Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola

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Assessorato all’Istruzione della Provincia di Pisa
Centro per la didattica della Storia
Tra storia e memoria:
dalla ricerca alla scuola
Giornata di studio e formazione
Pisa, 12 febbraio 2004
Quaderni del Centro per la didattica della Storia
Numero 9
Assessorato all’Istruzione della Provincia di Pisa
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
a cura di Alessandra Peretti
Giornata di studio
Giovedì 12 febbraio 2004
Aula Magna dell'ITC Pacinotti, Via B. Croce, 34 - Pisa
Quaderni del Centro per la didattica della Storia
Numero 9
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Immagine in copertina:
Il mio bisnonno sui monti ascianesi all’età di 63 anni (1971)
foto di Federico Scarpellini della classe III A dell’Istituto Comprensivo G.B. Niccolini di S. Giuliano
Terme, raccolta nel corso del lavoro svolto nell’anno scolastico 2001-02 sotto la guida del prof.
Marianelli
I Quaderni già pubblicati:
1. Persecuzioni e stermini nella seconda guerra mondiale (2002)
2. La politica razziale del fascismo (2002)
3. Dalla discriminazione allo sterminio (2002)
4. La Grande Guerra (2002)
5. Fuori dall’ombra. Sguardi sulla storia della donne (2003)
6. Il primo dopoguerra e il culto dei caduti (2003)
7. Lotte contadine e operaie nel Pisano nel secondo dopoguerra (2004)
8. L’arte di stare insieme. Percorsi didattici tra Pisa e il Mediterraneo (2004)
I testi qui proposti sono la trascrizione di interventi orali pronunciati dai relatori nel corso di una
giornata di formazione rivolta ai docenti delle scuole pisane e riveduti sommariamente dagli autori
e dalla curatrice. Questo spiega il tono discorsivo dei testi e le loro disomogeneità stilistiche. La
curatrice se ne scusa con autori e lettori, nella convinzione che i contributi qui presentati siano
comunque di grande interesse e utilità didattica.
L’intervento del prof. Mauro Ronzani su La memoria nella storia medioevale non ha potuto essere
pubblicato a causa della mancata autorizzazione dell’autore. Ne siamo molto spiacenti.
Indice
Alessandra Peretti (Centro didattica della storia di Pisa)
Presentazione dell'iniziativa ...................................................................... pag. 5
Michele Battini (Università di Pisa)
L’imperativo del ricordo ............................................................................pag. 7
Giovanni Contini (Soprintendenza Archivistica per la Toscana)
Fonti orali e didattica della storia ...............................................................pag. 15
Marta Baiardi (Istituto storico della Resistenza in Toscana)
Aspetti della memorialistica femminile della deportazione..............................pag. 25
Alberto Cavaglion (Istituto storico della Resistenza in Piemonte)
Per un buon uso della memoria .................................................................pag. 41
Mauro Moretti (Università per stranieri di Siena)
Storia/memoria in alcune riflessioni recenti .................................................pag. 49
M. Paola Campana Foà (Scuola Media di Pontasserchio / I.C. Livia Gereschi)
Memoria e laboratorio storico ....................................................................pag. 57
Guri Schwarz (Scuola Normale Superiore di Pisa)
Le feste nazionali come esercizi di memoria: sulle feste del 25 aprile ..............pag. 75
Roberto Bizzocchi (Università di Pisa)
Forme diverse di memoria storica nell'età moderna ......................................pag. 85
Ida Nicolini (Comune di S. Giuliano Terme)
Il Progetto Memoria .................................................................................pag. 93
Sandro Marianelli (Istituto Comprensivo G.B.Niccolini, S. Giuliano Terme)
Storia, memoria, immagini: un'esperienza didattica in una scuola media .........pag. 97
Linda Bimbi (Istituto Professionale Matteotti, Pisa)
“A cosa serve la storia?” ...........................................................................pag. 111
Dibattito conclusivo...............................................................................................pag. 119
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Presentazione dell’iniziativa
Alessandra Peretti
Centro per la didattica della Storia della Provincia di Pisa
Io volevo introdurre i lavori dicendo rapidamente come è nata l’idea di questa giornata, di questo
convegno. Il tema di oggi, “tra storia e memoria”, è un tema che nell'ultimo decennio è stato
molto frequentato dalla storiografia e di questo penso che ci parlerà tra breve, in particolare,
Michele Battini. Del resto, molti dei relatori di oggi che provengono dal mondo della ricerca ci
parleranno di questo stesso tema, da vari punti di vista.
Ma questa giornata di studio e di formazione si propone come obiettivo principale quello di
convogliare alcuni dei risultati di questo dibattito e di questa ricerca degli storici verso il mondo
della scuola. Perché il tema della memoria si è rivelato nella scuola di una fecondità enorme. Da
diversi anni, e poi con una decisa accelerazione dopo l'introduzione nel 2001 della Giornata della
Memoria, l'interesse per il mondo dei nonni e dei genitori ha portato alla luce una grande quantità
di testimonianze familiari.
L'interesse per il proprio passato, naturalmente parlo qui soprattutto della scuola dell'obbligo,
ma non solo, si è rivelato poi una molla importante per suscitare l'interesse per il passato in
generale e permettere anche l'acquisizione di importanti strutture concettuali. I bravi insegnanti
hanno saputo servirsene in questi anni per produrre con i loro alunni lavori che meriterebbero
diffusione e conoscenza anche al di fuori del mondo della scuola. Questa giornata vuole servire
anche a questo: anzi pensiamo che il Centro per la didattica della storia debba sforzarsi di creare
un momento di verifica annuale dei lavori fatti con una mostra a fine anno e una esposizione su
cui ci impegniamo fin da ora.
Un'altra cosa che volevo portare a supporto di questa enorme potenzialità riguarda una notizia
che ho trovato un paio di giorni fa sui giornali, in occasione della discutibile giornata della memoria
delle "foibe". A Fertiglia, vicino ad Alghero, gli studenti di una scuola media hanno raccolto le
memorie dei sopravvissuti delle centinaia di famiglie di esuli istriani, lì rifugiatisi nel 1947. Hanno
poi scambiato visite e informazioni coi loro coetanei di Rovigno in Istria, per raccogliere anche
lì memorie e ricordi, e ne hanno prodotto un libretto.
Noi tutti, gente di scuola, possiamo facilmente immaginare con quale serietà i ragazzi hanno
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
svolto il loro compito, e ritenere che tale lavoro abbia fatto per la loro conoscenza storica molto
di più di ogni polemica sui manuali faziosi.
L'ambizione del Centro in questa giornata è quindi quella di far incontrare il mondo della scuola
con quello della ricerca, per poter riflettere insieme sulle potenzialità, ma anche sulle difficoltà
ed i rischi di questo recupero della memoria, e non solo per quanto riguarda la storia contemporanea.
Avrete visto infatti che nel pomeriggio è previsto anche un doppio intervento, uno per la storia
medievale e uno per la storia moderna: e se questo spazio è comunque ridotto, me ne scuso con
i relatori che hanno aderito con grande entusiasmo a questa apertura nei confronti delle loro
discipline.
Prima di dare infine la parola al primo relatore, che è Michele Battini, mi ero proposta di dedicare
questa giornata al ricordo di un grande cultore di memorie recentemente scomparso, cioè Nuto
Revelli. A questo ricordo mi sento ora di accompagnare l’addio affettuoso a quella figura eccezionale
di pisano scomparso ieri che è stato Marco Tangheroni, uno storico non solo attivamente impegnato
nella sua disciplina, ma in particolare attento alla didattica della storia: su posizioni che io spesso
non ho condiviso, ma che erano caratterizzate comunque da una generosità e da un interesse
per il mondo della scuola, e da una sincera volontà di confronto, di cui io mi sento di essergli
riconoscente.
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L’imperativo del ricordo
Michele Battini
Università di Pisa
Alessandra Peretti ha spiegato molto bene qual è la domanda da cui è nato questo incontro ed i
problemi che noi cerchiamo di mettere a fuoco, riflettendo sulle esperienze didattiche che nel
corso di questi anni si sono sviluppate ed intensificate attorno alla pratica dell'uso delle testimonianze
orali, dei ricordi, delle memorie scritte, come introduzione di gruppi di studenti di scuole di vario
ordine e grado all'incontro con la storia. Alessandra ha ricordato, giustamente, come i protagonisti
di queste nuove esperienze - nuove rispetto alla pratica didattica degli anni passati - siano stati
non soltanto gli studenti e gli insegnanti, ma anche molto spesso le famiglie, ed ha accennato
alle esperienze di coinvolgimento di genitori, nonni, insomma delle generazioni che in qualche
modo sono state testimoni diretti o indiretti degli eventi di cui si cercava di ricostruire la memoria
come introduzione allo studio storico. Non solo questi sono stati i protagonisti di queste nuove
esperienze didattiche, e non per caso ci sono qui altri relatori che in qualche modo rappresentano
gli interlocutori diversi che hanno partecipato a queste esperienze: per esempio gli Istituti Storici
della Resistenza, la cui rete ha rappresentato sicuramente un'interlocuzione importante nel corso
dell'ultimo decennio per la realizzazione di queste finalità, e anche, spesso, gli Enti Locali, i
Comuni e le Province, che hanno costituito non solo il supporto, ma spesso anche lo stimolo di
queste iniziative. Mi ricordo che esattamente dieci anni fa fu proprio la Provincia di Pisa che ruppe
con una tradizione ormai logora di celebrazioni rituali degli eventi della seconda guerra mondiale
(Resistenza, guerra civile, vicenda della Repubblica Sociale Italiana), che aveva esaurito il suo
compito e cominciava a produrre sul piano della memoria alcuni effetti distorcenti, e preferì
stimolare una nuova ricerca su eventi locali nel periodo della guerra e favorire nel contempo il
confronto tra questa ricerca e l'attività delle scuole: una ricerca sugli eventi della seconda guerra
mondiale nelle nostre zone, in particolare quelli che avevano coinvolto le popolazioni civili, che
condusse addirittura alla formazione di gruppi di ricerca nazionali che hanno coinvolto diverse
università, e poi a un convegno internazionale che si è celebrato a Bologna nel giugno
del 2002, a conclusione di questo percorso, e molti libri, tra cui uno dedicato alle scuole.
Qui oggi non siamo soltanto a fare un bilancio di questo arco di esperienze - ci sono delle relazioni
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
che introdurranno elementi di bilancio, ma anche sono programmati degli interventi da parte di
diversi insegnanti - ma anche ad avviare una riflessione sulle prospettive di questi metodi: questo
forse è il piccolo contributo che possiamo portare noi, impegnati sul versante della ricerca. Cioè
quello che io intanto comincerei a fare è di cercare di complicare, e di problematizzare, il nesso
tra la produzione e l'organizzazione di ricordi e di memorie e l'avvio alla ricerca storica.
Vorrei dunque fare alcune riflessioni in questa direzione che servano a tracciare un bilancio e a
porsi delle domande su quelli che possono essere i meriti, ma anche i rischi, di una introduzione
allo studio storico che si avvii attraverso una familiarizzazione con il ricordo e che ponga al centro
della discussione il problema di come "trattare" i ricordi. Quale rapporto istituire tra ricordo e
testimonianza - la testimonianza che riproduce il ricordo, sia esso orale o una testimonianza
scritta - e come stabilire se questa testimonianza orale o scritta possa essere codificata come
una fonte? Infine, come usare correttamente la memoria, per avviare appunto la comprensione
storiografica del passato? Ma su questo credo che in particolare Mauro Moretti e Giovanni Contini,
che sono studiosi esperti sotto questo profilo, possano suggerire aspetti importanti alla nostra
considerazione.
Un secondo nodo di problemi si pone ad un livello apparentemente diverso da quello meramente
didattico o al tempo stesso didattico e scientifico: quali soggetti, pubblici o privati, possono
contribuire a costruire i quadri sociali della memoria? Abbiamo tutti verificato, credo, nelle
esperienze didattiche ma anche nella ricerca, che di fronte ad un ricordo, ad una testimonianza,
ad un frammento di memoria (che è sempre memoria individuale, ma che si muove all'interno
di quadri collettivi della memoria) ci siano almeno due elementi che complicano la questione. Il
primo è la presenza di soggetti istituzionali che di fatto contribuiscono a creare fortemente i
“quadri sociali” della memoria.
C'è, da diversi anni a questa parte, un ruolo preponderante dei media e, in particolare, dei media
radio-televisivi, e dei nuovi media fondati sul metodo della digitalizzazione, nella costituzione
della memoria di un Paese: basti pensare al ruolo che alcuni films hanno giocato nell'avvio di
una discussione sulla memoria pubblica della Germania negli ultimi dieci-quindici anni: penso
al film di Fest su Hitler e alla serie Holocaust, o, tra la fine degli anni '70 e i primi anni '80 del
Novecento, al ruolo di alcuni film come Lacombe Lucien di Louis Malle, o L'ultimo metrò nella
ripresa in Francia della discussione sul posto di Vichy, e su un passato che era stato dimenticato
nel corso degli anni '60 e '70.
Quel passato è riemerso appunto grazie ai media: in alcuni casi con prodotti mediatici di
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
carattere documentaristico e in altri casi con films e opere di fiction, in cui quindi il problema
del rapporto fra documentazione e invenzione diventa estremamente complesso e problematico.
Un altro aspetto importante è il ruolo delle istituzioni giudiziarie. Quanto ha pesato nel processo
di formazione della memoria del nostro passato, negli ultimi sessanta anni, e nella ripresa della
discussione sugli eventi della seconda guerra mondiale l’impatto di grandi eventi giudiziari. Ciò
è accaduto non solo in Italia (pensate all'evento traumatico dei due processi Priebke) ma in altri
paesi europei: in Francia con i due processi a Touvier e a Barbie. Paul Touvier era stato un
dirigente importante della Milice di Vichy e Klaus Barbie un funzionario tedesco implicato
direttamente nell'arresto e nella deportazione degli ebrei francesi. Questi processi furono anche
eventi mediatici di enorme risonanza, da una parte perché hanno coinvolto direttamente gli
storici, che sono stati chiamati in molti casi a fornire pareri; dall'altra, perché essi stessi, i processi
con le loro sentenze, hanno prodotto una ricostruzione e una memoria. È questa ricostruzione
una ricostruzione storiografica? Essa ha sicuramente inciso sulla memoria collettiva che noi
abbiamo di quegli eventi e al tempo stesso ha forse indirettamente agito sul piano storiografico.
Così, ancora una volta, si sono aperti enormi problemi su quale rapporto ci sia tra giudizio
storiografico e sentenza giudiziario: affinità inerenti all'onere della prova, poiché giudici e storici
devono fondare naturalmente i propri giudizi su prove provate; ma anche profonde differenze:
pensate al modo sicuramente insoddisfacente con cui in alcune di queste sentenze ci si è riferiti
al contesto degli eventi, che è per l'appunto il nodo fondamentale che deve affrontare lo storico.
Quindi la memoria ha un suo “spazio” e può essere un'ottima base di partenza per l'avvio alla
discussione sugli eventi del passato, ma tale spazio non può essere soltanto limitato e compreso
entro la dimensione strettamente “contemporanea” dei tempi conosciuti dai testimoni viventi.
Però la memoria non può essere l’unica fonte: quindi è giusto, come ricordava Alessandra Peretti,
che oggi siano qui presenti i ricercatori che ci aiutino a riflettere su come la memoria possa essere
utile all'avvio allo studio della storia medievale e moderna. Bizzocchi ha recentemente pubblicato
un'ottima ricerca dimostrando come i libri di ricordanze, le memorie familiari e i diari siano
importanti per ricostruire lo spaccato della società pisana in età moderna. Ronzani, dal canto
suo, è conoscitore raffinato di memorie cittadine di età medievale, di tradizioni monastiche, di
necrologi, commemorazioni e testimonianze orali.
Però si pongono anche problemi di ordine diverso, come ad esempio quello del buon uso della
memoria. Rosenstock-Huessy ha espresso a tale proposito una posizione sbagliata relativamente
al rapporto tra storia e memoria. In un libro pubblicato nel 1964 a New York, intitolato Out of
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
revolution, l’autore scrive “Lo storico è il medico della memoria, ha la responsabilità di curare
le ferite e, come il dottore, deve agire senza badare alle teorie mediche, perché il suo paziente
è malato; così lo storico deve tener presente l'esigenza morale di rimettere in sesto i ricordi di
una nazione o dell'umanità.” Io credo che una posizione di questo tipo possa implicare profondi
errori. Si tratta di una posizione presente nel dibattito contemporaneo, che vediamo continuamente
riproposta per esempio dai grandi quotidiani: come se lo storico fosse un terapeuta della comunità
nazionale e dovesse sanare le ferite del passato recente o del passato più remoto: il passato
della guerra civile, il passato delle foibe, il passato della frattura fra i due partiti risorgimentale
e antirisorgimentale, e così via. In realtà, lo storico non ha affatto, a mio avviso, la facoltà di
curare la memoria o di sostituirsi a ricordi collettivi che si sono formati o che si sono cancellati.
La memoria è un'espressione della coesione interna di una società (o di alcuni suoi gruppi) e
quindi essa si crea e si tramanda attraverso istituzioni sociali, religiose, politiche: ma, al tempo
stesso, quelle istituzioni e la memoria sono inevitabilmente sottoposte al logoramento e alla
dissoluzione. Allora, questa dimensione - la dimensione della costruzione della memoria e del
suo dissolvimento, le divisioni interne alla memoria, le fratture interne alla memoria, le spaccature
interne alla memoria - non è una dimensione che lo storico deve porsi il problema di ricostruire
e di “curare”. L’ingiunzione del ricordo (per usare un termine caro alla riflessione etica interna
della cultura ebraica) ha poco a vedere con quello che invece è il compito dello storico, che è
molto più banale. Lo storico ha il compito di indagare tutti gli aspetti del passato senza alcun
criterio selettivo, e in questo senso egli non è un terapeuta, ma un patologo, che analizza e
interpreta il passato. Da questo punto di vista egli non ha nessuna funzione pedagogica rispetto
alla comunità nazionale o rispetto all'umanità. (Se esiste, tale funzione è indiretta, nel senso che
la storia può servire a correggere le distorsioni della memoria collettiva e individuale ma certamente
essa non può arrogarsi alcun compito al di là dell’inventario critico).
Però il problema non si esaurisce qui, poiché è anche vero che memoria e storiografia, per loro
stessa natura, si pongono in un rapporto diverso nei confronti del passato: la memoria è selettiva
poiché mira alla restaurazione dei ricordi, e per essa solo alcuni eventi sono degni di essere
ricordati, in funzione della costruzione dell'identità; la storiografia non mira alla restaurazione
dei ricordi, ma ad un modo di ricordare attraverso la ricerca di testi, fonti e documenti (che
possono non aver mai fatto parte della memoria collettiva) evocando un passato più ricco di
dettagli e distante da quello trasmesso nella memoria.
Vorrei citare, a correzione dell’esempio "negativo" fatto prima, Yosef Haïm Yerushalmi, l’autore
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
di uno splendido testo intitolato "Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica." Nell’ebraismo il posto
della memoria e della tradizione è centrale (si potrebbe anche dire che l'ebraismo per certi aspetti
è sopratutto memoria e tradizione, e lettura del libro come lettura della memoria e della tradizione).
Questo però non ha niente a che fare con la storiografia, dice Yerushalmi a coloro che invece
tendono a confondere storia e memoria, o, addirittura, a porre alla storiografia i compiti della
memoria.
"Lo storico - scrive Yerushalmi - non si limita a colmare le lacune della memoria, cioè quelle parti
della memoria collettiva che sono scomparse, ma sottopone ad un esame critico anche la memoria
stessa e i ricordi che sono giunti intatti fino a noi. Inoltre, come del resto avviene per gli storici
di altri campi e aree culturali, il suo scopo più ambizioso è quello di ricostruire un'immagine totale
del passato, nel mio caso del passato degli ebrei, anche se si sta direttamente interessando solo
di un settore, magari ristretto. Nessun elemento, nessun documento o manufatto è irrilevante
per lui. Nessuno è indegno della sua attenzione, come del resto è facile immaginare. Il punto è
che tali aspetti vanno controcorrente rispetto alla memoria collettiva che, come spesso si è
osservato, è drasticamente selettiva. Certi ricordi sopravvivono, altri sono scartati, soffocati, o
semplicemente obliterati in un processo di selezione naturale che lo storico, ospite non invitato,
interviene a disturbare e spesso a sconvolgere."
Questa immagine del disturbatore, di colui che rompe le regole del gioco, di colui che rompe in
questo caso i quadri della memoria, a mio avviso è estremamente felice. Allora io vorrei concludere
con un esempio macroscopico della necessità di prendere atto della divaricazione che ci può
essere, e che è giusto che ci sia, tra memoria e storiografia: se ne prendiamo atto si può lavorare
correttamente a ristabilire i rapporti giusti tra memoria e storiografia. Mi riferisco naturalmente
ad un tema su cui la ricerca storiografica ha fatto enormi progressi nel corso degli ultimi anni:
la questione dei conti del popolo italiano con il proprio passato recente, in particolare il passato
del regime fascista e della guerra condotta tra il 1940 e il 1943 dall'Italia fascista come junior
partner della Germania nazional-socialista. Da molti anni la storiografia ha affrontato questo tema
con impegno e con risultati importanti: penso ai lavori di Collotti, di Sala, di Mantelli, Del Boca,
Klinkhammer. Cito per ultimo, ma non per importanza, l'ottimo libro di Davide Rodogno "Il nuovo
ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell'Italia fascista in Europa". Ora è evidente
che c'è uno scarto tra il progresso della ricerca storiografica e la memoria, il senso comune
storiografico, la percezione che esiste nel nostro paese sulle vicende di questo periodo della
nostra storia. A tale proposito si potrebbero ripetere le osservazioni che abbiamo fatto prima sul
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
ruolo dei mass media.
Senso comune e storiografia, in questo campo, conoscono una divaricazione profonda, che ha
effetti importanti sulla coscienza civile del paese. Ci sono ad esempio ancora stereotipi che
circolano a proposito della “bontà delle truppe italiane all'estero” durante la seconda guerra
mondiale. Come si fa a capire l'origine di queste distorsioni della memoria collettiva e perché
esistono questi stereotipi? Bisogna rimontare alle prime scelte fatte dai governi di unità nazionale
antifascista nel 1944. C'è una seduta importante del giugno 1944 del secondo governo Bonomi
che è rivelatrice; il Gabinetto proclama con grande autorità che le responsabilità della guerra
ricadono unicamente e soltanto sul fascismo e non sul popolo italiano, il quale sin dall'inizio della
guerra aveva espresso un proprio distacco nei confronti delle scelte del regime. Questa manipolazione
è secondo me fondamentale per capire il modo come, da un calcolo politico, si è generata nel
nostro paese un'immagine totalmente falsa, rispetto alla quale non abbiamo fatto ancora la
necessaria valutazione critica. C'è una differenza enorme, da questo punto di vista, fra la nostra
vicenda e quella tedesca. Il calcolo politico del governo del 1944 era di utilizzare il vantaggio che
l'Italia aveva avuto dalla mancata applicazione della clausola della resa incondizionata, per mirare
a un trattato di pace più vantaggioso di quello che sarebbe stato applicato alla Germania.
Nel maggio del 1945 un numero della rivista "Mercurio" si intitolava "Anche l'Italia ha vinto":
titolo esemplificativo di questo tipo di distorsione che nel nostro paese si è prodotta. È in questo
contesto di una politica dell'oblio di una parte importante del nostro passato che si sono potuti
cancellare i crimini di guerra commessi dall'Italia nei territori occupati, o la vicenda del mancato
processo ai nostri criminali di guerra. Si trattò di una partita giocata su molti livelli: da quello
politico-diplomatico a quello giudiziario. Ritorna qui il problema del ruolo dei processi nella
costruzione dei quadri della memoria: perché mentre la nostra diplomazia lavorò per non
consegnare gli italiani responsabili dei massacri delle popolazioni albanesi, greche e balcaniche,
lavorò anche per far sì che nel quadro dei processi che furono celebrati dagli Alleati per i massacri
perpetrati in Italia ai danni dei civili emergessero unicamente le responsabilità dei tedeschi. Come
ha scritto Vittorio Foa, i tedeschi sono stati una grande risorsa per la falsa coscienza del nostro
paese. La Resistenza di pochi ha fatto da lavacro della coscienza di tutti. È un fenomeno non
soltanto italiano, che conosce risvolti analoghi in Francia, in Belgio, in Olanda: ottundere la
memoria delle colpe dell’aggressione e della sconfitta meritata, per far prevalere un'immagine
della sconfitta come occasione del riscatto.
Concludo. I lavori sulla memoria, sul ricordo, sulle fonti della memoria e del ricordo sono un
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
approccio possibile allo studio della storia, ma implicano sempre la necessità di rovesciare le
operazioni selettive che sono proprie della memoria, e soprattutto l'operazione di riduzione al
semplice di ciò che è complesso, per restituire invece tutte le articolazioni del passato. Qui si
gioca la possibilità di un rapporto filologicamente corretto tra memoria e storiografia, per evitare
appunto che, nell'introduzione allo studio della storia attraverso le fonti della memoria e del
ricordo, si possano involontariamente riprodurre le distorsioni che sono proprie, inevitabilmente,
di una memoria spesso selettiva e parziale.
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14 - BIANCA
Fonti orali e didattica della storia
Giovanni Contini
Soprintendenza Archivistica per la Toscana
In realtà non parlerò oggi del tema che mi era stato assegnato perché io mi sono occupato poco
delle fonti orali nella didattica della storia. Un'esperienza di questo genere avvenuta più di vent'anni
fa è stata un'esperienza abbastanza disastrosa, poi vi spiegherò anche perché, nel senso che ho
lasciato che questa ricerca venisse fatta spontaneamente e quindi abbiamo ottenuto materiale
estremamente povero. Insomma quello che mi sento di dire è che le fonti orali vanno preparate
e, una volta preparate, in realtà possono avere anche un ruolo estremamente forte, dare uno
stimolo importante a persone come i giovani studenti che ancora non hanno per la stessa brevità
della loro vita elaborato un senso proprio del passato: vivono una specie di grande presente e
hanno difficoltà spesso a capire che cosa sia la storia, voi sapete benissimo che la storia è per
loro il libro di storia. Invece se la fonte orale viene preparata questo serve a far capire che il
passato non esiste più, che la storiografia è ricostruzione, e questo viene fatto con un materiale
particolarmente vivace perché non c'è dubbio che il materiale che noi chiamiamo "fonti orali" è
un materiale molto vivace, molto stimolante, capace di innescare quel meccanismo simile alla
curiosità antropologica: uno guarda al proprio passato come ad una plaga lontana, una cultura
diversa dalla nostra.
Quindi io parlerò di altro, e qui ringrazio Michele Battini perché non succede spesso di essere
introdotti così eloquentemente da chi parla prima di noi e lui ha toccato il punto che a me interessava discutere oggi, cioè il problema della memoria collettiva. Perché la memoria collettiva è
quella che noi, utilizzando le fonti orali, evidentemente ci troviamo di fronte assieme alla memoria
individuale. Io non penso, come qualcuno ha detto, che non esista una memoria individuale e
che esista, come diceva Maurice Halbwachs, soltanto la memoria collettiva o i quadri sociali della
memoria. Penso che esistano proprio degli specifici della memoria individuale molto interessanti.
Io oggi parlerò, invece, della memoria collettiva. Mi sembra interessante perché appunto la
memoria collettiva è qualcosa che, come diceva già prima Michele Battini, si pone di fatto sullo
stesso terreno della storiografia, elabora dei quadri interpretativi che vengono condivisi da una
comunità, da un gruppo, fino ad una comunità nazionale. E quindi è particolarmente interessante.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Quello che cercherò di fare è non soltanto di mostrarvi le deformazioni, quella tipica selettività
di cui già Battini parlava prima, che costruisce questi quadri di memoria collettiva, ma anche
cercare di capire come e perché queste deformazioni siano utili, quando le si utilizzino come fonte
storiografica.
Non so da dove partire, ma, visto che siamo qui a Pisa, qui vicino avete Santa Croce sull'Arno,
che è un famoso distretto di produzione del cuoio, dove ho fatto una ricerca tanti anni fa. La cosa
interessante era che io ero abbastanza all'inizio del mio lavoro sulle fonti orali e sulla memoria:
quindi trovavo che tutti dicevano più o meno la stessa cosa e, come succede in questi casi, ero
convinto di essere di fronte alla verità. A ciò che veramente è successo, cioè. Veniva fuori proprio
un'autorappresentazione della comunità dei piccoli produttori democratici che sostanzialmente
si articolava così: “A Santa Croce sull'Arno siamo riusciti a passare da una situazione di estrema
miseria ad una situazione di grande prosperità perché abbiamo sempre avuto delle qualità positive,
noi proprio come paesani: siamo sempre stati democratici, ci siamo fidati gli uni degli altri,
abbiamo concesso prestiti a chi ce li chiedeva e ,quando li abbiamo avuti, li abbiamo sempre
restituiti, anche se le cose erano andate male. Quindi siamo stati democratici, fiduciosi, oltre che
inventivi, brillanti, intelligenti: insomma ci siamo meritati il successo che abbiamo avuto”. Ora
questa cosa naturalmente è molto più articolata, ma la sto riducendo ad una specie di stereotipo.
Tra l'altro, curiosamente, in quel periodo lì facevo una ricerca a Scarperia, nel Mugello, dove si
producono ferri taglienti dal '300 e dove invece una secolare arte stava decadendo in modo
definitivo proprio mentre facevamo queste ricerche, 10-15 anni fa. La cosa interessante è che
lì la gente raccontava in questo caso una storia di insuccesso collettivo, ma con grandi caratteri
di somiglianza rispetto a quelli di Santa Croce, con l'unica differenza che erano rovesciati: "Noi
siamo andati male perché nessuno si è fidato degli altri, non siamo capaci di mantenere la parola
data, abbiamo sempre spiato i nomi dei clienti ai nostri amici e colleghi quando spedivano i
pacchetti con dentro le forbici, i coltellini, ecc., scrivendogli poi siamo disposti a fare la stessa
cosa, non so cosa, ma a 5 centesimi in meno, abbiamo per cinque volte fatto una cooperativa
per comprare collettivamente le materie prime, ma poi, tutte le volte, queste cooperative sono
fallite perché l'amministratore è scappato con la cassa e prima ha dato i nomi dei clienti ai singoli
coltellinai che hanno cominciato a fare concorrenza alla cooperativa per cui lavoravano. Insomma,
ci siamo meritati l'insuccesso".
Quindi, due visioni sostanzialmente speculari come sono speculari le vicende dei due paesi di
cui si parla. C’è da fare un piccolo inciso: spesso abbiamo solo le fonti orali per studiare delle
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
realtà come la piccola impresa, cioè non è vero che noi possiamo facilmente utilizzare fonti orali
e fonti di altro tipo. La piccola impresa non tiene archivi, non conserva nulla e quindi spesso
dobbiamo utilizzare le stesse interviste non solo per ricostruire questi quadri della memoria
collettiva, ma anche per assumere delle informazioni che non vengono spesso utilizzate nella
costruzione della memoria collettiva e che ci servono, anzi, in qualche modo come un grimaldello
o una leva per falsificare i risultati della memoria collettiva. E allora, dalla massa di altre
informazioni non strutturate, per così dire - memoria individuale, memoria che non è stata
inglobata in questi quadri molto coerenti della memoria collettiva - da queste informazioni appariva
come in realtà la vicenda fosse molto più complessa in entrambi i paesi. Cioè appariva come in
realtà a Santa Croce, per esempio, non tutti si erano fidati. C'erano anche quelli che avevano
organizzato delle truffe clamorose, facendo fallire delle persone, ma erano, come dire?, stati
cancellati. È venuto fuori anche che, se si rendevano i prestiti, questo succedeva perché in un
piccolo mondo chiuso, monoculturale, se uno provava a fare questo non avrebbe mai più avuto
prestiti un'altra volta, quindi se un'altra occasione si fosse presentata, nessuno gli avrebbe dato
i soldi: sostanzialmente questa sorta di ricostruzione del successo fatta a partire da una virtù
civica condivisa e diffusa veniva smentita dalle stesse cose che venivano raccontate dalle singole
interviste. Per converso, a Scarperia veniva fuori come in realtà non era vero che non si fossero
mai fidati, perché tra l'altro, se per cinque volte avevano fatto la cooperativa di produzione,
evidentemente per cinque volte si sono fidati fino al punto di costruire questa cooperativa. I
motivi della crisi erano di diverso tipo ed erano determinati proprio dal tipo di prodotto, dal tipo
di impatto di una legislazione che limitava la lunghezza delle lame, ora non sto a farla troppo
lunga, ma insomma da una serie di vincoli esterni al paese, di tipo economico, giuridico, ecc.,
che avevano praticamente reso il mestiere sempre più difficile, fino a strozzarlo. D'altra parte,
invece, a Santa Croce era ovvio che questo paese aveva una situazione estremamente più
articolata di persone che collaboravano, che si fidavano, di persone che non si fidavano, di persone
che rendevano i soldi per bontà d'animo, oppure per calcolo, di persone che davano i soldi per
bontà d'animo o per calcolo. Abbiamo ricostruito degli interessantissime genealogie familiari
produttive in cui si vedeva come in realtà funzionasse il meccanismo del prestito - ora parlo dal
punto di vista di chi il prestito lo concede - perché apriva delle possibilità in un mondo in realtà
produttivamente molto complesso. Si vedeva per esempio che una famiglia dove due fratelli
andavano a lavorare, aprivano delle concerie e assumevano i figli degli altri fratelli; poi le concerie
andavano male e i figli degli altri fratelli aprivano delle altre concerie, nelle quali entravano i
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
nipoti e i cugini di una terza generazione. Alla fine il successo era di nuovo, al contrario di quanto
appariva nella memoria collettiva, il risultato di una situazione molto articolata, molto mobile,
molto basata sull'interesse. Fondamentalmente il successo era premiato da vincoli esterni e
positivi, dal fatto che esisteva, al contrario che nei coltelli, una crescente domanda di pelli per
il mercato, non più soltanto della scarpa, ma anche dell'abbigliamento, c'era un intreccio con la
moda, c'era un'apertura ed effettivamente, come hanno scoperto gli storici dell'economia che si
sono focalizzati sulla piccola impresa nei distretti industriali, la piccola impresa su base quasi
familiare tra l'altro si rivelava essere estremamente flessibile, perché non aveva tempi morti,
perché non doveva licenziare in periodi di magra, ecc. Quindi le stesse fonti orali ci hanno dato
contemporaneamente sia la memoria collettiva, sia gli elementi per rendere il quadro più complesso
e in qualche modo falsificare anche la memoria collettiva. Credo che sarebbe un errore se ci si
fermasse a questo livello, nel senso che, a questo punto, si tratta di scoprire come mai la memoria
collettiva, come diceva Roman Jakobson, in realtà funziona attraverso dei filtri, delle sorti di
censure preventive della comunità e lascia passare alcune informazioni e alcune memorie, ed
altre no.
Credo che, prima di tutto, questo avvenga per costruire un quadro tranquillizzante e quindi abbia
un ruolo proprio nel funzionamento del distretto industriale. È bene fidarsi in una situazione in
cui tutto sommato fidarsi è qualcosa che funziona e premia e, d'altra parte, questo tipo di
schematizzazione e chiusura di tutte le spiegazioni che non siano controllabili all'interno della
comunità, di nuovo, ci fa capire quanto isolate fossero queste comunità, quali deficit culturali,
proprio nel senso dell'informazione, ci fossero. Insomma erano comunità dove la gente doveva
aver a che fare con un erratico mercato internazionale e spesso sapeva a malapena leggere e
scrivere, si trattava di intervenire su un mercato sconosciuto. Ora è chiaro che questo tipo di
ricostruzione assolutamente centripeta ci fa capire molto di una comunità che non era capace
per molto tempo di comprendere quali erano i meccanismi esterni e quindi lavorava sugli elementi
che poteva dominare. La memoria collettiva centrata sul villaggio, sul paese, sulle loro qualità
ci dà l'idea proprio di una comunità che per molto tempo agisce in un contesto internazionale e
non riesce a padroneggiare le dinamiche e i meccanismi, i vincoli di questo contesto. La stessa
cosa la vediamo a Scarperia, anche lì esiste un mercato internazionale, una concorrenza
internazionale, ma l'unica cosa che gli abitanti e i produttori di Scarperia possono realmente
padroneggiare sono le dinamiche locali, e quindi coerentemente costruiscono un quadro che è
anche in quel caso tutto centripeto, sia pure di segno negativo invece che positivo.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Questo tipo di funzionamento della memoria collettiva, in realtà, noi lo possiamo estendere e lo
troviamo in moltissimi altri contesti. Prima Battini parlava appunto della memoria ebraica. Venendo
al problema della guerra, abbiamo per un periodo lavorato insieme in un progetto che si occupava
delle stragi di civili durante la seconda guerra mondiale, “la guerra ai civili”, secondo il titolo di
un fortunato libro che Michele Battini e Paolo Pezzino hanno scritto anni fa. Anche io mi sono
occupato di questo problema delle stragi con un libro su Civitella in Val di Chiana: anche in questo
caso è molto interessante vedere come la memoria collettiva si comporti, perché quando io
cominciavo a studiare queste cose, appunto nel caso di Civitella in Val di Chiana, rimasi colpito
da una comunità colpita durissimamente, da un piccolo paese dove quasi tutti gli uomini adulti
erano stati massacrati, e che aveva reagito a questo tipo di realtà, di evento tragico, con una
sostanziale cancellazione dei perpetratori concreti, cioè i tedeschi, i soldati della Wehrmacht,
sostituendo come responsabili i partigiani. Cioè aveva fatto dei partigiani gli unici responsabili
di quello che era successo. In quella situazione mi sembrava che si trattasse di un'eccezione.
Ho scoperto poi, invece, mano a mano che la ricerca è andata avanti, perlomeno in Toscana, che
questo tipo di atteggiamento nelle zone colpite da stragi, che sono tutte zone di collina alta o
di bassa montagna, e di comunità contadine, è abbastanza diffuso. Certo, non dappertutto questa
memoria collettiva arriva a cristallizzarsi in una sorta di ideal-tipo evidentissimo, come a Civitella
in Val di Chiana, quindi in un certo senso è stato positivo per me partire dall'esperienza di Civitella;
ma si trovano dovunque tracce di questo tipo di spostamento, di cancellazione dei responsabili,
di individuazione di veri e propri capri espiatori, proprio nel senso tecnico della parola, come gli
ebrei medievali che venivano uccisi quando c'era la peste, secondo il meccanismo del capro
espiatorio come spostamento su un elemento interno-esterno alla comunità, da colpire di fronte
all'impossibilità di colpire il vero responsabile, che nel caso delle pesti era un bacillo, nel caso
delle stragi di civili erano i soldati tedeschi. Non a caso, tra l'altro, nella memoria collettiva i
tedeschi venivano di nuovo privati di umanità e responsabilità e assimilati nel racconto a forze
naturali: le metafore sono il leone, il temporale, insomma elementi feroci e crudeli dell'ambito
naturale che non si devono sottovalutare, non si devono stuzzicare, se no non si sa come
reagiscono. Quindi i responsabili sono quelli, i partigiani, che sono umani, sono interni-esterni,
si conosce e si sa chi sono, e quindi hanno una fisionomia che permette di colpirli. Naturalmente
questi capri espiatori poi variano, perché possono essere i partigiani, ma in alcuni casi sono altre
figure, per esempio un sacerdote che non era presente alla strage. In un paesino sull'Appennino,
Biagioni, il sacerdote, che era anche fascista, non era presente alla strage, aveva una gran paura
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
di tornare in paese perché era rimasto traumatizzato, ed è stato scelto lui come responsabile:
“Lui era d’accordo coi tedeschi, li ha fatti venire, tant'è vero che lui non l'hanno preso”. Ma a San
Miniato, per esempio, è stato scelto il vescovo, che di nuovo era senz'altro un vescovo molto
sbilanciato in favore del fascismo e della Repubblica Sociale, ma che poveraccio aveva semplicemente
benedetto il suo popolo in Duomo poco prima che esplodesse la famosa granata, o bomba che
fosse. Da lì è nata questa leggenda, che poi l'ha ucciso rapidamente nel dopoguerra, che lui fosse
d’accordo con chi aveva messo la bomba dentro la chiesa e che fosse andato via con tutti i preti
apposta per farla saltare. In altri casi, sono dei trecconi, cioè dei trafficanti nella campagna, che
vengono scelti come capri espiatori. In alcuni casi sono alcuni partigiani e non tutti i partigiani;
in alcuni casi sono addirittura i partigiani e la popolazione che accusano altri partigiani di essere
i responsabili. Insomma il meccanismo dell'attribuzione varia, ma fondamentalmente è comune
questa cancellazione dei responsabili veri e la scelta di qualcuno che in realtà al massimo poteva
essere visto come un comprimario, ma certamente non come il responsabile. Di nuovo, cosa ci
racconta questa memoria collettiva? È chiaro che non è vera, è chiaro che di fronte a queste
spiegazioni il compito dello storico è quello di stabilire perché vengono fatte le stragi. Una volta
che questo viene fatto, però, la scelta della comunità di spiegare tutto con elementi disponibili
in loco è molto significativa, ci dice molte cose. Io ne dico soltanto due. Per esempio, ci dà di
nuovo il senso incredibile dell'isolamento. È un documento importante, una specie di fossile, di
come fossero ancora immaturi i rapporti tra i contadini, e soprattutto le contadine, e i partigiani.
Quindi ci permette, se volete, di sfuggire a quell'anacronismo che in altre zone più fortunate
perché non ci sono state le stragi si è prodotto negli anni subito successivi. Qual è l'anacronismo?
È il fatto che in realtà le contadine e i contadini aiutano i partigiani, ma con un atteggiamento
all'inizio abbastanza ambiguo, ed è ovvio che sia così. Del resto, come sono i partigiani all'inizio?
Il partigiano non è uno che viene unto dal Signore e improvvisamente si trasforma, subisce una
palingenesi e fa la sua esperienza di lotta di liberazione. In realtà la Resistenza, come tutti gli
eventi storici, ha una faticosa gestazione fatta di errori: i partigiani sono, all'inizio, dei giovani
fascisti, diseducati dal fascismo, privi di qualunque senso di responsabilità nei confronti delle
popolazioni rurali, che si portano dietro un pregiudizio anti-contadino che addirittura è molto
precedente al fascismo. E i contadini sono delle persone ignoranti, spaventate dagli armati, che
hanno un rapporto con la guerra estremamente poco positivo, perché hanno vissuto la prima
guerra mondiale spesso senza capirci granché. Hanno visto che la guerra ammazza, sanno bene
che la armi fanno male. E di fronte ai partigiani, all'inizio, hanno un atteggiamento per cui gli
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
danno da mangiare, ma glielo danno perché i partigiani sono armati e anche per meccanismi più
complessi: perché sono cristiani, perché c'è anche un elemento superstizioso e pensano che,
aiutando questi giovani in difficoltà, qualcun altro aiuterà i loro figli, chissà, in un altro posto del
mondo dove sono in guerra. Insomma si tratta di una situazione che è molto lontana da come
spesso viene raccontata nelle memorialistiche partigiane in cui i contadini sembra che non
facessero altro che aspettare i partigiani.
Ci sono anche degli elementi di ingiustizia sociale molto forte e i partigiani rappresentano, alcuni
di loro almeno, alcune formazioni e sopratutto quelle garibaldine, una grande speranza di
trasformazione. Ma guardate che questa è una cosa che riguarda una minoranza dei contadini,
come riguarda anche una cospicua minoranza delle formazioni partigiane. Questa situazione viene
fuori piuttosto dalla letteratura e spesso, prima di queste ricerche, ci trovavamo di fronte a
letterati che avevano rappresentata questa situazione ambigua, complessa, sia dal punto di vista
del partigiano che ancora non è un partigiano e lo sta diventando, sia dal punto di vista dei
contadini che all'inizio hanno un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti della Resistenza
nella sua fase aurorale. Pensate al Partigiano Johnny, ai Piccoli maestri. Tutto questo, poi, in altre
zone più fortunate è stato cancellato da un anacronismo dovuto al fatto che spesso gli stessi
giovani partigiani che erano stati aiutati durante la guerra di liberazione, subito dopo la guerra
sono diventati degli attivisti politici e hanno partecipato insieme ai contadini alle grandi lotte che
hanno scosso e distrutto l'antichissimo sistema della mezzadria, in Toscana per esempio. Quindi
questa maturazione dei contadini e dei partigiani, questa evoluzione, questo esito politicamente
vittorioso, anche se non socialmente vittorioso, perché poi i contadini, come ben sapete, non
hanno ottenuto la terra, in realtà ha spesso funzionato come un anacronismo, una rilettura del
passato dove sembrava che entrambi i partecipanti, giovani partigiani e contadini, fossero dall'inizio
quasi predestinati ad incontrarsi in un modo trionfale. In realtà, nel risentimento e nei meccanismi,
se volete anche nella piccineria della memoria collettiva delle zone colpite da stragi, noi troviamo
proprio una traccia di questi rapporti come erano realmente fino al 1944, prima che appunto il
prosieguo della storia cambiasse i quadri sociali della memoria e quindi desse anche la possibilità
di rileggere i comportamenti in un altro modo: “Noi abbiamo dato da mangiare ai partigiani
perché noi da sempre siamo stati comunisti”.
La memoria collettiva ci permette di nuovo, secondo me, di comprendere invece quanto fosse
chiuso l'orizzonte di chi abitava in questi paesi, soprattutto delle donne, perché gli uomini almeno
andavano a fare il servizio militare, mentre le donne vivevano veramente in un mondo in qualche
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
modo preistorico, nel senso che la famiglia, il gruppo, il clan, il paese erano tutto il loro orizzonte.
Quando questo viene colpito così violentemente, inevitabilmente si ribellano con violenza all'idea
di essere considerate martiri della Resistenza, invocano invece un'immagine di sé e dei propri
morti come vittime sacrificali. Spiegano falsamente la storia e bisogna - questo è ancora un
indizio di un orizzonte ristretto alla comunità o alle comunità circostanti - che “il colpevole sia
tra di noi”, se no non capiscono, non c'è nessuna possibilità di capire il comportamento erratico
di una grande armata come la Wehrmacht, che decide sulla carta, per motivi che sono quanto
di più distante ci sia dalla situazione delle donne contadine, dalla loro situazione mentale, di
colpire e di fare una strage in un posto perché forse lì hanno ammazzato qualcuno, o forse perché
lì si può passare attraverso le linee e quindi possono passare le spie alleate. Insomma vengono
fatte le stragi a tavolino, in questo modo, ed è interessante appunto mettere a confronto le
motivazioni delle stragi, quando riusciamo a ricostruirle, e le motivazioni delle comunità, per
vedere che abisso interpretativo ci sia tra la scelta dell'esercito con questi quadri assolutamente
astratti, mutevoli, effimeri, e queste comunità che non possono pensare che la loro disgrazia sia
dovuta ad un colpo di penna fugace di un ufficiale che ha deciso così, estemporaneamente, di
colpire perché forse può servire.
Io volevo parlarvi anche dei repubblichini, perché questo tipo di deformazione della memoria
collettiva e l'uso che se ne può fare si ripete in tutte le situazioni, anche le più diverse. Per
esempio, molto in sintesi, tutti i repubblichini raccontano: "Noi siamo andati a combattere perché
volevamo andare incontro alla bella morte", ed in realtà anche questo non è vero. Se poi voi
guardate le testimonianze, vi rendete conto che la motivazione è molto più comprensibilmente
legata all'universo fascista del giovane milite repubblichino che decide di andare con la Repubblica
Sociale, e quindi ha in mente il fascista della prima ora, “quando eravamo pochi”, la rigenerazione
del fascismo. La bella morte fa parte di questa retorica del fascismo della prima ora e di tutti
quei miti di rigenerazione del fascismo che troviamo presenti nel ventennio e che poi, appunto,
hanno un grande inveramento all'inizio della Repubblica Sociale. Ma non sono veramente la
motivazione, cioè non è vero che loro partono sapendo di essere sconfitti come saranno sconfitti.
Di nuovo, non sono le loro interpretazioni, ma le informazioni che troviamo nelle testimonianze
che ci danno la distanza tra questa rappresentazione collettiva di tipo eroico, e invece l'esperienza
reale che ciascuno di loro ha avuto, e quindi hanno avuto tutti, di una catastrofe assolutamente
senza nome.
Dopo il 25 aprile si vedono circondati da un odio fortissimo e provano il trauma della sconfitta,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
il trauma della possibile fucilazione, il trauma di un'Italia che per loro era assolutamente
inimmaginabile e che è uscita dal fascismo, che ripudia in modo completo quel fascismo che per
loro rappresentava tutto l'universo, i confini del loro mondo, tutta la loro capacità di progettazione,
di autoprogettazione. Questa è la cosa che poi crea una sorta di anacronismo, per cui loro
sostengono di aver saputo fin dall'inizio come andava a finire. Di nuovo la memoria collettiva,
questa volta dei repubblichini, ci permette di capire chi erano i repubblichini: tra l'altro, un altro
anacronismo, prima del Movimento Sociale, prima di tutta quella orgia di simboli un po’ macabri
di busti, di pellegrinaggi, delle vicende del corpo di Mussolini, dei labari, dei gagliardetti,
dell'esperienza degli esiliati in patria, come si sono definiti: quando in realtà poi la scelta, tutto
sommato, non era una scelta così carica ideologicamente, ma era quasi la continuazione di
un'educazione, di un'esperienza che avevano praticamente esperito fin dalla più tenera infanzia,
prima dell'esperienza minoritaria del Movimento Sociale.
Volevo anche parlarvi degli working class heroes. In due parole, qui a Cascina avete le figure di
Comasco Comaschi, anarchico, oppure Pietro Gori, anarchico, Lanciotto Ballerini probabilmente
anarchico e sicuramente azionista, anche se oggi è stato trasformato in proto-comunista, ma i
rapporti che lui aveva erano con il Partito d'Azione. Sono tutti personaggi che hanno un'aura
eroica. Vivono in periodi diversi: Gori muore nel '13, Comasco Comaschi muore all'inizio del
fascismo, Lanciotto Ballerini muore proprio all'inizio della Resistenza, il primo gennaio del 1944.
Pensate a Pietro Gori, era un anticlericale viscerale, le sue tesi sulla Chiesa sono interessanti da
un punto di vista della retorica tardo-risorgimentale ancora prima che anarchica, sui preti, i vizi
dei preti. In realtà fu fatta anni fa, negli anni '70, da Liberovici un'inchiesta all'Isola d'Elba ed è
straordinario vedere come quegli antichi 80enni, ormai morti da un pezzo, che avevano visto
Pietro Gori raccontassero aneddoti su di lui come un santo cristiano, che dava ai poveri, che
parlava sempre col prete, che di nascosto andava in chiesa quando non lo vedeva nessuno, che
era stato anarchico “ma sa, perché l’era tanto bono”. E Comasco Comaschi la stessa cosa. Comasco
Comaschi era uno che i fascisti di Cascina non riuscivano ad ammazzarlo, a picchiarlo, perché,
se arrivavano in dieci, li picchiava tutti e dieci, se arrivavano in venti, li picchiava tutti e venti,
era una specie di colonna umana e l'ammazzarono infine con una rivoltellata mentre passava
su una carrozza. Anche con lui la memoria collettiva compie la stessa trasformazione: lui
organizzava gli orfanelli, dava da mangiare agli orfanelli, è proprio come San Francesco. E Lanciotto
Ballerini la stessa cosa, perché pescava i pesci con le mani e li distribuiva ai poveri, faceva il
macellaio - anzi come tutti quelli di Campi Bisenzio il macellaio clandestino, di contrabbando -
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
e preparava cartocci di carne e li portava alle famiglie povere. Allora, di nuovo, questo è forse
un po’ più banale, ma dà l'idea del contesto all'interno del quale avvenivano la predicazione di
Pietro Gori, la militanza di Comasco Comaschi e la prima esperienza partigiana di Lanciotto
Ballerini. Ci dà il senso di una permanenza di quadri proprio antichi di rappresentazione, per cui
il sovversivo e il rivoluzionario è un santo. Questo, tra l'altro, ci permette di capire cose che a
me sono sempre sembrate strane, per esempio una certa retorica un po’ insopportabile delle
canzoni e delle prediche di Pietro Gori, che ho sempre trovato terribilmente melense. Ma in realtà
le due cose si tengono, stanno insieme, di nuovo è la memoria collettiva che costruisce delle
immagini non vere, perché non possiamo pensare che Pietro Gori fosse un cripto-cattolico, sarebbe
assurdo. Ma è interessantissimo che lo si pensasse e soprattutto che lo si sia ricordato così,
perché questo ci dà un forte quadro di contesto anche per chi voglia studiare Pietro Gori.
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Aspetti della memorialistica femminile della deportazione
Marta Baiardi
Istituto Storico della Resistenza in Toscana
Sono grata dell’occasione di essere qui, in questa giornata promossa dalla Provincia di Pisa e dal
Centro per la didattica della storia, perché venendo dal mondo della scuola so bene che negli
ultimi anni le iniziative di riflessione rivolte agli insegnanti che partano dalla ricerca e ritornino
alla scuola e poi dalla scuola in un circolo virtuoso tornino alla ricerca sono abbastanza rare.
Si preferiscono occasioni celebrative o solo di immagine; oppure inutili scuole-quadri di didattica.
Mi sembra che questa giornata invece abbia il grande pregio di connettere scuola e ricerca.
Ma vengo subito alle ragioni per cui sono stata chiamata.
Mi sono occupata di memorialistica della deportazione femminile ed in particolare dei testi degli
anni '40, che non sono molti: nell'ambito italiano sono solo cinque. Per capire come sono nati è
necessario che io dica qualcosa sul dopoguerra, agevolata dalle riflessioni che ha fatto prima
Battini.
Quando la guerra finisce, una guerra come la seconda guerra mondiale, così totalizzante e così
pervasiva, ci sono moltissimi reduci. Anzi tutti (e tutte) sono in qualche modo reduci dalla “propria”
guerra, perché tutti hanno avuto modo di sperimentare e vivere una qualche dura realtà, anche
se non si sono mai mossi da casa propria. C’è stata infatti “la guerra ai civili”: il coinvolgimento
feroce dei civili che ovunque, sul territorio, ha rappresentato una delle tristi novità di questa
guerra.
Nel dopoguerra italiano, quindi, questa varietà di reduci pone moltissimi problemi di ogni genere,
anche di scelte politiche. I reduci sono tanti, troppi e ci si fida poco di loro, per tante ragioni.
Sono reduci i combattenti e i prigionieri della guerra contro gli anglo-americani; sono reduci i
partigiani, i perseguitati politici, i perseguitati razziali, gli “internati militari” (i seicentomila
prigionieri di guerra italiani in Germania catturati dopo l’8 settembre), i militari e i militanti di
Salò e certamente anche i civili.
Affrontare seriamente il problema dei reduci e le loro richieste e rivendicazioni comportava un
riesame collettivo della partecipazione italiana alla guerra mondiale (anche di questo ci ha parlato
prima Battini) che la guerra fredda insorgente certo non favoriva.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Così il problema dei reduci, come osservava tempo fa Rochat a proposito della memorialistica
degli internati militari, fu accantonato con tacito accordo comune e concessioni di modeste forme
di assistenza. Soltanto le associazioni partigiane più politicizzate riuscirono ad ottenere un certo
ruolo, sia pure a prezzo di varie lacerazioni interne.
Questo è il paesaggio in cui tutte le figure che riemergono da questa tragedia storica si collocano,
le figure che hanno avuto la fortuna di riemergere, che non sono morte o che non hanno avuto
troppi lutti.
Naturalmente le figure inermi dei deportati e delle deportate, quei pochissimi che sono tornati,
si vengono a trovare molto molto sullo sfondo. Noi dobbiamo fare uno sforzo di ricostruzione
verso la situazione di allora, perché oggi gli ex deportati hanno acquisito un loro posto nella
memoria nazionale, che invece negli anni '40 non avevano. Prevalse allora nel discorso pubblico
e nell’immaginario collettivo la figura vincente del partigiano-maschio-armato a cui “ogni donna
dona un sospir”, come diceva la canzone Fischia il vento.
In questo dopoguerra così vario, in ogni caso dunque, nasce un grande desiderio di raccontare,
proprio per la qualità traumatica che i vissuti di ciascuno hanno assunto. Nell’Orologio Carlo Levi
fa dire a un suo personaggio che in tempo di guerra non c'era più “la noiosa vita di ogni giorno”
e tutti avevano condotto “la propria guerra soli, in un mondo ostile, pieno di imboscate e di
terrori”. È proprio quello che tutti vogliono raccontare.
Anche Calvino, molti anni dopo, nel '64, nella prefazione al suo romanzo resistenziale, Il sentiero
dei nidi di ragno, ritorna su questa smania del racconto: "La rinata libertà di parlare fu per la
gente al principio smania di raccontare. Nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone
e pacchi di farina e bidoni d'olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che
gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle mense del popolo, ogni donna nelle code
ai negozi. Il grigiore della vita quotidiana sembrava cosa di altre epoche. Ci muovevamo in un
multicolore universo di storie."
Questa faccenda del raccontare in treno la ricorderà poi anche Primo Levi parlando del primo
dopoguerra. Quando era pendolare per lavoro anche Levi pare che in treno attaccasse bottone
con tutti, raccontando le proprie tristi vicende. Insomma, c’è questa smania di raccontare.
Naturalmente i reduci e le reduci dai campi di sterminio trovano pochissimo ascolto, perché si
tratta di un'esperienza le cui sequenze tragiche radicali non appartengono, non possono appartenere
al mondo del picaresco, non hanno un lieto fine, spesso e volentieri non hanno neanche una fine,
almeno in questi primi racconti, quindi trovano pochissimo spazio. C'è un rifiuto (assai penoso
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
per chi lo subisce) verso l’ascolto di queste vicende di deportazione, rifiuto che è stato analizzato
abbastanza di recente dalla storiografia e dalla memorialistica, con riflessioni iniziate intorno agli
anni '80. Penso per esempio alla importante raccolta di storia orale realizzata a Torino
alla metà degli anni '80, La vita offesa (a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla, Milano, 1986).
C'è stato poi, sempre a Torino, organizzato dall’ANED un convegno, dedicato proprio alle difficoltà
del ritorno (diventato poi un libro nel 1993, Il ritorno dai lager, a cura di Alberto Cavaglion che
è oggi qui con noi), in cui emergevano tutte queste vicende che io molto velocemente ho riassunto:
il non-ascolto, l’affiorare di questo dispiacere muto da parte degli ex deportati e delle ex deportate
per non potere trovare un loro spazio.
Liana Millu, ebrea pisana (si chiamava Millul in realtà ma aveva tolto la "l" dal proprio cognome),
allora giovane donna molto indipendente e fiera, si era trasferita a Genova ed era entrata dopo
l’8 settembre nella resistenza. Fu arrestata in una missione a Venezia e poi deportata ad Auschwitz
ed è una delle donne che hanno scritto la loro esperienza nel lager già negli anni '40.
Quando la Millu ritorna a casa, cerca di riferire qualcosa a sua zia di ciò che le è capitato:
"Qualche volta le venivano gli occhi lucidi, al mio racconto, ma mi interrompeva sempre.
Sovrapponeva ai miei ricordi i suoi, che erano quelli di una sfollata, e a lei sembravano tremendi,
a me sembravano acqua di rose. Cominciavo già a convincermi che la gente non poteva capire."
Così anche un'altra resistente, Lidia Beccarla Rolfi, deportata a Ravensbrück, al ritorno ha gravi
problemi di comunicazione persino con la propria madre. Sulle donne ex deportate gravava infatti
un disagio in più, legato ad una forma di disapprovazione sociale per essere sfuggite dal controllo
familiare (che talvolta si traduceva in vergogna): i ritorni delle donne sono dunque diversi da
quelli degli ex deportati uomini. Aleggia sulle reduci dai lager un sospetto di violazione sessuale,
come se l’essere state via “in Germania”, come si diceva allora, avesse fatto loro perdere la buona
reputazione, patrimonio più che mai necessario per le biografie femminili degli anni '40.
La madre di Lidia Beccarla Rolfi, che è una contadina, si vergogna della figlia. La Rolfi parla di
ciò in un bellissimo libro tardivo (è del 1996), L'esile filo della memoria. Ravensbrück, 1945: un
drammatico ritorno alla libertà (Torino, Einaudi). E’ un libro molto doloroso che merita di essere
conosciuto anche per questi aspetti di genere meno indagati. Insomma la madre si vergogna,
esorta la figlia reduce ad andare a messa e ad andare a confessarsi e la figlia non le può dire
nulla. La madre le rimprovera: "Prima vai coi partigiani, poi in Germania. Sei lo scandalo della
famiglia". Anche le amiche di Mondovì di Lidia la schivano perché è percepita come diversa: è
stata “in Germania”. E lei stessa ha difficoltà con loro: “parlavano di cinema, di attori, di cantanti
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
che non conoscevo, non parlavano mai della guerra, come se non l'avessero vissuta”.
Non manca neanche il commento aspro e diffidente di un comandante partigiano - Lidia frequenta
questi ambienti per fame di comunicazione - che le dice: "Deportata? Le partigiane si fanno
uccidere, non si fanno prendere prigioniere."
Un altro esempio di questa casistica: Dora Venezia, una ebrea genovese reduce da Auschwitz
dove ha perso quasi tutta la propria famiglia. Arriva alla stazione Principe a Genova il 22 settembre
1945, con una grande pancia gonfia per la denutrizione. C'è un centro di accoglienza proprio
nell’atrio della stazione; c'è un prete che si sta occupando dello smistamento di quelli che tornano
in città. "Mi presentai. Lui, vedendo la mia pancia gonfia, mi disse: - Tu! Vai da quello che ti ha
messa incinta…! - Non potevo credere alle mie orecchie. Lo lasciai perdere, mi misi a dormire
per terra nella stazione."
A tutte queste difficoltà, specifiche dell'universo femminile, si aggiungono per tutti, donne e
uomini, le inadempienze dello stato verso i deportati: una qualche prima forma di risarcimento
avverrà soltanto nel 1968. Possiamo concludere dunque con la riflessione che mancò nel dopoguerra
una messa in comune di questa esperienza estrema dei lager, sottraendo al discorso pubblico
nazionale questo aspetto.
Quando questa memoria emergerà (verso la fine degli anni ’80) sarà tardiva e sarà segnata anche
da questo suo essere tardiva.
La portata stessa dell’olocausto rendeva difficile un processo di “messa in comune”. Ciò infatti
non succede solo in Italia; la stessa mancanza di una precoce rappresentazione collettiva del
genocidio, come fulcro dell'ideologia e del regime nazista, è stata rilevata anche in Francia, negli
USA e persino in Israele. In Francia, per esempio, la deportazione fu percepita nel dopoguerra
come un unico grande fenomeno nazionale indistinto (cfr. gli studi di Annette Wieviorka). Solo
molto più tardi si connetteranno le fisionomie delle nostre società, la loro stessa “modernità”
(forme di razionalità produttiva, amministrativa, il ruolo della burocrazia) con certi aspetti della
Shoah.
In questo contesto sono dunque spiegabili questi ritorni molti difficili, contrassegnati da un’assenza
di comunicazione generalizzata.
Eppure questi ex deportati scrivono lo stesso e scrivono anzi fin da subito. In Italia tra il '44 e il
'47 scrivono gli uomini ma scrivono anche le donne, pur sostenute assai poco dal contesto. Spesso
gli ex deportati sono anche malfermi di salute, devono riprendersi, fare delle cure. Devono anche
fare i conti con i loro lutti, le perdite che trovano al loro ritorno. Eppure in tanti, malgrado tutte
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
le difficoltà di questa situazione, fanno la cosa più improbabile: scrivono.
Ci sono, tra il '44 e il '47, ventotto scritti di memoria: undici nel '45, quattordici nel '46, e tre
nel '47. La circolazione di questi libri avviene in un ambito molto ristretto; fa parte di questi primi
scritti di memoria composti "a caldo” anche Se questo è un uomo, sottoposto alla stessa bassissima
diffusione. Inoltre sono spesso scritti autoreferenziali, pubblicati con case editrici piccole, talvolta
esse stesse frutto del primo associazionismo degli ex deportati, come l’editrice Associazione ProReduci e Derelitti, che devolve i soldi ai suoi orfani.
Poi dal '48 al '52, come è stato evidenziato da Anna Bravo e Daniele Jalla che hanno studiato
per primi questa memorialistica (cfr. Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione
dall’Italia (1944-1993), Milano, 1994), c'è una fase di grande silenzio che corrisponde alla guerra
fredda, alla ricostruzione e forse anche, nelle biografie dei protagonisti superstiti, ad una fase
di oblio e di riedificazione del proprio destino.
Le memorie delle donne sono assai poche: nel ’93 su centoquarantanove scritti di memoria quelle
femminili ammontavano a una ventina; fra gli scritti pubblicati negli anni '40 (ventotto), ce ne
sono cinque stesi da donne che hanno subito l’esperienza della deportazione. C’è un sesto scritto
della polacca Pelagia Lewinska, deportata ad Auschwitz che viene pubblicato assieme a quello
di Luciana Nissim.
Ci sono poi nel panorama italiano altre pubblicazioni relative alle persecuzioni razziali, anche di
donne, ma non deportate.
Questi scritti femminili di memoria hanno navigato, come quelli maschili, nella più totale assenza
di pubblico e di ricezione, fino a quando il movimento femminista verso gli anni ’70 non le ha
fatte parlare.
Come è avvenuto per la riflessione sulla Resistenza, dove nel 1976 un libro-chiave (La Resistenza
taciuta - una raccolta di interviste a dodici partigiane curata da Rachele Farina e Anna Maria
Bruzzone) ha riaperto la discussione sulla presenza delle donne nel movimento partigiano e sulla
specificità di quell’esperienza, così è accaduto per la deportazione femminile. Le donne di
Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane (Torino, 1978) nasce dal rapporto e
dal lavoro di una delle due autrici della Resistenza taciuta, Anna Maria Bruzzone (che di mestiere
faceva l’insegnante) con l’ex-deportata di Mondovì, Lidia Beccaria Rolfi.
Anche questo scritto è a quattro mani ed anch’esso viene fuori da una intensa e fattiva relazione
tra donne nel contesto della grande riscoperta da parte del movimento femminista della importanza
della soggettività. Le due autrici fanno parlare queste donne ex deportate. Nello loro voci risuona
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
una esperienza tanto dolorosa quanto variata; emergono specificità e rilevanze fino ad allora
poco conosciute e indagate.
Tanto più preziose risultano le testimonianze di quelle prime cinque memorialiste.
Sono la livornese Frida Misul; Luciana Nissim, arrestata e deportata insieme con Vanda Maestro
e Primo Levi; l’ebrea senese Alba Valech Capozzi, che ha perso quasi tutta la sua famiglia ad
Auschwitz; poi Giuliana Tedeschi Fiorentino e Liana Millu, l’ebrea di origine pisana di cui dicevo
prima.
Le prime cinque memorialiste italiane sono tutte ebree e tutte e cinque hanno raccontato la loro
esperienza di deportazione appena tornate. I loro scritti di memoria vengono infatti pubblicati
tra il '46 e il '47.
Inoltre queste cinque donne sono tutte abbastanza vicine per età anagrafica. Quando vengono
deportate non sono più ragazzine. Liana Millu e Giuliana Fiorentino sono nate nel '14; nel '16
Alba Valech; nel '19 Luciana Nissim e Frida Misul. Due di loro sono già sposate; Giuliana Tedeschi
ha anche due figlie che vengono fortunosamente salvate; Alba Valech è sposata con Ettore
Capozzi, che ama teneramente, come si evince dal suo scritto; Luciana Nissim è già medico,
laureata; Giuliana Tedeschi aveva cercato di insegnare ed era stata cacciata a causa delle leggi
razziali; Frida Misul fa la cantante a Livorno; Liana Millu ha una vita molto autonoma: dopo aver
fatto la maestra a Volterra, cacciata anche lei dall’insegnamento a causa delle leggi razziali, per
un certo periodo fa l’istitutrice a Firenze e poi per amore si trasferisce a Genova; entra nella
resistenza e in seguito viene arrestata a Venezia durante una missione.
Questi sono solo alcuni cenni molto sintetici sulla vita di queste donne fino al momento della loro
deportazione, che in ogni caso rappresenta per tutte loro un trauma potentissimo. Ma al momento
della partenza queste donne hanno già per età, esperienze di vita e cultura strumenti con cui
possono provare ad interpretare - e desiderano farlo - questa loro esperienza dell’estremo.
Sono ebree, come ho detto, e scrivono prima delle deportate politiche, anche perché probabilmente
le comunità ebraiche appena riemerse dalla tragedia funzionano almeno in parte da alveo per
questa esperienza. Queste donne sono accolte e sono forse meno fraintese delle loro compagne
deportate politiche.
Un'altra cosa che accomuna le nostre cinque memorialiste sono i percorsi: sono finite tutte e
cinque ad Auschwitz-Birkenau. I rimpatri invece sono stati molto differenziati, anche se nessuna
di loro è ad Auschwitz il 27 gennaio, quando le truppe russe aprono i cancelli del lager. Chi prima
e chi dopo sono state tutte trascinate verso occidente dal ripiegamento nazista del fronte, alcune
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
hanno dovuto affrontare la “marcia della morte”.
Quando tornano in Italia si confrontano con gravi lutti: Giuliana Fiorentino ha perso il marito in
deportazione e ha le due figlie piccole da crescere; Liana Millu è sola, non riesce assolutamente
ad inserirsi nel tessuto pisano, andrà poi a vivere a Genova dove non avrà vita facile; Alba Valech
ha perso quasi tutta la sua famiglia; insomma ognuna trova le proprie difficoltà, ma in ogni caso
si mettono a scrivere.
Questo scrivere è una scelta che ha evidentemente a che vedere con una possibilità di salvezza.
Liana Millu lo descrive in un libro molto tardo (I ponti di Schwerin, Poggibonsi, 1978), in cui parla
di questo Tagebuch, un quaderno trovato durante il fortunoso viaggio di ritorno, nel periodo della
sua “tregua”, per dirla in termini leviani. Liana Millu comincia subito a tenere questo diario a
ridosso della sua esperienza.
L’autrice non ha mai chiarito bene in che misura quel Tagebuch le servirà poi per redigere il suo
libro. Possiamo immaginare che quelle prime note rappresentino una prima stesura di qualche
appunto poi rielaborato.
Quando la Millu torna a casa le va tutto malissimo; va malissimo anche l'amore: è stata lasciata
dal suo fidanzato partigiano che nel frattempo si è pure sposato con un’altra. Va malissimo a Pisa
con le zie; non ha più niente. Un brutto giorno racconta di avere anche rasentato il suicidio. Ad
un certo punto - noi non sappiamo se veramente sia stato così, magari l'ha salvata qualcuno o
qualcos'altro, ma è interessante in ogni caso la reinterpretazione - lei dice che è la scrittura che
l’ha salvata; questo piccolo Tagebuch è diventato per lei "una vivida schiarita interna". Scrivere
diventa un modo per riformulare la propria identità, un mettere in comunicazione due mondi,
quello che si è vissuto e che si è percepito come una orribile esperienza (“la casa dei morti” della
Nissim) e il mondo a cui si ritorna. Scrivere presuppone fare i conti con ciò che si è conosciuto
e darne la “mala novella” al mondo. Naturalmente queste motivazioni non valgono solo per le
donne.
Sui testi dirò pochissimo perché il tempo vola. Solo una breve caratterizzazione per ciascuno.
Qui non è tanto in questione una analisi estetica: ci sono alcuni testi più belli, altri meno. Ciò
che mi interessava era angolare questi scritti per vedere come fossero riusciti a farsi portatori
di questa esperienza estrema.
Il più straordinariamente visionario è quello della livornese Frida Misul, visionario già nel titolo:
Fra gli artigli del mostro nazista. La più romanzesca delle realtà, il più realistico dei romanzi. È
un volumetto di 47 pagine, pubblicato nel '46 a Livorno, che si avvale nella raffigurazione del
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
vissuto dell’autrice di un linguaggio metaforico-visionario molto acceso. E' un libro arrabbiato,
pieno di invettive. Non c'è una data, solo quella della morte della madre della Misul, che rappresenta
nella scansione interna del tempo narrativo il momento iniziale, il punto a quo da cui cominciano
tutte le disgrazie per la protagonista. Non ci sono date “pubbliche” - questo è un dato comune
di queste memorie - non è mai richiamata la politica generale; la Storia, come aveva intuito la
Morante, è davvero lontana dalle storie di queste vittime.
Anche nel libro di Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo, poi rimaneggiato molti anni dopo e
così diverso dal primo poter essere considerato altra cosa (C’è un punto della terra… Una donna
nel lager di Birkenau, 1988) non c'è una data, nemmeno una.
Nel libro della Misul spesso non si capisce neanche se è giorno o notte. C’è un succedersi di quadri
terribili e la metaforizzazione si avvale di espressioni infiammate, come abbiamo visto nel titolo:
il mostro nazista. Mussolini è così il “tragico istrione supergallonato, ...aiutato allegramente da
una cricca di ignobili ladri, di lenoni e di lubriche sgualdrine”. Hitler è “il criminale trasudante
sangue innocente”.
Queste donne si trovano nella necessità di dover rappresentare il non rappresentabile e ognuna
utilizza l’impianto figurativo-metaforico che conosce e di cui dispone.
Dalla Misul, per esempio, il crematorio viene presentato in termini favolistici prima di sapere che
cosa è davvero: "il crematorio, con la sua luce strana e meravigliosa, è un fantastico castello,
con meravigliose sale scintillanti di lampade e di specchi, popolate di dame bellissime e di galanti
cavalieri...”
Quando subentra l’agnizione, vale a dire quando l’io narrante capisce che le persone nel lager
vengono uccise tramite gasazione e poi se ne cremano i cadaveri (questa agnizione è un momento
molto importante nelle memorie, sempre presente come un topos del narrato e non solo in queste
autrici), ebbene per la Misul allora il crematorio da castello delle favole diventa “un mostro, avido
di sangue umano”.
Frida Misul nel 1980, sollecitata dal Comune di Livorno, pubblica un'altra sua testimonianza,
(Deportazione: il mio diario) con numerose varianti rispetto al primo libro degli anni ’40. È molto
interessante lo studio di queste varianti, perché dà conto dei cambiamenti di sensibilità intervenuti
e degli aggiustamenti della memoria individuale e collettiva. Una possibile pista di lavoro può
essere costituita dall’esplorazione di ciò che sparisce nel secondo testo o di quanto viene aggiunto
rispetto al testo originario. Per esempio, l'indicazione che nel dopoguerra la Misul aveva dato per
certa, di essere stata arrestata a causa di una spiata della sua insegnante di canto, nel secondo
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
libro non c'è più. Compaiono invece a distanza di tanti decenni - e la Misul non è l'unica in questa
scelta - episodi della vita del lager assai più terribili di quelli già narrati. Compaiono anche in
numero maggiore dettagli e nessi causali. La narrazione più tarda è inoltre nello stile visibilmente
più pacata; l’accesa metaforizzazione si è stemperata a favore di una maggiore freddezza.
Il titolo del libro di Alba Valech Capozzi è un numero, il suo numero di immatricolazione, A-24029;
scelta che ha fatto anche Nedo Fiano per le sue recenti memorie (A 5405. Il coraggio di vivere,
Varese, 2003), segno del peso indelebile della nuova identità assunta nel lager. Anche per la
Valech la data a quo della sua narrazione è quella traumatica - ma privata - dell'arresto e della
deportazione di quasi tutti i membri della sua famiglia, poi uccisi. In un primo tempo l’autrice si
salva perché ritiene di rientrare nei “misti”: ha una nonna materna non ebrea e un marito “ariano”.
Ma non mi dilungherò su questa vicenda pure molto interessante dal punto di vista del funzionamento
e dell’arbitrarietà delle normative persecutorie. Quello della Valech è un bel libro, molto peculiare
perché composto in una scrittura intimistica, il cui fulcro è proprio questa attenzione dell’io
narrante verso il proprio mondo interiore. L’autrice non si stanca mai di comporre un dialogo
anche con il marito lontano e riesce a “vedere” e a restituirci anche i tanti incontri che popolano
la sua deportazione in una chiave piena di compassione e di mitezza.
Luciana Nissim scrive i Ricordi della casa dei morti. Lo scritto della Nissim è pubblicato dall’editore
Vincenzo Ramella di Torino nel 1946 insieme con quello (tradotto dal francese) della deportata
politica polacca Pelagia Lewinska, Venti mesi ad Oswiecim, un memoriale pervaso da un accesissimo
nazionalismo, dove non c'è una parola della Shoah. Il titolo complessivo del libro è Donne contro
il mostro e porta la prefazione di Camilla Ravera.
Luciana Nissim vive ad Auschwitz un'esperienza per certi versi privilegiata: è medico e lavora
al Revier di Birkenau (lei scrive Birchenau col "ch" e non con la "k"). Ma è anche un’esperienza
terribile perché assiste a molte morti sperimentando la totale impotenza di curare. La Nissim
descrive le terribili malattie che falcidiano le deportate, ma è colpita soprattutto dalla sorte dei
neonati, “proibiti” ad Auschwitz e sempre destinati alla morte, e delle loro madri, che spesso si
trovano nell’infelice situazione di dover scegliere se uccidere loro stesse i loro figli o vederli in
ogni caso morire di stenti o per mano altrui. Al suo ritorno la Nissim studierà pediatria quasi a
riparazione, come lei stessa dirà, delle cose terribili viste a Birkenau.
Giuliana Fiorentino Tedeschi pubblica Questo povero corpo nel 1946 presso una piccola casa
editrice milanese, la Edit. L’autrice è una insegnante di materie letterarie. Io ho avuto in uso al
ginnasio una sua ottima grammatica di latino, la Tedeschi-Borelli.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
La Fiorentino Tedeschi farà l'insegnante per tutta la vita. Quando va in pensione, da settantenne
rielabora quel suo primo scritto di memoria, a distanza di ben quarantadue anni. È questo secondo
il libro suo più noto e non si chiama più Questo povero corpo, come il primo, ma C'è un punto
della terra: una donna nel lager di Birkenau. Anche qui non solo di un rimaneggiamento stilistico
si tratta, ma di una vera e propria reinterpretazione della propria esperienza. Il libro viene
accresciuto; sul nucleo di quella prima scrittura autobiografica cresce un altro testo che del primo
diventa quasi un'esegesi. Nel primo libro il tema del corpo emerge, e non solo nel titolo; l’autrice
descrive che cosa diventano questi corpi: "....corpi scarniti, macilenti si trascinavano a fatica
sugli arti, corpi ridotti letteralmente a scheletri, in cui la pelle si infossava in cavità paurose, corpi
interamente piagati da foruncoli e dall'espulsione della avitaminosi e della scabbia. Le gambe
non potevano sorreggere…”. Il primo libro della Tedeschi è la storia della sua strenua resistenza
al progetto nazista: il tentativo dell’io narrante di contrastare il dominio totalitario sul corpo con
i mezzi che potevano essere dispiegati in una situazione di inferiorità totale. La Tedeschi racconta
di aver resistito, per esempio, riuscendo a crearsi un piccolo gruppo di persone a cui fare riferimento
e con cui mantenere rapporti improntati a umanità e a solidarietà; ed anche di come fosse
importante recitare poesie, ricordare teoremi, mantenere in vita forme anche minime di spiritualità.
Il fumo di Birkenau di Liana Millu è il più letterario fra gli scritti di memoria usciti negli anni ’40
ed anche il meno autobiografico. Si tratta di sei racconti, sei storie di donne, ciascuna impegnata
in una lotta disperata che va sempre a finire in uno scacco. L’io narrante consiste in sguardo
attento e vigile. Il libro della Millu è l’unico fra questi scritti ad avere avuto, sia pure tardivamente,
molte traduzioni e un certo successo, soprattutto a partire da una edizione della Giuntina degli
anni ’80 in cui il libro veniva riproposto con la prefazione di Primo Levi.
Nell’analisi di questa produzione memorialistica femminile non bisogna cedere ad improvvide
suggestioni essenzialistiche. In altre parole non sembra sostenibile che le donne nei lager abbiano
sofferto più degli uomini né che abbiano avuto un "di più" su altri piani, per esempio sul piano
delle relazioni come risorsa. Occorre al contrario essere fedeli alla varietà di esperienze e di
approcci che le stesse testimonianze ci restituiscono. Per esempio Liliana Segre, deportata
tredicenne da Milano, che non ha scritto un vero e proprio memoriale ma è una delle testimoni
ancora oggi molto attive (una sua recente testimonianza è ora contenuta nel volume, Come una
rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, curato da Daniela
Padoan, Milano, 2004), ha sempre detto che nel lager, dopo la perdita del padre, rifuggiva da
legami e relazioni. In altre parole i destini non sono stati uniformi e come tali vanno accolti.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Quello che il lager è stato in grado di fare agli uomini - questo sistema programmatico di
annichilimento della identità corporea, esistenziale e sociale delle persone internate - lo faceva
anche alle donne. Si è perpetrata nel sistema concentrazionario una riduzione delle persone alla
loro nuda vita.
Le esperienze delle donne sono molto interessanti quindi se si guarda alla loro specificità, il
famoso grembo freddo e la rana d'inverno della poesia di Primo Levi. Ma le donne non sono fuori
dal quadro generale: l'annichilimento era per tutti ed anche gli strumenti di resistenza che
potevano o non potevano essere messi in atto, o le capitolazioni, in questo contesto erano gli
stessi. Credo che il lager abbia funzionato da questo punto di vista come una grande orribile
macchina di parità.
Se è vero che il dominio esercitato sui corpi fa sbalzare in primo piano la nuda vita, cioè gli
avvenimenti “biologici”, allora è forse in questo ambito che vanno collocate le esperienze femminili.
Dunque molto importante in tutte le memorie femminili è il tema della maternità, e non solo per
le donne che hanno avuto figli ma per tutte. Ad essere ferita con la maternità infatti è anche la
stessa domesticità, vissuta dalle donne come contesto protettivo e venuta totalmente meno nel
lager.
Il nazismo è contro la maternità, anche prima e fuori del lager: la maternità libera non può essere
vissuta da chi appartiene alle “razze” ritenute inferiori ma soltanto dai membri della Volksgemeinschaft, la comunità di sangue razzialmente pura, purché i soggetti siano ritenuti sani. Esistevano
infatti, come sappiamo, progetti di ingegneria genetica con cui manipolare anche “ariani” e
“ariane” ritenuti portatori di malattie ereditarie e nocive alla società.
Ma nel mondo concentrazionario non deve generare proprio nessuno, per ragioni razziali o perché
ci si trova lì solo per fornire lavoro schiavile.
I destini del materno nei lager sono tutti terribili. Cercherò di farne una narrazione molto in sintesi
anche perché i fatti sono ampiamente noti ed inoltre soffermarsi sul terribile non serve.
Dunque le donne ebree incinte sono destinate ad essere gasate immediatamente. Quelle che non
hanno voluto dichiararlo all’arrivo (o che non sapevano di essere incinte) hanno corso il rischio
di partorire dentro il lager. I parti sono molto raccontati nelle memorie femminili e non solo in
quelle italiane. Nei nostri scritti femminili di memoria degli anni ’40, le narrazioni di parto si
trovano nei testi di Giuliana Fiorentino Tedeschi e di Liana Millu.
Nella Tedeschi c'è una giovane ungherese, Edith “dai capelli tizianeschi ” che partorisce clandestinamente. Il bambino viene messo in una scatoletta, perché non poteva assolutamente risultare.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Nella Millu (nel racconto La clandestina) la fragile Maria senza un lamento e con grande ostinazione
porta avanti la gravidanza in condizioni impossibili fino al parto, che avviene di notte dinanzi a
tutte le donne della baracca, partecipi e sgomente dopo una fase di ostilità iniziale; ma Maria
muore poco dopo dissanguata e con lei il neonato.
Nella descrizioni da un lato questi parti rappresentano una grande trasgressione, già di per sé
nel desiderio che questa nuova vita venga alla luce; dall'altro vanno a finire nel modo più tragico
possibile. Questi bambini non hanno scampo: sono i nulla, figli della morte, come l’Hurbinek della
Tregua di Levi.
Le madri sperimentano dunque la spaventosa evenienza di non poter avere né curare né mantenere
in vita i propri figli.
Essere deportate coi figli piccoli voleva dire morire immediatamente. Qui può esserci solo il nostro
silenzio. Essere invece deportate con i figli adolescenti in età da poter essere immatricolati
significava andare incontro ad altro genere di sventure.
Ruth Klüger, una sopravvissuta che ha pubblicato le sue memorie tardivamente (Vivere ancora.
Storia di una giovinezza, Torino, 1995), fu deportata con la madre e ci racconta le paurose
oscillazioni di questa donna. La sua mamma la prima sera - la sera del loro arrivo ad Auschwitz
- propose a Ruth, che aveva allora 12 anni, di suicidarsi buttandosi entrambe contro il filo
elettrificato. Nel libro la Klüger dice di non avere ancora perdonato a sua madre questa spaventosa
proposta. Poi questa mamma, la stessa che aveva auspicato il loro duplice suicidio, ad un certo
punto nel lager “adotta” un’altra bambina che era rimasta sola; la tiene con sé, la protegge, le
fornisce aiuto in tutti i sensi.
Si salveranno tutte e tre e quella bambina “adottata” nel lager sarà davvero come una seconda
figlia. Ruth Klüger stessa dice: "È la mia sorella".
Come possiamo capire è la realtà concentrazionaria a rendere tutto molto contraddittorio e quanto
mai ambivalente. In ogni caso, essere deportate madre e figlie insieme crea una torsione molto
speciale nei rapporti, che aveva già notato De Benedetti e che viene ripresa da Anna Maria
Bruzzone, nel libro frutto di un convegno del 1994 a cura dell’ANED di Torino, che si intitola, La
deportazione femminile nei lager nazisti. Succede che, mentre nel corso “normale” delle nostre
vite le figlie sono destinate a diventare protettive verso le proprie madri solo quando queste sono
vecchie e hanno attenuato gradualmente la loro funzione materna, nel lager c'è un'inversione
dei ruoli tanto innaturale quanto violenta e inaspettata. Ciò che avviene in natura nel corso di
decenni, nel lager avviene nel corso di poche settimane. E allora può capitare (e ci viene raccontato)
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
che le figlie adolescenti siano infastidite o affrante dalla presenza della propria madre indebolita,
umiliata e richiedente.
Queste madri, non giovanissime ma neppure vecchie, in pochissimo tempo davanti alle figlie
diventano bisognose di protezione e non più in grado di esercitare alcuna funzione materna. Si
crea uno stravolgimento radicale: il mondo capovolto del lager è anche questo. I legami più intimi
subiscono queste torsioni violente. Si creano dunque e serpeggiano in questi figli e figlie adolescenti
intensi e quasi inconfessabili desideri di parricidio e di matricidio. Anche Elie Wiesel racconta i
suoi sentimenti parricidi verso il proprio padre indebolito e richiedente e naturalmente se ne fa
una colpa.
In ogni caso questi rapporti stravolti causano talvolta dei veri e propri crolli dei legami affettivi
più intimi. Non sempre, ma nel lager può capitare di assistere a quella che Elisa Springer chiama
"la totale disfatta dei sentimenti".
Infine c’è un ultimo tema, a proposito del materno, su cui desidero soffermarmi.
In due di questi libri degli anni '40 c’è quella che potrebbe definirsi come "la leggenda della madre
salvata". Due delle nostre scrittrici, Giuliana Fiorentino Tedeschi e Liana Millu, raccontano con
alcune varianti la storia di una donna anziana che arriva al lager e che viene salvata in modo
fortunoso quanto leggendario. Essere anziane è pericolosissimo: si rischia infatti o di essere
selezionate subito o di arrivare molto velocemente ad essere uccise in ogni caso per la velocità
del deperimento. Questa donna non più giovane incontra nel primo racconto (Fiorentino Tedeschi)
un prigioniero, nel secondo (Millu) un Posten, un guardiano. Questi incontri avvengono in una
situazione di estremo pericolo per la donna: nel primo caso è l'arrivo alle rampe per la prima
selezione, nel secondo caso è addirittura l'ingresso della camera a gas.
Questa donna non più giovane non si rassegna al suo destino e guarda fisso negli occhi il giovanotto
che sta per mandarla a morte. C'è la presenza in entrambe le nostre scrittrici di questo lungo
sguardo che questa donna in età rivolge al ragazzo e poi un gesto; lei afferra i polsi del ragazzo
e gli dice con l’autorevolezza e la solennità di un comandamento biblico: "Io sono tua madre".
Allora questo giovanotto si trasforma. Subisce una sorta di conversione interna. Anche questo
aspetto viene raccontato da entrambe le nostre autrici e quasi con le stesse parole.
Il giovanotto mutato nell’intimo, a sua volta guarda questa donna-madre autorevole e decide
di salvarla. Nella narrazione della Tedeschi egli addirittura professa anche con le parole il suo
riconoscimento e dice: "Adesso anch’io ho una madre". È come se questo sguardo materno avesse
un enorme potere pedagogico: il potere di rinnovare profondamente il giovanotto (il figlio) che
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
fino ad un momento prima invece era cinico e svolgeva con estrema indifferenza il suo lavoro
mortifero.
Dunque il giovane figlio si rinnova e a sua volta fa qualcosa per la madre: le salva la vita. Nel
secondo caso la donna verrà perfino chiamata nel lager "Maria del miracolo", a causa di questo
episodio straordinario.
La presenza di questa narrazione non ci deve fare credere che le cose potessero andare veramente
così. Anzi tutto lascia credere di trovarsi in presenza, come avrebbe detto Bloch, di una “falsa
notizia”, una vera e propria leggenda creatasi nelle condizioni estreme del lager. La realtà era
molto lontana dalla “madre salvata”. Vi rimando al libro di Nedo Fiano, uno scritto di memoria
uscito da poco tempo, che ho già citato prima. L’autore è un ebreo arrestato a Firenze e
sopravvissuto ad Auschwitz (unico ad essere ritornato della sua numerosa famiglia). Fiano è
abbastanza noto come testimone perché è stato spesso intervistato dalla televisione in occasione
delle commemorazioni del giorno della memoria. Inoltre ha anche partecipato ad un documentario
sui sopravvissuti italiani prodotto dal CDEC di Milano, Memoria, con la regia di Ruggero Gabbai.
Con efficacia drammatica sia nel libro che nelle sue svariate testimonianze Fiano ha raccontato
le cose orrende che succedevano alla rampa di arrivo, luogo dove si svolge una delle versioni
della leggenda della madre salvata. Fiano era infatti addetto al commando (gruppo di lavoro)
che doveva far scendere le persone dai treni ordinatamente, tenerle tranquille, far loro depositare
i bagagli sulla banchina allo scopo di facilitare la procedura della selezione iniziale per la gasazione.
In particolare Fiano racconta nel suo libro quello che succede ad una donna anziana, che senza
alcuna esitazione viene uccisa seduta stante, perché ha manifestato un minimo accenno di
ribellione e non voleva scendere dal vagone.
Sembra il perfetto contraltare di questo racconto della madre salvata, narrato dalle nostre
narratrici. La leggenda probabilmente assolve una funzione riparatoria. Questo materno così ferito
e così stravolto nella realtà del lager, nell’immaginario ha dato vita invece a questa figura di
madre di forza inaudita. Questa madre salvata è una sorta di risarcimento simbolico: come se
l'ordine del mondo potesse essere restaurato con l’esistenza, almeno sul piano della leggenda,
di questa donna potente che non ha subito la violenza dell’ordine nazista attraverso le semplici
parole: "Io sono tua madre", rivolte ad un ragazzo-figlio che ha obbedito a lei e non agli ordini
degli aguzzini.
Altre cose di cui vi avrei voluto parlare a proposito della condizione delle donne deportate sono
legate alla faccenda delle mestruazioni. Farò solo un cenno. C'è un'amenorrea diffusa nei lager,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
a partire da quando si arriva, quasi subito, dovuta a ragioni organiche (stress, fame, disagi). Ma
anche su questo circolano false notizie. La falsa notizia, che moltissime accolgono come vera
anche al loro ritorno, è che il sistema concentrazionario fornisse alle donne delle medicine per
fare cessare le mestruazioni: ma non è vero, sembra largamente non vero, non dimostrato.
Anche questa diceria e la sua straordinaria fortuna sembrano avere lo scopo di alleggerire la
realtà: piuttosto che assistere impotenti al proprio corpo che subisce mutazioni così strane è
forse più facile sul piano simbolico attribuire la responsabilità a una persecuzione precisa voluta
e programmata dai nazisti. È molto difficile infatti accettare l'anonimato dello sterminio e anche
la sua disumanizzazione.
L'ultimo punto riguarda la violabilità sessuale femminile, molto presente nelle memorie, anche
se in una dimensione di estremo pudore. Esiste questa possibilità, esistono donne stuprate, anche
donne ebree malgrado la Rassenschande. Sono state raccolte testimonianze a questo proposito
anche dal Museo di Washington.
Le donne memorialiste, combattute tra il discredito sociale che si trovavano ad affrontare al
ritorno e queste tristi realtà, in molti casi su questo aspetto hanno scelto di tacere. Ma non tutte.
Per esempio, nel libro di Liana Millu questo versante che attiene alla violabilità è presente come
uno dei tanti drammi a cui le donne potevano andavano incontro nella loro deportazione.
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40 - BIANCA
Per un buon uso della memoria
Alberto Cavaglion
Istituto storico della Resistenza in Piemonte
Cercherò di essere il più sintetico possibile, ma devo fare una premessa di carattere generale.
Vorrei approfittare del fatto che questo incontro si svolge a ridosso della Giornata della memoria,
e questo è probabilmente un bene, per condividere con voi perplessità più che certezze (sugli
usi o più spesso sugli abusi) della memoria che si sono visti in questi anni e rivisti in questa
ultima edizione della Giornata della memoria. In tono non polemico e non malevolo, assolutamente,
ma possibilmente costruttivo.
Esiste ormai una piuttosto ampia bibliografia, che non è stata molto discussa in Italia, ma che
in Francia soprattutto ha avuto ampia circolazione: tutta una serie di testi volti a metterci in
guardia contro gli eccessi della memoria. Dal saggio famoso di Charles Mayer, che è stato tradotto
anche in italiano nel volume monografico Memoria della rivista di Claudio Pavone "Parole-chiave"
(n.9, 1995), che è un saggio di cruciale importanza per i temi che vogliamo trattare, ad un libro
che è stato tradotto in italiano ma non è stato discusso per niente, di Georges Bensoussan,
L'eredità di Auschwitz (Einaudi, 2002), che nell'originale aveva un punto interrogativo, dubitativo,
e che contiene tante cose importanti, in particolare un capitolo sugli eccessi della memoria, molto
utile. Poi, soprattutto, notissimo, l'ultimo Todorov (Memoria del male, tentazione del bene:
inchiesta su un secolo tragico, Garzanti, 2001), che ha pagine molto importanti e direi decisive
per i nostri problemi. La storia, ci dice Todorov, è sacrilega e le commemorazioni sono per loro
definizione sacralizzanti.
O meglio, le commemorazioni, le tante commemorazioni che ormai in Italia si fanno anche su
temi che avete visto in queste ultime ore, non necessariamente la Shoah, sono sempre l'adattamento
del passato ai bisogni del presente, che mi sembra un punto di partenza indispensabile e di cui
quest'anno, più che in passato, abbiamo avuto modo di renderci conto, a partire dalla visita di
Fini a Gerusalemme fino agli ultimi eventi. I rischi sono palpabili e da qui nasce l'inquietudine
con cui ciascuno di voi, ed in particolare chi vi parla, vive esperienze come quelle della Giornata
della memoria. Quello che penso l’ho scritto in un libretto di due anni fa, che ha suscitato, proprio
in relazione al binomio memoria-storia, qualche piccola, ma aspra discussione (A.Cavaglion, Ebrei
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
senza saperlo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2002).
Si esce, devo dire la verità, ogni anno con l'animo sempre più inquieto e preoccupato, per questo
generale effetto-brusìo che ci avvolge per un mese e continua ad avvolgerci poi per un anno,
quando entriamo nelle librerie.
È piuttosto impressionante - c'è qualcosa che non funziona, lo devo dire con molta sincerità e,
ripeto, con spirito costruttivo e non malevolo - nell'osservare in qualunque libreria Feltrinelli delle
nostre città questo settore sulla shoà che cresce a dismisura. Un mio amico, che di mestiere fa
il giornalista e s’occupa di novità editoriali, dice che questo è un fenomeno inquietante non meno
del numero di libri che si pubblicano su Padre Pio. La battuta è cattiva, ma non si allontana dal
vero: esprime un disagio, esprime un qualche cosa che è difficile definire, ma che certamente
ha dentro di sé qualcosa che non funziona. Anche perché è specularmente opposto - chi ha la
mia età può testimoniare per diretta esperienza - al vuoto assoluto che su questi temi in Italia
ancora si poteva osservare fino a tutti gli anni '80. L'87 de I sommersi e i salvati di Levi e ancora
di più la morte di Levi, "quella" morte, e poi la caduta del muro di Berlino sono le vere due datesvolta che segnano un cambiamento, ma un cambiamento che passa da un eccesso all'altro: da
un silenzio e da una smemoratezza ad un eccesso di memoria o, come io ripeto di solito, una
memoriosità, cioè un obbligo del ricordo, un po’ rituale, un po’ commemorativo. La via di mezzo
tra la smemoratezza e la memoriosità è ancora ben lungi dall'essere praticata. E dunque la
vigilanza secondo me deve essere attenta. Vi sono spesso rischi di banalizzazioni evidenti e, se
ne volete uno, io ho guardato con molto allarme e con molta inquietudine la partita di calcio
che si è giocata all'Olimpico con gli attori e i giornalisti e che aveva questo carattere di fortissima
banalizzazione: mi sembra l'esempio più eclatante di quello che sto cercando di dire. Accanto
ad altre cose, sicuramente molto buone, che si sono viste, e che portano invece ad una maturazione
soprattutto nel mondo della scuola.
Perché la partita più aspra, la partita più difficile, il cammino più in salita è quello che si svolge
nella scuola, è quello che gli insegnanti devono svolgere. È una strada piena di difficoltà, dove
vi sono dei rischi
impliciti, ed è su alcuni di questi rischi che io vorrei soffermare la vostra attenzione.
Il primo rischio importante, secondo me, è quello che va sotto la categoria generale della didattica
della Shoah, termine oggi molto diffuso, oggetto di convegni e di libri, ma da osservarsi in modo
molto problematico. Intanto, anche i nomi, le parole sono importanti. Io sono tra quelli che si
oppongono con molta energia all'uso ormai pervasivo della parola "olocausto", come credo molti
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
di voi; anche se il libro che Einaudi ha pubblicato nel 2002 (Vera Sullam Caimani, Le parole dello
sterminio), che è un libro utile perché ci racconta la storia e la preistoria dei termini che noi
adoperiamo, fa la storia del vocabolo "olocausto" così come è entrato nell'opinione pubblica
anglosassone e poi è arrivato anche da noi, e ci dice, molto laicamente, molto scientificamente,
che è una storia che ha una sua dignità, non è soltanto la fortuna dello sceneggiato americano
Holocaust, che poi è passato in televisione anche da noi. Però, certo, è una parola impropria,
non fosse altro perché, volendo significare un sacrificio, implica che a compiere il sacrificio siano
stati dei sacerdoti. Questa mi sembra una cosa che non sta in piedi.
Però io ho dei dubbi, lo devo dire con altrettanta sincerità, anche sull'uso del termine "Shoah",
ormai entrato nel senso comune, molto più politicamente corretto , che ritengo troppo esclusivisticamente ridotto all'ambiente ebraico, quasi che la fosse un problema che riguarda gli ebrei
soltanto e non tutti quanti noi insieme.
Dico questo per sottolineare che la didattica della Shoah ha dei rischi fortissimi se calca la mano,
come spesso capita nelle scuole, sugli eccessi.
Una didattica che si fonda sugli estremi non so se porta lontano. Io ho insegnato in tanti ordini
di scuole diverse, ma non ho mai dimenticato la reazione nella media dell'obbligo di uno dei
ragazzi più intelligenti che abbia avuto in classe, che al termine di un lavoro su Levi venne a
dirmi in separata sede: "Professore, abbiamo fatto un bel lavoro, funzionava tutto bene, però
io le posso garantire una cosa. Io non diventerò mai così cattivo come i personaggi di cui abbiamo
parlato stamattina, però le posso garantire che non diventerò nemmeno così buono, così positivo,
come molti dei personaggi che vengono rappresentati."
L'estrema bontà, come l'estrema cattiveria, le figure angelicate, gli eroi, i santi, i martiri da una
parte, e dall'altra i crudeli aguzzini, sono due estremi di questa storia e i rischi che io vedo sono
spesso quelli di una didattica che pone come unico obiettivo la focalizzazione su questi estremi
e non sulle vie mediane.
Levi, da questo punto di vista, è un autore straordinario perché per scelta estetica, prima che
etica, rifugge dall'urlo, rifugge dagli estremi e ci arricchisce con quell'enorme campionario che
un bravissimo critico inglese, che ha pubblicato il più bel libro su Levi, Robert Gordon, ha definito
l'universo delle virtù ordinarie (Primo Levi e le virtù ordinarie, tr.it. Carocci, 2003). Cioè il lager,
proprio come mondo capovolto, insegna non l'eccesso della virtù e non l'eccesso del vizio, del
male, non il male assoluto e non il bene assoluto, ma insegna e dilata oltre ogni misura le virtù
intermedie, mediane, ordinarie, che sono virtù filosofiche semplici e che rendono non del tutto
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
stravagante o irregolare un insegnante che a scuola insegni o aiuti gli allievi a leggere Se questo
è un uomo o insieme, o dopo, o prima, lavori come le Operette morali di Leopardi o La storia
della colonna infame di Manzoni o altri testi di filosofia, non dimenticando che Levi stesso ci ha
dato di quel suo primo libro la migliore definizione che dovremmo fare nostra: uno studio pacato
su alcuni aspetti dell'animo umano. Non un libro di storia, non un libro di letteratura, ma potremmo
dire un trattatello filosofico, un'operetta morale.
A Torino abbiamo tentato di fare - per brevità non posso enunciarla tutta, ma rinvio al sito
dell'Istituto di Torino dove lavoro, dove questi materiali sono facilmente scaricabili - abbiamo
provato a declinare quest'idea delle virtù ordinarie in una serie di unità didattiche per le scuole
dell'obbligo e per le scuole superiori.
Mi limito solo elencarvi quelle che sono queste virtù ordinarie che Levi aiuta a mettere a fuoco:
la mitezza, lo sguardo, il senso dell'utilità, l'umorismo - quella straordinaria dote che Levi aveva
di servirsi anche nella trattazione di una materia così spaventosa del registro della comicità o,
meglio ancora, come dice Gordon, dell'ironia, al riparo da qualunque strumentalizzazione o
banalizzazione. Non è il comico, non è la fiaba del libro o del film di Benigni, tanto per intenderci,
è un'altra cosa.
Dopo il preambolo di cui vi dicevo, lo studio pacato su alcuni aspetti dell'animo umano, il libro
inizia con: "Per mia fortuna sono stato deportato il 24 febbraio....". Voi immaginate un libro con
quei contenuti e che inizia con queste parole "per mia fortuna"? - e così via, l'errore, la dialettica,
l'infelicità e la felicità, la bugia soprattutto, o meglio il grande tema che ha esemplificazioni infinite
nella storia della letteratura italiana della pietosa bugia, della menzogna a fin di bene - raccontare
ad un compagno di prigionia malato che la sua è una malattia curabile: si può mentire in certe
situazioni, si deve mentire a fin di bene, per nascondere una malattia, per illudere un compagno
di baracca condannato a morte certa - la capacità di secernersi un guscio, la distinzione sottile
che c'è tra capire, voler capire e non voler capire, che è uno degli insegnamenti più alti di quel
libro, l'uso del senso comune, l'avere uno scopo nella vita. Si potrebbe declinare questo atlante
di virtù mediane: il guardare, lo sguardo, per esempio, il distinguere le figure del bene da quelle
negative dalla capacità o dall'incapacità di guardare.
I cattivi, di solito, hanno uno sguardo trasparente, che penetra dentro gli altri come in un acquario,
oppure torcono il viso da noi, cioè girano lo sguardo.
Questo è uno dei punti. L'altra questione su cui vorrei suggerire un'ulteriore riflessione è la
questione dell'emotività e della soggettività.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Altro rischio molto diffuso, soprattutto con i bambini piccoli. A Torino abbiamo fatto, per questa
Giornata della memoria, un seminario che ha avuto molto successo per i maestri elementari, per
le scuole elementari, proprio perché io ero tra quelli che anche per iscritto, ai maestri elementari
che venivano ai corsi di aggiornamento chiedendo: “Ma che cosa si può fare nelle scuole elementari
su queste cose?”, avevano detto con una certa energia: "Nulla, oppure poco, oppure con molta
cautela”. E questo, quando l'avevo scritto in un articolo 5-6 anni fa, aveva suscitato tra i maestri
elementari tutta una serie di reazioni indignate e anche l'esposizione di progetti molto seri, che
poi mi sono stati presentati e che non nego che abbiano una loro efficacia, però la mia idea un
po’ ottocentesca di infanzia, di adolescenza, forse superata dalla moderna pedagogia, mi invitava
ad una maggiore cautela, ad una maggiore prudenza verso progetti didattici spesso, secondo
me, un po’ troppo interventistici, dove la mano dell'insegnante si piegava sull'infanzia cercando
di farla salire troppo presto nella maturazione, senza tener conto anche di aspetti collaterali,
come la crudeltà del bambino, per esempio, che è un elemento importantissimo nella scuola
dell'obbligo.
Questo per dire che la soggettività dell'insegnante, che per ricaduta è anche la soggettività della
ricerca storiografica su questi temi, è un problema che bisogna tener presente. A maggior ragione
se si parla naturalmente delle scuole superiori.
Io ho un po’ questa sensazione, anche qui isolatamente, in solitudine, a proposito del cosiddetto
riflusso: chi ha i miei anni sa che negli anni '80-'9 il rifiuto della politica è stato un tema molto
importante, che ha avuto ricadute nel mondo della scuola, proprio in direzione della soggettività,
facendo perdere di vista per tanto tempo i valori, invece, della politica, delle idee, dei progetti,
della concretezza politica. Nella scuola questa soggettività molto diffusa spesso ha portato anche,
scusatemi la facile ironia, a teorizzazioni di cose come la ego-storia, o il ruolo, l'intervento molto
forte dell'insegnante sul piano della sua soggettività, da mettere in comune con l’alunno.
Nulla di male in tutto questo, è normale: se non si fa così, probabilmente, non si instaura mai
un dialogo, un rapporto costruttivo coi ragazzi, però molto spesso anche qui ci sono degli eccessi,
non fosse altro che nella direzione di una perdita della politica, della concretezza della politica.
Allora, se noi vogliamo togliere questi temi, ed in particolare la persecuzione degli ebrei, da un
piedistallo metafisico e li vogliamo far tornare sul piano della storia, dei problemi, delle idee, dei
progetti, delle inclinazioni politiche degli individui, bisogna cercare di fare un passo indietro:
bisogna che la soggettività faccia un passo indietro e le idee politiche ritornino, perché, se no,
nel vuoto che lasciamo noi parlando della soggettività, c'è sicuramente qualcuno che la politica
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
la usa più rapidamente.
Quei vuoti che noi lasciamo, ingombrandoli con la nostra soggettività, vengono rapidamente
occupati da chi ha idee politiche e progetti politici tutt'altro che gradevoli e simpatici. Dico questo,
anche qui con molto candore, perché i primi passi politici in Italia che devono essere fatti in
questa direzione sono in direzione di una più chiara comprensione del rapporto tra ebraismo e
fascismo. Non si può spiegare ai ragazzi la favola che le persecuzioni e il rapporto tra ebraismo
e fascismo si esauriscano nel quinquennio tra il '38 e il '43, o peggio ancora nel solo biennio '43'45, quello delle persecuzioni fisiche, delle deportazioni. Purtroppo la storia è molto più complicata
e, come dice Todorov, sacrilega. Il rapporto tra ebraismo e fascismo è lungo, complicato come
in generale il rapporto tra italiani e fascismo, e molto più retrodatabile; ed è fatto di diversi gradi
di adesione, di complicità, talora anche di connivenze, di progetti politici concreti che hanno
determinato cose tutt'altro che di secondaria importanza.
In un libro che avevo pubblicato l'anno scorso ho messo il dito nella piaga, ricordando che si parla
del Concordato del '29 e nessuno mai ha ricordato, nelle tante storie dell'ebraismo in Italia, che
nel '29 ci fu un concordatone e nel '30 un concordatino, cioè una legge sui culti ammessi che
regolava, o meglio nazionalizzava le minoranze religiose, in particolare gli ebrei, che collaborarono
alla stesura di quel concordatino esattamente per ottenerne dei benefici, per dimostrare la loro
lealtà al regime proprio negli anni '31-'32 che sono quelli del maggiore consenso. L'ultimo punto
di riflessione un po’ problematica è quello che riguarda la “zona grigia”. Questo è un tema su
cui mi sto interrogando, non ho soluzioni definitive; però vorrei invitarvi a riflettere su come
questa categoria che Levi ha reso notissima con un capitolo del suo ultimo libro, "I sommersi e
i salvati", è entrata nel senso comune ed è diventata parte della nostra vita quotidiana, per
definire tante diverse cose che con la zona grigia che Levi aveva in mente, cioè quella zona
intermedia tra la vittima e il carnefice, non hanno più nulla a che fare.
La zona grigia riempie le pagine dei nostri quotidiani e non passa giorno che la vediamo applicata
a categorie storiografiche come l'attendismo nella storia della Resistenza, oppure nella discussione
sulla guerra civile nel '43-'45, ma, più in generale, essa comunque implica un giudizio morale
molto forte. C'è in proposito una lettura che consiglio a tutti di fare, recentissima, nel bel Dialogo
tra Vittorio Foa e Carlo Ginzburg, appena uscito da Feltrinelli, che ha tanti spunti interessantissimi:
le diverse polemiche giornalistiche si sono soffermate sulla cosa più esplosiva, cioè la rimozione
del gulag, in realtà c'è una pagina importante sulla zona grigia. Uno scontro molto forte tra due
generazioni, tra Vittorio Foa che dice: "Il grigio non esiste, quello che Levi chiama grigio per me
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
e per Levi stesso all'inizio era il nero", e Ginzburg che, secondo me è un po’ più capziosamente,
ma come altri hanno fatto, si adopera in una difficile difesa d'ufficio del grigio, dicendo che non
va esonerato dal giudizio morale, ma va considerato come una specie di giudizio analitico, come
una forma del pensiero.
Qui bisognerebbe entrare più nei dettagli, ma non vi è dubbio che in origine il capitolo di Levi
sulla zona grigia sia l'espressione di una figura, di un intellettuale, di uno scrittore, che aveva
ormai compiuto un lungo cammino ed era una persona molto diversa da quella che aveva scritto
il primo libro. Il capitolo "zona grigia", per quanto lo si possa difendere e sia giusto difenderlo
da ingiuste e ingloriose aggressioni, ha in sé implicito un fondo, una venatura pessimistica,
fortemente pessimistica. È ambiguo.
Il biografo di Levi, uno dei due biografi inglesi, Ian Thomson, ne ha raccontato i retroscena. Il
libro esce nell'87, nei giorni in cui era appena stato eletto in Austria il cancelliere Waldheim e le
polemiche dei giornali, in tutto il mondo, giocavano intorno al fatto della liceità di quell'elezione
e al fatto che in qualche modo Waldeim "il grigio" fosse andato al potere legalmente. Levi stesso
fu colpito dagli esiti imprevisti di questo suo intervento: non si aspettava probabilmente nemmeno
lui che quello che è quasi sicuramente un testamento spirituale, ma fortemente pessimistico,
potesse prendere una deriva di quel genere. Ci fu un articolo di Bocca in modo particolare, che
mi piace qui ricordare, perché ho visto che adesso da Feltrinelli Bocca ha ripubblicato le sue
memorie partigiane, mettendoci un'infuocata, sdegnata e per altro ammirevolissima rampogna,
come usa fare lui, contro i tempi calamitosi che stiamo vivendo, in cui però dice che la zona grigia
non esiste nemmeno durante la resistenza, erano tutti o di qua o di là, insomma una cosa molto
moralistica.
Il 10 giugno dell'86 invece, appena letto il capitolo sulla zona grigia, Bocca non solo scrisse su
“Repubblica” (G.Bocca, La via del perdono passa per Vienna, 12 giugno 1986) che la zona grigia
esiste, ma ne fa un bellissimo elogio e biasima come moralistica la “pratica che consente di
inchiodare un uomo al solo punto nero della sua vita”.. Insomma, scriveva Bocca a margine del
libro di Levi appena uscito, “con gli anni si diventa inevitabilmente padri e peccatori."
Cioè la zona grigia diventa una specie di luogo di lavacro delle coscienze, dove appunto tutti
siamo padri e peccatori. Questo non è giusto che
avvenga, non è bello, e tutta mia lunga
premessa è per dire: attenzione ad usare I sommersi e i salvati nel mondo della scuola, o a dire,
come è stato detto sui giornali, questo libro è "il messaggio nella bottiglia" che Levi ha lasciato
per il cittadino del terzo millennio. Su questo io non sono affatto d’accordo, perché credo invece,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
come dice Vittorio Foa a Ginzburg nel dialogo, che il messaggio ottimistico, la speranza nonostante
tutto e il messaggio nella bottiglia allo studente del terzo millennio sia il primo libro, non l'ultimo,
dove l'ottimismo solare della nuova creazione - l'ultimo capitolo di Se questo è un uomo è la
storia degli ultimi dieci giorni descritti come la creazione di un nuovo mondo, una nuova creazione
sulle ceneri del lager - è quella la strada giusta.
Invece dando in mano ad un ragazzo di 17-18 anni l'equivoco e l'ambiguo capitolo sulla zona
grigia o si fa a monte un discorso preparatorio, o si rischia di lasciar passare un'idea pessimistica
di umanità e una rinuncia stessa al valore della testimonianza. Perché nel capitolo della zona
grigia si dice esplicitamente che i veri testimoni non possono parlare, perché sono quelli che sono
finiti nel Sonderkommando e che quindi non sono tornati: sono tornati i peggiori e i peggiori non
possono recare una buona testimonianza.
Mi fermo qui, grazie.
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Storia/memoria in alcune riflessioni recenti
Mauro Moretti
Università per stranieri di Siena
Vorrei provare molto brevemente a chiudere il cerchio delle riflessioni di questa mattina, in parte
riprendendo anche alcuni spunti proposti da Michele Battini, relativi al rapporto fra forme
celebrative, commemorative e storiografia - cioè pratica in qualche misura codificata del mestiere
di storico - sulla base del rinvio a poche letture. Penso, in particolare, ad un interessante dibattito
ospitato nel 2003 dalla rivista "Vita e pensiero", promosso da Anna Foa con un saggio intitolato
Gli ebrei, Auschwitz e le insidie della memoria, al quale poi hanno risposto Gad Lerner ed altri
in un numero successivo1; e ad un libro di storia della storiografia otto-novecentesca di uno
storico francese, Olivier Dumoulin, Le rôle social de l'historien. De la chaire au prétoire2, che
tocca molto da vicino, dando anche varie informazioni specifiche, alcune questioni sfiorate appunto
nell'intervento di Michele Battini e che mi piace riprendere in questa sede. Mi riferirò dunque a
delle prese di posizione recenti nella discussione sul cosiddetto “uso pubblico della storia”, ed
anche a testi di storia della storiografia, riflessioni sullo stato dell'arte in rapporto ad alcune
tematiche particolari.
Scrive Anna Foa: "un brivido mi corre nella schiena quando sento nelle scuole parlare di ‘viaggiopremio ad Auschwitz3’". Brivido, spero, largamente condiviso. È una delle attestazioni del malessere
che credo segnalasse, nel suo intervento, anche Alberto Cavaglion4, legato ad eccessi, a prassi
discutibili, a cadute di stile, di tono, che del resto si rinvengono in tanti altri documenti. Al di là
delle buone intenzioni che possono animarli, anche alcuni atti ministeriali, ad esempio, potrebbero
essere ricordati in questo senso. Penso, solo per citarne uno, alla circolare 8 settembre 1999,
n. 241, relativa alla proiezione scolastica del film prodotto da Spielberg Gli ultimi giorni, nota
raccolta di testimonianze di sopravvissuti alla Shoah. La circolare è accompagnata da una lunga
guida alla visione nella quale, fra l’altro, si invitano gli insegnanti a discutere in classe “della
natura umana”. Difficile immaginare - o peggio, credo si possa immaginare benissimo - la concreta
1
Gli interventi di A. Foa, G. Lerner, P. Stefani, V. Strada sono in “Vita e Pensiero”, LXXXVI, 2003, nn. 5 e 6, pp. 92-97, 53-62.
Paris, A. Michel, 2003.
A. Foa, Gli ebrei, Auschwitz e le insidie della memoria, cit., p. 97; temo, del resto, che la Foa abbia ragione quando avanza il sospetto
non infondato, osserva la stessa autrice -, che gli ebrei piacciano soprattutto nel ruolo di vittime (p. 96).
4
Si vedano, del resto, le osservazioni proposte nei vari scritti raccolti in A. Cavaglion, Ebrei senza saperlo, Napoli, L’ancora del Mediterraneo,
2002.
2
3
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messa in atto di questa indicazione in una classe delle secondarie; e poi, non solo come battuta,
viene da interrogarsi sulla eventuale esistenza e sui caratteri di una antropologia ministeriale:
hobbesiana, rousseauiana, kantiana… e con il mutare dei ministri si modificheranno anche gli
indirizzi ministeriali sulla natura umana? Questo, per non dire di altre iniziative ‘promozionali’ segnalazione di videocassette commentate -, e più in generale di una serie di interventi propositivi;
mentre forse l’opera del ministero dovrebbe limitarsi alla erogazione a scuole ed insegnanti delle
modeste risorse necessarie a sostenere qualche attività integrativa della didattica più tradizionale,
esercitando magari qualche blanda forma di verifica consuntiva e a posteriori. Salvemini, nel
1953, polemizzava sulle ingerenze nell’insegnamento, e sulla figura dell’insegnante “menestrello,
che suol cambiar canzone secondo che cambia il capriccio della castellana5”; e l’avvertimento
suona sempre attuale, dal 1953 al 1999 ed al 2004.
Ma non si tratta solo di prassi, o di politica scolastica. Il fatto è che su questo terreno vengono
chiamati in causa alcuni aspetti centrali nella definizione della fisionomia disciplinare soprattutto
della storia contemporanea, in rapporto ad una forte committenza sociale; committenza non solo
scolastica, ma istituzionale in senso più lato, alla quale gli storici poi cercano di offrire risposte.
Dell'intervento di Anna Foa io qui riferirei un altro paio di spunti. Intanto, la sua riflessione sofferta
sul problema della ‘unicità’: una unicità, scrive la Foa, “a cui molti continuano ad aggrapparsi
come se rinunciarvi volesse dire banalizzare Auschwitz e non, come è stato sostenuto da altre
parti, debanalizzare gli altri crimini proprio attraverso il prisma di Auschwitz6”. Ma soprattutto
la dichiarata esigenza di proporre e di rafforzare “una visione più da lontano7”, capace di elaborare
istanze che rispondono a finalità diverse, quelle della conoscenza e quelle della morale, cercando
di andar oltre l’evocazione “dell'orrore fine a sé stesso”8, anche se in questo superamento, secondo
la Foa, si può intravvedere un pericolo etico, quello di una storia in fondo sempre e soltanto
giustificatrice.
Nel dibattito che ha seguito la pubblicazione di questo saggio va citato in particolare l’intervento
di Piero Stefani dove si sottolinea - e su questo vorrei tornare - la particolarità di una fase di
passaggio, legata alla scomparsa dei testimoni ed alla impossibilità di creare una generazione
di nuovi testimoni - di ripetere quindi attorno alla memoria della Shoah un processo di ‘tradizione’
tipico dei momenti fondativi delle religioni9. La parola rimane dunque agli storici, ad una pratica
5
G. Salvemini, La storia nelle scuole (1953), in Id., Scritti sulla scuola, a c. di L. Borghi e B. Finocchiaro, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 759761, p. 760.
A. Foa, Gli ebrei…, cit., p. 96.
7
Ivi, p. 97.
8
Ivi, p. 97.
9
P. Stefani, È successo, potrebbe succedere di nuovo, in “Vita e Pensiero”, LXXXVI, 2003, n. 6, pp. 55-60, pp. 55-57.
6
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disciplinare che dovrebbe essere costitutivamente diversa dalle voci imperative e rivendicative
della testimonianza, della memoria offesa e che chiede riparazione.
Alla prassi degli storici è dedicato il volume di Olivier Dumoulin citato all'inizio, che descrive ed
analizza vari mutamenti in atto nel mestiere di storico. Mutamenti epistemologici, di deontologia,
di finalità, di ruolo pubblico, legati essenzialmente a quello che l’autore individua come "il triangolo
memoria-giustizia-storia"10, rafforzato e rilanciato dall'enorme impatto mediatico di certe tematiche.
Così l’opera critica dello storico - definita, almeno in linea di principio, come ideale normativo,
in tante elaborazioni metodologiche otto-novecentesche - sembra spostarsi gradualmente verso
l’acquisizione di altre funzioni. Funzioni di elaborazione identitaria - spesso su diretta committenza
-, terapeutica - e qui riprendo le osservazioni di Battini - quasi medico-tecnico chiamato a sanare
le ferite materiali e memoriali delle società, oppure di giudice retrospettivo - figura quantomai
ambigua ed equivoca -, quando non, come nella tradizione statunitense della public history, di
aperta advocacy, cioè di perizia di parte: lo storico chiamato come esperto a sostenere, anche
giudiziariamente, le argomentazioni di una parte che egli stesso deve condividere se non altro
per contratto, dato che è retribuito per difenderne le ragioni. C’è più di un nesso, credo, fra le
problematiche che ho accennato fin qui.
Sui limiti e sui pericoli insiti nell'ossessione commemorativa le prese di posizione, lo ricordava
anche Alberto Cavaglion, sono ormai molto numerose. Anche a me piace riferirmi soprattutto
agli scritti di Todorov; penso, ad esempio, al rilievo attribuito alle deviazioni della sacralizzazione
e della banalizzazione11, o alla contrapposizione, quasi tra due diverse figure ‘professionali’, tra
lo storico e il commemoratore, che vale la pena di citare per intero: “mentre testimoni e storici
possono facilmente completarsi a vicenda, fra lo storico e il commemoratore c’è una diversità
sia di obiettivi che di metodo, che rende i loro approcci difficilmente compatibili. Questa opposizione
merita di essere sottolineata tanto più perché il commemoratore vorrebbe approfittare dell’impersonalità del proprio discorso (in effetti non parla di sé stesso) per dargli un’apparenza di
oggettività, dunque di verità. Ma non è affatto così. La storia complica la nostra conoscenza del
passato; la commemorazione la semplifica, poiché il suo obiettivo più frequente è di procurarci
degli idoli da venerare e dei nemici da aborrire. La prima è sacrilega, la seconda sacralizzante.
[…] Rammentarsi: tentativo di comprendere il passato nella sua verità. Commemorazione:
10
11
O. Dumoulin, Le rôle social de l’historien…, cit., p. 134.
T. Todorov, Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Milano, Garzanti, 2001, p. 195: “La tesi che vorrei
sviluppare qui è la seguente: in sé stessa, e senza alcuna altra restrizione, la ‘memoria’ non è né buona né cattiva. I benefici che si
spera di trarne possono essere neutralizzati, o addirittura traviati. In che modo? Innanzitutto, dalla forma stessa che assumono i nostri
ricordi, che navigano costantemente fra due scogli complementari: la sacralizzazione, o isolamento radicale del passato, e la banalizzazione,
o assimilazione abusiva del presente al passato”.
51
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
adattamento del passato ai bisogni del presente. Si capisce perché, in questo contesto, è spiacevole
che il termine ‘revisionista’ sia arrivato a significare il rifiuto politicamente motivato della realtà
delle camere a gas nei campi tedeschi, ciò che indica assai meglio la parola ‘negazionismo’. La
verità storica, verità di svelamento, è sempre, e felicemente, soggetta a revisione. Il contrario
della storia revisionista, in quest’altro senso della parola, è la storia pietosa, che deriva appunto
più dalla commemorazione che dalla ricerca”12. Si potrebbe certo obiettare - e fondatamente che in tanti casi anche la storiografia ‘scientifica’ e dotta ha in effetti svolto una funzione
sacralizzante, magari in consonanza con una tendenza oggi diffusa a vedere nella storiografia
stessa niente più che un insieme discorsivo dotato, in qualche modo, di senso; senza voler qui
entrare in complesse questioni metodologiche, insisterei sulle differenze costitutive - di definizione,
regole e controlli, struttura e finalità - che mi sembrano comunque esistere fra la storiografia in
senso stretto ed il più ampio campo ‘testuale’ delle rappresentazioni e dei discorsi sul passato13.
Per tornare al problema della commemorazione, penso poi, nell'ambito di un'analisi molto più
strutturata, complessa e che confesso di non poter seguire fino in fondo per carenza di strumenti
filosofici, all'opera di Paul Ricoeur La mémoire, l’histoire, l’oubli14. Notevole, ad esempio, la
riflessione critica sul cosiddetto dovere di memoria. Cito di nuovo, stavolta più brevemente: "nel
punto in cui la memoria vivente dei sopravvissuti affronta lo sguardo distanziato e critico dello
storico - per non dir nulla di quello del giudice - è in questo punto di frizione che il dovere di
memoria si rivela particolarmente gravido di equivoci. L'ingiunzione a ricordarsi rischia di essere
intesa come un invito indirizzato alla memoria a compiere un corto circuito sul lavoro della storia”.
E Ricoeur prosegue negando la possibilità di declinare la memoria in modo imperativo: “tu devi
ricordare15”. A questo proposito, del resto, nelle stesse pagine, Ricoeur aggiunge una considerazione
sulla quale soffermarsi: l’abuso vero sta nella pretesa dei contemporanei - cioè, del commemoratore
e degli ascoltatori della commemorazione - ad assumere “lo statuto delle vittime”, ad appropriarsi
“della parola muta delle vittime”16. Donde il tono comminatorio, come scrive Ricoeur, del dovere
di memoria, quasi minaccioso, quasi ricattatorio, la rivendicazione di memorie passionali e
ferite “contro la prospettiva più larga e più critica della storia”17. Si potrebbe insistere, ma non
molto utilmente, su questo punto. I termini del discorso mi sembrano abbastanza chiari.
Vorrei invece partire da un altro brano di Ricoeur per introdurre un diverso aspetto della questione
12
Ivi, pp. 160-161.
Per quanto si tratti di un testo per vari aspetti schematico e discutibile, non mi pare inutile rinviare, a questo proposito, alla distinzione
fra ‘storico’ e ‘propagandista’ che sostanzia le pagine di G. Salvemini, Storia e scienza (1939-48), in Id., Scritti vari (1900-1957), a c.
di G. Agosti ed A. Galante Garrone, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 135-175.
14
Paris, Seuil, 2000. Dell’opera esiste anche una traduzione italiana, Milano, Cortina, 2003; io cito dall’originale.
15
Ivi, p. 106.
16
Ivi, pp. 104 e 109.
17
Ivi, p. 108.
13
52
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
- più radicale ancora -; e qui mi consentirete un'altra breve citazione diretta: "quella specie di
perennizzazione operata nella sequenza delle rieffettuazioni rituali, al di là della morte, uno a
uno, dei concelebranti, non rende le nostre commemorazioni l'atto più follemente disperato per
cercare di neutralizzarte l'oblio sotto la forma più insidiosa di cancellazione delle tracce, di messa
in rovina?”. Sottolineerei il richiamo alla scomparsa fisica perché, al di là della polemica verso
alcuni aspetti della ritualità commemorativa, qui entra in gioco un altro fattore. Una questione
variamente discussa ma in fondo sempre presente nei testi a cui io faccio riferimento è quella
della imprescrittibilità dei crimini contro l'umanità. Si tratta di una petizione di principio, per
quanto nobile possa essere. Se oggi è ricorrente la constatazione del fatto che si sta avvicinando,
almeno per il prototipo di quei crimini, la fine dell'epoca del testimone, e quindi della logica del
testimone che richiama il passato come scandalo e come ferita da sanare, è altrettanto evidente
che per le stesse ragioni si sta avvicinando la fine dell'era del carnefice. Fra non molto tempo,
testimoni dei campi di sterminio non ce ne saranno più e non ci saranno più nazisti da ricercare
e da perseguire. Quindi qui si pone davvero un interrogativo di fondo, che però riguarda non solo
la prassi memoriale, cioè la scomparsa fisica dei testimoni, ma anche l'atteggiamento degli storici
di mestiere. Nessun dubbio circa il fatto che la storiografia degli ultimi decenni del XX secolo sia
stata profondamente segnata - né avrebbe potuto non esserlo - dalle tragedie del secolo stesso;
gli interrogativi riguardano la durata, la prosecuzione e le conseguenze, in sede storiografica,
dell’istanza etico-giuridica dell’imprescrittibilità.
Devo dire che leggendo questi testi non potevo fare a meno di pensare ad altre, vecchie pagine,
notissime per la verità, che oggi forse possono suonare urtanti per la loro forma; e proprio per
questo le vorrei citare, per il lessico che usano, che magari occorre sforzarsi di tradurre, ma che
sono, secondo me, per noi e in questo contesto tutt'altro che remote, e dovrebbero essere
tutt'altro che desuete: “Un fatto che sembri meramente cattivo, un'epoca che sembri di mera
decadenza, non può essere altro che un fatto non istorico, vale a dire non ancora storicamente
elaborato, non penetrato dal pensiero e rimasto preda del sentimento e dell'immaginazione”18.
Nella pagina di Croce il sentimento e l'immaginazione, motivi pratici, sembrano giocare in qualche
misura il ruolo dell’istanza etico-giuridica sopra evocata; ma compito della storia pensata, della
storia che deve “spiegare” è per l’appunto quello di una rielaborazione, sempre incompiuta,
dell’esperienza e della pratica: “in qualche misura queste valutazioni pratiche s’introdurranno
sempre nei libri composti dagli storici: che, come libri, non sono e non possono esser mai pura
18
B. Croce, Teoria e storia della storiografia (1915-17), a c. di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1989, p. 96.
53
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
storia, storia quintessenziale, e accoglieranno, se non in altro, nel modo del loro fraseggiare e
metaforeggiare, le ripercussioni dei bisogni pratici presenti e degli sforzi verso l’avvenire. Ma la
coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non già pratica, e anzi fa suo proprio oggetto
l’altra: la storia, che fu già vissuta, è ora in lei pensata, e nel pensiero non hanno più luogo le
antitesi che si fronteggiavano nella volontà o nel sentimento”19. Nella complessità delle loro
implicazioni, sono passi che ancora, secondo me, costringono alla riflessione. E, del resto, non
trovo molto più soddisfacenti, ad esempio, le considerazioni di Ricoeur sull'operazione storiografica
come continuo atto di sepoltura20, e nemmeno il tentativo di chiarimento operato dallo stesso
Ricoeur riguardo al ‘privilegio’ della storiografia sulla memoria: “C'è un privilegio, che non potrebbe
essere negato alla storia, e non è solo quello di estendere la memoria collettiva al di là di ogni
ricordo effettivo, ma anche quello di correggere, di criticare, o anche di smentire la memoria di
una comunità determinata, quando questa si ripiega e si rinchiude sulle sue sofferenze al punto
di rendersi cieca e sorda alle sofferenze delle altre comunità”21. Se non la ‘logica’ della storia,
almeno la storiografia come superamento della parzialità della memoria, dunque, come allargamento
e revisione del dato memoriale empirico, come ordinato, documentato e controllabile sforzo di
composizione e di comprensione. Eppure emergono, in ben diversa direzione, spinte come quelle
documentate da Dumoulin per illustrare il configurarsi di un nuovo ruolo sociale dello storico, in
relazione a varie, ma convergenti forme di committenza sociale.
Questo è il caso, ad esempio, della crescente tendenza alla giudiziarizzazione del passato, del
rapporto con il passato, a proposito della quale non va considerato solo l'ingresso del giudice
penale nella definizione dei fatti storici - nel caso dei processi francesi ai collaborazionisti, con
l’impiego, fra l’altro, in sede giudiziaria degli storici come testimoni-non testimoni, chiamati a
riferire su un contesto ricostruito - ma anche l'ingresso del giudice penale nella valutazione del
lavoro dello storico.
Negli anni '90 ebbe luogo un famoso processo intentato ad un noto orientalista, Bernard Lewis,
per aver dichiarato in una intervista che lo spaventoso massacro degli armeni, operato durante
la prima guerra mondiale, non poteva essere qualificato come genocidio, mancando le prove
documentarie di un determinato progetto delle autorità turche in tal senso. Per questa ragione
Lewis parlava di massacro e non di genocidio. Chiamato in causa dalle associazioni armene, Lewis
è stato condannato22; né questo è ormai l’unico caso citabile. Si tratta di una tendenza pericolosa,
19
20
21
Ivi, p. 97.
P. Ricoeur, La mémoire…, cit., p. 649.
Ivi, p. 650.
54
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
che del resto Dumoulin riconduce proprio all'ampliarsi del ruolo degli storici sul terreno delle
pratiche sociali, cioè alla loro fuoruscita dal lavoro accademico in senso stretto, che si collega
del resto al ruolo della competenza in chiave di advocacy, cioè di perizia di parte, di offerta di
servizi tecnici a chi li chiede, e va a definire una funzione dello storico costitutivamente diversa
da quella fissata nella tradizione accademica otto-novecentesca. Figura ancora minoritaria,
naturalmente, rispetto alle pratiche diffuse nelle comunità scientifiche, ma, appunto, costitutivamente
diversa. C’è da guardare con una certa inquietudine, secondo me, ad una storiografia oscillante
fra l’expertise, la terapia della memoria collettiva, lo strumentale supporto identitario e la
mitopoiesi, la creazione consapevole, programmatica di miti; e non solo in prospettiva scientifica,
ma anche, e forse soprattutto, in chiave didattica.
22
O. Dumoulin, Le rôle social…, cit., pp. 131-143.
55
56 - BIANCA
Memoria e laboratorio storico
M. Paola Campana Foà
Scuola Media di Pontasserchio (I.C. Livia Gereschi)
Per la nostra scuola l’idea di“memoria” non comprende solo il periodo della seconda guerra
mondiale, ma tutto quello che riguarda la storia del nostro territorio e i suoi rappori con il mondo.
Il metodo che usiamo è quello del laboratorio storico che ha dato buoni risultati, sia perché suscita
grande interesse per questa materia, non sempre amata, sia perché dà agli alunni un’idea di
cosa sia il lavoro dello storico.
A partire dalla prima media, in alcune classi, facciamo un lavoro sull'acquedotto romano di
Caldaccoli. E' un acquedotto di cui pochissimi conoscono l'esistenza, non solo i bambini, ma anche
gli adulti perché è situato in una proprietà privata. E’ quindi un lavoro che riguarda un aspetto
della storia locale poco noto , molto motivante per i ragazzi che non a caso l’hanno chiamato
“L’acquedotto misterioso”.
L’acqua: usi civili, agricoli, industriali
(Italiano, storia, ed. tecnica: progetto biennale)
I media
L’acquedotto romano nel comune di San Giuliano Terme
•
Fase avvio: discussione per verificare le conoscenze sugli usi dell’acqua oggi (brano di P.
Sarcinelli da Viaggi di Erodoto)
•
Gioco dell’acquedotto misterioso: consultare due archivi di documenti, relativi a due scenari
diversi della costruzione dell’acquedotto romano (archeologi dell’Università di Pisa come
M. Pasquinucci, ma anche Plinio il vecchio e Frontino). Attività: fare le note a due testi.
•
Visita a piedi all’acquedotto per osservare le tracce della centuriazione, canali e fossi.
Osservazione, appunti su materiali e tecniche di costruzione dell’acquedotto.
•
Ed. Tecnica: costruzione di strumenti usati dai romani: groma, corobata, compasso, modellino di arco.
57
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
•
Italiano: lettura, comprensione e analisi del testo di G. Nistri, San Giuliano, le sue acque
termali e i suoi dintorni e della Citè romaine di D. Macaulay. Esercizi: studio con metodo,
mi oriento, confronto, raccolgo dati, formulo ipotesi etc.
Prodotto finale: 5 cartelloni
-
Gli acquedotti dell’impero romano
-
La buona acqua di fonte
-
L’acquedotto romano di Caldaccoli nell’ottocento e oggi
-
Le professioni e i mestieri dell’antica Roma
-
Materiali e tecniche
Il metodo che abbiamo usato è quello di far sperimentare ai ragazzi il mestiere di storico. Si parte
da una fase iniziale, fase di avvio, che consiste nel far parlare a ruota libera i ragazzi su quello
che conoscono. Quali sono gli usi dell’acqua? Da dove viene? scoprono che fino ai primi anni del
'900 l'acqua era una cosa molto preziosa anche nel comune di S. Giuliano e che non arrivava
se non in poche case. Non c'erano i bagni, non c'erano docce, l'acqua si andava a prendere fuori…
Poi si inizia una seconda fase che consiste nel far consultare ai ragazzi un archivio di documenti
relativi a due scenari diversi della costruzione dell'acquedotto romano. Si propongono ai ragazzi
due testi che contengono termini ai quali vanno fatte le note; per fare le note devono consultare
i documenti che gli abbiamo fornito. Fra questi documenti ce ne sono di indiretti, come quello
di Marinella Pasquinucci, ma anche documenti coevi come quelli di Plinio e di Frontino, che ha
scritto in particolare sugli acquedotti.
In una fase successiva li portiamo ad una visita a piedi all'acquedotto. A piedi, perché si rendano
conto di come sono sistemate le vie d'acqua nel nostro comune, la rete dei canali e dei fossi, e
per ritrovare anche tracce della centuriazione che hanno già visto in classe, sulle carte fornite
dal Comune. All'acquedotto, che non hanno mai visto prima, prendono appunti sui materiali e
sulle tecniche di costruzione, che poi rielaboreranno in classe con l'insegnante di educazione
tecnica (il lavoro è interdisciplinare: italiano, storia, geografia, educazione tecnica). A scuola i
ragazzi hanno costruito poi degli strumenti romani, come la "groma", la corobata, il compasso,
un modellino di arco, hanno lavorato su un testo del 1885 del Nistri: "S.Giuliano, le sue acque
termali e i suoi dintorni", con una serie di esercizi di comprensione e analisi del tipo: studio con
metodo, mi oriento, confronto, raccolgo dati, formulo ipotesi, ecc. Come conclusione hanno scritto
delle brevi narrazioni e hanno realizzato 5 cartelloni che sono stati presentati, in occasione
58
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
dell'Agrifiera, a S. Giuliano:
1) una carta storica raffigurante l'Impero Romano nel I sec. d.C che mostra l'acquedotto di
Caldaccoli insieme ad altri acquedotti distribuiti su tutto il territorio conquistato dai romani,
2) il percorso de ”la buona acqua di fonte”, che è un'interessante ricostruzione che abbiamo fatto
seguendo le indicazioni del libro del Nistri, per stabilire, senza per altro averlo stabilito con
certezza, da dove veniva l’acqua fresca dell’acquedotto. Perché l'acquedotto romano di Caldaccoli
aveva la caratteristica di avere due condutture: una di acqua termale calda, alla base, ed una
di acqua fresca nel condotto superiore. Da dove si prende l'acqua termale calda è chiaro, ma da
dove i romani prendessero l'acqua fresca è invece a tutt'oggi è un bel mistero, che abbiamo posto
anche alla Professoressa Pasquinucci, archeologa dell'Università di Pisa che ci ha sostenuto in
questo lavoro;
3) fotografie dell’acquedotto oggi e disegni raffiguranti l’acquedotto nell’ottocento.
Gli altri cartelloni riguardano le professioni ed i mestieri dell'Antica Roma, materiali e tecniche,
e sono stati eseguiti con l'insegnante di educazione tecnica.
Non mi soffermo su questo lavoro, che del resto sta in diversi siti: in quello dell'Istituto Santoni,
in quello del Comune di S. Giuliano Terme, nella nostra scuola, e recentemente anche nel Gold
nazionale.
In seconda, sul tema dell’acqua, ma nei suoi usi agricoli e industriali, abbiamo lavorato sui mulini
di Molina di Quosa in età moderna. Qui l'idea era di far comprendere ai ragazzi il concetto di
energia e di trasformazione nell'uso delle fonti di energia. Per questo ci siamo serviti di un modello
di macchina, il mulino, presente largamente nel comune di S. Giuliano Terme, in particolare a
Molina di Quosa. Da notare che anche la Via dei Mulini, a Molina di Quosa, è pochissimo conosciuta,
per niente indicata per chi avesse voglia di andarla a vedere; è molto ripida, ma molto bella e
dall’alto si gode uno straordinario panorama. Portare su i ragazzi, che si sedevano ogni 5 minuti,
è stata un’impresa.
59
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
L’acqua: usi civili, agricoli, industriali
(Italiano, storia, ed. tecnica: progetto biennale)
II Media
I mulini di Molina di Quosa in età moderna
•
Fase avvio: discussione per verificare le conoscenze sulle fonti di energia, a partire da
un articolo sui mulini hi-tec, individuazione del concetto di energia animata e inanimata
•
Tematizzazione: ambito territoriale, la pianura di Pisa tra Arno e Serchio - campo di indagine: l’energia prodotta da una macchina, il mulino
•
Osservazione di modelli in legno di mulino, di figure, di modelli di funzionamento - Mulino
ad acqua, impiego della ruota idraulica, materiali di cui è fatta
•
Orientamento sul territorio attraverso l’osservazione di carte IGM al 25.000 e al 50.000
che evidenziano aspetti storici (Pisa e i rilievi contermin, ed. Del Cerro)
•
Visita a piedi alla Via dei mulini, per osservare la sistemazione della pianura, le vie d’acqua,
i mulini. Osservazione, appunti su materiali e tecniche di costruzione
•
Ed. Tecnica: costruzione di strumenti, modelli, disegni di mulini di vario tipo
•
Storia: lettura, comprensione e analisi di un saggio storico semplificato di A.M. Pult, lezione
di P. Malanima sulle fonti di energia
Prodotto finale: 4 cartelloni
-
Ruote idrauliche e funzionamento dei mulini
-
I mulini di Molina di Quosa
-
La rete dei canali di Molina
-
La peste del 1630 a Molina
-
Bologna e i mulini da seta
Anche per il lavoro dei mulini, c’è stata una prima fase di tematizzazione per circoscrivere
l'argomento, sia geograficamente (la pianura di Pisa fra Arno e Serchio) sia come campo d'indagine
(l'energia prodotta da una macchina: il mulino). In classe i ragazzi hanno osservato diversi modelli
di mulino, sia immagini sia modellini di legno, carte che rappresentano la sistemazione delle
acque del territorio in diversi momenti della storia. Poi c'è stata la visita a piedi alla Via dei Mulini,
60
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
con presa di appunti, come abbiamo fatto per l'acquedotto romano, e in seguito il lavoro con
l'insegnante di educazione tecnica e di storia.
La visita al Museo della tecnica Aldini Valerani di Bologna ha permesso di fare confronti e di
accennare anche alla situazione inglese per quanto riguarda l’impiego della ruota idraulica nel
settore tessile.
Infine sono stati realizzati 5 cartelloni: Ruote idrauliche e funzionamento dei mulini, I mulini di
Molina di Quosa, La rete dei canali e La peste del 1630 a Molina, (il documento che ci è stato
dato dalla Dottoressa Tanti dell'Archivio di Stato, ci è sembrato interessante perché sembra che
la peste in provincia di Pisa si sia diffusa proprio attravarso Molina di Quosa, punto di sosta per
le barche che fornivano di farina sia Lucca che Pisa e Livorno, attraverso il canale di Ripafratta
prima, poi attraverso il canale dei Navicelli), Bologna e i mulini da seta.
Progetto Memoria
Per quanto riguarda il Progetto Memoria, la nostra scuola da diversi anni, in occasione del 27
gennaio, contribuisce con i lavori delle classi III, che hanno come oggetto il territorio. Inizialmente
ci siamo serviti dei documenti dell'Archivio di Stato di Pisa che ci ha fornito la Dottoressa Tanti,
ma da qualche anno fa abbiamo lavorato su Livia Gereschi e il massacro della Romagna.
Il metodo usato è ancora quello del laboratorio storico.
61
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Livia Gereschi
Sfollamenti, rastrellamenti, eccidi
III Media (Lavoro a classi parallele)
-
Brain storming per verificare le conoscenze dei ragazzi sulla strage della Romagna
-
Individuazione dei sottotemi: bombardamenti, sfollamenti, eccidi
-
Sopralluogo sulla scena dell’eccidio
-
Incontri con testimoni ed ex internati nei campi di sterminio
-
Lettura e analisi delle testimonianze fornite dal Circolo “Le storie” di Molina di Quosa sulla
base di una scheda
-
Videoregistrazione delle testimonianze di due sfollati sui Monti Pisani
-
Selezione di manifesti murali e di articoli di giornali dell’epoca, schedatura
-
Didascalie alle immagini (disegni, foto)
Prodotto finale:
Cartellone da inviare alla Limonaia per il giorno della Memoria
Come sempre abbiamo cominciato con un brain-storming, lasciando parlare a ruota libera i ragazzi
per verificare quali fossero le loro conoscenze sulla strage della Romagna. Sono stati individuati
questi sottotemi: sfollamenti, rastrellamenti, eccidi. Abbiamo fatto un sopralluogo sulla scena
dell'eccidio, incontri con testimoni, ed ex internati nei campi di sterminio, quindi i ragazzi hanno
analizzato in classe le testimonianze fornite dal Circolo "Le Storie" di Molina di Quosa e quelle
da loro stessi registrate e trascritte. La scheda di cui si sono serviti perché il lavoro risultasse
omogeneo è la seguente.
62
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
SCHEDA N° 1
SFOLLAMENTO, RASTRELLAMENTI, MASSACRI LETTURA DI TESTIMONIANZE RESE
ORALMENTE E/O PER SCRITTO
Raccolte da
Anno/Anni
Nome del testimone
Data di nascita
Oggetto della testimonianza
Data
Residenza prima dello sfollamento
Sfollato in località di
Occupazione prima dello sfollamento
Civile
Partigiano
Altro
Collegamenti con la città e i paesi del sotto monte
Località menzionate nella testimonianza
Testimonianza eccidio della Romagna
Annotazioni particolari
Linguaggio utilizzato:
neutro
narrativo
drammatico
Termini particolarmente significativi
I ragazzi hanno letto anche manifesti murali e articoli di giornali dell'epoca. Anche per questo
lavoro avevano due schede da riempire in maniera che poi, una volta finita l’analisi dei documenti,
tutti potessero partecipare alla discussione e scrivere una narrazione storica, che è finita poi sul
cartellone inviato alla Limonaia per il Giorno della memoria.
63
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
SCHEDA N° 2
SFOLLAMENTO, RASTRELLAMENTI, MASSACRI
LETTURA DI GIORNALI
Testata
Data
Posizione dell’articolo
Pag.
Se in prima pag.:
Art. di fondo
Spalla
Taglio medio
Taglio basso
Prosegue a pag.
È corredato da foto che rappresenta/no
È accompagnato da cartina/e che illustra/no
Titolazione (sottolineare le parole chiave, metafore etc.):
Occhiello
Titolo
Sottotitolo
Sommario
Articolo:
Notizie
Commenti del giornalista
Linguaggio (vocaboli particolari, metafore o altre figure retoriche)
64
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
SCHEDA N° 3
SFOLLAMENTO, RASTRELLAMENTI, MASSACRI
LETTURA DI MANIFESTI O VOLANTINI
Manifesto/volantino
Data
Emesso da
Rivolto a
Contenuto (breve sintesi)
Osservazioni
65
Il diario del bisnonno di Martina
Quest'anno è capitato qualcosa di particolare: prima di partire per le vacanze, alla fine della
seconda media, avevo chiesto ai ragazzi di far parlare i nonni sulle loro esperienze della seconda
guerra mondiale, di registrarli, di trascrivere che cosa i nonni raccontano, o di far scrivere ai
nonni stessi; oppure di chiedere loro se era possibile intervistarli.
Due ragazzi mi hanno portato qualcosa di scritto dai nonni ed era già abbastanza interessante;
ma ancora più interessante è stato il diario del bisnonno di Martina, una delle mie alunne.
Questo diario è scritto da Alberto Maggesi, fuochista nelle ferrovie, che all'epoca viveva a Madonna
dell'Acqua con la moglie e due figli. Militare, dopo l'8 settembre ritorna a casa dove viene preso
dai tedeschi nei primi giorni dell'agosto del '44. Viene portato a Nozzano, dove c'era il comando
della Wehrmarcht, e da lì, una volta che Pisa è liberata dagli americani, viene portato come
prigioniero destinato a lavoro coatto verso nord. Nel diario racconta il procedere lento e faticoso
della Linea Gotica. Si trova spesso sotto i bombardamenti degli alleati, sotto il fuoco incrociato
di tedeschi e repubblichini da una parte e partigiani dall'altra, insieme ad altri paesani. Insieme
a loro è costretto a svolgere mansioni pericolose come minare strade, far saltare o ricostruire
ponti di legno, rinforzare le difese della Linea Gotica, a svolgere cioè i lavori più duri o che
comportavano un forte rischio.
Quest'uomo, man mano che va verso nord al seguito dei tedeschi, si rende conto che ci sono
partigiani e repubblichini, che la situazione è molto complicata, che i tedeschi trattano gli italiani
prigionieri come se fossero bestie: comincia quindi a prendere maggiore consapevolezza della
condizione sua e in generale del popolo italiano. È una persona a cui piace essere informata;
riferisce spesso le notizie che arrivano sul fronte come la liberazione di Cesena e di Forlì. Parla
di uno sbarco degli alleati a Trieste che in realtà non c'è mai stato; spera che la guerra finisca
presto, che gli alleati avanzino e che quindi si possa tornare presto a casa. Si ammala spesso,
ha la febbre alta, prende la bronchite, viene ferito due volte, ma riesce sempre in qualche maniera
a cavarsela.
In un'occasione parla di un buon rapporto che ha con un soldato tedesco: tutti e due piangono
sui figli a casa, lontani, e tutti e due hanno voglia che la guerra finisca presto. Il tedesco gli
confida anche che ormai i tedeschi hanno meno carri armati degli americani e che quindi la guerra
66
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
dovrebbe essere vicina alla fine. Generalmente, però, i rapporti coi tedeschi sono pessimi. Una
volta riesce a scappare per circa 6 ore, approfittando di un bombardamento, viene ripreso e per
miracolo se la cava. Ad un certo punto, a causa della bronchite o di ferite, viene ricoverato
all'Ospedale S. Orsola di Bologna e molto probabilmente è proprio l'essere stato tanto tempo
in ospedale, che lo salva per un po’ dall'essere coinvolto nel fronte in prima linea, e anche
dai bombardamenti perché si cercava, da parte degli alleati, di risparmiare gli ospedali.
In varie occasioni, eludendo la sorveglianza, esce dall’ospedale. Una volta racconta che, con la
scusa di andare a comprare delle mele, "....sono sceso in città a Bologna ed ho combattuto
insieme ai partigiani..." e cita l'episodio della Bolognina, episodio molto noto della Resistenza
bolognese, dove repubblichini e partigiani hanno avuto un duro scontro con parecchi morti, sia
civili che partigiani. Altre volte gli capita di contribuire insieme ad altri compaesani alla liberazione
di Bologna, tanto che i bolognesi li trattano come “liberatori”.
Col passare del tempo incontra altri paesani di due tipi molto diversi: paesani che lui conosce
bene perché sono persone di Metato, oppure di Pisa, di via S.Cecilia, piazza S. Paolo, con cui
aveva già dei rapporti di amicizia che si rinsaldano in questa occasione, ma anche tanti pisani
repubblichini. È molto più indignato delle azioni delle Brigate nere che non di quelle dei tedeschi.
Questo modo di vedere le cose sembra trovare conferma nella testimonianza che il Generale Von
Senger, che aveva il comando a Bologna a partire dall'autunno del '44, rende nel dopoguerra.
Anche tenendo conto che il generale cerca di discolpandosi, si rileva che egli dà molta responsabilità
agli italiani fascisti, ai repubblichini, per le morti a Bologna.
I ragazzi hanno letto questa testimonianza e l’hanno citata nell'introduzione al Diario.
È interessante la necessità che ha quest'uomo di scrivere nei momenti drammatici: nella settimana
in cui riesce a scappare, una delle quattro volte che tenta la fuga, va presso un contadino e lo
aiuta a fare la vendemmia; in questa settimana di quasi normalità non scrive niente, ricomincia
a scrivere dopo essere stato di nuovo rastrellato dai tedeschi e rimandato a combattere in prima
linea.
I ragazzi per ora hanno lavorato sulla prima parte del diario, che arriva fino verso la fine del
gennaio del '45, ma il diario va avanti e si conclude il 26 aprile del '45. Nella seconda parte, che
non hanno ancora letto, ma che pensiamo di sistemare per la ricorrenza del 25 aprile, Alberto
Maggesi non scrive molto ma scrive quasi giorno per giorno, come a voler fissare gli avvenimenti,
consapevole di stare vivendo un periodo importante della storia italiana. Da Bologna viene portato
a Verona, poi viene spostato in direzione di Parma, poi a Ferrara, poi di nuovo a Bologna. Man
67
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
mano che si avvicina l’aprile, i tedeschi e repubblichini sentono che la fine della guerra è vicina,
le armate tedesche si spostano verso Verona e anche i prigionieri italiani vengono portati al loro
seguito verso questa città. Alberto Maggesi ha il terrore di dover passare il Po e di essere portato
in Germania insieme ai tedeschi nella loro ritirata. Quindi decide di scappare insieme con i suoi
compaesani e la fuga sicuramente riesce, perché le ultime parole che scrive da Bologna sono:
"Domenica prossima sarò a casa”. Il diario è dedicato alla moglie e ai figli e continuamente si
rivolge a loro sperando di poter far ritorno a casa presto.
Alberto Maggesi è una persona che scrive in maniera molto scorretta dal punto di vista grammaticale
e sintattico. Probabilmente non aveva fatto neanche la quinta elementare, ma ha chiaramente
un bisogno enorme di scrivere quello che gli capita giorno per giorno. Scrive senza mettere la
punteggiatura, spesso unisce le parole tra loro, gli errori di ortografia e di sintassi non si contano.
Questo è il motivo per cui i ragazzi, nel trascrivere il diario, non l'hanno ricopiato così com'è, ma
hanno messo la punteggiatura, hanno decifrato il testo e lo hanno reso leggibile. Il diario mi è
stato dato da Martina in novembre, l’ho letto, ho cercato di documentarmi sulla situazione di
Bologna di cui sapevo poco. Carla Forti mi ha dato una mano per orientarmi, dopo di che ho
organizzato il lavoro nel modo che segue.
Il lavoro ha occupato in totale 12 ore, più due pomeriggi per dare una sistemazione grafica al
diario da parte di alcuni ragazzi “volontari”.
68
Il diario del bisnonno di Martina
Fasi del lavoro
1)
Colloquio con la classe per richiamare alla memoria le conoscenze sull’eccidio della Romagna. Lettura e discussione davanti al cartellone di L Gereschi (a.s. 2000- 2001)
2)
Contesto storico: sbarco in Sicilia, guerra di liberazione, Resistenza, Repubblica sociale,
linea gotica (insegnante)
3)
Materiali portati dai ragazzi: testimonianza scritta oggi del nonno di Lorenzo, diario
del bisnonno di Martina - Differenza tra testimonianza coeva e testimonianza basata
sul ricordo
4)
Notizie sul bisnonno di Martina (Martina)
5)
Lettura e trascrizione del diario ( lavoro a coppie, due fogli a testa)
6)
Osservazioni sul linguaggio
7)
Lettura ad alta voce del diario trascritto e correzione, decisione sulle note da fare
8)
Lettura selettiva (lavoro a coppie, v. griglia n° 1), schedatura, discussione
9)
Scrittura delle note al testo (Aa.Vv.,Dizionario della resistenza, ed.Einaudi)
10) Archivio giornalistico, selezione di articoli riguardanti la guerra sulla linea gotica (lavoro
a coppie, v. griglia n° 2):
Gazzetta del popolo, Torino 28/10/44
La stampa 29/10/44
Il pomeriggio (Corriere della sera) 6-7/11/44
La sera (Il secolo), Milano 28/11/44
Avanguardia vicentina 20/9/44 anno I
Il popolo, Roma 10/11/44
Il regime fascista, fondato da Roberto Farinacci 17/12/44
Il gazzettino, Venezia 16/12/44
Il Corriere della sera 17/12/44
Italia nuova, giornale della federazione fascista di Venezia anno II 8/4/45
11) Interpretazione dei dati e scrittura dell’introduzione al diario
12) Decisione su come presentare il diario ad altri lettori per il giorno della memoria
Siamo partiti dalla lettura del cartellone su Livia Gereschi eseguito nel 2001/2002, da cosa è
69
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
successo nel nostro territorio nel ‘44. Poi Martina ci ha dato i particolari sulla vita di suo nonno.
Dopodiché io ho distribuito due pagine del diario ogni due ragazzi perché le trascrivessero. Alla
fine l'abbiamo letto tutto, abbiamo fatto le correzioni, l'abbiamo commentato, dopodiché i ragazzi
hanno compilato questa scheda che abbiamo concordato insieme. Su questa scheda ci sono i
punti che ci sono sembrati importanti da rilevare: ogni coppia doveva selezionare le informazioni
dalle due pagine assegnate. Poi abbiamo messo in comune le informazioni e ogni alunno ha
scritto una breve introduzione al diario.
70
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
SCHEDA N° 1
DIARIO
LETTURA SELETTIVA
(LAVORO A COPPIE)
Leggi attentamente le pagine del diario che ti sono state date e segna nella seconda colonna il
numero della pagina o delle pagine dove si parla di uno degli argomenti indicati nella prima
colonna.
Mancanza della famiglia e dei figli
Pag.
Nostalgia delle consuetudini casalinghe
Desiderio che la guerra finisca per ritornare a casa
Località dove è stato il bisnonno di Martina
Altre località menzionate
Lavori svolti per i tedeschi
Rapporti con i tedeschi, giudizi sui tedeschi
Bombardamenti
Rastrellamenti
Eccidi
Incontri con i partigiani
Incontri con i repubblichini
Rapporti con i compaesani
Ospedale di Bologna
Notizie sul fronte
Notizie sulla guerra in generale
Tentativi di fuga
Rigidità dell’inverno
Nella fase successiva, ho dato ai ragazzi le copie fotostatiche di alcuni giornali del periodo
corrispondente al diario per confrontare le notizie fornite da Alberto Maggesi e con quelle date
dalla stampa del nord Italia sulla Linea Gotica.
71
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
SCHEDA N° 2
ARCHIVIO GIORNALISTICO
LETTURA SELETTIVA
(LAVORO A COPPIE)
Cerca nel quotidiano che ti è stato dato gli articoli che si riferiscono alla guerra intorno alla Linea
gotica e completa la seguente griglia. Nota bene: uno solo di questi quotidiani appartiene all’Italia
già liberata . Quale?
Da che cosa lo puoi capire?
Testata
La gazzetta
del popolo
Città Torino
Colloc. pag. 3
Foto pag.
Titolo articolo
Tentativi di
passare il Ronco
immediatamente
frustrati dalle
truppe
germaniche
Sintesi notizia
Le azioni della V
armata a sud di
Bologna respinte
dal baluardo
difensivo. La
battaglia infuria.
Data
28 ottobre 1944
Testata
Città
Colloc. pag.
Testata
Città
Colloc. pag.
Testata
Città
Colloc. pag.
Sono tutti giornali dell'Italia del nord, quindi rispecchiano il modo di pensare dei repubblichini.
uno solo, di Roma, presenta le cose in maniera diversa.
I ragazzi, che l’anno precedente avevano fatto la lettura del quotidiano, hanno selezionato gli
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
articoli dove si parlava della guerra sull’Appennino tosco-emiliano e della Linea gotica: dovevano
scrivere il nome del giornale, dove era collocata la notizia, annotare se c'erano foto - le foto sono
poi state messe nel diario -, rilevare il contenuto dell'articolo. Hanno notato che i soli elementi
concordanti con quelli forniti dal bisnonno di Martina riguardavano la rigidità dell'inverno, la fame
e le sofferenze che si pativano, sia di qua che di là della Linea Gotica. Per il resto, sulla stampa
repubblichina, per quanto concerneva la guerra, si parlava solo di vittorie dei tedeschi e delle
Brigate nere. Ancora nell’aprile del ’45 si trovano frasi come queste:"Arriveranno le armi nuove
dei tedeschi,I tedeschi arriveranno in forze anche sul fronte italiano e insieme a loro i repubblichini
riconquisteranno la penisola." I ragazzi si sono potuti rendere conto di cosa significa fornire
informazione distorta.
In conclusione, i ragazzi hanno trascritto il diario, fatto alcune osservazione sul linguaggio usato
dall’autore, scritto introduzione e note, scelto le immagini da inserire nel testo.
73
74 - BIANCA
Le feste nazionali come esercizi di memoria:
sulle feste del 25 aprile
Guri Schwarz
Scuola Normale Superiore di Pisa
Io non parlerò esattamente di quello che indicherebbe il titolo del mio intervento, perché, dopo
gli interventi precedenti, mi sono venute delle idee sulle quali mi interessava provare a ragionare.
Vorrei partire dalla distinzione fatta da Moretti, citando Todorov, tra la funzione del commemoratore
e quella dello storico.
La distinzione era che il commemoratore sacralizza, mentre lo storico tende, o dovrebbe tendere,
a desacralizzare. In realtà, se in astratto il discorso funziona, poi nel concreto spesso anche lo
storico è un sacralizzatore. La disciplina storica come la conosciamo noi nasce in fondo nell'800,
nel processo di formazione dei moderni stati nazionali, e serve anche a svolgere la funzione di
elaborazione di miti, di creazione delle moderne idee nazionali: quindi lo storico è spesso stato
un sacralizzatore dell’idea nazionale e della tradizione nazionale.
Secondo me il rapporto tra commemoratore e storico, e quindi tra processi di sacralizzazione e
desacralizzazione, è particolarmente interessante quando proviamo a studiare le politiche
commemorative, in particolare la politica delle feste, siano esse religiose o nazionali o politiche
o di vario altro orientamento. In questo tipo di indagini emergono alcuni degli elementi caratteristici
del lavoro di storico, così com’è svolto in questi ultimi tempi specialmente per quanto riguarda
la contemporaneistica, e si sollevano alcuni problemi interessanti sul rapporto dello storico con
il sistema dell'informazione e con la società dello spettacolo, che mi sembra un problema
particolarmente rilevante per chiunque si occupi di storiografia contemporanea. Forse vale la
pena di introdurre brevemente come la storiografia contemporanea sia arrivata a studiare e
dedicare ormai moltissima attenzione alla politica delle feste, alla loro liturgia, alla loro simbologia,
alla loro funzione, anche come esercizi di memoria utili a connettere la popolazione, lo Stato ma anche comunità più piccole e diverse - con un passato, e quindi a definire un senso di continuità
dell'identità collettiva che viene celebrata attraverso le politiche commemorative. Soprattutto
negli ultimi 40 anni, seguendo strade diverse, la storiografia anglosassone e quella francese
75
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
hanno abbandonato la vecchia storia politica e sono giunte a confrontarsi non più e non soltanto
con la storia delle istituzioni, dei partiti, dei grandi leaders, e comunque con le dinamiche dello
Stato, ma col vissuto dei cittadini durante le guerre e anche nei periodi di pace e con l'interrelazione
tra individui e società civile e Stato: sollevando quindi quello che oggi, con un termine usato fin
troppo spesso, si chiama il problema della "identità" nelle sue varie sfaccettature. A questo arriva
per un suo percorso la storiografia francese delle Annales e per un percorso in parte indipendente
anche la storiografia inglese, dando vita negli ultimi anni a quella che è detta la "culture history"
anglosassone-americana. Si tratta di studi che sono maturati in origine soprattutto in relazione
all'esperienza della Grande guerra: si sono scomposte le relazioni tradizionali e si è spostata
l'enfasi dagli aspetti politico-militari o diplomatici ad aspetti del vissuto dei singoli soldati, andando
a vedere il vario modo in cui le memorie erano rielaborate, iniziando ad indagare le forme di
elaborazione del lutto, dei monumenti, tutte le politiche funebri, abbiano esse come oggetto il
corpo del caduto o siano commemorazioni fatte in absentia. Tramite questo tipo di studi ormai i
contemporaneisti si dedicano in maniera abbastanza sistematica a studiare in generale tutto il
sistema degli apparati simbolici che, a partire dalla costituzione degli stati-nazione - direi anzi
dalla Rivoluzione Francese in poi -, delineano il contorno delle identità nazionali e politiche.
Tutta questa operazione - che si è concentrata in buona parte sull'esperienza della Grande guerra,
ma non soltanto, e che ha avuto in quel conflitto una specie di straordinario laboratorio proprio
in virtù dell'intensità e della portata dell'esperienza stessa - tutto questo processo di revisione
e ripensamento storiografico ha spinto ad uno slittamento e ad un cambiamento di prospettiva,
così che oggi è abbastanza comune che uno storico non si occupi tanto di segreterie di partito
o di storia istituzionale tradizionale, ma vada magari a girare la campagna per fotografare i
monumenti ai caduti, o che si dedichi ad opere di storia orale, cercando di vedere il vissuto della
popolazione nelle sue diverse articolazioni.
Tornando al discorso che si è fatto all'inizio, indagini di questo tipo ovviamente pongono lo storico
nella prospettiva del dissacratore o del desacralizzatore. Lo storico studia i processi commemorativi,
li scompone nelle loro diverse articolazioni iconografiche, retoriche e quant’altro. Analizza la loro
funzione come strumenti di legittimazione del potere politico e di rassicurazione della popolazione,
ne ricostruisce l'utilità come occasione per definire identità di gruppo e in qualche modo giunge
a desacralizzare l'oggetto nella sua ricerca. Tuttavia questo non è in realtà l'unico percorso, nel
senso che in queste opere di desacralizzazione si giunge - tramite anche la scomposizione
dell'oggetto, che è appunto la commemorazione - ad una diversa risacralizzazione della memoria.
76
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Dunque, come dicevo all'inizio, il rapporto tra sacralizzazione e de-sacralizzazione è un rapporto
assolutamente delicato e difficile da definire in maniera rigida.
È chiaro che, quando noi ci poniamo il problema di studiare in particolare i riti e le feste nazionali
italiane del secondo dopoguerra, come può essere la festa del 25 aprile, tutti questi modi di
concepire la funzione di ricerca e questioni di metodo si vengono a porre. Così risulta da un lato
che chi si accinge a fare la storia della festa del 25 aprile finisce per molti aspetti col desacralizzare
la retorica antifascista, almeno se fa questo in maniera seria e rigorosa, poiché arriva a
contestualizzare tutti i vari momenti e le varie stagioni della celebrazione: le toglie quindi l'alone
mitico e, come alla fine fa lo storico con qualsiasi oggetto, la ricolloca in un contesto diverso,
che da una parte la rende più intellegibile, ma che le toglie anche una sua certa forza e il suo
fascino intrinseco. D'altra parte talvolta capita che gli storici vogliano recuperare all'ultimo
momento questa dimensione sacrale, la rilevanza simbolica, perché credono che comunque
l'oggetto di studio contenga ancora dei valori - come nel caso dell'antifascismo - e abbia una
forza propulsiva in cui l’autore si riconosce. Dunque c'è sempre questa ambivalenza e questo
duplice piano.
Dopo questa introduzione che mi è stata suggerita dagli interventi che ho sentito in mattinata,
passerei brevemente a ricostruire le dinamiche che caratterizzano la genesi del culto nazionale
antifascista nell'Italia repubblicana. Direi innanzitutto che si può osservare che tutta la costruzione
della retorica patriottica antifascista, per quanto assolutamente fragile, poggia su un'esigenza
dell'apparato istituzionale, dell'apparato politico, ma alla fine della cittadinanza nel suo insieme,
di stabilire un nesso forte con la tradizione nazionale precedente, con i luoghi-simbolo, le retoriche,
le memorie di altri conflitti, di altri momenti fondamentali per la storia nazionale. Se vogliamo
infatti studiare la genesi di una religione civile antifascista, dobbiamo partire prima della Liberazione,
dalle operazioni compiute dai primi governi Bonomi a ridosso della liberazione di Roma, nell'estate
del 1944, per una risacralizzazione del Vittoriano, l'Altare della Patria, al quale venivano accostate
- è quanto dice Bonomi in una riunione del Consiglio dei Ministri - le Ardeatine “nuovo Altare della
Patria”, con un gioco che tendeva a legare le esperienze tragiche e drammatiche dell'occupazione
e della seconda guerra mondiale con una storia nazionale più antica, rappresentata dal Vittoriano
e dal Milite Ignoto. Dunque a riconnetterle alla tradizione patriottica liberale ed a quella che
invece era maturata dopo la Grande guerra, con la consacrazione del monumento al Milite Ignoto
nel 1921.
Questa è una costante che riguarda non solo le scelte delle istituzioni, ma tutto il lessico che
77
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
viene utilizzato nella commemorazione patriottica. È abbastanza facile, girando per le strade e
per le piazze d'Italia, vedere lapidi e monumenti che ricordano singoli eventi, stragi, violenze, e
commemorano vari momenti della guerra di Resistenza combattuta in questo paese. Spesso
queste opere sono state poste in occasione degli anniversari del 25 aprile e, oltre che sul piano
grafico, sul piano proprio linguistico si nota un fortissimo segno di continuità con tutto l'apparato
di retoriche patriottiche tradizionali, quali erano maturate sin dal tardo '800 e poi erano state
rielaborate durante il periodo fascista.
In effetti tutto il processo di lenta genesi della religione civile antifascista, sin dai primissimi
momenti del governo Bonomi, è legato a questo gioco delicato di costruzione del nuovo su
fondamenta già ben definite e in qualche misura solide. Il problema è anche quello della
commistione di elementi nuovi in un quadro fortemente conservatore e riguarda dunque non solo
i contenuti, ma anche i soggetti che sono responsabili della gestione del culto patriottico. Lo stato
nazionale italiano, per quanto si possa discutere sulla forza o la debolezza intrinseca della religione
civile dalla nascita dello stato nazionale, aveva fondato questa religione soprattutto su due
soggetti, la monarchia e l'esercito, che lavoravano in stretta simbiosi. Entrambi questi soggetti
alla fine della seconda guerra mondiale sono fortemente delegittimati, hanno perso credibilità e
sono soprattutto incapaci di connettersi al nuovo linguaggio antifascista, o a quegli elementi di
novità che connotano la retorica patriottica antifascista.
Il protrarsi della crisi fa sì che la questione istituzionale, e quindi la scelta delle istituzioni che
regoleranno il paese, giunga solo nel '46 e la perdurante delegittimazione dell'apparato militare
lo rende incapace di rinnovarsi: di rinnovare i propri linguaggi, ma anche di rinnovare i propri
dirigenti. Non c'è nessuna seria operazione degli apparati militari italiani e a questo proposito si
può citare un intervento divertente, a suo modo, di Adolfo Amodeo che nel 1945, nella Commissione
Militare della Consulta, suggerì di rifondare il nuovo esercito su quadri per nulla compromessi
con la guerra fascista. Ora è evidente che non esistevano quadri dell'esercito italiano per nulla
compromessi con la guerra fascista.
Questo ha rappresentato un problema effettivo, che si collega poi al difficile, faticoso e contrastato
rapporto tra l'esercito e le forze partigiane: difficile anche su un piano strettamente simbolico,
tanto che il riconoscimento dei gradi militari ai partigiani alla fine della guerra, come previsto
dalla normativa, in realtà fu fortemente ostacolato dalle istituzioni militari e si ridusse al
riconoscimento di un numero estremamente ridotto di persone. Ci fu una forte resistenza in tutto
l'apparato militare a riconoscersi in fenomeni di volontariato come quello partigiano. Questo ha
78
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
a che vedere con la tradizione più antica dell'esercito italiano, da sempre restio ad accettare
forme di volontariato, fin dall'esperienza garibaldina e poi durante il periodo fascista. Comunque
non semplifica le relazioni, tenendo conto che il ruolo dell'esercito, per quanto delegittimato,
continua ad essere nel periodo di pace quello di sacerdote della nazione, responsabile della
gestione e dell'orchestrazione dei riti patriottici, dal culto dei caduti alle parate, alle feste, alla
manifestazioni in occasioni delle grandi celebrazioni. E, se noi partiamo dal presupposto che il
sacerdote responsabile di questo tipo di atti rituali aveva perso la sua credibilità, è facile capire
come tali pratiche difficilmente potessero riuscire a mobilitare efficacemente la popolazione, a
risultare convincenti; anche perché, come abbiamo detto, c'era una persistente e forte conflittualità
con le forze partigiane, quindi le forze dell'antifascismo, con le quali l'esercito era in chiaro
conflitto.
Questo si vede sin dalle primissime feste dell'Italia unita, nel '46 e poi negli anni successivi,
quando di fatto si procede, a partire dalla prima ricorrenza del 25 aprile, a cerimonie separate:
o meglio nella stessa giornata soggetti diversi celebrano cose diverse e memorie diverse, in luoghi
che hanno valenze simboliche funzionali ciascuna al gruppo specifico.
Così l'esercito, da sacerdote della nazione, si trasforma in sacerdote di un culto separato e si
comporta come una casta a parte, coltivando una sua specifica memoria del conflitto che
difficilmente entra in relazione con la memoria pubblica collettiva, con la memoria gestita da altri
gruppi che hanno un peso rilevante.
Un altro aspetto che caratterizza la difficile genesi della religione civile antifascista è l'evoluzione
del rapporto tra istituzioni, società civile e Stato, dopo la seconda guerra mondiale. Tutti gli
apparati retorici e le costruzioni liturgiche con cui dalla genesi dei moderni stati-nazione si va
delineando l'immagine della nazione, e quindi il culto della patria, sono tradizionalmente sempre
gestiti dall'alto, dall'apparato statale che, attraverso questo tipo di atti cerimoniali, si legittima
e definisce l'ordine delle gerarchie all'interno della società.
Ma quello che avviene dopo la seconda guerra mondiale - non è solo un caso italiano, riguarda
un po’ tutte le società dell'Occidente - è una crisi dell'apparato istituzionale nella gestione di
questo tipo di atti, e una cessione di spazi alla società civile, che è quanto mai pulsante e viva
e prende in mano direttamente la gestione della commemorazione nelle sue varie forme. Cosicché
a gestire la memoria, o meglio le memorie, è un variegato insieme di associazioni, ciascuna delle
quali persegue una sua politica specifica della memoria, ricordando un aspetto, un dramma, una
vicenda particolare.
79
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Tutto questo si verifica osservando e ricostruendo la storia delle feste del 25 aprile, dalla Liberazione
fino ad oggi: feste che assumono il carattere di momento in cui si mettono in scena le differenze,
i conflitti, le rivalità ed emergono le diverse e plurali identità politiche, culturali, le diverse memorie
che sono in competizione nel tessuto sociale. È questo un dato che in qualche misura è fisiologico,
ma che caratterizza in particolare questo rito, quello del 25 aprile, più di altre ricorrenze nella
storia repubblicana. Per esempio la festa del 2 giugno, sulla quale pure in anni recenti ho rivolto
la mia attenzione, è sempre stata invece una festa fortemente istituzionale, di celebrazione o
di auto-celebrazione delle forze armate e dell'apparato istituzionale, con minore coinvolgimento
della società civile e della popolazione. In realtà questo ricorda una tradizione italiana più antica,
cioè il contrasto tra festa dello Statuto e festa del XX settembre. La festa dello Statuto celebrava
appunto lo Statuto Albertino e con esso la monarchia, le istituzioni, l'esercito, che mettevano in
scena il loro potere, mentre la festa del XX settembre ricordava la conquista della capitale ed
era il momento in cui emergevano invece i conflitti tra le diverse correnti della società: i repubblicani
e i monarchici, i cattolici e gli anticlericali, e via dicendo.
Si tratta dunque di dinamiche che hanno una storia lunga e, se andiamo a vedere, ce ne sono
di simili anche in altri paesi; esse inducono a ritenere che il tasso di conflittualità, di rivalità, il
livello dei contrasti e i linguaggi diversi che caratterizzano feste e ricorrenze come quella del 25
aprile non sono strane, non devono suscitare preoccupazioni e non suggeriscono, come è stato
ritenuto, la morte della patria. Il fatto che esistano e siano in competizione, in alcuni momenti,
sensibilità, culture e memorie plurali è un dato normale e fisiologico; anzi la funzione di questo
tipo di feste è proprio quella di consentire, da un punto di vista sociologico e antropologico, di
mettere in scena queste diversità e in qualche modo, mettendole in scena, di stemperarle, di
renderle meno violente, di ridurre il tasso di conflittualità.
Una vicenda come quella delle ricorrenze del 25 aprile, che si collega alle memorie della seconda
guerra mondiale, della Resistenza e del fascismo, ovviamente ha conosciuto vari momenti, varie
stagioni. In maniera molto schematica possiamo qui proporre una rapida periodizzazione. Un
primo momento, direi i primi tre-quattro anni del dopoguerra, sono tutti segnati dall'esigenza
di elaborazione del lutto.
Se si vanno a vedere sia le carte ministeriali che i resoconti dei quotidiani dei primissimi anni,
'46, '47, '48 e ancora '49, le feste del 25 aprile sono il momento in cui le famiglie vanno al
cimitero a piangere i propri morti, un po’ come si fa il 2 novembre o come si è fatto dopo la
Grande guerra per il 4 novembre.
80
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Magari non li piangono al cimitero, piuttosto si recano dove ci sono cippi e lapidi che commemorano
stragi o eccidi di varia natura; ma la funzione è prima-riamente di ricordare persone con una
identità specifica, da parte di parenti e di amici. Infatti i monumenti e le targhe eretti in quegli
anni portano come tratto distintivo una chiara identificazione del nome, dell'identità della persona,
spesso sono corredati dalla fotografia. In questo periodo è da notare che le feste del 25 aprile,
fino a tutto il '49, sono ogni volta un episodio eccezionale ed isolato, sono promosse con Decreto
Legislativo all'ultimo momento dalla Presidenza del Consiglio e non rientrano in un'architettura
liturgico-celebrativa ben definita. È un'architettura che giunge a compimento solo nel '49, dopo
non pochi conflitti, e che finisce con l'includere appunto il 25 aprile tra le feste nazionali, insieme
al 2 giugno e al 1° maggio. Dopo questa prima fase - in cui appunto prevale il bisogno di
commemorare i caduti, in cui ciascun gruppo, ciascun individuo, ogni componente della società
fa i conti con la propria esperienza di guerra e con la propria sofferenza - si passa al periodo della
guerra fredda, definito da alcuni "il lungo inverno della Resistenza", dove in effetti c'è un rifiuto
da parte delle istituzioni governative di consentire spazio e attenzione a tutte le celebrazioni che
riguardano l'esperienza della Resistenza e dove ricordare, per esempio, le violenze compiute
dall'esercito tedesco in Italia rappresenta un problema. Anche perché in quegli anni il governo
italiano, in particolare De Gasperi, persegue una politica di reinserimento della Germania Occidentale
nel consesso delle nazioni europee e mira alla creazione di un'Europa unita che coinvolga anche
la Germania e che preveda un'alleanza militare. In questa ottica, ricordare le colpe e le violenze
della Germania diventa un fatto politico, un fatto di parte, strumentalizzato con cognizione di
causa e con grande efficacia dai comunisti che, ovviamente, sono avversi al riarmo della Germania
per motivi legati alla logica dei blocchi.
In questa fase è significativo il disinteresse delle istituzioni di fronte alle feste del 25 aprile,
soprattutto fino al '55. Ma poi giunge una terza fase, in occasione del decennale: proprio in
previsione del peso che questa ricorrenza avrebbe potuto avere c'è un'inversione di tendenza,
cioè la Presidenza del Consiglio avoca a sé tutta la gestione del rito commemorativo e ne rivendica
il monopolio, demandando ai prefetti l’organizzazione delle celebrazioni in ciascuna provincia e
proibendo qualsiasi manifestazione che non sia gestita direttamente dalle prefetture. Anche qui
il ruolo che hanno le istituzioni è chiaramente legato ad una dinamica conflittuale, tipica della
guerra fredda: c'è il soffocamento, per esempio, delle iniziative che avrebbe potuto gestire l'ANPI,
vicina al PCI, mentre sono favorite altre associazioni partigiane vicine al blocco moderato.
Questa tendenza dura fino agli anni '60 quando, con l'avvio del centro-sinistra, il quadro politico
81
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
generale inizia a cambiare. Si afferma la volontà di legittimare l'operazione di coinvolgimento
dei socialisti nel governo, anche ricordando e ponendo enfasi sulla storia comune, sulla comune
militanza antifascista.
E dunque c'è una riappropriazione delle retoriche e dei linguaggi dell'antifascismo da parte dei
governi democristiani, che proprio in questo periodo provvedono all'erezione del sacrario - cioè
di un cimitero fatto con stile prettamente militare - a Marzabotto e di altre opere monumentali
commemorative. Un'operazione che significativamente, se comporta un diverso e migliore rapporto
tra le varie componenti della società, soprattutto le associazioni organizzate - l'ANPI, la Federazione
Italiana Volontari della Libertà, insomma le varie associazioni dei partigiani - scatena anche
resistenze e insofferenza in settori giovanili.
C'è un intervento notissimo dei Quaderni Piacentini che all'inizio del 1960 si scaglia contro la
Resistenza imbalsamata delle cerimonie istituzionali: intervento che rivela come nei quindici anni
precedenti le tensioni della guerra fredda avessero reso assolutamente ingestibili da parte delle
istituzioni il discorso antifascista come discorso nazionale unificante, o almeno difficilmente
gestibile e utilizzabile a questo fine. In effetti le celebrazioni degli anni successivi, degli anni '60'70, tendono di nuovo a lasciare sempre più spazio alla società civile, ma senza che questo
rappresenti, come aveva rappresentato nei primi anni del dopoguerra, un disinteresse delle
istituzioni; piuttosto c’è la volontà di consentire l'espressione di discorsi plurali e di memorie
plurali, con il finanziamento di varie iniziative. È interessante, per la celebrazione del '65, un
intervento di Parri a questo proposito che dice: "Noi non siamo interessati alle commemorazioni,
ma siamo interessati ai monumenti. Vogliamo la Resistenza nella scuola." E c’è tutta una serie
di iniziative che in effetti portano in parte ad adeguare i programmi scolastici, con un avanzamento
ufficiale e formale dei programmi, che vanno ad includere non solo la guerra, ma anche l'immediato
dopoguerra.
Infine giungiamo ad un periodo diverso, quello attuale, che direi comincia con gli anni '80, dove
c'è un disinteresse crescente per le celebrazioni del 25 aprile in tutti i livelli del corpo sociale,
ma anche a livello politico, mentre prende piede quella che da alcuni è stata definita la nuova
età della commemorazione.
Del resto noi viviamo in un'epoca in cui si commemora di tutto e in continuazione: le commemorazioni
sono eccezionalmente frequenti e si va a creare una curiosa commistione di linguaggi, di formule
e di metodi narrativi, per cui diventa sempre più difficile distinguere tra i diversi oggetti di
memoria. Viviamo in un periodo, soprattutto negli ultimi anni, in cui la Presidenza della Repubblica
82
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
in particolare dedica enorme attenzione ad un ipotetico rilancio del discorso patriottico: con
qualche risultato, è vero, ma a mio avviso senza nessuna possibilità di rifondare realmente un
modello che aveva a che vedere con una concezione della cittadinanza totalmente diversa e
lontana da quella che è la sensibilità di oggi.
Il discorso patriottico tradizionale, con le sue estrinsecazioni retoriche e liturgiche, era legato a
un'idea della cittadinanza di cui si faceva portatore il maschio adulto, che era disposto a combattere
per la patria, e il rito patriottico celebrava e commemorava fondamentalmente il ruolo del maschio
combattente.
Oggi non solo sono saltati gli equilibri di genere su cui si fondava tanta parte della retorica
patriottica tradizionale, ma dal '45 in poi, sebbene in maniera non immediata e secca, è cambiato
anche il modo in cui si articolava il rapporto tra cittadini e istituzioni: non più fondato su un
discorso patriottico, su un'idealità nazionale, ma su altre cose, sul sistema del welfare, tanto per
fare un esempio. L'oggetto principale della politica, fino alla seconda guerra mondiale, erano la
guerra e la pace, la diplomazia e i trattati.
L'oggetto principale della politica dopo la seconda guerra mondiale sono la redistribuzione della
ricchezza e dunque tutte le politiche del welfare, in particolare per paesi come l'Italia; e ciò
inevitabilmente incide, tende a svuotare di significato un certo discorso e un certo tipo di pratiche
liturgiche, che possono anche essere rilanciate tramite un'iniziativa delle istituzioni, ma che
secondo me non possono giocare sul retroterra di sentimenti, di comportamenti, di pratiche sociali
sulle quali originariamente fondavano la loro legittimità.
83
84 - BIANCA
Forme diverse di memoria storica nell'età moderna
Roberto Bizzocchi
Università di Pisa
Io invidio Ronzani che è riuscito in 20 minuti a dare un quadro così complessivo del problema
della memoria nella storia medievale. Io avevo scelto una via diversa e ora sono anche un po’
pentito; ma, visto che pensavo che non fosse possibile in un intervento di 20-25 minuti dare
un'idea complessiva del problema storia/memoria nel periodo moderno, avevo preferito ricorrere
a un'esemplificazione, che vi farò in breve.
Prima, però, vorrei dire che mi sono venute in mente, proprio ascoltandolo, due cose che sarebbe
stato interessante toccare. Ronzani ha parlato di tombe. A proposito di questo modo così toccante
e anche coinvolgente di intendere la memoria, per l'età moderna ci sarebbe un grande tema da
affrontare, e cioè che cosa ne è della sepoltura in età moderna: il passaggio dalla sepoltura
ecclesiastica, quella che evocava Ronzani, alla sepoltura laica, addirittura il grande progetto, il
grande sogno razionalistico e illuministico di pareggiare tutti nella morte, di metterci tutti in una
fossa comune indistinta. E poi quella soluzione di compromesso che è uscita fra Illuminismo,
Rivoluzione Francese e Napoleone, che è sostanzialmente alla base del cimitero come l'abbiamo
in mente noi: il cimitero-giardino che non è più la sepoltura nobiliare ecclesiastica, ma non è
neanche la dura proposta illuministica della cancellazione della memoria individuale. Illuministica,
ma anche cristiana, perché naturalmente è anche un'applicazione rigorosa dell'atteggiamento
cristiano: tutti polvere davanti alla morte. La soluzione ottocentesca che comincia con Napoleone
è quella soluzione di compromesso che noi tuttora abbiamo presente; fra l'altro, su questo tema
il bel libro di una collega pisana, Grazia Tomasi, che si intitola "Per salvare i viventi" tratta proprio
questo argomento.
Un altro punto sarebbe stato interessante perché è una cosa che può anche sorprendere: noi
modernisti ci poniamo anche il problema della memoria orale. Non perché conosciamo qualche
Matusalemme che abbia 400-500 anni e sia ancora in grado di raccontarci quello che ricorda del
periodo fra la fine '400 e la fine del '700, ma perché è possibile leggere - gli antropologi, gli
etnostorici, ci hanno insegnato a farlo - attraverso feste e cerimonie che ancora esistono in alcune
parti del mondo, una memoria lunghissima di eventi: questi aspetti folklorici infatti a volte sono
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
estremamente conservativi. Il libro di riferimento, bellissimo, su questo tema è quello dell'etnostorico
francese Wachtel intitolato "La visione dei vinti", che è un tentativo di vedere la vicenda della
conquista spagnola del Perù, nella prima metà del '500, liberandosi dal pregiudizio europeo e
partendo dall'altra parte. Naturalmente gli indios non hanno una grande abbondanza di fonti
letterarie, e allora che cosa si fa? Si comincia dal folklore degli anni '50 e '60 del '900 e si cerca
su quella base di risalire indietro.
Questo solo per dire che la casistica può essere estremamente ampia e varia. Io mi sono scelto
un percorso più particolare, che ho anche pensato in riferimento a possibili applicazioni della
ricerca storica alla didattica. Vi parlo adesso molto rapidamente e schematicamente di temi che
si potrebbero riprendere con un'esperienza di lavoro in classe, forse anche alle scuole medie
inferiori: dipende sempre da come vengono presentate le cose. Magari in una interazione tra
lavoro in classe, lavoro in Archivio di Stato - e qui abbiamo un ottimo Archivio di Stato con
funzionari disponibilissimi - e in biblioteca, quella universitaria o altre.
Il percorso che propongo è quello della memoria familiare, e l'ho articolato in tre momenti
cronologici, naturalmente in modo molto schematico, con un quarto punto finale a commento
del discorso.
Primo momento: il Basso Medioevo, 1300 - 1400 (ci sarebbe qui il solito problema: il Basso
Medioevo fa parte del Medioevo, fa parte dell'Età Moderna... Come avete sentito, Ronzani - un
po’ per lasciare qualcosa da dire a me, gentilmente, ma un po’ anche perché i medievisti pensano
che il '300-'400 cominci ad essere infetto di modernità - ha parlato soprattutto della parte centrale
del Medioevo). Il tipo di fonte storica che potremmo scegliere come esemplare della memoria,
in particolare della memoria familiare, nel Basso Medioevo è il libro di ricordanze, il libro di
famiglia (non so se è mai capitato a qualcuno dei miei ascoltatori di vederne uno: ce ne sono
tanti, alcuni molto belli, in Archivio di Stato a Pisa). È un libro che nasce come libro di conti,
come lo potremmo avere noi se ancora avessimo la vecchia educazione di economia domestica
che avevano i nostri nonni, se tenessimo un libro di entrate e uscite dei conti di casa. In questo
- che è un libro essenzialmente di conti, fatto di numeri, quindi molto schematico, veramente
un libro da ragionieri - piano piano vengono inserite notizie di carattere diverso, che stanno un
po’ fra il conto di casa, l'economia domestica e la vita della famiglia interessata da quell'economia
domestica. Quindi è una fonte che pian piano si arricchisce e comincia ad essere una cronaca
della vita di una famiglia.
Questo genere letterario ha dei caratteri molto marcati e molto interessanti, che ora vi dico nei
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
termini più schematici. La famiglia qui è intesa come un corpo organico, in cui non contano tanto
le unità individuali, ma l'interesse della famiglia come corpo organico, inteso in modo sovragenerazionale. Questi libri vengono in genere tenuti dal capofamiglia maschio, dal padre di
famiglia, che scrive per la sua generazione e poi consegna anche fisicamente al suo successore,
che è il primo dei figli maschi che continuerà la famiglia, questo libro da continuare. Naturalmente
i casi della vita fanno sì che non sempre questi libri durino a lungo, come intenderebbe chi li
comincia; però se ne trovano ed io ne ho trovato qualche settimana fa proprio uno bellissimo a
Lucca, nel Fondo Arnolfini, che è tenuto da quattro generazioni diverse e che va dalla prima metà
del '600 alla metà del '700. Con questo introduco un altro elemento sul quale poi tornerò,
l'elemento cronologico, ma prima voglio aggiungere che un'altra caratteristica dei libri di famiglia
è di essere legatissimi alle vicende della città. La storia della famiglia è sempre ricostruita con
un'enorme attenzione alla vita della città: agli episodi salienti e al ruolo che la famiglia ha nella
vita della città.
Non a caso questo tipo di memoria cittadina, che esiste un po’ dappertutto in Italia, è marcatamente
presente nella Toscana comunale, nella Toscana ancora repubblicana del '300-'400, perché è una
memoria fortemente legata alla dimensione borghese, cittadina, mercantile, dei ceti dirigenti
toscani del Basso Medioevo. A Firenze questi libri di famiglia abbondano, ma ce ne sono un po’
in tutte le città toscane.
Secondo momento: passiamo alla prima Età Moderna, 1500-1600, e incontriamo la crisi del tipo
di memoria familiare che vi ho appena ricordato. Crisi relativa: ho fatto l'esempio del libro di
famiglia Arnolfini di Lucca che ancora esiste, nel '600-'700, il che vuol dire che questo tipo di
memoria familiare non sparisce del tutto. Questo perché in Italia, soprattutto nell'Italia centrosettentrionale e più ancora nell'Italia centrale, e più ancora nella Toscana, la tradizione civica è
fortissima: la città rimane un punto di riferimento importantissimo, decisivo. Quindi la memoria
dei ceti dirigenti toscani continua ad essere fortemente legata alla città, anche dopo che nel '500
il profilo complessivo della storia italiana e dei suoi ceti dirigenti cambia profondamente: finisce
la libertà d'Italia, arrivano gli spagnoli, comincia la Controriforma e il profilo borghese e comunale
dell'Italia dei secoli basso-medievali comincia a stemperarsi e ad andare in crisi. Ma anche se
non è una crisi totale, perché non sparisce completamente la civiltà delle città che caratterizza
così fortemente la storia italiana e in particolare toscana, ad essa naturalmente si accompagna
la crisi di quel genere di memoria familiare che era il libro di famiglia che vi ho appena descritto.
Quella che si potrebbe scegliere allora come tipo di memoria familiare rappresentativo di questa
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
prima età moderna, 1500-1600, è la storia genealogica della famiglia: non più un libro che nasce
da un'esigenza pratica, addirittura economica, in una dimensione molto legata alla presenza
economica e politica di una famiglia nella città, ma un libro che nasce soprattutto per esigenze
celebrative. La genealogia della famiglia, infatti, è un libro che in genere viene stampato, che
non è scritto dal capofamiglia o dai diretti interessati, ma viene affidato ad un erudito, un dotto,
che scrive a pagamento; e questo tipo di memoria familiare si caratterizza per il fatto che la
famiglia non è tanto interessata a tenere preciso conto e a dare dimostrazione del suo legame
con la storia della città, quanto a dimostrare l'antichità, la nobiltà, il prestigio della sua origine.
Queste storie genealogiche, che abbondano nell'Europa del '500-'600 e cominciano ad abbondare
anche in Italia e in Toscana, chiaramente dipendono dal nuovo profilo che ha la storia di questi
ceti dirigenti. Non più la cultura mercantile e borghese della città, ma la cultura nobiliare di ceti
e di famiglie che ormai traggono il loro sostentamento, la loro forza e il loro prestigio più dalla
rendita terriera che dalle attività economiche della sfera mercantile. Intendiamoci bene: questo
fenomeno l’ho esposto ora nel modo più schematico, in quanto gli studi che sono stati fatti sulla
storia economica del '500-'600, per esempio dal collega Malanima di Pisa, hanno dimostrato che
queste cose non succedono così in fretta. Ad ogni modo, schematizzando un po’, a questo grande
e profondo cambiamento della società italiana corrisponde un cambiamento del tipo di memoria
familiare.
Le storie genealogiche sono anche buffe perché, se ci si mette nell'ordine di idee non di mantenere
una memoria pratica del legame con la vita economica e con la città, ma di cercare l'origine
illustre della famiglia, non ci si ferma mai. L'origine illustre può essere il Crociato, può essere
Carlo Magno, può essere una grande famiglia dell'antica Roma, può essere Noè, Adamo... e così
via. La cosa che colpisce in questi libri - nella Biblioteca Universitaria di Pisa ne abbiamo a
centinaia, perché abbiamo un bellissimo fondo di stampe del '500 e del '600 - è che intanto sono
libri a stampa, molto ben stampati, a volte molto eleganti. A proposito proprio di quello che diceva
Guri Schwarz, che anche noi che facciamo gli storici non siamo immuni dalla sacralizzazione della
memoria, possiamo verificare che queste storie genealogiche del '500 e del '600 sono fatte come
i nostri libri di storia e qualche volta hanno perfino le note a piè di pagina e gli apparati documentari,
dove sono trascritti dei documenti che, per esempio, tendono a dimostrare come la famiglia
Ronzani, o la famiglia Bizzocchi, o altre famiglie di Pisa discendono da Giulio Cesare. Quindi
Voltaire parlerà a questo proposito di docte absurdité, cioè dotta assurdità. Questo aprirebbe un
altro discorso sul quale adesso naturalmente non mi addentro.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
Altro periodo, terzo in questa scansione cronologica: 1700-1800. Comincia una memoria che non
è più solo familiare, ma è individuale, perché si diffonde anche in Italia un tipo di memoria molto
più personale: chiamiamola, semplificando, diario, o qualcosa di simile al diario. Ho detto: "si
diffonde anche in Italia" perché questo genere di memoria - meno della famiglia come organo,
come corpo, meno sovra-generazionale, più personale ed individuale - arriva in Italia più tardi
che in altri paesi d'Europa. Questo perché l'Italia è un paese cattolico e non un paese protestante;
e non è un caso che il diario si diffonda soprattutto a partire dall'Inghilterra e dal nord-Europa,
né che le prime forme di memoria diaristica siano nei paesi protestanti, nei paesi calvinisti
soprattutto. Infatti la teologia morale protestante impone naturalmente una forte introspezione,
la responsabilità diretta del cristiano davanti a Dio e quindi un'abitudine all'autocoscienza e
all'autodisciplina, che naturalmente porta ad individualizzare, personalizzare fortemente ogni
propria esperienza di vita. Questo, tra l'altro, ci aprirebbe un'altra interessante riflessione, che
ora naturalmente non ho il tempo di fare: quante cose, che noi siamo abituati a etichettare sotto
un segno di progresso, di modernità o di laicità, hanno un'origine più complessa. Per esempio,
riflettere sulle origine religiose dell'individualismo moderno ci porterebbero molto lontano.
Per dire come questa sia nell'Italia del '700-'800 una grossa novità, a me è capitato qualche anno
fa di trovare uno di questi libri di famiglia che ancora esistono nel '700, come dicevo prima, come
un fenomeno in parte residuale, ma anche interessantissimo. Un libro di famiglia cominciato a
Pisa all'inizio del '700 da un tizio che si chiamava Leonardo Bracci Cambini, ancora nello spirito
della famiglia come corpo, come organo, come entità sovra-generazionale; continuato un po’
stancamente fino a metà del '700 dai suoi figli, poi ripreso nella seconda metà del '700 da uno
dei suoi nipoti, che non a caso, però, non è il primogenito di quella generazione, ma è un fratello
minore, un fratello cadetto.
Questo nipote tiene quello che dovrebbe essere un libro di famiglia in una chiave completamente
diversa. Invece di continuare il libro di memoria della famiglia, dei conti della famiglia, in questo
progetto di eternare la famiglia come organo, egli lo trasforma nel diario della sua esperienza
personale di vita che, fra l'altro, conosce l'esperienza della durissima rottura con il capofamiglia,
suo fratello maggiore, e quindi con la logica della famiglia come corpo unitario. Per cui questo
stesso testo - un documento che sta nell'Archivio di Stato di Pisa - questo stesso oggetto che
si presenta formalmente come i vecchi libri di famiglia, col dare e l'avere, il vecchio libro di conti
cresciuto un po’ su se stesso, ad un certo punto, come se fosse una botte vecchia con vino nuovo
dentro, viene fatto esplodere dal di dentro: nella sua stessa struttura e anche graficamente,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
perché il nipote ad un certo punto non riesce neanche più a scrivere l'esperienza torrenziale,
psicologicamente individuale che vive, entro le coordinate grafiche del libro come l'aveva cominciato
il nonno. E quindi il libro è anche divertente da sfogliare perché ci sono segnacci, punti esclamativi,
disegnini, parolacce, e così via.
Tirando le somme, concordo sia con Schwarz che con Ronzani che la preoccupazione che sempre
si deve mantenere - almeno dal punto di vista di un modernista, ma forse anche di più dal punto
di vista di un contemporaneista - è quella di sottolineare instancabilmente la diversità fra memoria
e storia. Si potrebbero fare esempi per ognuno dei tre momenti che ho preso in considerazione,
ma ne riprendo solo uno per dimostrare questo assunto.
Una cosa che colpisce - lo vedo anche con gli studenti quando glieli faccio leggere, ma io stesso,
quando per la prima volta ho fatto l’esperienza di leggere uno di questi libri di famiglia, sia quelli
del periodo aureo del '300-'400 sia quelli successivi, sono rimasto veramente a bocca aperta è che ad un certo punto si trova: "Oggi pagati soldi tanti per il riso. Oggi comprato da mastro
Piero calzolaio 2 paia di scarpe di vacchetta per mio figlio, lire tante. Oggi morto alle ore tali il
mio figlio Bartolomeo di un attacco di vaiolo, spese lire tante per la cassa..." Ricordo che per me,
le prime volte che leggevo queste cose, era proprio uno shock. Mi colpiva come le esperienze
per noi più emozionanti che si possano immaginare venissero registrate esattamente in lista,
nello stesso modo in cui si registrava l'acquisto di un salame. La prima reazione naturalmente
è: "È mostruoso. Di fronte a che tipo di mostro mi sto trovando?“. La seconda reazione è:
“Cerchiamo di decodificare, da storici, questo tipo di memoria. Che tipo di memoria è? Se uno
è un capofamiglia che ha la responsabilità di un'economia domestica e scrive un libro di conti,
scriverà anche le lire e i soldi, i danari che ha speso per fare la bara, per fare cose del genere”.
Ulteriore considerazione: "Certo, il fatto che uno registri esperienze del genere in questo modo
significa pur qualcosa.
Non è che non significa nulla”. Questo adesso aprirebbe un'intera discussione, un seminario su
che tipo di sensibilità, che tipo di idea e di pratica della famiglia abbiano delle persone che
registrano le cose in questo modo. Tutto questo per dire semplicemente che bisogna stare sempre
molto attenti a non confondere la memoria e la storia.
Un altro esempio solo, clamoroso, che forse è stato già fatto stamattina nelle relazioni
contemporaneistiche: pensate a che cosa sia la memoria storica dei popoli fra il '700 e l'800.
Pensate a che ondata di irrazionalità si diffonda in Europa dopo l'Illuminismo, dopo che Voltaire
aveva rivisto le bucce alla dotta assurdità che aveva alle spalle; pensate a che peso di identità,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
fino qualche volta al fanatismo, ci sia nella costruzione della memoria nazionale dei paesi e delle
nazioni fra il '700 e l'800; e quindi come sia necessario distinguere, in un caso del genere, fra
memoria e storia.
Non volevo finire su questo tema così alto e impegnativo, ma richiamare un attimo il punto da
cui sono partito. Naturalmente non è una cosa semplicissima, a scuola tutti abbiamo le nostre
esigenze del programma da fare, dei ragazzi da tenere buoni; magari all'Università stanno un
po’ più buoni da soli, ma poi ci sono tante esperienze comuni: la riunione da fare, il preside di
facoltà, se non è il preside del liceo o della scuola media, che ci mette certi limiti. Ecco, all'interno
dei limiti che ognuno di noi ha, credo che non sia impossibile pensare a dei percorsi molto semplici,
in cui si possano usare queste tipologie di memorie. Naturalmente un pochino confezionate, però
non confezionate troppo perché la mia esperienza è che, se si confeziona troppo, i ragazzi si
divertono di meno: se invece gli si presenta un po’ di materiale grezzo hanno una grandissima
curiosità, e quindi gli si stimola anche l'interesse. Soprattutto se si parte dal caso molto particolare,
dal caso locale - e va benissimo secondo me partire dal caso locale, anzi la buona storia è sempre
anche storia locale, magari di una località molto grande, ma va benissimo anche una storia locale
di Pisa: poi di lì si possono richiamare tanti temi di interesse generale estremamente importanti.
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92 - BIANCA
Il Progetto Memoria
Ida Nicolini
Comune di S. Giuliano Terme
“Da parte della popolazione di San Giuliano Terme non vi fu mai un’adesione massiccia al fascismo.
Gli antifascisti esplicarono sempre una notevole attività di opposizione, anche passiav, creando
piccole biblioteche circolanti clandestine,l che trovavano appassionati lettori, soprattutto tra i
giovani, che venivano cosi’ educati ad una lotta antifascista sempre più cosciente e proficua…”
Giuliano Filidei
Il “Progetto Memoria” nasce nel 1995 da una collaborazione tra l’Amministrazione comunale , il
circolo “Le Storie” di Molina di Quosa, l’A.N.P.I. sezione di Pisa e le scuole del territorio comunale.
L’obiettivo del progetto è il recupero della memoria storica degli eventi della Seconda Guerra
Mondiale e della lotta di Liberazione, con particolare riferimento agli avvenimenti accaduti nel
territorio comunale.
L’iniziativa si snoda durante l’anno scolastico, attraverso incontri delle classi coinvolte con i
“testimoni del tempo” e la visita alla località “La Romagna” di Molina di Quosa, dove nel 1944
furono trucidati 69 civili da parte delle forze nazi-fasciste.
Il percorso didattico, assicurando il contatto diretto con fonti non-scritte, diviene strumento
efficace di apprendimento della storia: in particolare la conoscenza della storia locale e di “microstorie” diviene per gli alunni un metodo di comprensione e contestualizzazione della “macrostoria”.
Le classi partecipanti svolgono un lavoro propedeutico di inquadramento dell’epoca storica e
ricostruzione degli eventi attraverso l’incontro con i “testimoni del tempo” che sfocia poi nella
visita in località “La Romagna “ di Molina di Quosa.
Nel corso degli anni sono stati organizzati incontri tra gli studenti e figure particolari della
Resistenza pisana e nazionale, docenti di storia dell’Università di Pisa, ex deportati, in modo da
inserire e contestualizzare la micro-storia nel contesto più ampio della Seconda Guerra Mondiale.
Il Progetto Memoria, che alla nascita vedeva la partecipazione della sola scuola elementare di
Molina di Quosa, coinvolge ormai tutte le scuole elementari e medie del territorio, che in occasione
93
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
del 25 aprile, celebrato proprio in località “La Romagna”, presentano gli elaborati realizzati durante
il corso dell’anno scolastico (cd-rom, cartelloni, vhs, ecc.).
Il Progetto Memoria ha creato un’unità d’intenti tra gli insegnanti che lo inseriscono nel programma
e che “lavorano” su tali argomenti per tutto l’anno scolastico, l’Amministrazione Comunale, il
Circolo ”Le Storie” e l’ANPI sezione di Pisa.
Ogni anno vengono donati alle scuole strumenti didattici quali videocamere e macchine fotografiche,
sempre nell’ottica di un recupero della memoria.
In particolare gli insegnanti hanno dimostrato interesse, sensibilità, coinvolgimento. Hanno aderito
al Progetto Memoria 2003 13 scuole tra elementari e medie, per un totale di 21 classi coinvolte
(circa 350 gli studenti). Per il 2004 hanno aderito 13 scuole tra elementari e medie per un totale
di 26 classi (oltre 400 studenti)
Il Progetto Memoria 2004 partirà a febbraio con il seguente programma:
-
Incontro delle classi alla presenza dei “testimoni del tempo “ (testimoni che hanno vissuto
le vicende dell’ultima guerra mondiale,in particolare la lotta di liberazione nel nostro
territorio)
-
Incontro in località “La Romagna” di Molina di Quosa, teatro di strage nazifascista, con
i rappresentanti del Circolo “Le Storie” e i “testimoni del tempo” (compatibilmente con
le condizioni di salute di questi ultimi); in caso di maltempo o indisposizione dei “testimoni
del tempo” gli incontri si svolgeranno presso le scuole con la proiezione di video e diapositive
-
Incontro con l’ANED e presentazione del cd-rom sul pellegrinaggio ai campi di concentramento
da parte degli studenti pisani
-
Chiusura dell’ iniziativa il 25 Aprile 2004 in località “La Romagna” di Molina di Quosa, con
presentazione dei lavori realizzati nelle scuole.
Di anno in anno gli elaborati della classi sono diventati sempre più approfonditi e completi;
in particolare nel corso degli ultimi anni i lavori di ricerca realizzati dalle classi aderenti al progetto
sono divenuti vere e proprie fonti di documentazione storica. Le figure di Livia Gereschi, Don
Bertini, Licia Rosati sono state oggetto da parte degli studenti di una ricerca molto accurata che
si è snodata attraverso fonti archivistiche, interviste ai testimoni diretti degli episodi, ricerche
su testi scritti e non, studio della topografia delle zone coinvolte, ecc.
94
Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
A partire da quest’anno questa Amministrazione sta iniziando un lavoro di inventariazione,
riorganizzazione, schedatura, recupero dei materiali prodotti dalle scuole con l’appoggio
dell’archivista, nell’ambito di un progetto dell’archivio storico comunale
Il Comune di San Giuliano Terme a partire dal 2001, infatti, aderisce alla Rete Archivistica
Provinciale, e in un’ ottica di promozione e recupero dell’identità e della memoria della comunità
intende proseguire il recupero delle fonti orali riguardanti il periodo della seconda guerra mondiale
ed il periodo della liberazione in particolare.
Quest’anno, ad esempio, il Comune ha prodotto un video, nel quale attraverso interviste a
testimoni del tempo si ricostruisce la strage avvenuta a Molina di Quosa in località “La Romagna”.
Al di là di ogni singolo progetto che ogni Comune porta avanti nell’ambito del “recupero della
memoria storica”, sarebbe opportuno attivare un progetto provinciale sul recupero delle fonti
orali e testimonianze scritte, per organizzare un archivio provinciale della memoria da mettere
in rete, coinvolgendo Provincia, Università, Archivi storici e le Scuole, utilizzando la professionalità
degli archivisti.
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96 - BIANCA
Storia, memoria, immagini:
un'esperienza didattica in una scuola media
Sandro Marianelli
Istituto Comprensivo G.B. Niccolini, S. Giuliano Terme
1. Scuse per il titolo Prima di tutto una precisazione sul titolo: è brutto e banale, e sottintende
che ciò che verrà detto è la solita relazione di una scuola che si propone come modello per
mettere in mostra ciò che fa. La prima versione del titolo doveva essere piuttosto Le cose vecchie
sono belle! Come (tentare) di suggerire (o imporre) questa idea a degli alunni di scuola
media utilizzando e producendo immagini; non ho però avuto il coraggio di proporlo ad
Alessandra, forse perché mi sembrava poco professionale (e anche eccessivamente wertmulleriano),
soprattutto rispetto al tema del dibattito di oggi, e poi mi pareva che sottolineasse troppo la
distanza tra il dibattito sulla didattica della storia e il livello concreto dell'intervento quotidiano
con cui gli insegnanti lavorano in classe.
E d'altra parte in questo tipo di convegni, è giocoforza che le scuole mettano in mostra i loro
lavori specifici, che di solito sono interessanti e ben presentati (e guai se non si usa Power Point!),
ma poi magari la realtà quotidiana è fatta di altro, di fatica, di ultime ore del sabato passate a
spiegare i Fenici sul manuale (ohibò), con i cedri, la porpora e magari anche il vetro. Altro che
affascinanti suggestioni sull'uso delle immagini nella didattica della storia! A parte ciò, vorrei dire
che mi sono sembrate molto interessanti alcune delle riflessioni che ho sentito sia stamattina
che oggi pomeriggio riguardo al rapporto tra la storia e la memoria, ai possibili rischi insiti nella
familiarizzazione del ricordo e nella banalizzazione della memoria, alla necessità da parte dello
storico di far uscire i fatti storici dall'emotività e da una sorta di alone mitico. E sentire questo
tipo di riflessioni, e poi rapportarle alle scelte didattiche che vado facendo come insegnante di
scuola media, mi porta a riflettere sui limiti di ciò che faccio e sulla possibilità di cercare nuove
vie per lavorare in modo meno banale e improduttivo.
E proprio a partire da queste riflessioni, ho come l'impressione che questa mia relazione possa
essere molto eccentrica rispetto al tema di questa giornata, pur non mancando evidentemente
i punti di contatto.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
2. La memoria, la storia e i miei alunni Cerco di spiegarmi meglio: insegno lettere nella scuola
media da circa 20 anni, sono anche laureato in storia contemporanea, ho anche qualche antico
trascorso di ricerca, e mi piace ricordare che il mio professore era Lorenzo Gestri; credo che oggi,
se fosse ancora qui fra noi, avrebbe potuto darci anche qualche spunto intelligente e acuto, come
spesso faceva, proprio perché rispetto ai temi del mito e della memoria all'interno dei suoi studi
sulla classe operaia, e sul movimento operaio, aveva scritto cose importanti e suggestive.
Nonostante questo know how (ehm…) storia è decisamente la materia che insegno peggio, almeno
secondo una mia percezione autovalutabile e automonitorante (o automonitorata?), per giunta
empirica e soggettiva. I motivi di questa insoddisfazione sono molti, e vorrei accennare brevemente
a qualcuno di essi, sui quali tra l'altro mi interesserebbe sapere il parere dei colleghi qui presenti.
Diciamo che uno dei punti più problematici è spesso la difficoltà di ragionare con i ragazzi su ciò
che il passato è e rappresenta per loro. È di solito un terreno minato, in cui probabilmente
emergono in loro la mancanza di un linguaggio specifico adeguato e la difficoltà di ragionare sulla
storia (forse anche per l'abitudine ad una comunicazione spezzettata e frammentata) e di
comprendere la dimensione reale del tempo che passa. Non son qui a fare il solito lamento
squallido dell'insegnante che dice che i suoi alunni non sono più quelli di una volta, e via
discorrendo. Si tratta forse di una questione di minore familiarità con determinati linguaggi e
ambiti di riflessione, di cui la storia è senz'altro un esempio non secondario. Ma la mia impressione
è che a questi elementi se ne aggiungano altri, forse più insidiosi.
Nei miei alunni, infatti, mi pare di intravedere non di rado una vera e propria insofferenza verso
ciò che è passato, ciò che è vecchio. E la storia è tendenzialmente qualcosa di sbiadito e poco
attraente, perché è appunto vecchio e opaco, è lento e noioso, è qualcosa che appartiene agli
adulti insomma.
Visto che parliamo di immagini, faccio un riferimento televisivo: il canale di riferimento dei ragazzi
di questa età è di solito Italia 1, rete che bandisce quasi inesorabilmente film o telefilm di carattere
storico: lì la storia quasi non esiste, o, se ne affiora un barlume, la troviamo stravolta nei fumetti
di Hercules o nella fantasy di Xena, la principessa guerriera, dove magari il dio Marte è un giovane
muscoloso e con l'orecchino, e la protagonista combatte contro Giulio Cesare un po' come in
Guerre stellari. E' lì che qualche mio alunno ha il primo approccio con la mitologia. E, sempre
per parlare di immagini, bisogna essere prudenti anche nell'usare il cinema per parlare di storia;
ad esempio fino a qualche anno fa, parlando della conquista del west, proponevo talvolta la
visione di Piccolo grande uomo, un film non poi così obsoleto; risale agli anni '70, è a colori,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
sembrerebbe un film anche spettacolare, c'è Dustin Hoffman, e così via: eppure mi accorgo subito
che c'è qualcosa che non va, perché vedo i miei alunni che si annoiano rapidamente, forse perché
il film sembra a loro troppo vecchio, o perché il montaggio non è abbastanza frenetico, ci sono
troppe parti dialogate (e quando i dialoghi sono troppo frequenti, immediatamente tutto diventa
noioso).
3. Le immagini, il vecchio e il cinema Che fare dunque, di fronte a questa situazione? Come
è possibile non dico intervenire proficuamente, ma almeno tentare di incrinare questo atteggiamento
che tanti nostri alunni dimostrano? Personalmente, oltre evidentemente a lavorare nello spazio
curricolare, cerco di usare anche le immagini, sia attraverso la fruizione che la produzione diretta
di immagini in movimento.
A proposito di fruizione, vorrei fare alcune brevissime riflessioni, anche se mi rendo conto che
questa non è forse la sede adatta. Volevo accennare al fatto che nella scuola (in questo caso
parlo di scuola media, evidentemente) il cinema è usato spesso in modo banale e poco corretto,
e soprattutto senza considerarne minimamente gli aspetti specifici del linguaggio. Di solito i film
vengono utilizzati come mero supporto di contenuto a determinati temi affrontati nel "programma",
mentre più raramente si tenta di ragionare con i ragazzi sui loro aspetti formali e sul modo
attraverso il quale certi contenuti vengono presentati. Personalmente, pur con molti limiti ed in
modo certamente elementare, cerco di sottolineare ai ragazzi almeno alcuni elementi del linguaggio
dei film che presento loro.
Comunque utilizzo con una certa frequenza la proiezione di film in videocassetta, a volte
organizzando minicicli su tematiche particolari: ad esempio, per quel che riguarda narrativa,
propongo spesso opere di fantascienza. E qui torniamo al discorso iniziale sul "vecchio": già
perché mentre i miei alunni, poverini, si aspettano Star Trek, Guerre stellari o Indipendence
Day, si devono sorbire i classici degli anni '50, quelli in bianco e nero, dove ci sono pochissimi
effetti speciali, L'invasione degli ultracorpi, Il villaggio dei dannati, Ultimatum alla terra,
e così via. L'idea è di valorizzare e di presentare come bello ciò che è avvertito "come vecchio".
Certo, ci sono grosse incognite, si rischia di suscitare noia, perché insomma il bianco e nero per
loro è innaturale e quasi eretico. A proposito di eresie, per tentare di rendere più interessante
la proiezione (oltre che per puntualizzare meglio alcuni concetti) interrompo spesso i film; lo so
che non si dovrebbe interrompere un'emozione, ma mi pare che così la presentazione dell'opera
sia più efficace. E poi i ragazzi, abituati alle interruzioni pubblicitarie, trovano perfettamente
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
normale che io metta in pausa il videoregistratore e dica loro qualcosa; la mia impressione è che
seguano meglio il film, anche perché la sottolineatura di un aspetto formale importante (le luci,
il tipo di inquadrature, eccetera) è più efficace se viene colta sul momento, e non dopo la fine
del film, quando magari non è facile ricordare certi particolari.
Insomma, per riprendere il filo del discorso, fin dalle proposte di fruizione di immagini che faccio
ai ragazzi, cerco di tenere presente questo discorso sul passato; si tratta quindi di un'idea
minimalista e molto empirica, in cui mi illudo di vedere il tentativo di coinvolgere i ragazzi in un
rapporto diverso, più fecondo e più bello con il vecchio; si potrebbe definirla come la preistoria
dell'approccio alla riflessione storica.
4. Computer, foto e storia Questa idea cerco di tenerla presente non solo nel momento in cui
propongo ai ragazzi la visione di immagini, ma anche quando realizziamo concretamente un
lavoro utilizzando fotografie o immagini in movimento. A questo proposito vorrei iniziare da alcune
esperienze che probabilmente sono comuni a molte scuole, come ad esempio avviene alla scuola
media di Barbaricina ad opera della professoressa Marina Crescimbeni. Si tratta di lavori realizzati
su supporto informatico utilizzando delle fotografie raccolte dai ragazzi in famiglia. Sono lavori
dai titoli ingenuamente ambiziosi, come La storia fotografica dell'Italia del XX secolo, o
Storia delle donne nell'Italia del '900; l'enfasi di questi titoli è un po' un gioco, e anche i
ragazzi se ne rendono conto, però il materiale raccolto in qualche caso è sufficiente per dare
un'idea di alcune tematiche, che poi i ragazzi affrontano anche sul manuale (il manuale!), nel
programma canonico.
La realizzazione del CD (uso il programma Front Page) avviene in modo molto tradizionale e poco
geniale: si tratta banalmente di raccogliere del materiale fotografico. La fase della raccolta è
molto semplice: "Ragazzi, portate delle foto vecchie.” “Ma vecchie quanto?” “Fate voi, chiedetelo
in casa, chiedetelo ai nonni”. "Ma solo di guerra?" "No, va bene qualsiasi cosa!" "Anche la foto
della mia zia in giardino?" "Ma sì, te porta tutto, poi si vede". Questa fase, che potrebbe essere
definita come una sorta di "image storming", dura molto, perché a volte "le foto ce l'ha la mia
nonna che sta a Ponsacco e ci vado tra quindici giorni".
Le foto raccolte vengono divise sia cronologicamente che per temi, e formano quindi un percorso
su cui è possibile navigare. Intendiamoci, dal punto di vista informatico sono lavori poco interessanti,
a grado zero di interattività (come direbbe il mio amico Paolo Carosi). Non solo, per farli ci vuole
molto tempo: bisogna scannerizzare moltissime foto, nel caso della storia delle donne più di 400,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
poi scrivere le didascalie e realizzare centinaia di pagine HTML. Abbiamo anche aggiunto delle
musiche "emblematiche", che fanno da colonna sonora alle immagini; ad esempio nella Storia
delle donne sopra citata ci sono sia musiche scelte dai ragazzi, sia brani che ho proposto io
(sono quelli che riguardano la storia meno recente, Balocchi e profumi in classe non la conosceva
nessuno); su certe sezioni io e i ragazzi litighiamo in un cruento scontro generazionale: nella
sezione sulla prima guerra mondiale è meglio La guerra di Piero o la versione di Vasco Rossi
di Generale? Spesso le musiche creano un contrappunto ironico: ad esempio nella sezione
dedicata al tema della politica c'è il pezzo di Mary Poppins in cui la signora Banks canta l'inno
delle suffragette, mentre nell'introduzione ci sono La donna è mobile e No, woman, no cry
di Jimy Hendrix.
Queste musiche accompagnano la navigazione in maniera del tutto arbitraria, perché a differenza
di un video, quando la musica deve collegarsi esattamente su una certa inquadratura, in questo
caso si creano associazioni e contaminazione anche abbastanza casuali.
Per la verità esistono anche dei lavori cartacei che vengono realizzati con la stessa metodologia
iniziale, semplicemente le foto vengono ingrandite con una fotocopiatrice laser in formato A3,
sistemate dagli alunni con molta diligenza e poi rilegate da una copisteria. Queste storie cartacee
a me piacciono anche più dei CD: le foto sono grandi, si possono toccare, emanano anche un
buon odore, mentre il CD non mi suscita nessuna situazione affettiva, però ha un vantaggio: può
essere masterizzato e distribuito ai ragazzi (e infatti è ciò che avviene, mentre far fare un'altra
copia del libro cartaceo costa magari 100 euro).
5. Come leggere vecchie foto Le varie foto che vengono utilizzate, divise, come accennavo
prima, in sezioni di tipo cronologico e in altre più specificatamente tematiche, sono talvolta
direttamente collegate a contesti storici significativi, e in questo caso i ragazzi colgono
immediatamente il legame con la storia diciamo così alta (quella del manuale!). Ad esempio
abbiamo inserito una foto di un anello con la scritta "oro alla patria" che apparteneva alla nonna
di un'alunna, oppure foto di Balilla o di marce fasciste, o la copertina di un libro di memorie
partigiane scritto dal nonno di un'altra alunna.
In qualche altro caso la lettura delle fotografie può risultare insidiosa. Si pensi per esempio alle
foto che si riferiscono a periodi bellici: spesso i soggetti non sembrano inseriti in un contesto
appropriato, voglio dire per esempio che spesso si vedono soldati che scherzano con i commilitoni
in foto scattate nel 1942 o 1943 o gruppi di sfollati che sempre nel 1943 sorridono serenamente
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
all'obiettivo; in questo caso bisogna stare attenti a ragionare con i ragazzi sui limiti delle fonti
fotografiche, sul fatto cioè che spesso non possono mostrarci direttamente i drammi e le angosce
del periodo bellico.
Abbiamo inserito nel lavoro alcune sezioni che riguardano i grandi mutamenti economico-sociali
del secondo dopoguerra, dalla realtà contadina al lavoro, dall'emigrazione all'affermazione della
società dei consumi. E' necessario anche chiarire che non si tratta di una "storia locale", in questo
caso non è la storia di San Giuliano o delle donne di San Giuliano; la mia idea è di mettere insieme
materiali che vengono da realtà molto diverse, che a me fa piacere usare in modo indistinto;
nella sezione dedicata all'emigrazione si trovano ad esempio la foto di una zia che si è trasferita
a Milano e quella di una lontana parente emigrata negli USA, accanto a foto di persone e di luoghi
da cui provengono alcuni dei nostri alunni, dall'Albania all'Eritrea a Santo Domingo. L'intento è
insomma quello di contaminare e mescolare documenti molto diversi tra loro, mi piacerebbe
riuscire a creare una situazione di similarità (nel viaggio, ad esempio) in cui ci si riconosce nella
diversità. In realtà, al di là del tema specifico del rapporto con la storia e la memoria, c'è
evidentemente un intento didattico che riguarda anche un approccio al tema dell'integrazione.
Uno spazio significativo nella nostra Storia delle donne ce l'hanno infine anche gli aspetti del
cambiamento sociale, legati alla vita quotidiana: ci sono sezioni sulla scuola, sulla politica, sul
tempo libero, sullo sport, ma anche sul rapporto tra una generazione e l'altra (bambine, ragazze,
madri, nonne) scandito dai momenti di ritualità (le cerimonie religiose, i compleanni, il matrimonio,
ecc.).
6. Informatica ed emozioni Come penso si sarà capito, questo tipo di lavori è sostanzialmente
insignificante sul terreno dell'informatica: certo, si impara a usare un programma ipertestuale,
magari si gratificano alunni già esperti di cose informatiche, che diventano protagonisti del lavoro
e sanno trasmettere ai compagni (e a me) le loro conoscenze. Però il punto importante non è
questo, e quindi quale può essere la valenza didattica di questo tipo di iper(mica tanto)testi?
Penso che prima di tutto sia interessante la parte iniziale, in cui i ragazzi sono costretti a ragionare
sulle fotografie e su ciò che esse mostrano, a chiedere informazioni in casa, a ricostruire pezzi
di storia delle loro famiglie, a riflettere sul tempo che passa, a pensare a ciò che avveniva ai loro
cari in mezzo a grandi avvenimenti storici, come le guerre, a capire che una foto che sembra
poco significativa (ad esempio i ritratti degli studi fotografici, che di solito i ragazzi portano in
gran quantità) può essere letta a diversi livelli, riflettendo anche sugli ambienti, sugli oggetti o
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
sui vestiti che vi compaiono. Uso questi lavori anche come strumenti di verifica, talvolta durante
gli esami, ponendo domande che partono dalle storie individuali dei familiari e che arrivano poi
alla discussione sui contenuti canonici del programma.
Ma c'è anche di più: tornando a quanto dicevo prima sul rapporto con il passato, la mia ambizione
è che i ragazzi "sentano" questi documenti fotografici come qualcosa di importante per loro e
per la loro famiglia, qualcosa di emotivamente forte, che faccia pensare alla vita di queste persone,
alle loro sofferenze e alle loro gioie, ai loro viaggi, alla loro vita. Non solo: queste foto sono
esteticamente interessanti, spesso sono belle e affascinanti, evocano in qualche modo tempi
quasi leggendari e forse proprio la familiarità con i soggetti fa cogliere ai ragazzi anche questo
elemento di tipo "estetico-affettivo" (?). Capisco che questo obiettivo sembri rientrare in una
dimensione largamente soggettiva e anche sfuggente, se volete; però "didatticamente" ci tengo
molto, e trovo alla fin fine entusiasmante che una foto che appartiene alla loro storia, alla loro
famiglia, sia valutato dai ragazzi come "bella". Personalmente tendo ad enfatizzare questo tipo
di atteggiamento, e magari quando qualcuno mi porta una foto in qualche modo significativa,
io spesso esclamo: "Ma questa foto è ganzissima!" E poi finisce che arrivano dei ragazzi che mi
chiedono: "Ma questa foto è ganza oppure no? La mettiamo oppure no?" E così la memoria e la
storia si confondono con le emozioni e l'estetica.
7. Produrre video nella scuola Vorrei passare adesso al tema della produzione di video. Faccio
queste cose nelle scuole in cui ho insegnato e insegno (che poi sono due, Lari e San Giuliano)
da oltre 15 anni. Non sto qui a discutere sulla valenza didattica generale di questo tipo di lavori,
argomento complesso e anche insidioso; né mi azzardo ad accennare a questioni metodologiche
relative alla didattica degli audiovisivi, questioni che per altro appassionano da oltre 30 anni quel
gruppo di insegnanti carbonari un po' invecchiati che in Italia si occupano "di cinema dei ragazzi".
E in effetti, come testimoniano ad esempio le estenuanti discussioni svolte nelle varie edizioni
della Biennale del Cinema dei Ragazzi di Pisa, ci si scanna ancora (nelle vendite dei cugini,
appunto) sul modo didatticamente corretto di realizzare questo tipo di prodotti. Si tratta per altro
di questioni che mi sono trovato spesso a discutere in diversi convegni o festival dedicati alla
produzione di video nella scuola. Almeno una premessa però mi sento di farla: non credo che
la produzione di video, tanto meno di carattere storico, sia una delle fondamentali "best Practicies"
di ogni buon insegnante innovatore. Si tratta di pratiche didattiche che uso accanto alla mia
attività curricolare, senza mitizzarle; non solo, non mi vedo nella parte dell'insegnante alternativo
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
che trascura i linguaggi verbali per correre dietro alle mode accattivanti legate all'immagine.
Addirittura dichiaro qui che sono uso spiegare i più svariati complementi dell'analisi logica,
compresi quelli di svantaggio e di vantaggio (della necessità di spiegare i Fenici in modo approfondito
ho già detto).
Insomma potrei dire che questi lavori hanno una loro marginalità: spesso vengono fatti il
pomeriggio, quindi gratis, e c'è una forte componente volontaristica, per così dire. E sarebbe
difficile parlare di questi lavori come frutto di interventi strutturati all'interno del POF o di una
strategia didattica pianificata. Però forse sono frammenti e spezzoni di qualche cosa che nella
mia immaginazione ha una finalità unitaria. Tra l'altro qui parliamo di storia e di memoria, ma
io lavoro sul video in molti altri ambiti, per esempio proponendo anche lavori legati a opere
letterarie; per fare qualche esempio, a scuola abbiamo realizzato video tratti da brani di molti
autori, da Carolina Invernizio a Richard Matheson, da Friedrich Duerrenmatt ad Achille Campanile,
da Dorothy Parker a D'Annunzio.
8. Fare storia con i video? Vorrei adesso accennare direttamente alla produzione di piccoli
lavori che riguardano in qualche modo il tema della storia e della memoria. Ho cercato di
suddividerli in quattro tipologie diverse, e di dare di ciascuna di esse una breve esemplificazione.
Vorrei partire da un lavoro legato in modo specifico alla ricostruzione di un episodio storico
avvenuto durante la seconda guerra mondiale; il video in questione è La Storia di Livia Gereschi,
un breve documentario che ricostruisce sommariamente la vita di Livia Gereschi, una giovane
insegnante uccisa dai tedeschi nella strage della Romagna, avvenuta nell'agosto del 1944. Questo
video, che dura circa 6 minuti, non nasce da una ricerca storica specifica: è basato sostanzialmente
sulla memorialistica e non ha l'ambizione di ricostruire in modo esauriente la vicenda della strage;
punta se mai a ricordare la figura di Livia Gereschi attraverso dei brevi cenni biografici, all'interno
dei quali evidentemente la sua morte ha uno spazio significativo. Inizialmente ho lavorato al
reperimento delle fonti insieme alla professoressa Linda Bimbi, dell'Istituto Professionale Alberghiero
di Pisa, che ha realizzato un video di testimonianze sul medesimo tema; siamo anche stati a
Roma ad intervistare la nipote di Livia Gereschi, che, vincendo il dolore che ancora è fortemente
presente nel suo ricordo della zia, ci ha dato molte informazioni sulla vita di Livia Gereschi.
La realizzazione del video è stata condotta soprattutto attraverso l'individuazione e l'esplorazione
dei luoghi in cui l'eccidio è avvenuto. Le riprese sono infatti state fatte in numerose località della
zona, dai dintorni della località della Romagna, ad altri nei comuni di Lucca e Massarosa. Nel caso
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
della Storia di Livia Gereschi il legame tra il video e la memoria storica legata al territorio è
credo comprensibile. Questo lavoro si inserisce cioè in una tipologia che ha a che vedere (con
tutti i suoi evidenti limiti) con la ricostruzione di eventi storici del territorio e quindi con la storia
locale.
9. Storie di vecchi edifici Meno direttamente legati alla ricostruzione di un evento storico
specifico, ma comunque significativi -credo- nell'ambito del discorso sulla memoria, sono due
brevi documentari che riguardano edifici in qualche modo significativi del territorio di San Giuliano;
tutti e due, sia pure in modo diverso, rimandano alla riflessione sul passato e alle suggestioni
che il passato ci rimanda. Il primo riguarda la locale stazione ferroviaria: essa si trova attualmente
in uno stato di abbandono, funziona solo come fermata del treno, ma l'edificio è privo di
manutenzione e non ci lavora nessuno. Perché ho proposto ai ragazzi questo video? All'inizio mi
dicevano: "Ma perché dobbiamo andare alla stazione? Fa schifo, è piena di sporco”. E infatti,
come ho detto, la stazione è, come recita il titolo del video, una vera e propria "stazione fantasma":
per accedere ad essa i passeggeri passano attraverso una scala piena di scritte e parolacce, tutto
è distrutto, non c'è biglietteria, non c'è nessuno, le finestre sono rotte, ci sono ancora vecchi
cartelli, come "telegrafo", "sala di prima classe" (e in effetti è un rifugio per qualcuno che
occasionalmente ci dorme). Ma questo squallore forse è in qualche modo affascinante. E allora
qui si torna al discorso precedente sul vecchio che può essere bello o attraente: così il video non
è, come a prima vista può sembrare, una denuncia politically correct di un degrado con l'intento
di spingere il Comune a recuperare questo luogo alla cittadinanza (ciò che tra l'altro sta
effettivamente accadendo). In fondo, attraverso le immagini, ha anche la pretesa di mettere in
luce un elemento emotivo e suggestivo che emana da quel luogo; e forse, realizzandolo con loro,
mi piace pensare di aver fatto cogliere ai ragazzi questa atmosfera particolare. L'altro brevissimo
documentario, di cui invece vorrei mostrarvi uno spezzone, è dedicato alla cosiddetta Casa del
polacco, una vecchia villa completamente abbandonata che si trova sul monte Castellare, proprio
sopra San Giuliano. La casa fu fatta costruire alla fine dell'800 da una singolare figura di scienziatoesule polacco, Sigismondo Bosniaski, e poi lasciata andare in rovina dopo la sua morte; il tetto
è stato sventrato da una cannonata durante la seconda guerra mondiale. È un posto che molti
conoscono, è meta di passeggiate domenicali attraverso il sentiero che porta al monte. Ed è un
posto bellissimo, immerso in una vegetazione particolare. In questo caso, la sottolineatura del
bello con i ragazzi non è stata difficile, data la condivisione generale del giudizio sul luogo. Anche
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
in questo caso non c'è stata una vera e propria ricerca storica, abbiamo però tenuto presente
un libro di uno storico locale dedicato al Bosniaski e alla donna da lui amata, con la quale aveva
scelto di vivere proprio sul monte Castellare; la conoscenza di questi dettagli storici è stata senza
dubbio importante per collocare storicamente l'edificio, però, di nuovo, mi interessava che il video
facesse emergere anche le emozioni e anche un misterioso senso di nostalgia che la casa del
polacco, pur nel suo degrado, riesce a trasmettere a chi la visita. Addirittura a questo scopo
abbiamo usato il computer con cui abbiamo montato il video in modo creativo (o almeno noi
l'abbiamo giudicato così), sostituendo nella parte finale i cieli e gli sfondi che avevamo ripreso
con altri rubati a fotografie portate dagli alunni; in fondo c'è anche una finta ripresa notturna,
in cui una falsa luna dovrebbe trasmettere una certa atmosfera di favola e di magia; in questo
contesto anche le musiche hanno un ruolo importante.
10. Videobiografie Un altro "filone" di lavori che hanno un rapporto con la memoria, in questo
caso individuale, è quello diciamo così videoautobiografico. Si tratta di dar vita a una sorta di
rappresentazione di sé, per realizzare la quale i ragazzi portano fotografie e spezzoni di video
che si riferiscono a un testo autobiografico che essi stessi scrivono; il tutto viene poi assemblato
in un video. Avendo a che fare con ragazzi di 11-14 anni, è storicamente sempre più facile trovare
famiglie che hanno da tempo in casa una videocamera e che hanno quindi conservato riprese
di battesimi, comunioni, gare sportive, e così via. Proprio quest'anno abbiamo realizzato nel
laboratorio video una storia di pochi minuti, che racconta la vita di un'alunna di prima media,
la quale, oltre che videocassette con riprese fatte dai suoi genitori, ci ha portato una grande
quantità di materiale, che è stato poi ripreso e inserito nel video: il primo pupazzo di quando
era più piccola, la croce che aveva usato in occasione della comunione, il braccialetto che aveva
al braccio appena nata, il gonnellino con cui ha partecipato al suo primo saggio di danza.
Qualche anno fa ho proposto un'esperienza simile a una ragazza albanese della scuola media di
Lari, che ha anch'essa raccontato parti della sua vita; in questo caso, come potete capire, la
valenza didattica, chiamiamola così, andava oltre il discorso della ricostruzione di una memoria
individuale; questa ragazza tra l'altro ha scelto di raccontare cose molto semplici e dirette, senza
soffermarsi sugli aspetti più dolorosi della sua vita, e ha parlato -senza porselo come intento
esplicito- del suo desiderio di un inserimento dolce in un nuovo paese e con nuovi compagni. È
un video quasi discreto, in cui Blerina (è il suo nome) parla timidamente di come vive la sua
esperienza in Italia e la confronta con la sua vita precedente, per lei ancora molto viva, in Albania;
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
racconta cose molto semplici, che le piace Britney Spears, che tifa per il Milan perché ha la maglia
con gli stessi colori della bandiera albanese, e che tra le materie scolastiche trova noiosa la storia;
tra l'altro è una bimba che non aveva gravi problemi di inserimento nella scuola, e che aveva
un rendimento positivo (anche ora che è alle superiori). Anche lei ci ha portato delle foto e degli
spezzoni video, che riguardavano una festa e una gita in campagna in Albania. Quando le ho
proposto di raccontare la sua storia, non capiva assolutamente per quale motivo le sue vicende
potessero interessare a qualcuno, e in fondo forse non l'ha ben capito fino al momento in cui
poi il lavoro è finito ed è stato proiettato anche in situazioni pubbliche, davanti a molta gente.
La prima volta (ricordo che eravamo ad un festival a Napoli in un cinema pieno di ragazzi) ha
reagito in un modo emotivamente forte e si è messa a piangere. Poi il video è stato proiettato
(sempre alla sua presenza) in altre situazioni e in vari festival, e credo che Blerina abbia cominciato
a capire meglio e ad apprezzare l'interesse suscitato in tante persone dalla sua storia.
Un ultimo cenno alla valenza didattica di questo tipo di autobiografie in video: come del resto
avviene in lavori consimili di tipo cartaceo, è importante che i ragazzi ragionino sul tempo che
(anche per loro) passa e sulla loro storia (inserita in quella degli altri), però, a costo di ripetermi,
anche in questo caso mi sembrano decisivi l'aspetto emotivo e il coinvolgimento affettivo con
cui essi ci raccontano le loro storie.
11. Videoparodie L'ultimo esempio di tipologia di video che vorrei proporvi riguarda il tema
della parodia legata alla storia; quindi si tratta di un ambito ancora più eccentrico e anomalo
rispetto all'angolazione, già molto particolare e specifica, di questo intervento. Non mi vergogno
a dire che -soprattutto in passato- ho lavorato alla realizzazione di video parodistici che partivano
da argomenti storici o letterari; così abbiamo fatto video su Dante Alighieri, su Cristoforo Colombo,
su D'Annunzio, Galileo e via discorrendo. Lo scopo è di giocare con il linguaggio cinematografico
e con fatti e personaggi storici famosi.
Tra i possibili esempi di questa curiosa congerie di stupidaggini giocose ho scelto di proporvi un
brano di quello che forse è il video più presuntuoso e contemporaneamente più cialtronesco fra
quelli che ho fatto a scuola (e son passati 15 anni). Si chiama Ciminiere tempestose, ed è una
parodia dei film muti, soprattutto di quelli sovietici, degli anni '20. La storia è un collage un po'
insensato tra La corazzata Potemkin, Metropolis e Tempi moderni, insomma da Fritz Lang
a Eisenstein (chiedo perdono!). Bianco e nero, muto (a parte le musiche saccheggiate dalla
versione modernizzata di Metropolis), didascalie fatte con il mitico computer Amiga 500 Commodore
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
(e qui siamo davvero nell'ambito del tema della memoria storica). La scalinata di Odessa è
sostituita da quella del castello di Lari; la storia è quella di una fabbrica con un padrone
(l'incontentabile conte Marli, come con una vistosa allitterazione stabilì la mia geniale alunna
Carlotta Bertagna, addetta alle didascalie) che opprime gli operai (anzi soprattutto le operaie),
il figlio però è innamorato di una di esse, la bella Maria, per cui, come potete immaginare, ci sarà
un finale interclassista. Ho spinto i ragazzi (a cui per altro avevo fatto vedere e studiare i modelli
di riferimento, compreso Fantozzi) a prendere in giro brani e anche inquadrature tipiche dei film
dell'epoca. C'è di tutto: la fabbrica e gli operai sottoposti a un lavoro durissimo (gli interni sono
stati girati significativamente nei locali della vecchia scuola media di Lari, che una volta era un
convento), c'è la carrozzina, ci sono l'anarchica ribelle e il malvagio padrone che gozzoviglia con
due donnine, e non manca un perfido sorvegliante che si chiama Egisto, un nome che è tutto
un programma.
Nel caso di lavori come questo ammetto di essere in difficoltà a trovare giustificazioni didattiche
razionali, però posso provare; certo non posso spacciare il video come uno strumento per studiare
in modo più approfondito la rivoluzione industriale o il movimento operaio. Eppure, a ben vedere,
la parodia è un genere interessante, perché costringe, se si vuole giocare e scherzare, a conoscere
bene il bersaglio e a studiarlo. Certo, in questo caso probabilmente lo studio del linguaggio
cinematografico era ciò che mi interessava di più, però bene o male anche l'aspetto storico è
stato tenuto presente. Comunque mi rendo conto che nel contesto dell'odierna giornata di studio
lavori come questo possano risultare quanto meno poco ortodossi. Anche Gestri la penserebbe
così, una volta sono andato a casa sua e gli ho fatto vedere la cassetta al videoregistratore: per
poco non mi buttava fuori di casa.
12. Conclusioni (?) Finalmente arrivo ad una sorta di conclusione. Come avete notato e come
ho già avuto modo di ricordare, questi lavori di cui ho mostrato qui alcuni brevi frammenti non
nascono quasi mai da progetti didattici strutturati, ma da occasioni e spunti più empirici e vorrei
dire effimeri. Quindi è molto imbarazzante venire qui a spacciarli per esperienze didattiche
esemplari, soprattutto quando si parla di storia, di ricerca storica e di riflessione sulla memoria;
potrei forse essere più ambizioso se il discorso riguardasse in modo specifico il rapporto tra
didattica e linguaggio delle immagini in movimento.
Si tratta di piccoli momenti in cui, in vario modo, la storia si presenta ai ragazzi in un modo
comunque diverso dalle pagine del manuale, in cui l'approccio può essere meno ufficiale e
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
canonico. Forse qualche volta si ottengono dei corti circuiti positivi, magari molte volte questo
non succede. Se mi chiedete un monitoraggio scientifico e invalsesco (ma preferirei non valermene)
non so che dirvi. Questi prodotti sembrano piuttosto, e forse sono, solo dei pezzi, dei frammenti
di immagini e suoni in cui conta di più la dimensione emotivo-estetica (non perché sono belli!),
e in cui il rapporto dei ragazzi con l'uso e la produzione di immagini può essere proposto attraverso
un atteggiamento in qualche modo emotivamente coinvolgente, più accogliente e affettuoso.
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110 - BIANCA
“A cosa serve la storia?”
Linda Bimbi
Istituto Professionale Matteotti di Pisa
Intervengo a nome della mia scuola, l’istituto professionale Matteotti, che ha partecipato fin
dall'inizio con diversi lavori alle celebrazioni della Giornata della Memoria e alla mostra che è
stata allestita alla Limonaia. Le attività del laboratorio di storia sono coordinate dalla professoressa
Russo, che legittimamente avrebbe dovuto presentare i diversi lavori. Il mio intervento riferisce
su di un lavoro dell'ultimo anno, che ho organizzato con la mia classe e che in parte è stato
realizzato insieme al prof. Sandro Marianelli, dell'IC "Niccolini" di San Giuliano: si tratta della
ricerca su Livia Gereschi che avevo proposto di fare come lavoro comune, eventualmente articolata
attraverso contributi differenziati. In effetti la ricerca l'abbiamo fatta insieme, lavorando poi
ognuno autonomamente con i propri ragazzi; alla fine però sono usciti due video, che hanno in
parte scopi e motivazioni diverse: il titolo che ho dato al video del nostro Istituto, "Materiali di
studio sulla vita e sulla morte di Livia Gereschi" esprime un po’ il modo in cui mi interessa usare
il video, come cercherò di chiarire nel corso di questo intervento.
In questo lavoro sono state coinvolte tre classi del "Matteotti": la mia 1°, la 4a della prof. Russo,
che, con grande bravura e partecipazione, si è resa disponibile soprattutto per la rielaborazione
e la lettura delle testimonianze, e una classe 1 a guidata dall'insegnante di tedesco, prof. Caligaris,
che dà un contributo gentile, recitando la filastrocca tedesca citata in una testimonianza.
Perché un video?
Già precedentemente avevo provato a produrre un video, un'esperienza fatta nell'anno scolastico
'96-'97, quando ero ancora al "Pesenti" di Cascina, nella quale era stata coinvolta la Cooperativa
Alfea, l'Arsenale, che era intervenuta nella fase di ideazione e nelle riprese, insieme ad un tecnico
della Provincia. Parlerò brevemente anche di questa esperienza.
Anche in questo caso l'uso della telecamera per me aveva più che altro lo scopo di interessare i
ragazzi, coinvolgerli in una attività scolastica. Mi interessa non tanto il prodotto quanto il lavoro,
quello che accade intorno alla costruzione di un video: come ci organizziamo, come ci muoviamo,
come lavoriamo, come poi i ragazzi si presentano, vogliono mostrarsi nel video. Mi sono resa
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
conto che tutti, anche le ragazze, hanno un grande desiderio di farsi vedere, a differenza di quello
che accade alle donne in genere fino alla mia generazione, e quindi il video è in grado di suscitare
interesse e attenzione intorno ad un qualunque argomento.
Dunque uso il video un po' come pretesto (chiedo scusa per l'eresia), ma ovviamente bisogna
considerare anche il livello della fruizione, che deve essere abbastanza piacevole, gradevole,
altrimenti il gioco finisce. Per il video su Livia Gereschi volevo più che altro fare una ricerca,
almeno in parte e fino a quanto è possibile insieme ai ragazzi, e servirmi della telecamera come
strumento aggregante e per raccogliere e conservare la documentazione del lavoro svolto. Il
video prodotto è di fatti una esposizione delle informazioni, delle immagini, delle testimonianze
che abbiamo trovato, facendo una ricerca su questo argomento.
Perché Livia Gereschi?
Livia Gereschi è evidentemente un nome che suscita interesse, curiosità. Livia Gereschi è una
delle poche donne a cui è intitolata una scuola nella provincia, per esempio. Per quanto mi
riguarda, ho sentito questo nome per la prima volta quando un compagno di mio figlio fu iscritto
alla scuola elementare "Livia Gereschi", poi, quando mi sono trasferita al "Matteotti", ho trovato
che l'Istituto si era ampliato, occupando anche la sede di questa scuola elementare. Quindi la
nostra scuola, l'Istituto Professionale, comprende anche la parte dell'edificio su cui un tempo si
trovava la scuola "Livia Gereschi" e da questo dato storico, di micro-storia locale ha preso avvio
la ricerca, con una domanda: chi era Livia Gereschi?
Abbiamo cercato di trasmettere questa curiosità ai ragazzi e di dare loro una specie di compito
investigativo. Li abbiamo mandati in giro per la scuola con la telecamera a chiedere informazioni
a insegnanti e custodi. Qualcuno si ricordava il nome, qualcuno si ricordava di aver visto il busto
di una donna. I ragazzi si sono talmente identificati nelle ragioni della ricerca che uno di loro
arriva a rimproverare un intervistato che ammette di non sapere: "Non è bello non sapere chi è
la persona a cui è intitolata la propria scuola".
Queste parole le abbiamo poi inserite nel video.
Questo è stato quindi l'avvio della ricerca, che poi si è estesa in maniera, come credo che accada
spesso, indefinita, perché c'è sempre qualcun altro che aggiunge altre informazioni, che ha voglia
di raccontare o ci sono altri luoghi da vedere, documenti da scoprire. Anche il preside dell'ITC
"Pacinotti" ci ha dato delle informazioni: Livia aveva studiato in questo Istituto e fino a pochi anni
fa veniva assegnata una borsa di studio a suo nome.
La raccolta di notizie e materiali è continuata anche fuori dalla scuola, in parte insieme ai ragazzi,
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
in parte in collaborazione con il prof. Marianelli, arrivando fino a Roma per intervistare la sig.
Anna Ida Gereschi Di Ciolo, nipote di Livia, che ci ha dato un ritratto inedito della zia, e ci ha
consentito di vedere e filmare le fotografie di Livia e le cartoline che riceveva da amici di tutta
l'Europa.
Livia Gereschi era una un'insegnante che viveva a Pisa, in piazza Mazzini, dove ci sono ancora
la sua casa e, sul retro, una strada intitolata al suo nome. Pur con le poche notizie e immagini
che abbiamo potuto raccogliere, ci è sembrato importante raccontare la sua vita e dare un
qualche ritratto della sua persona, per illuminare anche la sua morte, che non fu una morte
eroica, forse, ma certo neppure casuale.
Livia non fu coinvolta nella strage come "vittima innocente", ma, come anche la memoria o le
memorie, in maniera diversa, e pure concordemente per quanto riguarda il valore decisivo del
suo intervento, le attribuiscono, ebbe un ruolo attivo negli eventi, sia nelle intenzioni, che negli
effetti: c'è chi parla di una pistola che aveva nella borsa, ci si chiede se "era con i partigiani", le
si attribuisce in questa o in altra circostanza il rimprovero aperto all'ufficiale tedesco: "Non è da
uomini d'onore prendersela con donne e con bambini"; le si dà il merito di aver salvato tante
persone, "… se no avrebbero fatto come a S. Anna".
Quello che sappiamo è che Livia aveva studiato il tedesco, conosceva la cultura tedesca ed era
in grado di comunicare con gli aggressori, ma è chiaro anche che fece una scelta, non si tirò
indietro quando fu di fronte all'alternativa fra esporsi e tacere. E qui siamo all'interno di scelte
di vita e di valori, che i ragazzi possono capire, anche se non sono in grado ancora di svolgere
una vera e propria ricerca storica.
Ma Livia viene ricordata soprattutto per la sua morte, perché, sfollata a Pugnano, si è trovata
sui monti sopra Molina di Quosa ed è stata coinvolta nell'eccidio della Romagna. Quindi la sua
storia è diventata patrimonio di S. Giuliano ed è in questa zona che se ne è conservata memoria.
L'ambiente e il territorio
Per questo abbiamo preso contatto col Circolo "Le Storie" di Molina di Quosa, abbiamo incontrato
le insegnanti della scuola di Pontasserchio che pure lavoravano sulla strage della Romagna. Il
Circolo "Le storie" di Molina di Quosa, animato dalla passione dei signori Buzzigoli e Sfingi (detto
"Tonfo") è una associazione che si occupa di storia locale e tiene viva la memoria soprattutto
della storia recente del paese. Da loro abbiamo avuto la prima raccolta di testimonianze, che
sono entrate nel video, lette dai ragazzi sui luoghi dove si sono svolti i fatti di cui si parla;
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
l'analogia ricercata si scontra tuttavia nel video con l'estraniamento prodotto dalla nevicata
eccezionale dei giorni della ripresa, mentre si parla di fatti accaduti in agosto.
In seguito è stato possibile fare un percorso originale sul territorio, perché molti ragazzi della
classe provengono da quella zona. Ho quindi potuto sfruttare un caso felice, che nasce dal fatto
che nel nostro Istituto si tende a riunire nella stessa classe gruppi di ragazzi provenienti dalla
stesso territorio, per facilitare eventuali spostamenti di orari. Nella 1° F c'era un gruppo abbastanza
consistente di ragazzi che venivano da Molina di Quosa e Ripafratta, e ho semplicemente proposto
ai ragazzi di chiedere ai genitori e ai nonni tutte le notizie che avevano su Livia Gereschi e sulla
sua storia.
In particolare i genitori di un ragazzo hanno aiutato moltissimo a entrare in contatto con i
testimoni, con Oscar Grassini, Renato Pifferi, Antonio Cacianti. Sono andata con i ragazzi a
intervistarli con la telecamera. Poi abbiamo fatto una ricerca sui luoghi e siamo stati attenti a
ritrovare esattamente le località di cui parlano le testimonianze, a riprenderle, trovare e leggere
le lapidi (abbiamo ritrovato la lapide che ricorda la morte di Livia alla Sassaia).
In contemporanea le classi hanno assistito ad una lezione di storia, tenuta dal preside in auditorium,
per dare all'evento tutto il peso adeguato e assicurargli l'attenzione che può venire dall'autorevolezza
del ruolo del docente; nel corso della lezione i ragazzi hanno potuto inquadrare storicamente
gli eventi oggetto del video, e acquisire i principali riferimenti di storia generale.
A primavera, ancora con la guida di un genitore della classe, cacciatore e cercatore di funghi, e
grazie al contributo offerto dalla Provincia alle scuole che hanno partecipato alla Giornata della
memoria, abbiamo fatto una uscita didattica concepita come un pellegrinaggio, ripercorrendo a
piedi la discesa dal luogo dove gli sfollati erano stati radunati, alla Focetta, fino a Ripafratta, nella
piazza dove avvenne la selezione e poi - col pullman - alla scuola di Nozzano, la ricostruita scuola
di Nozzano, luogo della detenzione, e da lì sul monte Quiesa fino al lago di Massaciuccoli,
ripercorrendo le tappe dell'eccidio.
Infine - davvero non riuscivamo a concludere - i testimoni sono stati invitati a scuola per un
incontro con tutte le classi che hanno partecipato al lavoro, per presentare e rivedere il video e
gli altri elaborati, soprattutto cd - rom, con cui altre classi avevano partecipato alla Giornata della
memoria. Questo è stato un momento molto forte emotivamente, forse più per gli insegnanti,
chissà, ma i ragazzi hanno avuto comunque la percezione di una esperienza "memorabile"
(abbiamo notato il loro sorprendente silenzio …), per le parole spontanee e solenni dei testimoni
e per la presenza di Oscar Grassini, un uomo anziano e invalido, un sopravvissuto, che era venuto
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
apposta per incontrarli.
Storia e memoria
Naturalmente tutto questo lavoro, che è culminato nella partecipazione alle iniziative della Giornata
della Memoria, è stato fatto certo non in maniera inconsapevole, ma senza preoccuparsi troppo
di discutere fra noi insegnanti sulle tematiche che invece sono state affrontate oggi. Tanto più
mi sembra importante questo incontro, perché tutto sommato credo che ogni insegnante, anche
sollecitata dai riferimenti che incontra continuamente - la memoria, l'importanza della memoria
-, ha fatto le sue riflessioni. A partire dalla giornata di oggi abbiamo una coscienza più matura
delle implicazioni teoriche e pratiche delle nostre operazioni.
Per quanto mi riguarda, nel momento in cui ho pensato a questo lavoro, e in generale nella
collaborazione con il Laboratorio di storia, tenevo presente un'idea di rapporto tra storia e memoria,
o, se vogliamo, "memorie" e "ricordi", come è stato detto oggi; soprattutto però mi interessava
usare questo tipo di materiali per una finalità di accostamento allo studio della storia. La formula
"partire dal presente" e anche "partire da sé", come avvio dello studio della storia, mi sembra
che trovi applicazione efficace nella scoperta che il passato vive ancora nel ricordo e nel sentimento
di persone che ci sono vicine. Ascoltare cosa raccontano le persone sul loro vissuto aiuta ad
accettare la dislocazione, l'allontanamento da sé, che lo studio della storia sembra richiedere,
incomprensibilmente per molti ragazzi. Da questo punto di vista non credo che sia importante
riferirsi soltanto alla storia relativa al periodo della guerra, da cui siamo partite partecipando alla
Giornata della Memoria.
Per esempio nel video che ho fatto nel 1996 con una classe seconda di indirizzo liceale dell'ITC
"Pesenti" di Cascina, l’argomento, che avevo scelto insieme ai ragazzi, era il rapporto con il fiume,
con l'Arno. Era un lavoro che partiva da una collaborazione con l'insegnante di scienze e con
Legambiente; proprio l'insegnante di scienze aveva formulato la frase che rappresenta efficacemente
quello che volevamo fare: "Un tempo il fiume era vissuto, adesso è sconosciuto, andiamo a
riscoprire questo vissuto". E i ragazzi hanno dato al video il titolo "Ripescare l'Arno". Anche in
questo caso, con lo stesso metodo che abbiamo usato nella ricerca sulla figura di Livia Gereschi,
abbiamo parlato con testimoni, persone che avevano avuto un rapporto col fiume, molti anni
prima; siamo andati a cercare delle foto e quindi una documentazione visiva, delle musiche e
delle canzoni. Per esempio i ragazzi non conoscevano la canzone "Sull'Arno d'argento", ma anche
l'amico pianista che l'ha suonata poi per noi, professore al Conservatorio di Venezia, non l'aveva
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
mai sentita; io mi ricordavo la musica, però il testo integrale ho dovuto chiederlo al mio babbo.
Sono atti banali (per quanto carichi di affettività), ma tutti avevano lo scopo di animare un
ambiente, che è quello in cui i ragazzi vivono, mostrare loro come ci può essere un'altra dimensione
per vedere le cose e le persone con cui sono in rapporto.
Naturalmente si tratta sempre, in questi casi, di uso della memoria, ma facciamo anche riferimento
alla storia locale, alla storia orale e quindi ci sono tutte queste componenti, che mi sembrano
importanti per favorire l'apprendimento della storia, quando non direttamente, almeno nel sostenere
la motivazione.
Fare per imparare, conoscere con i cinque sensi, vedere con gli occhi degli altri
Intanto entra in gioco l'elemento del fare, dell'agire, del muoversi nell'ambiente. Io lavoro con
ragazzi del biennio di un Istituto professionale, che difficilmente studiano volentieri la storia.
Qualche volta se ne trova uno nella classe, che ha passione e intelligenza per la storia, e
probabilmente in questi casi incidono particolari situazioni familiari, ma più frequente è un
atteggiamento di rifiuto della storia; spesso ci sentiamo dire: “Non serve a niente”, "Ma io voglio
fare il cuoco, a cosa mi serve la storia?".
In questo tipo di percorso l'apprendimento non è fatto prevalentemente di studio, cioè non è
fatto di sola lettura. Si esce da scuola, si va nei luoghi esterni (sul posto), magari qualche ragazzo
impara ad usare la telecamera, e questo è naturalmente un gioco divertente, ma bisogna anche
leggere o dire con chiarezza, con ritmo e volume di voce adeguati per poter essere capiti, e
questo è un esercizio non da poco per i nostri ragazzi, tra i quali c'è sempre qualcuno che ha
particolari, dichiarate, difficoltà linguistiche e/o di apprendimento. Non solo, il contatto con i
luoghi, con le persone, coinvolge tutti i sensi e produce sensazioni, immagini mentali, emozioni,
che poi rimangono nella memoria, certo con più forza della parola dell'insegnante nell'aula o del
libro di testo.
Ancora: i ragazzi percepiscono le persone che hanno vicine - il familiare, l'amico - sotto un aspetto
nuovo, che non immaginavano, le sentono raccontare esperienze eccezionali. La stessa cosa si
verifica con i luoghi. Nel caso della Romagna, per esempio, sono i ragazzi di Molina di Quosa che
ci hanno guidato, dicendo: "La conosciamo, ci andiamo sempre a fare le girate in motorino."
Dopo il lavoro fatto insieme questa conoscenza è cambiata, non solo perché chi non lo sapeva
ha scoperto che la Romagna è un luogo dove è successo qualcosa di terribile, ma soprattutto
perché è stata acquisita la consapevolezza che per altre persone quel luogo suscita ricordi terribili.
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
I ricordi delle persone diventano allora diversi punti di vista sulla realtà; nel corso del lavoro i
ragazzi riescono a vedere che l'ambiente intorno può avere anche più dimensioni, che il presente,
costituito innanzitutto dei loro rapporti con esseri umani, contiene anche il passato, che vive nel
ricordo degli altri.
Mi sembra che i ragazzi possano accettare più facilmente la pluralità di significato degli oggetti
di esperienza nel contesto di un lavoro di questo tipo. Se l'insegnante sta davanti a loro e "spiega"
questi concetti o anche, con meno pretese, racconta queste storie, ottiene un po' di ascolto, più
o meno secondo i casi, ma in genere molto limitato e intermittente. Il coinvolgimento emotivo
e sensoriale che l'azione e il gioco producono contrasta, mi sembra, gli effetti negativi della
difficoltà di concentrazione. Inoltre tutte le complesse abilità richieste dallo studio della storia
e, al tempo stesso, direi, da una civile convivenza: la capacità di accostarsi a ciò che è diverso,
ma anche di sapersi collocare nella giusta distanza, saper prendere in considerazione diversi
punti di vista su uno stesso oggetto, tutto questo si può forse "insegnare", almeno a ragazzi di
questa età, solo attraverso la pratica.
Naturalmente è difficile ipotizzare una verifica rispetto a questi obiettivi. Un'insegnante può avere
delle impressioni e cercare di verificarle con strumenti anche di tipo qualitativo. Io considero
significativo il clima che si crea nella classe e la disponibilità ad affrontare lo studio della storia,
in altri momenti, anche con metodi più tradizionali.
Ascoltare i testimoni
Vorrei fare ancora qualche osservazione rispetto ai problemi che comporta lavorare con questi
materiali. Io provo un disagio a volte, e quindi cerco di essere molto cauta, nell'uso delle
testimonianze orali e nel rapporto con i testimoni. Mi sento sempre molto interessata e coinvolta,
ma anche in difficoltà quando vado ad intervistare un testimone, perché, specialmente se il
racconto si riferisce a fatti dolorosi, bisogna che l'ascolto sia attento e partecipe. Quando si
coinvolgono i ragazzi in situazioni come queste, c'è sempre un po’ di preoccupazione. Per esempio
quando sono venuti i testimoni a scuola a parlare ai ragazzi, stavo molto in pena: c'era Oscar
Grassini, sopravvissuto della strage, un uomo anziano, che evidentemente sentiva molto l'emozione
di quel momento. Quindi per me era anche una preoccupazione riuscire a tenere sotto controllo
la noia che a volte i ragazzi sentono, la manifestazione delle loro sensazioni. Da un altro punto
di vista, poi, bisogna considerare il fatto che i testimoni, comunque, raccontano, parlano di sé,
si presentano, e possono essere più o meno efficaci, sanno suscitare un interesse più o meno
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
forte. Mi sono molto identificata nel discorso che Marta Baiardi faceva stamattina sulla questione
delle memorie: le memorie possono essere, dal punto di vista letterario, più o meno attraenti o
"leggibili", mentre sono sempre interessanti per quello che hanno da dire, per il loro contenuto.
Naturalmente, soprattutto se la comunicazione è diretta, fatta attraverso il racconto orale, il
rischio è che qualcosa non funzioni nella trasmissione di quello che viene detto, il linguaggio può
apparire strano, il discorso noioso.
Un'altra questione riguarda l'interpretazione che i testimoni danno dei fatti che raccontano e le
emozioni che possono esservi legate. Quando siamo andati ad intervistare, in particolare, uno
dei testimoni, la discussione sulla "colpa" di quello che è accaduto ha coinvolto anche gli altri
familiari presenti, con molta polemica, e la rabbia che è scoppiata fra di loro era lontanissima,
come si può immaginare, da una pacata riflessione storica. I ragazzi presenti sicuramente non
hanno capito il senso della discussione e d'altra parte i testimoni ci hanno chiesto di non registrare
quello che stavano dicendo. Io non ho ritenuto opportuno affrontare con la classe un discorso
sull'interpretazione e la valutazione degli eventi, anche perché erano ragazzi di 1a. Probabilmente
con ragazzi più grandi sarebbe possibile e certamente si tratta di un discorso molto interessante.
Un esercizio che invece mi sembra possano fare i ragazzi, come elementare operazione storiografica,
è mettere a confronto le testimonianze, e verificare le date della storia: in sostanza quello che
ha fatto Paola Foà con il diario del nonno di Martina e che appunto mi è sembrato molto bello.
La tecnologia è uno strumento
Infine poche parole sull'uso dello strumento tecnico. Per i motivi illustrati, mi piace usare il video,
però sono in difficoltà rispetto al fatto che non sono molto interessata a lavorare sulla tecnica.
Proverò quindi a rivendicare un uso "amichevole" e "facile" della tecnica, nel senso che vorrei
poter usare una macchina - che sia una telecamera, o un computer - senza dover necessariamente
sapere come è fatta. Quando ho realizzato il video al "Pesenti", la parte di educazione all'immagine,
di ideazione del soggetto, di stesura dello storyboard, oltre a qualche indicazione di "regia", è
stata curata da una esperta dell'Arsenale, che tuttavia si è ben guardata dal prendere in mano
la telecamera: le riprese sono state fatte da un suo operatore e da un tecnico della Provincia.
Curiosamente invece ad un'insegnante di materie umanistiche, interessata ad usare il linguaggio
iconico, si richiede una totale autonomia tecnica. Naturalmente considero invece importante
l'acquisizione di un certo linguaggio, come condizione necessaria per ottenere un prodotto fruibile.
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Dibattito conclusivo
Alessandra Peretti
Prima di dare inizio al dibattito vorrei raccontare in breve un episodio che mi è venuto in mente
ora, quando Linda Bimbi parlava del fatto che non siamo mai in grado di valutare quello che
succede nei ragazzi che lavorano su questi temi, di verificare quello che hanno appreso. E’ un
episodio che mi sono sempre vergognata di raccontare, ma ormai si è decantato nel tempo, e
mi sembra offra spunti interessanti.
Due anni fa sono andata in pensione e i miei studenti mi hanno festeggiato per l’occasione e mi
hanno regalato una targa con una dedica affettuosa sormontata da una scritta: "La pensione
rende liberi". Questa scritta presentava anche una grafica particolare, un po’ incurvata ad arco,
che forse vi immaginate. Io non avevo assolutamente colto il senso della citazione, ma loro sono
venuti subito a vantarsi del fatto che avevano fatto tale tesoro del mio insistere sui temi della
Giornata della memoria, che avevano voluto richiamare nella dedica la scritta che sovrasta
l’ingresso di Auschwitz. Naturalmente io ho rabbrividito per l’accostamento, come potete pensare;
però ne ho voluto trarre anche alcune indicazioni in positivo. A parte il fatto che io mi sono
comunque accomiatata da quegli studenti sapendo che qualcosa gli era entrato in testa
sull'argomento, questo episodio esprime anche chiarissimamente la disinvoltura con cui i ragazzi
usano tutto quello di cui si impadroniscono, manipolandolo senza nessuna delle nostre preoccupazioni
filologiche o moralistiche. Le cose che li colpiscono le adattano poi e le applicano a contesti
diversissimi, su tematiche che non hanno niente a che fare col dato di partenza: però è il loro
modo di appropriarsi di quanto hanno imparato.
Aprirei ora il dibattito e inviterei a fornire qualche commento ulteriore agli spunti emersi da tutta
questa giornata, così faticosa nel suo impegno, ma di cui io sono molto grata a tutti gli intervenuti.
Michele Battini
Ci sono state fin troppe sollecitazioni, però credo che un tentativo di organizzare la gran quantità
di materiale presentato oggi sia doveroso. Io provo a mettere in fila alcune riflessioni, ma può
darsi che le impressioni di altri siano completamente diverse.
Rilevo la presa di distanza, da parte di tutti, nei confronti delle politiche della commemorazione:
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
non ho ascoltato, neppure dai rappresentanti delle istituzioni, alcun rimpianto per una politica
della memoria che in qualche modo continui a svolgere una funzione di tranquillizzazione, di
terapia, di coesione dell'identità comunitaria. Nessuno pretende più di svolgere surrettiziamente,
tanto peggio nella scuola o nell'università, un ruolo che in modi anche così catastrofici è stato
svolto nel passato. C'è stato un cenno di Bizzocchi alla costruzione dell'identità nazionale e
all'invenzione di tradizioni attraverso lo stravolgimento delle memorie. Schwarz ha storicizzato
la crisi di queste politiche della memoria. Il fuoco si è concentrato su due nodi: il rapporto tra
memoria e storiografia e l'uso delle memorie per esortare alle istorie, due temi che hanno
continuamente attraversato tutti gli interventi. Io ho imparato molto, soprattutto dagli interventi
dei colleghi delle scuole, che ci illuminano su una grande capacità di invenzione di metodi e
approcci al passato. “Le cose vecchie sono belle” è un bellissimo titolo, secondo me. Gli usi dei
video, dei documenti, delle memorie familiari, delle fotografie, sono importanti.
Da questo punto di vista credo che ci sia una panoramica di esperienze didattiche assolutamente
ricca, a partire da quelle che riguardano la storia antica e medievale: la prof. Foà ha portato
esempi importanti. Quindi non c'è dubbio che le sollecitazioni che sono venute da Ronzani e
Bizzocchi possono confortarla nel suo tentativo di sperimentare tali pratiche didattiche. E’ possibile
cominciare ad applicare queste modalità di insegnamento e di accostamento alle fonti, alle
testimonianze, alle memorie, anche ad età diverse da quella moderna. Abbiamo poi un Archivio
di Stato dove lavorano colleghi, come la dottoressa Tanti, che sono preziosi. Io sono venuto qui
semplicemente a ricordare alcune regole elementari nello studio della storia – che, ovviamente,
ognuno di voi conosce, ma che è sempre necessario rammemorare.
Alessandra Peretti
Rispetto a quanto diceva giustamente Battini - di aver verificato un rifiuto della politica delle
celebrazioni - io vorrei però spezzare una lancia a favore di alcune iniziative, nel senso che per
esempio l'istituzione della Giornata della Memoria è stata uno stimolo formidabile a tutta una
serie di attività. Voglio dire che nella scuola spesso noi ci troviamo a dover ricorrere all'attualità,
cioè ad approfittare di ogni occasione che susciti l'interesse anche momentaneo dei ragazzi, per
agganciarci a quella curiosità estemporanea come punto di partenza per un percorso formativo.
E in tutta questa giornata abbiamo parlato dell'uso delle memorie e di come funzionino di stimolo
all'interesse per la storia nello stesso senso. Così avviene anche per la politica delle celebrazioni,
di cui riconosco tutti gli aspetti negativi - le cose tra l'altro che diceva stamattina Cavaglion sono
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
secondo me interamente sottoscrivibili -; però la sollecitazione a lavorare in un certo modo o
su certi temi provocata dall'istituzione della Giornata della memoria mi sembra anche feconda
di risultati positivi. Non ci si può fermare a questo, ma l’esperienza mi dice che molte volte è
utile anche il dibattito dell'attualità politica, che aiuta gli insegnanti ad affrontare certe tematiche
che, come tutte le tematiche storiche, sono di per sé, come abbiamo più volte ripetuto, difficili
per i ragazzi. Questo volevo aggiungere.
Marta Baiardi
Secondo me quello che è emerso dalle scuole è che la contaminazione paga. Nelle cose che
funzionano - e quando funzionano si vede subito, si vede dalle facce dei ragazzi, dalle nostre
soddisfazioni - la contaminazione è presente: credo che l'abbiamo vista in opera in tutte le
esperienze che ci sono state raccontate oggi, coi loro diversi linguaggi, dalla sprezzatura ironica
di Sandro Marianelli all'assetto più da unità didattica di Paola Foà. Anzi mi piacerebbe discutere
dei linguaggi con cui si parla di scuola, in un altro convegno: della differenza tra le narrazioni e
lo stare dentro a certi stilemi della neo-pedagogia che a volte rischiano di impoverire le esperienze.
Sono intervenuta però per dire che quello che non va bene nelle commemorazioni è la curvatura
celebrativa. Naturalmente si provano delle emozioni, facendo scuola, e meno male: tutta la
psicologia ci dice che, senza l'aspetto affettivo, nessuna conoscenza viene accumulata. Quindi
il problema è: qual è la curvatura finale, quelle che nel linguaggio della neo-pedagogia sono le
finalità? E' qui che entra una necessità di rigore, anche con le cose più contaminate. Nella parodia
di Metropolis c'è un rigore estremo: e la parodia è uno degli esercizi più difficili perchè bisogna
conoscere il testo precedente e il testo che si va a fare. E' chiaro che allora si può ridere, di tutto;
anche che gli studenti creino "La pensione rende liberi" io lo trovo straordinario, da molti punti
di vista, perché è un messaggio denso di tantissime cose. “Abbiamo imparato, abbiamo così
imparato che lo possiamo usare così, ci rendiamo anche conto che tu ti rendi libera...”: insomma,
si potrebbe andare avanti ancora. Quindi io credo che sia questo il punto. Compresa l'accettazione
di quello che viene fuori da loro, quel continuo gioco di aggiustamento che l'insegnante è abituato
a fare, e che è un'arte di cui si parla troppo poco: perchè poi sembra che noi partiamo con delle
idee precisissime e non è affatto così, per fortuna. Nella misura in cui ogni principio di autorità
è venuto meno, noi negoziamo la nostra autorità tutte le mattine, sulla base di una credibilità
che ci viene da questo complessa scienza di cui si riesce a parlare poco e male. Secondo me
invece sarebbe bene farlo di più e occasioni come queste, in cui la scuola esce un po’ da se
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
stessa, sono preziose.
Ambretta Ambretti
Alla fine di questa giornata che a me è piaciuta molto, perché è stata ricca di stimoli e mi ha dato
modo di pensare, sento un vago disagio per il fatto che io sono una che crede che avere dei
momenti in cui si commemora sia importante anche per noi a scuola. Forse è sulla parola
"commemorare" che a volte non ci si intende. Commemorare secondo me vuol dire mettersi a
ricostruire la propria identità personale e storica e avere dei momenti di emozione forte, che sono
i momenti in cui anche tra generazioni diverse, se si è costruito insieme un percorso, ci si riconosce.
Certo, se la commemorazione della Giornata della memoria è soltanto una celebrazione, allora
non va bene: però questo nella scuola forse non accade. Nella scuola può accadere che si ignora
o che si trasmette in modo poco significativo un contenuto, un processo, un percorso. E’ proprio
la scarsa significatività che è pericolosa; al contrario è bene costruire dei momenti commemorativi
in cui la memoria diventa una storia comune, il riconoscimento dell’appartenenza ad una linea
del tempo in cui si collocano i ragazzi, che però sentono che dietro di loro c’è un passato: perché
sulla stessa linea del tempo ci sono i loro padri, i loro nonni, e prima ancora c'è altro, su cui
cominciano ad avere delle curiosità. Quindi io rivendico il diritto a dare alla parola commemorazione
un senso positivo, perchè per me la Giornata della memoria, come il 25 aprile, sono state occasioni
importanti per organizzare e progettare, insieme alle classi, momenti collettivi, che dessero
visibilità al lavoro svolto. Insomma io credo che ogni tanto si debba anche commemorare.
Sandro Marianelli
Volevo dire anche io qualcosa sulla commemorazione. Avendo assistito a dei momenti in cui
appunto l'elemento centrale era proprio questo, ho cercato di riflettere per analizzarne gli aspetti
negativi, ma anche quelli positivi o interessanti. Per esempio, una volta io sono stato al pellegrinaggio
di cui si parlava stamattina, un appuntamento che tutti gli anni alcuni comuni e la provincia
finanziano, che prevede un giro di cinque giorni tra la Germania e l'Austria, da Dachau a
Mauthausen. Ricordo che quando mi offrii di accompagnare tre ragazzi della mia scuola ero molto
perplesso, perchè immaginavo che sarebbe stata un'occasione canonica, in cui tre pullman di
studenti appositamente preparati arrivavano in un dato posto, si scendeva, si metteva una certa
corona, oppure qualcuno faceva un discorso, si risaliva, e poi il giorno dopo si ripeteva lo stesso
rito. Quindi ero molto prevenuto. Invece ho cambiato idea perché, nonostante alcuni momenti
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Tra storia e memoria: dalla ricerca alla scuola
rituali, in cui non si capiva bene cosa accadesse e quindi i ragazzi erano più distratti, tutto
sommato questa esperienza non è stata negativa. Intanto c'era un elemento fondamentale: non
è la gita della scuola, per cui la classe che si conosce da anni va a divertirsi, ma sono piccoli
gruppi di ragazzi che si conoscono durante la gita. Va detto anche che spesso si ritrovano i ragazzi
più motivati, perché le scuole fanno delle scelte. Comunque questa esperienza fatta insieme e
proprio in itinere, perchè si viaggia insieme, ha degli aspetti positivi.
Poi c'è il senso di sacralità che si istituisce automaticamente di fronte al forno crematorio, di
fronte a certe situazioni. Anche questo è un elemento emotivo, è inutile negarlo: non è l'acquisizione
cosciente di una conoscenza. Ci accompagnava Geloni dell'Associazione Deportati, che è morto
qualche anno fa, e ai ragazzi appena scesi dal pullman metteva il fazzoletto con il triangolino
rosso del deportato politico: e tutti i ragazzi erano fieri di portarlo, senza neanche ragionare molto
su questo fatto. E tuttavia, di fronte a certe situazioni, automaticamente, per un rapporto emotivo
con quanto accade, si sta attenti, si ascolta e si recepisce qualche cosa. Sul pullman c'è poi tutta
una procedura per cui si va al microfono, si parla, si riflette insieme. Anche se ci sono elementi
celebrativi, momenti in cui l'attenzione è meno forte e c'è meno interesse da parte dei ragazzi,
mi sembra comunque un’esperienza che nel complesso si possa inserire positivamente in questo
discorso sulle commemorazioni.
Certo, ci sono altre situazioni a scuola in cui l’impegno a fare ciò che si ritiene giusto andrebbe
controllato meglio. Per esempio la mia scuola aveva il Piano dell’Offerta Formativa dedicato alla
pace: ora invece è sui diritti umani. È un'operazione che alcune scuole fanno e lo scopo è giusto,
corretto: ragionare, fare delle attività didattiche su questi concetti. A volte, però, tutto parte
dall'alto e improvvisamente emerge la necessità che le classi lavorino sulla pace. Io ricordo in
maniera agghiacciante che l'anno scorso, quando c'era la guerra contro Saddam, i progetti sulla
pace e la discussione su questi temi erano distrutti dall’attualità immediata. Altro che discutere
della pace, dei diritti umani, della differenza: tutto era spazzato via dalle contrapposizioni sulla
guerra. Quindi io non ho fatto niente, non ho neanche parlato in classe della guerra, perchè non
sapevo che cosa dire a dei ragazzini di terza media. A volte quindi può prevalere nelle scuole
un eccesso di didattica relativa ad un tema che non è preparato e correttamente sviluppato,
ma si applica in maniera un po’ automatica: questo ho visto in qualche occasione.
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