2 Giuseppe De Filippi, Giuseppe Pennisi La new economy e “l’inizio della storia” La new economy o net economy1 è caratterizzata da tre elementi di fondo: a) l’impiego, al tempo stesso inteso e diffuso, di tecnologie dell’informazione e della Premessa comunicazione; b) la prevalenza di struttura di rete all’interno dell’impresa ed al suo esterno; c) l’importanza dello stock di conoscenza e del flusso di informazioni nel determinare i vantaggi comparati. Una delle implicazioni principali è la riduzione delle barriere all’ingresso2, specialmente di quelle che dipendono dal fatto che, per la propria esistenza e sopravvivenza, l’impresa ha l’esigenza di mettere insieme una massa critica di risorse allo scopo di sfruttare le economie di scala generate dal fatto di funzionare come contesto ed intermediario di contratti in vari mercati (dei capitali, del lavoro, ecc.); si tratta di una vasta rete di contratti, sia espliciti sia, soprattutto, impliciti, all’interno dell’impresa, tra tutti i soggetti coinvolti nell’impresa medesima. Questa funzione e questo modo di operare dell’impresa (dimostrata nel “teorema di Coase”3) viene sfidata dalla “new economy” che, richiedendo una massa modesta di risorse finanziarie e grande flessibilità (nonché, di conseguenza, minimizzando i contratti all’interno dell’organizzazione-impresa), spinge verso dimensioni ridotte dell’impresa medesima e l’impiego di servizi esterni tramite outsourcing. Ciò favorisce la diffusione e disseminazione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e delle attività su di esse basate4. 1 1 Il termine “new economy” viene utilizzato intercambiabilmente con la locuzione “net economy”, come è prassi non solo nelle pubblicazioni a carattere divulgativo ma anche in documenti ufficiali sia italiani sia internazionali: ambedue intendono l’insieme delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione che permettono di ridurre drasticamente distanze di spazio e di tempo ed i costi di transazione ad esse pertinenti. 2 Per un caso di studio molto recente e molto interessante, Sabbatini P. (2001). 3 Coase (1960). Nel suo teorema dimostra che “il carattere distintivo dell’impresa è il superamento del meccanismo dei prezzi”. Tale istituzione, alternativa al mercato, sorge ed è essenziale all’economia di mercato in quanto i contratti alla base dell’organizzazione-impresa riducono i costi di transazione. 4 Quah (2002). 32 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI Nella prima parte di questo capitolo, si descrivono l’interazione tra il processo d’integrazione internazionale e la new economy o net economy e le implicazioni che essa comporta sulle politiche pubbliche e, quindi, sulla Pubblica Amministrazione (Pa) come strumento di formulazione e attuazione delle politiche pubbliche. Nella seconda, si introduce il concetto di “capitale sociale”, centrale alla “nuova teoria dello sviluppo” in corso di elaborazione dall’inizio degli Anni Novanta, e si pone l’accento su come la “net economy” possa contribuire alla sua formazione e crescita. Nel successivo capitolo 3, si delineano alcune delle strategie seguite dall’Italia (che vengono meglio approfondite nei capitoli successivi di questo volume) e le si raffrontano con quelle adottate da Francia, Germania e Paesi Iberici; quelle adottate nei Paesi anglosassoni (Stati Uniti e Gran Bretagna) sono o più note (tramite l’attenzione che ricevono sulla stampa d’informazione) o meno “rilevanti” dato il differente assetto istituzionale-amministrativo. 2.1. L’integrazione internazionale 2 Ad ogni decennio, o giù di lì, viene annunciata la fine di qualche cosa. Gli Anni Sessanta sono stati contrassegnati dalla “fine dei miracoli economici”, analizzata nelle sue determinanti ed implicazioni, in un bel libro dell’economista ungherese Ferenc Janossy5, giunto con un lustro di ritardo all’attenzione degli economisti di cultura anglosassone e forse mai a quelli italiani. Sugli Anni Settanta, si staglia “la fine della crescita economica”6 con un’ombra lunga di dibattiti e di polemiche che, tra una crisi petrolifera ed una crisi finanziaria, sono proseguiti sino alla metà degli Anni Ottanta. Dall’inizio degli Anni Novanta, siamo alle prese con “la fine della storia”7, delineata nel 1989 in un breve articolo sul periodico The Public Interest dal politologo nippo-americano Francis Fukuyama in cui, hegelianamente, si faceva coincidere la vittoria della liberal-democrazia sulle altre forme di governo (in particolare, sui tentativi di varie guise di “socialismi reali”) con l’esaurirsi della stessa esperienza della Storia con la “S” maiuscola. A cavallo del XXI secolo, si è aperta la discussione su un’altra “fine”, quella “della politica economica” (e delle sue principali componenti quali la politica monetaria, la politica di bilancio e la politica dei prezzi e dei redditi8, nonché delle poIntegrazione economica internazionale, new economy e politiche pubbliche 5 Janossy (1966). Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972). 7 Fukuyama (1989). 8 Come viene normalmente insegnata (Cfr., ad esempio, Acocella, 1994, e De Vincenti, 1997). 6 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 33 litiche pubbliche ad esse pertinenti) come la abbiamo intesa per almeno un paio di generazioni. La possibilità stessa di poter guidare con la mano pubblica l’economia, ossia l’essenza della politica economica, viene aggredita, e forse messa sotto scacco, da due determinanti – l’integrazione economica internazionale (un termine neutro, e meno connotato da impliciti giudizi di valore, di quello “globalizzazione” oggi più in uso) e la new economy o net economy – che insidiano e mettono a repentaglio le leve su cui Governi e Parlamenti hanno contato, negli ultimi cinquant’anni (se non di più), per pilotare i sistemi economici verso obiettivi di sviluppo e di ridistribuzione della produzione, dei consumi e del reddito. Ciò comporta, inevitabilmente, un ripensamento, se non dell’ubi consistam, del ruolo della Pa come strumento per la formulazione e l’attuazione delle politiche pubbliche. L’importanza dell’argomento è indicata dal fatto che al tema ha dedicato un fascicolo The Journal of Economic Perspectives, la rivista divulgativo-professionale dell’American Economic Association, chiamando a raccolta il fior fiore degli economisti non solo americani, tra cui numerosi Premi Nobel9. Sulla Revue d’economie politique francese, due “maître-à-penser” di rango alla guida di una delle “grandes écoles” d’Oltralpe, vanno ancora più oltre e si chiedono “a cosa serva la scienza economica” e se la politica economica abbia un futuro10; un altro periodico scientifico francese si chiede, addirittura, se “le riviste economiche servono ancora”11; la domanda innesca una replica immediata, in chiave di politica economica centralizzata o, quanto meno, programmatoria, da uno dei “pensatoi” per eccellenza della “gauche plurielle”12; tuttavia, proprio nel mondo d’espressione francofona, il concetto, se non di fine della politica economica, quanto meno dei crescenti vincoli alla sua formulazione ed attuazione ottiene supporto implicito da economisti di peso in scritti pubblicati da due organizzazioni considerate per decenni “culturalmente interventiste” (ossia favorevoli all’intervento pubblico), il Centro per lo Sviluppo dell’Ocse13 e l’Osservatorio francese delle congiunture economiche14. Le citazioni potrebbero continuare15. Il problema, in breve, esiste e non può essere eluso. Esaminiamone le componenti essenziali. 9 The Journal of Economic Perspectives n. 14, n. 1 Winter 2000. Tra gli autori (in ordine di pubblicazione degli articoli), A.B. Krueger. J. Bradford De Lomg, T. Taylor, R. Easterlin, J. Kornai, W.E. Kovacic, C. Shapiro, J.J. Wallis, J. Persky, W.E. Becker, D. Colander, R.H. Thaler, B. Allen, R. Solow, R. Lucas jr., P. Krugman, D. Rodrik, D.T. Ellwood, P. Portney, B. Anderson. 10 Quinet e Wallisser (1999). 11 Party (2001). 12 Boyer (1999). 13 Tanzi (1999). 14 Drèze (2000). 15 Interessanti, nelle loro diversità, l’ampio saggio teorico di Zafirovsky (1999) e l’affondo divulgativo e provocatorio di Fox (1999), nonché il saggio di Drucker (1999). 34 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI L’integrazione economica internazionale ha ramificazioni molto ampie e molto profonde sulla capacità stessa dei Governi di fare politica economica al livello tanto della formulazione quanto dell’attuazione delle politiche pubbliche, e quindi sulla capacità della Pa di fornire il loro apporto nelle forme, procedure e prassi a cui si è abituata. In molti casi, ad esempio quello delle unioni monetarie, l’integrazione contiene vincoli espliciti sia alla sovranità monetaria sia alle politiche di bilancio16, nonché alla politiche dei prezzi e dei redditi (i tre principali strumenti, come si è visto, a disposizione della politica economica). Anche, però, in mancanza di vincoli espliciti contrattualizzati in accordi tra Stati, l’integrazione comporta quella che, con un’espressione felice, Thomas Friedman chiama: “una camicia di forza tutta d’oro”17. Se si vuole fruire, dei benefici dell’integrazione economica internazionale, di pari passo “con il crescere dell’economia, si restringe la sfera della politica”. “La “camicia di forza tutta d’oro” limita le scelte politiche ed economiche di chi è al potere entro parametri molto precisi, tanto che diventa anche difficile vedere le differenze tra i programmi dei partiti di governo e quelli dei partiti d’opposizione”. Con il suo accento sulla necessità di formulare ed attuare politiche economiche non solo “virtuose”, ma “competitivamente virtuose”, proprio poiché l’integrazione economica internazionale pone in concorrenza quelle di ciascun Paese rispetto a quelle di tutti gli altri, la “camicia di forza tutta d’oro” è un’immagine appropriata. Sia se condizionati da vincoli espliciti contrattualizzati sia se solo sotto lo stimolo della concorrenza tra politiche economiche in gara per “virtuosismo” (quale percepito dai mercati), i Governi (e le opposizioni) possono scegliere se indossare o meno la “camicia di forza tutta d’oro” imposta dall’integrazione economica internazionale. Una volta indossatola, possono financo decidere di togliersi i lacci che essa implica. La sanzione, però, è forte, immediata e (a ragione delle imperfezioni di mercato, in particolare del mercato delle informazioni, e dei suoi effetti sui movimenti di capitale, soprattutto a breve) sovente molto più dura di quanto ci si potrebbe attendere. Lo hanno mostrato a tutto tondo, tra l’altro, le “crisi finanziarie” degli Anni Novanta; da quella che, all’inizio del decennio, ha colto quasi di sorpresa gli accordi europei dei cambi, colpendo in modo particolarmente pesante la lira e, quindi, la politica economica dell’Italia, a quelle che, nella seconda metà, hanno punito alcuni Paesi asiatici e la Russia e minacciato il Brasile18. 16 La bibliografia su argomenti come questo è molto ampia. Utile il recente saggio di Savona (2000) in quanto traccia, in un linguaggio non tecnico, il viaggio dell’Italia nel perseguimento di una sovranità monetaria mai pienamente ottenuta. 17 Friedman (1999) e De Filippi e Pennisi (1999). 18 Per una sintesi non tecnica, Jacquet (1999). Molto interessante la Richard Ely Lecture presentata, nella veste di Economista non di Segretario al Tesoro Usa, carica che allora aveva, da Lawrence H. Summers, Summers (2000). LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 35 I vincoli imposti dalla “camicia di forza tutta d’oro” hanno aspetti ancora più pregnanti, pur se meno appariscenti, di quelli dei più noti vincoli alla sovranità monetaria. Non solo comportano, come già sottolineato anni orsono, lo sviluppo di una lex mercatoria internazionale che si sovrappone alle normative nazionali (in aree come il fisco, il lavoro e l’economia)19 ma tolgono a Governi ed a Parlamenti quelli che sono i loro strumenti essenziali per “fare” politica economica: dare indirizzo (compito dei primi) e legiferare (funzione dei secondi). Le normative interne (non esclusivamente il diritto, pubblico e privato, dell’economia) devono essere plasmate sulle prassi internazionali, e su quelle dei Paesi più competitivi, non soltanto ad esse adeguate in seguito a decisioni multilaterali o sovranazionali. È con queste “istituzioni”, nel significato di prassi e regole implicite rispettate da tutte le parti in causa20, che gareggiano, l’una contro l’altra, politiche economiche nazionali a cui restano alvei sempre più angusti. Le organizzazioni finanziarie internazionali, create mezzo secolo orsono per governare la ricostruzione e lo sviluppo dell’economia mondiale, devono anch’esse fare i conti con un’integrazione economica che limita i loro compiti21. In particolare, nella prevenzione ex-ante di crisi finanziarie, acquistano un ruolo crescente organismi specializzati, su base privatistica, quali il Comitato di Basilea per la Vigilanza bancaria, l’Organizzazione Internazionale delle Commissioni dei Valori Mobiliari, l’Organizzazione Internazionale per la della Vigilanza delle Assicurazioni, il Comitato Internazionale per le Regole Contabili e così via. Sono gli standard adottati da questi organismi (che hanno la loro legittimità in intese privatistiche, validate dunque dal mercato e dalle sue libertà, non in accordi inter-governativi ed ancor meno in norme giuridiche formali22) a fornire il corpo di base della “lex mercatoria” internazionale, e, plasmando quelle nazionali, a dare vita alle “istituzioni” della “condizionalità ex-ante”23 ed a vincoli ex-ante alle politiche economiche; tali vincoli non riguardano solo indicatori e parametri macroeconomici, monetari, di bilancio e di politica dei prezzi e dei redditi (quali, per intenderci, quelli del Trattato di Maastricht e del “patto di crescita e di stabilità”) ma entrano nel vivo della corporate governance e delle regole di contabilità e di revisione societaria, della vigilanza bancaria, del funzionamento dei mercati azionari ed obbligazionari. Tali vincoli non possono non incidere, quindi, anche su quegli aspetti delle politiche economiche di cui gli Stati e le legislazioni nazionali sono sempre stati i più gelosi, 19 Ad esempio, Galgano, Cassese, Tremonti e Treu (1993). Come precisato nella scuola neo-istituzionalista guidata da D.C. North, North (1990). 21 Un’esemplificazione eloquente è il dibattito sulla riforma del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale; per una sintesi Wolf (2000); per un’analisi più ampia, Bergsten (2000) e Salop (2000). 22 Guérot (2000). 23 Gomel (2000). 20 36 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI quali le politiche industriali e commerciali, le politiche sociali, le politiche dell’assetto del territorio, le politiche dell’occupazione e del lavoro, le politiche della immigrazione, le politiche della cultura e delle risorse umane. Naturalmente, sono molto differenziati i percorsi di ciascun Paese e di ciascun gruppo di Paesi verso la definizione di “istituzioni” di alta qualità per promuovere la crescita in un contesto competitivo. Non esiste più, però, quel “Washington consensus” sulla strada da seguire che solo sei anni fa veniva codificato al termine di un dettagliato lavoro di analisi dell’Institute for International Economics24. Tuttavia, anche coloro che sviscerano (ed auspicano) la più ampia differenziazione dei sentieri per la definizione delle “istituzioni” per la crescita (al fine dir tenere conto dello “stock locale di conoscenza ed esperienza”), ammettono che, alla lunga, non si può avere un settore o comparto dell’economia e della società immerso nel processo di integrazione economica internazionale (per catturarne i vantaggi) ed un altro da essa escluso (per tutelare gruppi, categorie ed interessi specifici)25. In quello “integrato” non si può “fare” politica economica, come la si intendeva solo tre lustri orsono quando il grado di apertura al mercato internazionale dei singoli Paesi e gruppi di Paesi era limitato e quello d’integrazione internazionale ancora più ristretto26. Quello non integrato diventa preda di chi è “politicamente destinato a perdere”, che può erigere paratie e scavare trincee, frenando il progresso, ma alla lunga è costretto a cedere il campo27. 2.2. La new economy: produttività, ciclo, disuguaglianze In questo contesto si inserisce la new economy: la “rete-delle-reti” è immateriale, è “tutto e solo” tecnica, non inquina, è, soprattutto, un collegamento impalpabile tra agenti economici (sia individui sia imprese) atomistici28. Gran parte del dibattito ha posto l’accento sui nessi tra net economy e produttività, e sulla sfida che tali interconnessioni comportano alla politiche economiche che si propongono di governarli oppure sulle “nuove discriminazioni” innescate dalla net economy29. Vediamone alcuni punti essenziali prima di rivolgersi alle implicazioni della “legge- 24 Williamson (1994), Liard-Muriente (2001), Crafts and Venable (2001). Rodrik (2000). 26 Interessante rileggere con l’esperienza di oggi il volume scritto da Myrdal al termine della sua esperienza alla guida della Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, Myrdal (1958) e raffrontarlo con un testo recente con obiettivi analoghi quale Salvatore (1999). 27 Molto stimolante la modellizzazione recentissima offerta in Acemoglu e Robinson (2000). 28 De Filippi e Pennisi (2000b) e (2000c) e Pennisi (1995). 29 Jorgenson e Stiroh (2000), Kiley (1999), Zarnovitz , Oecd (2000), International Monetary Fund (2001). 25 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 37 rezza” della net economy sulla capacità stessa di formulare ed attuare politica economica e, quindi, di “servire” chi ha la responsabilità di formulare ed attuare politiche pubbliche. Gli aspetti salienti sono i seguenti: – la relazione tra new economy e aumenti della produttività. Il caso più studiato è, senza dubbio, quello dell’economia degli Stati Uniti d’America30. Dal 1990 la crescita di lungo periodo, escludendo, quindi, fluttuazioni cicliche, dell’economia americana (2,4% l’anno) è stata di mezzo punto percentuale inferiore a quella registrata nel 1973-1990 (2,9%), a sua volta molto più lenta di quella contabilizzata nel 1948-1973 (4%). Senza la new economy, però, il tasso sarebbe stato ancora più contenuto: non avrebbe sfiorato il 2% l’anno perché almeno un sesto della crescita Usa post 1990 deve imputarsi ad investimenti in computer, ad acquisti di computer da parte delle famiglie ed ai pertinenti flussi di servizi che hanno inciso principalmente sulla produttività multifattoriale del settore manifatturiero31. Un saggio recente di Dale W. Jorgerson, redatto dopo la fine dell’“esuberanza irrazionale” che ha innescato la bolla speculativa borsistica, conferma sostanzialmente queste ipotesi, pur sottolineando l’esigenza di ricerche ulteriori in materia, in particolare, degli effetti delle nuove tecnologie sui mercati del capitale (il nesso tra valutazioni azionarie e prospettive di crescita) e sui mercati dei capitali (la tecnologia dell’informazione e della comunicazione e gli effetti di sostituzione tra varie categorie di lavoro)32. Un lavoro di Paola Caselli e Francesco Paternò del servizio studi della Banca d’Italia riafferma, sempre sulla base di dati Usa, il contributo della new economy all’accelerazione della produttività del lavoro nella seconda metà degli Anni Novanta sia nell’industria manifatturiera sia nei servizi; evidenza econometrica di tale contributo si ha sia utilizzando la contabilità della crescita sia una funzione di produzione del valore aggiunto33. – la relazione tra new economy e ciclo economico. Dato che la tecnologia dell’informazione e della comunicazione è una general purpose technology (Gpt, ossia tecnologia a uso plurimo), la sua introduzione comporta una fase di rallentamento durante il periodo di sperimentazione, quando risorse fisiche ed umane vengono distolte da altri impieghi, più “sicuri”, ed incanalate in operazioni ad alto rischio e di cui molte hanno una bassa probabilità di successo34; quindi non smussa i cicli economici ma in certi casi può anche accentuarli35; 30 Per un’analisi utile e recente Gordon (2000) e per un confronto dei vari punti di vista in campo AA.VV. (2000). Jorgergenson e Kevin J. Stiroh (1999) e Black e Lynch (2000). 32 Jorgenson (2001). 33 Caselli e Paternò (2001). 34 Oltre all’ampia rassegna della letteratura di Aghion, Caroli e Garcìa-Peñosa (1999), le analisi empiriche in Chennells e Van Reenen (2000), nonché il lavoro di Baily e Lawrence (2001). 35 Francis e Ramey, (2002). 31 38 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI – la relazione tra new economy e diseguaglianza. Nonostante l’ipotesi di qualche anno fa secondo cui la tecnologia dell’informazione e della comunicazione avrebbe creato nuove esclusioni36, l’aumento del gap tra fasce di reddito appare contenuto anche nei Paesi in cui viene comunemente giudicato “spettacolare”37, appare, tutto sommato, moderato rispetto alle aspettative ed alle impressioni iniziali: negli Stati Uniti e nel Regno Unito il rapporto tra i redditi da lavoro medi di coloro nel decimo percentile più alto della scale e di quelli nel gradino più basso è passato, rispettivamente, da 4,76 a 5,63 e da 2,53 e 3,2138. In breve, dunque, la new economy non comporta effetti miracolistici né sulla produttività né sul ciclo economico ma non ha neanche implicazioni distorsive negative sulla distribuzione dei redditi. Implica, però, un forte cambiamento nelle relazioni tra soggetti ed organizzazioni economiche39. Come si è detto, la net economy è basata su tecnologia dell’informazione e della comunicazione, su rapporti di rete all’interno ed all’esterno del processo di produzione e distribuzione e sull’importanza dei flussi d’informazione e dello stock di conoscenza come determinante principale per ottenere vantaggi competitivi a livello dell’individuo, dell’impresa, dei Paesi e dei gruppi di Paesi. I suoi aspetti principali in termini di “come” formulare ed attuare politica economica sono i seguenti: a) l’esaurimento di alcune importanti economie di scala caratteristiche dei processi di produzioni manifatturieri; b) la drastica riduzione dei costi di transazione (sino quasi a “mettere a repentaglio l’esistenza stessa del concetto di impresa quale insieme di contratti standardizzati nella tradizione del teorema di Coase”40); c) l’abbattimento di distanza e di spazio e la spinta, perciò, alla delocalizzazione ed al decentramento delle attività economiche. L’esaurimento delle economie di scala dei processi di produzione manifatturiera, nonché la sfida lanciata al concetto stesso di impresa, incidono direttamente sull’economia del lavoro e delle relazioni industriali41: mettono in crisi, quindi, l’idea stessa di fabbrica e di unità produttiva quale elaborata a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XIX secolo ed attuata nei sistemi tayloristi-fordisti di produzione e di relazioni industriali, con tutte le ramificazioni 36 Pennisi (1995), Saint-Paul (2001). Aghion, Caroli, Garcìa-Peñosa (1999). 38 Machin e John van Reenen (1998). 39 Atkenson e Kehoe (2002a) e (2002b). 40 Paganetto e Scandizzo (2000). Altri casi italiani interessanti in Butera (2001). Molto utile Shapiro Varian (1999) in cui si sottolinea molto efficacemente la differenza nelle economie di scala nell’industria manifatturiera e nella net economy; nella seconda ciò che conta sono le economie di scala dal lato della domanda (più che dell’offerta), in particolare quelle che si riescono a sprigionare tra i consumatori. Si creano mercati in cui “chi vince prende tutto” in quanto i costi di riproduzione sono minimi e non ci sono limiti alle economie di scala quali quelli inerenti alle difficoltà di gestire imprese oltre un certo livello dimensionale. 41 Pennisi (1996). 37 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 39 che ne sono discese in termini di differenziazione, e contrapposizione, tra datori di lavoro e lavoratori, di sviluppo del sindacato e delle organizzazioni imprenditoriali e di un diritto del lavoro plasmato a tutela della parte ritenuta più debole. Mettono, dunque, in crisi le varie forme di politica dei prezzi e dei redditi “concertata” ad essa connaturali al fine di “fare” politica economica42. Recidono, quindi, proprio quello strumento di politica economica che, pur con molteplici adeguamenti, pareva in grado di adattarsi all’integrazione economica internazionale meglio della politica monetaria e della politica di bilancio. Se, nella leggerezza della rete, l’unità produttiva diventa atomistica, la differenziazione tra datore di lavoro/imprenditore e lavoratore si appanna sempre più e si dissolvono, poco a poco i concetti stessi di impresa, di datore di lavoro, di lavoratore, spariscono, di conseguenza, progressivamente le “parti sociali” ed una politica dei prezzi e dei redditi tra loro e con loro “concertata”. Ancora più pregnanti, anche se meno visibili, le ramificazioni in termini di costi di transazione. Cade l’argomento centrale in materia di formulazione ed attuazione della politica economica: agire, tramite “politiche pubbliche”, sui costi di transazione nell’interazione tra agenti economici (individui, imprese, organizzazioni)43. Cade anche un altro aspetto centrale, in particolare, alle discussioni degli Anni Novanta: l’aumento dei costi di transazione “politici”, derivanti dell’esistenza stessa della politica economica. Evapora, almeno per i settori della net economy, la ratio di una politica economica che, da un lato, mira, in ultima istanza, all’abbattimento di costi economici di transazione ma nel farlo crea costi politici di transazione44. La “morte della distanza” – sottolinea Mario Deaglio in un saggio recente45 – ha, però, alcune implicazioni importanti: il diverso rapporto tra produttori e consumatori, i problemi dei diritti di proprietà, le regole di accesso. A favore del produttorevenditore (specialmente se di grandi dimensioni ed in grado di avere informazioni dettagliate sui suoi clienti potenziali e sul mutamento dei loro gusti e della loro domanda) gioca una forte asimmetria informativa, che negli Anni Novanta è stata alla base di forti aumenti degli utili (la “creazione di valore per gli azionisti”). Le norme sui brevetti e sui diritti di proprietà intellettuale elaborate cent’anni fa perdono significato. Il diritto all’accesso diventa più importante del diritto di proprietà e comporta in molti casi distorsioni46. La Pa può avere un ruolo significativo nel correggere alcune disfunzioni connesse con queste implicazioni. 42 De Filippi e Pennisi (2000a). Dixit (1996). 44 Zerbie e McCurdy (1999). 45 Deaglio (2001). 46 Si pensi agli eccessi del trading-on-line da parte di soggetti privi di conoscenze elementari di funzionamento dei mercati finanziari. 43 40 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI 2.3. Pubblica Amministrazione tra integrazione internazionale e new economy L’assedio, quindi, è parallelo e simultaneo. L’integrazione economica internazionale pone vincoli di mercato, tanto più cogenti quanto più impliciti e più informali, alla politica monetaria e di bilancio (ossia ai principali strumenti dello Stato per formulare ed attuare politica economica, ed alla Pa nei suoi compiti di supporto tecnico alle autorità politiche) in generale, e vincoli ancora più stringenti alle politiche economiche (si pensi alle “politiche industriali”) nei settori oggetto, direttamente od indirettamente, di apertura al reso del mondo ed integrazione internazionale. Parallelamente e simultaneamente, la net economy spunta le armi al terzo strumento tradizionale della politica economica (la politica dei prezzi e dei redditi tramite varie forme di “concertazione”) e spegne lentamente l’obiettivo stesso della politica economica: l’abbattimento dei costi di transazione economica ed il contenimento dei costi di transazione politica. La net economy, forse, non è “la fine della storia”47; ciononostante, che cosa resta alla nostra prassi di “fare” politica economica? Riprendiamo in mano il “simposio” dell’American Economic Association citato all’inizio di questo capitolo48, soffermandoci in particolari sui saggi di David Colander49, Beth Allen50, Robert Solow51 e Robert E. Lucas jr.52. Ai nostri fini, l’ultimo tra quelli elencati, ossia il lavoro di Robert E. Lucas jr., è il più eloquente: prende l’avvio da un modello di crescita innescata e sostenuta dal diffondersi dello stock di conoscenza53 per spiegare l’evoluzione economica (e la convergenza dei redditi pro capite dei maggiori Paesi industriali, prima, e di quelli di nuova industrializzazione, poi) degli ultimi 200 anni, nonché per tracciare ipotesi quantitative degli sviluppi possibili per i prossimi 100 (una maggiore “convergenza” tra Paesi ed aree, ma non necessariamente all’interno di Paesi e di aree). Lucas ammette i limiti dello strumento (principalmente la sua incapacità di spiegare perché la “rivoluzione” economica cominciò proprio in Gran Bretagna nonché alla fine del XVIII secolo, nonché altrove od in un’altra epoca) ma sottolinea che, pur nel suo meccanicismo, “si tratta di un modello economico che solo un teorico dell’e- 47 Hodgson (1999). Si tratta, in effetti, di tre simposi distinti: Looking backward at economics and the economy, Forecasts for the future of economics, Forecasts for the future of the economy. 49 Colander (2000). 50 Allen (2000). 51 Solow (2000). 52 Lucas jr. (2000). 53 Tamura (1966). 48 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 41 conomia può avere scritto”. Quello che ai nostri fini rileva è che il modello, rilanciato ed approfondito di Lucas, non contiene alcuna indicazione di politica economica. Non c’è politica economica (almeno quale è stata intesa negli ultimi cinquant’anni) neanche nella visione di Solow su come coniugare la strumentazione keynesiana e quella neo-classica in quella “macro-economia a medio termine” che dovrebbe plasmare il XXI secolo; lo stesso Solow, anzi in uno scritto di poco precedente e di cui non fa menzione nel lavoro per il simposio54, aveva ricordato come gli economisti si siano trasformati dai “gentiluomini studiosi” quali erano negli Anni Quaranta a “personaggi iperistruiti alla ricerca di ciò che non funziona” alla fine del XX secolo. Sullo stesso crinale è Beth Allen che prospetta per la micro-economia un futuro sempre più collegato alla tecnologia, in particolare “con la biologia e con l’ingegneria”, e sempre meno con le discipline (“scienze politiche, giurisprudenza, contabilità, finanza”) sue alleate e suoi cugini nell’ultimo secolo. Chiedendosi come verrà insegnata la disciplina tra 100 anni, infine, David Colander prospetta una sempre maggiore specializzazione, dopo un tronco comune di base, per formare non più economisti (quelli che maneggiano le “grandi” leve della “grande” politica economica) ma “tecnici specializzati” in finanza pubblica, tecniche di previsione, economia sanitaria, relazioni industriali e quant’altro. All’inizio di questo capitolo, si è ricordato l’interrogativo di Fukuyama sulla “fine della storia” che una dozzina di anni fa diede una scossa ai politologi ed agli studiosi di relazioni internazionali. Allora, Fukuyama si chiedeva che se caduto “il muro di Berlino” non fosse terminata la Storia, intesa come non la dialettica tra liberal-democrazia e le altre forme di assetto politico e di governo; ricordava anche i nessi inscindibili tra liberal-democrazia e libertà di mercato. Pochi rammentano che, qualche anno più tardi, Fukuyama riprese in mano il breve articolo e partì dall’ipotesi là delineata per scrivere un intero libro, togliendo, però, dal titolo il punto interrogativo e chiamando in causa, con la “fine della Storia” (ormai data per ineludibilmente assodata) anche l’“ultimo uomo”55 . In questi ultimi mesi, ha notevole successo editoriale un saggio del Premio Nobel Amartya Sen, il quale da padre dell’economia del benessere e delle stesse procedure dell’analisi costi benefici è via via diventato “political economist”, prima, e filosofo morale, poi. Il saggio prende le distanze dai tanti che sanno “sempre di più attorno a sempre meno” per lanciare un’“idea rivoluzionaria”: quella che sviluppo è libertà56. Dunque, a dieci anni di distanza da Fukuyama, Sen, da un lato, si ricol- 54 Solow (1997). Fukuyama (1992). 56 Sen (2000a). 55 42 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI lega alla “fine della Storia” derivante dall’esaurimento degli avversari della liberaldemocrazia e del mercato e, da un altro, riafferma come alla base dello sviluppo sono le libertà sostanziali prima e più della politica economica. L’“ultimo economista”, se esiste ancora, diventa filosofo morale, e politico, per l’affermazione delle libertà; altrimenti, è costretto ad imboccare la strada del “politically loser” che pone, futilmente, “barriere” al progresso57. Dunque, se l’integrazione economica internazionale, da un canto, e la net economy, dall’altro, fanno sì che in futuro non ci sarà più politica economica (almeno come la abbiamo intesa noi), gli economisti ed i public servant (anche e soprattutto nella loro funzione di consiglieri di organi a carattere politico per la formulazione ed attuazione di politiche economiche) sono ormai una specie in via di estinzione. In un mondo più libero, il posto dell’“ultimo economista” verrà preso, da un lato, dal filosofo-politico e, dall’altro, dal tecnico specializzato. 3.1. Il concetto economico di “capitale sociale” 3 C’è un sentiero nuovo che si apre, o quanto meno si socchiude all’economista ed al public servant: il contributo che la net economy può dare al “capitale sociale”, un concetto non del tutto recente, anzi elaborato già negli Anni Settanta, ma posto nell’ultimo decennio al centro delle analisi sullo sviluppo economico e, perciò, sulle politiche economiche per favorirlo. In questo paragrafo, esploreremo il concetto economico di “capitale sociale”, il ruolo dell’informazione e della net economy nel promuoverlo ed in particolare quello dell’informazione-valutazione, funzione essenziale della Pa. Negli Anni Novanta, il termine “capitale sociale”, nel senso di norme, regole e reti che facilitano l’azione di gruppo, ha destato notevole attenzione in tutte le scienze sociali e relative discipline. Se ne sono inizialmente interessati i sociologi58 e gli scienziati della politica59, ma il concetto ed il termine hanno anche guadagnato notevole terreno tra gli economisti, specialmente in seno alla scuola neo-istituzionalista60. Nelle analisi dei processi di sviluppo tanto dei Paesi ad alto reddito pro New economy e “capitale sociale” 57 Nel significato dato da Acemoglu e Robison (2000). Ad esempio, Coleman (1987, 1988, 1990). Si veda il recente contributo italiano in Bagnasco, Piselli, Pizzorno e Trigila (2001). 59 Ad esempio, Putman (1993 e 2000). 60 Per una rassegna Williamson (2000). Interessante il recente contributo di De Soto (2001). 58 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 43 capite quanto di quelli emergenti, nonché, e forse ancor di più, di quelli, principalmente dell’Africa a sud del Sahara e dell’Asia centrale, che non riescono a decollare, il “capitale sociale” ha assunto un ruolo avuto negli Annni Sessanta e Sessanta dal “capitale umano” come componente essenziale del “fattore residuo”. Spieghiamo il significato di questi termini a chi non è avvezzo alla semantica della letteratura sullo sviluppo economico e di quella più recente sulla teoria economica delle informazioni, della comunicazione, delle emozioni e, quindi, delle istituzioni. Già all’inizio degli Anni Sessanta, un lavoro di Edward Denison, considerato pionieristico per le tecniche statistiche allora impiegate ai fini della contabilità della crescita, concludeva che i fattori di produzione intesi in senso stretto – il capitale ed il lavoro – non erano sufficienti a spiegare le “fonti” della crescita economica né perché i tassi di crescita differiscono61. Denison formulò il termine “fattore residuo” per individuare tutto ciò che non poteva essere classificato né come “capitale” né come “lavoro” in base ai metodi ed alle tecniche di elaborazione della contabilità economica nazionale allora in uso. Per opera di una vasta scuola di economisti62, tale “fattore residuo” venne, in gran misura, fatto coincidere con il “capitale umano”, ossia con i differenziali di produttività derivanti da investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché con le esternalità tecnologiche pure esse connesse agli investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo. Da qui l’accento posto per decenni su investimenti in istruzione, formazione, ricerca e sviluppo, nonché su appropriate politiche in questi settori, visti sotto il profilo economico, non soltanto o prevalentemente, socio-culturale63. A quarant’anni circa delle analisi di Denison, e sulla base di un apparato statistico ed econometrico molto più ricco di quello di cui si disponeva nel 1962, nuove ricerche sulle fonti dello sviluppo giungono a conclusioni analoghe di quelle di allora. Eloquente a riguardo, la recente rassegna di Easterly e Levine64 con la quale, sulla base di dati di 21 Paesi dal 1940 al 1990, si documentano questi stilemi: a) il “residuo”, ossia la produttività totale dei fattori, conta molto di più dell’accumulazione dei fattori di produzione nello spiegare differenze di reddito e di crescita tra Paesi; b) nel lungo periodo, tra Paesi e gruppi di Paesi i redditi pro capite divergono (invece di convergere); c) mentre l’accumulazione dei fattori è persistente, la crescita non lo è, in quanto caratterizzata da pause e da interruzioni (a volte anche prolungate e pure profonde); d) l’attività economica tende a concentrarsi nelle aree 61 Denison (1962) e Denison (1967). Ad esempio, il Premio Nobel Gary Becker . 63 Ad esempio, Bulgarelli, Giovine e Pennisi (1990) e Pennisi (1991). 64 Easterly e Levine (2001). 62 44 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI più ricche ed a maggior reddito; e) le politiche economiche nazionali sono strettamente associate con i tassi di crescita economica di lungo periodo. “Le analisi empiriche – concludono Easterly e Levine – non vengono a supporto di modelli tradizionali basati su accumulazione di capitale, rendimenti decrescenti, rendimenti costanti di scala, e fattori di produzione fissi. Tuttavia, il lavoro empirico non distingue ancora tra le differenti definizioni e concezioni di produttività totale dei fattori; gli economisti devono dedicare maggior tempo e maggiore attenzione a modellizzare e quantizzare la produttività totale dei fattori”. Il dibattito sul “capitale sociale” si inserisce in questo filone di ricerca su cosa c’è alla base della produttività totale dei fattori. Eloquentemente, in uno dei suoi lavori più recenti Dani Rodrik65 lo pone alla base del “nuovo pensiero sullo sviluppo” e il World Development Report 2001-2002 della Banca Mondiale66 è interamente dedicato al ruolo dell’informazione e della comunicazione nella formazione e crescita del “capitale sociale”. Fioriscono pure le analisi teoriche ed empiriche su informazioni, comunicazione, emozioni, comportamento economico e “capitale sociale”67. Come si è detto, il lavoro definitorio e concettuale su “capitale sociale” è stato condotto, in gran misura da sociologi e da scienziati della politica a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta; solo nell’ultimo lustro il tema ha interessato gli economisti. Veniamo ad una definizione economica, ove non economicistica, di “capitale sociale”. Da alcuni testi recenti68, si può ricavare questa: “il capitale sociale è la dimensione istituzionale delle transazioni, dei mercati e dei contratti tramite la quale si stabiliscono relazioni stabili, nonché basate sulla fiducia reciproca, e si condividono informazioni tra soggetti economici (individui, imprese, Pubblica Amministrazione) tali da potenziare l’efficacia e l’efficienza del modo di conseguire interessi collettivi ed individuali. È di particolare rilievo nell’analisi delle imperfezioni di mercato in cui sono in ballo beni pubblici o beni sociali/meritori. La “fiducia”, elemento di rilievo nel capitale sociale, viene interpretata, pure sotto il profilo formale in quanto aspettativa relative alle azioni degli altri tale da determinare la scelta del corso di azione del soggetto in esame”. Alcuni economisti69 considerano il “capitale sociale” come l’“anello mancate” per interpretare i processi di sviluppo, per prevederne i risultati probabili e per tracciarne il percorso, od influenzare quello “predeterminato” da esperienze storiche e 65 Rodrik (2001). World Bank (2001). 67 Elster (1999). 68 Robison and Hanson (1995), Caroll (2001) , Robinson, Schmidt e Siles (2002). 69 Ad esempio, Grooteart (1998). 66 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 45 valori culturali70. Anche se per la sua natura di concetto appartenente alla scuola economica “neo-istituzionale”, la definizione stessa di “capitale sociale” non può non avere connotati storico-sociologici ed anche psicologici, la stessa letteratura economica distingue varie tipologie e dimensioni del “capitale sociale”. Il solo elemento unificante è che a differenza del capitale fisico o finanziario (ed in parte dello stesso capitale umano), il “capitale sociale” non diminuisce e non si erode con l’uso, ma al contrario aumenta e si arricchisce: a differenza del capitale fisico, finanziario ed anche umano, il “capitale sociale” è relazionale e, quindi, cresce con l’interazione ripetuta di individui ed imprese nell’ambito di un gruppo o di un distretto o di una rete71. In una delle analisi economiche del concetto di “capitale sociale”72, prima ancora che la net economy ponesse la rete telematica tra gli elementi centrali degli studi in questo campo, si sottolinea come il volume di “capitale sociale” posseduto da una persona data dipende dalla dimensione del newtwork che è in grado di mobilizzare. Un’altra analisi, tra le pionestiche, di questa tematica73 pone enfasi sul ruolo dell’informazione e della comunicazione per far sì che il “capitale sociale” venga costruito come risorsa personale dell’individuo. Un filone più recente74 vede il ”capitale sociale” come proprietà di comunità e di gruppi (sia formali sia informali) e pone l’accento sulle crafting institutions (le istituzioni “artigiane”, spesso esterne alla comunità ed al gruppo, che con incentivi creano e potenziano il “capitale sociale”); ancora una volta l’informazione e la comunicazione sono centrali alla costruzione ed all’arricchimento del network, aspetto fondante del “capitale sociale”. In alcune versioni di questa scuola, il maggiore beneficiario del “capitale sociale” è la società in senso lato; pur beneficiando una comunità od una società specifica, il “capitale sociale” irradia l’intera società e modifica, in melius, l’interazione economica interpersonale riducendo costi di transazione, selezione avversa e azzardo morale; in queste versioni l’informazione e la comunicazione hanno un ruolo ancor più centrale, non solo nelle accezioni della letteratura sociologica e politologica75 ma anche in quelle rigorosamente economiche quali l’interpretazione proposta in un recente saggio di Amartya Sen in cui si pone l’accento sul linguaggio e sulla comunicazione come elementi fondanti del “capitale sociale”76. 70 Nel senso di North (1990). Daspgupta and Serageldin (2000), Woolcock e Narayan (2000). 72 Bordieu (1986). 73 Coleman (1990). 74 Ostrom (1990a, 1990b). 75 Putman (1993). 76 Sen (2000b). 71 46 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI Un aspetto significativo, e tale da distinguere nettamente il “capitale sociale” derivante dalla net economy dalle forme di “capitale sociale” maggiormente studiate – quelle dei “distretti industriali”77 – è che non richiede una base territoriale78; la net economy, anzi, contribuisce al “capitale sociale” proprio abbattendo distanze di spazio e di tempo e può, quindi, attivare e sostenere comunità “virtuali” in luoghi e continenti molto lontani gli uni dagli altri. Infine, un’interessante analisi recente di Bart Hobijn e Boyan Jovanovic79 spiega le relazioni tra news, net economy, capitale “nuovo e buono” e capitale “vecchio e cattivo”. L’analisi non sfiora il concetto di “capitale sociale” e guarda principalmente al mercato azionario. Il modello elaborato da Hobijn e Jovanovic e la sua dimostrazione econometrica documentano che la crisi delle borse del 1972-74, quando gli indici “si squagliarono”, la lenta ripresa delle quotazioni sino all’inizio degli Anni Ottanta, l’esuberanza sempre più accentuata da allora alla fine degli Anni Novanta, la caduta degli ultimi 24 mesi o giù di lì devono essere letti come episodi di un solo grande, e lunge, fenomeno, annusato dalle news sin dall’inizio degli Anni Settanta: il capitale “buono” della new economy della tecnologia delle informazioni sta scacciando il capitale cattivo della vecchia economia delle ciminiere. Quando nel 1972 Intel ha sviluppato il primo micro-processore, è giunta “la notizia che era arriva la tecnologia dell’informazioni e della comunicazione” e che la capitalizzazione azionaria della “vecchia economia” era sopravvalutata. Nel nostro contesto, il significato del lavoro è essenzialmente nel nesso tra news (pur solo annusate tramite “market sentiment”), net economy e capitale “nuovo e buono”, tra cui quello “sociale”. 3.2. Le informazioni, le news, i media e il capitale sociale In aggiunta ad elaborazioni teoriche ed ad oltre 500 analisi empiriche pubblicate negli ultimi dieci anni80, due lavori recenti sono particolarmente utili ad illustrare l’interazione tra informazioni (intese in senso amplio e tale da includere le news, i media e la net economy), “capitale sociale”, funzionamento dei mercati e, quindi, crescita e sviluppo. Il primo è un’analisi econometrica degli effetti di benessere collegabili a Cnbc, il principale canale digitale economico e finanziario della televi- 77 Nella scuola ispirata, in vario modo, da Becattini (1987). Un’analisi recente molto interessante riguarda “capitale sociale” ed investimenti esteri diretti in Italia Mudambi e Navarra (2002). 79 Hobijn e Jovanovic (2001). 80 Per una rassegna, Williamson (2000). 78 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 47 sione Usa81. Il secondo, redatto in stile di alta divulgazione e, quindi, accessibile anche a chi non è avvezzo al gergo ed alle formalizzazioni matematiche degli economisti, è un background paper commissionato in occasione della preparazione dell’ultimo World Development Report della Banca Mondiale, un volume che nell’edizione 2001-2002 riguarda interamente l’informazione, la comunicazione ed i mercati e dedica, quindi, un capitolo all’interazione tra i media, compresi quelli collegati alla net economy, e lo sviluppo economico e sociale82. Dei due lavori, il primo si riferisce a un solo Paese, gli Stati Uniti, anche se Cnbc è diffusa in tutti i Paesi industriali (in Italia, ad esempio, è parte integrante del canale digitale Cnbcfn) ed in numerosi Paesi in sviluppo dell’Asia e dell’America Latina. Il secondo è, invece, un’analisi comparata di 97 Paesi a vari stadi di sviluppo. Inoltre, dei due lavori, il primo pone l’accento sull’informazione finanziaria rispetto ad un fenomeno specifico di breve periodo: la “bolla” dei mercati azionari del 19972000. Il secondo, invece, si sofferma sugli aspetti strutturali ed istituzionali. Vediamone i punti salienti. L’analisi del caso Cnbc porta alla conclusione che l’informazione è “estremamente efficace nell’influenzare le azioni e le reazioni” dei soggetti economici. L’“interazione strategica”, tra news, da un lato, e azioni di individui e di imprese, dall’altro, è tale, però, da farla diventare “una lama a doppio taglio” in quanto è “troppo efficace” nell’incidere; innesca, quindi, overshooting, “reazioni eccessive”, “magnificando qualsiasi brusio che inevitabilmente si infiltra nell’informazione”, aumentando, così, la “vulnerabilità dei mercati”, specialmente quelli finanziari (oggetto della verifica econometrica) in modo che può essere considerato “inefficiente sotto il profilo sociale” ma “perfettamente razionale sotto il punto di vista dei singoli attori”. Proprio per mitigare i fenomeni di overshooting, nonché “l’indigestione di informazioni su valori azionari ed obbligazionari”, è stato di recente proposto che la tecnologia venga utilizzata per mettere in funzione un “sistema mondiale di allarme” che, sviluppato dalle maggiori università e dai maggiori centri di ricerca, funzioni come “le previsioni del tempo” basate su modellistica molto avanzata; il “sistema” affiancherebbe la miriade di informazioni fornite dalla telematica ed aiuterebbe a sceverare il grano dal loglio83. Il processo informazione-azione-reazione si basa, infatti, su quello che un altro autore chiama efficacemente un “rito razionale”84 in cui l’“esuberanza” dei mercati non è “irrazionale”, come sostenuto nel tito- 81 Morris e Shin (2001). Djankov, Caralee Mc Liesh, Shleifer (2001). 83 Olsen e Cookson (2001). 84 Chew (2001). 82 48 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI lo stesso di un recente libro di successo85 ma il frutto di “capitale sociale” di gruppo, ossia della comunità e della piazza “virtuali” creati ed alimentati dal condividere insieme le informazioni. È un “capitale sociale” che, per utilizzare il lessico della teoria dei giochi, si basa su giochi “ripetuti frequentemente” e sulla “fiducia” economica che essi comportano tra i soggetti coinvolti, senza differenziazioni di spazio e di tempo. Che il “capitale sociale” possa avere effetti perversi (quali l’amplificazione della risposta alle news) od anche interamente negativi (si pensi al “capitale sociale” di associazioni con finalità da giudicarsi asociali, quali il “familismo amorale” o addirittura a delinquere, quali le mafie) è fenomeno noto e studiato da sociologi e da economisti86. Lo studio empirico delle strutture dei media in 97 Paesi rafforza la rilevanza della comunità e della piazza “virtuali” nella costruzione e nello sviluppo del “capitale sociale”. “Oggi più che mai prima d’ora, grazie a alti tassi d’alfabetizzazione, bassi costi di stampa, nuove tecnologie radio-televisive ed Internet, i media sono importantissimi nell’informare chi investe, chi consuma e chi fa commercio. Da un lato, i media in vernacolo, specialmente la radio, portano le informazione ed incoraggiano lo sviluppo del mercato anche in zone geograficamente isolate. Da un altro, le informazioni e le analisi mediatiche sulle tematiche economiche mondiali, muovono i mercati dei cambi ed il commercio internazionale. I media, inoltre, forniscono informazioni sui mercati politici, esponendo la corruzione e comportamenti non corretti sotto il profilo etico e dando una piattaforma per dare voce ad opinioni differenti su come si governa e sulla esigenze di riforma”. “Hanno, dunque, un impatto sulla politica e sui valori e rappresentano un supporto essenziale al cambiamento istituzionale ed allo sviluppo del mercato”. “Le principali determinanti che rendono i media efficaci a produrre migliori risultati politici, economici e sociali (ossia allo sviluppo del “capitale sociale”) sono l’indipendenza (e la responsabilizzazione), la qualità e la copertura”. L’analisi empirica conclude che la struttura proprietaria dei media è una determinante essenziale dell’indipendenza; la qualità, a sua volta, dipende dalla concorrenza e dall’accesso ad informazioni di interesse pubblico, nonché ovviamente dalle capacità professionali di chi elabora e produce informazione; l’ampliamento e la diversificazione della copertura comporta la riduzione all’accesso all’entrata nel settore, la partecipazione dei privati (specialmente nei Paesi in via di sviluppo ed in transizione), supporto ad iniziative su base comunitaria e non profit87. 85 Shiller (2000). Woolccook e Narayan (2000). 87 Conclusioni analoghe si evincono da due lavori condotti nell’ambito della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. 86 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 49 Sempre nell’ambito del World Development Report 2001-2002 si suggerisce come la net economy, ed in particolare Internet, hanno aumentato, con la drastica riduzione dei costi nel settore, il potenziale di indipendenza, qualità e copertura dei media: un’analisi comparata di 107 Paesi indica che 17 avevano posto, nel 2000, controlli significativi ad Internet88. Alcuni Paesi, quali la Corea del Nord, l’Irak, Myanmar e la Siria, restringono l’accesso tramite apposite norme inserite nei codici penali. Altri stabiliscono il monopolio pubblico nell’offerta di Internet, restringendo, quindi, l’accesso ad alcuni siti e monitorando l’informazione dall’estero; lo fanno, però, con crescenti difficoltà, e costi, a ragione dell’abbattimento di distanze e di differenze temporali inerente proprio a Internet ed alle altre forme di new economy. I Paesi che controllano Internet sono anche quelli con gli indici più bassi di sviluppo umano, di minor sviluppo dei mercato, con tassi di crescita più contenuti e con gli indicatori di “capitale sociale” quali le reti associative basate su autoregolazione ed auto-governo. Un lavoro econometrico89 recente suggerisce comunque che Internet contribuisce ad un aumento dei lettori di news sia nel breve sia nel lungo periodo; a breve termine, gli effetti sono proporzionali al potenziale di lettori in segmenti specializzati dell’informazione, mentre a lungo termine si stabilisce una relazione tra la qualità dei siti e la persistenza dell’aumento dei lettori. La “condivisione di informazioni”, le “relazioni stabili”, ed in varia misura, la “fiducia”, alla base della definizione economica di “capitale sociale” sono, quindi, facilitate dall’informazione e dalle “comunità” e “piazze” “virtuali” innescate dai media ed ulteriormente agevolate e facilitate dagli strumenti della net economy90. In una prospettiva di analisi economica neo-istituzionale che svisceri i costi politici di transazione91, si può dire che, rispetto al “capitale sociale”, oltre ad innestare “giochi ripetuti” nell’ambito delle comunità effettive92 o “virtuali” in cui operano, l’informazione ed i media hanno proprietà analoghe a quelle dell’istruzione: forniscono incentivi a basso potenziale che, se ben messi in atto e distribuiti, contribuiscono a ridurre asimmetrie informative (ed in certi casi anche posizionali) ed a contenere fenomeni di selezione avversa e di azzardo morale, facilitando la “fiducia” che, come si è visto al paragrafo precedente, è centrale alla formazione ed all’arricchimento di “capitale sociale”. Lo si ricava, tra l’altro da un recente lavoro empirico su 97 Paesi sul modo in cui mezzi d’informazione indipendenti e non 88 Committee to protect journalists (2000). Pauwels (2001). 90 Per un’analisi sociologica recente del “caso Italia”, Leto, Gallo, Abruzzese e altri (2001); per due rigorosamente economiche (e con verifiche econometriche), Dellarocas (2001a), Dellarocas (2001b), Moulton, Madnick e Siegel (2001). 91 Dixit (1996). 92 Besley e Prat (2001). 89 50 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI schierati influenzano le decisioni di voto consentendo una valutazione costi benefici delle politiche del Governo in carica ed un esame di come si sia stato rispettato il programma con il quali ci si era presentati agli elettori. 3.3. L’informazione e la valutazione come “capitale sociale” I cenni ai lavori su media e “capitale sociale” ci portano ad un’altra riflessione: i nessi tra l’informazione in quanto risultato di un processo di valutazione e il “capitale sociale”. È questa una materia da anni oggetto di attenzione da parte dei sociologi e degli studiosi di scienza della politica e di scienza dell’amministrazione93. Di recente, però, ha cominciato ad interessare economisti di prestigio, ad esempio il Premio Nobel Stiglitz94 ed il Direttore Generale Operations Evaluation della Banca Mondiale95. Vediamone i punti salienti e come la net economy agisce su essi. In primo luogo, gli economisti che si interessano all’informazione come risultato della valutazione e determinante del “capitale sociale” appartengono rigorosamente alla scuola “neo-istituzionale” nel senso chiarito da Williamson96 e specificato ancora più puntualmente da Nugent97; secondo questa scuola, un’istituzione è “una serie di vincoli che governano le relazioni comportamentali tra individui e tra gruppi”, definizione molto simile a quella che si è data di “capitale sociale” al paragrafo 3.1 di questo capitolo. A livello macro-economico – si pensi ai parametri del Trattato di Maastricht o del “patto” di crescita e stabilità tra i Paesi dell’Unione Monetaria Europea, oppure ancora ai programmi di stabilizzazione o di riassetto strutturale definiti da Paesi in sviluppo o in transizione d’intesa con le istituzioni finanziarie internazionali –, la valutazione fornisce criteri e standard con cui esaminare l’efficacia delle politiche rispetto agli obiettivi prestabiliti, oppure di modificare gli obiettivi, se ciò appare utile; l’informazione sulla valutazione illumina i policy makers (nonché l’opinione pubblica e l’opposizione) ed è parte integrante del quadro di governance della società98. La “net economy” è uno strumento particolarmente importante non solo per meglio raccogliere e padroneggiare la vasta quantità di dati necessari per valutazioni di politiche macroeconomiche e strutturali, ma anche per diffonderne i risultati nel- 93 Per un’efficace ed aggiornata rassegna, Bezzi (2001). Stiglitz in Picciotto e Weisner (2001). 95 Picciotto (1998). 96 Williamson (2000). 97 Nugent (1998). 98 Weiss (1998). 94 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 51 l’opinione pubblica sia in senso lato sia più specificatamente nelle “comunità” e nelle “piazze virtuali” a cui si è fatto riferimento nel paragrafo precedente. In aggiunta, la net economy rende la società meno gerarchica; “nessuno vede il taglio del tuo vestito e nessuna segretaria blocca il tuo accesso all’ufficio del direttore generale o del Ministro se gli mandi le tue idee su supporto elettronico”99; i ricercatori più giovani non devono sfidare apertamente i professori più anziani per diffondere sulla rete-delle-reti i risultati delle loro analisi poiché è sufficiente che vengano lanciate su un sito Internet; si sgretola quella “deferenza” che nel mondo amministrativo e nel mondo accademico frena l’innovazione. Ancora più significativa è l’informazione-valutazione a livello micro-economico, principalmente in organizzazione in cui gli “agenti” (dirigenti, funzionari) e le “agenzie” in nome e per conto di cui operano (il Consiglio di Amministrazione) cercano di perseguire obiettivi, pubblici o privati che essi siano. L’informazione-valutazione mette in atto un sistema di incentivi che avvicina la funzione di preferenza dell’“agente” a quella dell’“agenzia” e ne evidenzia eventuali discrepanze, contenendo, in tal modo, comportamenti opportunistici ed inducendo l’intera organizzazione all’apprendimento. Nel settore pubblico, l’informazione-valutazione sostituisce in gran misura la revisione contabile richieste nel settore privato dalle autorità di vigilanza sulla corporate governance. L’informazione-valutazione contribuisce a tre funzioni chiave alla base del “capitale sociale” e del suo arricchimento: a) l’azione collettiva; b) la partecipazione; c) il coordinamento. Lo fa – ed è questo il punto nodale – tramite misure di mercato, ossia incentivi a rispondere agli obiettivi definiti od a modificarli in via partecipativa od a meglio individuare i comportamenti opportunistici ed a sanzionarli in modo coordinato. Per un’indicazione controfattuale – tra le tante che si potrebbero offrire – si pensi alla vicenda, nell’Italia degli Anni Ottanta, del tentativo di non rendere note alla stampa ed al pubblico le valutazione tecniche sui progetti che concorrevano a finanziamenti a valere sul Fondo Investimenti e Occupazione, Fio100; essa portò alle dimissioni dello stesso Ministro in carica proprio in quanto il contesto istituzionale stava cambiando, ed il “capitale sociale” crescendo, molto più rapidamente di quanto venisse percepito dalle stesse autorità di Governo, e ponendo sempre più marcatamente l’accento sull’informazione-valutazione dell’attività di governo, come ricordato al termine del paragrafo precedente. In società democratiche in cui né lo Stato né le organizzazioni private hanno la potestà di definire e condurre unilateralmente le proprie azioni, l’azione collettiva è 99 The Economist, Nov. 10, 2001. Pennisi e Peterlini (1987). 100 52 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI il frutto di negoziati101, le cui regole sono vincolate da meccanismi di responsabilizzazione in termini, ad esempio, di reputazione e di credibilità. L’informazionevalutazione è uno strumento importante per superare asimmetrie informative, specialmente tra “agenzie” ed “agenti”, nonché tra individui e gruppi sociali in differente grado di accesso all’informazione e per contenere fenomeni di selezione avversa e di rischio morale. Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo per gli aiuti ai Paesi a basso reddito medio hanno elaborato una casistica molto ampia dell’informazione-valutazione come grimaldello per l’azione collettiva102. Una componente significativa delle strategie per le aree in ritardo dell’Unione Europea e dell’Italia, si basa proprio sull’informazione-valutazione come strumento per l’“azione collettiva” di organizzazioni, enti e gruppi molto diversi103. I metodi e le procedure per concorrere a fondi strutturali ed agli altri “sportelli” europei rappresentano un altro esempio di come anche tramite il lessico, come indicato da Sen104, si abbia sviluppo di “capitale sociale” tra la “comunità” europea di coloro interessati alla valutazione di piani e progetti. La net economy ha ridotto costi di transazione di distanza e di tempo, inciso positivamente, quindi, su selezione avversa e azzardo morale e facilitato la formazione e la crescita di tale forma di “capitale sociale”. Una valutazione partecipativa o partecipata105 accresce ulteriormente il potenziale dell’informazione-valutazione nella formazione di “capitale sociale”. Picciotto (2001) e Carroll (2001) descrivono o citano molti casi, principalmente di Paesi in via di sviluppo, in cui la informazione-valutazione non solo ha contribuito alla formazione di “capitale sociale” ma è stata anche strumento per privatizzazioni e devoluzione di funzioni a enti territoriali o funzionali. La letteratura di uno Stato molto centralizzato, come la Francia, ha sviluppato una casistica molto ricca106 di informazione-valutazione come strumento per il decentramento attuato a partire dalla fine degli Anni Ottanta. Non mancano esempi italiani di informazione-valutazione, specialmente per l’innovazione tecnologica, utilizzata, grazie all’impiego della net economy, per la formazione di “capitale sociale” tra distretti differenti e distanti107. L’informazione- 101 Olson (1965). Si pensi alle tecniche di rapid rural appraisal, segnatamente nelle forme “partecipative” divenute ormai prassi dell’allestimento di progetti nel settore agricolo (Fanciullacci, Guelfi, Pennisi, 1991) oppure di tecniche analoghe nel settore dell’istruzione e della formazione (Pennisi, 1991). 103 Ci si riferisce, ad esempio, ai contratti d’area ed ai patti territoriali (Viesti, 2001). 104 Sen (2000b). 105 Palumbo (2001). 106 Warin (1993). 107 Scuola Superiore Sant’Anna (2001). 102 LA NEW ECONOMY E “L’INIZIO DELLA STORIA” 53 valutazione partecipativa si scontra con vincoli severi quando le parti in causa hanno interessi e punti di vista divergenti, specialmente se il contesto in cui avviene la valutazione è incerto e volatile; ha potenzialità ma anche limiti anche importanti: espone chi deve prendere decisioni a pregiudizi ed a gruppi di pressione che possono sia fuorviare la valutazione sia avere effetti negativi, piuttosto che positivi, sul “capitale sociale”. L’informazione-valutazione, infine, contribuisce a risolvere una grande varietà di problemi di coordinamento108, specialmente in un contesto di devoluzione e/o decentramento: l’“apprendimento sociale” viene facilitato tramite forme di monitoraggio che si basano sull’informazione-valutazione109 e promuovono la cooperazione, e quindi l’azione collettiva, tra i soggetti coinvolti. Cerchiamo ora di tirare le fila. Nella prima parte di questo capitolo abbiamo tratteggiato come due determinanti parallele (l’integrazione economica internaConclusione zionale, da un lato, e la new economy, dall’altro) mettano in crisi la politica economica come comunemente intesa ed insegnata negli ultimi 50 anni: a cavallo tra il XX ed il XXI secolo siamo alla prese con un’altra “fine”, quali la “fine” della Storia, della crescita e dei “miracoli economici” che hanno caratterizzato il passaggio tra un decennio e l’altro110; estremizzando per meglio trasmettere il punto centrale, siamo alla vigilia della politica economica. Nella seconda, invece, esploriamo come la new economy possa attivare un nuovo lungo ciclo di sviluppo, operando sulla formazione ed arricchimento del “capitale sociale”, premessa, a sua volta, di aumenti di lungo periodo della produttività multifatturiale, nonché di una migliore creazione e distribuzione di reddito. Abbiamo delineato alcuni casi (informazioni, media, valutazione) in cui il nesso tra net economy e “capitale sociale” appare robusto. Altri sono in corso di studio (ad esempio, l’interazione tra net economy, “capitale sociale” ed export e quella tra i nuovi paradigmi tecnico economici e mercato del lavoro). Alcuni aspetti vengono trattati nei capitoli successivi di questo lavoro. 4 108 Come è noto, la disciplina economica che studia i costi di transazione pone l’accento sul rapporto tra costi di transazione e costi di coordinamento (Williamson, O.E. 1987). 109 Sabel (1994). Molto interessante l’analisi di Cooke e Morgan (1998). 110 Janossy (1966), Meadow, Meadows, Randers e Behrens (1972), Fukuyama (1989). 54 GIUSEPPE DE FILIPPI, GIUSEPPE PENNISI L’analisi sin qui condotta porta comunque ad una conclusione: per la Pa nella sua funzione di collaborazione alla formulazione ed alla attuazione delle politiche economiche (e per i consulenti e consiglieri dell’Esecutivo e del Legislativo), la net economy pone non tanto un problema di file, bytes, chips, computers e collegamenti oppure (in una concezione più vasta) un modo di ripensare le proprie procedure, ad esempio per il fisco, per gli acquisti di beni e servizi e per il mercato del lavoro, oppure ancora di riscrivere il proprio organigramma e funzionigramma in una forma a matrice non gerarchizzata. È qualcosa di molto più importante: vuol dire ripensare le politiche pubbliche mettendo ad esse come perno “il capitale sociale” ed utilizzando, con appropriati incentivi e disincentivi, l’enorme potenziale offerto dalla net economy. Non siamo forse alla vigilia del vagheggiato “nuovo miracolo economico”111. Non siamo, però, neanche alla “fine della Storia”. Anzi come nel 1937, affermava, con un’ultima indimenticabile battuta Louis Jouvet chiudendo una “pièce” di Jean Griraudoux: “tutto ciò ha un nome molto bello: è l’aurora!”112 , l’inizio, quindi, della Storia. 111 112 Modigliani, Baldassarri, Castiglionesi (2000). Giraudoux (1937). Bibliografia AA.VV., Computers and productivity, in The Journal of Economic Perspectives, Fall, 1999. ACOCELLA N., Fondamenti di politica economica, Roma, Nuova Italia Scientifica, 1994. 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