L`epistemologia positivista e la psicologia

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L’epistemologia positivista e la psicologia
Secondo l’epistemologia del positivismo si può dare vera conoscenza scientifica
soltanto attenendosi ai fatti. La legge dei tre stadi, formulata da A. Comte ma
accettata più o meno dalla totalità degli uomini di scienza, individuava lo sviluppo
dei saperi nella loro progressiva emancipazione da una impostazione magicoreligiosa prima e da una metafisica poi: soltanto l'approdo allo stadio positivo
poteva garantire alle scienze quello sviluppo che avevano conosciuto per prime la
matematica e la fisica a partire da Galileo, Cartesio e Newton. Lo stadio positivo non
è che quello in cui gli studiosi, abbandonata ogni pretesa di parlarci della sostanza
delle cose, il che li portava ad inventare le teorie più strane, si decidono una buona
volta ad occuparsi semplicemente dei fatti empiricamente osservabili (positus = posto
con certezza, inconfutabile), e a formulare ipotesi da chiunque verificabili. L'approdo
allo stadio positivo coinciderebbe perciò con il distacco dei saperi da un immediato
riferimento filosofico. L'ordine in cui le scienze giungerebbero a questo stadio, ordine
insieme logico e storico, sarebbe inversamente proporzionale alla loro complessità.
Si pensava perciò che la psicologia e le scienze dell'uomo, trattando le materie più
complesse, sarebbero giunte allo stadio positivo dopo le scienze naturali; i grossi
successi che a metà '800 stavano ottenendo le scienze biologiche faceva sperare che
poi sarebbe stata la volta della psicologia.
Lo sviluppo di una psicologia naturale, "positiva", e per ciò stesso scientifica, che
per la prima volta tende a precisare il proprio oggetto e a darsi uno statuto autonomo
rispetto alla filosofia, è quindi una conseguenza della mentalità dell'epoca. Si può
individuare in ciò anche un aspetto ideologico, per cui il pensiero umano deve poter
essere considerato un oggetto di scienza come qualsiasi altro, togliendo ad esso l'aura
che lo rendeva dominio esclusivo della filosofia in generale.
Al di là di ciò, comunque, resta il presupposto teorico comune alla cultura
positivista, espresso dalla legge dei tre stadi, che è quello della unità del sapere.
Ovviamente non si tratta di un'unità sistematica, come era quella delle grandi
costruzioni filosofiche, ma di un'unità di metodo: ogni oggetto di ricerca può essere
studiato allo stesso modo, che è poi quello delle scienze naturali.
Questo metodo, di cui quello di Galileo Galilei può dirsi il modello per eccellenza,
è insieme sperimentale e matematico. Il carattere sperimentale indica il riferimento
ai fatti di cui si è detto; va però aggiunto che nello sperimetalismo non vi è
semplicemente un richiamo generico all'esperienza: la natura, diceva Galileo,
va "interrogata" attraverso la costruzione di una situazione sperimentale in cui ogni
aspetto della realtà possa essere osservato indipendentemente, isolandolo dagli
altri con i quali si trova costantemente in relazione. Ciò è necessario al fine di
poter misurare con precisione il dato osservato; e qui sta l'altro aspetto del metodo
scientifico, dato che la misurazione è funzionale alla matematizzazione, la quale
costituisce, anche solo per la precisione del linguaggio matematico, la garanzia del
rigore scientifico delle ipotesi formulate.
Ora, per quanto riguarda la psicologia, i fatti di cui si tratta hanno la peculiarità di
essere fatti psichici, interiori: i problemi relativi alla loro osservazione e misurazione
non sono pochi, ma gli psicologi positivisti non li pensavano insuperabili.
Innanzitutto il loro riferimento teorico era quello della psicologia associazionista
dell'empirismo inglese, la quale era sì una psicologia filosofica, ma si prestava
assai bene ad essere riformulata in chiave sperimentale: era infatti una psicologia
degli elementi, che pensava i fatti psichici studiabili in modo analitico, così come
la fisica classica studiava i fatti materiali: riduceva cioè la loro complessità ad una
complicazione di elementi semplici, analizzabili separatamente, per poi individuare
le leggi secondo le quali essi verrebbero associati dalla nostra mente. Ad esempio,
l'idea di un oggetto, quale è il quaderno che ho sotto mano, sarebbe costruita dalla
mia mente a partire dalle "idee semplici" di una particolare consistenza tattile, di
un certo colore e di una opacità visiva, ecc., sensazioni che presentandosi sempre
congiunte nel tempo e nello spazio mi indurrebbero a rappresentarmi il loro insieme
come appartenente ad una cosa. Si trattava in altre parole di una sorta di atomismo
psicologico, che ben si adattava al programma di uno studio sperimentale: gli
esperimenti avrebbero dovuto isolare dapprincipio i fatti psichici elementari, come le
sensazioni, per individuarne con precisione le leggi di produzione.
Nonostante la sua fonte fosse l'empirismo inglese, comunque, la psicologia
positivista abbandonò le implicazioni metafisiche dell'empirismo, cui era giunto D.
Hume. Nella sua essenza quella filosofia poteva dirsi fenomenista, intendendo per
fenomenismo una forma di idealismo: il carattere di esistenza andrebbe attribuito solo
agli elementi psichici, essendo il mondo esterno una costruzione a partire da essi.
Ora, gli psicologi positivisti, che avevano un atteggiamento pregiudizialmente
antimetafisico, non s'interessavano alle questioni esistenziali: essi potevano sì
dirsi "fenomenisti" in quanto risultava strategico per loro poter studiare i contenuti
psichici senza considerare il loro riferimento a qualcosa che sta fuori dalla mente:
non è essenziale il collegamento fra la sensazione di rosso e l'oggetto rosso, per
esempio. Al tempo stesso essi potevano dirsi "materialisti" poiché s'interessavano
invece molto ai processi fisiologici che sono all'origine dei fenomeni psichici.
Quando Wundt aprì a Lipsia nel 1879 il primo Laboratorio di Psicologia, in
esso "continuarono ad essere studiati i medesimi problemi che da anni venivano già
studiati nell'ambito dei laboratori di fisiologia"1. L'importanza di quel
laboratorio "stava tutta nella sua denominazione ufficiale, che contribuiva a stabilire
l'indipendenza istituzionale della psicologia rispetto alle altre scienze biologiche"2.
La psicologia sperimentale si presentava dunque essenzialmente come una
psicofisica, fondata sul presupposto di un rapporto fra dati sensibili (corrispondenti
alle "impressioni" di Hume) e processi nervosi (dati dalla stimolazione del sensorio).
Qui si ripresenta, ovviamente, il problema dei rapporti fra mente e corpo; esso viene
risolto con la teoria del parallelismo psicofisico, per cui la vita mentale scorrerebbe
appunto parallelamente al corso dei processi fisiologici. Questo lascia aperti molti
problemi filosofici: la mente non è nient'altro che una sorta di epifenomeno del corpo?
Di che natura è la relazione fra eventi corporei ed eventi mentali? E così via. L'ipotesi
del parallelismo, tuttavia, consentiva di portare avanti insieme i due ambiti di ricerca,
affidandosi ad una sua conferma che avrebbe dovuto emergere dagli sviluppi della
fisiologia. La psicologia si configurava perciò come "una scienza del futuro"; e con
essa le altre scienze dell'uomo, che trattando delle relazioni fra varie "menti", la
presuppongono.
L'interesse per i processi fisiologici non era peraltro casuale. Esso era legato al
problema dell'osservazione dei fatti psichici e della loro precisa misurazione, due
elementi essenziali alla fondazione matematico-sperimentale della psicologia. Se non
si possono misurare direttamente i dati psichici, si pensava, li si può almeno misurare
indirettamente attraverso il loro correlato fisiologico.
Qui sta il senso della formulazione , risalente già al 1860, da parte di Fechner, della
legge psicofisica che da lui prende il nome. Secondo lui la misurazione poteva essere
fatta sullo stimolo che è all'origine della sensazione e che è facilmente quantificabile:
attraverso il valore numerico dello stimolo si deve poter trovare il valore numerico
della sensazione. Diminuendo lo stimolo di quel tanto necessario perché si avverta
una differenza a livello di sensazione, e ripetendo questo esperimento fino al livello
della soglia percettiva, si riscontrano due serie di successioni in decremento; e
contando, da una situazione di partenza, le volte che si applica il decremento, si
può dare un numero alle sensazioni. La "minima differenza percettibile fra due
sensazioni" diviene quindi l'unità di misura della sensazione. Naturalmente, a
1 Sadi Marhaba, Lo strutturalismo e il funzionalismo, in Storia della psicologia, a cura di P. Legrenzi, Il Mulino, Bologna, 1980,
p. 68.
2 Ivi.
garanzia della scientificità, si rende necessaria una matematizzazione, e la formula
generale fornitaci da Fechner è: s = k log. St, ove "s" indica la sensazione, "k" è
una costante diversa a seconda dei diversi campi percettivi (vista, udito, ecc.) e "St"
indica lo stimolo. Ricordo che il logaritmo di un numero è l'esponente da dare ad una
certa base per ottenere quel numero: y= ex; x = loge y. Se prendiamo come base "2",
ad esempio, avremo una successione del genere che appare in tabella:
2 = log2 4
3 = log2 8
4 = log2 16
ove la disparità delle successioni è facilmente comprensibile se pensiamo che per
percepire, ad esempio, una differenza di luce al buio è necessaria una differenza
di stimolo assai minore di quanta ne sia necessaria in una situazione di forte
illuminazione.
Tutto questo sembra mostrare che la mente è una molteplicità studiabile
matematicamente, e non stupisce che all'epoca paresse prospettarsi una sorta di
rivoluzione galileiana in psicologia.
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