L`impianto urbanistico originario L`affrancamento da Cuma e l`arrivo

L’impianto urbanistico originario
Risale alla fase della fondazione il nucleo principale dell’impianto urbanistico della
città, ancor oggi nitidamente riconoscibile nel tessuto del così detto “centro antico”,
nell’area all’incirca compresa tra corso Umberto, via Foria, via Mezzocannone e via
Tribunali: anzi, proprio la persistenza di questo regolare disegno urbano costituisce,
come già ricordava Benedetto Croce, il più importante monumento della Napoli grecoromana. La trama urbana era articolata su tre assi maggiori orientati all’incirca estovest (i decumani, o, come si chiamavano ancora nel Medioevo, plateiai: la
settentrionale era in origine larga tredici metri, compresi i marciapiedi) e su altri minori
(vici o stenopoí) procedenti in senso nord-sud, in numero di ventidue o ventitré. Nella
sua maturità di concezione, il sistema risponde pienamente ai valori di coerenza e
organicità che si vennero affermando nell’urbanistica greca del VI-V seco-lo a.C., e che
gli antichi accostavano al nome di Ippodamo di Mileto: donde quella definizione
di ‘ippodamei’ che si suole attribuire a impianti quali questo di Napoli, o quello di
Ercolano. La più settentrionale delle platee (o summa) correva da una porta orientale
presso via Santa Sofia, passava per via Anticaglia, e, lambendo le pendici dell’acropoli,
giungeva ad ovest fino alla zona di Santa Patrizia e al quartiere detto della Marmorata.
La platea mediana, sull’asse attuale di via dei Tribunali, andava da una porta ad est
(Capuana?) fino a San Pietro a Majella. Quella inferiore, che corrisponde all’attuale asse
di Spaccanapoli, è rappresentata dalla linea di via Vicaria Vecchia -via San Biagio dei
Librai– via Nilo e correva da una porta Furcillensis (o Nolana) ad est ad un’altra trovata
nel XVIII secolo presso San Domenico Maggiore.
Mura di fortificazione e terrazzamenti furono costruite in tufo locale, di cui si è
identificata in anni recenti sotto la chiesa di Santa Maria del Pianto a Poggioreale la
latomia principale. Si tratta di un’enorme cava, con la tipica conformazione a volta
ogivale, che reca sulle pareti le tracce dei livelli orizzontali, segnati da marche incise,
seguendo i quali i cavatori tagliarono i blocchi. L’antica via di cava lungo la quale i
blocchi scendevano in città fu forse poi trasformata in una via di uso più generale e
ricalcata dal tracciato della strada vecchia che in età aragonese raggiungeva la villa di
Alfonso d’Aragona a Poggioreale. La principale infrastruttura della nuova città fu
certamente il porto, che sappiamo collocato nella baia che si incurvava tra il piccolo
capo dov’è oggi la chiesa di Santa Maria di Portosalvo ed il più elevato promontorio
di Castel Nuovo. Attraverso esso giunsero e si manifestarono presto in città le nuove
influenze esterne che subentrarono a quella della madrepatria cumana. Dapprima quella
di Siracusa, la città siciliana sostituitasi a Cuma nella funzione di baluardo dei Greci
contro i barbari e protagonista con le sue navi della nuova vittoria contro gli Etruschi,
proprio nel mare di Cuma, nel 474 a.C.: è ai Siracusani che, significativamente, viene
ceduta dai Cumani l’isola di Pithecusa. Poi quella di Atene, spinta in Occidente dalla
politica imperialistica avviata da Pericle; ne è una significativa testimonianza, alla fine
del V secolo a.C., la missione a Napoli dello stratego Diotimo, che vi istituì la festa
annuale delle Lampadoforie, in onore della sirena Partenope.
L'affrancamento da Cuma e l'arrivo
Meglio collocata strategicamente nel golfo, dotata di un porto meno soggetto ad
insabbiamenti, la giovane Napoli soppiantò rapidamente in importanza Cuma e quando nel
466 a.C. i Siracusani abbandonarono Ischia, a seguito di un’eruzione vulcanica, l’isola fu
occupata, forse insieme a Capri, non dai Cumani ma dai Neapolitani. Le diverse influenze
traspaiono chiaramente nei culti pubblici. Era dedicata ai santuari l’acropoli, il settore
occidentale della fascia a nord della platea summa. Qui doveva essere il tempio di Apollo,
una delle divinità della triade cantata dal poeta napoletano Stazio, e certo da riconnettersi
a quello del dio archegeta della madrepatria cumana. Qui, presso San Gaudioso, nell’area di
Sant’Aniello a Caponapoli, era il tempio di Demetra, documentato indirettamente dal
ritrovamento di una stipe con terrecotte votive con l’immagine della dea; già presente a
Cuma, essa era venerata a Napoli con una corsa rituale con lampade di cui ci racconta
ancora Stazio (Actaea Ceres, cursus cui sempre anelo/ votivam taciti quassamus lampada
mystae) e qualificata di thesmophóros (legislatrice e propiziatrice della fertilità). La fama
della dea napoletana si estese a Roma che da Napoli e da Velia faceva venire le
sacerdotesse per il culto praticato a Roma. La terza divinità della triade sacra napoletana
era, com’è noto, la coppia dei Dioscuri, il cui primo tempio, di età greca, nella parte
settentrionale dell’agorá, fu completamente restaurato all’età di Tiberio dal liberto Tiberio
Giulio Tarso ed ultimato da Pelagone, liberto e commissario dell’imperatore; in età
paleocristiana fu trasformato nella chiesa di San Paolo Maggiore.
Nella seconda metà del V secolo a.C. veniva intanto affacciandosi prepotentemente sulla
scena campana un nuovo soggetto politico, i popoli di lingua osca dei Sanniti, provenienti
dalle montagne del Sannio attraverso le valli del Volturno e del Calore, ed i loro
consanguinei Campani, discendenti degli antichi indigeni della pianura del Volturno e
costituitisi nel 438-437 a.C. in un’entità politica (“popolo”). La presa di Capua, che essi
sottrassero alla signoria etrusca nel 423 a.C., fu l’inizio di un’ondata che nel giro di pochi
anni portò l’intera Campania nelle loro mani, mentre nello stesso tempo i loro
cugini Lucani occupavano le città greche ed etrusche della costa salernitana e cilentana. In
questo mare sabellico, solo Napoli riuscì forse a evitare l’occupazione militare, ma non un
pesante assoggettamento politico che si espresse nella conquista delle magistrature
cittadine da parte di gruppi dominanti sannitici o ad essi legati e che traspare, oltre che nei
nomi dei nuovi magistrati, nell’alterazione stilistica delle monete, i cui conii vennero
progressivamente imbarbarendosi.
Napoli divenne così il punto di attrito tra il mondo osco e l’espansionismo romano. Nello
scontro Cuma si schierò senza esitazione dalla parte di Roma e ne ricevette nel 338 a.C. la
civitas sine suffragio, ovvero la cittadinanza senza voto; a Napoli prevalse invece il partito
popolare, filosannitico, che portò allo scontro con Roma (bellum Neapolitanum 328-326
a.C.) conclusosi con l’occupazione da parte dei Romani, aiutati dall’elemento greco
aristocratico, di Palepoli, l’antico borgo di Partenope in cui s’erano asserragliate le truppe
sannitiche con i loro alleati venuti da Nola.
Quando, nel 290 a.C., si concluse, col pieno successo dei Romani, questo convulso periodo,
Napoli si ritrovò alleata (foederata) di Roma, una condizione che le consentiva di conservare
una sua formale autonomia, sia pure con l’onere di fornire al potente alleato le navi della
propria flotta in caso di necessità: il che si verificò, ad esempio, nel 264 a.C. quando la città
partecipò alla spedizione romana in Sicilia. In cambio di tale subordinazione la città acquisì
peraltro i grandi vantaggi di natura commerciale derivanti dal libero accesso agli spazi
economici aperti dalla penetrazione militare romana, come testimoniano le iscrizioni
contemporanee di area greca che parlano dei suoi mercanti come di Romani da Napoli.
Esempio della vivacità economica e commerciale di Napoli in questo periodo è la produzione
della ceramica a vernice nera, la cosiddetta ‘Campana A’, lavorata con argille ischitane e
massicciamente esportata in tutto il bacino del Mediterraneo occidentale.
La scoperta nell’area di piazza Nicola Amore di officine per la produzione di anfore di tipo
greco-italico, marcate con gli stessi timbri di quelle di Ischia, ha offerto un supporto
archeologico alla tradizione su una produzione napoletana di vino. Virgilio nelle Georgiche
faceva di Napoli la sede della prima coltivazione su suolo italico delle viti aminee; e Galeno
collocava i vitigni aminei campani sulle colline napoletane (dove essi davano però un vino
leggero, Leptòs, e non denso come gli aminei siciliani e bitini). Ancora Galeno cita un altro
vino, il cosiddetto Trifillo, prodotto sulle colline napoletane, forse a quattro miglia da
Napoli, se si tratta dello stesso Trebellikòs citato da Plinio e da Ateneo che lo dice forte,
digeribile e di buon sapore (eukratos, eustomachos, eumastos).
Ponte con l'Ellenismo
Alla luce di questi vantaggi commerciali, si comprende perciò come la città restò fedele
all’alleanza con Roma nelle successive vicende belliche, rigettando le profferte di Pirro e
resistendo fermamente all’assedio di Annibale, occasione in cui si colloca uno dei rari
momenti gloriosi della sua storia militare, quando Hegea guidò l’attacco della cavalleria
napoletana contro i Cartaginesi. È d’altra parte sintomatico della reciprocità di tali rapporti
economici con Roma il fatto che le prime emissioni romane di monete
d’argento, testimonianza dello sforzo di adeguare la propria valuta a mercati più ampi,
furono coniate probabilmente proprio nella zecca napoletana. Un riflesso dell’importanza
del commercio marittimo per Napoli si può cogliere inoltre nell’impegnativa opera di
dragaggio con cui, tra IV e III secolo a.C., si approfondì, per estendere la superficie
utilizzabile, il fondo del bacino del porto di Napoli ai piedi della collina di Castel Nuovo. I
segni di questa operazione si sono chiaramente identificati sulla superficie dei fanghi messi
in luce negli strati più profondi dello scavo della stazione della linea 1 della metropolitana,
mentre i materiali più antichi rinvenuti mostrano con le diverse provenienze l’ampiezza
dell’area raggiunta dai commerci napoletani.
Un altro riflesso di questo mondo ellenistico di cui Neapolis si poneva ad un tempo a
protagonista, sia pure minore, e a intermediaria con Roma, è la sequenza di tombe rupestri
che allineavano le loro facciate ad edicola lungo le strade funerarie che si disponevano a
terrazza sulla collina della Sanità, offrendo una straordinaria e scenografica visione di città
dei morti; un paesaggio di colline che dobbiamo immaginare ancora coronate alla sommità
da vigneti e castagneti, quelli dei frutti decantati da Plinio e Marziale (V, 78,15: Et quas
docta Neapolis creavit/ lento castaneae vapore tostae). Della maggior parte di queste
tombe, adoperate fino ad età romana, resta ormai solo la documentazione, ma una visita
alla ricostruzione di una di esse, allestita nel Museo Archeologico Nazionale, permette di
apprezzarne lo straordinario apparato decorativo interno, con affreschi in stile
architettonico –dominati da una testa a rilievo di Gorgone dagli smaglianti colori –, le klinai
funerarie, i materiali del corredo, le stele dipinte e i rilievi scolpiti con la scena di
commiato con il tipico saluto in greco, chaire (salve).
La posizione commerciale privilegiata di Neapolis fu però pesantemente indebolita nel 194
a.C. dalla fondazione, nello stesso golfo, a pochissima distanza dalla città, della colonia
romana di Puteoli (Pozzuoli), insediata sul luogo di una fortezza utilizzata durante la
seconda guerra punica e sede, poco dopo, di una dogana (portorium). Impiantata sul Rione
Terra con funzione militare, la nuova città di Puteoli conobbe viceversa un rapidissimo
sviluppo economico, fino a sostituire quasi completamente Napoli nella funzione di
principale porto commerciale della Campania. La disponibilità di un ottimo bacino portuale,
il collegamento, attraverso la nuova via Campana con la via Appia e con Capua, che viveva
allora un periodo di grande fioritura economica, la funzione, assegnatagli da Roma, di
proprio scalo mercantile, fecero di Puteoli un emporio vivacissimo, in cui convenivano i
‘negotiatores’ di tutto il mondo ellenistico per commerciarvi grano, spezie, vino, vetri,
schiavi, prodotti di lusso orientali destinati al sempre più esigente mercato romano. Nel 126
a.C. il poeta Lucilio parla di Puteoli come di una “Delo minore”, paragonandola cioè all’isola
egea che, grazie al porto franco insediatovi dai Romani, era il più grande centro di traffici
del Mediterraneo in quell’epoca.
Tratto da
http://www.napoliperquartiere.it/periodo/la-citta-greca-e-romana/