Disagio e rischio

annuncio pubblicitario
DISAGIO E RISCHIO
1. Il disagio
1.1. Storia del concetto
La categoria del “disagio” cominciò ad affermarsi verso la fine degli anni '70 come chiave di
lettura della condizione giovanile più ampia e allo stesso tempo più, sfumata rispetto alle categorie
di devianza e marginalità fino ad allora prevalenti. Infatti negli anni ‘80 la devianza, in parallelo con
il cambiamento di atteggiamento generale, segnò “il passaggio da una forma di rifiuto violento del
sistema (terrorismo politico), a forme più adattive ad esso, nel senso che non si cerca di più di
combatterlo, ma convivere con esso, cercando degli spazi marginali alla vita sociale (marginalità
nel privato)” (Tomasi, 1986, 108). Ciò non eliminò il problema della delinquenza comune, che,
anzi, nel nuovo clima di disimpegno politico e sociale, trovò modo di espandersi ulteriormente, ma
il problema riguardava i giovani solo in modo marginale1.
Inizialmente il concetto appariva piuttosto privo di contenuti specifici: indicava piuttosto
uno stato di “malessere” che connotava genericamente la condizione giovanile. Si definiva perciò
come alternativa alle categorie “forti”, che apparivano ormai improponibili, proprio a causa della
mutata situazione storico-complessiva. Da quel momento, infatti, la “condizione giovanile” sembrò
sciogliersi in una pluralità di vissuti soggettivi altamente privatizzati, che ne decretarono
l'invisibilità sociale, con l'improponibilità di categorie di lettura universali. In questo contesto
l'introduzione del concetto di disagio non fece che confermare la posizione “debole” dei giovani
all'interno della società degli anni '80 e '90, cioè l'avvenuta marginalizzazione dei giovani
nell'ambito di una complessità crescente di sistema che rendeva difficili i protagonismi e
relativizzava le identità collettive (Neresini – Ranci, 1992, 23-24).
Il disagio nacque dunque come categoria interpretativa che rispecchiava 1'avvenuta perdita
di rilevanza delle problematiche giovanili o meglio la consapevolezza del fallimento del “grande
disegno” sociale e politico che le generazioni del '68 e del dopo '68 avevano concepito (Labos 1994,
43).
Solo in un secondo momento il disagio venne ricondotto ai vissuti problematici che
accompagnano le varie fasi che caratterizzano il percorso dei giovani verso l'età adulta, attraversando
le esperienze formative e lavorative, i rapporti con la famiglia e con i pari, la militanza politica e le
relazioni con le istituzioni.
Così articolato il concetto di disagio contribuì in maniera significativa a ridefinire le aree
semantiche che si rifacevano ai termini di devianza e marginalità, introducendo un altro concetto
nuovo: quello di “rischio” sociale. Associato al concetto di “rischio”, ha contribuito al superamento di
un'interpretazione rigidamente deterministica dei processi che possono portare alla devianza o alla
marginalità.
L'individuazione di popolazioni giovanili “a rischio” è proceduta di pari passo con l'analisi
della nuova condizione di “disagio”, intesa per lo più come la premessa costitutiva del rischio stesso.
Si è ampliata così la problematica inerente alle sequenze (in senso causale-lineare sistemico) che
legano tra loro disagio, rischio, devianza e marginalità (Labos, 1994, 44-45).
1 “Se alcuni giovani sono attirati dalle facili suggestioni di ricchezza e di potere da parte delle organizzazioni criminali, comuni e
politiche, va detto pure che la maggior parte di loro rifiuta tale mentalità di violenza, ma non sembra, nel medesimo tempo, motivata
all’assunzione di impegni di natura politica o sociale” (Tomasi, 1986, 109).
1.1.1. Definizioni di disagio nel contesto socio-culturale della condizione giovanile
Nei primi anni del suo impiego, in conformità alla sua storia e alla sua genesi, non ci fu
molta preoccupazione di definire il disagio. Il termine non appariva nei normali dizionari di
sociologia. Esso venne assunto per il valore d’uso che aveva2 ed venne impiegato per esprimere “un
arco variegato di vissuti problematici, collegati ai processi di complessificazione e di transizione
propri della nostra società” (Mion, 1990, 163).
Qualcuno, come il Labos, non si fece problema ad assumerne le definizioni contenute nel
Dizionario della Lingua Italiana (Devoto – Oli, 1990): “condizione o situazione sgradevole per
motivi morali, economici, di salute”, senso di molestia o d’imbarazzo”, “privazione, sofferenza”,
“mancanza di cosa necessaria od opportuna” (Labos, 1994, 41). Tale scelta rende conto
dell’indeterminatezza che ancora circondava tale termine in sede scientifica.
Esistono diverse definizioni di disagio, anche solo in campo .socio-culturale.
Esse riflettono, generalmente, anche le posizioni dei loro autori circa una lettura specifica
della condizione giovanile e contengono già implicitamente un'ipotesi circa i processi di
strutturazione del disagio e di «uscita» dal medesimo.
A titolo esemplificativo: «il disagio giovanile si può definire, almeno in via preliminare,
come la manifestazione presso le nuove generazioni delle difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi
che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell'identità personale e per
l’acquisizione delle abilità necessarie alla soddisfacente gestione delle relazioni quotidiane» (6).
In questa definizione si possono evidenziare alcuni elementi descrittivo-interpretativi che
rinviano a considerazioni generali sulla condizione giovanile e sul rischio di devianza e marginalità.
In primo luogo la problematica essenziale dei giovani viene identificata nelle difficoltà
connesse al conseguimento dell'identità personale (e non collettiva) e alla gestione delle relazioni
quotidiane (con forte accentuazione dell'area privata di tali relazioni).
CS) A questa critica ha portato contributi essenziali la teoria dello stigma (o «Label .
Theorye), in particolare attraverso gli studi di BECKER H.S. (Outsiders, Saggi di sociologia della
devianza, Torino, Ega, 1987), di MATZA D. (Come si diventa devianti, Bologna, - Il Mulino, 1976)
e di LEMERT E.M., (Deuianza, problemi sociali e forme di controllo, Milano, Giuffrè, 1971).
(6~ NERESINI F., RANCI C., O.C., pag. 31.
In secondo luogo il disagio è considerato in termini dinamici come una difficoltà inerente ai
compiti evolutivi, cioè come condizione di lunga durata e di ampia ramificazione all'interno del
vissuto adolescenziale e giovanile, dal momento che il periodo dell'apprendistato sociale tende a
diventare sempre più lungo e articolato, nell'ambito di una società che si fa sempre più complessa
ed esigente.
Inoltre gli autori citati avvertono che il disagio così inteso è poco visibile socialmente, nel
senso che in generale viene privatizzato, cioè vissuto nell'ambito dell'esperienza strettamente
personale o all'interno delle relazioni di piccolo gruppo, che hanno il potere di ammortizzare o
neutralizzare il potenziale esplosivo del disagio stesso, impedendo che si canalizzi verso la protesta
o la ribellione sociale.
Altro aspetto tipico è dato dal fatto che la strutturazione del disagio è in qualche modo
connessa a problemi di comunicazione specifici dell'età evolutiva, quando sono estremamente
importanti e decisivi i rapporti con gli «altri significativi» (7).
Infine nella posizione di Neresini e Ranci si accenna al rapporto tra disagio da un lato e
devianza e marginalità dall'altro, affermando esplicita-. mente che tale rapporto è caratterizzato da
sequenze variabili e solo probabilistiche.
2 “Il termine disagio sembra assumere una valenza più descrittiva che interpretativa, legata cioè maggiormente all’esigenza di
correlare sinteticamente fra loro le variegate manifestazioni di quello che oggi si configura come un diffuso stato di «malessere»
presente nei giovani “ (Mion, 1990, 163).
2
Altre definizioni riprendono i concetti fin qui identificati e aggiungono rilevanti
specificazioni.
Annotando il crescere di una forte «centralità soggettiva» nel vissuto giovanile, F. Garelli
(8) identificava il disagio nell'incapacità o impossibilità dei giovani di trovare una soluzione
soddisfacente, per l'identità personale, della contraddizione esistente tra tale centralità soggettiva e
la marginalità oggettiva che connota la vita dei giovani (o della maggioranza dei giovani). In altre
parole Garelli sostiene che il disagio consiste in una specie di dissonanza cognitiva (~) che appare
insolubile, tra ciò che i giovani percepiscono come possibile e ciò che percepiscono come
radicalmente negato dalla società. Viene qui introdotta l'importante variabile interveniente del
controllo sociale, esercitàto soprattutto dalle istituzioni che presiedono ai percorsi che portano i
giovani verso l'età adulta (farriglia, scuola, lavoro).
(7) E' evidente in questa indicazione il riferimento alle teorie dell'interazionismo simbolico,
concernenti-i processi di strutturazione del sé, attraverso la rete determinante di rapporti con
referenti esterni, più o meno ~~significativi».
C8) GABELLI F., I giovani della vita quotidiana, Bologna, Il Mulino, 1984.
C9) Cfr. FESTINGER L., Teoria della dissonanza cognitiva, Milano, 1978, 2» ed. l~~
Non meno importanti sono le indicazioni che invece esplicitano il ruolo della società
complessa nel creare disagio tra i giovani (10). Il disagio si configurerebbe infatti come incapacità a
vivere nella complessità, cioè a sostenere il peso della precarietà insito nell'eccessiva flessibilità e
aleatorietà dei percorsi, delle scelte, dei valori da parte di soggetti dotati di identità fragili, insicure,
ambivalenti.
Queste ed altre definizioni consimili rinviano globalmente ad una analisi più precisa delle
varie ipotesi che cercano di spiegare i processi di strutturazione del disagio, che a loro volta
contribuiscono a ridefinire il disagio in termini più precisi.
Attualmente esistono diverse definizioni di disagio, anche solo in campo socio-culturale.
“Esse riflettono, generalmente, anche le posizioni dei loro autori circa una lettura specifica della
condizione giovanile e contengono già implicitamente un'ipotesi circa i processi di strutturazione
del disagio e di ‘uscita’ dal medesimo” (Labos, 1994, 45). Ne riportiamo qualcuna a titolo
esemplificativo.
1.1.1.1. Disagio soggettivo e oggettivo
A) Un primo approccio la temine è generalmente di tipo soggettivo, in quanto richiama
vissuti esistenziali espressi mediante termini quali malessere, irrequietezza, insicurezza,
frustrazione: “per disagio giovanile si intende una particolare situazione di vita in cui si manifestano
sintomi di sofferenza, disadattamento, frustrazione che portano scompiglio e squilibrio nel vissuto
personale del giovane e nella sua vita di relazione” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31).
Qualcuno, indagando più a fondo sul significato del termine “disagio”, ne rintraccia la genesi
nella letteratura psicologica: “qualità esperienziale che può colpire i sentimenti, gli stati d'animo, il
pensiero e la volontà. Può essere provocato da situazioni esterne, ma il più delle volte sorge
dall'interno ed è in grado di raggiungere la sfera esperienziale conscia” (W. Arnold, 1986, cit. da
Mion, 1990, 165). Perciò viene precisato che “la sua origine, all’interno dell’individuo, ne indica
subito il carattere di sintomo della presenza di un non-equilibrio, di una situazione di tensione a
livello di identità personale e di relazione con gli altri, di manifestazione di bisogni non soddisfatti o
frustrati, soprattutto quelli attinenti alla propria identità e alla realizzazione del sé” (Mion 1990,
165).
La mancanza di sicurezza, indotta da una situazione sociale precaria e ambigua, darebbe
origine a “sentimenti di oppressione, di insicurezza, di paura, di ansia, proprio perché il conflitto fra
bisogni personali, compiti della vita sociale e mutabilità culturale dell'ambiente, costituisce di fatto
3
per molte persone un insieme di problemi che si presentano in modo urgente e ineludibile” (Mion,
1990, 166).
B) A fronte di questa situazione soggettiva ed interiore del soggetto, che corrisponderebbe
alla consapevolezza o auto-precezione di sé come persone inadeguate, c’è chi sottolinea “una serie
di situazioni o condizioni di vita che in qualche modo sono designate come presupposto (o come
causa) dei vissuti soggettivi” (Labos, 1994, 42).
La situazione di malessere dipenderebbe, secondo alcuni, dalla frustrazione di alcuni bisogni:
“Soggettivamente il disagio si manifesta, dunque, come un insieme di percezioni, emozioni e
sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di insoddisfazione più o
meno profonda nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane è chiamato a vivere”
(Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31).
Tali bisogni, non trovando un’accoglienza sul versante sociale, gettano l’adolescente in uno
stato di privazione e di frustrazione: “Oggettivamente il disagio ha le sue radici nella somma di
inadempienze, ritardi, tradimenti, incomprensioni di cui i giovani sono oggetto e che si sintetizzano
nell'incapacità della società a rispondere alle esigenze di crescita, di autorealizzazione e di
inserimento dei giovani” (Milanesi - Pieroni - Massella, 1989, 31).
Elementi tutti che fanno del disagio un qualcosa di simile all’emarginazione, come appare, per
esempio, in Mion (1990), dove il termine viene collegato a quello di “emarginazione”, in quanto
riconosciuto come frutto di situazioni emarginanti e, a sua volta, possibile causa di ulteriore
emarginazione e devianza.
Nei giovani tale realtà comporta un senso di “disorientamento, incertezza, perdita di
riferimenti valoriali, ansia, pressioni dall’esterno su una identità ancora in formazione e quindi
debole” (Mion, 1990, 175). Di conseguenza vengono toccati tutti gli altri ambiti che sono oggetto di
esperienza sociale da parte dell’adolescente ed intervengono sul suo processo di socializzazione:
sottosistema economico, formativo e familiare, per terminare con tutte le istituzioni “politiche,
religiose, il sistema di significati, di produzione di valori” (Mion, 1990, 180).
1.1.1.2. Disagio evolutivo o disagio strutturale?
Le ricerche hanno dimostrato che esiste un tipo di disagio ascrivibile piuttosto alla categoria
della frustrazione dei bisogni primari, ed un altro tipo di bisogno più collegato ad una situazione di
bisogni e/o valori postmateriali.
Questo è un tipo di disagio che non nasce da situazioni materiali deprivate, da marginalità
sociale e culturale, bensì dall’eccedenza delle opportunità, dall’abbondanza di beni di consumo, dal
centro e non dalla periferia del sistema socio-economico. L’abbondanza produce una situazione di
sofferenza diffusa o disagio “a-sintomatico”, cui mancano molti degli indicatori che una volta
definivano il disagio o la marginalità sociale.
Si tratta del disagio che nasce dalla mancata comunicazione interpersonale, dalla solitudine e
dall'isolamento che colpisce i giovani senza appartenenza, gli alienati e i culturalmente sradicati;
l'handicap e il disagio psichico e fisico; la deprivazione culturale; l'impossibilità e incapacità di certi
giovani ad accedere alle istituzioni (famiglia, chiesa,), o alle opportunità offerte dal sistema
economico-sociale e culturale, che possono andare dal tempo libero (attività sportive,
associazionismo, turismo, ecc.) alla cultura (Internet e i nuovi linguaggi) alla partecipazione sociale
(partiti, sindacati, associazioni, movimenti, ecc.).
Un certa parte di giovani ha difficoltà di adattamento all’interno della propria attività primaria
(in genere scolastica). Sovente queste difficoltà hanno un fondamento relazionale. Ciò significa che
questa dimensione psicologica è quella più fortemente correlata alle espressioni del disagio e della
devianza, sia come causa che come effetto. Molte di queste forme denunciano sia carenze di tipo
4
evolutivo della personalità sia situazioni poco favorevoli dovute al sistema sociale (Labos, 1994,
32).
Ecco allora emergere sempre di più la convinzione, tra gli studiosi, che gli adolescenti
privino disagio soprattutto nella soluzione di compiti di sviluppo: “il disagio giovanile si può
definire, almeno in via preliminare, come la manifestazione presso le nuove generazioni delle
difficoltà di assolvere ai compiti evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il
conseguimento dell'identità personale e per l’acquisizione delle abilità necessarie alla soddisfacente
gestione delle relazioni quotidiane” (Neresini – Ranci, 1992, 31).
In questa definizione si possono evidenziare alcuni elementi descrittivo-interpretativi che
rinviano a considerazioni generali sulla condizione giovanile e sul rischio di devianza e marginalità.
In primo luogo la problematica essenziale dei giovani viene identificata nelle difficoltà connesse al
conseguimento dell'identità personale (e non collettiva) e alla gestione delle relazioni quotidiane
(con forte accentuazione dell'area privata di tali relazioni).
In secondo luogo il disagio è considerato in termini dinamici come una difficoltà inerente ai
compiti evolutivi, cioè come condizione di lunga durata e di ampia ramificazione all'interno del
vissuto adolescenziale e giovanile, dal momento che il periodo dell'apprendistato sociale tende a
diventare sempre più lungo e articolato, nell'ambito di una società che si fa sempre più complessa
ed esigente.
Non meno importanti sono le indicazioni che invece individuano il ruolo della società
complessa nel creare disagio tra i giovani. Il disagio si configurerebbe infatti come incapacità a
vivere nella complessità, cioè a sostenere il peso della precarietà insito nell'eccessiva flessibilità e
aleatorietà dei percorsi, delle scelte, dei valori da parte di soggetti dotati di identità fragili, insicure,
ambivalenti. Altre definizioni riprendono i concetti fin qui identificati e aggiungono rilevanti
specificazioni. Annotando il crescere di una forte “centralità soggettiva” nel vissuto giovanile,
Garelli (1984) identificava il disagio nell'incapacità o impossibilità dei giovani di trovare una
soluzione soddisfacente, per l'identità personale, della contraddizione esistente tra tale centralità
soggettiva e la marginalità oggettiva che connota la vita dei giovani (o della maggioranza dei
giovani). In altre parole, Garelli sosteneva che il disagio consiste in una specie di “dissonanza
cognitiva” che appare insolubile, tra ciò che i giovani percepiscono come possibile e ciò che
percepiscono come radicalmente negato dalla società.
Lo sfondo appare contrassegnato da una situazione diffusa di anomia, “definita durkheimianamente
come frattura tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di diverse velocità di cambio.
Essa determina l'incapacità, da parte del sistema normativo, di governare il rapporto fra società e
individuo, in quanto esso non gode più della necessaria fiducia e legittimazione” ” (Mion, 1990,
180).
1.1.1.3. Disagio diffuso (a-specifico) o specifico?
A) Il fatto di indicare che il disagio dipende da ostacoli obiettivi al processo di sviluppo
dell’adolescente fa sì che questo venga riconosciuto a tutti gli adolescenti, in quanto tutti sottoposti
a processi di emarginazione e deprivazione (almeno relativa). Se gli atteggiamenti dei giovani
appaiono complessi e contraddittori, è perché stanno vivendo un disagio “sotto forma di sfiducia, di
angoscia nei confronti del futuro, di comportamenti adattivi, di rinuncia alla dimensione di
progettualità e di responsabilità individuale e collettiva” (Mion, 1990, 180). La diffusività di tali
problematiche e la loro insuperabilità consente ai giovani di rimanere nel campo della “normalità”,
senza entrare in quello della devianza. Tra conflitto ed emarginazione esisterebbe un campo
intermedio, che rappresenterebbe un continuum tra i due, costituito appunto dal disagio giovanile.
Sovente tale termine viene utilizzato genericamente, come sinonimo dell’adolescenza, per
indicare il disorientamento, il malessere e le difficoltà che un giovane incontra nel processo di
maturazione. Si tende infatti a connotare la stessa condizione giovanile, particolarmente quella
5
adolescenziale, come una situazione diffusa di disagio, come un periodo di difficoltà di adattamento
ad una società che, ai normali problemi di crescita, pone ulteriori ostacoli all'inserimento sociale
dell'adolescente e del giovane. In questo contesto il termine “disagio” può anche indicare la
difficoltà di trovare una soluzione soddisfacente per l’identità personale, la marginalità che però non
fa troppo problema, la difficoltà di reggere il gioco della flessibilità, l’ambivalenza delle scelte e dei
percorsi, la fragilità e l’insicurezza personale. Il procedere dell’adolescente, già caratterizzato da
accelerazioni e discontinuità, è reso ancora più difficile dalle attuali condizioni sociali, per cui il
disorientamento, il malessere e una certa devianza sembrano ormai costitutivi del processo di
maturazione. Si tende pertanto a connotare questo periodo come una situazione diffusa di disagio,
come un periodo di difficoltà di adattamento ad una società che, alle normali difficoltà di crescita,
pone ulteriori difficoltà all’inserimento sociale dell’adolescente e del giovane. Tali autori finiscono
per avallare una situazione di dissoluzione della condizione giovanile in un quadro generico
disagevole. Anzi secondo qualcuno vanno ridiscusse le classiche descrizioni dei processi di
socializzazione (come quelle di Talcott-Parsons), di costruzione dell’identità, come quelli di
Erikson, o di età di passaggio, come descritto da Blos (Pieretti, 1996, 29).
B) Tuttavia, pur potendo riconoscere a tutti i giovani delle società complesse una certa dose di
"disagio", non tutti sono d’accordo ad applicarlo indiscriminatamente e genericamente a tutti, quasi
fosse una nuova categoria dell’agire sociale, ritenendolo non corretto dal punto di vista storicoculturale né funzionale ad un intervento specifico. Garelli (1999, 871-881) suggerisce di evitare un
uso generico del termine “disagio” come categoria per leggere la condizione giovanile,
distinguendo tra disagio della grande maggioranza dei giovani da quello dei giovani cosiddetti “a
rischio”, in quanto non è vero che i giovani di oggi hanno maggior difficoltà di inserirsi nella
società adulta rispetto ad altri tempi. Quest'idea diffusa però contribuisce a deresponsabilizzare
ulteriormente i giovani e ritardare, di fatto, il loro inserimento sociale. Inoltre, equiparando tutti i
giovani sullo stesso livello, penalizza i veri "svantaggiati" che non hanno risorse sufficienti per
emergere da una situazione di marginalità personale e sociale.
1.1.1.4. Disagio sintomatico o a-sintomatico?
A seconda di come il disagio viene definito, prevalgono anche accentuazioni diverse rispetto
agli indicatori del disagio.
A) Se si rimane entro una nozione di “disagio diffuso”, risulta difficile rinvenire degli
indicatori adeguati del disagio3. Il disagio così inteso è poco visibile socialmente, nel senso che in
generale viene privatizzato, cioè vissuto nell'ambito dell'esperienza strettamente personale o
all'interno delle relazioni di piccolo gruppo, che hanno il potere di ammortizzare o neutralizzare il
potenziale esplosivo del disagio stesso, impedendo che si canalizzi verso la protesta o la ribellione
sociale.
Si parla allora di un disagio in cui mancano molti degli indicatori che una volta definivano il
disagio o la marginalità sociale. Questo “disagio a-sintomatico” si qualificherebbe con “una
molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per quanto riguarda la storia dei
singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una condizione ultima di disagio.
Quindi la condizione di malessere/disagio non più come risultato di uno specifico e circoscritto
ambito di impatto o di squilibrio del soggetto rispetto alla società che lo circonda, in una immagine
evolutiva di bisogno, bensì come sommatoria di un percorso di microsituazioni di rottura il più
delle volte difficilmente classificabili e ponderabili (Guidicini – Pieretti, 1995, 17).
3 Mion afferma che “tali forme di disagio sfuggono ad una quantificazione precisa, proprio perché tale disagio si riferisce in prima
istanza ad una somma di vissuti soggettivi che includono sofferenza, frustrazione, insoddisfazione ed alienazione riferibili
genericamente all'insieme delle condizioni obiettivamente difficili che pesano sui processi di maturazione personale e di inserimento
sociale dei giovani” (Mion, 1995, 52).
6
Questa “asintomaticità” del disagio, cioè “assenza di precisi legami tra quelle che sono le
condizioni di disagio […] e la presenza a monte di meccanismi in quanto cause scatenanti”
(Guidicini - Pieretti, 1995, 13), renderebbe difficile la definizione di disagio, la sua misurazione ed
infine l’individuazione di misure di prevenzione, contenimento e contrasto. Certamente la
percezione di come i giovani vivono il disagio chiede di “spostare l’interesse sull’informale, sulla
cultura, sullo psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema
relazionale” (Guidicini - Pieretti, 1995, 21).
B) Il termine “disagio” avrebbe così assunto una valenza semantica così ampia, da
precluderci ogni possibilità classificatoria. Per questo alcuni propongono di non abbandonare
totalmente l’uso dei termini classici, “emarginazione” e “devianza”, in quanto “è rischioso
confondere il disagio (che è un vissuto interiore, relazionale e sociale) con la devianza (che è
comportamento) solo perché nell’attuale sistema sociale vi è grande incertezza rispetto alle norme”
(Masini, 1992, 74).
Altre volte, in un tentativo di restringerne il campo semantico, il termine disagio viene
impiegato come concetto comprensivo (e sostitutivo) di "disadattamento". Qualcuno, infatti, ha
provato ad indicare i sintomi di scarso adattamento emotivo, riconoscibili in alcuni fattori di
comportamento negativistico o antisociale, come: atteggiamenti di tipo oppositivo e di riluttanza a
collaborare, difficoltà comunicativa, umore facilmente alterabile, scarsità di motivazioni, notevole
dipendenza dagli altri, ansietà, malinconia, ipereccitabilità, sensi di colpa, eccessiva timidezza,
scarsa autostima, isolamento, spavalderia, esibizionismo, intolleranza, aggressività fisica e verbale,
resistenza a conformarsi alle norme, incapacità di dilazionare la gratificazione immediata, difficoltà
di percezione realistica, ecc. Tutti sintomi in qualche modo riconducibili ad un quadro psicologico
alterato se non addirittura patologico (Mion, 1990, 168). Anche la sindrome di “vuoto esistenziale”,
mancanza di significato, noia viene in qualche modo riconosciuta come segnale di disagio.
Infine c’è chi, volendo introdurre una gradazione di importanza, tende a definire “disagio” i
problemi generici dell’adolescenza, e “comportamenti a rischio”, quelle condotte che possono far
pensare a situazioni del tipo “devianza primaria”. In questo caso il termine rischio verrebbe a valere
“devianza”, ma senza l’inconveniente di prestarsi a meccanismi di “etichettatura”.
Oppure si parla di disagio “conclamato” (Labos, 1994, 249) per intendere un disagio che ha
segni chiari che lo distinguono dal normale disagio adolescenziale.
Questa serie di osservazioni rende conto delle difficoltà di applicare una terminologia
adeguata a quei comportamenti e situazioni che un tempo rientravano nella devianza. Cosicché
qualcuno ha parlato anche del “disagio interpretativo”.
1.1.2. Le forme del disagio
1.1.2.1. Normalità o patologicità
Una prima distinzione tra diverse forme di disagio implica anche una diversa interpretazione
teorica del medesimo. Si tratta della coppia “normalità/patologicità”.
I due termini sono ovviamente molto ambigui o, quanto meno, ambivalenti. Ciò spiega il fatto che
vi sono diverse interpretazioni della “normalità/ patologicità” del disagio; vi si intrecciano l'analisi
socio-culturale e quella psicologica.
Secondo un primo approccio il periodo adolescenziale è caratterizzato “normalmente” da
discontinuità, fratture, conflitti che possono essere accentuati dalle dinamiche problematiche della
società complessa. In questa situazione il “rischio” è sempre presente; esso è considerato come una
premessa probabilistica di comportamenti patologici (psicologicamente parlando) e/o devianti e
marginali.
Si parla a questo proposito di “patologia latente”come definizione corretta del rischio.
7
Ma in questo contesto il “rischio” è considerato come un fenomeno normalmente fronteggiabile sul
piano educativo-terapeutico.
Esso si tramuta in disagio ed evidenzia più alte probabilità di evolvere verso patologie psicologiche
o sociali solo in presenza di emergenze esterne (la “complessità” sociale, appunto, con i suoi effetti
immediati sui processi di socializzazione).
Questa posizione è abbastanza diffusa tra gli psicanalisti e tra quanti sostengono una lettura
“discontinuista” dello sviluppo adolescenziale. Un secondo approccio sostiene invece che il periodo
adolescenziale è caratterizzato per la maggioranza dei soggetti da uno sviluppo nel segno della
«continuità» e da costante capacità di identificazione ed individuazione (17). In questo contesto il
disagio di origine sociale (vedi complessità...) è normalmente assorbitile dalla maggioranza degli
adolescenti e giovani per i quali il rischio di patologia psicologica o sociale è ridotto o nullo.
Il rischio è reale solo per gli adolescenti per i guaii 1a transizione è «tumultuosa» (18) a causa di
problemi psicologici dovuti a traumi, esperienze negative irrisolte, fragilità ecc.
(17)
LurrE G.,
Sopprimere l'adolescenza.? Torino, EGA, 1984.
(18)
OFFER D.,
et alii, The Teenage World,~ Adolescents' Self. Image in ten Countries, New York, Plenum Press, 1988.
Secondo il primo approccio la variabile interveniente (elemento catalizzatore che favorisce la
cortocircuitazione disagio-rischio) si_identifica con fattori socio-culturali,-mentre per il secondo
approccio essa si identifica con fattori psicologici.
Il problema del disagio adolescenziale-giovanile è dunque quello della transizione; si tratta di un
disagio di tipo evolutivo, nel senso che si identifica con le difficoltà che gli adolescenti e i giovani
(tutti o alcuni) sperimentano, in misura più o meno grande, nel tentare di gestire il cambiamento
della propria personalità, nel quadro di una situazione “esterna” certamente problematica.
La transizione resta pertanto aperta ad esiti diversi, condizionati (non deterministicamente)
dall'interazione complessa tra fattori di tipo blc~grafico_psic_ologico e socio-culturale, che danno
come risultato una diversificata capacità dell'adolescente-giovane di gestire il mutamento personale
verso una possibile identità matura ed una relazionalità aperta.
1.1.2.2. Globalità o specificità
Una seconda ipotetica tipologia del disagio giovanile potrebbe essere costruita sulla distinzione tra
disagio generalizzato ed aree specifiche di disagio. caratterizzatili in base a variabili descrittive.
In una ricerca sulla condizione giovanile condotta in una città italiana di media grandezza (19) si
proponeva una tipologia del rischio, da cui si potrebbe per analogia trarre indicazioni per una
tipologia del disagio. Il criterio organizzativo di tale costrutto teorico era offerto dagli ambiti
esperienziali dei giovani, per cui si parlava di rischio psico-fisico, familiare, educativo, sociale ecc.,
in rapporto ai contesti in cui il rischio si verificava.
Operazione analoga può essere tentata anche per il disagio, utilizzando come riferimento le aree in
cui esso può essere individuato analiticamente (vedi paragrafo successivo).
Resta però da giustificare questa scelta sul piano teorico, in quanto non è evidente che le forme
ipotetiche del disagio settoriale siano sostenibili da costrutti logici consistenti; è invece più
plausibile l'ipotesi dell'esistenza prevalente di un disagio globale, indifferenziato, generalizzato.
(19) Cfr. MILANESI G., Giovani e città. Percorsi giovanili a rischio. Brescia, Assessorato della Pubblica Istruzione,
Comune di Brescia, 1984.
Y
Forse è anche possibile prevedere una tipologia di forme distinguibili di disagio a partire dalle
caratteristiche differenziali dei giovani stessi, dove le ipotesi dovrebbero formularsi in base alle
differenze di genere, di età, di estrazione sociale, di livello formativo ed occupazionale ed altre
'
8
ancora che giovano nel connotare le esperienze dei giovani e nel condizionarne i percorsi verso l'età
adulta (20).
1.1.3. I luoghi del disagio (aree problematiche)
Luoghi o aree dove si manifesta o crea più facilmente disagio sono inerenti diversi segmenti di
vita degli adolescenti e dei giovani.
Neresini – Ranci (1992)
Labos (1994)
Gioventù come processo
Lo svantaggio psico fisico
Percorsi scolastici
Transizione difficile
Ingresso vita adulta
Guidicini – Pieretti (1995)
l’immagine di sé e del proprio
mondo
Lo svantaggio socio-economico il sistema di valori
e culturale
Gli incidenti di percorso nella la scuola e la dimensione
carriera scolastica
occupazionale
La transizione scuola-lavoro
L'incerto ingresso nella vita
adulta
Le frustrazioni della vita di la famiglia
relazione
i rapporti di coppia
il tempo libero ed i consumi
Identità giovanile e complessità Il condizionamento esercitato rapporti con la comunità, la
sociale
dal micro e dal macroambiente società, le istituzioni
associazionismo e volontariato
La tossicodipendenza
trasgressione e droga
Fonti: Neresini - Ranci, 1992, 37-69; Labos, 1994, 53-59; Guidicini – Pieretti, 1995, 32-41
2. La categoria del “rischio”
Vista la grande incertezza ed ambivalenza sul concetto di “disagio”, cerchiamo di
restringerne il campo semantico, accostandolo a quello di “rischio”.
2.1. Storia del concetto di rischio
Il termine rischio è parola relativamente recente nel vocabolario dell’occidente. Sembra che
nasca nelle lingue spagnola e portoghese, nei secoli XVI e XVII, per indicare la navigazione in
acque ignote (Giddens, 2000, 36). Si diffonde ad altri ambiti, per esempio quello bancario per
valutare il calcolo delle probabilità di certe decisioni di investimento, oppure in ambito
commerciale, come valutazione dei “rischi” connessi con il trasporto di merci per mare.
Successivamente la valutazione dei “rischi” passa all'ambito dell'epidemiologia e della medicina e
cambiano anche i termini in questione: “Invece di parlare di pregiudizi finanziari provocati dalla
perdita della merce trasportata, l'attenzione è focalizzata sulla persona stessa in quanto è valutata la
9
probabilità di perdita della sua salute a causa dei condizionamenti di fattori che la rendono debole.
Invece di riferirsi alla possibilità, la medicina usa il termine ‘probabilità’ di perdita della salute e
anziché fare riferimento al concetto di pericolo si parla di ‘rischio’ come predisposizione alla
malattia” (Caliman, 2000, 20-21).
In campo sociale, nei secoli XVIII e XIX, tale concetto venne applicato per distinguere la
situazione degli ultimi immigrati (irlandesi, ebrei e italiani) negli Stati Uniti. Nell'opinione dei primi
immigrati (del Nord Europa), gli ultimi arrivati avevano costumi diversi che costituivano una
minaccia per il gruppo già stabilito. In seguito, in base alle teorie ambientaliste, la deprivazione
cessò di essere ricercata nelle ragioni genetiche e venne vista come deprivazione culturale, causata
dall'assenza di stimoli ambientali: i deprivati sono i figli di famiglie povere e minoritarie. Questa
concezione finì per colpevolizzare la famiglia o i gruppi minoritari per la loro differenza culturale. Il
problema non si poneva in termini di deprivazione da una determinata cultura, ma di socializzazione
diversa nella cultura minoritaria fino allora ritenuta deprivata. A partire degli anni '70, si cominciò a
parlare più precisamente di situazione di rischio anziché di deprivazione culturale (Caliman, 1997,
126).
2.1.1. La revisione del concetto di devianza
L’assunzione del concetto di rischio nell’analisi sociale fu una conseguenza delle critiche
mosse alle classiche definizioni di devianza da parte dell’ “interazionismo simbolico”. Secondo tale
teoria, l’uomo è collocato in un “universo simbolico”, dove il significato delle sue azioni e del
mondo che lo circonda è conferito dalle reazioni verbali e mimiche dei propri simili, in una
situazione fluida, in continuo divenire. L’esistenza si traduce in un’attività definitoria e conoscitiva
che vede l’individuo impegnato a decifrare, decodificare, strutturare i segni e le simbologie
dell’ambiente attraverso una negoziazione intersoggettiva sempre aperta. La realtà viene
costantemente “costruita” e rimodellata dagli attori sociali coinvolti nelle svariate interazioni
formali e informali della vita quotidiana. In questo contesto la definizione di norma viene messa in
discussione: non esistono valori assoluti o norme valide una volta per tutte.
In base a questi nuovi approcci, stesso concetto di devianza viene rivisto. Le situazioni che
erano tradizionalmente definite come “devianti” vengono svelate nella loro dinamica interattiva: è
l’attività definitoria della società che rende certe azioni “devianti”. Un ruolo fondamentale ha il
processo di “etichettamento” per strutturare una personalità “deviante”. Di conseguenza “la
devianza ‘non’ è una qualità dell’atto che la persona commette, ma piuttosto la conseguenza
dell’applicazione, da parte degli altri, di norme e sanzioni che qualificano il soggetto come
‘delinquente’: il deviante è un soggetto al quale questa etichetta è stata applicata con successo;
comportamento deviante è il comportamento che la gente etichetta come tale” (Becker, 1963, 9)
L’introduzione della distinzione tra “devianza primaria” e “devianza secondaria” è di
fondamentale importanza per capire il processo di costruzione dell’identità deviante. Al
compimento di atti “devianti” (devianza primaria) da parte dell’adolescente, più per effetto della sua
iperattività e del bisogno di distinguersi dall’ambiente e di esprimere la sua autonomia, segue un
processo di etichettamento da parte della società. A questo punto, quelli che erano solo degli atti
gratuiti, senza scopo, diventano delle azioni strutturanti. Il soggetto che non ha altre possibilità di
affermare se stesso, a causa della deprivazione culturale e sociale, si identifica (identità negativa)
nelle azioni stigmatizzate dalla società e ne fa la sua identità definitiva (devianza secondaria). La
devianza secondaria, è quindi, il risultato dell’interazione fra l’aspetto psico-sociale dell’azione
deviante e del suo autore e l’effetto sociopsicologico della reazione sociale intesa sia nella
dimensione simbolica che in quella istituzionale.
Questo tipo di approccio ai fenomeni devianti si affermò in Italia tra la fine degli anni ’70 e
gli anni ‘80, grazie all’opera di diffusione di De Leo, ma anche a nuovi indirizzi di ricerca,
10
influenzati dall'antipsichiatria e dalla teoria della comunicazione. Ciò portò ad un ripensamento
critico della tradizione del pensiero criminologico e a tentare nuove metodologie d'intervento e
d'analisi.
2.1.2. Il termine rischio come alternativa al termine devianza
Con la critica rivolta dall’interazionismo simbolico al termine “devianza” e al processo
attraverso cui si diventa devianti, ogni attività definitoria su comportamenti precedentemente
definiti come devianti, divenne assai ardua. Su ogni attività classificatrice, necessaria per l’attività
scientifica, incombeva sempre la minaccia dello stigma sociale, e quindi di contribuire a produrre,
attraverso l’etichettamento, quella devianza che si voleva combattere. Ad aggravare la situazione
concorreva anche l’aumento di complessità sociale e di pluralismo etico, che rendeva difficile
determinare le situazioni di reale devianza o marginalità, che avevano senso solo in situazione di
normativa chiara (devianza) o di rapporto centro-periferia (marginalità). In questa situazione di
indeterminatezza sociale, divenne d’obbligo adottare termini che conservassero un alto livello di
indeterminatezza. Attraverso il termine “rischio” si volle indicare uno stato non ancora definito di
“devianza”, che, se affrontato adeguatamente, poteva evitare il passaggio da una devianza primaria
ad una secondaria e definitiva.
2.2. Tipologie di rischi della gioventù
Pertanto il termine rischio divenne sostitutivo di “devianza” soprattutto quando si trattava di
“minori”, cioè di persone con un’identità non ancora definita, che dal processo di etichettamento
riceverebbero un rinforzo verso l’assunzione di un’identità negativa. Pertanto parlando di “minori a
rischio”, s’intende generalmente un’area della popolazione (adolescenza) che pone sfide
problematiche alle istituzioni (famiglia, giustizia, scuola); sono le sfide stesse ad essere lette da
operatori e studiosi come situazioni a rischio, inteso come probabilità che si verifichino eventi
indesiderati, negativi. È proprio in un’ottica educativa, preventiva o di recupero, che viene
impiegato il termine “rischio” invece che devianza. “La rilevanza del concetto di rischio è legata al
fatto che esso è ormai affermato come criterio selettivo fondamentale nell’impostare politiche di
prevenzione. Questa nozione è stata utilizzata sia sul versante delle condizioni e delle cause dei
problemi sociali (fattori di rischio, indicatori di rischio) e sia sul versante dei soggetti che sarebbero
“esposti”in modo critico ad esse (soggetti, aree, categorie…a rischio)” (De Leo, 1996, 136).
Essendo stato adottato da tipi di analisi che hanno obiettivi educativi o politici di
prevenzione e di recupero, il termine venne esteso a tutto quell’ambito che in qualche modo rendeva
difficile o altamente improbabile un esito positivo della maturazione personale, oltre che minacciare
la società. Pertanto vennero attribuiti vari significati al termine rischio.
2.2.1. Rischio di devianza
Il rischio di devianza si connette al concetto stesso di devianza. Però, rispetto alla devianza
classica, il rischio di devianza se ne differenzia per una minor strutturazione. Questo per evitare,
secondo la lezione dell’interazionismo simbolico, di stigmatizzare chi infrange occasionalmente la
norma: comportamento che produrrebbe solo una radicalizzazione ed interiorizzazine dell’identità
deviante. Infatti, il vero deviante non è colui che ha infranto la norma, ma chi lo ha fatto in maniera
visibile e ne ha ricevuto una sanzione sociale (stigma), per cui il suo status diventa irreversibile.
11
Pertanto il “rischio di devianza” è una situazione in cui chi ha infranto una norma “lo ha fatto
solo occasionalmente, o comunque non è ancora entrato nella spirale della stigmatizzazione”
(Milanesi, 1984, 439). Il rischio consiste nella probabilità che dalla devianza primaria si possa
passare ad una devianza secondaria, cioè in una serie di “atti di affiliazione e di stigmatizzazione,
tendenti a provare l'accettazione (almeno iniziale) da parte del deviante di una definizione negativa
degli atti compiuti” (Milanesi 1984, 440).
2.2.2. Rischio fisico
Il concetto di rischio fisico, è connesso con lo stato di salute, intesa come “condizione
ottimale di funzionalità bio-fisiologica che permette un armonico sviluppo della personalità
complessiva del giovane” (Milanesi, 1984, 452). La salute è il presupposto fondamentale per le
possibilità di autorealizzazione e partecipazione.
Il rischio per la salute comprende i seguenti livelli progressivi di rischio:
1. esposizione a comportamenti altrui presumibilmente dannosi alla salute (es. fumo
passivo);
2. sintomi di salute precaria nel soggetto;
3. malattie pregresse nella storia clinica dei famigliari o del soggetto stesso;
4. comportamenti considerati gravemente dannosi per la salute del soggetto (abitudini
alimentari, uso incontrollato di medicinali, abuso di alcool e stupefacenti, condotte
rischiose, ecc.). Quest’ultimo tipo di rischio si collega con il rischio di devianza.
2.2.3. Rischio consumistico
Il rischio consumistico è legato essenzialmente allo sviluppo del consumo come
conseguenza del miglioramento delle condizioni materiali dell’uomo contemporaneo; alle esigenze
dell’economia basa sull’espansione dei consumi; alla logica dell’apparire che prevale su quella
dell’essere; all’uso massiccio di oggetti status-symbol per definire la propria posizione sociale e la
propria identità4.
Tale dinamica si giocherebbe prevalentemente nel tempo libero, interpretato “secondo una
modalità di fruizione che implica un certo pericolo di svuotamento delle opportunità di crescita
personale e sociale” (Milanesi, 1984, 458).
Il tempo libero, secondo Dumazedier (1978), infatti, può avere valenze autorealizzative e
promozionali, come anche ludiche o compensative. Ma il tempo libero viene troppo spesso vissuto
come tempo separato dal tempo “occupato”, cioè dal tempo “forte” del vissuto quotidiano (nel caso
dei giovani dal tempo dedicato allo studio, al lavoro, alla famiglia). Si tratta di una separatezza che
implica anche una evidente contrapposizione: non è raro, infatti, il caso che il tempo libero venga
considerato dai giovani come il tempo "vero", quello in cui è possibile costruire la propria identità.
Da questa dicotomia tra tempi e illusione libertaria nasce il rischio consumista, che “si
configura quando il tempo libero, vissuto nella separatezza e nella contrapposizione rispetto al
4 Questo problema è connesso con il fatto che alcuni oggetti, azioni-simbolo son connessi con la definizione di status e di ruolo e
che oggi tali definizioni sono continuamente posti in discussione. Loredana Sciolla accenna alla "moltiplicazione dei criteri di
classificazione [...] ciò significa che uno stesso individuo, in base a certi criteri , può essere collocato in basso in alto e, in base a certi
altri criteri, in basso nella gerarchia di status". Inoltre "se da un lato un individuo non può essere definito in modo univoco a partire
dalla sua collocazione sociale e professionale, dall'altro anche i simboli materiali di status ( il quartiere di residenza, il modo di
vestire, ecc.) sono sottoposti a rapidi mutamenti e comunque non bastano ad eliminare l'insicurezza di status [...]. Più in generale si
potrebbe dire che ogni individuo ed ogni gruppo nella società moderna sono continuamente sottoposti a richieste di identificazione,
ossia a richieste di specificare e definire i propri attributi e i propri confini" (Sciolla, 1983a, 61).
12
tempo totale dell'esperienza quotidiana offre solo (e necessariamente) occasioni di divertimento e
relax che hanno lo scopo di reintegrare e omologare alla società dei consumi, secondo modelli che
sono appunto funzionali ad essa e da essa elaborati”(Milanesi, 1984, 460)
In questo tipo di socializzazione avviene una canalizzazione coatta dei bisogni secondo
modelli consumistici, dove “il giovane è chiamato solo a consumare cultura, gioco, festa, relax e se
fosse possibile anche tutto lo spazio della sua socialità, senza mai essere stimolato a produrre tutto
ciò in forma più costruttiva” (Milanesi, 1984, 461). Inoltre anche molti comportamenti devianti
(tossicodipendenza ed alcoolismo in primo luogo) rispondono alla stessa logica.
2.2.4. Rischio formativo
Il rischio formativo si verifica quando “il ragazzo vive il rapporto con le agenzie di
formazione in modo problematico, cioè sulla base di una generalizzata incertezza, sfiducia,
incoerenza di orientamenti” (Milanesi, 1984, 468).
Questa situazione indica uno scollamento con le agenzie di formazione. Questa si risolve in
atteggiamenti negativi verso l’istituzione scolastica (ripetenze, concezione negativa della scuola); o
verso l’istituzione familiare (discrepanze valoriali, mancanza di sostegno, abbandono), o nella
lontananza da altre istituzioni sociali (es.: Chiesa, associazionismo, volontariato, offerte culturali,
ecc.), che potrebbero migliorare il rapporto dei giovani con la società e con se stessi.
2.2.5. Rischio relazionale
2.2.6. Rischio esistenziale
2.3. Recenti approcci interpretativi al rischio
Con l’andare del tempo l’intento dei critici della devianza venne annullato ed il termine
“rischio” subì un processo di ridefinizione, divenendo sinonimo di “devianza”: i comportamenti a
rischio venne di fatto “stigmatizzati” come “devianti”. Con l’intento di liberarlo da questa visione
negativista, negli anni ’90 furono condotte significative operazioni culturali volte a restituire al
“rischio” il suo significato originario e a considerarne le nuove valenze che stava assumendo nella
nostra società e le potenzialità che esso poteva rivestire per i singoli. Queste risignificazioni del
concetto di rischio possono essere classificate, dal punto di vista sociologico, secondo tre
prospettive: il rischio in quanto voluto dall'individuo (approccio psico-sociale empirico); in quanto
prodotto dalle decisioni che l'individuo deve continuamente prendere per sopravvivere nella società
moderna (approccio sistemico); e in quanto inadeguata relazione tra sfide e risorse (approccio
relazionale)5.
5
Seguiamo la classificazione proposta da Donati (1990) e utilizzata da Caliman (1997, 126-129).
13
2.3.1. L'approccio psico-sociale empirico
Questo approccio tratta il rischio come attività spontaneistica. Lyng (1990, 851-886) spiega la
ricerca di queste sensazioni come una sperimentazione del rischio nelle loro modalità più estreme:
Poiché la società moderna accentua le costrizioni (tra burocrazia, controllo, stress e ultrasocializzazione), l'individuo rifiuta la passività e cerca di compensare il vissuto personale nella
ricerca del self. Realizza l'individualità attraverso strade diverse: il consumo narcisistico, i giochi al
limite, la velocità, l'inaspettato. Il rischio volontario costituisce il modo con il quale molti soggetti
cercano se stessi e una connotazione soggettiva di risposta ai determinismi sociali, vincoli e
pressioni esterne. Lyng individua nell'assunzione di comportamenti altamente rischiosi due modelli
interpretativi: quello della predisposizione della personalità e quello della motivazione intrinseca.
Il primo modello spiega l'assunzione del rischio volontario come conseguenza di una
caratteristica della personalità. Alcuni cercano il rischio (personalità narcisistiche, `stress-seekers',
`sensation-seekers'), altri li respingono (introversi, fobici). Tale modello non spiega, però, i motivi
per cui i soggetti vogliano correre il rischio.
Il secondo modello, quello della motivazione intrinseca, interpreta l'assunzione del rischio
come una sfida che l'individuo fa a se stesso, per valutare le proprie capacità di fronte ad una
situazione rischiosa. I comportamenti più comuni sono le attività di “edge-work” (azione al limite)
del quale gli ‘sky divers’ costituiscono un esempio emblematico. In queste azioni si intraprende una
sfida tra il senso ordinato che l'individuo trova in se stesso e nell'ambiente e la ricerca dei confini del
disordine nel self e nell'ambiente; tale sfida è una risposta alla domanda di sensazione e al bisogno
di esplorazione di se stesso e dell'ambiente.
Se, da una parte, si intende il rischio come ricerca di sensazione e come risposta al bisogno di
esplorare se stesso e l'ambiente, dall'altra lo si può intendere come una risposta alle pressioni sociali.
Per chi si considera un `sopravvissuto' nella società, per chi afferma di non avere più niente da
perdere, il rischio diventa un comportamento normale. In queste condizioni esistenziali vivono molti
giovani colpiti da disagi profondi come la droga, l’abbandono (i ragazzi della strada) e la
marginalità accettata.
2.3.2. L'approccio sistemico o (post)moderno
Un altro approccio interpretativo - di ispirazione anglosassone e tedesca6 - considera il rischio
come una caratteristica intrinseca alla società della seconda modernità. Con la globalizzazione
aumentano le conoscenze e le opportunità, ma il quadro si fa sempre più confuso e indecifrabile.
Da questo punto di vista è interessante la soluzione proposta da Luhmann (1996). L'autore
considera il rischio in base alla distinzione tra rischio/pericolo e non a quella tra rischio/sicurezza.
La ricerca di sicurezza aumenta i rischi; il pericolo è una possibilità oggettiva di danno che dipende
piuttosto da decisioni altrui, mentre il rischio che proviene dalla ricerca di sicurezza, richiama decisioni proprie di un sistema che assume il rischio o la probabilità di subire dei danni. I criteri di
razionalità non si applicano al rischio se vi sono elementi che non la permettono facilmente: la
logica delle decisioni, il contesto e il futuro. Il deficit di razionalità o la razionalità limitata
dell'agire rischioso fa sì che la percezione e la valutazione dei rischi siano puramente soggettivi,
mancando condizioni per un consenso in base all'esperienza: “Non è possibile un calcolo razionale
dei rischi [...] e non esiste [...] alcuna decisione che non sia rischiosa” (Donati, 1990, 24).
Il rischio è una conseguenza dello stile odierno di vita ed esige capacità di decisione continua:
“il fatto che i rischi […] vengano generalmente accettati come tali dalla gente costituisce un
importante aspetto della divisone fra mondo premoderno e mondo moderno” (Giddens, 1990, 130).
6
Cfr. gli studi di Giddens (1994), Luhmann (1996), Beck (1999), Baumann (1999).
14
“Rinunciare ai rischi significherebbe rinunziare alla razionalità, specialmente nelle condizioni
odierne” (Luhmann, 1996, 23). Pertanto, saper rischiare è una condizione essenziale per il successo
in una società sempre più competitiva e sempre meno garantita.
2.3.3. L'approccio relazionale
Un altro tipo di approccio, denominato “relazionale” da Donati, interpreta il rischio come
frutto di una relazione inadeguata tra sfide e risorse: “il rischio consiste nell'esistenza di uno
squilibrio, ovvero nella mancanza di adeguatezza relazionale (mancato accoppiamento-incontrodialogo) fra sfide e risorse in un sistema relazionale (interno-esterno) complesso” (Donati, 1989,
170). L'attore, individuo o sistema, si sente situato da un contesto che non è in grado di offrirgli le
risorse appropriate, per accedere alle proprie aspirazioni. Si stabilisce una situazione di squilibrio tra
le sfide attirate dai bisogni e la scarsità, l'inadeguatezza o l'incongruenza delle risorse. Sfide e risorse
possono essere analizzate come provenienti dall'esterno o dall'interno. Le sfide provenienti
dall'esterno riguardano soprattutto quelle offerte dalla struttura sociale, che si trasformano per 1'
adolescente in una domanda di educazione, di formazione professionale, di cura della salute, di
lavoro, di appartenenza a un gruppo, di vestirsi d'accordo con la moda, ecc. Nel secondo caso, le
sfide interne toccano la soggettività, cioè la capacità di risposta del soggetto alle domande sociali e
individuali di adattamento e di formazione.
Il rischio, o l'inadeguatezza fra sfide provenienti dalla società e le risorse personali e sociali,
siano esse di origine esterna (oggettiva) o interna (soggettiva), può essere osservato utilizzando tre
modelli distinti ma complementari: (a) il modello dei bisogni, in quanto l'insoddisfazione di certi
bisogni può innescare il rischio; (b) il modello delle transazioni, per analizzare le circostanze in cui
le domande poste all'individuo eccedono la sua capacità di risposta, avviando una crisi; e (c) un
modello delle transizioni, che permette di focalizzare i rischi inerenti ai cambiamenti inattesi
durante i quali il soggetto deve ridefinire la sua posizione nel sistema al quale appartiene.
Il rischio considerato è visto anche nel suo aspetto positivo in quanto può motivare il desiderio
di superamento delle sfide, offrendo così una opportunità di crescita del soggetto. L'approccio
relazionale si mostra più generale e comprendente anche gli aspetti oggettivi esterni e indipendenti
dall'individuo, oltre che gli aspetti soggettivi interni.
2.4. Applicazione empiriche del concetto di rischio
Queste nozioni di rischio trovano applicazione in varie ricerche giovanili. Molti
comportamenti adolescenziali e giovanili ricadono entro la nomenclatura dei “comportamenti a
rischio”. Ora, se “l’assunzione di rischi è un comportamento comune tra gli adolescenti” (Plant Plant, 1996, 151), “negli ultimi anni […] il distacco si è acuito” (Cavalli - de Lillo, 1993, 179). Per
cui, nelle stesse ricerche IARD è stata introdotta, dal 1996, anche la valutazione della componente
di rischio nella vita dei giovani. Dagli esiti “appare preoccupante la ricorrenza di alcuni comportamenti che possono potenzialmente mettere a repentaglio la salute e la sicurezza dei giovani. In
particolare può essere notato come la guida spericolata caratterizzi l'esperienza di più di un terzo
dei giovani del campione, che alla guida in stato di ebbrezza non sia del tutto estraneo un giovane
ogni sette e che un quinto del campione ammetta esplicitamente di aver corso dei rischi nei rapporti
sessuali (le incidenze tra i soli maschi di 18-24 anni sono notevolmente superiori). In altra parte del
testo è evidenziata l'esposizione alle droghe e all'alcol: il trend che emerge appare registrare un
forte aumento, negli ultimi quattro anni, della contiguità del mondo giovanile alle sostanze
psicotrope” (Buzzi – Cavalli – de Lillo, 1997, 91).
15
L’analisi del perché, a seconda delle varie ricerche, i giovani assumano tali comportamenti, ci
riporta alle classificazioni del rischio già analizzate. Esse possono offrire degli spunti per
un’eventuale impiego interpretativo.
2.4.1. L'approccio psico-sociale empirico
Secondo il Terzo Rapporto EURISPES, l’assunzione di comportamenti a rischio è
prevalentemente addebitabile alla ricerca di sensazioni particolarmente eccitanti: “Molti adolescenti
sono attratti da comportamenti ‘spericolati’ che soddisfano il desiderio di vivere sensazioni nuove
ed eccitanti: questo fenomeno è noto come sensation seeking, ossia ricerca di sensazioni forti.
Spesso tali condotte sono sostenute da un atteggiamento di ottimismo ingiustificato, basato sulla
credenza di essere immuni dal pericolo e dall'egocentrismo caratteristico dell'adolescenza. Per un
adolescente affrontare sfide che tendono a superare le sue normali capacità è funzionale all'esigenza
di ‘sentirsi adulto’ e permette di lenire le ansie legate ai cambiamenti di questo delicato momento di
crescita. Il legame con il gruppo dei pari, inoltre, fornisce il ‘teatro’ ideale per la messa in atto di
comportamenti trasgressivi, attraverso i quali il/la ragazzo/a dimostra il proprio valore e si sente
accettato. La situazione di gruppo, inoltre, facilita un abbassamento nella percezione dei pericoli
insiti in una determinata situazione” (EURISPES, 2002, 140).
Anche in uno studio, promosso in Italia dalla Fondazione Corazin e affidato ad un’equipe di
psicologi sociali guidata da Castelli (1994), vennero monitorate le esperienze del limite in
discoteca, roccia e deltaplano secondo questa prospettiva. L’esperienza del limite, secondo gli
autori, viene assunta, da coloro che affrontano il rischio, come fonte di conoscenza, ottenibile
attraverso la prova sul corpo, che richiama analoghe esperienza di culture primitive. Attraverso
queste esperienze limite l’adolescente arriva a conoscere meglio se stesso, contribuendo con ciò a
definire la propria identità. “E’ l’accettare il rischio di assumersi il ruolo del potere istitutivo della
situazione nella quale si possono sperimentare i sé possibili” (Castelli, 1994, 15).
Inoltre, essendo attività condotte davanti ad un pubblico, diventano una forma di
presentazione di sé agli altri. In discoteca l’esibizione continua anche dopo l’uscita da tale ambiente
nelle strade, dove, il dare prova di sé attraverso la guida spericolata, non viene distinto
dall’esibizione in discoteca. Virtuale e reale si fondono nella mente del guidatore (e sovente anche
della compagna), impedendo di valutare oggettivamente le situazioni e di compiere un calcolo
adeguato tra rischi e probabilità di successo.
2.4.2. L’approccio sistemico o (post)moderno
In una società del caos i giovani si presentano con comportamenti più spontanei che nel
passato, più liberi ed indipendenti. Ciò comporta una maggior esposizione al rischio. Per loro la
violazione della norma non costituisce un comportamento riprovevole, bensì un’accettazione della
sfida insita in una situazione pericolosa, un modo per affermarsi e realizzarsi. La propria
affermazione nel mondo e la definizione dell’identità passa sovente attraverso delle prove di
coraggio, di sfida, di confronto col limite.
Secondo alcune interpretazioni degli autori dello IARD, molte delle condotte a rischio degli
adolescenti sono riconducibili al modello “(post)moderno” del rischio. Infatti, l’assunzione di
rischio è vissuta dai giovani come caratteristica intrinseca di molti ruoli, da quello professionale (o
scolastico) a quelli relazionali ed affettivi. Di qui la tendenza ad assumersi sempre più rischi da
parte dei giovani e a non calcolare le conseguenze dei loro gesti. Essa sembra “convalidare l'ipotesi
che vi sia una significativa relazione tra la valutazione positiva della capacità di accettare dei rischi
16
come mezzo di successo con la percezione di affrontare, volontariamente e frequentemente, pericoli
o situazioni che possono compromettere la salute o la sicurezza della persona (Buzzi – Cavalli – de
Lillo, 1997, 91-92).
La diversa percezione del rischio segnala lo spostamento di prospettiva da un orientamento
verso traguardi di sicurezza ad obiettivi nei quali trova spazio il mettersi in gioco e il non
accontentarsi. L'etica del successo sembra avere, in altre parole, contagiato larghe masse di giovani
che appaiono consapevoli che il saper rischiare faccia parte delle abilità che la società attuale
richiede a chi vuole farsi strada nella vita.
2.4.3. Rischio e reversibilità delle scelte
L'accettazione consapevole del pericolo può essere sostenuta, secondo gli autori delle ricerche
IARD, solo in concomitanza con un secondo assunto esistenziale, che appare largamente condiviso
dai giovani: ogni comportamento per essere desiderato deve essere revocabile; si possono anche
compiere scelte rischiose nella convinzione però che non siano irreversibili. “È sotto questa ottica
che si spiega il forte aumento dell'esposizione alle droghe e all'alcool e la propensione a compiere
azioni dannose per la salute e l'incolumità fisica: agirebbe, infatti, la convinzione che qualsiasi
comportamento, se sottoposto al controllo dell'attore, perde, o riduce di molto, il suo, potenziale di
pericolosità. Ma non è solo questo: la tensione alla reversibilità delle scelte, modello di riferimento
dominante di una società incerta e contraddittoria, sembra accompagnare il giovane anche nelle
decisioni importanti che dovrebbero condizionare il proprio futuro. È probabile che il
procrastinamento di alcune scelte cruciali, quali il matrimonio o la procreazione, abbia origine dal
fatto ché si pongano come eventi irreversabili” (Buzzi, Cavalli, de Lillo 1997, 92-93).
Sono i caratteri elitari, collegati agli ambienti di maggior sviluppo socioeconomico, a
massimizzare tale tendenza. Tendenza che con il passare degli anni si fa più pronunciata: si rafforza
il relativismo etico, la preferenza a non compromettersi e a rimandare le scelte impegnative. “La
reversibilità, quando è applicata alle decisioni importanti della vita, pone tuttavia un limite
all'accettazione del rischio come strumento di successo: scelte che consentano ampie vie di fuga
sembrano piuttosto motivate da una certa prudenza (o da un certo timore)” (Buzzi – Cavalli – de
Lillo, 1997, 93).
Se è vero che rischiare costituisce un’esperienza tipicamente giovanile, oltre che specifica
della società post-moderna, ciò si combina con caratteristiche di personalità o ambientali, che
possono dare ragione delle diverse posizioni assunte rispetto al rischio.
2.4.4. L'approccio relazionale
Meno evidente appare l’applicazione dell’approccio relazionale al concetto di rischio. Però ad
esso sembra possibile ricondurre alcune ricerche su rischio e disagio in ambito socio-pedagogico.
Un’autore che l’ha fatta propria è stato Caliman (1997), il quale a sua volta ha utilizzato concetti e
metodologie provenienti da altre ricerche. Ciò dimostra come anche ricerche che non avevano
assunto tale prospettiva, possano rientrare in questo tipo di classificazione. Questo ci servirà per una
migliore comprensione e classificazione del rischio.
A] Rischio oggettivo o sociale
Un’opera dove il concetto di rischio venne assunto nella sua ambivalenza di carenza di risorse e
nello stesso tempo come possibilità di sviluppo, è la ricerca “Giovani e città” (Milanesi, 1984), che
reca come sottotitolo appunto “Percorsi giovanili a rischio”. Tale ricerca, promossa
17
dall’Assessorato alla Pubblica Istruzione e Gioventù del Comune di Brescia tra i giovani compresi
tra i 14 e i 19 della città, fu una ricerca che contribuì in maniera significativa alla elaborazione del
concetto di rischio, come sinonimo di devianza primaria, applicata alla gioventù.
Il primo significato che venne attribuito al rischio fu quello di “deprivazione” o deficit di risorse
necessarie alla vita fisica o culturale. Tale tipo di rischio venne denominato rischio sociale.
Esso si presentava come una “situazione in cui vengono frustrate o negate le opportunità
ragionevoli di soddisfazione dei bisogni fondamentali” (Milanesi, 1984, 422). Tale situazione è
costituita innanzitutto da “una certa disgregazione del territorio (in termini di degrado fisico ed
abitativo, di destrutturazione del tessuto sociale e della partecipazione, di crisi dei processi di
produzione collettiva di senso)” (Milanesi, 1984, 426).
Ma anche da situazioni tipiche della condizione giovanile che possono diventare fattori di
rischio, come l’emarginazione, “che minaccia tutti i giovani e che colpisce selettivamente i meno
garantiti ed attrezzati tra essi” (Milanesi, 1984, 427), la negazione del potenziale innovativo, cioè la
frustrazione della “capacità di produrre cultura relativamente autonoma rispetto ai modelli condivisi
dalla società adulta” (Ibidem, 427-428), ed infine, la “massificazione dei processi di socializzazione,
attraverso la canalizzazione dei bisogni adolescenziali/giovanili verso comportamenti stereotipi soprattutto nel tempo libero” (Ibidem, 428).
Tali situazioni venivano collegate al rischio, in quanto ostacolo serio alla costruzione di identità
individuali e collettive ben strutturate.
B) L’aspetto interno del rischio (soggettivo)
Oltre alle caratteristiche sopra indicate del rischio, esso ha anche una componente interna, in
quanto “la soggettività dei giovani è incessantemente capace di elaborare (individualmente e
collettivamente) risposte adattative, reattive e/o proattive più o meno funzionali al ‘bisogno di
significato’ emergente dalle problematiche condizioni di vita (emarginazione ecc.) in cui sono
chiamati a vivere” (Milanesi, 1984, 429).
I giovani, attraverso cui i giovani, attraverso le letture soggettive e adattive, aumentano la
probabilità di rischio, già presente i certe situazioni oggettive. Esse sono: “una distorta percezione
delle proprie condizioni esistenziali, in particolare dei fattori di rischio; una cultura del privato,
incline a interpretare solo in modo individualistico-consumistico le varie esperienza di vita; una
cultura dell'irrazionalità che denota sia una certa incapacità a utilizzare realisticamente le risorse
disponibili e a destinarle alla realizzazione e all'espansione della socialità, sia una certa tendenza
all'uso di meccanismi di adattamento di tipo evasivo, aggressivo, supercompensativo” (Milanesi,
1984, 431). E’ proprio grazie a queste letture che il rischio oggettivo diventa “reale” e viene
trasformato “in un fattore soggettivamente disfunzionale, rispetto alle possibilità di
autorealizzazione e partecipazione” (Ibidem, 431).
Pertanto il rischio è “soggettivo quando ha le sue radici all'interno del soggetto e riguarda
piuttosto gli atteggiamenti, le decisioni, i disturbi psichici personali” (Caliman, 1997, 132).
Ma oltre al filtro interno, Caliman rileva il ruolo della società e dell’ambiente, nella (non)
strutturazione di questo filtro. “Il giovane si trova spesso dinanzi a offerte valoriali deboli o a
pseudo-valori. Oltre al nucleo familiare, il gruppo dei pari funziona come un filtro interattivo delle
proposte valoriali del sistema sociale (mass media, modelli di riferimento, moda, atteggiamenti). Se
problematico, l'ambiente familiare e gruppale può funzionare come rinforzo non soltanto degli
pseudo-valori, ma anche dei comportamenti devianti. Per non sentirsi escluso dal gruppo dei pari,
l'adolescente si adegua ai valori e atteggiamenti in esso assunti, incorporando una personalità a
basso profilo valoriale. Inoltre, esistono tendenze culturali, per lo più negative, che si sviluppano nel
territorio, sia nel gruppo dei pari sia nell'ambiente in genere, che alimentano il rischio di
emarginazione e di devianza” (Caliman, 1987, 133).
A questo ruolo possono essere ricondotti anche i precedenti modelli di rischio. Essi
costituiscono un background culturale, che può indurre l’adolescente, privo di una scala di valori
consolidata, ad assumere quella della cultura dominante.
18
A questo tipo di rischio possono essere ascritte alcune indicazioni emerse da altre ricerche: Un
sistema di valori dominante che intende la vita “come ricerca del piacere, dell’avventura,
dell’eccitazione e della novità […], i modelli edonistico-consumistici della società industriale moderna,” (Labos, 1994, 26). Oppure l’assenza di indicazioni valoriali o di linee di crescita ed
inserimento sociale a causa di una “società evanescente” (Guidicini – Pieretti, 1995, 245), o
“anomica […], a-morale, […] eticamente neutra” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
Così pure l’appartenenza a subculture devianti o marginali, secondo le analisi classiche della
devianza americana (Clowhard ed Ohlin, Cohen) può favorire l’introiezione di valori e norme di
comportamento non funzionali alla maturazione personale ed alla partecipazione/protagonismo
sociale.
Tutti questi elementi, come i precedenti, diventano a loro volta fattori o indicatori di rischio.
3. Fattori di disagio/rischio
Il rischio sociale può essere ricondotto a quello che nella letteratura corrente viene definito
anche come “fattore di rischio o di disagio”.
Il vocabolo “fattore” proviene dal latino `factor', che significa “autore”, “creatore” e richiama
una causa, una condizione o “ciò che concorre a produrre un effetto” (Zingarelli, 1995).
Nell'accezione adatta alla nostra analisi, lo intendiamo come una condizione negativa (come la
frequenza a gruppi che fanno uso di droga, la destrutturazione della famiglia, l'insoddisfazione per
l'ambiente familiare, la mancanza delle risorse di base, ecc.) che favorisce la produzione del disagio
o rischio. Esso ha le sue origini in una situazione oggettiva che costituisce un effettivo impedimento
alla soddisfazione di uno o più bisogni ritenuti fondamentali e, al limite, alla propria
autorealizzazione. Esso può essere definito, con un linguaggio mertoniano, come “uno scarto tra le
mete proposte dal sistema sociale e i mezzi disponibili per raggiungerle, teoricamente messi a
disposizioni per tutti i soggetti” (Caliman 1997, 135). Allo scarto si aggiunge la difficoltà
relazionale avvertita dal soggetto, il quale viene sfidato a raggiungere le mete proposte dalla cultura
senza poter accedere alle risorse promesse.
Un fattore di rischio costituisce prevalentemente un elemento negativo, una condizione
oggettiva e soggettiva di disagio che, da solo o in associazione con altri fattori, può comportare la
probabilità di risvolti patologici, in atto o potenziali, nella forma dell’emarginazione e della
devianza, e in questo senso i fattori di rischio funzionano come indicatori di rischio di devianza.
A seconda dei vari approcci, si possono ricavare diverse accezioni e altrettanti fattori il cui
concorso comporta una situazione di rischio. Le ricerche in genere identificano questi fattori
secondo criteri distinti: per area di analisi (rischio di devianza, fisico, consumistico, formativo); per
la sua natura (psicologica, economica); a seconda dell'ambito in cui essi si manifestano nel sistema
sociale (economico, sociale, relazionale, culturale).
Alcune ricerche tendono al rilevamento del “rischio sociale” nella condizione giovanile,
familiare e sociale; altre tentano di spiegare attraverso il rapporto causa-effetto le correlazioni tra
determinati fattori di rischio sociale e l'esito della devianza e della marginalità. Nel primo caso si
tratta di ricerche descrittive basate sul rilevamento delle situazioni di rischio sociale e di disagio ed
in esse il concetto di rischio sociale si avvicina a quello di disagio. Nel secondo caso si tratta di
ricerche esplicative in cui si cerca di verificare il nesso causale tra rischio e devianza/marginalità, e
di individuare il rischio specifico «di devianza», o “di marginalità”.
19
3.1. Fattori di disagio/rischio generici
Tra i fattori descrittivi vengono abitualmente menzionati quelli che si riferiscono alle
difficoltà di vivere e crescere nell’attuale tipo di società.
Due sembrano essere, tra i fenomeni sociali più citati, quelli maggiormente responsabili del
disagio giovanile: “il prevalere di processi di socializzazione frammentari, confusi ed incerti
all'interno della società complessa, ed il carattere di transitorietà problematica dell'età
adolescenziale/giovanile” (Labos, 1994, 47). Questi fenomeni appaiono tra loro strettamente
interconnessi. Il fenomeno della transitorietà problematica è specifico della fascia di età in esame,
mentre gli effetti ambivalenti della società complessa incidono su tutta la popolazione.
Il problema centrale della società complessa sembra dunque essere quello della sua governabilità,
cioè della sua “riduzione ad unità” delle appartenenze, dei punti di riferimento e dei sistemi di
valore. Le conseguenze di questo quadro problematico sono rilevanti soprattutto a livello culturale.
Con la conseguente relativizzazione dei sistemi di significato, la crisi generalizzata delle agenzie
formative e delle attività di socializzazione.
Un secondo effetto è l'emergere di una «dimensione debole» come qualità necessaria del
vivere individuale e sociale. Questo fenomeno, teorizzato e legittimato anche da elaborazioni
filosofiche e sociologiche, implica una critica radicale al concetto di identità; si tematizza infatti
come necessaria e auspicabile l'assenza di fondamento dell'identità e si considera normale, in questo
contesto, un'identità individuale e collettiva che sia frammentata, composita, in continua
evoluzione, ambivalente e contraddittoria, mai compiutamente maturata né esaurita entro qualche
appartenenza stabile.
Anche in rapporto alla realtà esterna (il mondo, la società, la storia) il pensiero debole tenta
di legittimare una posizione fragile e rinunciataria; la realtà esterna appare infatti non più
comprensibile e dominabile mediante categorie teoriche o approcci pragmatici efficaci, ma
recuperabile solo attraverso il silenzio o l'interrogazione che non pretende risposta. Gli effetti della
complessità, riassumibili globalmente con il termine di socializzazione problematica, sono
ulteriormente descrivibili secondo accentuazioni o chiavi interpretative diverse: “destrutturazione
temporale”, “eccedenza della opportunità”, “frammentarietà e differenziazione delle esperienze”,
“riduzione dell’effettiva autonomia di comportamento”, ecc.
Ecco una lista di elementi tipici della società complessa che possono costituire un fattore di
disagio, soprattutto in persone non sostenute da un filtro di valutazione autonomo e da una
personalità equilibrata:
1. provvisorietà;
2. reversibilità;
3. eccesso di attese;
4. presentismo, quotidianità;
5. mancanza di progettualità;
6. pragmatismo;
7. bisogni centrati sul corpo;
8. a-centricità, mancanza di un centro, di un punto di riferimento;
9. mancanza di senso (vita , scelte);
10. stanchezza;
11. incertezza (Malizia, 1991, 17).
L’attuale si presenta come una società che, oltre all’elevato numero di opportunità e di
percorsi, conserva al suo interno una serie di antinomie, che possono risolversi in altrettante
situazioni di disagio. Soprattutto la cultura di massa, per il fatto di rivolgersi ad una grande
pubblico, si caratterizza per la sua scarsa qualificazione, funzionale più al consumo che alla
formazione.
20
Da queste premesse, appare evidente la difficoltà nella formazione della personalità del
giovane, come “l'esito incoerente di una socializzazione dell'incertezza, che non può più avvalersi di
contenuti, metodi e strumenti socialmente legittimati e pertanto incisivi, ma deve accontentarsi di
trasmettere messaggi incoerenti e disorganici” (Labos, 1994, 50).
Di qui la convinzione che il malessere giovanile costituisca una condizione diffusa, comune a
tutta la condizione giovanile, senza distinzione di sesso, classe o luogo di residenza. Secondo
Neresini e Ranci (1992, 61), “il disagio costituisce così una condizione quasi costitutiva del giovane
odierno”.
3.2. Fattori di disagio rischio specifici
Altri autori, (oppure gli stessi in un tentativo di approfondimento), cercano di individuare le
cause specifiche del disagio/rischio, in modo da potere costituire dei rapporti precisi tra elementi
strutturali e comportamento giovanile, quasi come l’uno fosse la conseguenza dell’altro.
Per esempio la ricerca Labos, notando che “il disagio, così come d’altronde la devianza,
appare come il prodotto di un insieme complesso di cause, nessuna delle quali da sola sembra essere
sufficiente a produrlo, ma la cui simultanea presenza eleva notevolmente la probabilità che esso si
manifesti nella vita del giovane” (Labos, 1994, 26), ha individuato tutta una serie di “fattori di
disagio/rischio”, che ci sembra molto interessante e vasta. Seguiremo tale traccia nel presentare i
principali fattori di rischio, completandola con altri apporti qualora apparissero necessari.
3.2.1. I valori della cultura sociale
E’ apparso che una concezione della “vita intesa come ricerca del piacere, dell’avventura,
dell’eccitazione e della novità” (Labos, 1994, 26) è significativamente più presente nei soggetti che
vivono o hanno vissuto l’esperienza del disagio. Una conezione che dà “estrema importanza alla
vita eccitante, stimolante, variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei desideri e
al godimento attraverso il sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività”(Labos,
1994, 26). Questo dipende dai “modelli edonistico-consumistici della società industriale moderna,
che hanno bisogno di continue stimolazioni, eccitazioni e novità per trovare la felicità-piacere nella
vita. E un sistema di valori che spinge i giovani che lo hanno assunto verso la ricerca del senso della
vita, o perlomeno dell’appagamento della loro sete di vita, all’esterno di sé, nelle cose materiali e
immateriali che li circondano” (Labos, 1994, 26). Infatti dall’eccessiva valorizzazione
dell’eccitazione, del piacere e dell’avventura consegue una continua ricerca di nuove forme, luoghi,
attività e persone attraverso cui soddisfare il proprio desiderio. “Questa ricerca può condurre a
esperienze limite e ad accettare proposte e occasioni di consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, di azioni rischiose per la propria e l’altrui vita, di azioni trasgressive o devianti” (Labos, 1994,
26-27). Ciò si verifica specialmente se questa cultura “non è limitata, circoscritta da altri sistemi di
valori antagonistici” (Labos, 1994, 27).
L’eccessiva accentuazione dell’affermazione individuale, quasi narcisistica, che molto
spesso appare dominante nell’attuale cultura sociale, unita a quella che spinge a ricercare il piacere
e l’eccitazione come fonte di felicità esistenziale è uno dei fattori di distruttività che può avviare
giovani incapaci di difendersi da queste provocazioni ad esperienze rischiose e devianti. Quando gli
stessi giovani incontrano invece la proposta di una realizzazione di sé più profonda, legata allo sviluppo dell’interiorità e della solidarietà, essi si aprono a una realizzazione di sé che li porta lontani
21
dalle secche del disagio e valorizza la loro capacità di trasformazione evolutiva della condizione
umana7.
3.2.2. I fattori sociali della produzione del disagio
Oltre al sistema di valori, la ricerca ha individuato in alcune condizioni di vita dei luoghi
privilegiati di produzione del disagio. In particolare questi luoghi sono stati identificati nella
famiglia, nella scuola, nel gruppo dei pari, nell’ambiente urbano, nella carenza di lavoro,
nell’incertezza verso il futuro e in alcuni problemi esistenziali e materiali specifici.
3.2.2.1. La famiglia
La famiglia nucleare manifesta una forte fragilità dal punto di vista educativo in quanto,
potendo contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando va in crisi uno di
essi, o addirittura entrambi, gli effetti all'interno del processo formativo diventano immediatamente
rilevanti. Normalmente le famiglie i cui figli si trovano in condizioni di disagio sono caratterizzate
da una o più delle seguenti caratteristiche:
- svantaggio economico;
- basso livello di istruzione dei genitori;
- disoccupazione o occupazione precaria dei genitori:
- isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia;
- coppia genitoriale separata o conflittuale;
- assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori;
- comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei confronti dei figli.
Il ruolo della famiglia è primario nel provocare forme di disagio nei suoi giovani membri, in
quanto essa svolge due funzioni essenziali per la vita umana: la prima a livello individuale e la seconda a livello sociale (Labos, 1994, 28-29).
3.2.2.2. La scuola
La scuola rappresenta senza dubbio un fattore di rischio per una certa aliquota di adolescenti
o di giovani.
I problemi più rilevanti sotto questo profilo sono quelli inerenti all'accumulo di irregolaxi~à
nella carriera scolastica (bocciature, ripetizioni, ritardi) e all'abbandono precoce o anticipato degli
studi (il fenomeno del «drop-out») (22).
Gli snodi temporali in cui tali problematiche si manifestano con maggiore frequenza sono
indicati per lo più nella fase di conclusione della scuola (21) Cfr. Pncr M., a cura di, Le dimensioni
della disuguaglianza, Bologna, Il Mulino, 1993. (22) Cfr. Mnctztn G., et alii, Né scuola né fabbrica,
L'Aquila, Japadre, 1982; Id. Stratificazione, mobilità sociale e sistema, in ~<Orientamenti
Pedagogicie, 1981, 2, pag. 311-319; Id. Classi, scuola e cultura, in <~Orientamenti Pedagogici»,
1980, 6, pag. 1010-1018; GOMES A.V., La dispersione scolastica nellra scuola media italiana e
7 La ricerca è arrivata a queste affermazioni utilizzando i risultati dell’analisi fattoriale. In essa appariva che i giovani del disagio
manifestavano in maniera significativamente più frequente i tratti della cultura edonistico-consumista, (cioè la ricerca
dell’eccitazione e del piacere, ecc.). Mentre giovani “in cui compare un sistema di valori che può essere definito come quello
dell’armonia interiore e dell’alterita solidale (in quanto evidenzia la condivisione dei valori dell’uguaglianza, della giustizia sociale,
dell`armonia interiore, del rispetto di sé, della libertà di pensiero e di azione, dell`apertura mentale e della tolleranza, e la negazione
dei valori del potere sociale e della ricchezza materiale) sono quelli più immuni dall’esperienza del disagio e della devianza” (Labos,
1994, 27).
22
strategie d'intervento, Roma, s.e., 1991; IRER, La dispersione scolastica negli Istituti professionali,
Milano, Angeli, 1992.
dell'obbligo e dell'entrata nella scuola superiore (biennio), con diversificate accentuazioni
dei fenomeni in rapporto a variabili di status (genere, redàito, localizzazione geografica).
Il disagio si manifesta in questo campo attraverso una generalizzata disaffezione dei giovani
verso la scuola e più ancora verso l'istruzione come strumento di autorealizzazione, di inserimento e
di successo sociale. La dispersione scolastica è uno dei problemi non ancora risolti dalla scuola
italiana, nonostante tutti gli sforzi delle competenti autorità in merito. Sovente proprio i giovani che
avrebbero un maggior bisogno dell'attività formativa della scuola, vuoi per gli svantaggi sociali e
familiari di cui sono portatori, vuoi per motivi personali, sono quelli che spesso sono precocemente
espulsi da essa o marginalizzati in essa. Molte carriere di disagio o di devianza giovanile hanno alle
spalle un’esperienza scolastica negativa. La dispersione scolastica è, infatti, un fenomeno sociale
fortemente correlato con i percorsi del disagio e della devianza giovanile. La ricerca Labos ha
chiarito l'esistenza di questo nesso, anche se in modo non deterministico, tra la dispersione
scolastica e le varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali
giovanili (Labos, 1994, 29-30).
3.2.2.3. Il gruppo dei pari
Il gruppo dei pari è in alcuni contesti sociali urbani uno dei luoghi di formazione del disagio
in quanto in queste realtà il sistema di norme che il gruppo, a livello informale, ha elaborato, sono
devianti rispetto a quelle tipiche del contesto sociale più vasto. Infatti per appartenere al gruppo è
necessario assumere alcuni valori e praticare alcune condotte, definite come devianti o perlomeno
marginalizzanti nella cultura sociale.
In questi gruppi, in alcuni casi vere e proprie bande giovanili, se il giovane non si associa
nell'esecuzione di un atto vandalico, nel consumare sostanze stupefacenti o alcoliche, nel compiere
una bravata o nel compiere un'azione microcriminale, viene stigmatizzato, marginalizzato o espulso
dal gruppo.
I gruppi giovanili informali di questo tipo sono, per fortuna, una minoranza; tuttavia per
molti giovani, abitanti di certi quartieri urbani degradati o marginali, sono l'unico luogo di aggregazione.
La rilevanza di questi gruppi è ancora più forte in presenza di una carenza di relazioni
significative dei giovani con gli adulti nel determinare i percorsi di socializzazione e i progetti di
vita dei giovani che li frequentano (Labos, 1994, 30).
3.2.2.4. L'ambiente urbano
L'ambiente urbano, ovvero la qualità urbanistica e, quindi, sociale di un quartiere ha una
qualche influenza sui percorsi di formazione del disagio. Certi moderni quartieri ghetto costruiti in
modo anonimo. Lontano dal centro della città, privi di servizi sociali, culturali, ricreativi e
commerciali, dove è stata concentrata una forte percentuale di popolazione marginale o deviante e
dove non esiste alcuna identità storico-culturale, appaiono come uno dei fattori classici nella
produzione del disagio e della devianza giovanile (Labos, 1994, 30-31).
23
3.2.2.5. La carenza del lavoro
Nei percorsi del disagio è facile incontrare sia l'inaccessibilità di un lavoro regolare, sia una
sequela di tentativi falliti di adattamento al lavoro. Il tutto aggravato dalla carenza ormai cronica,
specialmente in alcune aree geografiche, del bene-lavoro per i giovani.
Questo fa sì che la maggioranza dei giovani italiani viva una condizione frustrante di
insoddisfazione per le opportunità di lavoro offerte dall'ambiente sociale in cui vive. Basti dire che i
giovani insoddisfatti per le opportunità di lavoro sono quasi i tre quarti di quelli che risiedono al
Sud e la metà di quelli che risiedono al Nord.
In questo quadro generale deprivato i giovani più svantaggiati, o a rischio. si smarriscono
nei percorsi dei lavori precari e irregolari o in quelli generati da una aspettativa irrealistica, che crea
una forbice incolmabile tra le loro reali possibilità e i loro sogni a occhi aperti, oppure ancora nei
percorsi di quell’ozio assistito almeno da un minimo di benessere che porta al percorrere le nebbie
del tempo vuoto nel tentativo di dare un senso al proprio esistere (Labos, 1994, 31).
3.2.2.6. Il futuro
Esiste una relazione abbastanza definita tra l’incertezza verso il futuro e alcune esperienze di
disagio. Infatti l’atteggiamento di incertezza può essere il sintomo di una certa angoscia, o
perlomeno di insicurezza ansiosa verso il futuro.
L’incertezza verso il futuro appare perciò come il sintomo dell’assenza di un progetto di
futuro nell’orizzonte esistenziale di molti giovani.
L’insuccesso scolastico e la sua derivata dispersione scolastica, possono diventare veri e
propri traumi nel progetto esistenziale del giovane. “I giovani che hanno abbandonato gli studi
appaiono in assoluto come i meno ottimisti, seguiti da vicino da quelli che sono stati bocciati"8
Questo vuol dire che l’incertezza verso il futuro è un altro luogo di produzione del disagio.
Ma oltre a questi luoghi sociali nella dimensione del disagio, a volte come cause ma altre già come
effetti (anche se non è facile distinguere con sicurezza quando si tratta di cause e quando si tratta di
effetti), vi sono dei problemi, vissuti soggettivamente, che emergono nella vita dei giovani (Labos,
1994, 31-32).
3.2.3. Principali problemi materiali, psicologici e sociali
3.2.3.1. Il disagio da marginalità o frustrazione dei bisogni materiali
In Italia permangono ancora forme di povertà e marginalità oggettive che aggravano il
quadro sociale e contribuiscono a mantener desta la consapevolezza che non tutti sono arrivati a
soddisfare neppure i bisogni più elementari, e che l’accesso alle risorse sociali, economiche e
culturali, non è realmente aperto a tutti. Permane sempre la figura tradizionale del ragazzo di
periferia, che abita in un quartiere invivibile, che non va a scuola, che non ha opportunità valide di
inserirsi nella vita ed appartiene ad una famiglia incapace di essere una valida guida.
Così assistiamo ancora alla persistenza di vecchie forme di delinquenza minorile (reati
contro il patrimonio, o contro le persone), cui si aggiungono quelle (relativamente) nuove, quali la
prostituzione (soprattutto maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la
pedofilia. Un certo tipo di criminalità sembra trovare il suo “habitat” privilegiato in ghetti popolari,
24
tra stranieri (spaccio di droga), nomadi (furti), oppure italiani delle periferie o aree suburbane. Così
assistiamo ad un aumento di ragazzi denunciati penalmente, soprattutto nel Meridione, per
affiliazione alla mafia o ad altre organizzazione criminali (Moro, 1990).
A loro volta tali manifestazioni devianti costituiscono una minaccia per l’intero ordine sociale e
determinano un abbassamento del livello di sicurezza di tutti i cittadini.
3.2.3.1.1. Il disagio dell’immigrante povero (extracomunitario)
Un aspetto nuovo del disagio è la condizione di straniero extracomunitario in Italia. Il nostro
paese sta registrando un notevole aumento della presenza di stranieri. “Nel corso del 1999 essi
passano da 1.116.394 unità a 1.270.553 con un incremento del 13.8%. […] All’interno della
popolazione straniera residente la popolazione in più rapida crescita è proprio quella minorile. Gli
stranieri di minor età residenti erano 125.565 al 31 dicembre 1995, sono 229.851 al 31 dicembre
1999, con un incremento percentuale dell’83%” (Moro, 2001, 194-195). Questo incremento, anche
se la presenza di stranieri in Italia è molto inferiore in percentuale rispetto a quella di altri paesi
europei (2.3%), ha creato, anche per la non abitudine a convivere con persone di diversa cultura e
religione, problemi e disagi sia alla popolazione residente che agli stranieri.
I minori rappresentano la fascia più debole tra i soggetti coinvolti nel fenomeno
dell’emigrazione, privati del loro diritto fondamentale a vivere la loro infanzia e adolescenza in un
clima di serenità e sicurezza, e sottoposti a privazioni di ogni genere, sia di tipo fisico che psichico..
E’ praticamente accertata la presenza di un racket internazionale che spesso vede i minori
affittati dalla propria famiglia ad organizzazioni dedite all’immigrazione clandestina che si
occupano del loro inserimento in Italia. Qui vengono molto spesso ridotti in schiavitù e costretti a
prostituirsi, ad andare a chiedere l’elemosina ai semafori e sui marciapiedi. La loro età oscilla in
genere dai 5 ai 15 anni.
Ci sono poi i minori profughi, per la maggior parte adolescenti, che da soli hanno
abbandonato i loro paesi d’origine in seguito ai disordini socio politici, in cerca di fortuna. Per molti
il fatto di essere clandestini in un paese straniero significa non avere alcun diritto e visibilità e
quindi non potersi rivolgere alle istituzioni per esser aiutati.
3.2.3.2. Problemi esistenziali e relazionali
Il problema più diffuso tra la maggioranza dei giovani italiani sembra quello relazionale
all’interno della famiglia. Al secondo posto ci sono problemi di salute, o fisica o psichica. Un
quarto dei giovani ha problemi di adattamento all’interno della propria attività primaria (in genere
scolastica). Ciò conferma che la scuola non riesce a fornire una adeguata accoglienza a giovani con
problemi. Se questo dato lo si interseca con quello delle difficoltà relazionali si nota che per una
parte di giovani le difficoltà nell’attività scolastica hanno un fondamento relazionale. Poi ci sono i
problemi di lavoro, dovuti alla disoccupazione o alla fuoriuscita dal lavoro. Non è da sottovalutare
poi che circa un quinto dei giovani denunci l'assenza di luoghi di aggregazione destinati a loro. Il
problema della droga o dell'alcoolismo, anche se con diversi gradi di gravità e di dipendenza, tocca
una quota relativamente alta di giovani, il 7,9%, ad indicare che il disagio conclamato occupa uno
spazio tutt’altro che residuale e marginale nella vita sociale. Gli altri problemi, come quello della
casa, quello economico, quello della cura di qualche familiare e quello relativo alle carenze dei
servizi, pur non essendo esclusivi del giovane, in quanto appartengono alla sua famiglia ed egli li
vive al pari degli altri membri, influenzano significativamente la sua condizione esistenziale e
sociale (Labos, 1994, 32-34).
25
La ricerca ha cercato anche di scoprire con chi il giovane parla dei suoi problemi. Ne è
risultato che molti giovani non comunicano ad alcuno i loro problemi 9. La comunicazione con i
genitori appare molto debole quando si tratta di problemi giudiziari, di consumo di droghe, di
relazionalità all’interno della famiglia e di elaborazione del lutto, mentre è totalmente assente nel
caso della violenza agita. La comunicazione in famiglia diminuisce sempre più man mano i
problemi si fanno più gravi e si configurano come espressione del disagio. Proprio laddove il
problema è più grave e doloroso, la stragrande maggioranza dei genitori è assente. Questi dati
evidenziano quel disagio sommerso, nascosto e solitario, che non emerge alla consapevolezza
sociale, ma che alimenta con la sofferenza e la distruttività di cui è portatore il sottosuolo della vita
sociale rendendo più fragili le sue fondamenta (Labos, 1994, 34-35).
3.2.3.3. Problemi psicologici
Due sono i tipi di giovani che possono essere considerati a rischio di disagio:
a) Il primo tipo, che riguarda prevalentemente le ragazze, indica la presenza di un 9% di
giovani che dietro ad una identità di facciata apparentemente funzionante mascherano una
notevole fragilità interna. Si tratta di giovani che hanno un adattamento acritico alla realtà,
che si realizza attraverso una falsa identità costruita sull’adeguamento alla normalità sociale.
Il prezzo di questo adattamento è spesso la messa in atto di meccanismi di difesa dalla
conflittualità che questo stesso adattamento genera. Meccanismi di difesa che non
consentono una adeguata elaborazione dei conflitti, e questo può essere la fonte di
significative forme di disagio psicologico specialmente nel momento dell’ingresso di questi
giovani nell’età adulta (Labos, 1994, 35-36).
b) Il secondo tipo, che riguarda il 9,6% di giovani, è caratterizzato dalla presenza di modalità
aggressive nei confronti del mondo esterno e di meccanismi di difesa che non favoriscono il
loro adattamento sociale. In altre parole indica un gruppo di giovani che ha delle difficoltà
profonde di soluzione della propria crisi adolescenziale che si manifesta in un atteggiamento
aggressivo di svalutazione della realtà esterna, del mondo adulto e dei suoi valori che può
provocare un rifiuto e una rottura con questa stessa realtà. Questo tipo di giovane è quello
che più probabilmente vive negativamente l'esperienza scolastica e può accedere a forme di
devianza in cui possono comparire sia comportamenti auto o eterodistruttivi. Ciò significa
che questa dimensione psicologica è quella più fortemente correlata alle espressioni del
disagio e della devianza, sia come causa ma anche come effetto (Labos, 1994, 36).
Questi due tipi di giovani a rischio di disagio indicano chiaramente la presenza per questi
giovani di problemi relazionali con il mondo adulto, frutto di carenti o distorti rapporti educativi e
socializzanti (Labos, 1994, 36).
9
“Basti pensare che il 29% di chi ha vissuto in modo problematico il lutto elabora questo da solo, con tutte le conseguenze che una
mancata elaborazione sociale del lutto può comportare sulla sua vita psichica. A tutto questo occorre aggiungere che il 23,7% dei
giovani non esprime i problemi affettivo-relazionali familiari, che il 20,1% si tiene per sé i problemi di salute, che il 15,9% non parla
con alcuno dei suoi problemi con le droghe o l’alcool, e che vi sono poi percentuali simili di giovani che non comunicano i problemi
di violenza agita e subita” (Labos, 1994, 34).
26
4. Rapporto tra disagio, rischio in relazione ai bisogni
Analizzati i concetti di rischio e disagio, le ambiguità che conservano e le prospettive che
aprono, diventa opportuno confrontarli con il concetto di bisogni in una prospettiva di utilizzo
operativo.
In entrambi i casi sia il disagio che il rischio dicono un rapporto con i bisogni.
4.1. Rapporto tra disagio, rischio e bisogni
Una volta appurato che entrambi i concetti (disagio e rischio) hanno un rapporto con il
bisogno e quindi sarebbero potenzialmente concetti funzionali alla nostra ricerca, si tratta di
stabilire qual è i rapporto tra di loro e come potrebbero essere impiegati.
Una prima distinzione reciproca e quindi un modello di rapporto ci viene offerta da una ricerca della
ricerca “Giovani e disagio” (Milanesi – Pieroni – Massella, 1989). Il rischio, in quest’opera, appare
come un aggravamento della situazione, già pericolante o disagiata, che può evolvere, per una serie
di cause concomitanti (endogene ed esogene) in comportamenti devianti (auto o etero distruttivi)
che possono indicare un avvio ad un percorso deviante.
Pertanto il rischio assume in la valenza del concetto devianza (in effetti i comportamenti
sono già devianti), solo che per effetto della lezione dell’interazionismo simbolico
(abbondantemente citato), si evita di parlare di devianza tout court per sfuggire agli effetti perversi
di etichettamento che favorirebbero il consolidamento di una identità deviante. In effetti ci troviamo
in una situazione di devianza secondaria, cioè di una situazione di affiliazione, cioè, di
“comportamenti non conformi alla norma a cui si sono già associati in maniera dialettica sia alcuni
atti di ‘affiliazione’ (cioè di considerazioni positive circa l'ipotesi e la possibilità di diventare un
deviante ‘secondario’) sia alcuni atti di stigmatizzazione (cioè di definizioni/significazioni negative
degli atti non conformi alla norma) (Milanesi, 1984, 439-440).
“Per rischio intendiamo una situazione in cui, a causa della frustrazione, negazione mortificazione
dei bisogni fondamentali della persona (cioè a causa di una situazione di soggettivo ed obiettivo
disagio), il soggetto è portato a dare soluzioni irrazionali al bisogno fondamentale dell'esistenza (che
quello del senso, del significato esistenziale) e agli altri bisogni correlati” (Milanesi – Pieroni –
Massella, 1989, 31-32).
Il rischio quindi viene intimamente collegato al disagio. Il disagio costituisce la premessa (=
malessere, sofferenza), mentre il rischio consiste nelle risposte che il soggetto tenta di dare alla
situazione disagiata. Queste soluzioni quando non sono orientate ad un progetto capace di
soddisfare il bisogno fondamentale dell’esistenza (quello di significato), diventa una risposta
irrazionale. Essa viene precisata in questi termini: “l'irrazionalità consiste nel fatto che le decisioni
adottate si rivelano obiettivamente distruttive per l'individuo e per la società e non avviano
assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha (Ibidem, 32).
L’irrazionalità quindi è individuata nel comportamento distruttivo (per sé o per altri) e nella non
soluzione ai problemi personali.
In questo senso il rischio ha un collegamento possibile con le varie forme di devianza, con i
comportamenti antisociali, con i modelli alternativi privi di progetto (Ibidem).
Questo avviene quando la situazione di malessere, sofferenza diventa insopportabile per il
soggetto, il quale tenta di uscire dallo stato di disagio dando delle risposte irrazionali.
“L'irrazionalità consiste nel fatto che le decisioni adottate si rivelano obiettivamente distruttive per
l'individuo e per la società e non avviano assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha”
(Milanesi, 1984, 32).
27
Il rischio quindi si concretizza quando si adottano comportamenti che non costituiscono una
reale risposta al bisogno e vanno in senso contrario alla linea dell’autorealizzazione.
4.1.1. Rapporti tra disagio, rischio, devianza e marginalità
Nel cercare di ipotizzare un possibile rapporto tra disagio rischio e bisogni è necessario
chiarire anche il rapporto di questi termini tra loro ed anche con i termini classici della
devianza e marginalità, frequentemente associati con il disagio ed il rischio, secondo modelli
interpretativi diversi. Si tratta di costrutti teorici che sono entrati nel bagaglio scientifico degli
osservatori e ricercatori sociali in tempi e in contesti differenti.
4.1.1.1. Modelli lineari
Una prima linea interpretativa intendeva il disagio, secondo un modello di causalità
lineare in cui la collocazione in sequenze diverse spiegherebbe i rapporti tra disagio e gli altri
tre fenomeni, in senso deterministico10.
Gli schemi più comuni riferibili a questa modellistica possono essere rappresentati come
segue:
a) disagio –> rischio –> devianza –> marginalità
b) marginalità –> rischio –> devianza –> disagio
c) devianza –> disagio –> rischio –> marginalità
d) marginalità –> disagio –> rischio –> devianza.
Negli schemi riportati la collocazione del disagio è alquanto diversa e, ad eccezione del
primo modello, sta ad indicare che il disagio è fattore dipendente di uno o più fattori “precedente”.
Il primo schema può considerarsi “classico”, nel senso che propone una spiegazione logica
dei comportamenti giovanili considerati socialmente pericolosi: la devianza e la marginalità. Il
disagio (quali che ne siano i precedenti) costituisce la premessa del rischio, che a sua volta precede
probabilisticamente la devianza o la marginalità.
Nel secondo modello il disagio è invece considerato come l'esito di una situazione di
devianza che deriva a sua volta dalla marginalità; si vuole così sottolineare il carattere sintomatico
del disagio, dando maggior rilievo alla funzione causale della marginalità.
Nel terzo modello alla radice del processo è posta la devianza (che pertanto non deriva da
una situazione di disagio né da una condizione di marginalità), di cui il disagio rappresenta non
tanto e solo un sintomo (come nel modello precedente), ma un effetto a sua volta capace di
determinare una situazione di «rischio di marginalità».
Nel quarto modello il disagio nasce da una situazione di marginalità e costituisce a sua volta
il precedente del “rischio di devianza”. Nell'approccio causale-lineare, ad eccezione del secondo
modello, il disagio funge sempre da fattore che determina situazioni problematiche, anche se talora
è a sua volta determinato da altri fattori (Labos, 1994, 59-60).
10 “Generalmente questo approccio implica presupposti di tipo deterministico, nel senso che si dà per certo che un fattore
‘produce’ l'altro; e ciò viene affermato nella convinzione che la sequenza esplicativa così intesa possa garantire la predittibilità dei
comportamenti, senza di cui non vi è scienza” (Labos, 1994, 59).
28
4.1.1.2. L’approccio sistemico
L’approccio sistemico ha messo in evidenza l’inutilità di un’operazione conoscitiva fondata su
una mera logica sommatoria poiché non basta mescolare tra loro variabili e fattori appartenenti a
livelli logici diversi in quanto siamo nell’impossibilità di determinare e definire, attraverso queste
modalità oggettivanti, l’emergenza soggettiva che definisce la mediazione cognitiva e simbolica
attraverso cui il singolo individuo, nella complessità delle relazioni interpersonali, costruisce il
significato dei suoi comportamenti” (Malagoli Togliatti, 1998, 74): comportamenti che nella realtà
sociale incontrano altri comportamenti e interagiscono a un livello che rinvia ai contesti simbolici e
di significato che definiscono le regole dell’interazione.
Doll e Lyon (1998), sostengono che analoghe e concordanti conclusioni sono state raggiunte
dagli studi che hanno concepito i fattori di rischio come costellazioni di condizioni fra loro
correlate: così alla povertà sono stati di volta in volta ricondotte variabili quali la dipendenza
economica dai sussidi statali, condizioni abitative disagevoli e disorganizzazione familiare o al
conflitto intrafamiliare è stato associato il divorzio dei genitori. All’interno di tali costellazioni si
gioca la dinamicità dei fra processi di adattamento e situazioni di rischio.
Gli Autori concludono sottolineando le implicazioni che può avere una dinamicità fra rischio e
resilienza e, in ultima analisi, fra gli agenti del processo (individuo, ambiente familiare, ambiente
sociale). L’implicazione principale riguarda il mondo della scuola, che può rappresentare un
ambiente potenzialmente protettivo, incoraggiando lo sviluppo di abilità di problem-solving e talenti
individuali, rinforzando le competenze sociali o proponendo attività alternative. Questo perché la
scuola possiede, a detta degli autori (Doll e Lyon, 1998, 357) “ sia le capacità sia le risorse umane
per mobilizzare molti dei processi protettivi che ‘alleggeriscono’ la gravosità dei fattori di rischio.
Poiché la resilienza sembra intimamente collegata allo sviluppo di competenza nei bambini e negli
adolescenti è un processo transazionale, solo una istituzione sociale (quale è la scuola) è nella
posizione ideale per promuovere e consolidare tali sforzi: se adeguatamente collegata con le risorse
sul territorio, la scuola rimane istituzione-chiave per promuovere una crescita positiva dei soggetti a
rischio”
Più complessa appare invece la problematica sollevata dai modelli sistemici, nei quali si tenta di
superare il rigido determinismo dell'approccio lineare e si suppone una certa circolarità di relazioni
tra fattori (nel senso di possibili retro-azioni reciproche o feed-back), cosicché il processo di entrata
nella situazione di disagio può iniziare da qualsiasi punto del sistema.
Questi modelli, che accolgono meglio la complessità del problema, hanno però l’inconveniente
di “una maggiore difficoltà di verifica empirica del costrutto teorico” (Labos, 1994, 60).
Un modello che parte dal presupposto che disagio, devianza e marginalità siano fattori
compresenti e parzialmente sovrapposti è quello proposto da Neresini e Ranci (1992, 34). Gli autori
ritengono che “la condizione di marginalità esprime solo la punta emergente di comportamenti
devianti più diffusi e di una base di disagio più esteso” (Neresini – Ranci, 1992, 33).
Il Labos, pur accogliendo la proposta di Neresini – Ranci come un passo avanti nella
comprensione dei difficili rapporti tra disagio, devianza e marginalità, ne critica l’eccessiva
semplificazione, “che non rende ragione della complessità dei processi in analisi” (Labos, 1994,
62). Nella stesa ricerca il Labos propone un proprio modello, come correzione di quello di Neresini
– Ranci. Tale modello sostiene che:
“1) esistono situazioni in cui ognuno dei fattori non è correlato (o sovrapposto) all'altro;
cioè devianza che non produce disagio (e viceversa); devianza che non produce
marginalità (e viceversa); marginalità che non produce disagio (e viceversa);
2) esistono situazioni in cui la sovrapposizione (o interazione) di due variabili non
significa necessariamente la ‘produzione’ della terza; così il disagio associato alla devianza
non produce necessariamente marginalità (e viceversa); il disagio associato alla
marginalità non produce necessariamente devianza (e viceversa); la devianza associata alla
29
marginalità non produce necessariamente disagio (e viceversa);
3) le coppie devianza-disagio, devianza-marginalità, marginalità-disagio possono trovarsi
in contesti diversi in una relazione di causa-effetto intercambiabile, in cui il primo termine
della relazione a livello manifesto è premessa probabilistica dell'altro (che in questo caso si
colloca a livello latente);
4) relazioni più complesse, con sovrapposizione o interrelazione dei tre fattori possono
essere interpretate con approccio sistemico” (Labos, 1994, 62).
4.1.1.3. Il modello Caliman
Caliman (1997), ha proposto un ulteriore modello interpretativo del disagio e rischio, che tiene
conto di tutte queste osservazioni e le integra in una proposta ulteriore.
Egli, innanzitutto operò quindi una distinzione analitica tra rischio sociale e rischio di devianza.
“La prima categoria consiste in uno scarto oggettivo, una condizione in cui vengono a mancare le
risorse esterne e interne al soggetto, per rispondere alle sfide che gli vengono poste dal sistema
sociale, e per accedere così ai fini che si propone. Tale situazione obiettiva di rischio, cioè di
inadeguato rapporto tra risorse e mezzi per raggiungere i fini, genera a livello personale condizioni
di fatica, di malessere, di disagio. Tale sovrapposizione può fungere da rischio di devianza, cioè
provocare risposte che si discostano dalla norma sociale e dalle aspettative di ruolo rappresentate
nella cultura; il rischio di devianza, quindi, riguarda fattori che in determinate condizioni
dimostrano una potenzialità predittiva della devianza” (Caliman, 1997, 144).
Pertanto, dall’incapacità di rispondere ai bisogni e alle sfide della società ne possono conseguire
vari tipi di rischio: fisico, psichico, consumistico-evasivo, relazionale, strumentale, sociale,
formativo, esistenziale, di devianza.
Secondo quanto da lui rilevato nell’indagine tra giovani brasiliani, con lo strumento della path
analysis, risultò che la devianza sarebbe spiegata fondamentalmente dalla conflittualità familiare,
dall’evasione e dai fallimenti lavorativi; mentre non verrebbe adeguatamente spiegata dal rischio
nell’area della scuola (insuccessi scolastici) e dei bisogni (individualismo), e nemmeno dalla
povertà economica. Tuttavia se l’area dei bisogni nel suo insieme non riesce a predire la devianza,
tuttavia alcune variabili collegate a tale area appaiono fortemente correlate con la devianza: il
godersi la vita, il progettarsi nel presente, il vivere allo sballo, la maggior valutazione della moda,
della ricchezza, e del consumismo. Lo stesso si può affermare dell’area della scuola, dove alcune
variabili appaiono correlate positivamente con la devianza: l’attribuzione di significato negativo alla
scuola e l’insoddisfazione per il curricolo scolastico (Caliman 1997, 425-426).
La conclusione che se ne trae è che “il rischio sociale non ha una incidenza diretta sulla
devianza, ma riesce ad alimentare il disagio. […]. Il rischio sociale funge da causa e potenziatore
del disagio, costituisce la causa del malessere, della fatica e della frustrazione e riguarda
l’inadeguatezza della relazione tra sfide-risorse, l’impossibilità reale (oggettiva e soggettiva) di
attingere alle risorse per fronteggiare le sfide. Il disagio richiama una condizione di sofferenza del
soggetto e uno stato d’animo che deriva dalle situazioni di rischio: il suo malessere, la fatica e la
frustrazione nel gestire le risorse” (Ibidem, 428).
La Figura 4-1 rappresenta un tentativo di spiegazione del processo attraverso cui si passa dal
disagio sociale alla devianza, attraverso l’esperienza intermedia del disagio e del rischio di
devianza. Ma sempre con l’avvertenza che questo costituisce un modello esplicativo di tipo
probabilistico, e non deterministico.
30
Figura 4-1: Modello interpretativo: Rischio sociale - Disagio - Rischio di devianza - Devianza
Fonte: Caliman 1997, p. 428.
Quest’analisi permette anche di fare una distinzione tra rischio e disagio: “È il sintomo (la
frustrazione, la fatica) che distingue il disagio dal rischio sociale: frustrazione e fatica fungono da
potenziatori del rischio e da ‘cronicizzatori’ del disagio. Alcuni giovani, però, sembrano vivere in
situazioni di rischio senza sentirne il disagio (frustrazione, insoddisfazione), mentre altri sono a
disagio senza avvertire reazioni disadattanti e devianti. […] La sovrapposizione delle situazioni di
rischio e di disagio, nelle forme di insoddisfazione e di forte carico emotivo, sembra essere il vero
fattore condizionante e scatenante del disadattamento e della devianza” (Caliman, 1998, 17-18).
Dalla constatazione che non tutte le situazioni di rischio sociale conducono al disagio o alla
devianza, se ne trae anche delle indicazioni di tipo educativo:
Le situazioni di rischio e di disagio vissute dai giovani tendono a provocare reazioni
diverse: per alcuni le mancanze di risorse (esterne e interne) per affrontarle provocano il
disagio come una insofferenza continua; per altri fungono da bisogno “radicale” di
sorpassare l’ostacolo, facendo scattare la molla della motivazione orientata al
superamento. Si tratta della valenza positiva del rischio, che costituisce, in quanto
motivazione, un fattore protettivo e allo stesso tempo fornisce la base per il lavoro
formativo (Ibidem, 19).
Tale capacità soggettiva di fare delle situazioni sfidanti un’occasione per impegnarsi a
superarle e giungere all’autorealizzazione viene chiamata “resilienza”.
4.2. Disagio e rischio in relazione ai bisogni
L’analisi condotta finora sui concetti di disagio e rischio ha potuto rilevare l’esistenza di
significative convergenze tra i due termini, a livello di applicazione nella ricerca empirica, talché a
volte essi sono utilizzati come sinonimi. D’altra parte essi rivelano dei significati diversi, sia dal
punto di vista storico che ermeneutico. Perciò riteniamo un loro uso indiscriminato non sia
opportuno, anche se dobbiamo tener conto della loro intercambiabilità nel gergo sociologico attuale.
Pertanto cerchiamo di trovare gli elementi di convergenza per poi arrivare a quelli di
distinzione. Un primo elemento di convergenza consiste, per il nostro punto di vista, nel comune
riferimento ai bisogni.
Infatti, il disagio, “sottende sempre una concezione di bisogno insoddisfatto” (Guidicini –
Pieretti, 1995, 14).
31
Anche il “rischio” viene collegato ai bisogni. Infatti viene definito come una serie di
“situazioni obiettive e soggettive in cui vengono rese difficili e, al limite negate, le possibilità e le
capacità (personali e di gruppo) di autorealizzazione e di partecipazione consapevole” (Milanesi,
1984, 47), oppure, “di soddisfazione dei bisogni fondamentali” (Milanesi, 1984, 422).
Entrambi hanno una componente soggettiva ed una oggettiva.
In quella soggettiva si tratta di “percepire come soggettivamente pericolosa una situazione in
cui mancano le premesse soggettivamente considerate necessarie alla soddisfazione di bisogni
soggettivamente ritenuti fondamentali” (Milanesi, 1984, 426). In quella obiettivasi parla di “essere
in una situazione in cui mancano certe premesse obiettivamente necessarie alla soddisfazione di
bisogni obiettivamente fondamentali” (Milanesi, 1984, 425).
Secondo queste prospettive il disagio potrebbe rivestire più confacentemente il ruolo di
indicatore soggettivo di bisogno. Esso infatti richiama istintivamente i termini di fatica, malessere,
difficoltà, frustrazione, insoddisfazione: Il disagio appare, dalle varie definizioni, come componente
intrinseca del bisogno: “condizione o situazione sgradevole per motivi morali, economici, di
salute”, “privazione, sofferenza”, “mancanza di cosa necessaria od opportuna” (Labos, 1994, 41).
Infatti il bisogno si percepisce come “carenza”, che provoca uno stato di insoddisfazione11, il
disagio, appunto. Tale stato di disagio o insoddisfazione spinge a sua volta il soggetto a cercare la
situazione-fine che ne rappresenta la soddisfazione e quindi annulli la tensione12.
Tuttavia il disagio può non provenire necessariamente da un bisogno. Può anche essere
provocato da uno stato d’animo immotivato, oppure dalla differenza tra desiderio e realtà, dalla
frustrazione di desideri impossibili o poco realistici. Pertanto ritengo che, a livello d analisi, sia
importante tener collegato il bisogno sia con l’aspetto interiore, soggettivo, ma anche con quello
oggettivo, cioè con una situazione oggettiva di carenza, di bisogno frustrato. Questo appare ancor
più evidente oggi in cui la spinta consumistica genera bisogni irreali o desideri o immotivati da un
effettivo bisogno dell’organismo.
Per questo appare importante l’analisi dei bisogni, per distingure se dietro un segnale di
disagio esiste qualche bisogno oppure solo un problema psichico o culturale del soggetto.
Invece preferiremmo riservare il termine “rischio” agli esiti che conseguono ad un bisogno
non soddisfatto o frustrato.
Quello che viene chiamato anche “disagio problematico” o
“conclamato”. Tale tipo di disagio forse può essere indicato più adeguatamente come
comportamento a “rischio”. Con tale termine si vuole indicare il rischio di fallimento della
maturazione dell’individuo, rimanendo entro la prospettiva socio-educativa. Oppure rischio di
devianza, o di non riuscita rispetto all’autorealizzazione o alla soddisfazione dei propri bisogni.
Infatti, a questo proposito, la definizione che più ci ha convinto, di quelle che hanno tentato una
distinzione tra i due termini, è quella che intende il disagio “come un insieme di percezioni,
emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di
insoddisfazione più o meno profonda nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane
è chiamato a vivere”(Milanesi, Pieroni, Massella, 1989, 31).
Mentre il rischio è un aggravamento della situazione, già pericolante o disagiata, che può
evolvere, per una serie di cause concomitanti (endogene ed esogene), in comportamenti devianti
(auto o etero distruttivi) che possono essere il sintomo dell’inizio di un percorso deviante.
Questo avviene quando la situazione di malessere, sofferenza diventa insopportabile per il
soggetto il quale tenta di uscire dallo stato di disagio dando delle risposte irrazionali. “L'irrazionalità
consiste nel fatto che le decisioni adottate si rivelano obiettivamente distruttive per l'individuo e per la
società e non avviano assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha” (Milanesi, 1984, 32).
Il rischio quindi è quando si adottano comportamenti che non costituiscono una reale risposta
al bisogno sottostante ed impediscono l’autorealizzazione del soggetto.
11 “Per bisogno si intende uno stato di insoddisfazione dovuto alla mancanza di ciò che è sentito come necessario alla vita fisica o
morale” (Cattonaro, 1957, 702).
12 “Lo stimolo organico che sta alla base di un bisogno è soltanto un segnale (la vera causa è più profonda) e spinge l'individuo
verso una situazione-fine in cui si annulli la tensione provocata dal senso di insoddisfazione che accompagna lo stimolo stesso”
(Cattonaro, 1957, 702).
32
Questo tipo di risposta può essere spiegata secondo alcuni modelli psicologici: quando la
frustrazione diventa insopportabile (e la capacità di sopportare la frustrazione è molto soggettiva)
diventa quasi inevitabile il passaggio all’atto (acting out), che si verifica soprattutto con l’esplosione
aggressiva, grazie all’energia accumulata dalla situazione frustrante. Tale atto aggressivo può essere
rivolto verso se stessi (autodistruttività) o contro gli altri (eterodistruttività), ma sempre con effetti
dannosi, che riducono la tensione solo in senso temporaneo, ma non danno risposta al vero bisogno.
Ecco perché si parla di una risposta irrazionale. Inoltre la mancata risposta diventa causa di una nuova
insoddisfazione e quindi di ulteriore tensione ed esplosione violenta, creando un circolo vizioso di
tipo stimolo-risposta errato. L’abitudine a questo tipo di risposta, la mancanza (o la non conoscenza)
di soluzioni adeguate nel proprio ambiente, la subcultura in cui si trova immerso e i rinforzi positivi
verso questo tipo di comportamenti rischia di fare di un semplice meccanismo una vera situazione
patologica ed insanabile.
Pur essendo nostro obiettivo un’analisi di tipo sociologico, è però dalla collaborazione di varie
discipline che intervengono sul soggetto (adolescente) che si può trovare una via di soluzione.
4.2.1. Quale tipo di bisogni?
4.2.1.1. Dal punto di vista del rischio
Anche i comportamenti a rischio sono giudicati in relazione ai bisogni tipici dell’età
adolescenziale. I comportamenti di trasgressione delle norme e delle regole servirebbero ad
affermare una propria autonomia, indipendenza e capacità di decisione. Il desiderio di mettere alla
prova le proprie possibilità psichiche e fisiche spinge spesso gli adolescenti ad attuare
comportamenti estremi. Si tratta di una sfida con sé stessi per dimostrare di esserci e di essere forti
(De Leo - Patrizi, 1999). Altre volte il far fronte a situazioni difficili o stressanti conduce il ragazzo,
in assenza di capacità più elaborate dal punto di vista cognitivo ed emotivo, al rifugio in esperienze
di distacco ed allontanamento dalla realtà (uso di sostanze stupefacenti, alimentazione
consolatoria, ecc.). Spesso, per l'assenza di una possibilità di affermazione di sé sul piano
personale, viene attuata un'affermazione di gruppo che si esprime attraverso azioni forti e, a volte,
trasgressive.
Stando a quanto aveva evidenziato D. Matza, la devianza può costituire una forma di
comunicazione. Così si può cogliere nel comportamento trasgressivo di un adolescente un
messaggio, la segnalazione di un bisogno. Di conseguenza, vennero avanzate spiegazioni della
delinquenza minorile riferentesi alle problematiche del sé, dell’identità, delle relazioni significative
e dei contesti di controllo. Ciò permetteva, da una parte, di andare oltre i modelli tradizionali di
interpretazione, secondo cui la devianza era figlia di carenze (familiari, affettive, educative,
economiche, culturali…) o di patologie psichiatriche e, dall’altra, di ipotizzare che le azioni devianti
producessero funzioni di mantenimento dell’organizzazione soggettiva, relazionale e di controllo:
nell’interazione con l’ambiente il deviante agirebbe per equilibrare l’organizzazione del proprio sé e
della propria identità con quella del “contesto significativo” di appartenenza.
Questa ricerca di equilibrio venne considerata particolarmente importante durante la fase del
processo evolutivo, quando il minore è particolarmente impegnato a cercare sempre nuove forme di
equilibrio, di (ri)organizzazione dell’immagine di sé in continua trasformazione, al fine di realizzare
articolate modalità di rapporto con il mondo adulto e le istituzioni. Quindi, certi “strani”
comportamenti degli adolescenti in realtà rappresenterebbero delle complesse forme di
organizzazione del proprio sé per comunicare. Sarebbero funzionali al proprio sistema di
interazione.
L’azione deviante o trasgressiva sarebbe una comunicazione di disagio e la volontà da parte
dell’adolescente di “agire” il disagio e comunicarlo agli altri, alla società.
33
A seconda del tipo di approccio il disagio può essere fatto risalire a cause diverse e quindi
diventare sintomo di altri problemi.
Anche da un punto di vista più generale l’atteggiamento trasgressivo viene valutato
diversamente dalle varie scuole di pensiero. C’è chi lo considera come un rifiuto all’integrazione
sociale e quindi frutto di una cattiva socializzazione (struttural-funzionalismo), chi invece un
elemento di innovazione nella società (sociologia critica). A questa corrente può essere ricondotta
anche la posizione di Inglehart: egli considera l’aumento di trasgressione o di tolleranza della
trasgressione, almeno in alcuni campi soprattutto quelli concernenti i rapporti familiari o sessuali e
verso la vita, segno di aumento di libertà ed autoespressione, e quindi di evoluzione della società.
Pertanto tali, o alcune di tale trasgressioni, nella sua ottica vanno valutate come progresso sociale e
manifestazione di bisogni e valori più elevati. La prospettiva interazionista e costruttivista ha
evidenziato che tali comportamenti problematici svolgono delle precise funzioni nel processo di
adattamento tra l'individuo e l'ambiente e sono il risultato di un'azione orientata ad uno scopo, in
relazione ai compiti di sviluppo ed alle opportunità offerte dal contesto (Bonino - Cattelino, 2000).
Le funzioni specifiche assolte dai comportamenti a rischio si possono ricondurre, secondo questi
autori, a due aree specifiche che riguardano lo sviluppo dell'identità e la partecipazione sociale.
Queste due categorie generali si declinano in funzioni specifiche definite: "adultità", trasgressione,
affermazione e sperimentazione del sé, fuga dalla realtà e ricerca di una risoluzione emotiva
immediata, costruzione di un legame sociale e di gruppo con i coetanei.
Dato il progressivo rinvio dell'ingresso nell'età adulta che caratterizza le società occidentali;
spesso il ragazzo assume comportamenti che vengono ritenuti significativi dello status sociale
adulto come ad esempio il fumo di sigaretta o il consumo di alcool.
4.3. Il disagio diffuso
Quelle che abbiamo finora descritto sono manifestazioni “gravi” di una difficoltà che molti
giovani vanno registrando nel loro processo di crescita ed inserimento nella società. Nel corso degli
anni, alle caratteristiche di marginalità e povertà che costituivano lo scenario privilegiato delle
forme di devianza, si sono andate affiancando nuove realtà. Il fatto nuovo, rispetto al passato, è la
diffusione di questo disagio, non più legato a situazione di deprivazione strutturale obiettiva. Per cui
emerge una situazione di sofferenza diffusa o disagio, chiamato anche “disagio diffuso” o “asintomatico”, in cui mancano molti degli indicatori che una volta definivano il disagio o la
marginalità sociale. Questo “disagio diffuso” o “asintomatico” si qualifica come:
una molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per quanto riguarda la
storia dei singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una condizione
ultima di disagio. Quindi la condizione di malessere/disagio non più come risultato di uno
specifico e circoscritto ambito di impatto o di squilibrio del soggetto rispetto alla società
che lo circonda, in una immagine evolutiva di bisogno, bensì come sommatoria di un
percorso di microsituazioni di rottura il più delle volte difficilmente classificabili e
ponderabili (Guidicini, Pieretti 1995, 17).
Questa “asintomaticità” del disagio, cioè “assenza di precisi legami tra quelle che sono le
condizioni di disagio […] e la presenza a monte di meccanismi in quanto cause scatenanti”
(Guidicini, Pieretti, 1995, 13), rende difficile la definizione di disagio, la sua misurazione ed infine
l’individuazione di misure di prevenzione, contenimento e contrasto. Certamente la percezione di
come i giovani vivono il disagio chiede di “spostare l’interesse sull’informale, sulla cultura, sullo
psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema relazionale”
(Guidicini, Pieretti, 1995, 21).
34
Un serie di manifestazioni di disagio giovanile è stata ricondotta da una certa letteratura
sociologica italiana (e occidentale) alla situazione sociale che si stava determinando nei paesi a
capitalismo avanzato: in tali paesi la rapidità dei processi di trasformazione sociale e culturale ha
creato una serie di problemi di adattamento che hanno coinvolto tutti, ma in maniera particolare le
giovani generazioni, in quanto i processi di socializzazione non sono più in grado di rispondere alle
esigenze di uno sviluppo armonico della persona e ad un corretto inserimento sociale.
In questo contesto il termine “disagio” può anche indicare la difficoltà di trovare una soluzione
soddisfacente per l’identità personale, la marginalità che però non fa troppo problema, la difficoltà
di reggere il gioco della flessibilità, l’ambivalenza delle scelte e dei percorsi, la fragilità e
l’insicurezza personale. Il procedere dell’adolescente, già caratterizzato da accelerazioni e
discontinuità, è reso ancora più difficile dalle attuali condizioni sociali, per cui il disorientamento, il
malessere e una certa devianza sembrano ormai costitutivi del processo di maturazione. Si tende
pertanto a connotare questo periodo come una situazione diffusa di disagio, come un periodo di
difficoltà di adattamento ad una società che, alle normali difficoltà di crescita, pone ulteriori
difficoltà all’inserimento sociale dell’adolescente e del giovane.
4.3.1. Disagio come difficoltà nella soluzione dei compiti di sviluppo
Nel recepire queste difficoltà tipiche della società a sviluppo avanzato, che si manifestano in
maniera patologica proprio nel periodo della preadolescenza e adolescenza, cioè nel periodo più
critico della vita di un individuo, si è dato al termine disagio la valenza di descrivere le difficoltà di
maturazione in uno specifico periodo della vita. Pertanto il disagio viene, a volte, definito anche
come:
“la manifestazione presso le nuove generazioni delle difficoltà di assolvere ai compiti
evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità
personale e per l’acquisizione delle abilità necessarie ad una soddisfacente gestione delle
relazioni quotidiane” (Neresini, Ranci 1992, 31).
L'adolescenza non è soltanto l'età della crisi e dei conflitti: i più recenti contributi di ricerca
hanno rivisto questa modalità interpretativa tradizionale introducendo il concetto, oggi focale, di
"compiti di sviluppo" (Palmonari, 1993).
Tale nozione, mutuata dalla teoria di Havighurst, sta ad indicare la serie di problemi che
l'individuo si trova progressivamente ad affrontare, la cui mancata risoluzione comporta gravi
difficoltà per lo sviluppo successivo. I "compiti di sviluppo" dell'adolescenza possono differire da
cultura a cultura ed anche all'interno della stessa cultura vi possono essere delle priorità diverse. Fra
i principali vi sono: l'affrontare i cambiamenti fisici, il gestire le relazioni con i pari dello stesso
sesso o di sesso opposto, il richiedere maggiore autonomia e indipendenza, il relazionarsi alle
istituzioni sociali, lo scegliere un sistema di valori, il costruire il concetto di sé, il rapportarsi ad una
prospettiva temporale più ampia (Palmonari, Pombeni, Kirchler, 1989).
Le difficoltà dell'adolescente sembrano però legate non tanto all'urgenza di dover affrontare
queste situazioni, quanto al doversi confrontare con più compiti simultaneamente in condizioni
strutturali e relazionali non sempre supportanti e gratificanti.
Per la regolazione del sé risulta importante il sentimento di efficacia del sé riguardante
l'aspettativa che ciascun individuo ha rispetto all'essere in grado di affrontare e superare determinati
compiti. Bandura (1993) sostiene che un individuo si impegna nella risoluzione di un problema o si
sforza di svolgere dei compiti solo se si sente in grado di superarli con successo. Quando una
situazione viene percepita come troppo difficile il soggetto tende ad evitarla o ad affrontarla con
scarso impegno, facendo sì che le probabilità di ottenere un successo si riducano notevolmente. Se
invece la medesima situazione viene vissuta come difficoltosa ma superabile, sia pure con fatica, le
probabilità di riuscita sono decisamente più elevate (Palmonari, 1995).
35
Le modificazioni e le acquisizioni che caratterizzano l'adolescenza permettono al ragazzo di
raggiungere una certa indipendenza ed autonomia dal punto di vista fisico ed intellettuale; ciò non
significa, però, che i suoi comportamenti possano ritenersi il frutto di una pura scelta individuale,
che non risente delle influenze provenienti dal mondo circostante. Infatti, le scelte compiute dal
ragazzo e le riflessioni che egli può effettuare su sé stesso e sull'ambiente esterno vanno considerate
in relazione al contesto sociale in cui si realizzano.
In questa prospettiva, anche fenomeni quali il disagio e la devianza devono essere analizzati in un
senso multidimensionale, che sappia tenere in debita considerazione la famiglia, la classe scolastica
ed il gruppo dei coetanei in rapporto al più ampio contesto delle norme culturali, dei valori
dominanti e dello sviluppo economico, che caratterizzano una società in un determinato momento
storico.
L'approccio sistemico-comunicativo si è mosso in questa direzione, occupandosi dei processi
interattivi e comunicazionali che si svolgono fra i soggetti che producono devianza e coloro i quali
si occupano degli interventi e del controllo sociale, considerando tutto in relazione ai contesti di vita
cui gli individui appartengono (De Leo, 1998).
Se l'adolescenza non può considerarsi quindi soltanto un momento di crisi e di conflitti, neppure
risulta possibile disconoscere l'impatto più o meno traumatico che questa età della vita comporta per
alcuni individui. L'adolescente attraversa una fase di transizione durante la quale si modificano le
relazioni interpersonali che fino a quel momento hanno caratterizzato il suo mondo affettivo. È
come se il ragazzo si vedesse privato dei diritti infantili e si sentisse d'improvviso solo e spaesato.
Questo vissuto può comportare sentimenti di apatia, malinconia, noia e rabbia che l'adolescente
deve riconoscere e affrontare per dare nuovo senso ad un'esperienza soggettiva e relazionale che gli
crea difficoltà.
La spinta al consumismo e al possesso di beni materiali, la mobilità sociale e la presenza sempre
più massiccia di immigrati nel nostro paese hanno dato vita a nuove tipologie di disadattamento e di
devianza giovanile. Un'attenzione particolare è stata rivolta a vari tipi di violenza, come abbiamo
visto, ma anche ad anomalie nelle condotte alimentari, soprattutto per la tossicodipendenza, a
situazioni di rischio estremo o alla rinuncia alla vita.
4.3.2. disagio e identità
L'adolescente, dal punto di vista sociale, sta passando dal gruppo dei bambini a quello degli
adulti. Non appartiene più all'uno ma non fa parte ancora dell'altro. Sta sperimentandosi come
nuova figura sociale, con mutamenti di ruolo e di status. E' sottoposto a stimoli, attese, pressioni
diverse e sovente contraddittorie. Deve gestire un corpo che si sta trasformando, il risveglio della
sessualità, nuove sensazioni e pulsioni, vecchi conflitti intrapsichici non risolti che riemergono.
Il compito di sviluppo o la difficoltà più grande che l’adolescente deve affrontare è, secondo
alcuni autori, quella di definire la propria identità.
Il concetto di identità è impiegato da varie discipline ed è stato elaborato secondo diversi
approcci teorici: di conseguenza ha assunto una molteplicità di significati, non sempre coerenti tra
loro. Nonostante questa varietà, secondo il Nuovo Dizionario di Sociologia, si può arrivare ad un
certo accordo sul significato del termine.
Genericamente si può definire l'identità come l'aspetto centrale della «coscienza di sé »,
come rappresentazione e consapevolezza della specificità del proprio essere individuale e
sociale. L'identità è l'appropriazione e la definizione, da parte del soggetto, delle
caratteristiche specifiche della propria personalità e della collocazione del sé in rapporto
agli altri nell'ambiente sociale; è in sostanza il sistema di rappresentazioni in base al quale
l'individuo sente di esistere come persona, si sente accettato e riconosciuto come tale dagli
altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di appartenenza (Tessarin in Demarchi, Ellena,
36
Cattarinussi 1987, 970).
Quindi il termine “identità” contiene in sé una grande contraddizione: esprime allo stesso tempo
sia il concetto di uguaglianza (una cosa identica all’altra) sia quello di diversità (l’unicità della
persona e quindi la sua diversità). Il processo di costruzione dell’identità avviene passando
attraverso due tappe: la prima, in accordo con il primo dei due significati del termine, si basa
sull’identificazione con l’altro, la seconda sulla differenziazione dall’altro. La prima fase porta ad
avere un modello di riferimento, ossia l’ideale dell’Io, la seconda consente di aderire o di
differenziarsi da questo modello ideale. E’ un processo di cambiamento continuo che inizia fin dalla
nascita, che ha i suoi periodi più importanti e delicati nel primo anno di vita e nell’adolescenza, ma
che continua per tutta la vita.
Questo concetto, pur nella varietà di definizioni e nei problemi teorici che pone, ha assunto un
ruolo di mediazione tra individuo e società e risulta funzionale per collegare esigenze personali,
soprattutto di sviluppo e meccanismi sociali.
Il problema dell'identità non si pone dunque a livello individuale o a livello sociale come autonomi
e distinti, bensì nell'ambito del rapporto io-mondo sociale; esiste infatti una stretta relazione tra l'identità come elemento individuale o personale, come esperienza soggettiva, e l'identità come
elemento intersoggettivo, condiviso cioè da più soggetti (Tessarin in ibidem).
4.4. Bisogni frustrati nelle situazioni di disagio e di rischio
Il disagio e le condotte a rischio, cui dà luogo, costituiscono quindi una segnalazione di un
bisogno “frustrato”. Tuttavia, data la duplice natura del bisogno, il disagio segnala un “bisognostato”, non indica ancora quale sia l’oggetto di tale bisogno, il bene o la situazione che ne
rappresenta la corretta soddisfazione. Anzi, s’è visto, sovente l’adolescente non riesce ad
interpretare correttamente i suoi bisogni e dà risposte irrazionali che lo espongono al “rischio”.
L’operazione interpretativa non è né facile né univoca. Infatti, mentre i bisogni espressi
direttamente indicano chiaramente l’oggetto, nel caso del disagio è molto più alto il rischio di
arbitrarietà. Non per niente si parla, tra gli studiosi, del “disagio interpretativo”.
Infatti, al di là di bisogni abbastanza facilmente individuabili, come quelli primari, le
interpretazioni si sprecano. Capire quale sia il bisogno che emerge da un certo disagio è operazione
interpretativa, che dipende sovente dalle impostazioni di base dell’interprete, oppure da esperienze
pregresse, o da desideri e sogni che ognuno porta dentro di sé.
4.4.1. Ambivalenza delle condotte giovanili
Per rendere più esplicito il nostro ragionamento forniamo alcuni esempi di diversità di
interpretazioni in cui ci siamo imbattuti negli autori che abbiamo accostato.
Un primo esempio può essere fornito dalla diversa valutazione che viene data ai
comportamenti trasgressivi o a rischio. C’è chi li considera come un rifiuto all’integrazione sociale
e quindi frutto di una cattiva socializzazione (struttural-funzionalismo), chi invece un elemento di
innovazione nella società (sociologia critica).
C’è chi li valuta come un bisogno evolutivo, di autonomia, di presa di distanza dal mondo
adulto e dal modello infantile “eterodiretto”. La prospettiva interazionista e costruttivista ha
evidenziato che tali comportamenti svolgono delle precise funzioni nel processo di adattamento tra
l'individuo e l'ambiente e sono il risultato di un'azione orientata ad uno scopo, in relazione ai
compiti di sviluppo ed alle opportunità offerte dal contesto.
37
Lo sviluppo dell'identità e la partecipazione sociale si declinerebbero, infatti, in funzioni
specifiche definite come "adultità": trasgressione, affermazione e sperimentazione del sé, fuga dalla
realtà e ricerca di una risoluzione emotiva immediata, costruzione di un legame sociale e di gruppo
con i coetanei. Dato il progressivo rinvio dell'ingresso nell'età adulta che caratterizza le società
occidentali; spesso il ragazzo assume comportamenti che vengono ritenuti significativi dello status
sociale adulto come ad esempio il fumo di sigaretta o il consumo di alcool. La definizione della
propria identità sovente viene cercata in attività di natura prevalentemente simbolica, che si connota
di tratti negativi, nell’impossibilità di sperimentare un ruolo positivo, di “contare” in questa società.
Tuttavia alcuni dei comportamenti trasgressivi e rischiosi, a giudizio di altri, denunciano non
solo la ricerca di una via autonoma di realizzazione, ma anche un disagio dovuto a bisogni non
soddisfatti a tempo debito: “scarsa autostima, disagio psicologico (immaturità affettiva e cognitiva,
inquietudine, ecc.), vissuti abbandonici, incapacità di riconoscere l'autorità genitoriale, fallimenti
scolastici o difficoltà in ambito lavorativo” (EURISPES, 2002, 148).
D’altra parte il rischio e la trasgressione sono anche elementi costitutivi di questa società:
saper rischiare è una condizione essenziale per il successo in una società sempre più competitiva e
sempre meno garantita. Per gli adolescenti l’accettazione della sfida insita in situazioni pericolose
diventa un modo per affermarsi e realizzarsi in un mondo dove il saper rischiare fa parte delle
abilità che la società richiede a chi vuole farsi strada nella vita.
I bisogni che sembrano emergere da certe forme di divertimento, come quello in discoteca
sono quelli di appartenenza, di compagnia, d’identità, di espressività. Ma anche tentativi di
nascondere problemi di personalità e di identità, o di sfuggire ai problemi della vita attraverso stati
di alterazione della coscienza (lo “sballo”). Inoltre, tali strade sembrano far intravedere l’esistenza
di un sistema di valori come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione e della novità
(Labos, 1994).
I disturbi delle condotte alimentari sembrano indicare difficoltà ad accettare le
trasformazioni del proprio corpo ed il confronto con quello degli altri. Ma anche la dipendenza da
modelli estetici imposti dalla moda e dalla pubblicità.
Le fughe (dalla famiglia o dalla vita) possono rappresentare una reazione finalizzata
all'evasione e all’evitamento delle difficoltà, acuite nel corso dell'adolescenza dalle trasformazioni
psico-fisiologiche, dal bisogno di agire, da capacità cognitive ed emozionali ancora immature,
pensando “di diminuire l’angoscia e di trovare vie d’uscita da una situazione che si percepisce come
insopportabile” (EURISPES, 2002, 148).
Molti casi di suicidio o tentato suicidio hanno alle spalle significative perdite/separazioni,
genitori con problemi di alcolismo o con disturbi psichici, esperienze di vittimizzazione violenta
(fisiche, molestie o abusi sessuali, psicologiche), isolamento. Tuttavia tali forme possono anche
dipendere da disturbi psichiatrici, disordini della condotta ed altre forme di disagio psichico
(instabilità emozionale, comportamenti autodistruttivi, incapacità di controllo degli impulsi, scarsa
tolleranza allo stress, scarse capacità di risoluzione dei problemi, credenze rigide o irrazionali, ecc.).
A loro volta, le forme di autodistruttività come l’anoressia, la bulimia, il consumo di droghe,
le fughe da casa i suicidi o tentati suicidi possono rappresentare un richiamo su di sé ed un tentativo
di risolvere in maniera “drammatica” i propri problemi. Sovente le radici del malessere stanno
anche nelle situazioni familiari, ed in particolare, nell’atteggiamento di genitori troppo impegnati
nel lavoro alla ricerca sempre più intensa del benessere, ma poco attenti ai figli, ad un sano ed
equilibrato sviluppo della loro personalità.
Tali forme possono anche essere una specie di denuncia sociale: «Per molti giovani poi il
rischio della morte rappresenta il tentativo estremo o di affermare la propria individualità contro
l’anonimato sociale o di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che la vita opaca del presente non
consente di cogliere. Infatti come suggerisce Morin “questa affermazione dell’Io nel rischio di
morte contiene molto spesso un’esaltazione del Sé” » (Labos, 1994, 38).
Anche forme di violenza, cosiddetta “espressiva” o “simbolica” avrebbero come scopo
principale quella di manifestare un disagio, di esprimere, con forme altamente spettacolari, il
38
proprio malessere: la difficoltà a riconoscersi ed integrarsi in questa società. Perciò si
esprimerebbero con rabbia distruttrice contro tutto ciò che simboleggia una civiltà da cui si sentono
attratti e respinti insieme.
«La presenza di questa autodistruttività non può essere banalizzata, in quanto interpella la
responsabilità del mondo adulto sulla necessità di offrire all’orizzonte esistenziale dei giovani sia la
conquista della loro identità, messa in crisi dalla complessità sociale, sia la capacità di alterità che
sola può metterli in relazione con l’esperienza di amore che tesse la presenza umana nel mondo. Lo
stesso senso religioso della vita ha bisogno di questo fondamento antropologico per aprire il
giovane all’invocazione verso l’assoluta Trascendenza. I comportamenti devianti dei giovani che
abitano il disagio conclamato sono lo specchio crudele attraverso cui è possibile leggere la
finitudine dell’attuale condizione sociale e scoprire le vie da percorrere per il suo superamento »
(Labos, 1994, 38).
“Un’ulteriore ipotesi, negli ultimi anni divenuta molto nota, è quella della forbice che si
creerebbe tra competenze intellettive di vario tipo dei ragazzi e competenze sociali ed emotive. Ci si
è accorti, infatti, che abbiamo costruito dei ‘mostri intelligenti’, capaci di usare tecnologie, che
ricevono un'infinità di informazioni, molto di più che nel passato, ma sempre più fragili dal punto di
vista emotivo e sociale, in termini di comunicazione sociale, di abilità di stare con gli altri, di
accorgersi delle proprie emozioni, di avere empatia” (Dipartimento di giustizia minorile, .
4.4.2. Principali bisogni frustrati
Dopo questa carrellata sulle possibili interpretazioni del disagio e rischio, ci accingiamo a
stilare una lista dei principali bisogni “frustrati”, sulla scorta delle indicazioni ottenute dalla lettura
di vari autori, con la consapevolezza dell’alta problematicità che impone ogni intervento definitorio
e dell’aleatorietà che ha un’operazione come quella che stiamo compiendo. In ogni caso, il disagio
giovanile sembra poter essere ricondotto ai seguenti gruppi di bisogni:
1. Bisogni materiali (situazioni di povertà materiale, di emarginazione, ecc.): situazioni
residuali in Italia, anche se non completamente scomparse. Si verificano molto di più
con gli immigrati.
2. Bisogni di sicurezza (economica, sociale, personale). Il problema più grave è dato dalla
mancanza di lavoro che minaccia potenzialmente tutti i giovani in Italia, anche se col
tempo la maggioranza trova una soluzione; in ogni caso il sistema di sostegni familiari e
sociali consente di non cadere nell’indigenza. Altro problema molto sentito è la
sicurezza sociale, minacciata soprattutto dalla delinquenza, dall’immigrazione, ma anche
dalle condotte a rischio degli stessi giovani. Infine ci sono problemi di sicurezza
personale che però si collegano a quelli affettivi, cognitivi e dell’identità.
3. Bisogni affettivi, da soddisfare sia nella famiglia, che nel gruppo o nelle relazioni
diadiche. Bisogni che sovente la stessa famiglia, per ragioni di lavoro, di coppia, o di
maturazione personale, non riesce a garantire ai figli; ciò mina la fiducia di base nel
bambino in tenera età, o la possibilità di dialogo e di un adeguato sostegno affettivo
nell’adolescente. Questa carenza a sua volta riduce la sicurezza personale, incide
negativamente sulla capacità di maturazione affettiva, con effetti di moltiplicazione del
disagio.
4. Bisogni sociali, di relazione ed appartenenza, di inserimento ed accoglienza in un gruppo
e nella società, di autonomia dalla famiglia, di adattamento alla società e modificarla, di
contribuire al suo sviluppo, di partecipazione e protagonismo sociale, di sperimentazione
sociale.
39
5. Bisogni formativi, connessi con i compiti di sviluppo dell’età: comprendono sia i bisogni
di istruzione e formazione professionale, come anche quelli di sociali, di autonomia, di
identità, di maturazione psichica, sociale e culturale, di equilibrio emotivo e mentale.
6. Bisogno cognitivi: di percepire chiaramente la situazione e il suo significato (cioè le
conseguenze delle proprie reazioni ad essa), di una visione del mondo chiara.
7. Bisogni di stima, sociale e personale (o autostima per il proprio valore, misurato sovente
in base a quello che si sa fare o all’apprezzamento sociale), di avere un concetto positivo
della propria adeguatezza e competenza.
8. Bisogni di accettazione di sé, del proprio corpo, emozioni, sentimenti, limiti,
cambiamenti, ecc.
9. Bisogni autorealizzativi: di occupazione, di disporre dei mezzi necessari per controllare
le situazioni e soddisfare i bisogni fondamentali;
10. Bisogni espressivi e comunicativi, che si realizzano prevalentemente nel tempo libero,
nei divertimenti e nei consumi, nella comunicazione sociale e interpersonale, nella
soddisfazione estetica, nella produzione artistica o negli hobbies.
11. Bisogni esistenziali: di significato, di senso, di un quadro di valori organizzato che
conferisca coerenza ed unità alle esperienze, ai vissuti e alle idee che si va formando.
12. Bisogni trascendentali: di uscire fuori di sé, di relazionarsi con l’altro, il diverso, di
accettare gli altri nella loro diversità, le situazioni impreviste, disponibilità a cambiare
punto di vista, abitudini, situazioni di vita, flessibilità, ecc.
13. Bisogno di integrazione dei motivi, dei valori, dei comportamenti ed atteggiamenti, di
possedersi completamente, in totalità.
4.4.3. Interazione tra soggetto e società
Questi bisogni, emergenti dal disagio, indicano che la società non è ancora riuscita a soddisfare
tutti i bisogni, nonostante il suo enorme sviluppo ed il livello di benessere raggiunto. Comunque
non tutto dev’essere imputato alla società: molto sovente il disagio può indicare anche precise
responsabilità personali, o comunque ragioni che hanno origine all’interno del soggetto o dalla sua
storia personale. Ragioni che sono più difficili da spiegare perché provengono da un’ampia
costellazione di variabili.
Tuttavia va riconosciuto che, al di là dei singoli casi riconducibili a patologie personali o
familiari, qualora un tipo di fenomeno diventa generalizzato esso rimanda a cause sociali che
incidono in maniera significativa sulle condotte e sugli atteggiamenti dei singoli. Da molti autori la
società è stata chiamata in causa, come causa prima di comportamenti che hanno visto i giovani
come protagonisti.
In fondo si riconosce che, nell’interazione individuo-società, l’individuo è sempre in posizione
svantaggiata, particolarmente nel caso dell’adolescente, che ha una personalità ancora in
formazione, e quindi non ha ancora dei criteri stabili di valutazione e di comportamento. Peratanto,
sia per l’impostazione del nostro lavoro, sia per queste considerazioni dello svantaggio personale,
tendiamo a considerare il disagio giovanile frutto di cause sociali, le quali influiscono sui
comportamenti, sugli atteggiamenti e sui valori che l’adolescente adotta.
Ciò rimanda ai meccanismi della socializzazione e dell’inculturazione, alle responsabilità della
società nel suo complesso e delle agenzie preposte a tali interventi. Soprattutto quando i bisogni
appaiono non tanto sul piano materiale, ma soprattutto su quello immateriale. Molti dei disagi
evidenziati sembrano infatti indicare carenze sul piano formativo, che chiama in causa i processi di
socializzazione.
40
I tre modelli (dei bisogni, delle transazioni e delle transizioni) si riferiscono a tre aspetti particolari che
rendono conto dell'insoddisfazione dei bisogni, dell'incapacità di risposte da parte dell'individuo, e del
periodo adolescenziale di crescita e di trasformazione personale. In modo particolare, a questo punto si può
assumere un concetto di rischio che prenda in considerazione esplicitamente i bisogni come mancato dialogo
tra sfide e risorse: come «situazione in cui vengono frustrate o negate le opportunità ragionevoli di soddisfazione dei bisogni fondamentali».ZI6
Perciò impiegheremo i termini “devianza” o “marginalità”, quando vorremmo parlare di
condotte precise, così classificate dalla sociologia classica (e in questo senso useremo alcune volte
anche la parola “rischio”), mentre impiegheremo la parola “disagio” per descrivere una situazione
più ampia e sfumata, che comprende sia la devianza e marginalità classiche, sia uno stato di
malessere diffuso, che può essere di tipo psicologico o sociale, e che qualcuno è arrivato a chiamare
“asintomatico”.
Questo tipo di risposta può essere spiegata secondo alcuni modelli psicologici: quando la
frustrazione diventa insopportabile (la capacità di sopportare la frustrazione è molto soggettiva)
diventa quasi inevitabile il passaggio all’atto (acting out), che si verifica soprattutto con
l’esplosione aggressiva, grazie all’energia accumulata nella situazione frustrante13. Tale atto
aggressivo può essere rivolto verso se stessi (autodistruttività) o contro gli altri (eterodistruttività),
ma sempre con effetti dannosi, che riducono la tensione solo in senso temporaneo, ma non danno
una vera risposta al bisogno. Ecco perché si parla di una risposta irrazionale. Inoltre la mancata
risposta diventa causa di una nuova insoddisfazione e quindi di ulteriore tensione ed esplosione
violenta, creando un circolo vizioso condizionato dal meccanismo stimolo-risposta errata.
L’abitudine a questo tipo di risposta, la mancanza (o la non conoscenza) di soluzioni adeguate nel
proprio ambiente, la subcultura in cui si trova immerso e i rinforzi positivi verso questo tipo di
comportamenti rischiano di fare di un semplice meccanismo una vera situazione patologica ed
insanabile.
A questo punto sembra utile chiarire brevemente il rapporto tra rischio sociale e disagio. Partendo dal
concetto di rischio come frustrazione dei bisogni possiamo affermare che il disagio richiama uno stato di
«malessere che pervade oggi in modi diversificati l'intera (o quasi) condizione giovanile»223 provocato dallo
scarto tra le sfide provenienti dalle domande esterne e interne al soggetto e le risorse disponibili per colmarle.
Abbiamo preferito un approccio relazionale al disagio che lo intende come «l'espressione della fatica con cui
i soggetti della socializzazione affrontano l'onere di reggere il gioco della flessibilità dei percorsi, delle scelte
e degli atteggiamenti»224 nel gestire sfide e risorse all'interno del sistema sociale o di sistemi sociali sempre
13 “K. Lorenz e P. Leyhausen, partendo da alcune osservazioni sul comportamento animale, hanno ipotizzato che la violenza (in
forma di aggressività reciproca) è connessa con l’ansia e l’insicurezza derivanti da una situazione di sovrappopolazione in un’area
limitata, aggravata dalla presenza di sistemi rigidi di controllo e di strutture sociali costrittive, che creano la sensazione di non poter
né evadere, né espandersi, né realizzarsi. Questo modo di lettura che è stato chiamato «ecologico» è ricco di applicazioni alla reale
condizione di molti giovani italiani, obiettivamente «bloccati» nella soddisfazione di molti bisogni anche fondamentali (famiglia,
lavoro, partecipazione) da situazioni di reale penuria delle risorse, di crescente mancanza di spazi, di assurda negazione del bisogno
di espansione” […].
“Analogo discorso va fatto per il contributo offerto dalla psicanalisi. Freud (e in parte anche i successivi suoi discepoli) collega la
violenza all’aggressività, o meglio ad uno sviluppo abnorme e unilaterale dell’aggressività, che è a sua volta una dimensione di base
della personalità. La violenza non sarebbe quindi un comportamento solo o prevalentemente appreso, ma invece largamente derivato
da una distorsione nel rapporto tra gli istinti di base. L’aggressività infatti è descritta da Freud come una manifestazione di un
impulso o istinto di morte, di per sé distruttivo o aggressivo, che si può trasformare in forza positiva e costruttiva solo se
adeguatamente controllata, canalizzata e orientata dall’opposto impulso o istinto di vita, che rappresenta una forte spinta alla ricerca
degli altri, all’amore, alla felicità, all’autoconservazione.
Nella prospettiva freudiana ogni conquista umana individuale o collettiva è sostenuta da una forte carica di aggressività sublimata,
mentre ogni distruzione reca il segno di un’aggressività scatenata, sottratta al controllo della ragione umana. L’equilibrio istintuale è
però sempre instabile e il rischio della violenza attraversa in continuità l’esperienza quotidiana” […].
“Il carattere appreso della violenza è invece sottolineato da Dollard e coll., i quali la mettono in relazione alla situazione di
frustrazione; ma allo stesso tempo negano che vi sia un nesso deterministico tra frustrazione e aggressione violenta, poiché i modi di
adattamento o superamento della frustrazione sono molti. [...] Il fenomeno che stiamo studiando sembra più diffuso nelle società
caratterizzate da un’alta competitività e da processi di rapido cambio sociale, nelle quali la corsa al potere è sollecitata dall’ideologia
del «rendimento ad oltranza» ma allo stesso tempo è preclusa, almeno attraverso le vie legittime, ad ampie minoranze che non sono
dotate degli stessi «punti di partenza» e delle facilitazioni o privilegi di cui godono i detentori del potere. Di qui la violenza come
ultima risorsa degli «esclusi»” (Milanesi, 1977, 30-35 passim).
41
più complessi. Alcune situazioni di disagio «possono produrre esiti problematici per il giovane». 225 Esso va
verificato e misurato nella sua probabilità di produrre esito positivo.
Il sistema sociale offre sfide che il soggetto non è in grado di realizzare per mancanza e inadeguatezza
delle risorse; il disagio proviene da una mancata comunicazione tra il soggetto, i mondi vitali e il sistema
sociale.
Per sistema sociale si può intendere «un insieme di relazioni sociali tipizzate, di comunicazioni, di
trame normative e strutture di controllo [...J capace di sopravvivenza e di autodirezione».226 I sistemi sociali
diventano sempre più differenziati e complessi, in certo modo chiusi e qualche volta indecifrabili per i
giovani. Come esemplificazione guardiamo al sistema dei rapporti di lavoro: si pensi ad un giovane
lavoratore di 14 anni, oriundo delle `favelas' che deve affrontare i rapporti di lavoro all'interno di una impresa
e che deve imparare, oltre alle procedure professionali, anche il modo di rapportarsi con
In secondo luogo il concetto di mondi vitali, come «l'ambito di relazioni intersoggettive che precedono
e accompagnano la riproduzione della vita umana e che, successivamente, anche attraverso comunicazioni
simboliche tra due o poche persone, formano la fascia delle relazioni di intimità, di familiarità, di amicizia,
di interazione quotidiana con piena comprensione reciproca del senso dell'azione e della comunicazione
intersoggettive»,227 richiama i luoghi del vissuto intersoggettivo: il gruppo dei pari, la famiglia, il gruppo
sportivo ecc.
b] Il rischio come costruzione sociale
Molti autori intendono il rischio come prodotto dalle rappresentazioni sociali nate dal senso comune.228
Se è vero che sono molti gli adolescenti a rischio, è anche vero che, a seconda della reazione sociale al
rischio, essi sono identificati come costituenti essi stessi un rischio per la società: «Un ragazzo nero
malvestito girando per le strade è visto come un rischio imminente, può assaltare o ferire». «Essendo
adolescente, povero, di sesso maschile si ritrova potetzziahnetzte «sospetto» di mettere a rischio l'ordine e il
benessere sociale».229 La discriminazione, il pregiudizio o lo stigma riguardo all'attore sociale «ragazzo
povero e nero» può produrre il «pivete» come fattore di rischio. Oltre a vivere per la strada, e quindi in
situazione permanente di rischio, è anche visto dalla società come un rischio: possiamo immaginare, alla luce
delle teorie dell'interazionismo simbolico, le lacune provocate alla formazione dell'identità di questi ragazzi
ritenuti essi stessi fattori di rischio.
c] Rischio soggettivo
Il rischio è soggettivo quando ha le sue radici all'interno del soggetto e riguarda piuttosto gli
atteggiamenti, le decisioni, i disturbi psichici personali. Aumentano sempre di più nella società
tecnologicamente avanzata i comportamenti volontari rischiosi: tentativi, esperienze, ricerca di sensazioni
nuove, di vivere sui confini tra il mondo ordinato e il fascino del disordine e dello 227 Ibidem, p. 15.
22a Cf. A. SAPORITI, Alcune osservazioni sull'uso delle «statistiche ufficiali» nella valutazione delle condizioni di rischio
nelle famiglie, in «La Ricerca Sociale», 45 (1991) 46-58; D. DUCLOS, La construction sociale du risque: le cas des ouvriers de la
chfimie face aux dangers industriels, in « Revue Fran~aise de Sociologie», 28 (1987) 17-42; S. LUBECK - P. GARRETr, The social
construction of the `at-risk' child..., p. 330-331; R. DE SOUZA FILHO - R.R. HERINGER et alii, Vidas em risco: assassinatos de
criangas e adolescentes no Brasil, MNMMR/IBASE/ NEV-USP, Rio de Janeiro 19912, p. 64; P. DONATI, La famiglia come relazione
sociale, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 174-175, 182.
229 R. DE SOUZA FILHO - R.R. $ERINGER et ahl, Vidas em risco..., pp. 64, 67.
sconosciuto. Per gli adolescenti il confronto con determinate situazioni rischiose si manifesta come un
tentativo di affermazione di sé e di valutazione delle proprie capacità: la velocità sui motorini, la ricerca di
avventura, l'esperienza della droga, fare il «surf» dietro e sopra i mezzi di trasporto, sfidare la polizia...
Il periodo adolescenziale, come tappa di vita, comporta dei rischi. Esso funziona come transazione tra
l'individuo e la società (famiglia, gruppo, istituzioni, associazioni) e transizione tra il bambino e l'adulto. Il
periodo adolescenziale manifesta particolari bisogni, già ricordati, tra cui il bisogno di validi modelli adulti di
riferimento. Spesso l'adulto (i genitori, gli insegnanti) sfugge a queste responsabilità e delega la sua funzione
normativa (prescrizioni) alle istituzioni, per evitare il conflitto. Rispetto all'assenza o alla rinuncia al conflitto
da parte degli adulti significativi, la società offre la possibilità della partecipazione al ruolo di consumatore (il
consumo) e di produttore (il lavoro). L'adolescente in formazione ha subito libero accesso al consumo, senza
42
che disponga ancora di un proporzionale criterio dei limiti e degli strumenti da utilizzare criticamente; al
contrario, spesso ricerca il consumismo come compensazione e come evasione.
Si constata inoltre, soprattutto nella società complessa, una crisi nell'assunzione dei valori e una
mancata offerta di riferimenti valoriali. Il giovane si trova spesso dinanzi a offerte valoriali deboli o a pseudovalori. Oltre al nucleo familiare, il gruppo dei pari funziona come un filtro interattivo delle proposte valoriali
del sistema sociale (mass media, modelli di riferimento, moda, atteggiamenti). Se problematico, l'ambiente
familiare e gruppale può funzionare come rinforzo non soltanto degli pseudo-valori, ma anche dei comportamenti devianti. Per non sentirsi escluso dal gruppo dei pari, l'adolescente si adegua ai valori e atteggiamenti
in esso assunti, incorporando una personalità a basso profilo valoriale. Inoltre, esistono tendenze culturali, per
lo più negative, che si sviluppano nel territorio, sia nel gruppo dei pari sia nell'ambiente in genere, che
alimentano il rischio di emarginazione e di devianza.
Nell'infanzia il contatto con determinate sub-culture negli strati più poveri ed emarginati, in cui sono
compresenti l'istintività, la mancanza di riflessività, la preoccupazione per la sopravvivenza, la violenza, la
mancanza di risorse, 1' indifferenza e la trascuratezza del periodo evolutivo, costituisce un rischio. Nella
classe media e alta il rischio può essere più forte in un quadro di tensioni strutturali proprie della modernità,
manifestandosi per esempio in violenze psicologiche, vuoti affettivi, depressione, ecc.
Esistono tendenze culturali che possono essere definite riduttive e altre marginali; quelle riduttive
veicolano soltanto una parte dei valori o pseudovalori del sistema sociale, quando esso non è in grado di
fornire all'individuo una formazione integrale, e concorrono ad indebolire la formazione della personalità.
Altre culture si caratterizzano invece come marginali, perché emergono come alternative a quelle di carattere
dominante. Alcune di queste culture23° collaborano alla formazione di atteggiamenti in base ai quali si giustificano determinati
comportamenti irrazionali e devianti:
• Cultura del potere e della forza: «Felicità è aver forza, apparenza e farsi rispettare»;
• Cultura dell'onnipotenza personale: «Ognuno deve guardare ai propri interessi»;
• Cultura della negatività: «La vita non ha senso»;
• Cultura del disimpegno o della risposta indifferente alla problematica politica e sociale: atteggiamenti
di «menefreghismo»;
• Cultura dell'infantilizzazione e della ricerca dell'emotività come matrice di nuove esperienze a scapito
della razionalità; della fuga e della evasione, per dimenticare e diminuire l'ansia; «Felice è chi sa godersi la
vita».
• Cultura dell'apparenza: il bello è quello che appare, che affascina, che fa notizia;
• Cultura dell'omertà: del successo ad ogni costo, della furbizia, dell'indifferenza, del silenzio, della
complicità che rinforza la domanda di atteggiamenti di servilismo e di furbizia nei rapporti.
A queste tendenze culturali si aggiungono quelle del consumo, dell'irrazionalità, del privato, già
ricordate nel paragrafo sui bisogni e sistemi di significato. Alcune di queste culture hanno la loro matrice
nello stesso sistema sociale; la loro assunzione consiste nel modo, anche se problematico e riduttivo, di
partecipare al sistema: ad esempio la moda, il consumismo, l'indifferenza per il sociale e il politico. Altre
culture crescono come alternativa e al margine del sistema: sottocultura della criminalità organizzata, della
droga e della strada. Esse diventano doppiamente una premessa per il rischio sociale, sia in quanto assunzione
di pseudo-valori, sia perché crescono nel terreno della marginalità. «Le aree della marginalità costituiscono
luoghi di culture del rischio in quanto al loro interno è più facile che si producano squilibri cui gli
adolescenti non sanno far fronte».23t
d] Rischio oggettivo
Accanto ai rischi soggettivi, vissuti dai soggetti come risposta alle sfide provenienti dall'ambiente, ci
sono i rischi oggettivi; generati nell'ambito strutturale dalla frustrazione dei bisogni fondamentali della
persona. È posi
bile identificarli nelle condizioni di povertà, nelle situazioni familiari problematiche (famiglia
conflittuale, disgregata, ricattatoria, disorientante, perfe
z3°
z31
Cf. A.C. Motto, Società rischiosa e preadolescenza, in «Il Bambino Incompiuto», n. 3, 9 (1992) 16-17.
G.P. Dt NICOLA (a cura di), Tempo libero e minori a rischio in Abruzzo, Regione Abruzzo/UNICEF, 1990, p. 51.
43
zionista, avara, violenta), nei fallimenti scolastici e lavorativi, nella disoccupazione, nella mancanza di
opzione per il tempo libero.
Le varie manifestazioni del rischio, sia soggettivo che oggettivo, vanno specificate in determinati
fattori.
4.4.3.1. Disagio e processi di socializzazione
A. Melucci e A. Fabbrini lo vedono come una
domanda non patologica (o non ancora patologica) inerente ai problemi psicologici e
affettivi, le difficoltà familiari e di relazione, le difficoltà scolastiche, il più generale
malessere esistenziale connesso agli squilibri che il processo di costruzione dell'identità
produce (Melucci, Fabbrini 1991, )
4.4.3.2. L’indagine del CENSIS
Un primo studio per delineare una mappa quali-quantitativa delle varie e più comuni forme
di devianza minorile fu condotto dal CENSIS (1982). Secondo quest’indagine, i comportamenti
fuori legge più frequenti e diffusi nell’area adolescenziale, riguardavano forme e modi diversi di
vandalismo, spaccio e consumo di sostanze stupefacenti, reati contro il patrimonio e contro la
persona (fra i quali i più frequenti legati alla sessualità). Stando nell’ottica della devianza intesa
come forma di comunicazione, questa fenomenologia di comportamenti poteva esprimere da parte
dei minori:
1. aggressività verso la società degli adulti, sentita come distante, poco disponibile
all’accoglienza e poco attenta alla loro condizione, dovuto alla mancanza di canali sociali di
espressione/accettazione della propria identità;
2. disorientamento individuale nell’interpretazione dei valori portanti;
3. “resilienza”, ovvero lucida determinazione ad adottare comportamenti spericolati per
assecondare un esasperato bisogno di protagonismo/competitività fra compagni e nei
confronti del mondo adulto.
“Scegliere la devianza come modalità d’azione” può rappresentare un’adesione a modelli
normativi condivisi nel sistema o nella microcultura di appartenenza. Di conseguenza, vennero
tentate spiegazioni della delinquenza minorile riferentesi alle problematiche del sé, dell’identità,
delle relazioni significative e dei contesti di controllo
Questa ricerca di equilibrio si avverte in particolar modo durante la fase del processo
evolutivo, quando il minore è particolarmente impegnato a cercare sempre nuove forme di
equilibrio, di (ri)organizzazione dell’immagine di sé in continua trasformazione, al fine di realizzare
articolate modalità di rapporto con il mondo adulto e le istituzioni. Quindi certi “strani”
comportamenti degli adolescenti in realtà rappresentano complesse forme di organizzazione del
proprio sé per comunicare. Sono funzionali al proprio sistema di interazione.
4.4.3.3. Identità spettacolari
La componente espressiva del disagio apparve evidente in alcune forme contigue con l’area della
devianza. Si trattava di Rockabillies, Mods, Punks, Darks, New-wavers, (“gruppi spettacolari” –
Caioli, 1986 - o “del disimpegno” - Bajardi, Guglielminotti, 1987) i cui elementi distintivi
44
sembravano fare riferimento ad un genere o personaggio musicale e all’abbigliamento (più avanti
nasceranno i “metallari”, le “madonnare”, i “paninari”, ecc.). Alcuni di questi gruppi esibivano
simboli, abbigliamento e gergo tipici dell’estrema destra. Davano l’impressione d’essere violenti e
d’alimentare progetti reazionari. In realtà non si trattava di gruppi violenti, eccetto gli skinheads,
che si sono segnalati per i raid razzisti (più in Germania che in Italia). In ogni caso mancava loro
una vera progettualità politica. Questi gruppi si limitavano ad esprimere l’insofferenza ed il disagio
di vivere in una società che non li accoglieva, che non era adatta a loro.
Il disagio principale che essi esprimevano, a giudizio di Carmen Leccardi e Anna Rita Calabrò,
era quello dell’identità (Caioli, 1986). Un’identità sempre più difficile in un mondo che cambiava
rapidamente e non offriva più supporti validi per i percorsi di definizione dell’identità.
Quest’identità, non più ancorata a strutture sociali plausibili e condivise, cercava una sua via di
definizione attraverso l’appartenenza ad un piccolo gruppo, l’adesione ad uno stile, ad un genere
musicale, ad una moda, ecc. Un’identità “spettacolare”, appunto, fatta apposta per sorprendere, per
stupire. Un’identità negativa, nel senso inteso da Erikson, che si affermava rendendo esplicita,
manifesta la propria diversità. Differenziazione che fa parte delle strategie di definizione
dell’identità14.
Diversità manifestata attraverso il simbolismo, l’apparenza15. Simbolismo che costringeva a
prendere posizione, che provocava, che non si prestava a mezze misure, “o sei con noi, o sei
contro”, che rifiuta i compromessi. D’altra parte era una diversità elaborata dal gruppo, “portatore
di un’identità collettiva che allevia e satura le incertezze legate alla definizione dell’identità
personale” (Leccardi, 1986, 214). Cosicché lo spazio-tempo dove gestire questa identità
spettacolare è il tempo libero e lo spazio aperto della metropoli.
4.4.3.4. Le manifestazioni della violenza
Questa componente espressiva della violenza giovanile apparve anche da un’altra ricerca
promossa dal Labos (1988) su vari gruppi e realtà giovanili contigui alla violenza (gruppi a rischio,
gruppi di tifosi, gruppi informali, gruppi di studenti, ecc.). Questa ricerca capovolse i metodi
tradioznali di interpretare la violenza. I vari spezzoni della ricerca tendevano a ricondurre la genesi
del comportamento violento alle interazioni tra i soggetti e il micro-ambiente. Sovente era la
violenza subita che diventa la forma di apprendimento per un comportamento violento. Oppure il
clima intriso di violenza in cui si era vissuti; o le dinamiche di gruppo (ad intra o ad extra). In ogni
caso la violenza appariva collegata a dinamiche “normali” senza bisogno di far riferimento a precise
patologie personali o sociali.
Le interpretazioni tendevano a spiegare questa violenza ‘normale’ “come tentativi (inadeguati) di
colmare il divario esistente tra complessità sociale (che prende il volto della società ostile e chiusa)
e le ridotte opportunità individuali e con cui molti giovani devono fare i conti quando si pongono il
problema delle proprie identità e dell'inserimento sociale” (Labos 1988, 300).
Pertanto la violenza agita dai giovani di questi anni appare una violenza di tipo espressivo,
utilizzata al fine di manifestare il proprio disagio.
Ciò valeva soprattutto per coloro che erano meno attrezzati di strumenti per la comprensione e il
governo dei rapporti con l'ambiente; e questo rinviava a sua volta “alle carenze dei processi di
socializzazione ed ancora più specificatamente, […] alle carenze dei processi e delle relazioni
educative (cioè degli strumenti che avviano alle opzioni personali e non solo si accontentano
dell'adattamento)” (Labos 1988, 314).
Per questo sua caratteristica fondamentalmente espressiva e simbolica, la violenza giovanile ha
14 “I giovani si sono trovati costretti ad elaborare nuove strategie di definizione dell’identità operando una selezione tra le diverse
risorse messe a loro disposizione da una società che sembra spingere in direzione dell’anonimità e del conformismo e nella quale
l’appello alla differenza ha un significato dirompente sulla logica dominante” (Calabrò 1986, 291)
15 “L’abbigliamento, come è noto è un medium comunicativo di grande efficacia simbolica” (Leccardi 1986, 211).
45
bisogno di accentuare l’elemento spettacolare.
4.4.3.5. Sport e violenza
La ricerca del Labos (1988) sulla violenza ha svolto anche un’indagine su gruppi di tifosi. Anche
qui l’elemento spettacolare sembrava giovare un ruolo fondamentale. Infatti gli adolescenti, che
sono impegnati nella ricerca di soluzione al problema dell’identità, individuale e sociale, trovano
nell’aggregazione sportiva una rappresentazione simbolica di valori e modelli di comportamento
che possono sembrare una risposta al problema dell’identità. Un’identità che si compone anche di
un elemento aggressivo, di cui lo sport, ed il calcio in particolare, è assai ricco.
L’inserimento in un gruppo che accetta nuove presenze senza difficoltà, perché la partecipazione
è prevalentemente di esclusivo tipo fisico e corale; l’assunzione di un ruolo che può essere
considerato quello di un adulto in chi è tutto proteso a bruciare le tappe e ad uscire da una
condizione di forte ambiguità come quella adolescenziale; la sicurezza della impunità che consente
di agire senza timori (e che si sia non punibile è presto trasmesso al ragazzo attraverso il «tamtam»
tra coetanei); la possibilità di nobilitare la guerriglia attraverso l’autoconvincimento che si serve una
fede e si esprime un amore per una realtà che assume quasi connotati metafisici (una squadra, una
bandiera, una maglia); tutto ciò immette il ragazzo - alla ricerca non solo di una identità, di un
ambiente e di un ruolo, ma a anche di una valorizzazione personale stemperata nel collettivo - in un
sistema di violenza, e in realtà in una subcultura deviante, che può profondamente segnare tutta una
esistenza.
Tuttavia, la citata ricerca, afferma che, a parte la spettacolarizzazione della violenza, favorita
certo dai rituali del calcio, per il resto la violenza non è provocata dallo sport, ma è dentro la
società. Lo sport è un'espressione ritualizzata ed istituzionalizzata dell'aggressività, migliore, per
es., della guerra o di altre forme di violenza sistematica, come una modalità di risoluzione del
surplus aggressivo.
II tifoso vive la stessa situazione del protagonista, ne condivide le emozioni e le sensazioni, vive
e si proietta in lui, nell'agire di lui identifica le proprie aspirazioni, si gratifica e si compensa di
quanto la realtà quotidiana gli vieta. Vivere fortemente tali emozioni avrebbe una funzione
catartica: permette al soggetto di esternare le sue contraddizioni, di far esplodere l’aggressività che
ha dentro in modo sostanzialmente rituale e simbolico. Un modo quindi di esprimere l’aggressività
e le tensioni non molto diverso da quello dei “gruppi spettacolari”, cui tra l’altro si avvicinano
anche per il ricco apparato scenico di cui la partecipazione alle partite di calcio si colora (sciarpe,
bandiere, colori, scritte, fumogeni, slogan, suoni, ecc.).
Il calcio è dunque uno spettacolo che suggerisce una logica di battaglia, rafforza
l’appartenenza di gruppo, stimola atteggiamenti di arrogante sicurezza nei confronti degli
avversari: tutte caratteristiche che trovano terreno estremamente favorevole nei giovani
che attraversano un processo di acquisizione e consolidamento dell’identità individuale e
sociale, cui si addice il rischio e l’exploit. Ma […] gran parte di questo potenziale di
violenza si stempera in forme di rituale aggressivo (Labos, 1988, 217).
5. Alcuni esiti dei percorsi del disagio: i comportamenti devianti dei giovani
La ricerca Labos, accanto alla rilevazione dei problemi che sono alla base del loro disagio,
ha esplorato la presenza di quei comportamenti che secondo i modelli culturali correnti possono
essere definiti devianti. I risultati indicano nell’abuso di alcool, nell’uso di droghe leggere e nei
vandalismi i comportamenti devianti più diffusi.
46
L’uso di droghe pesanti appare molto più ridotto sia come consumo abituale che come
consumo saltuario. E’ preoccupante, comunque, che un quarto dei giovani italiani abusi, almeno
saltuariamente, delle bevande alcoliche e che un quinto faccia uso di droghe leggere. Questo
significa che la cultura dell’eccitazione, dello sballo e della soluzione dei problemi attraverso la
fuga in stati di alterazione della coscienza sia abbastanza radicata nel mondo giovanile e non solo in
esso. D’altronde la presenza di un sistema di valori come quello della vita come ricerca del piacere,
dell’avventura, dell’eccitazione e della novità, è compatibile con questo tipo di comportamento. Se
a questo si aggiunge la presenza di forme di malessere solitario e non espresso, si comprende più
facilmente il dato sull’uso di queste sostanze stupefacenti o alcoliche.
Anche la violenza sotto forma di vandalismi ha una presenza preoccupante e lascia
intravedere, se non controllata e prevenuta, una possibile evoluzione verso quelle forme che
affliggono la vita di alcune metropoli statunitensi. In ogni caso essa, pur essendo in molti casi una
forma di devianza primaria, non strutturata, può essere la base di partenza verso forme di devianza
secondaria e strutturata che i dati indicano già presente, anche se in misura più ridotta, nel mondo
giovanile. Il fatto che, almeno qualche volta se non spesso, il 7,4% dei giovani sia stato implicato in
furti, scippi o rapine, 1’1,9% in azioni della criminalità organizzata e il 2,2% nello spaccio di droga,
indica la plausibilità di questa ipotesi16.
Il dato sulle azioni all’interno della criminalità organizzata, molto più elevato nelle zone a
rischio per questo tipo di criminalità nel Paese, pone il problema dell’attrazione della mafia, della
camorra e della ‘ndrangheta su alcuni giovani marginali o devianti occasionali che non appare
sufficientemente contrastata dall’azione delle agenzie educative e socializzanti.
Non va dimenticata una forma di violenza molto diffusa anche negli ambienti bene, che è il
bullismo. Il 41% degli allievi della scuola elementare e il 26% della scuola media inferiore dichiara
di essere stato vittima del bullismo. Si ritiene che esso sia praticato da circa il 3% della popolazione
scolastica (Moro, 2001, 157). Esso si manifesta direttamente con “attacchi fisici, come pugni calci e
atterramenti, o verbali, come insulti, minacce e prese in giro” (Moro, 2001, 155). Il fatto che esso si
manifesti in età così precoce indica un elemento preoccupante di non controllo dell’aggressività e di
volontà di imporsi sulla scena attraverso la violenza e la sopraffazione dell’altro.
Infine occorre segnalare i dati relativi all’autodistruttività attraverso i tentativi di suicidio17 e
la guida in stato di ubriachezza che riguardano rispettivamente il 4,1% e 1’,2% dei giovani, a cui
bisogna aggiungere il 2,2% dei consumatori di droghe pesanti18. Questo dato deve far riflettere
sull’istanza di morte che affligge una parte non assolutamente marginale del mondo giovanile, a cui
l’egoismo del presente, l’assenza di senso della vita al di là della ricerca dell’avere, del piacere e del
consumo fine a se stesso, sembra aver tolto la speranza e soprattutto la capacità di cogliere l’amore
alla vita e la sua promessa di felicità.
Per molti giovani poi il rischio della morte rappresenta il tentativo estremo o di affermare la
propria individualità contro l’anonimato sociale o di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che la
vita opaca del presente non consente di cogliere. Infatti come suggerisce Morin “questa
affermazione dell’Io nel rischio di morte contiene molto spesso un’esaltazione del Sé” (Morin, cit.
da Labos, 1994, 18).
“La presenza di questa autodistruttività non può essere banalizzata, in quanto interpella la
responsabilità del mondo adulto sulla necessità di offrire all’orizzonte esistenziale dei giovani sia la
16 Il numero di minori che ogni anno viene denunciato all’autorità giudiziaria si aggira sullo 0,4% e quelli per cui l’autorità
giudiziaria avvia un’azione penale si dimezza (0,24%). Ciò non vuol dire che questo sia la fotografia del fenomeno, che
probabilmente sfugge ad una rilevazione statistica, anche perché esso dipende da variabili complesse, come il controllo della polizia e
la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Notevole è il numero di minori stranieri denunciati. “Nel periodo 1991-1998, la proporzione
di minori stranieri denunciati è costantemente aumentata fino al 1995, per poi stabilizzarsi nel triennio 1996-1998. Nel 1991 i minori
stranieri denunciati rappresentavano il 17,6% del totale dei minori denunciati, valore che sale nel 1998 al 25.9% (ma la punta più
alta è stata raggiunta nel 1995 con il 27.6%)” (Moro, 2001, 141-142).
17 - “Nel periodo 1993-1998 la polizia di Stato e l’arma dei carabinieri hanno accertato in Italia 300 casi di suicidi e 826 tentati
suicidi di minorenni “ (Moro, 2001, 173). Ma si sa che, almeno nei casi di tentati suicidi, non sempre ciò emerge ufficialmente.
18 I soggetti in trattamento presso i Ser.T nel 1999 risultavano 143 sotto i 15 anni, 4.629 tra i 15 e i 19 anni. I tossicodipendenti
sotto i 18 anni segnalati per la prima volta ai prefetti nel 1999 sono stati 3.3390, di cui 3.149 maschi. I decessi di minori per
tossicomania sono stati 19 nel 1999 (Moro, 2001, 178-179)
47
conquista della loro identità, messa in crisi dalla complessità sociale, sia la capacità di alterità che
sola può metterli in relazione con l’esperienza di amore che tesse la presenza umana nel mondo. Lo
stesso senso religioso della vita ha bisogno di questo fondamento antropologico per aprire il
giovane all’invocazione verso l’assoluta Trascendenza. I comportamenti devianti dei giovani che
abitano il disagio conclamato sono lo specchio crudele attraverso cui è possibile leggere la
finitudine dell’attuale condizione sociale e scoprire le vie da percorrere per il suo superamento”
(Labos, 1994, 18)
In realtà le indicazioni contenute in diverse ricerche a sfondo operativo
riguardano quasi solo l'affrontamento degli esiti negativi del disagio (devianza e
marginalità appunto) o, quanto meno, la prevenzione 0 l'affrontamento delle
situazioni di rischio.
Il disagio, in altre parole, è considerato come un dato di fatto che, una volta
instaúratosi, non vale la pena di affrontare, in quanto è solo un sintomo
soggettivo di una serie di condizioni oggettive «a monte»; su questo caso mai si
accentra l'attenzione degli studiosi e degli operatori, quando affermano la
necessità di ~<risalire alle cause~~, di «eliminare le radici» del disagio. Più
precisamente viene sottolineata la necessità di incidere sugli aspetti oggettivi
del disagio più che su quelli soggettivi; ma a questo proposito appare evidente
che l'uscita dal disagio (o meglio la prevenzione del disagio) è condizionata dalla
capacità di realizzare politiche sociali in grado di contrastarlo e/o di interventi
educativi o rieducativi in grado di neutralizzarne gli effetti psicologici che esso
produce.
Su questi problemi la letteratura scientifica non è in grado di presentare
modelli interpretativi adeguati o proposte d'intervento collaudate.
Ci si deve quindi accontentare di qualche ipotesi, più o meno fondata
sull'osservazione empirica del fenomeno, da cui eventualmente trarre indicazioni per una verifica sul campo.
Il disagio, oltre che sfociare nella devianza e/o nella marginalità, può trovare
vie alternative di altro segno, alcune tendenzialmente negative, altre
tendenzialmente positive.
a) Dal disagio alla compensazione
Molti osservatori ritengono che per una buona parte dei giovani (forse la
maggioranza) il disagio viene neutralizzato o quanto meno mascherato
attraverso un doppio meccanismo di difesa.
Il primo passo è dato dalla privatizzazione generalizzata del malessere, nel
senso che il disagio viene scaricato sugli ambiti di vita immediatamente
circostanti (famiglia, reti amicali, esperienze associative, rapporti di coppia),
che in molti casi funzionano ancora, nonostante le crisi ricorrenti, come
fattori di contenimento delle contraddizioni sociali.
Tali ambiti sono in grado di erogare risorse relazionali che costituiscono di
fatto un'area protetta, un'oasi di tranquillità relativamente separata dal
mondo incontrollabile della società complessa.
48
La famiglia in particolare si configura per molti giovani sempre meno come
agenzia di socializzazione e sempre più come fattore di securizzaG4
zinne, che facilita la transizione verso l'età adulta, garantendo protezione,
soprattutto economica, in cambio di dipendenza.
Il secondo momento del processo di neutralizzazione del disagio ~è vissuto come
diffusa pratica della compensazione, che si serve delle non poche opportunità di
studio e di carriera, di consumo e di divertimento (nel senso articolato di leisure,
come stile di vita caratterizzato dall'opulenza) che questa società nonostante i
suoi limiti è in grado di offrire ai giovani più fortunati (o più furbi?).
Il disagio resta così sullo sfondo di una vita apparentemente normale, come un
ricordo remoto o un rischio improbabile, ampiamente rimpiazzato da esperienze
che permettono di «ridurre la complessità» problematica del sociale, dando alla
vita significati concreti, anche se raramente ~~ultimi». Su questa condizione di
sostanziale appagamento su livelli di progettualità non eccelsi è facile accanirsi
con giudizi che peccano di moralismo; infatti questo tipo di giovane è spesso
identificato con il cinico consumista, capace di infilarsi intelligentemente tra le
pieghe della società complessa, sfruttandone a proprio vantaggio gli aspetti
positivi. In realtà si tratta di un adattamento prevedibile, che privilegia
l'aderenza alla quotidianità, con pragmatismo e flessibilità, con il solo grave
rischio dell'appiattimento valoriale.
I ~~giovani della vita quotidiana» (scuola e/o lavoro, famiglia e sport, amicizia e
discoteca) rappresentano pertanto lo strato più consistente e, forse, allo stesso
tempo più grigio, normale, di questa generazione, quella che corrisponde alle
caratteristiche «medie» descritte dalle surveys più attendibili (34).
b) Dal disagio alla patologia
Una parte del disagio giovanile, non sempre rilevabile sotto il profilo statistico, si
incanala nei percorsi che portano alla psicopatologia (35). Il disagio a lungo
compresso genera per lo più la depressione e l'apatia e in qualche caso porta alla
malattia mentale e al suicidio. Si tratta di una ~wia di uscita dal disagio» che
coinvolge i giovani più deboli e meno dotati di strumenti cognitivi e di risorse
concrete per affrontare la complessità. La
(34) Aa.Vv., Giovani oggi, Bologna; II Mulino, 1984; Cnvatti A., DE LILLO A., Giovani anni '80, Bologna, Il Mulino, 1988;
CnveLLt A., DE LtLt.o A., Giovani anni 90, Bologna, Il Mulino, 1993.
(35) MILANESI G., IZ disagio giovanile nella società complessa, in »Rivista del Volontariato», 1992, 3, Pag. 12-15.
95
5.1. Trasgressione e rischio come valore
“La popolazione giovanile si è sempre caratterizzata per una maggior propensione
49
trasgressiva rispetto alle norme morali e legali della società, ma è negli ultimi anni che il
distacco si è acuito” (Cavalli, de Lillo, 1993, 179).
Pertanto la trasgressione può essere letta come un fatto evolutivo: fa parte del normale processo di
crescita, più precisamente di presa di distanza dal mondo adulto e dal modello infantile
“eterodiretto”. La propria autonomia e la possibilità di assumersi il proprio posto nella società passa
inderogabilmente attraverso la negazione del passato e delle dipendenze, cui il bambino era
vincolato. Un secondo tipo di approccio la legge come un fatto culturale che ha ripercussioni su
tutta la società: l’aumento di tale fenomeno negli ultimi anni, come affermano i conduttore della
ricerca IARD farebbe intravedere un fenomeno nuovo: un cambiamento culturale.
5.1.1. disagio e identità
L'adolescente, dal punto di vista sociale, sta passando dal gruppo dei bambini a quello degli
adulti. Non appartiene più all'uno ma non fa parte ancora dell'altro. Sta sperimentandosi come
nuova figura sociale, con mutamenti di ruolo e di status. E' sottoposto a stimoli, attese, pressioni
diverse e sovente contraddittorie. Deve gestire un corpo che si sta trasformando, il risveglio della
sessualità, nuove sensazioni e pulsioni, vecchi conflitti intrapsichici non risolti che riemergono.
Il compito di sviluppo o la difficoltà più grande che l’adolescente deve affrontare è, secondo
alcuni autori, quella di definire la propria identità.
Il concetto di identità è impiegato da varie discipline ed è stato elaborato secondo diversi
approcci teorici: di conseguenza ha assunto una molteplicità di significati, non sempre coerenti tra
loro. Nonostante questa varietà, secondo il Nuovo Dizionario di Sociologia, si può arrivare ad un
certo accordo sul significato del termine.
Genericamente si può definire l'identità come l'aspetto centrale della «coscienza di sé »,
come rappresentazione e consapevolezza della specificità del proprio essere individuale e
sociale. L'identità è l'appropriazione e la definizione, da parte del soggetto, delle
caratteristiche specifiche della propria personalità e della collocazione del sé in rapporto
agli altri nell'ambiente sociale; è in sostanza il sistema di rappresentazioni in base al quale
l'individuo sente di esistere come persona, si sente accettato e riconosciuto come tale dagli
altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di appartenenza (Tessarin in Demarchi, Ellena,
Cattarinussi 1987, 970).
Quindi il termine “identità” contiene in sé una grande contraddizione: esprime allo stesso tempo
sia il concetto di uguaglianza (una cosa identica all’altra) sia quello di diversità (l’unicità della
persona e quindi la sua diversità). Il processo di costruzione dell’identità avviene passando
attraverso due tappe: la prima, in accordo con il primo dei due significati del termine, si basa
sull’identificazione con l’altro, la seconda sulla differenziazione dall’altro. La prima fase porta ad
avere un modello di riferimento, ossia l’ideale dell’Io, la seconda consente di aderire o di
differenziarsi da questo modello ideale. E’ un processo di cambiamento continuo che inizia fin dalla
nascita, che ha i suoi periodi più importanti e delicati nel primo anno di vita e nell’adolescenza, ma
che continua per tutta la vita.
Questo concetto, pur nella varietà di definizioni e nei problemi teorici che pone, ha assunto un
ruolo di mediazione tra individuo e società e risulta funzionale per collegare esigenze personali,
soprattutto di sviluppo e meccanismi sociali.
Il problema dell'identità non si pone dunque a livello individuale o a livello sociale come
autonomi e distinti, bensì nell'ambito del rapporto io-mondo sociale; esiste infatti una
stretta relazione tra l'identità come elemento individuale o personale, come esperienza soggettiva, e l'identità come elemento intersoggettivo, condiviso cioè da più soggetti (Tessarin
in ibidem).
50
5.2. Verso un tentativo di classificazione
Tutti questi fenomeni sono considerati diversamente a seconda delle prospettive e degli
indirizzi di pensiero.
Donati (1989, 170), partendo dall'analisi dei bisogni dei bambini in prospettiva relazionale,
intravede la necessità di una valutazione integrale del rischio quale risultato dell'impossibilità, da
parte dell'individuo, di soddisfare i propri bisogni; tale insoddisfazione va identificata nei deficit a
due sensi: orizzontale e verticale. Nel senso orizzontale si distinguono (a) i bisogni materiali, atti a
colmare il deficit fisico e strumentale; (b) e i bisogni relazionali, relativi alla socializzazione e atti a
colmare i deficit di integrazione sociale. Nel senso verticale Donati distingue (c) i bisogni di senso,
diretti a soddisfare il deficit dei valori, del senso della vita, della religiosità; e (d) i bisogni affettivi,
cognitivi, i quali servono a colmare i deficit e la domanda di formazione della personalità.
La distinzione proposta ha permesso a Caliman di elaborare, con il contributo di altre ricerche,
una griglia di fattori di rischio nei quattro ambiti, per la realtà dell'età adolescenziale (14-18 anni).
a) Fattori di rischio nell'ambito materiale e strumentale
• Povertà: deprivazione culturale dei genitori: genitori a basso livello di scolarità, senza qualificazione
professionale, con basso reddito;
• Disagi di salute: uso di sostanze dannose (alcool, fumo, droga); malattie originate dalla condizione di
povertà o di miseria (verminosi, anemia, ecc.);
• Marginalità: condizione di disoccupato, mendicante, migrante, drogato;
• Abitazione in territorio caratterizzato dall'assenza di servizi di base: strade, luce, acqua potabile,
sicurezza e spazi per l'abitazione;
• Lavoro precoce caratterizzato da basso reddito, senza protezione legale (lavoro nero) e
sottoccupazione; rapporto di lavoro contrassegnato dalla prepotenza e dalla discriminazione.
b) Fattori di rischio nell'ambito dell'integrazione sociale
• Formativo-scolastici: fallimenti, bocciature, abbandono scolastico, sfasamento tra classe ed età;
atteggiamenti negativi riguardo alla scuola; rapporto conflittuale con i docenti;
• Associativi: frequenza di determinati ambienti a maggiore incidenza della devianza (bar, discoteca,
stadi, concerti di musica rock e «rap», cinema, strada); integrazione in subculture devianti che offrono basso
profilo valoriale e opportunità di appartenenza;
• Relazionali: scarsità di compagnia, isolamento, mancanza di amicizia e di gruppo dei pari;
inserimento problematico nel gruppo dei pari, con rapporto di intenso attaccamento anziché di amicizia
convenzionale;
• Rapporti problematici con le istituzioni, particolarmente con la famiglia, la scuola, la chiesa.
c) Fattori di rischio nell'ambito dell'identità culturale
• Evasione: tempo libero vissuto con modalità compensatoria ed evasiva;
51
• Mancanza di riferimenti culturali: sradicamento culturale, condizione di emigrato; socializzazione
alternativa in subculture devianti o minoritarie;
• Mancanza di riferimenti valoriali: assunzione di riferimenti valoriali parziali o focalizzati in pseudovalori e non in grado di sostenere un percorso formativo verso la vita adulta;
• Mancanza di significato e di senso della vita.
d) Fattori di rischio nell'ambito della formazione della personalità
• Conflittualità familiare: proveniente da mancata comunicazione con i genitori, lontananza affettiva tra
i genitori, violenza fisica e sessuale, mancanza dei genitori per separazione o morte;
• Problemi psicologici: derivati da handicap, malattia mentale, disadattamento, schizofrenia;
• Esperienza di istituzionalizzazione e di contatto con la giustizia minorile;
• Mancanza di rapporti significativi con adulti credibili.
52
Scarica