Empatia e “neuroni specchio”: le basi dell`apprendimento emotivo.

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Empatia e “neuroni specchio”: le basi
dell’apprendimento emotivo.
“Provare empatia, mostrare un atteggiamento empatico, devi essere
empatico…”: quante volte i formatori hanno sentito consigli o
sollecitazioni in tal senso? Nel decalogo delle caratteristiche di un
formatore questa capacità ritengo sia posizionata molto in alto. Ho
voluto allora ripercorrere la storia di questa concetto/capacità, ed
ecco cosa ho trovato.
Innanzitutto alcune definizioni di empatia (em-in; pathos sentimento) che mi hanno molto colpito: per Karl Jaspers “quando
nella nostra comprensione i contenuti dei pensieri appaiono derivare
con evidenza gli uni dagli altri, secondo le regole della logica, allora
comprendiamo queste relazioni razionalmente; quando invece
comprendiamo i contenuti delle idee come scaturiti da stati d’animo,
desideri e timori di chi pensa, allora comprendiamo veramente in
modo psicologico o empatico”; per George H. Mead “l’empatia
richiede un assetto ricettivo che consenta di entrare nel ruolo
dell’altro, per valutare il significato che la situazione che evoca
l’emozione riveste per l’altra persona, nonché l’esatta interpretazione
verbale e non verbale di ciò che in essa si esprime”; per Carl Rogers,
nel rapporto terapeutico, “la comprensione non avviene a livello
“gnosico”, ma “patico”, dove determinate emozioni che non
appartengono ai propri vissuti possono essere valutate per estensione
delle proprie esperienze”; per Maurizio Stupiggia “l’empatia è
l’accesso al flusso vitale ed esperienziale delle altre persone, è un
costante lavoro di ricerca e adattamento delle proprie esperienze al
materiale che l’altro ci offre”. Anche la neurofisiologia, poi, ci viene
in aiuto per dare una base scientifica al concetto di risonanza
emotiva, tramite una grande scoperta fatta da un team di ricercatori
italiani (Fogassi, Rizzolatti e Gallese): i neuroni specchio.
Si tratta di neuroni specifici localizzati nel cervello che si attivano
sia quando si compie un’azione, sia quando la si osserva mentre è
compiuta da altri: i neuroni cioè dell’osservatore rispecchiano il
comportamento dell’osservato, come se stesse compiendo l’azione
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lui stesso (vedere non è, quindi, solo registrare passivamente
comportamenti, ma già da subito simularli a livello pre-conscio).
I ricercatori hanno ipotizzato che la vista del viso altrui che esprime
un’emozione attiva nell’osservatore gli stessi centri cerebrali che si
attivano quando è lui stesso ad avere quella specifica reazione
emotiva e hanno cercato di verificarne la validità.
Quindi il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul piano neurale
quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione
concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri.
Ma il teatro lo sapeva da tempo: infatti secondo Peter Brook (regista
e drammaturgo britannico) con la scoperta dei neuroni specchio le
neuroscienze hanno cominciato a capire quello il teatro sapeva da
sempre. Infatti il lavoro dell’attore sarebbe vano se egli non potesse
condividere, al di là di ogni barriera linguistica o culturale, i suoni e i
movimenti del proprio corpo con gli spettatori, rendendoli parte di
un evento che loro stessi debbono contribuire a creare. Su questa
immediata condivisione il teatro avrebbe costruito la propria realtà e
la propria giustificazione, ed è a essa che i neuroni specchio, con la
loro capacità di attivarsi sia quando si compie un’azione in prima
persona sia quando la si osserva compiere dagli altri, verrebbero a
dare base biologica. Collegando questi concetti alla formazione
possiamo quindi “scientificamente” risuonare insieme all’altro,
cogliendo, empaticamente, l’essenza dell’esperienza emotiva vissuta
dalle persone in apprendimento, inscindibile dall’esperienza logicorazionale.
DOTT.SSA FABIANA BOCCOLA
www.fabianaboccola.it
[email protected]
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