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Politica e società nel movimento operaio e socialista
Appunti per una traccia storica
Una vasta area di raggruppamenti sociali impegnati nella sperimentazione di nuove pratiche sociali
(volontariato, cittadinanza attiva), in iniziative di economia solidale (commercio equo e solidale,
banca etica, cooperative sociali) e in esperienze di neo-mutualismo e auto-aiuto, esprime una
rinnovata domanda di storia, va cercando punti di riferimento in un’ “altra tradizione” della sinistra.
Questo avviene mentre assistiamo ad una gigantesca e irresponsabile liquidazione e svendita del
patrimonio di memoria dei duecento anni di ricche e tormentate vicende del movimento operaio e
socialista europeo.
La storiografia elaborata e tramandata da quella che fu la sinistra ufficiale è soprattutto storia
dell’azione politica-statuale, storia dei gruppi dirigenti dei partiti politici e, in forma derivata, di
quelli dei sindacati..
E’ difficile ricostruire le fila di quella che chiamerei la “terza dimensione” dell’agire politicosociale, quella che si manifesta soprattutto come azione positiva e realizzatrice nel basso, come
pratica dell’obbiettivo e autogestione dei risultati, come espressione delle capacità del far da sé
solidaristico, come creazione di spazi e di istituti dell’autonomia della vita sociale.(1)
Penso non solo alle società di mutuo soccorso e alle cooperative di produzione e consumo , alle
Università popolari e alle Case del Popolo, ma anche alla rete ricca e vasta di servizi e di tutele che i
movimenti sociali costruirono interagendo con il comunalismo socialista.
La storia del “fare società” che ha coinvolto milioni di uomini e donne, che ha fermentato e
umanizzato questo straordinario spazio dell’Europa sociale, oggi messo a repentaglio, è una storia
dispersa, svalutata e, in gran parte, abbandonata.
Giulio Marcon, che, nel suo libro Le utopie del buon fare (2),ha cercato di ricomporre i “percorsi
della solidarietà dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti”, ha fatto un’opera pionieristica ed ha
incontrato grandissime difficoltà.
Lo scorso anno, in un Master presso l’Università di Roma, che era rivolto a giovani operatori e
militanti impegnati nell’area del volontariato e dell’economia solidale, ho concentrato la mia
lezione sulla ricostruzione dell’ eccezionale esperienza del movimento operaio belga negli anni che
vanno dal 1880 al 1914.
Il Belgio di quei decenni è un piccolo Paese di sette milioni di abitanti ma fortemente e
precocemente industrializzato e dotato di avanzate strutture di modernità capitalistica.
Attorno al 1880 prende avvio, all’interno di una preesistente rete di società di mutuo soccorso, uno
straordinario movimento cooperativo militante (3) inizialmente promosso dalle prime associazioni
sindacali e quindi animato da un vivace e originale Partito operaio belga fondato nel 1885.
Le cooperative inizialmente avevano concentrato la loro attività nella produzione e vendita del
pane. Il costo del pane allora incideva per 35% sul bilancio di una famiglia operaia. La cooperativa
ne dimezzava il prezzo garantendone la qualità.
La Casa del Popolo di Bruxelles nel 1905 produceva e vendeva dieci milioni di kg. di pane all’anno
ed era la più grande fabbrica di pane del Belgio. La Casa del Popolo Vooruit di Gand, sempre nel
1905, produceva 100mila kg.di pane la settimana. Queste due cooperative negli anni 80 avevano
sostenuto lo sciopero di 26 mila minatori del Borinage inviando trenta tonnellate di pane
L’aspetto particolare dell’esperienza belga consiste nella sistematica interazione collaborativa tra le
varie istituzioni operaie: le società di mutuo soccorso depositano i contributi accantonati presso le
grandi cooperative le quali li usano per fare nuovi investimenti. Il sistema cooperativo apre
farmacie cooperative che, abbattendo i prezzi dei medicinali, agevolano l’assistenza medica e
farmaceutica delle mutue. Le cooperative stesse erogano poi una sorta di previdenza integrativa ,
rispetto a quella della mutualità, la quale viene calcolata sulla durata e la quantità degli acquisti fatti
presso gli spacci cooperativi. La cooperazione era vista e vissuta dagli operai sindacalizzati come
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strumento fondamentale di lotta contro il caro-vita e come sostegno agli scioperi. La cooperativa
era poi la struttura economica che permetteva la costruzione degli spazi architettonici e sociali
della rete delle Case del Popolo, luoghi di confluenza delle diversificate forme
dell’associazionismo.
La “Nuova Università” di Bruxelles, gestita dai socialisti, non solo laurea medici e farmacisti che
operano nel sistema mutualistico e cooperativo, ma con i suoi professori promuove corsi decentrati
di cultura generale e corsi di istruzione professionale. L’università di Bruxelles attiva le iniziative
letterarie, musicali e teatrali delle Case del Popolo. (4.)
Nel Belgio di quegli anni possiamo vedere all’opera una sorta di “ welfare senza stato”, nato dal
basso, nel quale sono inserite centinaia di migliaia di famiglie operaie.
Alcuni istituti e forme di tutela dei lavoratori scaturiti dall’esperienza belga hanno ancora oggi una
vitale operatività.. Il cosiddetto “sistema Gand” di gestione della disoccupazione costituisce uno dei
più importanti elementi della forza del sindacalismo scandinavo. In Svezia, ad esempio, è il
sindacato che definisce l’offerta di lavoro adeguata per il disoccupato evitando l’insorgere di un
doppio mercato del lavoro. Inoltre la gestione sindacale della mobilità incentiva il lavoratore
disoccupato a conservare la sua adesione al sindacato.(5).
Altra originale creatura dell’Ottocento operaio belga che oggi torna di attualità è il cosiddetto
“sindacalismo ad insediamento multiplo”, che si è rivelato particolarmente efficace per la tutela di
lavoratori precari e dispersi. Sindacalismo e mutualismo operano in modo congiunto. Il reciproco
aiuto per servizi di tipo mutualistico diventa momento di costruzione della solidarietà e della
coesione necessaria per esprimere la forza della rivendicazione sindacale.. Le Casse Edili, in Italia,
sono la realizzazione storica di questo tipo di sindacalismo che, mutualizzando l’instabilità del
lavoro edile, costruisce potere contrattuale. Troviamo oggi esperienze di questo genere nel
sindacato delle segretarie di Boston e tra i lavoratori della comunicazione in Gran Bretagna.
Il mutuo soccorso è poi la base sindacale della “Freelancers Union” dei lavoratori autonomi di
seconda generazione di New York.(6)
L’esplorazione dell’ esperienza belga quando si limita alla mera narrazione di forme di altra-società
e di altra-economia risulta però scarsamente comprensibile. Non si può prescindere dal modo di
fare politica e dalla proposta ideale e programmatica del Partito operaio belga che fu protagonista
all’interno di quelle vicende associative.
. G.D.H. Cole, nella sua monumentale Storia del pensiero socialista (7), segnala l’importanza e
l’originalità, nel movimento operaio europeo, della Carta di Quaregnon approvata nel 1894 dal
Partito operaio belga. Essa, secondo Cole, rappresenta la riposta alternativa al Programma di Erfurt
del 1891 della socialdemocrazia tedesca.
Con estrema sintesi si può dire che il programma tedesco afferma l’assoluta centralità della
costruzione di un partito politico centralizzato e gerarchico, quasi “Stato nello Stato”, come
strumento supremo per l’edificazione del socialismo mediante lo Stato. Il progetto del partito belga
propone la convergenza del vasto pluralismo delle “libere associazioni” per far emergere “un’ altra
società” dentro la società, utilizzando “anche” strumenti istituzionali radicalmente democratizzati: i
comuni e il parlamento.
Le forme dell’esperienza dei movimenti sociali difficilmente possono venire analizzate isolandole
dal loro rapporto con gli strumenti della politica.
Vorrei delineare una sorta di traccia dello sviluppo di questa relazione nel lungo periodo pur
rischiando una drastica semplificazione e una temeraria torsione interpretativa.
Se dovessi indicare due momenti esemplari e originari della risposta operaia alla “questione
sociale” che scaturiva dal nascente industrialismo capitalistico, non avrei dubbi a scegliere,
nell’Inghilterra del primo Ottocento, il movimento luddita e l’owenismo.
La prima vicenda, che si colloca tra il 1811 e il 1814, secondo il grande storico inglese E. P.
Thompson è troppo denigrata “come immagine di un moto rozzo e spontaneo di lavoratori manuali
e analfabeti, che si opponevano ciecamente all’introduzione delle macchine”: Esso espresse invece
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un alto grado di organizzazione, contenuti politici e morali molto elevati e può essere considerato
la matrice della moderna azione di “resistenza” degli operai nella produzione.(8)
L’owenismo, che si può collocare tra il 1824 e il 1833, tende ad affermare un orgoglioso
socialismo cooperativo in senso anti-statalista e nell’ autonomia dei lavoratori dai benefattori (9).
Esso struttura l’azione sociale come ricerca dei lavoratori di sottrarre la propria esistenza alle
spietate leggi del mercato, operando negli ambiti di vita con il mutuo soccorso e la cooperazione.
Anche quest’ esperienza è stata giudicata dalla storiografia marxista con grande sufficienza come
manifestazione ingenua e primitiva di conati utopistici.
La fase iniziale dell’autodifesa operaia, in tutta l’Europa industrializzata, è comunque caratterizzata
dal binomio resistenza/mutualità.
Queste forme associative sono rette dal principio di solidarietà che sostituisce “la fraternità” della
famosa triade della Rivoluzione francese.
La “fraternità” afferma l’esigenza di un aiuto oblativo e verticale tra diseguali (carità cristiana o
filantropia massonica), la “solidarietà” è invece un principio che si impone soprattutto nel 1848
operaio parigino e che si manifesta come aiuto orizzontale e reciproco tra eguali (uno per tutti e tutti
per uno).
Il mutualismo è un associazionismo per, esprime una solidarietà positiva:esso non rivendica verso
l’alto, tende invece a realizzare nel basso l’obbiettivo.
La resistenza poggia soprattutto sulla solidarietà negativa, è un associazionismo contro che
promuove la lotta rivendicativa verso l’alto.
Quando nel movimento operaio prevaleva la coppia mutualità/resistenza si realizzava un
bilanciamento tra solidarietà positive e solidarietà negative e un intreccio tra azioni di lotta nel
lavoro e interventi di tutela negli ambiti di vita.
Per comprendere gli sviluppi futuri e le nuove configurazioni di un movimento operaio più
strutturato e istituzionalizzato occorre anche aver chiara la distinzione tra associazione e
organizzazione.
Con il termine “associazione” si intende un raggruppamento volontaristico all’interno del quale tutti
i soci hanno eguale accesso alla gestione e lo stare insieme viene regolato sulla base di vincolanti
norme di diritto (statuti). “Organizzazione” è una struttura cui si aderisce in modo volontario
all’interno della quale vige però un divisione di fatto del lavoro tra un apparato che amministra e i
seguaci che controllano.
All’interno della variegata esperienza dell’associazionismo operaio delle origini la nascita del
partito giunge relativamente tardi ed emerge faticosamente tra le divisioni e i contrasti che
tormentano le vicende della Prima Internazionale (1864-1874).
Il dibattito all’interno dell’Internazionale non fu solo quello che divise coloro che proponevano la
costituzione del partito come strumento autonomo di lotta politica dei lavoratori (marxisti) da
coloro che rifiutavano la lotta politica per la conquista dello Stato (anarchici). Vi erano dissensi tra
centralisti e federalisti, tra mutualisti e collettivisti. E vi era poi un’ importante presenza degli
“eclettici”, di coloro che rifiutavano rigide contrapposizioni dottrinarie e operavano per evitare la
rottura della Prima Internazionale.
Tra gli Internazionalisti eclettici si colloca sicuramente César De Paepe(10), protagonista della vita
e delle battaglie della I Internazionale, teorico e fondatore del Partito operaio belga (1885),
ispiratore della Carta di Quaregnon così distante dal quel programma tedesco di Erfurt che trovò
larghissimi consensi da Turati a Lenin.
Nel pensiero di De Paepe e nell’esperienza belga convergevano l’influenza del far da sé cooperativo
anglosassone, gli stimoli francesi del federalismo libertario di Proudhon e del “socialismo integrale”
di Malon che dava grande rilievo al ruolo della morale e della cultura nei processi di trasformazione
sociale, le istanze marxiane del classismo collettivista e della necessità di organizzare la lotta
politica.
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In Italia si avvicina alle posizioni di De Paepe l’internazionalista Osvaldo Gnocchi Viani (11),
promotore del Partito Operaio Italiano nel 1882 e, dai primi anni 90, fondatore delle Camere del
Lavoro..
Nella concezione di Gnocchi Viani erano fortemente presenti il principio del “far da sé
solidaristico”, il comunalismo federalista, la diffidenza verso l’ideologismo degli intellettuali, la
netta distinzione tra il “partito politico” dei borghesi e il “partito sociale” degli operai.
Il partito politico è quello che “ha il popolo come mezzo” e la sua “specializzazione” sta nel
garantire il dominio dei pochi sui molti.
Il partito sociale è quello che ha “il popolo come fine” e la “sua specializzazione è nella massima
che l’operaio deve fare da sé” (12) . Egli è fortemente critico nei confronti della “scuola della
riforma sociale per opera dello Stato” di derivazione bismarckiana. Sostiene invece che le leggi non
debbono intervenire per sottrarre spazi, materie, possibilità al “far da sé” degli operai, ma debbono
intervenire per “togliere ostacoli”, per agevolare l’esercizio dell’autogestione operaia dei problemi
e degli interessi degli operai stessi. ( 13) La sua battaglia contro Turati, accusato di voler importare
in Italia il “partito tedesco”, fu molto netta ; la sua sconfitta significò anche esclusione ed oblìo.
I primi fragili e piccoli partiti operai e socialisti che tentarono di emergere negli anni della Prima
Internazionale prevedevano quasi tutti l’adesione collettiva (erano federazioni di leghe di resistenza
, di società di mutuo soccorso, di cooperative…) e l’esclusivismo operaio ( la presenza dei soli
lavoratori manuali). Essi furono travolti dalla crisi dell’Internazionale.
Nel periodo che va dall’ultimo decennio dell’800 alla prima guerra mondiale si afferma la seconda
fase dell’esperienza del movimento operaio europeo: la coppia mutualità/resistenza viene sostituita
dalla coppia partito/sindacato, dall’associazione si passa all’organizzazione, declina il mutualismo.
Prevale nel movimento socialista la “solidarietà negativa” che caratterizza le organizzazioni di
combattimento della classe operaia: il sindacato che rivendica contro i padroni e soprattutto il
partito che lotta intorno alla conquista dello Stato. Sta nascendo quello che diventerà il partito
burocratico di massa, protagonista indiscusso del Novecento.
Paolo Farneti, che è stato uno dei più acuti sociologi della politica, interpreta la “Sociologia del
partito politico” di Roberto Michels (14), che è soprattutto l’analisi della socialdemocrazia tedesca,
come una descrizione della transizione “dal livello associativo o solidale (civile) a quello
organizzativo-autoritario (politico). Ai rapporti di solidarietà – conclude Farneti – subentrano
rapporti di obbedienza e di comando e il passaggio è dovuto alla divisione del lavoro richiesta dalla
politica”. (15)
E’ una “tendenza” reale operante nella genesi del moderno partito di massa.
Però questa tendenza non è lineare e univoca come la descrive Roberto Michels.
Il campo della politica è sempre sottoposto ad un doppio movimento. Pizzorno ci dice dei due volti
della politica: da un lato essa si presenta come “un modo di fondare la legittimità e quindi
verificare il consenso del nuovo Stato a sovranità popolare”, dall’altro lato si manifesta come
“modo di lottare, con mezzi che possiamo chiamare politici, contro le condizioni di disuguaglianza
proprie della società civile”. (16). Il doppio movimento si potrebbe anche descrivere come
l’impresa volta alla “statualizzazione” della società civile che si incrocia e si scontra con ricorrenti
processi di politicizzazione che partono dalla società civile, come suggerisce Farneti..
Inoltre questa tendenza non è univoca. Infatti si presentano modelli diversi di partiti di massa.
Nella costruzione storica del moderno partito di massa vediamo sorgere precocemente il partito
socialdemocratico tedesco nel 1875 e, con un certo ritardo, il partito laburista inglese nel 1900.
In mezzo, nel 1885, nasce il Partito operaio belga. Essi rappresentano anche tre diversi modelli del
partito di massa della sinistra europea.
Utilizzando liberamente categorie interpretative elaborate da Paolo Farneti possiamo individuare un
modello di partito alternativo alla società civile. E’ quello che tende ad inglobare, a partitizzare, a
sottomettere tutte le forme di espressione della società. E’ l’esperienza della socialdemocrazia
tedesca di Kautsky e dei partiti della Terza internazionale.
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Ma vi è poi un secondo modello di partito, il vecchio partito laburista, il quale nasce e vive come
emanazione e rappresentanza dei sindacati nel parlamento. Farneti lo definisce come un partito
complementare rispetto alle strutture della solidarietà operaia.
E’ necessario aggiungere un terzo modello di partito che potremmo definire come il partito
coordinatore delle forme plurime dell’associazionismo operaio. E’ il Partito operaio belga della
Carta di Quaregnon fondato dall’internazionalista César De Paepe.
La ricerca storica e teorica della sinistra ha trascurato l’esperimento belga. Nell’Europa
continentale ha vinto il modello della socialdemocrazia tedesca. Sovente i tentativi mancati e le
tendenze sconfitte dal processo storico ci dicono molto e aprono interrogativi nel presente.
Il Belgio dell’ultimo quarto del diciannovesimo secolo era un paese con notevoli differenziazioni
culturali e linguistiche (Fiandra, Brabante, Vallonia). Il non vasto territorio si disarticolava in aree
caratterizzate da strutture socio-economiche molto difformi: zone agricole convivevano all’interno
di una realtà fortemente industrializzata, i bacini industriali si distinguevano per una loro forte
specializzazione ( aree minerarie, distretti tessili, concentrazioni dell’industria chimica, metallurgica
e del vetro).
Nelle diverse regioni del paese prevalevano dei mix particolari di esperienze associative: nelle zone
della Vallonia, ad esempio, era forte un sindacalismo di azione diretta che si innestava nelle
strutture mutualistiche, mentre nelle Fiandre, a Gand, prevaleva l’esperienza cooperativa originata
dal sindacalismo tessile. Il Belgio si colloca poi al crocevia di diverse tradizioni culturali: questo
variegato mondo associativo era percorso da culture politiche che provenivano dai paesi più vicini:
la Francia, la Germania, l’Inghilterra.
Il movimento operaio belga riesce rappresentare la variegata e differenziata articolazione sociale e
culturale costruendo una rete federativa che unisce le autonomie senza omologarle.
In secondo luogo il partito operaio non si colloca come vertice gerarchico delle molteplici “libere
associazioni” ma si inserisce come attore di una politicizzazione pervasiva dentro la trama
dell’associazionismo, costruendo il senso di una comune appartenenza.. .
La manifestazione più clamorosa dell’anomalia belga, che fece scalpore nel movimento socialista
del primo novecento, fu l’imponenza degli scioperi politici di massa (per il suffragio universale)
del 1893, 1902 e 1913 realizzati da un sindacalismo accusato di settorialismo e di disarticolato
localismo. Rosa Luxemburg ripetutamente parla del fascino dell’esempio belga e , nel 1913, pur
criticando alcuni aspetti della gestione dello sciopero generale di quell’anno, seccamente afferma
che la potente, centralizzata e immobile macchina sindacale tedesca doveva “provare vergogna” di
fronte allo slancio politico-sindacale dei lavoratori belgi (17)
La Luxembourg, pur acuta analista della forma partito, nel cogliere la distanza tra la concentrata e
paralizzata potenza dei tedeschi e i decentrati, multiformi poteri attivi della società del lavoro
belga, non riusciva ad individuare l’origine di queste divaricate esperienze nella diversa visione e
struttura dei due partiti e nelle differenti loro relazioni con i raggruppamenti della società civile.
Ogni lavoratore belga che diventava socio di una cooperativa, che si iscriveva ad un sindacato o a
una società di mutuo soccorso, sottoscriveva un foglio di adesione al programma del Partito
operaio.
Scriveva nel 1906 Vandervelde che il Partito operaio non è niente altro che la federazione di questi
raggruppamenti economici e sociali :”togliete le mutualità, i sindacati e le cooperative che gli
forniscono la maggioranza dei suoi membri e la quasi totalità delle sue risorse e nelle sue
federazioni regionali non resterebbero che alcune piccole leghe operaie che non danno segni di vita
se non alla vigilia delle campagne elettorali” (18). Il partito animava e guidava queste associazioni
ma era anche fortemente dipendente da esse e quindi rispettoso delle loro libertà.
Il partito socialdemocratico tedesco degli anni ’90 aveva superato l’adesione collettiva e il sindacato
appariva formalmente separato dal partito. In realtà il partito, attraverso la penetrazione tra gli
iscritti e negli organi dirigenti, controllava il sindacato e le altre forme associative come
organizzazioni “collaterali” e gerarchicamente subalterne.
L’universo associativo belga era retto dal principio federativo.
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Un federalismo orizzontale articolava il partito in 26 federazioni regionali con ampie autonomie,
alle quali facevano capo complessivamente 500 raggruppamenti sociali e politici..
A questo federalismo orizzontale si accompagnava poi un federalismo funzionale che faceva sì che i
diversi raggruppamenti ( partito, cooperative, sindacati, mutuo soccorso), salvaguardando le loro
autonomie, si incontrassero in modo sinergico e collaborativo nella vasta rete delle 172 Case del
Popolo, centri polivalenti di vita sociale e nodi essenziali della rete federativa territoriale e
funzionale.
Sarebbe inesatto descrivere l’esperienza belga come immune dai processi di istituzionalizzazione
che, soprattutto a partire dal primo 900, coinvolgono l’insieme del movimento.
Potenti cooperative , importanti società di mutuo soccorso, grandi Case del Popolo come quelle di
Gand nelle Fiandre, di Bruxelles nel Brabante e di Jolimont in Vallonia, solide strutture sindacali
locali e di categoria, ponevano imperativi gestionali che non sfuggivano alla divisione tecnica del
lavoro e alla burocratizzazione. Ma il principio delle autonomie federate attiva, limitando la
concentrazione e la vasta dimensione, la capacità di resistenza democratica allo sviluppo
burocratico.
Con l’esperienza della prima guerra mondiale si può dire che incominci un’altra storia del
movimento operaio europeo. Il Belgio, Paese neutrale, viene brutalmente aggredito e occupato dalle
armate germaniche. La partecipazione dei socialisti belgi al governi di union sacré, il
coinvolgimento dei sindacati nella mobilitazione industriale, l’attribuzione al movimento
cooperativo di funzioni para-statali di approvvigionamento delle popolazioni affamate, travolgono
le particolarità dell’esperienza belga.
La “guerra civile europea dei trent’anni” (1914-1945) ha brutalmente plasmato e strutturato il
conflitto sociale e politico in tutta l’Europa.
“La politica ha ormai un volto solo: quello della statualità. Scompare l’idea stessa di una
trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di
produzione di coscienza e di idealità dall’interno dell’esperienza sociale del lavoro e della vita e nel
corso dell’azione diretta delle grandi masse.” (19)
La storiografia di sinistra mette in evidenza i solitari e disperati sussulti sociali dell’immediato
primo dopoguerra, il mito dell’Ottobre rosso colora di illusioni future un presente che in realtà
blocca e chiude la grande ondata democratica e socialista partita dal 1848.
In quegli anni giunge a compimento il lungo, tortuoso e sussultorio processo di “nazionalizzazione
delle masse” (20) attivato nei cervelli e nella sperimentazione politica delle classi dirigenti europee
dal trauma della Comune di Parigi del 1871.
Durante la prima guerra mondiale e negli anni del primo dopoguerra si compie la militarizzazione
della sociètà civile come estensione dell’interventismo dello Stato, burocratizzazione delle
macchine politiche e sindacali e delle imprese. Richard Sennet descrive in pagine limpide e
sintetiche la nascita e la diffusione del “capitalismo sociale militarizzato”.(21)
Contemporaneamente non dobbiamo dimenticare che in quegli stessi anni del primo dopoguerra
viene portato avanti il processo di “democratizzazione” con la concessione del suffragio universale
maschile in quasi tutte le nazioni europee ( in alcuni paesi si ottiene anche il suffragio femminile).
Si stabilizza un sistema di competizione democratica incardinato sullo scheletro d’acciaio della
burocrazia militare. Si fa realtà la massima weberiana: “La burocrazia è l’ombra necessaria e
inseparabile della democrazia”.
I partiti di massa, nati nell’esperienza organizzativa del movimento operaio, si sono sviluppati
anche in ambito borghese.
Partiti di sinistra, partiti conservatori, cristiano-sociali e liberali competono non solo per il
consenso elettorale di vaste masse popolari ma si misurano anche sui grandi numeri degli iscritti
attraverso la stabile espansione organizzativa e sub-culturale radicata dentro il tessuto sociale.
Nel 1967 Stein Rokkan poteva scrivere che il sistema politico europeo degli anni ’60 del secolo
scorso “riflette ancora, con poche eccezioni significative, la struttura delle fratture degli anni venti.”
E le fratture sociali, i cleavages che avevano strutturato la lotta partitica a partire dai primi decenni
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del Novecento, lo studioso norvegese li individuava nel conflitto tra capitale e lavoro, nella
contrapposizione tra Stato e Chiesa, nell’opposizione tra centro e periferia e nel contrasto tra città e
campagna. (22)
Nel mezzo secolo che va dal 1918 al 1968 è stato sospeso e interrotto quello che abbiamo definito
il “doppio movimento della politica”? E’ scomparsa la politicizzazione dal sociale? Ha operato
soltanto il volto della politica come statalizzazione?
Nel descrivere lo sviluppo e la strutturazione della politica di massa competitiva nei Paesi
dell’Europa occidentale Rokkan annota: “ Sir Lewis Namier paragonò una volta le elezioni alle
dighe di un canale: queste consentono la crescita delle forze socio-culturali per farle poi confluire
negli appositi canali del sistema ma consentono anche di arginare la marea e di contenere i flutti.”
(23).
Questa metafora idraulica non nega che vi siano dei flussi socio-politici “montanti” e che essi
abbiano anche un’incidenza sulla politica istituzionalizzata ma essi sono sempre “canalizzati” e,
quando si manifestano come “maree”, vengono risolutamente “arginati”.
Il periodo precedente la Prima Guerra mondiale ci appare, nell’ambito socialista, come una creativa
fase “ costituente”, i decenni successivi come una stagione di amministrazione del “costituito”.
I flussi ascendenti della politicizzazione sociale non generano più invenzione di nuovi “istituti”
della sociabilità operaia ma si proiettano come tensioni inter-burocratiche, scissione e
frammentazione delle organizzazioni esistenti.
Il partito burocratico di massa mentre veicola verso il basso la “statalizzazione” della società, per
vivere, espandersi e competere, deve anche attivare una giusta dose di socializzazione politica e di
mobilitazione controllata.
L’uso della risorsa della militanza, la circolazione sociale della comunicazione politica, la
costruzione e l’utilizzazione di associazioni collaterali di interessi, le risposte ai problemi di
identità e di espressività, sono componenti strutturali del tradizionale partito di massa che
alimentano e orientano la domanda politica. Esse, in circostanze di acuto fermento sociale, possono
generare conseguenze impreviste di eccesso della domanda sociale.
E’ ciò che è accaduto con la svolta segnata dall’irrompere sulla scena dei movimenti politici di
massa nel decennio 1965-1975.
Si rompe la mediazione socialdemocratica tra promesse di sicurezza massima e richiesta di
democrazia minima, va in crisi lo scambio fordista tra spazi di consumo e dispotismo sul lavoro.
I partiti di massa strutturati sui cleavages sociali degli anni ’20 diventano anacronistici: si
riconferma, mutata, la frattura capitale/lavoro, la secolarizzazione attenua le tradizionali tensioni
tra Stato e Chiesa, scompare la rottura tra città e campagna mentre riprendono forza i conflitti tra
centro e periferia, si dispiega la frattura di genere da tempo latente, insorge con forza la
contraddizione tra uso capitalistico della tecnica e natura.
I partiti vengono contestati dal basso e sono messi in discussione dall’alto, lungo un arco di tempo
che, emblematicamente, potrebbe iniziare con il Manifesto di Port Huron (24) della giovane
sinistra americana nel 1962 che rivendica forme radicali di partecipazione politica, per giungere al
rapporto della Trilaterale sulla Crisi della democrazia del 1975 che invoca invece un’ autoritaria
governabilità liberata da vincoli sociali.(25)
Paolo Farneti nella seconda metà degli anni ’70 coglie con lucidità il significato dei processi in
corso. Egli scrive: “ Nella mobilitazione del 68-69 c’è la chiusura di un cinquantennio di grandi
investimenti ideologici iniziatisi con la prima guerra mondiale….La coscienza delle nuove
condizioni e delle vecchie strutture di aggregazione e di mobilitazione, dette il via ad un nuovo
modo di fare politica e ad una nuova pratica politica e quindi ad una ridefinizione della società
politica, quella dei movimenti collettivi, dall’associazionismo intenso, in parte spontaneo, di rifiuto
dell’organizzazione come forma di divisione del lavoro”. Conclude con una considerazione sul
lungo periodo:” Il partito di massa è stato ed è tuttora un tentativo di equilibrare interessi materiali e
ideali, distribuzione di risorse e impegno ideologico…. Sembra che… come pilastro della
democrazia parlamentare contemporanea stia subendo irreparabili sconfitte. Se ciò è vero,
7
l’immaginazione politologia e sociologica degli anni a venire dovrà impegnarsi anche ad ideare una
struttura alternativa a quella società politica che sin dagli inizi del secolo… sembrava ereditare le
grandi ideologie dell’800 e capace di portarle a compimento” (26).
Recentemente lo storico e sociologo americano Immanuel Wallerstein (27) ha riproposto la
coincidenza tra il fallimento dei tradizionali movimenti antisistemici ( socialdemocrazia,
comunismo, movimenti di liberazione nazionale) “orientati verso lo stato” e basati sulle strategia
delle “due fasi” ( la conquista del potere statale e poi la trasformazione della società) e quella che
egli continua a chiamare “la rivoluzione del 68” come matrice storica dei nuovi movimenti antisistemici.
E’ sbagliato considerare i nuovi movimenti sociali come effimeri “cicli di protesta”.
Essi riproducono nel tempo , in modo carsico e con mobilitazioni di massa, quella
politicizzazione dal sociale che si alimenta nella rottura dei poteri di fatto dentro la società civile.
Le traiettorie di trasformazione del sistema politico in Europa e l’evoluzione dei movimenti sociali
tendono a divaricare, aumentano sempre più le distanze che le separano.
Non è l’immaginazione sociologica e politologica che orienta l’evoluzione dei partiti politici, ma
sono le dure leggi del potere oligarchico e i rudi comandi dell’economia di mercato.
Il politologo americano Richard S. Katz, che da decenni studia i sistemi politici europei, ha colto la
tendenza fondamentale che regola il mutamento delle organizzazioni partitiche all’interno della
crisi del partito di massa. Katz sintetizza i risultati delle sue analisi elaborando il nuovo modello
del “cartel party”.
Egli colloca l’avvio del processo di trasformazione dei partiti europei nei primi anni 70 del secolo
scorso. Sono gli anni in cui la domanda sociale chiede ai partiti di fare di più mentre essi possono
fare sempre di meno. Essi tendono ad uscire da questa contraddizione allentando i legami con la
società ed entrando in simbiosi sempre più stretta con lo Stato.
I partiti europei - sostiene Katz - non sono “vittime” della caduta della militanza e del declino degli
iscritti, essi stessi hanno la necessità di scoraggiare la domanda politica che proviene dalla loro
base. Le risorse di contributo economico , di comunicazione politica, di mobilitazione elettorale che
provenivano dall’attivismo di base ora vengono via via sostituite dalle risorse provenienti dallo
Stato (finanziamento pubblico, accesso ai mass-media, disponibilità di privilegi e di incentivi
materiali che costruiscono dall’alto reti diffuse di cariche pubbliche elettive e non elettive, di
catene clientelari ).
Si passa da una forma di partito ad alta intensità di lavoro ( vasta militanza di base) ad un partito ad
alta intensità di capitale ( finanziamento pubblico, lobby, potenza dei mass-media).
Sostanzialmente il “cartell party” si identifica con il partito delle cariche pubbliche.
Le conclusioni di Katz sono improntate a ruvido realismo politico: i partiti non sono più
associazioni di cittadini e per i cittadini ma società di professionisti della politica che gestiscono
agenzie para-statali.(28)
Non c’è – conclude il politologo americano – un declino dei partiti, ma cresce una sfida esterna alla
forza di questi nuovi partiti, anche perché “i cittadini preferiscono investire altrove le proprie
energie dove possono svolgere un ruolo più attivo”.
Questa analisi sul mutamento genetico dei partiti politici rinvia immediatamente ad indagini meno
superficiali e contingenti sulla “sfida” che viene dalla società non solo come “movimento” ma
come nuovo associazionismo, come pratiche diffuse e culture emergenti.
In Italia prevale l’ analisi dei movimenti che fa riferimento a Sidney Tarrow (29) il quale li
concepisce come picchi momentanei di “azione collettiva disgregante”, come isolati “cicli di
protesta” regolati da una sorta di legge del pendolo che oscilla tra gruppo in fusione e
serializzazione (Sartre), tra stato nascente e istituzionalizzazione (Alberoni). Altri ricercatori, come
Touraine, vedono il “movimento” come il punto di emersione di processi di lunga durata e di
grande complessità che producono una socialità politica alternativa.
Quello che è stato chiamato “movimento dei movimenti” ci ha rivelato una grande crescita di
maturità nello sviluppo dell’azione sociale. Esso presenta momenti di convergente mobilitazione
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pubblica nata da stabili e differenziate sedi di impegno sociale ( associazioni pacifiste ed ecologiste,
centri sociali, gruppi di volontariato, organizzazioni anti-razziste e in difesa dei diritti umani… ).
Dall’incontro e dal dibattito di massa fluiscono poi risorse politiche, sociali e cognitive che vanno
ad irrigare il reticolo delle azioni specifiche quotidiane.
Siamo ben oltre il moto di andata e ritorno tra flusso della mobilitazione sociale e riflusso nel
privato.
Da queste esperienze nasce una configurazione socio-politica che è caratterizzata dall’incrocio tra
la diversificazione verticale di un “arcobaleno” associativo orientato alla single-issue e una tensione
orizzontale tra il globale e il locale.
Assieme al conflitto, dopo lunga eclissi, riemergono le “solidarietà positive”, il far da sé
cooperativo, la pratica dell’obbiettivo.(30)
Si va oltre il movimentismo, ci si avvicina alla richiesta di un’altra forma di espressione della
società politica.
Se teniamo presente l’ urgenza di invenzione politica e sociale che discende dal mutamento nel
sistema partitico e dalla nuova qualità della sfida sociale, si può comprendere perché in queste note
di sommaria ricostruzione storica abbiamo dato spazio alla vicenda del movimento operaio e
socialista belga tra gli ultimi decenni dell’800 e il primo ‘900.
Esperienze politiche e sociali così lontane non possono darci ricette per il presente.
La loro rievocazione può però aiutare a porre al centro dilemmi che avevamo eluso, problemi che
erano stati rimossi; può offrire stimoli a formulare in modo più chiaro gli interrogativi nel presente e
per il futuro.
La memoria criticamente elaborata è esattamente l’opposto della memoria nostalgica.
Ha un senso riportare alla luce gli orientamenti ideali e politici della dimenticata Carta di
Quaregnon che si distingueva da quel Programma di Erfurt che ebbe grande successo come
manifesto della lunga e dominante tradizione del socialismo statalista; ha una sua ragione il rilievo
dato alle esperienze di costruzione di elementi d’ “altra società” attorno alle Case del Popolo del
Belgio dopo il lungo declino della capacità di realizzare dal basso obbiettivi e risultati autogestiti.
Ma il punto sul quale la lontana esperienza belga ci invita ad una riflessione nell’oggi riguarda
soprattutto l’applicazione politica del principio federativo; quel federalismo funzionale che faceva
convergere in autonomia e collaborazione sindacalismo e mutualismo, cooperazione e circoli di
partito, innestandosi in un federalismo orizzontale che teneva in relazione i distretti tessili di
Fiandra di lingua fiamminga con i bacini minerari valloni francofoni.
Quelle lontane vicende mandano echi in un presente nel quale l’urgenza riguarda la capacità di
trovare le forme della politica che siano in grado di far convergere, nel rispetto della diversità, uno
spettro arcobaleno di pratiche e di culture sociali; forme che permettano inoltre di governare la
tensione tra globale e locale con reti territoriali di cooperanti autonomie.
Il vecchio modello del partito di massa, gerarchico e omologante, non serve.
Il nuovo modello del partito delle cariche pubbliche va in tutt’altra direzione.
Pino Ferraris
Note
.
1) Pino Ferraris, Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo. “Almanacco delle buone
pratiche di cittadinanza”, n. 2, Una Città, Forlì febbraio 2007.
2) Giulio Marcon, Le utopie del ben fare, L’ancora del mediterraneo, 2004.
3) Jean Puissant , La coopération en Belgique, BTNG, XXII, 1991.
4) J. Destré & E. Vandervelde, Le socialisme en Belgique, Paris 1898.
5) Boeri,Brugiavini, Calmfors ( a cura di ), Il ruolo del sindacato in Europa, pagg.154-155
Università Bocconi Editore, Milano 2002.
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27)
28)
29)
30)
Anna Curcio, Quel patto di mutuo soccorso per la “classe creativa” è in rete, Il Manifesto,
novembre 2007.
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Franco Angeli Milano 1987, Giovanna Angelini (a cura di) Oltre la politica, Antologia di
scritti dal 1872 al 1911, Franco Angeli Milano 1989, Pino Ferraris Osvaldo Gnocchi Viani:
un protagonista dimenticato. Saggio introduttivo a “Osvaldo Gnocchi Viani, Dieci anni di
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