Aristofane Aristofane rappresenta una fortunata eccezione

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Aristofane
Aristofane rappresenta una fortunata eccezione nella storia della Commedia attica di età
classica, detta anche ‘Politica’ –per i forti legami con la Polis– o ‘Antica’ (Archaia) rispetto alla
Commedia ‘Nuova’ di Menandro e alla ‘Commedia di Mezzo’ (interposta tra i due estremi dalla
periodizzazione alessandrina). È il solo autore di cui restano commedie integre –undici,
rappresentate tra il 425 a. C. e il 388 a. C.– oltre a frammenti, titoli e notizie su altre opere. Eppure
ricostruirne la vita è arduo, coi pochi documenti ufficiali e i molti aneddoti ‘autoschediastici’, cioè
pseudo-storici, attinti alle stesse commedie o ad altri autori (celebre il ritratto del Simposio
platonico, 189a-193e). La cautela è d’obbligo soprattutto se si considerano i codici non realistici,
ma simbolici, della tradizione giambica e della commedia antica (cf. i saggi di Angelo Brelich, 1975
e Carles Miralles, 1989, in bibliografia). Anche la satira contro i concittadini –dai politici ai poeti,
tragici o comici– non va considerata come fonte storica o testimonianza di odio personale, ma in
relazione al ruolo istituzionale del poeta e all’ascendenza rituale –i culti di Dioniso e Demetra–
comune ad altre componenti della comicità aristofanea (quali i riferimenti a sesso, cibo o
escrementi). Così pure ha radici arcaiche il ‘mestiere’ degli attori, la pratica teatrale che è alla base
della drammaturgia aristofanea: figura centrale e perno dell’azione –specie nelle commedie più
antiche– è soprattutto il primo attore, vero e proprio creatore e manipolatore di realtà, inventore di
fantasmagorie verbali, interlocutore privilegiato o esclusivo del coro (per qualità e quantità delle
battute). Molti suoi personaggi sono riconducibili alla figura antropologica del vecchio,
d’intelligenza semplice e furbizia contadina: per bocca sua –o del coro- l’autore si rivolge spesso al
pubblico per vantare i suoi meriti, lamentare disavventure o perfino tracciare una ‘storia della
commedia’ in cui inserirsi con piena consapevolezza del proprio ruolo. Dalle fonti, fatta la debita
tara, emerge una personalità geniale, capace di contemperare tradizione e autonomia, recuperare e
‘personalizzare’ modelli preesistenti –come la pàrodos, la paràbasis e l’agòn– per integrarli in un
tessuto coerente ogni volta diverso e innovativo. Per questo motivo non riprendiamo le
classificazioni troppo rigide inflitte ad Aristofane, e neppure le etichette quali ‘conservatore’ o
‘rivoluzionario’, ma preferiamo una rassegna cronologica della sua produzione e del contesto
storico di riferimento.
Le undici commedie vengono in gran parte rappresentate durante la Guerra del Peloponneso
(431 a. C. - 404 a C.), e difatti l’aspirazione alla pace è dominante sin dagli Acarnesi (425 a. C.): è
la prima commedia superstite e la terza a noi nota dopo i perduti Banchettanti (427 a. C.) e
Babilonesi (426 a. C.). Il primo attore, protagonista assoluto, interpreta il contadino inurbato
Diceopoli (nome parlante composto di “Giustizia” e “Città”): insofferente alla guerra, riesce a
concludere una tregua privata con Sparta e a goderne i benefici, dopo aver conquistato alla causa il
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coro (vecchi carbonai del Demo di Acarne) e sbeffeggiato il guerrafondaio Lamaco (generale
ateniese dal nome composto con “Battaglia”, e dunque bersaglio perfetto per antonomasia). Su
quest’ultimo, si noti, si ripercuote nel finale un infortunio augurato dal coro a una persona reale
estranea alla vicenda, il corego Antimaco: un bell’esempio di maledizione rituale –prerogativa
esclusiva dei cori più antichi– ma anche di una contaminazione ‘magica’ tra realtà e finzione. Due
dimensioni, queste, che nelle prime commedie appaiono comunicanti e perfettamente
intercambiabili, sia per il coro –non solo nella parabasi– sia per il primo attore, che entra ed esce a
suo piacimento dal personaggio, indossa nuove vesti sopra le precedenti (ad esempio si cala nei
panni degli eroi tragici euripidei dicendo: “Gli spettatori devono sapere chi sono, i coreuti invece,
starsene lì come allocchi..”, vv. 442-443).
Lo stesso gioco tra finzione e realtà caratterizza ancor più i successivi Cavalieri (424 a. C.):
nella casa di Demo (“Popolo”) il servo Paflagone –dichiaratamente ispirato al leader democratico
Cleone– è affrontato in un lungo duello verbale (agòn) e detronizzato da un parvenu e da un altro
servo (una ‘coppia comica’ che tornerà nelle commedie successive). Il doppio compito di aiutarli
sulla scena e di decodificare l’allegoria per il pubblico è affidato a un coro di cavalieri, acerrimi
nemici di Cleone: soltanto loro, a differenza degli attori, fanno sempre riferimento a persone e
vicende reali –mai allegoriche– e chiamano Cleone per nome in un’altra formula di malaugurio (v.
976). Poco importa se il ritratto non è fedele al personaggio, come sottolinea ironicamente il
prologo: quel che conta per Aristofane è appropriarsi delle caratteristiche peculiari della vittima –
vere o presunte– e farne il rappresentante per ‘antonomasia’ di un’intera classe o categoria di
persone.
Il meccanismo, perfezionato nelle Nuvole (423 a. C.), dà origine all’equivoco di lunga data
menzionato da Platone nell’Apologia (18b-19c): il ‘filosofo’ che indaga i fenomeni celesti, adora le
Nuvole e l’Etere e insegna l’arte del discorso al protagonista Strepsiade e poi al figlio non è certo il
Socrate storico e reale, bensì una maschera comica dal volto noto che riunisce i tratti eterogenei di
una folla di sofisti, retori e intellettuali che popola Atene. E oltre a loro la satira aristofanea sembra
colpire tutti gli Ateniesi, seguaci del lògos che tutto relativizza e permette a chiunque di prevalere,
in politica o nei tribunali, a prescindere dalla verità. Forse non a caso Aristofane con questa
commedia sarà sconfitto al concorso, punito per aver mirato al cuore stesso del sistema
democratico, a giudicare da quel che traspare dalla commedia che ci è giunta (una riscrittura
dell’originale perduto). Il discorso prosegue, anche se limitato ai processi, nelle successive Vespe
(422 a. C.): la commedia prende il titolo ancora una volta dal coro –vecchi giudici irascibili– che
come nei Cavalieri fornisce al pubblico i referenti concreti della vicenda e ne addita a vero
bersaglio Cleone (peraltro già presente nei nomi dei protagonisti, Filocleone e Schifacleone).
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La Pace (421 a. C.) riflette il mutato clima politico conseguente alla morte di Cleone e
Brasida –i pestelli del Dio Guerra– e alla recente “Pace di Nicia” conclusa tra Atene e Sparta: nella
limpida allegoria aristofanea il vignaiolo Trigeo vola in cielo su uno scarabeo e riporta in terra le
dee Pace, Festa e Abbondanza grazie a un coro –anch’esso di contadini– che per una volta non dà il
titolo alla commedia, ma ha un ruolo simbolico decisivo. Nella realtà la tregua è di breve durata, la
guerra prosegue e le sorti di Atene declinano: sette anni dopo, mentre gli Ateniesi salpano per la
Sicilia in un viaggio senza ritorno, Aristofane inventa per loro la “Città sulle Nuvole” degli Uccelli
(414 a. C.). La sua più celebre Utopia, com’è stata definita, è in realtà un’Atene appena camuffata
da Altrove, dove i propositi iniziali di libertà e fratellanza lasciano presto spazio al potere assoluto
di un singolo che strappa agli dei la Sovranità, blocca l’immigrazione dall’esterno e sopprime gli
avversari politici. Dal punto di vista drammaturgico la commedia apre la strada a un secondo
gruppo di opere, di diverso impianto e con nuovi personaggi rispetto alle precedenti. Nella
Lisistrata (411 a. C.) la vecchia aspirazione alla pace assume una chiave nuova, femminile e
panellenica: l’eroina del titolo, “Colei che scioglie gli eserciti”, organizza con successo uno
sciopero sessuale tra le donne, e con l’astinenza forzata costringe gli uomini alla resa, mentre
nell’orchestra si affrontano un semicoro femminile e uno maschile. Ancora un ambito prettamente
femminile (le feste di Demetra) caratterizza Le donne alle Tesmoforie (411 a. C.) dove i vecchi
temi della parodia tragica e del travestimento sono affidati alla classica coppia di ‘comico’ e
‘spalla’: rispettivamente un immaginario parente di Euripide e il tragediografo stesso, ancora una
volta oggetto di una complessa parodia e imitazione, frutto di un decennale odio-amore. Il dio del
teatro, Dioniso, compare nelle Rane (405 a. C.) oltre che nelle coeve Baccanti euripidee; nella
commedia scende all’Ade per recuperare Euripide, il suo tragico preferito, ma poi finisce per
preferirgli il rivale Eschilo. Sin dal prologo Aristofane fa il verso ai trucchi di bassa lega dei rivali
(per poi usarli subito dopo, con la tipica autoironia), e in seguito nella gara poetica tra Eschilo e
Euripide decostruisce i meccanismi drammaturgici della tragedia. E anche qui, come negli Uccelli,
sceglie un luogo simbolico che incarna inizialmente l’Altrove, ma finisce per assomigliare troppo
alla città d’origine. Entrambe le commedie sono solo in apparenza “d’evasione”, perché è il qui e
ora che preme ad Aristofane: è un appello accorato quello che il coro rivolge agli spettatori,
ricordando le discordie interne e invitandoli a una metamorfosi, nella parabasi delle Rane che
secondo le fonti decretò il successo della commedia e la sua eccezionale replica immediata. Di lì a
poco, tuttavia, Atene perderà la guerra e il suo Impero, conoscerà il Terrore dei Trenta Tiranni e
diverrà una semplice pedina nel nuovo corso storico globale. Ne mostrano il segno le fantasie
comiche delle due commedie aristofanee di quarto secolo –Le donne a parlamento (392 a. C.) e
Pluto (388 a. C.)– significativamente caratterizzate da un apporto del coro assai ridotto e
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dall’assenza di parabasi. Nella prima le teorie ‘riformiste’ sulla condivisione dei beni –confluite
anche nella Repubblica di Platone– si concretizzano nel colpo di stato pacifico di Prassagora e delle
sue compagne, ben presto destinato a mostrare i propri limiti. Altrettanto ambigua e a doppio taglio
appare la vicenda di Pluto, il dio cieco della ricchezza, che nella commedia omonima ritrova
miracolosamente la vista grazie alla solita coppia comica servo-padrone: l’apparente soluzione a un
grave problema personale e collettivo –l’iniqua distribuzione delle risorse– finisce anche qui per
creare nuove contraddizioni, come prospetta nell’agòn la Povertà personificata. Questa commedia
nei secoli successivi godrà di insolita fortuna rispetto alla restante produzione di Aristofane, perché
più vicina a quel modello di ‘commedia a intreccio’ che da Atene e Roma si propaga in tutta Europa
e regna sovrana fino ai giorni nostri, come mostra la storia del teatro e poi del cinema. A noi
moderni, eredi di quella commedia, ancora oggi l’Archaia può sembrare in apparenza distante o
impraticabile, con le sue trame surreali e interamente affidate all’attore e con le fitte allusioni
all’attualità del V secolo. Eppure paradossalmente Aristofane risulta per certi aspetti davvero
moderno, in quest’epoca sospesa tra realtà virtuale e pseudo-realismo televisivo. Ne è prova la
sempre maggiore popolarità delle sue commedie, elette a manifesto mondiale contro la guerra
(Progetto Lisistrata, 2003), proposte con cadenza ormai annuale a Siracusa (La festa delle donne,
2001; Rane, 2002; Vespe, 2003; Le donne in assemblea, 2004), riscritte e adattate da decenni
(Utopia di Luca Ronconi, Viva la Pace di Aldo Trionfo, Uccelli di Tonino Conte, All’inferno! di
Marco Martinelli). Ogni drammaturgo o regista, pur privilegiando aspetti differenti, appare
intimamente toccato dall’umanità comune ai personaggi aristofanei: tutti immersi in un mondo in
disfacimento eppure, almeno sulla scena, vitali e vittoriosi. Liberi di dar corpo alle proprie fantasie,
ma senza mai dimenticare la realtà.
Martina Treu
Bibliografia
In italiano, oltre a numerose traduzioni di commedie singole o raccolte, si segnalano le edizioni
integrali Commedie di Aristofane, a cura di G. Mastromarco, Torino, Utet (Vol. I 1983, vol. II in
corso di pubblicazione) e l’economica Aristofane. Tutte le commedie, a cura di B. Marzullo, Roma,
Newton Compton, 2003. Ormai classiche le edizioni francesi Aristophane, edd. Coulon et Van
Daele, Paris, Les Belles Lettres, 1923-30 e l’economica Aristophane, ed. V.- H. Debidour, Paris,
Gallimard, 1965. Per i frammenti di Aristofane e degli altri comici l’edizione di riferimento è
Poetae Comici Graeci, edd. R. Kassel et C. Austin, Berolini et Novi Eboraci, 1983 e segg. Tra le
monografie C. F. Russo, Aristofane autore di teatro, Firenze, Sansoni, 1984 e il volume della
Fondation Hardt, Entretiens sur l’antiquité classique, XXXVIII: Aristophane, VandoeuvresGenève, 1993. I saggi citati sono: A. Brelich, “Aristofane commedia e religione”, in Il mito. Guida
Storico-critica, a cura di M. Detienne, Bari, Laterza 1975, pp.104-118, 262-267; C. Miralles, “La
tradizione giambica”, Quaderni di storia, 29, 1989, pp. 111-132.
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