l'uomo. L'evoluzione è
un processo creativo e la creatività rischia spesso l'insuccesso, il vicolo cieco. Ogni specie
biologica, compresa la nostra, è un esperimento della natura. Ma non si deve scordare che il nostro
ruolo nella natura è assai più condizionante rispetto a quello di tutte le altre specie:
«Quale ruolo deve recitare l'uomo nell'evoluzione? Dev'essere un semplice spettatore o, per caso, la
punta di diamante di questo processo o infine il regista? Vi sono persone che si libererebbero del
quesito con una spallucciata, o se ne ritrarrebbero, considerandolo un'esibizione di folle arroganza.
Tuttavia, poiché l'uomo è uno, e presumibilmente l'unico essere razionale ad aver acquistato
consapevolezza del procedere dell'evoluzione, difficilmente può evitare di porsi simili interrogativi.
Il problema implicato non è nulla di meno che il significato della sua stessa esistenza. L'uomo vive
soltanto per vivere, e non vi è per lui scopo o significato diverso da questo? Oppure è chiamato a
partecipare alla costruzione del migliore degli universi pensabili?» (Theodosius Dobzhansky, 1975:
Diversità genetica e uguaglianza umana)
PSICOLOGIA
Anche la psicologia ha potuto trarre vantaggi dall'integrazione con le teorie evolutive. Il fatto di
considerare l'uomo come discendente di altri vertebrati può aiutare a comprendere alcuni suoi
comportamenti e a mettere in luce alcuni apparenti contrasti. Tali contrasti possono essere
semplicemente dei compromessi tra necessità istintive ereditate evolutivamente dai suoi parenti
ancestrali e influenze culturali dovute all'ambiente sociale in cui vive. La corteccia cerebrale, la
parte del cervello che ha fatto la sua comparsa in tempi piuttosto recenti, è fondamentale per le
capacità intellettive, la logica, la risoluzione di problemi complessi, le decisioni e le scelte per la
mente dell'uomo. A volte le parti cerebrali sottostanti la corteccia, quelle più antiche, spingono
l'uomo a comportarsi in maniera evolutivamente più desiderabile. L'equilibrio dell'uomo può
dipendere molto dalla flessibilità dell'integrazione degli stimoli provenienti da queste due aree
diverse del cervello e una caratteristica di molti disturbi psichici è proprio quella di alterare questa
plasticità determinando una serie di malattie psicologiche.
MEDICINA E AGRICOLTURA
Nel corso degli ultimi decenni, sembra sempre più evidente l'insuccesso degli approcci tradizionali
alla lotta contro le malattie infettive e contro gli agenti infestanti nelle colture agricole. Così
l'aumento del numero di sostanze antibiotiche sembra essere accompagnato dall'insorgenza di
nuove e pericolose malattie - sono infatti di questi ultimi anni malattie quali l'AIDS, la febbre
emorragica venezuelana, la malattia del legionario, il virus Ebola. Ancora, l'aumento del numero di
pesticidi si accompagna a un aumento dei problemi derivanti dalle infestazioni alle coltivazioni, con
pesanti danni all'agricoltura. Tutto questo sembra far pensare che il modo in cui i paesi occidentali
hanno finora affrontato gli organismi infestanti sia arrivato a un punto morto. Le coscienze si sono
entusiasmate ai primi risultati degli antibiotici e dei pesticidi e si sono fossilizzate su queste
modalità di lotta. Lo studio del nuovo è stato affrontato assumendo che tale nuovo fosse identico al
vecchio. Oggi molti scienziati tendono a far risaltare come queste strategie incomincino a fare
acqua da tutte le parti. Sono nate nuove linee di pensiero come la cosiddetta "medicina darwiniana"
o la lotta biologica agli agenti infestanti. In questo senso la moderna teoria dell'evoluzione può
aiutare, insieme all'ecologia, a determinare un approccio completamente nuovo. Occorre
considerare la variabilità genetica delle specie, bisogna tenere conto del fatto che specie e ambiente
sono entità complesse, le cui dinamiche non sono sempre prevedibili, e pensare che niente è in
realtà costante nel tempo: le nostre soluzioni vanno sempre considerate come temporanee.
Se si comincia a considerare il corpo umano come il prodotto dell'evoluzione, come un corpo
perfetto e complicato sotto molti punti di vista ma anche pieno di imperfezioni e di compromessi
dovuti alla sua storia evolutiva, allora il punto di vista cambia e con esso anche il nostro approccio
alla medicina. Siamo in grado di spiegare la nausea e il vomito delle donne incinte come reazioni
adattative nel senso che inducono a evitare sostanze che possano in qualche modo essere dannose al
feto; possiamo interpretare il nostro disgusto per alcuni cibi perché essi contengono sostanze che il
nostro organismo recepisce come dannose. Allo stesso tempo bisogna cercare una spiegazione a
quei fenomeni che ci rendono estremamente imperfetti: perché la selezione naturale non ha
eliminato quei geni che permettono il deposito di colesterolo nelle vene determinando malattie
cardiovascolari e anche la morte; perché siamo golosi di cibi spesso nocivi e guardiamo invece con
sdegno verdure e farinacei, continuando a mangiare anche quando sappiamo di essere troppo
grassi?
Anche un virus, un batterio o qualsiasi agente infestante deve essere considerato come frutto
dell'evoluzione, rispondente alla selezione naturale, in continuo cambiamento, in relazione
filogenetica con altre specie (filogenesi). Contemporaneamente, le cause di una malattia dovrebbero
essere considerate nel loro insieme. Un qualunque individuo si ammala non perché un virus lo ha
infettato, ma perché il suo ambiente interno in quel momento era consono alle necessità del virus e
perché è venuto in contatto con un altro individuo malato che gli ha trasmesso questo agente
patogeno. In questa visione più ampia, valga il seguente esempio estremizzato. L'eutrofizzazione
delle acque costiere dovuta all'erosione, ai fertilizzanti usati in agricoltura, alle discariche urbane e
anche al riscaldamento del mare, determina fioriture algali che servono da terreno di coltura per il
vibrione del colera, in zone costiere di paesi in cui l'igiene e i servizi sociali in genere sono piuttosto
carenti. La scarsa assistenza sociale dovuta allo strozzamento economico dei paesi poveri (causata
del debito contratto con paesi più ricchi) fa sì che i governanti sottovalutino la portata del
fenomeno. Così il colera prolifera e miete vittime. Quest'ultimo esempio è estremo e mostra che
non solo in medicina è necessario un nuovo approccio in cui la teoria evolutiva abbia una giusta
collocazione, ma che un cambiamento di scala nel considerare i problemi è fortemente
raccomandato: così come non si può pensare che la causa di un'infezione sia semplicemente dovuta
alla penetrazione fisica di un virus, allo stesso modo non si può pensare di combattere un'epidemia
di colera solamente isolando le persone colpite. La teoria evolutiva può aiutare ad avere una visione
globale dei fenomeni, necessaria per poterne comprenderne i meccanismi.
Scarica