I neuroni specchio e la pedagogia dell`empatia

annuncio pubblicitario
I neuroni specchio e la pedagogia dell’empatia
( Il seguente articolo prende spunto da recenti studi di Carol Fagone )
La scoperta dei neuroni specchio è figlia di un evento fortuito. Rizzolati, Gallesi e Fogassi, neuro scienziati dell’università
di Parma, avevano attivato degli elettrodi inseriti nei neuroni della corteccia cerebrale di una scimmia al fine di studiare
l’attività neurale dell’animale mentre afferrava gli oggetti. La scoperta è arrivata quando Fogassi entrando nella stanza
dell’animale aveva preso in mano un chicco d’uva e nello stesso istante i neuroni della corteccia premotoria della
scimmia, che lo stava guardando, si sono attivati come quando era stato l’animale ad afferrare i chicchi. Successivi studi
tramite TSM ( Stimolazione Magnetica Transcranica) e f MRI (Risonanza Magnetica Funzionale) ne hanno dimostrato
l’esistenza anche in alcune zone chiave del cervello degli uomini, come la corteccia premotoria e le aree parietali
inferiori associate al movimento e alla percezione. Ma anche nel lobo parietale posteriore, nel solco temporale
superiore e nell’insula, le regioni del cervello deputate alla capacità umana di cogliere i sentimenti altrui e le intenzioni,
oltre che di usare il linguaggio . Queste cellule si attivano non solo quando eseguiamo una particolare azione, ma anche
quando osserviamo altri compierla. La caratteristica cruciale è dunque l’attivazione in risposta alla semplice
osservazione.
L’individuo ha una capacità innata e preprogrammata di interiorizzare, incorporare, assimilare, imitare gli stati di altre
persone, e i neuroni specchio sono la base di questa capacità. Infatti la scoperta dei neuroni specchio spiega molte cose
su come impariamo a sorridere, parlare, camminare, ballare e praticare sport. A un livello più profondo, indica quali
meccanismi biologici rendono possibile la comprensione del prossimo, il complesso scambio di idee che definiamo
cultura , ma anche disfunzioni psicologiche e
sociali come l’assenza di empatia e l’autismo.
Struttura semplificata del neurone, unità funzionale del sistema nervoso. Il
nostro cervello ne contiene circa dieci mila miliardi, diversi per dimensione
e forma. Tutti sono però costituiti da un corpo cellulare ( soma/pirenoforo)
dotato degli organelli necessari per svolgere le funzioni di base. Dal soma si
dipartono due diversi tipi di prolungamenti: i dendriti che ricevono i segnali
in entrata, e l’assone che porta il segnale in uscita fino al bersaglio.
All’estremità dell’assone vi sono i terminali assionici che contengono
mitocondri e vescicole membranose piene di neurotrasmettitori. Queste
estremità prendono contatto con le cellule bersaglio che possono essere
altri neuroni, ghiandole o muscoli. Il loro punto di incontro è detto SINAPSI.
Il neurone che rilascia il neurotrasmettitore è detto presinaptico e la cellula
che riceve è detta postsinaptica. Gli assoni sono rivestiti di una guaina
mielinica dal caratteristico colore biancastro, ricca di lipidi.
Nel 1998 G. Rizzolati e Arbib hanno scoperto che l’area di Broca, che ha un ruolo chiave nel linguaggio, è
particolarmente ricca di neuroni specchio. E con questo nuovo tassello la teoria del linguaggio secondo cui le azioni
hanno sintassi simile a quella del linguaggio parlato o della lingua dei segni, e la teoria dei neuroni specchio si sono
intrecciate.
Iacobini nel 2005 ha dimostrato che nell’uomo i neuroni specchio operano in gruppi ben definiti. Abbiamo un insieme
fondamentale di neuroni specchio corrispondenti alla forma essenziale di un’azione ( come muovere un braccio) , che
insieme si integra con altri gruppi di neuroni specchio che si attivano selettivamente in base alla finalità percepita
dell’azione ( esempio della tavola e del tè: afferro per ere, afferro per sparecchiare). In altre parole una stessa azione
può essere eseguita con finalità diverse. Inoltre i neuroni specchio sono in grado di rendere possibile la comprensione di
una azione anche quando essa non è completamente visibile. Mediante la simulazione, infatti, la parte nascosta
dell’azione può essere riconosciuta e il suo scopo inferito. Mentre se le azioni osservate non fanno parte del nostro
repertorio e quindi non possiamo nemmeno intuirne lo scopo, la simulazione lascia il posto a una descrizione
puramente visiva delle stesse. Pare quindi che vi sia uno stretto legame tra l’organizzazione motoria e la capacità di
comprendere le intenzioni altrui. L’attività coordinata dei sistemi neurali sensori-motorio ed affettivo dà luogo alla
semplificazione e alla automatizzazione del comportamento che permette agli organismi di sopravvivere e le emozioni
costituiscono una delle prime modalità di conoscenza disponibili. L’implicazione di questo processo per l’EMPATIA è
ovvio. In uno studio del 2003 di Wicker et al. è stato dimostrato che sia provare soggettivamente disgusto che essere
testimoni della stessa emozione espressa dalla mimica facciale di un altro attivano lo stesso settore del lobo frontale:
l’insula anteriore. Quando osserviamo l’espressione facciale di un altro, e questa ci conduce a identificare nell’altro un
determinato stato affettivo, la sua emozione è ricostruita, esperita e perciò compresa direttamente attraverso una
simulazione incarnata che produce uno stato corporeo condiviso dall’osservatore.
Quando lo specchio si appanna: l’autismo. Il possibile malfunzionamento dei neuroni specchio nei casi
di autismo è un’ipotesi particolarmente affascinante. Per molto tempo gli scienziati hanno cercato
invano la causa e la natura di questo disturbo. Ora sembra che l’inattività di questi neuroni possa
spiegare i profondi problemi di linguaggio, apprendimento ed empatia che causano l’isolamento
caratteristico delle persone autistiche. Gli studi più recenti indicano interruzione nell’attività dei mirror
neurons di base, sia di quelli complessi. Per esempio, i ricercatori della Harvard Medical School hanno
scoperto che i neuroni specchio attivi nelle persone non autistiche quando osservano un loro simile
compiere una azione priva di significato con le dita, si attivano con frequenza molto inferiore nei bambini
autistici. L’assenza di risposte rifletterebbe un difetto di una delle funzioni più elementari dei neuroni e
cioè riconoscere le azioni altrui. In un secondo studio, ad adolescenti autistici e non, venivano mostrate
immagini di persone con una caratteristica espressione facciale. I due gruppi di ragazzi potevano imitare
le espressioni e riferire quali emozioni esprimevano: gli adolescenti non autistici mostravano una
spiccata attività di neuroni specchio corrispondenti alle emozioni espresse, attività assenti nei coetanei
autistici che capivano le espressioni dal punto di vista cognitivo ma non provavano empatia. Non è chiaro
se e come da queste scoperte si possa o meno sviluppare una cura ma senza dubbio identificare questo
deficit è un grande passo avanti nella definizione dei fondamenti cerebrali dell’autismo.
La dimensione psico-pedagogica dei neuroni specchio.
Poiché l’uomo e le scimmie sono specie sociali, è facile comprendere il potenziale vantaggio evolutivo di un meccanismo
basato sui neuroni specchio che colleghi gli atti motori elementari a una più ampia rete semantica motoria,
permettendo così la comprensione diretta e immediata delle azioni altrui senza ricorrere a meccanismi cognitivi
complessi.
Neonati già a poche ore dalla nascita sono in grado di riprodurrei movimenti della bocca e del volto degli adulti che li
guardano. Il corpo del bambino a cui lui non ha accesso visivo, simula quindi correttamente quello dell’adulto, ma non
come arco riflesso.
È ovvio che i bambini così piccoli non posseggono alcuna capacità di simulare tramite inferenze, per cui deve esistere
una simulazione incarnata automatica fin dalla nascita. Questo processo intersoggettivo che continua e si espande per
tutta la vita potrebbe essere alla base del rispecchiamento materno di cui parla Winnicott (1967) e anche del concetto di
sintonizzazione affettiva di cui parla Stern (1985). A partire dai 10 mesi alcuni bambini assumono una espressione
preoccupata quando un bambino o un adulto piange, e nei mesi successivi essi fanno i primi generici tentativi di
conforto. Neonati di appena 12 mesi sono capaci di anticipare lo scopo di azioni compiute da altri se loro stessi sono già
capaci di compiere quelle azioni, il che dimostra che certe abilità cognitive dipendono dallo sviluppo delle abilità
motorie. Verso i 18 mesi l’intenzione di dare aiuto a chi soffre si esprime attraverso forme più precise. A 3-4 anni cresce
l’abilità di assumere il punto di vista di altri.
L’empatia, la capacità di lasciarsi coinvolgere dalle emozioni degli altri, è una competenza precoce, una sorta di
programma innato parziale come lo è il pianto o la sensibilità alla voce umana. In quanto programma parziale, però, ha
bisogno di essere esercitato e coltivato nel corso degli anni. Se si vuole che le prime tracce di empatia si consolidino in
forme di altruismo e solidarietà è necessario che i bambini vivano a contatto con persone altruiste e che siano da
queste incoraggiate i a capire i puti di vista diversi dal proprio. Alcune strategie e stili educativi empatici possono essere:
-
Promuovere giochi di ruolo, dove i bambini devono calarsi nelle parti e nei panni di altre persone per capirne meglio
caratteristiche ed esigenze.
Partecipazione attiva e promozione del pensiero altruistico: indurre il bambino a prendersi cura dei più piccoli o a
tener loro compagnia mettendo in evidenza i sentimenti degli altri ai suoi occhi
Imitazione: la famiglia è il primo luogo che il neonato incontra; sarà dunque portato a imitare, nei primi anni di vita,
i genitori e i fratelli, motivo per cui un clima affettuoso genera nel bambino desiderio di imitare le persone che lo
circondano.
In questo modo si avvia il bambino verso lo sviluppo di quell’intelligenza che Daniel Goleman (1995) chiama
“intelligenza emotiva”, cioè la capacità di trovare un equilibrio tra parte razionale ed emotiva della nostra mente,
utilizzando le emozioni per il supporto che possono dare senza lasciarsene condizionare e finirne schiavi. Caratteristiche
fondamentali sono: riconoscere i sentimenti altrui e propri, sapersi auto motivare fronteggiando le frustrazioni, gestire
positivamente i vissuti emozionali ( emozione=appraisal consapevole).
Dopo l’ambiente familiare il bambino incontra quello scolastico: un nuovo mondo non più racchiuso in quello
strettamente familiare, ma aperto a nuovi spazi sia fisici che affettivi e cognitivi. È qui che per la prima volta il bambino
può incontrare la tensione, lo stress e la frustrazione.
Verso una pedagogia dell’empatia.
Negli ultimi anni la psicologia umanistica si è molto impegnata a condurre studi e ricerche, creando i presupposti
concettuali per una nuova metodologia didattica grazie agli studi di Maslow, Rogers, e Gordon. Le loro metodologie
hanno come obiettivo la sana crescita della persona e il suo benessere psico-fisico sin dall’infanzia. Per raggiungere
questo fine è necessario educare all’affettività con l’affettività, avviando l’allievo a conoscere meglio le sue potenzialità
e a saperle utilizzare in un clima di rapporti interpersonali positivi.
Per Rogers, ad esempio l’insegnante non deve essere solo uno strumento per la trasmissione di nozioni e conoscenze
ma deve anzitutto essere una persona autentica che copra il compito di facilitatore che deve aiutare l’allievo ad
“imparare a imparare”, (concetto che richiama alla memoria BRUNER) in un clima di empatia e fiducia. Anche per
Gordon la relazione insegnante allievo è più importante dei contenuti culturali. Se l’alunno si sente incompreso o
umiliato dal comportamento dell’insegnante nei suoi confronti, anche le discipline più piacevoli possono provocare un
rifiuto alla cui base abbiamo demotivazione e disinteresse.
Per Jerome Bruner educare significa anzitutto trovare un equilibrio fra il benessere della comunità e l’indipendenza
dell’individuo e saper affrontare i conflitti con discussioni aperte e un forte spirito empatico. Per Bruner la tradizione
pedagogica occidentale rende poca giustizia all’importanza dell’intersoggettività nella trasmissione della cultura.
Secondo J. Bruner alla conoscenza bisogna arrivare attraverso l’intersoggettività, un processo interattivo in cui le
persone apprendono le une dalle altre attraverso la narrazione delle proprie esperienze e lo scambio reciproco di
informazioni. Infatti la realtà si costituisce attraverso i processi cognitivi del singolo individuo, ma anche del gruppo. Per
concludere i processi di apprendimento e insegnamento sono delle interazioni tra diverse visioni del mondo che si
incontrano in un preciso spazio e in quel preciso tempo. Quella di Bruner è pertanto una pedagogia della reciprocità che
pone al centro dell’attenzione un lavoro di interpretazione su ciò che i docenti attribuiscono alle menti degli allievi e su
ciò che questi ultimi attribuiscono alle menti dei docenti.
Proprio parlando di intersoggettività bisogna sottolineare che la simulazione incarnata ne costituisce un meccanismo
cruciale e i diversi sistemi di neuroni specchio ne rappresentano i correlati sub-personali: grazie alla simulazione
incarnata assistiamo a una azione/emozione/sensazione e parallelamente nell’osservatore vengono generate delle
rappresentazioni interne degli stati corporeo-mentali associati a quelle stesse azioni/emozioni/sensazioni, “come se”
stesse compiendo un’azione simile o provando una simile emozione. La simulazione incarnata è una delle componenti
alla base dell’intelligenza sociale.
Chi fece dell’empatia l’oggetto principale della sua ricerca fu Edith Stein, Allieva del filosofo Husserl. La filosofa vedeva
nell’empatia non solo un mezzo per aprirsi agli altri, ma anche, e soprattutto, per conoscere Dio. L’empatia non era solo
apertura alla relazione con l’altro, ma esperienza dell’altro dentro di sé, e dunque riconoscimento, come fisionomia
interiore, del bello, del vero e del divino. Inoltre per la Stein l’empatia è possibile solo se esiste una corrispondenza tra il
mio essere e l’essere dell’altro. L’empatia è il mezzo per incontrare gli altri, ma anche l’estremo limite oltre il quale non
è possibile andare, altrimenti si arriverebbe all’immedesimazione, all’unipatia, situazione irrealizzabile e utopica in
quanto gli esseri umani sono profondamente di versi e autonomi gli uni rispetto agli altri.
Già prima della Stein un altro filosofo si era occupato del tema dell’ Einfùhlung,empatia in tedesco, in termini però di
comportamento vicino alla pietà. Schopenhauer (Danzica, 1788-1861) è uno dei maggiori teorici di una concezione
pessimistica della vita. Nel 1818 pubblicò la sua opera principale: il mondo come volontà e rappresentazione in cui
espone il suo pensiero filosofico. Per Schopenhauer l’essenza profonda del nostro io, la cosa in sé del nostro essere è la
Volontà di Vivere ( Wille zum Leben), un impulso cieco e irresistibile che spinge a vivere e a esistere tutti gli esseri della
natura secondo diversi gradi di consapevolezza. L’uomo è vita e Volontà di vivere pienamente consapevole e il nostro
corpo altro non è che la rappresentazione esteriore delle nostre brame. L’intero mondo fenomenico non è altro che la
maniera attraverso cui la volontà si manifesta nella rappresentazione spazio-temporale. LA VOLONTA’ DI VIVERE E’ LA
RADICE NOUMENICA DELL’UOMO ED E’ L’ESSENZA SEGRETA DI TUTTE LE COSE, OSSIA LA COSA IN SE’ DI TUTTO
L’UNIVERSO. È una forza inconscia che spinge a volere, a voler vivere, a vivere la vita, cioè a volere sé stessa. È cieca,
irrazionale, unica, eterna, senza causa e senza scopo, pertanto non conoscibile mediante le categorie di spazio e tempo.
La vita, dunque, è manifestazione della Volontà, vivere è volere, e volere significa desiderare qualcosa che non si ha,
quindi trovarsi in un perenne stato di tensione e sofferenza. Questo è il presupposto per cui la vita secondo
Schopenhauer è dolore. Secondo il filosofo l’unico modo di mettere fine al perpetuare della Wille zum Leben sono le
tre vie di liberazione dal dolore: l’arte, la pietà e l’ascesi. Prenderemo qui in analisi la seconda via di liberazione: la pietà.
La pietà implica un tentativo di superamento dell’egoismo, e di impegno a favore del prossimo. Per Schopenhauer la
morale deriva da un sentimento di pietà, in virtù del quale noi proviamo gli stessi sentimenti di altri esseri viventi.
Attraverso la compassione ( dal latino: cum patior: soffrire insieme; in tedesco Schopenhauer preferiva infatti usare la
parola MITLEIDEN, soffrire insieme, più che Einfhùlung) l’uomo comprende che le sue e le altre sofferenze sono frutto di
una stessa realtà cioè di una unica Volontà di Vita. La morale si concretizza in due virtù: la giustizia ( che consiste nel
non voler fare agli altri il male che non vorremmo fosse fatto a noi) e la carità ( intesa come volontà positiva e attiva di
fare del bene al prossimo, come vero amore incondizionato e disinteressato). Nei suoi livelli più alti la pietà consiste
nell’assumere su di sé la sofferenza di tutti gli altri esseri, il dolore altrui riconosciuto come nostro. Ciò suppone che in
Un modo o nell’altro ci si identifica con il resto dell’umanità sopprimendo ogni differenza tra me e gli altri,
riconoscendoci come vittime in ugual modo e misura della volontà di vivere.
Raffaele Di Pasquale allenatore Uefa Pro
Scarica