Capitolo II - Scuola Nazionale dell`Amministrazione

annuncio pubblicitario
2
Giuseppe De Filippi, Giuseppe Pennisi
La new economy
e “l’inizio della storia”
La new economy o net economy1 è caratterizzata da
tre elementi di fondo: a) l’impiego, al tempo stesso inteso e diffuso, di tecnologie dell’informazione e della
Premessa
comunicazione; b) la prevalenza di struttura di rete all’interno dell’impresa ed al suo esterno; c) l’importanza dello stock di conoscenza e del flusso di informazioni nel determinare i vantaggi comparati. Una delle
implicazioni principali è la riduzione delle barriere all’ingresso2, specialmente di quelle che dipendono dal
fatto che, per la propria esistenza e sopravvivenza, l’impresa ha l’esigenza di mettere insieme una massa critica di risorse allo scopo di sfruttare le economie di scala generate dal fatto di funzionare come contesto ed intermediario di contratti in vari mercati (dei capitali, del lavoro, ecc.); si tratta di una vasta rete di contratti, sia
espliciti sia, soprattutto, impliciti, all’interno dell’impresa, tra tutti i soggetti coinvolti nell’impresa medesima. Questa funzione e questo modo di operare dell’impresa (dimostrata nel “teorema di Coase”3) viene sfidata dalla “new economy” che,
richiedendo una massa modesta di risorse finanziarie e grande flessibilità (nonché,
di conseguenza, minimizzando i contratti all’interno dell’organizzazione-impresa),
spinge verso dimensioni ridotte dell’impresa medesima e l’impiego di servizi esterni tramite outsourcing. Ciò favorisce la diffusione e disseminazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e delle attività su di esse basate4.
1
1 Il termine “new economy” viene utilizzato intercambiabilmente con la locuzione “net economy”, come è
prassi non solo nelle pubblicazioni a carattere divulgativo ma anche in documenti ufficiali sia italiani sia internazionali: ambedue intendono l’insieme delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione che permettono di
ridurre drasticamente distanze di spazio e di tempo ed i costi di transazione ad esse pertinenti.
2 Per un caso di studio molto recente e molto interessante, Sabbatini P. (2001).
3 Coase (1960). Nel suo teorema dimostra che “il carattere distintivo dell’impresa è il superamento del meccanismo dei prezzi”. Tale istituzione, alternativa al mercato, sorge ed è essenziale all’economia di mercato in quanto i contratti alla base dell’organizzazione-impresa riducono i costi di transazione.
4 Quah (2002).
32
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
Nella prima parte di questo capitolo, si descrivono l’interazione tra il processo
d’integrazione internazionale e la new economy o net economy e le implicazioni
che essa comporta sulle politiche pubbliche e, quindi, sulla Pubblica Amministrazione (Pa) come strumento di formulazione e attuazione delle politiche pubbliche.
Nella seconda, si introduce il concetto di “capitale sociale”, centrale alla “nuova
teoria dello sviluppo” in corso di elaborazione dall’inizio degli Anni Novanta, e si
pone l’accento su come la “net economy” possa contribuire alla sua formazione e
crescita. Nel successivo capitolo 3, si delineano alcune delle strategie seguite dall’Italia (che vengono meglio approfondite nei capitoli successivi di questo volume)
e le si raffrontano con quelle adottate da Francia, Germania e Paesi Iberici; quelle
adottate nei Paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) sono o più note (tramite l’attenzione che ricevono sulla stampa d’informazione) o meno “rilevanti” dato il differente assetto istituzionale-amministrativo.
2.1. L’integrazione internazionale
2
Ad ogni decennio, o giù di lì, viene annunciata la fine
di qualche cosa. Gli Anni Sessanta sono stati contrassegnati dalla “fine dei miracoli economici”, analizzata
nelle sue determinanti ed implicazioni, in un bel libro
dell’economista ungherese Ferenc Janossy5, giunto con
un lustro di ritardo all’attenzione degli economisti di
cultura anglosassone e forse mai a quelli italiani. Sugli
Anni Settanta, si staglia “la fine della crescita economica”6 con un’ombra lunga di
dibattiti e di polemiche che, tra una crisi petrolifera ed una crisi finanziaria, sono proseguiti sino alla metà degli Anni Ottanta. Dall’inizio degli Anni Novanta, siamo alle
prese con “la fine della storia”7, delineata nel 1989 in un breve articolo sul periodico The Public Interest dal politologo nippo-americano Francis Fukuyama in cui, hegelianamente, si faceva coincidere la vittoria della liberal-democrazia sulle altre forme di governo (in particolare, sui tentativi di varie guise di “socialismi reali”) con
l’esaurirsi della stessa esperienza della Storia con la “S” maiuscola.
A cavallo del XXI secolo, si è aperta la discussione su un’altra “fine”, quella
“della politica economica” (e delle sue principali componenti quali la politica monetaria, la politica di bilancio e la politica dei prezzi e dei redditi8, nonché delle poIntegrazione economica
internazionale,
new economy e
politiche pubbliche
5
Janossy (1966).
Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972).
7 Fukuyama (1989).
8 Come viene normalmente insegnata (Cfr., ad esempio, Acocella, 1994, e De Vincenti, 1997).
6
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
33
litiche pubbliche ad esse pertinenti) come la abbiamo intesa per almeno un paio di
generazioni. La possibilità stessa di poter guidare con la mano pubblica l’economia,
ossia l’essenza della politica economica, viene aggredita, e forse messa sotto scacco, da due determinanti – l’integrazione economica internazionale (un termine neutro, e meno connotato da impliciti giudizi di valore, di quello “globalizzazione” oggi più in uso) e la new economy o net economy – che insidiano e mettono a repentaglio le leve su cui Governi e Parlamenti hanno contato, negli ultimi cinquant’anni (se non di più), per pilotare i sistemi economici verso obiettivi di sviluppo e di
ridistribuzione della produzione, dei consumi e del reddito. Ciò comporta, inevitabilmente, un ripensamento, se non dell’ubi consistam, del ruolo della Pa come strumento per la formulazione e l’attuazione delle politiche pubbliche.
L’importanza dell’argomento è indicata dal fatto che al tema ha dedicato un fascicolo The Journal of Economic Perspectives, la rivista divulgativo-professionale
dell’American Economic Association, chiamando a raccolta il fior fiore degli economisti non solo americani, tra cui numerosi Premi Nobel9. Sulla Revue d’economie politique francese, due “maître-à-penser” di rango alla guida di una delle “grandes écoles” d’Oltralpe, vanno ancora più oltre e si chiedono “a cosa serva la scienza economica” e se la politica economica abbia un futuro10; un altro periodico
scientifico francese si chiede, addirittura, se “le riviste economiche servono ancora”11; la domanda innesca una replica immediata, in chiave di politica economica
centralizzata o, quanto meno, programmatoria, da uno dei “pensatoi” per eccellenza della “gauche plurielle”12; tuttavia, proprio nel mondo d’espressione francofona,
il concetto, se non di fine della politica economica, quanto meno dei crescenti vincoli alla sua formulazione ed attuazione ottiene supporto implicito da economisti di
peso in scritti pubblicati da due organizzazioni considerate per decenni “culturalmente interventiste” (ossia favorevoli all’intervento pubblico), il Centro per lo Sviluppo dell’Ocse13 e l’Osservatorio francese delle congiunture economiche14. Le citazioni potrebbero continuare15. Il problema, in breve, esiste e non può essere eluso. Esaminiamone le componenti essenziali.
9 The Journal of Economic Perspectives n. 14, n. 1 Winter 2000. Tra gli autori (in ordine di pubblicazione degli articoli), A.B. Krueger. J. Bradford De Lomg, T. Taylor, R. Easterlin, J. Kornai, W.E. Kovacic, C. Shapiro, J.J.
Wallis, J. Persky, W.E. Becker, D. Colander, R.H. Thaler, B. Allen, R. Solow, R. Lucas jr., P. Krugman, D. Rodrik,
D.T. Ellwood, P. Portney, B. Anderson.
10 Quinet e Wallisser (1999).
11 Party (2001).
12 Boyer (1999).
13 Tanzi (1999).
14 Drèze (2000).
15 Interessanti, nelle loro diversità, l’ampio saggio teorico di Zafirovsky (1999) e l’affondo divulgativo e provocatorio di Fox (1999), nonché il saggio di Drucker (1999).
34
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
L’integrazione economica internazionale ha ramificazioni molto ampie e molto
profonde sulla capacità stessa dei Governi di fare politica economica al livello tanto della formulazione quanto dell’attuazione delle politiche pubbliche, e quindi sulla capacità della Pa di fornire il loro apporto nelle forme, procedure e prassi a cui si
è abituata. In molti casi, ad esempio quello delle unioni monetarie, l’integrazione
contiene vincoli espliciti sia alla sovranità monetaria sia alle politiche di bilancio16,
nonché alla politiche dei prezzi e dei redditi (i tre principali strumenti, come si è visto, a disposizione della politica economica). Anche, però, in mancanza di vincoli
espliciti contrattualizzati in accordi tra Stati, l’integrazione comporta quella che,
con un’espressione felice, Thomas Friedman chiama: “una camicia di forza tutta
d’oro”17. Se si vuole fruire, dei benefici dell’integrazione economica internazionale, di pari passo “con il crescere dell’economia, si restringe la sfera della politica”.
“La “camicia di forza tutta d’oro” limita le scelte politiche ed economiche di chi è
al potere entro parametri molto precisi, tanto che diventa anche difficile vedere le
differenze tra i programmi dei partiti di governo e quelli dei partiti d’opposizione”.
Con il suo accento sulla necessità di formulare ed attuare politiche economiche
non solo “virtuose”, ma “competitivamente virtuose”, proprio poiché l’integrazione economica internazionale pone in concorrenza quelle di ciascun Paese rispetto a
quelle di tutti gli altri, la “camicia di forza tutta d’oro” è un’immagine appropriata.
Sia se condizionati da vincoli espliciti contrattualizzati sia se solo sotto lo stimolo
della concorrenza tra politiche economiche in gara per “virtuosismo” (quale percepito dai mercati), i Governi (e le opposizioni) possono scegliere se indossare o meno la “camicia di forza tutta d’oro” imposta dall’integrazione economica internazionale. Una volta indossatola, possono financo decidere di togliersi i lacci che essa implica. La sanzione, però, è forte, immediata e (a ragione delle imperfezioni di
mercato, in particolare del mercato delle informazioni, e dei suoi effetti sui movimenti di capitale, soprattutto a breve) sovente molto più dura di quanto ci si potrebbe attendere. Lo hanno mostrato a tutto tondo, tra l’altro, le “crisi finanziarie”
degli Anni Novanta; da quella che, all’inizio del decennio, ha colto quasi di sorpresa gli accordi europei dei cambi, colpendo in modo particolarmente pesante la lira
e, quindi, la politica economica dell’Italia, a quelle che, nella seconda metà, hanno
punito alcuni Paesi asiatici e la Russia e minacciato il Brasile18.
16 La bibliografia su argomenti come questo è molto ampia. Utile il recente saggio di Savona (2000) in quanto traccia, in un linguaggio non tecnico, il viaggio dell’Italia nel perseguimento di una sovranità monetaria mai pienamente ottenuta.
17 Friedman (1999) e De Filippi e Pennisi (1999).
18 Per una sintesi non tecnica, Jacquet (1999). Molto interessante la Richard Ely Lecture presentata, nella veste di Economista non di Segretario al Tesoro Usa, carica che allora aveva, da Lawrence H. Summers, Summers
(2000).
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
35
I vincoli imposti dalla “camicia di forza tutta d’oro” hanno aspetti ancora più
pregnanti, pur se meno appariscenti, di quelli dei più noti vincoli alla sovranità monetaria. Non solo comportano, come già sottolineato anni orsono, lo sviluppo di una
lex mercatoria internazionale che si sovrappone alle normative nazionali (in aree
come il fisco, il lavoro e l’economia)19 ma tolgono a Governi ed a Parlamenti quelli che sono i loro strumenti essenziali per “fare” politica economica: dare indirizzo
(compito dei primi) e legiferare (funzione dei secondi). Le normative interne (non
esclusivamente il diritto, pubblico e privato, dell’economia) devono essere plasmate sulle prassi internazionali, e su quelle dei Paesi più competitivi, non soltanto ad
esse adeguate in seguito a decisioni multilaterali o sovranazionali. È con queste
“istituzioni”, nel significato di prassi e regole implicite rispettate da tutte le parti in
causa20, che gareggiano, l’una contro l’altra, politiche economiche nazionali a cui
restano alvei sempre più angusti.
Le organizzazioni finanziarie internazionali, create mezzo secolo orsono per governare la ricostruzione e lo sviluppo dell’economia mondiale, devono anch’esse
fare i conti con un’integrazione economica che limita i loro compiti21. In particolare, nella prevenzione ex-ante di crisi finanziarie, acquistano un ruolo crescente organismi specializzati, su base privatistica, quali il Comitato di Basilea per la Vigilanza bancaria, l’Organizzazione Internazionale delle Commissioni dei Valori Mobiliari, l’Organizzazione Internazionale per la della Vigilanza delle Assicurazioni, il
Comitato Internazionale per le Regole Contabili e così via. Sono gli standard adottati da questi organismi (che hanno la loro legittimità in intese privatistiche, validate dunque dal mercato e dalle sue libertà, non in accordi inter-governativi ed ancor
meno in norme giuridiche formali22) a fornire il corpo di base della “lex mercatoria” internazionale, e, plasmando quelle nazionali, a dare vita alle “istituzioni” della “condizionalità ex-ante”23 ed a vincoli ex-ante alle politiche economiche; tali vincoli non riguardano solo indicatori e parametri macroeconomici, monetari, di bilancio e di politica dei prezzi e dei redditi (quali, per intenderci, quelli del Trattato
di Maastricht e del “patto di crescita e di stabilità”) ma entrano nel vivo della corporate governance e delle regole di contabilità e di revisione societaria, della vigilanza bancaria, del funzionamento dei mercati azionari ed obbligazionari. Tali vincoli non possono non incidere, quindi, anche su quegli aspetti delle politiche economiche di cui gli Stati e le legislazioni nazionali sono sempre stati i più gelosi,
19
Ad esempio, Galgano, Cassese, Tremonti e Treu (1993).
Come precisato nella scuola neo-istituzionalista guidata da D.C. North, North (1990).
21 Un’esemplificazione eloquente è il dibattito sulla riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; per una sintesi Wolf (2000); per un’analisi più ampia, Bergsten (2000) e Salop (2000).
22 Guérot (2000).
23 Gomel (2000).
20
36
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
quali le politiche industriali e commerciali, le politiche sociali, le politiche dell’assetto del territorio, le politiche dell’occupazione e del lavoro, le politiche della immigrazione, le politiche della cultura e delle risorse umane.
Naturalmente, sono molto differenziati i percorsi di ciascun Paese e di ciascun
gruppo di Paesi verso la definizione di “istituzioni” di alta qualità per promuovere
la crescita in un contesto competitivo. Non esiste più, però, quel “Washington consensus” sulla strada da seguire che solo sei anni fa veniva codificato al termine di
un dettagliato lavoro di analisi dell’Institute for International Economics24. Tuttavia, anche coloro che sviscerano (ed auspicano) la più ampia differenziazione dei
sentieri per la definizione delle “istituzioni” per la crescita (al fine dir tenere conto
dello “stock locale di conoscenza ed esperienza”), ammettono che, alla lunga, non
si può avere un settore o comparto dell’economia e della società immerso nel processo di integrazione economica internazionale (per catturarne i vantaggi) ed un altro da essa escluso (per tutelare gruppi, categorie ed interessi specifici)25. In quello
“integrato” non si può “fare” politica economica, come la si intendeva solo tre lustri orsono quando il grado di apertura al mercato internazionale dei singoli Paesi e
gruppi di Paesi era limitato e quello d’integrazione internazionale ancora più ristretto26. Quello non integrato diventa preda di chi è “politicamente destinato a perdere”, che può erigere paratie e scavare trincee, frenando il progresso, ma alla lunga è costretto a cedere il campo27.
2.2. La new economy: produttività, ciclo, disuguaglianze
In questo contesto si inserisce la new economy: la “rete-delle-reti” è immateriale, è “tutto e solo” tecnica, non inquina, è, soprattutto, un collegamento impalpabile tra agenti economici (sia individui sia imprese) atomistici28. Gran parte del dibattito ha posto l’accento sui nessi tra net economy e produttività, e sulla sfida che
tali interconnessioni comportano alla politiche economiche che si propongono di
governarli oppure sulle “nuove discriminazioni” innescate dalla net economy29. Vediamone alcuni punti essenziali prima di rivolgersi alle implicazioni della “legge-
24
Williamson (1994), Liard-Muriente (2001), Crafts and Venable (2001).
Rodrik (2000).
26 Interessante rileggere con l’esperienza di oggi il volume scritto da Myrdal al termine della sua esperienza
alla guida della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, Myrdal (1958) e raffrontarlo con un
testo recente con obiettivi analoghi quale Salvatore (1999).
27 Molto stimolante la modellizzazione recentissima offerta in Acemoglu e Robinson (2000).
28 De Filippi e Pennisi (2000b) e (2000c) e Pennisi (1995).
29 Jorgenson e Stiroh (2000), Kiley (1999), Zarnovitz , Oecd (2000), International Monetary Fund (2001).
25
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
37
rezza” della net economy sulla capacità stessa di formulare ed attuare politica economica e, quindi, di “servire” chi ha la responsabilità di formulare ed attuare politiche pubbliche. Gli aspetti salienti sono i seguenti:
– la relazione tra new economy e aumenti della produttività. Il caso più studiato è,
senza dubbio, quello dell’economia degli Stati Uniti d’America30. Dal 1990 la
crescita di lungo periodo, escludendo, quindi, fluttuazioni cicliche, dell’economia americana (2,4% l’anno) è stata di mezzo punto percentuale inferiore a quella registrata nel 1973-1990 (2,9%), a sua volta molto più lenta di quella contabilizzata nel 1948-1973 (4%). Senza la new economy, però, il tasso sarebbe stato ancora più contenuto: non avrebbe sfiorato il 2% l’anno perché almeno un sesto della crescita Usa post 1990 deve imputarsi ad investimenti in computer, ad
acquisti di computer da parte delle famiglie ed ai pertinenti flussi di servizi che
hanno inciso principalmente sulla produttività multifattoriale del settore manifatturiero31. Un saggio recente di Dale W. Jorgerson, redatto dopo la fine
dell’“esuberanza irrazionale” che ha innescato la bolla speculativa borsistica,
conferma sostanzialmente queste ipotesi, pur sottolineando l’esigenza di ricerche ulteriori in materia, in particolare, degli effetti delle nuove tecnologie sui
mercati del capitale (il nesso tra valutazioni azionarie e prospettive di crescita) e
sui mercati dei capitali (la tecnologia dell’informazione e della comunicazione e
gli effetti di sostituzione tra varie categorie di lavoro)32. Un lavoro di Paola Caselli e Francesco Paternò del servizio studi della Banca d’Italia riafferma, sempre sulla base di dati Usa, il contributo della new economy all’accelerazione della produttività del lavoro nella seconda metà degli Anni Novanta sia nell’industria manifatturiera sia nei servizi; evidenza econometrica di tale contributo si ha
sia utilizzando la contabilità della crescita sia una funzione di produzione del valore aggiunto33.
– la relazione tra new economy e ciclo economico. Dato che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione è una general purpose technology (Gpt, ossia
tecnologia a uso plurimo), la sua introduzione comporta una fase di rallentamento durante il periodo di sperimentazione, quando risorse fisiche ed umane
vengono distolte da altri impieghi, più “sicuri”, ed incanalate in operazioni ad alto rischio e di cui molte hanno una bassa probabilità di successo34; quindi non
smussa i cicli economici ma in certi casi può anche accentuarli35;
30
Per un’analisi utile e recente Gordon (2000) e per un confronto dei vari punti di vista in campo AA.VV. (2000).
Jorgergenson e Kevin J. Stiroh (1999) e Black e Lynch (2000).
32 Jorgenson (2001).
33 Caselli e Paternò (2001).
34 Oltre all’ampia rassegna della letteratura di Aghion, Caroli e Garcìa-Peñosa (1999), le analisi empiriche in
Chennells e Van Reenen (2000), nonché il lavoro di Baily e Lawrence (2001).
35 Francis e Ramey, (2002).
31
38
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
– la relazione tra new economy e diseguaglianza. Nonostante l’ipotesi di qualche
anno fa secondo cui la tecnologia dell’informazione e della comunicazione
avrebbe creato nuove esclusioni36, l’aumento del gap tra fasce di reddito appare
contenuto anche nei Paesi in cui viene comunemente giudicato “spettacolare”37,
appare, tutto sommato, moderato rispetto alle aspettative ed alle impressioni iniziali: negli Stati Uniti e nel Regno Unito il rapporto tra i redditi da lavoro medi
di coloro nel decimo percentile più alto della scale e di quelli nel gradino più
basso è passato, rispettivamente, da 4,76 a 5,63 e da 2,53 e 3,2138.
In breve, dunque, la new economy non comporta effetti miracolistici né sulla
produttività né sul ciclo economico ma non ha neanche implicazioni distorsive negative sulla distribuzione dei redditi. Implica, però, un forte cambiamento nelle relazioni tra soggetti ed organizzazioni economiche39.
Come si è detto, la net economy è basata su tecnologia dell’informazione e della comunicazione, su rapporti di rete all’interno ed all’esterno del processo di produzione e distribuzione e sull’importanza dei flussi d’informazione e dello stock di
conoscenza come determinante principale per ottenere vantaggi competitivi a livello dell’individuo, dell’impresa, dei Paesi e dei gruppi di Paesi. I suoi aspetti principali in termini di “come” formulare ed attuare politica economica sono i seguenti:
a) l’esaurimento di alcune importanti economie di scala caratteristiche dei processi
di produzioni manifatturieri; b) la drastica riduzione dei costi di transazione (sino
quasi a “mettere a repentaglio l’esistenza stessa del concetto di impresa quale insieme di contratti standardizzati nella tradizione del teorema di Coase”40); c) l’abbattimento di distanza e di spazio e la spinta, perciò, alla delocalizzazione ed al decentramento delle attività economiche. L’esaurimento delle economie di scala dei
processi di produzione manifatturiera, nonché la sfida lanciata al concetto stesso di
impresa, incidono direttamente sull’economia del lavoro e delle relazioni industriali41: mettono in crisi, quindi, l’idea stessa di fabbrica e di unità produttiva quale elaborata a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XIX secolo ed attuata nei sistemi
tayloristi-fordisti di produzione e di relazioni industriali, con tutte le ramificazioni
36
Pennisi (1995), Saint-Paul (2001).
Aghion, Caroli, Garcìa-Peñosa (1999).
38 Machin e John van Reenen (1998).
39 Atkenson e Kehoe (2002a) e (2002b).
40 Paganetto e Scandizzo (2000). Altri casi italiani interessanti in Butera (2001). Molto utile Shapiro Varian
(1999) in cui si sottolinea molto efficacemente la differenza nelle economie di scala nell’industria manifatturiera e
nella net economy; nella seconda ciò che conta sono le economie di scala dal lato della domanda (più che dell’offerta), in particolare quelle che si riescono a sprigionare tra i consumatori. Si creano mercati in cui “chi vince prende tutto” in quanto i costi di riproduzione sono minimi e non ci sono limiti alle economie di scala quali quelli inerenti alle difficoltà di gestire imprese oltre un certo livello dimensionale.
41 Pennisi (1996).
37
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
39
che ne sono discese in termini di differenziazione, e contrapposizione, tra datori di
lavoro e lavoratori, di sviluppo del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali
e di un diritto del lavoro plasmato a tutela della parte ritenuta più debole. Mettono,
dunque, in crisi le varie forme di politica dei prezzi e dei redditi “concertata” ad essa connaturali al fine di “fare” politica economica42. Recidono, quindi, proprio
quello strumento di politica economica che, pur con molteplici adeguamenti, pareva in grado di adattarsi all’integrazione economica internazionale meglio della politica monetaria e della politica di bilancio. Se, nella leggerezza della rete, l’unità
produttiva diventa atomistica, la differenziazione tra datore di lavoro/imprenditore
e lavoratore si appanna sempre più e si dissolvono, poco a poco i concetti stessi di
impresa, di datore di lavoro, di lavoratore, spariscono, di conseguenza, progressivamente le “parti sociali” ed una politica dei prezzi e dei redditi tra loro e con loro
“concertata”.
Ancora più pregnanti, anche se meno visibili, le ramificazioni in termini di costi di transazione. Cade l’argomento centrale in materia di formulazione ed attuazione della politica economica: agire, tramite “politiche pubbliche”, sui costi di
transazione nell’interazione tra agenti economici (individui, imprese, organizzazioni)43. Cade anche un altro aspetto centrale, in particolare, alle discussioni degli Anni Novanta: l’aumento dei costi di transazione “politici”, derivanti dell’esistenza
stessa della politica economica. Evapora, almeno per i settori della net economy, la
ratio di una politica economica che, da un lato, mira, in ultima istanza, all’abbattimento di costi economici di transazione ma nel farlo crea costi politici di transazione44.
La “morte della distanza” – sottolinea Mario Deaglio in un saggio recente45 – ha,
però, alcune implicazioni importanti: il diverso rapporto tra produttori e consumatori, i problemi dei diritti di proprietà, le regole di accesso. A favore del produttorevenditore (specialmente se di grandi dimensioni ed in grado di avere informazioni
dettagliate sui suoi clienti potenziali e sul mutamento dei loro gusti e della loro domanda) gioca una forte asimmetria informativa, che negli Anni Novanta è stata alla base di forti aumenti degli utili (la “creazione di valore per gli azionisti”). Le norme sui brevetti e sui diritti di proprietà intellettuale elaborate cent’anni fa perdono
significato. Il diritto all’accesso diventa più importante del diritto di proprietà e
comporta in molti casi distorsioni46. La Pa può avere un ruolo significativo nel correggere alcune disfunzioni connesse con queste implicazioni.
42
De Filippi e Pennisi (2000a).
Dixit (1996).
44 Zerbie e McCurdy (1999).
45 Deaglio (2001).
46 Si pensi agli eccessi del trading-on-line da parte di soggetti privi di conoscenze elementari di funzionamento dei mercati finanziari.
43
40
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
2.3. Pubblica Amministrazione tra integrazione internazionale e new economy
L’assedio, quindi, è parallelo e simultaneo. L’integrazione economica internazionale pone vincoli di mercato, tanto più cogenti quanto più impliciti e più informali, alla politica monetaria e di bilancio (ossia ai principali strumenti dello Stato
per formulare ed attuare politica economica, ed alla Pa nei suoi compiti di supporto tecnico alle autorità politiche) in generale, e vincoli ancora più stringenti alle politiche economiche (si pensi alle “politiche industriali”) nei settori oggetto, direttamente od indirettamente, di apertura al reso del mondo ed integrazione internazionale. Parallelamente e simultaneamente, la net economy spunta le armi al terzo strumento tradizionale della politica economica (la politica dei prezzi e dei redditi tramite varie forme di “concertazione”) e spegne lentamente l’obiettivo stesso della
politica economica: l’abbattimento dei costi di transazione economica ed il contenimento dei costi di transazione politica. La net economy, forse, non è “la fine della storia”47; ciononostante, che cosa resta alla nostra prassi di “fare” politica economica?
Riprendiamo in mano il “simposio” dell’American Economic Association citato all’inizio di questo capitolo48, soffermandoci in particolari sui saggi di David
Colander49, Beth Allen50, Robert Solow51 e Robert E. Lucas jr.52. Ai nostri fini,
l’ultimo tra quelli elencati, ossia il lavoro di Robert E. Lucas jr., è il più eloquente: prende l’avvio da un modello di crescita innescata e sostenuta dal diffondersi
dello stock di conoscenza53 per spiegare l’evoluzione economica (e la convergenza dei redditi pro capite dei maggiori Paesi industriali, prima, e di quelli di nuova
industrializzazione, poi) degli ultimi 200 anni, nonché per tracciare ipotesi quantitative degli sviluppi possibili per i prossimi 100 (una maggiore “convergenza” tra
Paesi ed aree, ma non necessariamente all’interno di Paesi e di aree). Lucas ammette i limiti dello strumento (principalmente la sua incapacità di spiegare perché
la “rivoluzione” economica cominciò proprio in Gran Bretagna nonché alla fine
del XVIII secolo, nonché altrove od in un’altra epoca) ma sottolinea che, pur nel
suo meccanicismo, “si tratta di un modello economico che solo un teorico dell’e-
47
Hodgson (1999).
Si tratta, in effetti, di tre simposi distinti: Looking backward at economics and the economy, Forecasts for
the future of economics, Forecasts for the future of the economy.
49 Colander (2000).
50 Allen (2000).
51 Solow (2000).
52 Lucas jr. (2000).
53 Tamura (1966).
48
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
41
conomia può avere scritto”. Quello che ai nostri fini rileva è che il modello, rilanciato ed approfondito di Lucas, non contiene alcuna indicazione di politica economica. Non c’è politica economica (almeno quale è stata intesa negli ultimi cinquant’anni) neanche nella visione di Solow su come coniugare la strumentazione
keynesiana e quella neo-classica in quella “macro-economia a medio termine” che
dovrebbe plasmare il XXI secolo; lo stesso Solow, anzi in uno scritto di poco precedente e di cui non fa menzione nel lavoro per il simposio54, aveva ricordato come gli economisti si siano trasformati dai “gentiluomini studiosi” quali erano negli Anni Quaranta a “personaggi iperistruiti alla ricerca di ciò che non funziona”
alla fine del XX secolo.
Sullo stesso crinale è Beth Allen che prospetta per la micro-economia un futuro sempre più collegato alla tecnologia, in particolare “con la biologia e con l’ingegneria”, e sempre meno con le discipline (“scienze politiche, giurisprudenza, contabilità, finanza”) sue alleate e suoi cugini nell’ultimo secolo. Chiedendosi come
verrà insegnata la disciplina tra 100 anni, infine, David Colander prospetta una sempre maggiore specializzazione, dopo un tronco comune di base, per formare non più
economisti (quelli che maneggiano le “grandi” leve della “grande” politica economica) ma “tecnici specializzati” in finanza pubblica, tecniche di previsione, economia sanitaria, relazioni industriali e quant’altro.
All’inizio di questo capitolo, si è ricordato l’interrogativo di Fukuyama sulla “fine della storia” che una dozzina di anni fa diede una scossa ai politologi ed agli studiosi di relazioni internazionali. Allora, Fukuyama si chiedeva che se caduto “il muro di Berlino” non fosse terminata la Storia, intesa come non la dialettica tra liberal-democrazia e le altre forme di assetto politico e di governo; ricordava anche i
nessi inscindibili tra liberal-democrazia e libertà di mercato. Pochi rammentano
che, qualche anno più tardi, Fukuyama riprese in mano il breve articolo e partì dall’ipotesi là delineata per scrivere un intero libro, togliendo, però, dal titolo il punto
interrogativo e chiamando in causa, con la “fine della Storia” (ormai data per ineludibilmente assodata) anche l’“ultimo uomo”55 .
In questi ultimi mesi, ha notevole successo editoriale un saggio del Premio Nobel Amartya Sen, il quale da padre dell’economia del benessere e delle stesse procedure dell’analisi costi benefici è via via diventato “political economist”, prima, e
filosofo morale, poi. Il saggio prende le distanze dai tanti che sanno “sempre di più
attorno a sempre meno” per lanciare un’“idea rivoluzionaria”: quella che sviluppo
è libertà56. Dunque, a dieci anni di distanza da Fukuyama, Sen, da un lato, si ricol-
54
Solow (1997).
Fukuyama (1992).
56 Sen (2000a).
55
42
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
lega alla “fine della Storia” derivante dall’esaurimento degli avversari della liberaldemocrazia e del mercato e, da un altro, riafferma come alla base dello sviluppo sono le libertà sostanziali prima e più della politica economica. L’“ultimo economista”, se esiste ancora, diventa filosofo morale, e politico, per l’affermazione delle libertà; altrimenti, è costretto ad imboccare la strada del “politically loser” che pone,
futilmente, “barriere” al progresso57.
Dunque, se l’integrazione economica internazionale, da un canto, e la net economy, dall’altro, fanno sì che in futuro non ci sarà più politica economica (almeno
come la abbiamo intesa noi), gli economisti ed i public servant (anche e soprattutto nella loro funzione di consiglieri di organi a carattere politico per la formulazione ed attuazione di politiche economiche) sono ormai una specie in via di estinzione. In un mondo più libero, il posto dell’“ultimo economista” verrà preso, da un lato, dal filosofo-politico e, dall’altro, dal tecnico specializzato.
3.1. Il concetto economico di “capitale sociale”
3
C’è un sentiero nuovo che si apre, o quanto meno si
socchiude all’economista ed al public servant: il contributo che la net economy può dare al “capitale sociale”, un concetto non del tutto recente, anzi elaborato
già negli Anni Settanta, ma posto nell’ultimo decennio
al centro delle analisi sullo sviluppo economico e, perciò, sulle politiche economiche per favorirlo. In questo
paragrafo, esploreremo il concetto economico di “capitale sociale”, il ruolo dell’informazione e della net economy nel promuoverlo ed in particolare quello dell’informazione-valutazione, funzione essenziale della Pa.
Negli Anni Novanta, il termine “capitale sociale”, nel senso di norme, regole e
reti che facilitano l’azione di gruppo, ha destato notevole attenzione in tutte le
scienze sociali e relative discipline. Se ne sono inizialmente interessati i sociologi58
e gli scienziati della politica59, ma il concetto ed il termine hanno anche guadagnato notevole terreno tra gli economisti, specialmente in seno alla scuola neo-istituzionalista60. Nelle analisi dei processi di sviluppo tanto dei Paesi ad alto reddito pro
New economy e
“capitale sociale”
57
Nel significato dato da Acemoglu e Robison (2000).
Ad esempio, Coleman (1987, 1988, 1990). Si veda il recente contributo italiano in Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigila (2001).
59 Ad esempio, Putman (1993 e 2000).
60 Per una rassegna Williamson (2000). Interessante il recente contributo di De Soto (2001).
58
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
43
capite quanto di quelli emergenti, nonché, e forse ancor di più, di quelli, principalmente dell’Africa a sud del Sahara e dell’Asia centrale, che non riescono a decollare, il “capitale sociale” ha assunto un ruolo avuto negli Annni Sessanta e Sessanta
dal “capitale umano” come componente essenziale del “fattore residuo”.
Spieghiamo il significato di questi termini a chi non è avvezzo alla semantica
della letteratura sullo sviluppo economico e di quella più recente sulla teoria economica delle informazioni, della comunicazione, delle emozioni e, quindi, delle
istituzioni. Già all’inizio degli Anni Sessanta, un lavoro di Edward Denison, considerato pionieristico per le tecniche statistiche allora impiegate ai fini della contabilità della crescita, concludeva che i fattori di produzione intesi in senso stretto – il
capitale ed il lavoro – non erano sufficienti a spiegare le “fonti” della crescita economica né perché i tassi di crescita differiscono61. Denison formulò il termine “fattore residuo” per individuare tutto ciò che non poteva essere classificato né come
“capitale” né come “lavoro” in base ai metodi ed alle tecniche di elaborazione della contabilità economica nazionale allora in uso. Per opera di una vasta scuola di
economisti62, tale “fattore residuo” venne, in gran misura, fatto coincidere con il
“capitale umano”, ossia con i differenziali di produttività derivanti da investimenti
in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché con le esternalità tecnologiche
pure esse connesse agli investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo.
Da qui l’accento posto per decenni su investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché su appropriate politiche in questi settori, visti sotto il profilo
economico, non soltanto o prevalentemente, socio-culturale63.
A quarant’anni circa delle analisi di Denison, e sulla base di un apparato statistico ed econometrico molto più ricco di quello di cui si disponeva nel 1962, nuove ricerche sulle fonti dello sviluppo giungono a conclusioni analoghe di quelle di
allora. Eloquente a riguardo, la recente rassegna di Easterly e Levine64 con la quale, sulla base di dati di 21 Paesi dal 1940 al 1990, si documentano questi stilemi: a)
il “residuo”, ossia la produttività totale dei fattori, conta molto di più dell’accumulazione dei fattori di produzione nello spiegare differenze di reddito e di crescita tra
Paesi; b) nel lungo periodo, tra Paesi e gruppi di Paesi i redditi pro capite divergono (invece di convergere); c) mentre l’accumulazione dei fattori è persistente, la
crescita non lo è, in quanto caratterizzata da pause e da interruzioni (a volte anche
prolungate e pure profonde); d) l’attività economica tende a concentrarsi nelle aree
61
Denison (1962) e Denison (1967).
Ad esempio, il Premio Nobel Gary Becker .
63 Ad esempio, Bulgarelli, Giovine e Pennisi (1990) e Pennisi (1991).
64 Easterly e Levine (2001).
62
44
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
più ricche ed a maggior reddito; e) le politiche economiche nazionali sono strettamente associate con i tassi di crescita economica di lungo periodo. “Le analisi empiriche – concludono Easterly e Levine – non vengono a supporto di modelli tradizionali basati su accumulazione di capitale, rendimenti decrescenti, rendimenti costanti di scala, e fattori di produzione fissi. Tuttavia, il lavoro empirico non distingue ancora tra le differenti definizioni e concezioni di produttività totale dei fattori; gli economisti devono dedicare maggior tempo e maggiore attenzione a modellizzare e quantizzare la produttività totale dei fattori”.
Il dibattito sul “capitale sociale” si inserisce in questo filone di ricerca su cosa
c’è alla base della produttività totale dei fattori. Eloquentemente, in uno dei suoi lavori più recenti Dani Rodrik65 lo pone alla base del “nuovo pensiero sullo sviluppo” e il World Development Report 2001-2002 della Banca Mondiale66 è interamente dedicato al ruolo dell’informazione e della comunicazione nella formazione
e crescita del “capitale sociale”. Fioriscono pure le analisi teoriche ed empiriche su
informazioni, comunicazione, emozioni, comportamento economico e “capitale sociale”67.
Come si è detto, il lavoro definitorio e concettuale su “capitale sociale” è stato
condotto, in gran misura da sociologi e da scienziati della politica a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta; solo nell’ultimo lustro il tema
ha interessato gli economisti. Veniamo ad una definizione economica, ove non economicistica, di “capitale sociale”. Da alcuni testi recenti68, si può ricavare questa:
“il capitale sociale è la dimensione istituzionale delle transazioni, dei mercati e dei
contratti tramite la quale si stabiliscono relazioni stabili, nonché basate sulla fiducia reciproca, e si condividono informazioni tra soggetti economici (individui, imprese, Pubblica Amministrazione) tali da potenziare l’efficacia e l’efficienza del
modo di conseguire interessi collettivi ed individuali. È di particolare rilievo nell’analisi delle imperfezioni di mercato in cui sono in ballo beni pubblici o beni sociali/meritori. La “fiducia”, elemento di rilievo nel capitale sociale, viene interpretata, pure sotto il profilo formale in quanto aspettativa relative alle azioni degli
altri tale da determinare la scelta del corso di azione del soggetto in esame”.
Alcuni economisti69 considerano il “capitale sociale” come l’“anello mancate”
per interpretare i processi di sviluppo, per prevederne i risultati probabili e per tracciarne il percorso, od influenzare quello “predeterminato” da esperienze storiche e
65
Rodrik (2001).
World Bank (2001).
67 Elster (1999).
68 Robison and Hanson (1995), Caroll (2001) , Robinson, Schmidt e Siles (2002).
69 Ad esempio, Grooteart (1998).
66
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
45
valori culturali70. Anche se per la sua natura di concetto appartenente alla scuola
economica “neo-istituzionale”, la definizione stessa di “capitale sociale” non può
non avere connotati storico-sociologici ed anche psicologici, la stessa letteratura
economica distingue varie tipologie e dimensioni del “capitale sociale”. Il solo elemento unificante è che a differenza del capitale fisico o finanziario (ed in parte dello stesso capitale umano), il “capitale sociale” non diminuisce e non si erode con
l’uso, ma al contrario aumenta e si arricchisce: a differenza del capitale fisico, finanziario ed anche umano, il “capitale sociale” è relazionale e, quindi, cresce con
l’interazione ripetuta di individui ed imprese nell’ambito di un gruppo o di un distretto o di una rete71. In una delle analisi economiche del concetto di “capitale sociale”72, prima ancora che la net economy ponesse la rete telematica tra gli elementi
centrali degli studi in questo campo, si sottolinea come il volume di “capitale sociale” posseduto da una persona data dipende dalla dimensione del newtwork che è
in grado di mobilizzare. Un’altra analisi, tra le pionestiche, di questa tematica73 pone enfasi sul ruolo dell’informazione e della comunicazione per far sì che il “capitale sociale” venga costruito come risorsa personale dell’individuo. Un filone più
recente74 vede il ”capitale sociale” come proprietà di comunità e di gruppi (sia formali sia informali) e pone l’accento sulle crafting institutions (le istituzioni “artigiane”, spesso esterne alla comunità ed al gruppo, che con incentivi creano e potenziano il “capitale sociale”); ancora una volta l’informazione e la comunicazione
sono centrali alla costruzione ed all’arricchimento del network, aspetto fondante del
“capitale sociale”.
In alcune versioni di questa scuola, il maggiore beneficiario del “capitale sociale” è la società in senso lato; pur beneficiando una comunità od una società specifica, il “capitale sociale” irradia l’intera società e modifica, in melius, l’interazione
economica interpersonale riducendo costi di transazione, selezione avversa e
azzardo morale; in queste versioni l’informazione e la comunicazione hanno un
ruolo ancor più centrale, non solo nelle accezioni della letteratura sociologica e politologica75 ma anche in quelle rigorosamente economiche quali l’interpretazione
proposta in un recente saggio di Amartya Sen in cui si pone l’accento sul linguaggio e sulla comunicazione come elementi fondanti del “capitale sociale”76.
70
Nel senso di North (1990).
Daspgupta and Serageldin (2000), Woolcock e Narayan (2000).
72 Bordieu (1986).
73 Coleman (1990).
74 Ostrom (1990a, 1990b).
75 Putman (1993).
76 Sen (2000b).
71
46
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
Un aspetto significativo, e tale da distinguere nettamente il “capitale sociale” derivante dalla net economy dalle forme di “capitale sociale” maggiormente studiate –
quelle dei “distretti industriali”77 – è che non richiede una base territoriale78; la net
economy, anzi, contribuisce al “capitale sociale” proprio abbattendo distanze di
spazio e di tempo e può, quindi, attivare e sostenere comunità “virtuali” in luoghi e
continenti molto lontani gli uni dagli altri.
Infine, un’interessante analisi recente di Bart Hobijn e Boyan Jovanovic79 spiega le relazioni tra news, net economy, capitale “nuovo e buono” e capitale “vecchio
e cattivo”. L’analisi non sfiora il concetto di “capitale sociale” e guarda principalmente al mercato azionario. Il modello elaborato da Hobijn e Jovanovic e la sua dimostrazione econometrica documentano che la crisi delle borse del 1972-74, quando gli indici “si squagliarono”, la lenta ripresa delle quotazioni sino all’inizio degli
Anni Ottanta, l’esuberanza sempre più accentuata da allora alla fine degli Anni Novanta, la caduta degli ultimi 24 mesi o giù di lì devono essere letti come episodi di
un solo grande, e lunge, fenomeno, annusato dalle news sin dall’inizio degli Anni
Settanta: il capitale “buono” della new economy della tecnologia delle informazioni sta scacciando il capitale cattivo della vecchia economia delle ciminiere. Quando nel 1972 Intel ha sviluppato il primo micro-processore, è giunta “la notizia che
era arriva la tecnologia dell’informazioni e della comunicazione” e che la capitalizzazione azionaria della “vecchia economia” era sopravvalutata. Nel nostro contesto,
il significato del lavoro è essenzialmente nel nesso tra news (pur solo annusate tramite “market sentiment”), net economy e capitale “nuovo e buono”, tra cui quello
“sociale”.
3.2. Le informazioni, le news, i media e il capitale sociale
In aggiunta ad elaborazioni teoriche ed ad oltre 500 analisi empiriche pubblicate negli ultimi dieci anni80, due lavori recenti sono particolarmente utili ad illustrare l’interazione tra informazioni (intese in senso amplio e tale da includere le news,
i media e la net economy), “capitale sociale”, funzionamento dei mercati e, quindi,
crescita e sviluppo. Il primo è un’analisi econometrica degli effetti di benessere collegabili a Cnbc, il principale canale digitale economico e finanziario della televi-
77
Nella scuola ispirata, in vario modo, da Becattini (1987).
Un’analisi recente molto interessante riguarda “capitale sociale” ed investimenti esteri diretti in Italia Mudambi e Navarra (2002).
79 Hobijn e Jovanovic (2001).
80 Per una rassegna, Williamson (2000).
78
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
47
sione Usa81. Il secondo, redatto in stile di alta divulgazione e, quindi, accessibile
anche a chi non è avvezzo al gergo ed alle formalizzazioni matematiche degli economisti, è un background paper commissionato in occasione della preparazione
dell’ultimo World Development Report della Banca Mondiale, un volume che nell’edizione 2001-2002 riguarda interamente l’informazione, la comunicazione ed i
mercati e dedica, quindi, un capitolo all’interazione tra i media, compresi quelli
collegati alla net economy, e lo sviluppo economico e sociale82. Dei due lavori, il
primo si riferisce a un solo Paese, gli Stati Uniti, anche se Cnbc è diffusa in tutti i
Paesi industriali (in Italia, ad esempio, è parte integrante del canale digitale
Cnbcfn) ed in numerosi Paesi in sviluppo dell’Asia e dell’America Latina. Il secondo è, invece, un’analisi comparata di 97 Paesi a vari stadi di sviluppo. Inoltre,
dei due lavori, il primo pone l’accento sull’informazione finanziaria rispetto ad un
fenomeno specifico di breve periodo: la “bolla” dei mercati azionari del 19972000. Il secondo, invece, si sofferma sugli aspetti strutturali ed istituzionali. Vediamone i punti salienti.
L’analisi del caso Cnbc porta alla conclusione che l’informazione è “estremamente efficace nell’influenzare le azioni e le reazioni” dei soggetti economici.
L’“interazione strategica”, tra news, da un lato, e azioni di individui e di imprese,
dall’altro, è tale, però, da farla diventare “una lama a doppio taglio” in quanto è
“troppo efficace” nell’incidere; innesca, quindi, overshooting, “reazioni eccessive”,
“magnificando qualsiasi brusio che inevitabilmente si infiltra nell’informazione”,
aumentando, così, la “vulnerabilità dei mercati”, specialmente quelli finanziari (oggetto della verifica econometrica) in modo che può essere considerato “inefficiente
sotto il profilo sociale” ma “perfettamente razionale sotto il punto di vista dei singoli attori”. Proprio per mitigare i fenomeni di overshooting, nonché “l’indigestione di informazioni su valori azionari ed obbligazionari”, è stato di recente proposto
che la tecnologia venga utilizzata per mettere in funzione un “sistema mondiale di
allarme” che, sviluppato dalle maggiori università e dai maggiori centri di ricerca,
funzioni come “le previsioni del tempo” basate su modellistica molto avanzata; il
“sistema” affiancherebbe la miriade di informazioni fornite dalla telematica ed aiuterebbe a sceverare il grano dal loglio83. Il processo informazione-azione-reazione
si basa, infatti, su quello che un altro autore chiama efficacemente un “rito razionale”84 in cui l’“esuberanza” dei mercati non è “irrazionale”, come sostenuto nel tito-
81
Morris e Shin (2001).
Djankov, Caralee Mc Liesh, Shleifer (2001).
83 Olsen e Cookson (2001).
84 Chew (2001).
82
48
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
lo stesso di un recente libro di successo85 ma il frutto di “capitale sociale” di gruppo, ossia della comunità e della piazza “virtuali” creati ed alimentati dal condividere insieme le informazioni. È un “capitale sociale” che, per utilizzare il lessico della teoria dei giochi, si basa su giochi “ripetuti frequentemente” e sulla “fiducia” economica che essi comportano tra i soggetti coinvolti, senza differenziazioni di spazio e di tempo. Che il “capitale sociale” possa avere effetti perversi (quali l’amplificazione della risposta alle news) od anche interamente negativi (si pensi al “capitale sociale” di associazioni con finalità da giudicarsi asociali, quali il “familismo
amorale” o addirittura a delinquere, quali le mafie) è fenomeno noto e studiato da
sociologi e da economisti86.
Lo studio empirico delle strutture dei media in 97 Paesi rafforza la rilevanza della comunità e della piazza “virtuali” nella costruzione e nello sviluppo del “capitale sociale”. “Oggi più che mai prima d’ora, grazie a alti tassi d’alfabetizzazione,
bassi costi di stampa, nuove tecnologie radio-televisive ed Internet, i media sono
importantissimi nell’informare chi investe, chi consuma e chi fa commercio. Da un
lato, i media in vernacolo, specialmente la radio, portano le informazione ed incoraggiano lo sviluppo del mercato anche in zone geograficamente isolate. Da un altro, le informazioni e le analisi mediatiche sulle tematiche economiche mondiali,
muovono i mercati dei cambi ed il commercio internazionale. I media, inoltre, forniscono informazioni sui mercati politici, esponendo la corruzione e comportamenti non corretti sotto il profilo etico e dando una piattaforma per dare voce ad opinioni differenti su come si governa e sulla esigenze di riforma”. “Hanno, dunque,
un impatto sulla politica e sui valori e rappresentano un supporto essenziale al cambiamento istituzionale ed allo sviluppo del mercato”. “Le principali determinanti
che rendono i media efficaci a produrre migliori risultati politici, economici e sociali (ossia allo sviluppo del “capitale sociale”) sono l’indipendenza (e la responsabilizzazione), la qualità e la copertura”. L’analisi empirica conclude che la struttura
proprietaria dei media è una determinante essenziale dell’indipendenza; la qualità,
a sua volta, dipende dalla concorrenza e dall’accesso ad informazioni di interesse
pubblico, nonché ovviamente dalle capacità professionali di chi elabora e produce
informazione; l’ampliamento e la diversificazione della copertura comporta la riduzione all’accesso all’entrata nel settore, la partecipazione dei privati (specialmente
nei Paesi in via di sviluppo ed in transizione), supporto ad iniziative su base comunitaria e non profit87.
85
Shiller (2000).
Woolccook e Narayan (2000).
87 Conclusioni analoghe si evincono da due lavori condotti nell’ambito della Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione.
86
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
49
Sempre nell’ambito del World Development Report 2001-2002 si suggerisce come la net economy, ed in particolare Internet, hanno aumentato, con la drastica riduzione dei costi nel settore, il potenziale di indipendenza, qualità e copertura dei
media: un’analisi comparata di 107 Paesi indica che 17 avevano posto, nel 2000,
controlli significativi ad Internet88. Alcuni Paesi, quali la Corea del Nord, l’Irak,
Myanmar e la Siria, restringono l’accesso tramite apposite norme inserite nei codici penali. Altri stabiliscono il monopolio pubblico nell’offerta di Internet, restringendo, quindi, l’accesso ad alcuni siti e monitorando l’informazione dall’estero; lo
fanno, però, con crescenti difficoltà, e costi, a ragione dell’abbattimento di distanze e di differenze temporali inerente proprio a Internet ed alle altre forme di new
economy. I Paesi che controllano Internet sono anche quelli con gli indici più bassi
di sviluppo umano, di minor sviluppo dei mercato, con tassi di crescita più contenuti e con gli indicatori di “capitale sociale” quali le reti associative basate su autoregolazione ed auto-governo. Un lavoro econometrico89 recente suggerisce comunque che Internet contribuisce ad un aumento dei lettori di news sia nel breve sia nel
lungo periodo; a breve termine, gli effetti sono proporzionali al potenziale di lettori in segmenti specializzati dell’informazione, mentre a lungo termine si stabilisce
una relazione tra la qualità dei siti e la persistenza dell’aumento dei lettori. La “condivisione di informazioni”, le “relazioni stabili”, ed in varia misura, la “fiducia”, alla base della definizione economica di “capitale sociale” sono, quindi, facilitate dall’informazione e dalle “comunità” e “piazze” “virtuali” innescate dai media ed ulteriormente agevolate e facilitate dagli strumenti della net economy90.
In una prospettiva di analisi economica neo-istituzionale che svisceri i costi politici di transazione91, si può dire che, rispetto al “capitale sociale”, oltre ad innestare “giochi ripetuti” nell’ambito delle comunità effettive92 o “virtuali” in cui operano, l’informazione ed i media hanno proprietà analoghe a quelle dell’istruzione:
forniscono incentivi a basso potenziale che, se ben messi in atto e distribuiti, contribuiscono a ridurre asimmetrie informative (ed in certi casi anche posizionali) ed
a contenere fenomeni di selezione avversa e di azzardo morale, facilitando la “fiducia” che, come si è visto al paragrafo precedente, è centrale alla formazione ed
all’arricchimento di “capitale sociale”. Lo si ricava, tra l’altro da un recente lavoro
empirico su 97 Paesi sul modo in cui mezzi d’informazione indipendenti e non
88
Committee to protect journalists (2000).
Pauwels (2001).
90 Per un’analisi sociologica recente del “caso Italia”, Leto, Gallo, Abruzzese e altri (2001); per due rigorosamente economiche (e con verifiche econometriche), Dellarocas (2001a), Dellarocas (2001b), Moulton, Madnick e
Siegel (2001).
91 Dixit (1996).
92 Besley e Prat (2001).
89
50
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
schierati influenzano le decisioni di voto consentendo una valutazione costi benefici delle politiche del Governo in carica ed un esame di come si sia stato rispettato
il programma con il quali ci si era presentati agli elettori.
3.3. L’informazione e la valutazione come “capitale sociale”
I cenni ai lavori su media e “capitale sociale” ci portano ad un’altra riflessione:
i nessi tra l’informazione in quanto risultato di un processo di valutazione e il “capitale sociale”. È questa una materia da anni oggetto di attenzione da parte dei sociologi e degli studiosi di scienza della politica e di scienza dell’amministrazione93.
Di recente, però, ha cominciato ad interessare economisti di prestigio, ad esempio
il Premio Nobel Stiglitz94 ed il Direttore Generale Operations Evaluation della Banca Mondiale95. Vediamone i punti salienti e come la net economy agisce su essi.
In primo luogo, gli economisti che si interessano all’informazione come risultato della valutazione e determinante del “capitale sociale” appartengono rigorosamente alla scuola “neo-istituzionale” nel senso chiarito da Williamson96 e specificato ancora più puntualmente da Nugent97; secondo questa scuola, un’istituzione è
“una serie di vincoli che governano le relazioni comportamentali tra individui e tra
gruppi”, definizione molto simile a quella che si è data di “capitale sociale” al paragrafo 3.1 di questo capitolo. A livello macro-economico – si pensi ai parametri del
Trattato di Maastricht o del “patto” di crescita e stabilità tra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, oppure ancora ai programmi di stabilizzazione o di riassetto strutturale definiti da Paesi in sviluppo o in transizione d’intesa con le istituzioni finanziarie internazionali –, la valutazione fornisce criteri e standard con cui esaminare
l’efficacia delle politiche rispetto agli obiettivi prestabiliti, oppure di modificare gli
obiettivi, se ciò appare utile; l’informazione sulla valutazione illumina i policy makers (nonché l’opinione pubblica e l’opposizione) ed è parte integrante del quadro
di governance della società98.
La “net economy” è uno strumento particolarmente importante non solo per meglio raccogliere e padroneggiare la vasta quantità di dati necessari per valutazioni
di politiche macroeconomiche e strutturali, ma anche per diffonderne i risultati nel-
93
Per un’efficace ed aggiornata rassegna, Bezzi (2001).
Stiglitz in Picciotto e Weisner (2001).
95 Picciotto (1998).
96 Williamson (2000).
97 Nugent (1998).
98 Weiss (1998).
94
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
51
l’opinione pubblica sia in senso lato sia più specificatamente nelle “comunità” e
nelle “piazze virtuali” a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente. In aggiunta, la net economy rende la società meno gerarchica; “nessuno vede il taglio del
tuo vestito e nessuna segretaria blocca il tuo accesso all’ufficio del direttore generale o del Ministro se gli mandi le tue idee su supporto elettronico”99; i ricercatori
più giovani non devono sfidare apertamente i professori più anziani per diffondere
sulla rete-delle-reti i risultati delle loro analisi poiché è sufficiente che vengano lanciate su un sito Internet; si sgretola quella “deferenza” che nel mondo amministrativo e nel mondo accademico frena l’innovazione.
Ancora più significativa è l’informazione-valutazione a livello micro-economico, principalmente in organizzazione in cui gli “agenti” (dirigenti, funzionari) e le
“agenzie” in nome e per conto di cui operano (il Consiglio di Amministrazione) cercano di perseguire obiettivi, pubblici o privati che essi siano. L’informazione-valutazione mette in atto un sistema di incentivi che avvicina la funzione di preferenza
dell’“agente” a quella dell’“agenzia” e ne evidenzia eventuali discrepanze, contenendo, in tal modo, comportamenti opportunistici ed inducendo l’intera organizzazione all’apprendimento. Nel settore pubblico, l’informazione-valutazione sostituisce in gran misura la revisione contabile richieste nel settore privato dalle autorità
di vigilanza sulla corporate governance.
L’informazione-valutazione contribuisce a tre funzioni chiave alla base del “capitale sociale” e del suo arricchimento: a) l’azione collettiva; b) la partecipazione;
c) il coordinamento. Lo fa – ed è questo il punto nodale – tramite misure di mercato, ossia incentivi a rispondere agli obiettivi definiti od a modificarli in via partecipativa od a meglio individuare i comportamenti opportunistici ed a sanzionarli in
modo coordinato. Per un’indicazione controfattuale – tra le tante che si potrebbero
offrire – si pensi alla vicenda, nell’Italia degli Anni Ottanta, del tentativo di non rendere note alla stampa ed al pubblico le valutazione tecniche sui progetti che concorrevano a finanziamenti a valere sul Fondo Investimenti e Occupazione, Fio100;
essa portò alle dimissioni dello stesso Ministro in carica proprio in quanto il contesto istituzionale stava cambiando, ed il “capitale sociale” crescendo, molto più rapidamente di quanto venisse percepito dalle stesse autorità di Governo, e ponendo
sempre più marcatamente l’accento sull’informazione-valutazione dell’attività di
governo, come ricordato al termine del paragrafo precedente.
In società democratiche in cui né lo Stato né le organizzazioni private hanno la
potestà di definire e condurre unilateralmente le proprie azioni, l’azione collettiva è
99
The Economist, Nov. 10, 2001.
Pennisi e Peterlini (1987).
100
52
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
il frutto di negoziati101, le cui regole sono vincolate da meccanismi di responsabilizzazione in termini, ad esempio, di reputazione e di credibilità. L’informazionevalutazione è uno strumento importante per superare asimmetrie informative, specialmente tra “agenzie” ed “agenti”, nonché tra individui e gruppi sociali in differente grado di accesso all’informazione e per contenere fenomeni di selezione avversa e di rischio morale. Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo per gli
aiuti ai Paesi a basso reddito medio hanno elaborato una casistica molto ampia dell’informazione-valutazione come grimaldello per l’azione collettiva102. Una componente significativa delle strategie per le aree in ritardo dell’Unione Europea e dell’Italia, si basa proprio sull’informazione-valutazione come strumento per l’“azione collettiva” di organizzazioni, enti e gruppi molto diversi103. I metodi e le procedure per concorrere a fondi strutturali ed agli altri “sportelli” europei rappresentano
un altro esempio di come anche tramite il lessico, come indicato da Sen104, si abbia
sviluppo di “capitale sociale” tra la “comunità” europea di coloro interessati alla valutazione di piani e progetti. La net economy ha ridotto costi di transazione di distanza e di tempo, inciso positivamente, quindi, su selezione avversa e azzardo morale e facilitato la formazione e la crescita di tale forma di “capitale sociale”.
Una valutazione partecipativa o partecipata105 accresce ulteriormente il potenziale dell’informazione-valutazione nella formazione di “capitale sociale”. Picciotto (2001) e Carroll (2001) descrivono o citano molti casi, principalmente di Paesi
in via di sviluppo, in cui la informazione-valutazione non solo ha contribuito alla
formazione di “capitale sociale” ma è stata anche strumento per privatizzazioni e
devoluzione di funzioni a enti territoriali o funzionali. La letteratura di uno Stato
molto centralizzato, come la Francia, ha sviluppato una casistica molto ricca106 di
informazione-valutazione come strumento per il decentramento attuato a partire
dalla fine degli Anni Ottanta.
Non mancano esempi italiani di informazione-valutazione, specialmente per
l’innovazione tecnologica, utilizzata, grazie all’impiego della net economy, per la
formazione di “capitale sociale” tra distretti differenti e distanti107. L’informazione-
101
Olson (1965).
Si pensi alle tecniche di rapid rural appraisal, segnatamente nelle forme “partecipative” divenute ormai
prassi dell’allestimento di progetti nel settore agricolo (Fanciullacci, Guelfi, Pennisi, 1991) oppure di tecniche analoghe nel settore dell’istruzione e della formazione (Pennisi, 1991).
103 Ci si riferisce, ad esempio, ai contratti d’area ed ai patti territoriali (Viesti, 2001).
104 Sen (2000b).
105 Palumbo (2001).
106 Warin (1993).
107 Scuola Superiore Sant’Anna (2001).
102
LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA”
53
valutazione partecipativa si scontra con vincoli severi quando le parti in causa hanno interessi e punti di vista divergenti, specialmente se il contesto in cui avviene la
valutazione è incerto e volatile; ha potenzialità ma anche limiti anche importanti:
espone chi deve prendere decisioni a pregiudizi ed a gruppi di pressione che possono sia fuorviare la valutazione sia avere effetti negativi, piuttosto che positivi, sul
“capitale sociale”.
L’informazione-valutazione, infine, contribuisce a risolvere una grande varietà
di problemi di coordinamento108, specialmente in un contesto di devoluzione e/o decentramento: l’“apprendimento sociale” viene facilitato tramite forme di monitoraggio che si basano sull’informazione-valutazione109 e promuovono la cooperazione, e quindi l’azione collettiva, tra i soggetti coinvolti.
Cerchiamo ora di tirare le fila. Nella prima parte di
questo capitolo abbiamo tratteggiato come due determinanti parallele (l’integrazione economica internaConclusione
zionale, da un lato, e la new economy, dall’altro) mettano in crisi la politica economica come comunemente intesa ed insegnata negli ultimi 50 anni: a cavallo tra
il XX ed il XXI secolo siamo alla prese con un’altra
“fine”, quali la “fine” della Storia, della crescita e dei
“miracoli economici” che hanno caratterizzato il passaggio tra un decennio e l’altro110; estremizzando per meglio trasmettere il punto
centrale, siamo alla vigilia della politica economica. Nella seconda, invece, esploriamo come la new economy possa attivare un nuovo lungo ciclo di sviluppo, operando sulla formazione ed arricchimento del “capitale sociale”, premessa, a sua volta, di aumenti di lungo periodo della produttività multifatturiale, nonché di una migliore creazione e distribuzione di reddito. Abbiamo delineato alcuni casi (informazioni, media, valutazione) in cui il nesso tra net economy e “capitale sociale” appare robusto. Altri sono in corso di studio (ad esempio, l’interazione tra net economy,
“capitale sociale” ed export e quella tra i nuovi paradigmi tecnico economici e mercato del lavoro). Alcuni aspetti vengono trattati nei capitoli successivi di questo lavoro.
4
108 Come è noto, la disciplina economica che studia i costi di transazione pone l’accento sul rapporto tra costi
di transazione e costi di coordinamento (Williamson, O.E. 1987).
109 Sabel (1994). Molto interessante l’analisi di Cooke e Morgan (1998).
110 Janossy (1966), Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972), Fukuyama (1989).
54
GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI
L’analisi sin qui condotta porta comunque ad una conclusione: per la Pa nella
sua funzione di collaborazione alla formulazione ed alla attuazione delle politiche
economiche (e per i consulenti e consiglieri dell’Esecutivo e del Legislativo), la net
economy pone non tanto un problema di file, bytes, chips, computers e collegamenti
oppure (in una concezione più vasta) un modo di ripensare le proprie procedure, ad
esempio per il fisco, per gli acquisti di beni e servizi e per il mercato del lavoro, oppure ancora di riscrivere il proprio organigramma e funzionigramma in una forma
a matrice non gerarchizzata. È qualcosa di molto più importante: vuol dire ripensare le politiche pubbliche mettendo ad esse come perno “il capitale sociale” ed utilizzando, con appropriati incentivi e disincentivi, l’enorme potenziale offerto dalla
net economy.
Non siamo forse alla vigilia del vagheggiato “nuovo miracolo economico”111.
Non siamo, però, neanche alla “fine della Storia”. Anzi come nel 1937, affermava,
con un’ultima indimenticabile battuta Louis Jouvet chiudendo una “pièce” di Jean
Griraudoux: “tutto ciò ha un nome molto bello: è l’aurora!”112 , l’inizio, quindi, della Storia.
111
112
Modigliani, Baldassarri, Castiglionesi (2000).
Giraudoux (1937).
Bibliografia
AA.VV., Computers and productivity, in The Journal of Economic Perspectives,
Fall, 1999.
ACOCELLA N., Fondamenti di politica economica, Roma, Nuova Italia Scientifica,
1994.
ACEMOGLU D., ROBINSON J.A., Political losers as a barrier to economic development, in The American Economic Review-Papers and proceedings of the 112th annual meeting of the American Economic Association, May 2000.
AGHION PH., CAROLI C., GARCÌA-PEÑOSA C., Inequality and growth: the perspective of the new growth theories, in Journal of Economic Literature, December 1999.
ATKESON A., KEHOE P., The Transition to a New Economy After the Second Industrial Revolution, Boston, NBER Working Paper no. W8676, 2002a.
ATKESON A., KEHOE P., Measuring Organization Capital, Boston, NBER Working
Paper no. W8722, 2002b.
ALLEN B., The future of microeconomic theory, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 14, n. 1, Winter 2000.
BAGNASCO A., PISELLI F., PIZZORNO A., TRIGILA C., Il capitale sociale, Bologna, Il
Mulino, 2001.
BAILY M.N., LAWRENCE R. Z., Do we have a new e-conomy?, in The American Economic Review-Papers and proceeding of the 113th annual meeting of the American
Economic Association, May 2001.
BECATTINI G., Mercato e forze locali, Bologna, Il Mulino, 1987.
BERGSTEN F.C., Reforming the International Monetary Fund, in U.S. Senate Subcommitee on International Trade and Finance Commitee on Banking, Housing and
Urban Affairs, 27 April 2000.
BESLEY T., PRAT A., Handcuffs for grabbing hands? Media capture and Government
accountability, Londra, Center for Economic Policy Research, Discussion Paper n.
3132, 2001.
BEZZI C., Il disegno della ricerca valutativa, Milano, F. Angeli, 2001.
BLACK S., LYNCH L.M., What’s driving the new economy: the benefits of workplace
innovation, Working paper n. 7479, Cambridge (Mass), National Bureau of Economic Research, 2000.
BOYER R., Etat, marché et développement: une nouvelle synthèse pour le XIXème
siècle”, Document de Travail du Cepremap (Centre d’études d’économie économique appliquée à la planification), Parigi, novembre 1999.
56
BIBLIOGRAFIA
BORDIEU F., The forms of capital, in RICHARDSON J., Handbook of theory and research for the sociology of education Wesport, Greenwood Press, 1986.
BULGARELLI A., GIOVINE M., PENNISI G., Valutare l’investimento formazione, Milano, F. Angeli, 1990.
BUTERA F. ET ALIA, Il campanile e la rete: l’electronic business e le piccole e medie
imprese in Italia”, Milano, Il Sole 24 Ore, 2001.
CARROLL T., Social capital, local capacity building and poverty reduction, Manila,
Social development paper n. 3, Asian Development Bank, 2001.
CASELLI P., PATERNÒ F., Ict accumulation and productivity growth in the United States: an analysis based on industry data, in Temi di discussione, n. 419, Roma, Banca d’Italia, 2001.
CHENNELLS L., VAN REENEN J., The effects of technical change on skills, wages and
employment: a survey of the micro-economic evidence, in MAIRESSE J. E GREEMAN
N., Information and communication technology: productivity, employment and earnings, Cambridge (Mass.), The MIT Press, 2000.
CHEW M S-Y, Rational rituals, Princeton, Princeton University Press, 2001.
COASE R., Problem of Social Cost, in The Journal of Law and Economics n. 3, 1960.
COOKE, P., MORGAN, K., The Associational Economy. Firms, Regions, and Innovation, Oxford, Oxford University Press, 1998.
COLANDER D., New Millennium economics: how did it get this way and what way is
it, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 14, n. 1, Winter 2000.
COLEMAN J., Norms as social capital, in RADNITZK G., BERNHOLZ P. (a cura di), Economic Imperialism: the economic method applied outside the field of economics,
New York, Paragon House Publishers, 1987.
COLEMAN J., Social capital in the creation of human capital, in American Journal
of Sociology, n. 94, 1988.
COLEMAN J., Foundation of social theory, Cambridge (Mass.), Harvard University
Press, 1990.
COMMITTEE TO PROTECT JOURNALISTS, Attacks on the Press in 1995: A Worlwide
Survey by the Committee to Protect Journalist, http://www.cpj.org, 2000.
CRAFTS N., VENABLES N., Globalization in History: a geographical perspective
Cepr Discussion Paper Series, n. 3079, 2001.
DASGUPTA P., SERAGELDIN I., Social capital: a multifaceted perspective, Washington
D.C., World Bank, 2000.
BIBLIOGRAFIA
57
DEAGLIO M. (2001), Le nostre vere paure, in Global, agosto 2001.
DE FILIPPI G., PENNISI G., La flessibilità ai tempi dell’euro, in IdeAzione, luglioagosto 2000.
DE FILIPPI G., PENNISI G., La grande armonia metalmeccanica, in IdeAzione, gennaio-febbraio, 2000a.
DE FILIPPI G., PENNISI G., La new economy sbarca in Europa, in IdeAzione, maggio-giugno, 2000b.
DE FILIPPI G., PENNISI G., Perché la new economy non parla italiano, in IdeAzione,
settembre-ottobre, 2000c.
DELLAROCAS CH., Building Trust On-Line: The Design of Reliable Reputation Reporting: Mechanisms for Online Trading Communities, disponibile su http://papers.ssrn.com/paper.taf?abstract_id=289967, 2001a.
DELLAROCAS CH., Analyzing the Economic Efficiency of eBay-like Online Reputation Reporting Mechanisms, Boston, MIT Sloan Working Paper No. 4181-01,
2001b.
DE SOTO H., Il mistero del capitale: perché il capitalismo ha trionfato in occidente, Milano, Garzanti, 2001.
DENISON E., Sources of economic growth in the United States and the alternatives
before us, New York, Committee for Economic Development, 1962.
DENISON E., Why growth rates differ, Washington D.C., Brookings Institution,
1967.
DE VINCENTI C., Introduzione alla macro-economia, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1997.
DIXIT A., The making of economic policy: a transaction costs politics perspective,
Cambridge (Mass.), The MIT Press, 1996.
DJANKOV S., CARALEE MCLLESIH T., SHEIFLER A., Who owns the media, Washington DC, Background paper to the World Development Report 2002, World Bank,
2001.
DRÈZE J., Sur la macroéconomie de l’incertitude et des marchés incomplets, in Revue de l’Ofce, n. 72, gennaio 2000.
DRUCKER P., Beyond the information revolution, in The Atlantic Monthly, October
1999.
EASTERLY W., LEVINE R., It is not factor accumulation: stylised facts and growth
models, in The World Bank Economic Review, vol. 15, n. 2, 2001.
58
BIBLIOGRAFIA
ELSTER J., Strong feelings: emotion, addiction and human behaviour, Cambridge
(Mass.), MIT Press, 1999.
FANCIULLACCI D., GUELFI C., PENNISI G. (a cura di), Valutare lo sviluppo, Milano,
F. Angeli, 1991.
FOX J., What in the world happened to economics, in Fortune, 15 marzo 1999.
FRANCIS N., RAMEY V., Is the Technology-Driven Real Business Cycle Hypothesis
Dead?, Boston, NBER Working Paper no. W8726, 2002.
FRIEDMAN TH. L., The Lexus and the Olive Tree: understanding globalization, New
York, Farrar, Strauss & Giroux, New York, 1999.
FUKUYAMA F., The end of history?, in The Public Interest, n. 16, Summer 1989.
FUKUYAMA F., The end of history and the last man, New York Avon Books, 1992.
GALGANO F., CASSESE S., TREMONTI G., TREU T., Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazioni, Bologna, Il Mulino, 1993.
GIRAUDOUX J., Electre, Parigi, Bernard Gasset, 1937.
GOMEL G., I mercati restano instabili. Occorre governarli, in Global, agosto 2000.
GORDON ROBERT G., Does the new economy measure up to the great inventions of
the past, National Bureau of Economic Research 2000, disponibile in www.nber.
org/papers/w7833.
GUÉROT U., Wie beeinflusst Wirtschaft die Aussenpolitik?, in Internationale Politik,
ottobre 2000.
GROOTEART C., Social capital: the missing link, Washington D.C., Working paper n.
3, World Bank, 1998.
HOBIJN B., JOVANOVIC B., The information-techology revolution and the stock market: evidence, in The American Economic Review, December 2001.
HODGSON G.M., Economics and utopia: why the learning economy is not the end of
history, London, Routledge, 1999.
INTERNATIONAL MONETARY FUND, World economic outlook: the information technology revolution, Washington D.C., 2001.
JACQUET P., Les principales étapes de la mondialisation financière, in Politique
Etrangère, autunno 1999.
JANOSSY F., Das ende der Wirtschaftswunder, Frankfurt/Main Verlag Neue Kritiik
K.G, 1966.
BIBLIOGRAFIA
59
JORGENSON D.W., Information technology and the US economy, in The American
Economic Review, marzo 2001.
JORGERGENSON D.W., STIROH K.J., Information technology and growth, in The American Economic Review - Papers and proceedings of the 111th of the American Economic Association, May 1999.
JORGENSON D.W., STIROH K.J., Raising the speed limit: U.S. economic growth in the
information age, in Brookings Papers on Economic Activities, Washington D.C.,
The Brookings Institution, Washington D.C., 2000.
KILEY M., Computers and growth with costs pf adjustment: will the future look like
the past?, in Federal Reserve Board FEDS working papers, n. 36, 1999.
LETO M., GALLO M., ABRUZZESE A., SIRIANA F., DE MUCCI R., APOLLONIO U., ALF., Dossier: Mass Media, in Mondoperaio, novembre-dicembre 2001.
BANESE
LIARD-MURIENTE C., Revising Openess: a research agenda, Boston, University of
Massachussetts, 2001.
LUCAS R.E. JR., Some macroeconomics for the 21st century, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 14, n. 1 Winter, 2000.
MACHIN S., VAN REENEN J., Technology changes in skill structure: evidence from seven OECD countries, in Quartely Journal of Economics, vol. 113, n. 4, December
1998.
MEADOWS G.L., MEADOWS, D.L., RANDERS J., BEHRENS W.E, Limits to growth, New
York, Universal Books, 1972.
MINISTERO DEL TESORO, DEL BILANCIO E DELLA PROGRAMMAZIONE ECONOMICA,
Quarto rapporto sullo sviluppo territoriale, Roma, 2001.
MODIGLIANI F., BALDASSARRI M., CASTIGLIONESI F., Il miracolo possibile. Un programma per l’economia italiana, Roma-Bari Laterza, 2000.
MORRIS S., SHIN H.S., The Cnbc: welfare effect of public information, New Haven,
Cowles Foundation for Research in Economics of Yale University, 2001.
MOULTON A., MADNICK S., SIEGEL S., Cross-Organizational Data Quality and Semantic Integrity: Learning and Reasoning about Data Semantics with Context Interchange Mediation, disponibile in http://papers.ssrn.com/paper.taf?abstract_id
=289992, 2001.
MUDAMBI R., NAVARRA P., Political Culture and Foreign Direct Investment: The
Case of Italy, in Economics of Governance, n. 1, 2002.
60
BIBLIOGRAFIA
MYRDAL G., Une économie internationale, Paris, Presses Universitaires de France,
1958.
NORTH D.C., Institutions, institutional change and economic performance, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1990.
NUGENT J., Institutions, markets and development outcomes, in Picciotto and Weisner, 1998.
OECD, A new economy? The changing role of innovation and information technology in growth, Paris, 2000.
OLSEN R., COOKSON C., Weather maps to forecast market storms, in The financial
times, 29-30 dicembre 2001.
OLSON M., The logic of collective action, Cambridge (Mass.), Harvard University
Press, 1965.
OSTROM E., Crafting institutions: social capital and development, Washington
D.C., U.S. Agency for International Development, 1990a.
OSTROM E., Governing the commons: the evolution of institutions for collective action, New York, Cambridge University Press, 1990b.
PAGANETTO L., SCANDIZZO P.L., Post-fordism, new economy and the case of Italian
Mezzogiorno, in corso di pubblicazione negli Atti del Ceis XII, Villa Mondragone,
International Economic Seminar, Roma, 2000.
PALUMBO M. (a cura di), Valutazione 2000: esperienze e riflessioni, Milano, F. Angeli, 2001.
PARTY J.M., Quelles fonctions pour les revues économique aujourd’hui?, in Revue
Economique, vol. 52, n. 5, 2001.
PAUWELS K.H., The Drivers of Online News Readership: A Decomposition Approach, Tuck School of Business Working Paper, Dartmouth College, 2001, disponibile in http://papers.ssrn.com/paper.taf?abstract_id=290330.
PENNISI G., PETERLINI E., Spesa pubblica e bisogno di inefficienza: il Fondo Investimenti e Occupazione 1982-85, Bologna, Il Mulino, 1987.
PENNISI G., Economic planning of vocational training in decentralized setting, Ginevra, ILO, 1991.
PENNISI G., Esclusione ed integrazione sociale nell’età dell’informazione e della
comunicazione - Una riflessione in Sociologia, anno XXIX n. 2/3, 1995.
PENNISI G., L’insostenibile leggerezza del mercato del lavoro, in Rassegna Economica, n. 1, gennaio-marzo 1996.
BIBLIOGRAFIA
61
PICCIOTTO R., Economics and evaluation, Washington D.C., World Bank 2001, (roneo).
PUTMAN R., Making democracy work: civic traditions in modern Italy, Princeton
N.J., Princeton University Press, 1993.
PUTMAN R., Bowling alone: the collapse and revival of American community, New
York , Simon and Schuster, 2000.
QUAH D., Technology Dissemination and Economic Growth: Some Lessons for the
New Economy, Londra, Center for Economic Policy Research Discussion Paper n.
3207, 2002.
QUINET E., WALLISSER B. (1999), A quoi sert la science économique, in Revue d’économie politique, n. 5, settembre-ottobre 1999.
ROBISON L., HANSON HANSON S.D., Social capital and economic cooperation, in
Journal of Agricultural Development and Applied Economics, vol. 21, n. 1, 1995.
ROBINSON L., SCHMID A., SILES M., Is Social Capital Really Capital?, in Review of
Social Economy, n. 1, 2002.
RODRIK D., Institutions for high quality growth: what they are and how to acquire
them, Cambridge (Mass.), National Bureau of Economic Research Working Paper
n. 7540, 2000.
RODRIK D., Development strategies for the 21st century, in PLESKOVIC B., STERN N.,
Annual World Bank conference economics 2000, Washington D.C., World Bank,
2001.
SABBATINI P., B2B and the Transaction Costs Paradigm, in Moneta e Credito, n.
214, giugno 2001.
SABEL C.F., Learning by monitoring: the institutions of economic development in
SMELSER N.J., SWEDBERG (ed.) The Hanbook of Economic Sociology, New York,
Princeton University Press, 1994.
SAINT-PAUL G., Information technology and the knowledge elites, Bonn, IZA Discussion Paper n. 281, 2001.
SALOP J., Has the World Bank lost its way?, in Euromoney, marzo 2000.
SALVATORE D., Economia internazionale, Bari, Carocci Editore, 1999.
SAVONA P., Alla ricerca della sovranità monetaria, Milano, Scheiwiller, 2000.
SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA, Le reti di innovazione e lo sviluppo territoriale:
analisi del progetto Link, Pisa, 2001.
62
BIBLIOGRAFIA
SHAPIRO C., VARIAN H.R., Information rules: a strategic guide to the network economy, Boston, Harvard Business School Press, 1999.
SEN A., Lo sviluppo è libertà, Milano, Mondadori, 2000a.
SEN A., Social exclusion: concept, application and scrutiny, Manila, Social development papers n. 1, Asian Development Bank, (2000b).
SHILLER R., Irrational exuberance, Princeton, Princeton University Press, 2000.
SOLOW R., How did economics ge that way and what way did it get, in Deadalus,
vol. 126, n. 1, Winter, 1997.
SOLOW R., Toward a macroeconomics in the medium run, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 14, n. 1, Winter, 2000.
STIGLITZ J., Evaluation as an incentive instrument, in PICCIOTTO R., WEISNER E.
Evaluation and development: the institutional dimension, London, Transaction Publishers, 1998.
SUMMERS L.H., International financial crises: causes, prevention and cures, in The
American Economic Review - Papers and proceedings of the 112th annual meeting
of the American Economic Association, maggio 2000.
TAMURA R., From decay to growth: a demographic transition to economic growth,
in Journal of Economic Dynamics and Control, n. 20, 1966.
TANZI V., L’évolution du rôle de l’état dans l’économie, in Séminaire du Centre de
Développement de l’Ocde, Parigi, 1999.
VIESTI G., Un mezzogiorno diverso, in Il Mulino, n. 4, 2001.
WEISS C., Evaluation research: methods of assessing program effectiveness, Englewoods Cliffs N.J., Prentice Hall, 1998.
WARIN PH., Les usagers dans l’évaluation des politiques publiques, Paris, L’Harmattan, 1993.
WILLIAMNSON O.E., Le istituzioni economiche del capitalismo, Milano, F. Angeli,
1987.
WILLIAMSON O.E., The new institutional economics: taking stock, looking ahead, in
Journal of Economic Literature, vol. XXXVIII, n. 3, 2000.
WILLIAMSON J. (a cura di), The political economy of reform, Washington D.C., Institute for International Economics, 1994.
WOLF M., Between revolution and reform, in Financial Times, 8 marzo 2000.
BIBLIOGRAFIA
63
WOOLCOCK M., NARAYAN D., Social capital: implications for development theory,
research and policy, in The World Bank Research Observer, vol. 15, n. 2, 2000.
WORLD BANK, World Development Report 2002: Building Institutions for Markets,
Washington D.C., The World Bank, 2001.
ZAFIROVSKY M., Economy sociology in retrospect and prospect: in search of its
identity within economics and sociology, in The American Journal of Economics
and Sociology, numero speciale Economics and Sociology: the new venture, n. 4,
vol. 58, October 1999.
ZARNOVITZ V., The old and the new in U.S. economic expansion of the 1990s, National Bureau of Economic Research, working paper n. 7721, Cambridge (Mass.),
2000.
ZERBIE R.O. JR., MCCURDY H.E., The failure of market failure, in Journal of Policy
Analysis and Management, Fall, 1999.
Scarica