ANTOLOGIA DI TEMI GRAMSCIANI
[A CURA DI LORENZO TESEI]
A [da A. Asor Rosa, Il principe e i poveri, 1987, articolo per “La Repubblica”]
Non si celebra la memoria di un uomo anziano, morto con una lunga storia alle spalle. Bisogna
pensare a Gramsci come a un giovane uomo, che nel breve spazio tra adolescenza e maturità brucia
rapidamente e intensamente tutte le possibilità concesse alla sua avventura vitale.
Nato nel 1891 [Ales, Sardegna], ha 26 anni quando assume nel 1917 il primo incarico nella
sezione torinese del partito socialista; ha 28 anni quando nel 1919 fonda l’ “Ordine nuovo”; ha
30 anni nel 1921 quando contribuisce a formare, a fondare [a Livorno, insieme a Bordiga, a
Togliatti, a Tasca] il partito comunista d’ Italia; ha 35 anni quando, alla fine del 1926 [ancorché
fosse protetto dall’ immunità parlamentare] viene arrestato dalla polizia fascista e condannato a 20
anni di carcere; i “Quaderni” sono composti in carcere, appunto, a Turi, nel periodo 1929-1935
(prevalentemente 1929-1932); muore nel 1937, nella casa di cura Quisisana di Roma, il giorno dopo
aver conseguito la piena libertà, corroso dalla malattia e dalle sofferenze, a 46 anni.
L’augurio è che si possa studiarlo (e additarlo alle nuove generazioni) nella sua veste di
pensatore autonomo, con una storia che solo parzialmente può essere fatta coincidere con quella del
partito comunista, di cui, per altro, fu il massimo esponente solo per una manciata di anni.
Gramsci è il rappresentante tipico di quella giovanissima intellettualità piccolo-borghese che
scorgeva un punto di riferimento nella rivoluzione [culturale] idealistica sviluppatasi tra il 1900 e il
1914.
Vengono da lì:
1- la critica idealistica all’evoluzionismo deterministico del marxismo positivistico della
Seconda Internazionale;
2- il concetto di riforma intellettuale e morale (De Sanctis, Croce, Gentile, Renan, Sorel) ;
3- il concetto di storia etico-politica;
4- la persuasione che ci sia [ci debba essere] un elemento religioso nella filosofia;
5- la politica, come passione;
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6- la lotta di classe, come motore della storia;
7- il concetto di blocco storico;
8- le riflessioni intorno al rapporto tra governati e governanti (Mosca);
9- la funzione e il funzionamento delle élites (gli intellettuali);
10- le simpatie liberiste e anti-proibizioniste;
11- il meridionalismo e la polemica contro l’operaismo corporativista e protezionista del partito
socialista riformista.
Da questo punto di vista, Gramsci è dunque un rappresentante e un continuatore di questa
tradizione di pensiero, nelle difficilissime condizioni create dalla dittatura antidemocratica,
antiliberale, antisocialista e antioperaia [fascista].
La differenza, tuttavia, è che Gramsci fa una scelta di classe. Questo giovane intellettuale
piccolo-borghese arriva a Marx e a Lenin, e arriva persino all’elaborazione di una storia speciale
della lotta di classe e dell’egemonia del proletariato (passando attraverso lo scontro tra le classi
nella Torino operaia e capitalista del ’17-’21). Si pensi al suo famoso articolo “La rivoluzione
contro il Capitale”: «la rivoluzione dei bolsceviki è materiata di ideologie più che di fatti … essa è
la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx … i bolsceviki non sono marxisti, ecco tutto … essi
vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero
idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e
naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici
bruti, ma l’uomo …»
Dal punto di vista strettamente teorico, il pensiero di Gramsci è un ibrido: una commistione di
elementi, che, da una parte, risalgono all’idealismo, al soggettivismo, all’individualismo, e anche al
liberismo di una cultura borghese d’avanguardia; dall’altra al materialismo storico, alla riflessione
politica, al soggettivismo di una tradizione marxista non determinista e non economicista.
Dalla sconfitta del movimento operaio di quegli anni, Gramsci avvertì fortemente l’esigenza di
dotare la classe operaia di una cultura propria, in grado di competere con quella del suo avversario
di classe. Pertanto, i punti più geniali del suo idealismo teoretico riguardano i modi, le forme, le
attenzioni con cui (grazie alle quali) un’azione politico-pratica rivoluzionaria possa imporsi,
collegandosi con tutti quei punti del sociale che, pur non potendo essere i veri motori del processo,
fossero però in grado di recepirne non negativamente le istanze di fondo.
Fra questi punti geniali:
1- La persuasione che i grandi contrasti materiali prendono forma e divengono politicamente
coscienti e significativi, quando vengono portati sul terreno delle ideologie;
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2- Il convincimento che gli intellettuali costituiscono l’armatura flessibile del blocco storico, in
cui le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma. Pertanto, la storia degli
intellettuali assume una rilevanza enorme nella ricostruzione della storia del conflitto tra le
classi. Gramsci è dunque, a questo proposito, grandissimo sociologo degli intellettuali (con
pochi prosecutori, al suo livello);
3- La proposta di un diverso rapporto tra le élites e le masse, che riprende la vecchia
distinzione tra governati e governanti, ma la sviluppa sul terreno del consenso (criticando,
dunque, l’aristocratismo crociano);
4- L’idea che, al centro della questione degli intellettuali stia il Principe, cioè la politica, in
questa doppia e reciproca variante: l’attività degli intellettuali è parte integrante del Principe;
ma anche l’attività del Principe, cioè la Politica, è in sé un’attività intellettuale, per cui
sempre l’azione politica presuppone un’implicazione di motivi ideali.
Pur essendo per Gramsci l’esercizio del potere una necessaria commistione tra coercizione e
persuasione, l’elemento che, in ultima analisi, risulta per lui predominante è quello rappresentato
dalla ricerca del consenso.
Un discorso, dunque, quello gramsciano che esprime una visione estremamente complessa delle
relazioni tra motivazioni ideali e scelte pratiche, tra ceto politico e intellettuale, fra forze materiali e
forze culturali, nel rapporto-scontro tra le diverse rappresentanze di classe.
Come collocare, nel nostro odierno immaginario, la scelta originaria di Gramsci di collocarsi, di
andarsi a mettere (a partire da una sorta di ribellismo piccolo-borghese, che avrebbe potuto avere
molti e diversi esiti) nell’ambito di quell’angolo visuale ristretto e rischioso, ma anche fecondo, che
possiamo definire il punto di vista operaio?
D’altronde, ricordare Gramsci senza ricordare quella sua scelta giovanile e definitiva, sarebbe
un vano e sterile ricordo.
B [da N. Tranfaglia, Alla sbarra il Medioevo, 1987, articolo per “La Repubblica”]
Aspetto non caduco dell’opera gramsciana: il modo di riflettere sulla storia. Nei Quaderni
troviamo intuizioni e giudizi che coprono, sia pure a grandi tratti, tutta la storia del nostro paese.
Gramsci ebbe chiara la visione di un processo storico nazionale che aveva radici profonde in età
medioevale.
Osservazioni essenziali:
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1- Fallimento dei Comuni nel tentativo di creare uno Stato «col consenso dei governati e
passibile di sviluppo, per l’incapacità della borghesia comunale di superare la fase
economica corporativa». Rottura tra città e campagna. Sviluppo in forma di principati
piuttosto che di repubbliche. Difficoltà di aggregare uno Stato territoriale a carattere
nazionale.
2- In questo contesto, Umanesimo e Rinascimento appaiono a Gramsci come l’altra faccia,
quella culturale, dell’arresto di evoluzione che nel XV secolo si realizza a livello politicosociale, data la funzione internazionale, piuttosto che nazionale, degli intellettuali italiani.
3- Esame delle forze che hanno guidato l’unificazione a metà Ottocento, e influenza che la
soluzione risorgimentale (piemontese) esercitò dopo l’Unità. Analisi delle ragioni che hanno
condotto i moderati a prevalere sul partito d’azione e ad imporre la soluzione monarchica e
liberale, contro le altre astrattamente possibili (repubblicana, federale). Analisi del prezzo
pagato da una parte notevole della popolazione, soprattutto meridionale e contadina
(sottosviluppo, brigantaggio).
I Quaderni appaiono, anche a tanta distanza di anni, una grande miniera di spunti e suggestioni,
per cogliere le novità che la società di massa andava (e va) ponendo a tutti. Bastino due
affermazioni, tra tutte, che appaiono veramente profetiche: «gli Stati Uniti sono forse la più grande
forza della storia del mondo»; «le masse più grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico».
C [da M.A. Macciocchi, Per Gramsci, Il Mulino, 1987]
1. MEZZOGIORNO – RISORGIMENTO
Le riflessioni di Gramsci dopo la sconfitta dei consigli di fabbrica si approfondiscono nella
direzione dell’alleanza tra classe operaia e contadini.
Gramsci parte dalla sconfitta dei consigli per ripensare tutta la strategia non solo di una
rivoluzione italiana, ma anche di una rivoluzione in Occidente.
“Alcuni temi della questione meridionale”, (una trentina di pagine, che egli aveva redatto poco
prima dell’arresto nel 1926), costituiscono una pietra miliare nel pensiero storico e politico italiano.
Gramsci, relativamente allo Stato italiano ereditato dal Risorgimento, uno Stato fratturato fra
Nord e Sud, invoca, nella struttura dell’Italia moderna, un sistema di alleanze politiche tra operai
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del Nord e contadini del Sud, e intellettuali, che dia al proletariato la funzione dirigente per la
conquista del potere.
Adesso chi può realizzare la rivoluzione non è più un singolo individuo, il Principe illuminato
del Machiavelli, ma l’avanguardia del Partito proletario.
Le trenta pagine della “Questione meridionale” ripropongono la strategia della rivoluzione
nell’unità tra città e campagne (per creare un nuovo blocco storico all’interno di una società
industrialmente sviluppata) nonché tutti i filoni conduttori del pensiero politico che Gramsci
svilupperà poi nei “Quaderni”:
1- aspetto politico-strategico dell’alleanza operai-contadini;
2- concetto di Stato, egemonia, blocco storico;
3- funzione degli intellettuali, concezione dell’intellettuale organico al proletariato, ruolo del
Partito come intellettuale collettivo, o moderno Principe.
La storia (gramsciana) dell’unità d’Italia e della formazione dello Stato italiano sul finire
dell’Ottocento è basata sul concetto che tale unificazione fu compiuta nel Risorgimento sotto la
direzione della borghesia (tardissimo, per altro, rispetto al formarsi delle altre nazioni europee).
Il complesso e contraddittorio rapporto che ancora esiste tra città e campagna si è così
strutturato nel Risorgimento.
Nelle città, anche laddove esse non sono industriali (le città del silenzio, come Roma o
soprattutto Napoli), esistono nuclei di popolazione del tipo urbano-moderno, ma sommersi,
spremuti, schiacciati dalla presenza dell’altra parte che non è di tipo moderno e che costituisce la
grandissima maggioranza.
Magistrale l’analisi del caso di Napoli: Napoli è la città dove la maggior parte dei proprietari
terrieri del Mezzogiorno spendono la rendita agraria. Si può ripetere per molte popolazioni di tal
genere di città il proverbio: «quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare».
In questo tipo di città, esiste tra tutti i gruppi sociali una unità ideologica contro le campagne;
c’è l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della
campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di città.
Reciprocamente, esiste un’avversione generica, ma non per ciò meno tenace e appassionata
della campagna contro la città, contro tutti i gruppi che la costituiscono. L’episodio della
Repubblica Partenopea del 1799 insegna che la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle
orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, sia nella sua
seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la
possibilità di un rivolgimento giacobino, per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita
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agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi ospiti di
entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani.
Il popolo Italiano fu, dunque, assente dal Risorgimento: un’assenza non tanto fisica, quanto
piuttosto politica. L’unità fu un allargamento dello stato piemontese e del patrimonio della dinastia,
non come movimento nazionale dal basso ma come conquista regia.
Di qui il concetto di «Rivoluzione passiva»: non partecipazione delle masse al movimento;
azione che impegna solo le élites politiche; esclusione della partecipazione popolare, che si teme di
non riuscire a controllare. Gramsci matura il concetto del Cuoco, per il quale la rivoluzione passiva
è quella che le armi di Bonaparte portano con se. Non si tratta di rivoluzione di popolo e perciò
scava un largo fossato tra gli intellettuali e le masse, tra la cultura e la nazione.
Per Gramsci, la rivoluzione passiva mette in causa un gruppo dirigente che, non volendo
accordare i propri interessi e aspirazioni con interessi e aspirazioni di altri gruppi, cerca di
«dominare», senza «dirigere». Tale funzione di dominazione senza direzione può essere esercitata
non solo da un Partito politico, ma anche da uno Stato o da una Potenza, come è stato il caso del
Piemonte nel corso del Risorgimento.
L’importante - dice Gramsci - è approfondire il significato che ha una funzione «tipo Piemonte»
nella rivoluzione passiva, cioè la circostanza che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali nel
dirigere una lotta di rinnovamento.
Perché - scrive Gramsci - il Partito d’azione non pose in tutta la sua estensione la questione
agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio…ma lo stesso Partito d’azione in questo terreno
pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di
contadini.
Così l’Unità d’Italia si formò sotto la spinta della dinastia dei Savoia, sotto la direzione della
borghesia industriale e commerciale del Nord…che mal si adattava alla suddivisione dell’Italia in
due, con i relativi dazi e frontiere da superare, per penetrare liberamente, da conquistatori, nel Sud.
Il Partito d’azione allora esistente (Garibaldi, Mazzini, Pisacane, Orsini) fu influenzato dal
blocco moderato della borghesia e non seppe trasformare in un programma politico preciso i suoi
ideali democratici e sociali. Così l’unità d’Italia (i cui protagonisti furono, anche a livello di lotta
armata, i volontari borghesi e piccolo-borghesi) segnò il successo dell’ala moderata della borghesia.
Garibaldi medesimo, repubblicano e fautore verbale di un programma sociale avanzato, dietro
l’ideale astratto (comune a Mazzini) di unità della politica, fermò a colpi di arma da fuoco
(massacro di Bronte) l’avanzata dei contadini siciliani che chiedevano il possesso della terra, e
consegnò al re Savoia e al moderato Cavour tutto il Mezzogiorno, come terra sottomessa alla
conquista reale. Il cosiddetto «realismo politico» portò Garibaldi a decapitare la partecipazione
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delle masse meridionali, delle masse contadine più straccione, magari organizzate per bande, a
profitto di un regime d’ordine. Insomma: al blocco ideologico che si sgretolava (quando si
sconfiggeva la dominazione straniera sull’Italia) il Partito d’azione era (si rivelò) incapace di
sostituirsi con un nuovo gruppo sociale dominante alternativo.
Si viene a creare, con l’unità, un blocco industriale-agrario, con la creazione di una sorta di
mercato di consumo di tipo coloniale nel Sud, a vantaggio aperto e sprezzante dell’industria situata
nel Nord. Gli industriali (del Nord) si alleano agli agrari (del Sud), riconoscendo loro l’intangibilità
del latifondo. Al tempo stesso si garantiscono l’appoggio delle classi intermedie, con il
mantenimento di privilegi economici, sociali e politici di cui erano favoriti quei ceti medi
meridionali, costituiti da avvocati, professionisti, maestri, funzionari statali, medici, clero (gli
intellettuali, sul cui comportamento Gramsci si intratterrà lungamente per delineare il ruolo
regressivo degli intellettuali meridionali).
La rendita degli agrari meridionali non era, del resto, tutta investita in loco, né spesa tutta nelle
città, ma andava ad alimentare le banche settentrionali, e serviva pertanto al decollo industriale del
Nord.
Per questo, nell’Italia meridionale, tra il 1861 e il 1870, si sviluppa un forte «brigantaggio» che,
pur senza guide consapevoli, dimostra l’opposizione delle masse diseredate meridionali
all’oppressione.
2. EGEMONIA – BLOCCO STORICO
Il concetto di egemonia costituisce l’apporto massimo di Gramsci al marxismo: attraverso
l’esame di quel che deve essere l’egemonia del proletariato, Gramsci ci consente (oggi) di capire
perché nei paesi del cosiddetto socialismo realizzato il consenso era così asfittico, l’economico
sempre distaccato dal politico e sempre prevalente su questo e la società civile in contrasto con la
società politica, per cui nello Stato il momento coercitivo ha sempre superato quello della direzione
ideologica (a scapito, appunto, dell’egemonia). Nella fase in cui la classe subalterna tenta di
sgretolare l’egemonia della borghesia e diventa ideologicamente egemone (ancor prima della
conquista del potere), non basta che superi la fase corporativo-professionale e acquisti coscienza di
classe: quel che occorre è che arrivi a pensare come classe che «tende a dirigere i contadini e gli
intellettuali; che può vincere e costruire il socialismo solo se aiutato e seguito dalla maggioranza di
questi strati sociali».
Il concetto di egemonia si collega con quello di «blocco storico», in quanto Gramsci situa in
quest’ultimo il luogo dove si attua una determinata ideologia.
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Applicando il concetto di blocco storico alla storia d’Italia, Gramsci si sofferma ad esaminare
nel blocco tra industriali del Nord e agrari del Sud la composizione di classe della rivoluzione
borghese, delineando la struttura del blocco di potere della borghesia.
Nei Quaderni definisce il blocco storico come unione tra struttura e sovrastruttura: «la struttura
e la sovrastruttura formano un blocco storico, cioè l’insieme complesso, contraddittorio e discorde
della sovrastruttura è il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione».
Struttura e sovrastruttura sono, nel blocco storico, intimamente connesse in quel che Gramsci
definisce anche «forze materiali e ideologia».
Il concetto di egemonia sovrasta la concezione di blocco storico, in quanto l’egemonia che lo
tiene insieme è una nuova concezione globale del mondo (sovrastruttura) ed è la nuova capacità
della classe dirigente emergente di assumere i problemi generali della vita nazionale e indicarne
concretamente la soluzione (strutturale). Mentre l’azione delle masse sottoposte al dominio può
essere antagonista del potere dominante, la loro coscienza, ovvero il loro modo di pensare, è stato
inculcato dalla egemonia ideologica delle forze politiche avverse. La classe dominante esercita
dunque il suo potere, indipendentemente dai compromessi materiali con altre forze sociali, non solo
con mezzi coercitivi, ma anche per mezzo di una «concezione del mondo», cioè di una filosofia, di
una morale, di un costume, di un senso comune, che permettono alle classi subordinate
l’accettazione del suo dominio.
3. INTELLETTUALI
Per Gramsci l’intellettuale non è mai subordinato rispetto al gruppo dominante (sia la classe al
potere, sia la classe montante), anzi l’intellettuale è l’agente dell’egemonia, il funzionario della
sovrastruttura, il commesso del gruppo dominante, colui che assicura il consenso ideologico
(comando + egemonia) delle masse attorno al gruppo dirigente.
E’ nella «Questione meridionale» che Gramsci definisce per la prima volta il ruolo degli
intellettuali nel blocco storico e nell’egemonia, individuando in essi il cemento tra struttura
economica e sovrastruttura del blocco agrario reazionario.
«Il contadino meridionale - scrive - è legato al grande proprietario terriero per il tramite degli
intellettuali».
Si opera una distinzione tra il vecchio tipo di intellettuale, «elemento organizzativo di una
società a base contadina e artigiana», e il nuovo tipo di intellettuale introdotto dall’industria,
«l’organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata».
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Circa il vecchio tipo di intellettuale, esso offre la massima parte del personale statale (la
burocrazia statale è costituita prevalentemente da meridionali) e anche nel villaggio o nel borgo
rurale esercita la funzione di intermediario tra il contadino e l’Amministrazione in generale.
L’intellettuale meridionale tradizionale «esce, in genere, dal borghese rurale, cioè il piccolo e medio
proprietario di terre che non è contadino, che non lavora la terra … ma che dalla poca terra che ha,
data in affitto a mezzadria semplice, vuol ricavare : di che vivere convenientemente, di che mandare
all’università o in seminario i figlioli, di che fare la dote alle figlie, che devono sposare un ufficiale
o un funzionario civile dello Stato … da questo ceto gli intellettuali ricevono un’aspra avversione
per il contadino lavoratore, considerato come una macchina da lavoro che deve essere smunta fino
all’osso, … ricavano anche il sentimento atavico e istintivo della folle paura del contadino e delle
sue violenze distruttrici, e quindi un abito di ipocrisia raffinata e una raffinatissima arte di ingannare
e addomesticare le masse contadine».
Tra gli intellettuali, anche il clero: Gramsci distingue prete meridionale e prete settentrionale: il
secondo è più legato alle masse dei contadini, moralmente più corretto e quindi capace di esercitare
un ufficio spirituale più completo socialmente, cioè «è un dirigente di tutta l’attività di una
famiglia». Ciò perché nel Settentrione (d’Italia, ma potremmo dire in Europa) si è verificata la
separazione tra Stato e Chiesa e l’espropriazione dei beni ecclesiastici è stata più radicale che nel
Mezzogiorno, dove parrocchie e conventi o hanno conservato o hanno (ben presto) ricostituito
notevoli proprietà immobiliari e mobiliari.
Conclusivamente: il prete nel Mezzogiorno «si presenta al contadino: 1 – come un
amministratore di terre con il quale il contadino entra in conflitto per la questione degli affitti; 2 –
come un usuraio …; 3 - come un uomo sottoposto alle passioni comuni (donne e denaro) … La
confessione esercita perciò uno scarsissimo ufficio dirigente e il contadino meridionale, se spesso è
superstizioso in senso pagano, non è clericale».
A sinistra, l’intellettuale fruisce di condizioni di benevola condiscendenza, per il fatto stesso che
egli viene considerato come «al di fuori» del sistema di classe, indipendente, vale a dire «pensiero
puro», personalità autonoma individuale scienza e conoscenza. D’altronde è proprio degli
intellettuali concepire se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali.
Non esiste, per Gramsci, una classe indipendente di intellettuali: ogni gruppo sociale ha un
proprio ceto intellettuale; gli intellettuali della classe storicamente progressiva esercitano un tale
potere di attrazione che finiscono con il subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali. La
saldatura degli intellettuali alla classe operaia, come intellettuali organici del proletariato;
l’estensione del concetto di lavoro intellettuale a tutte le attività lavorative (in cui è sempre presente
un aspetto del lavoro intellettuale); il raggruppamento nell’intellettuale collettivo (cioè nel moderno
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Principe, il Partito) di tutte le forze che operano per la «riforma intellettuale e morale»: questi i
capisaldi della prospettiva rivoluzionaria gramsciana.
L’intellettuale tradizionale può e deve essere l’oggetto di queste conquiste: per assimilazione,
per conquista ideologica o per il sorgere direttamente dalle masse.
Organico è l’intellettuale il cui rapporto con la classe rivoluzionaria dà luogo a un pensiero
comune. Egli non è più il narciso arbitrario, individualista, svolazzante sulle ali del libero pensiero.
L’adesione organica muta il rapporto tra intellettuali e popolo, dando vita così a una stretta
relazione dialettica tra dirigenti e diretti.
L’intellettuale organico ha la funzione di suscitare e portare avanti quella riforma intellettuale e
morale che eleva la massa intera al ruolo di intellettuale, spezzando l’antica subordinazione del
popolo alla cultura tradizionale e ricollegandosi alla sua cultura, che è il «senso comune».
Che cosa è il «senso comune» o «buon senso» delle masse? Esso «sta non solo nel fatto che, sia
pure implicitamente il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più
ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano,
e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo-profonde, pseudoscientifiche».
Si parte dal senso comune («tutti sono filosofi») per operare poi la critica e il superamento di
esso, fino a ricongiungerlo con la filosofia degli intellettuali (che Gramsci considera la «punta di
progresso del senso comune»).
La filosofia della prassi [il marxismo], partendo dal senso comune eleva i semplici verso una
concezione superiore della vita e istituisce una nuova unità tra intellettuali e masse: il collegamento
culturale è rappresentato dalla politica (dirigente = specialista + politica).
Alla testa della riforma Gramsci pone il «nuovo Principe», ovvero il Partito rivoluzionario: al
Principe di Machiavelli in lotta contro l’organizzazione economico-corporativa della borghesia
comunale italiana e per la creazione di uno Stato borghese, Gramsci sostituisce il Principe dei nostri
giorni, vale a dire l’avanguardia rivoluzionaria che lotta per la trasformazione della società e dello
Stato.
D [da Americanismo e fordismo, Opere di A. Gramsci, Einaudi, 1966]
L’americanismo
e
il
fordismo
risultano
dalla
necessità
immanente
di
giungere
all’organizzazione di una economia programmatica.
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Le forze subalterne, che dovrebbero essere «manipolate» e razionalizzate secondo i nuovi fini,
resistono necessariamente. Ma resistono anche alcuni settori delle forze dominanti, o almeno alleate
delle forze dominanti.
Il proibizionismo, che negli Stati Uniti era una condizione necessaria per sviluppare il nuovo
tipo di lavoratore conforme a un’industria fordizzata, è caduto per l’opposizione di forze marginali,
ancora arretrate, non certo per l’opposizione degli industriali o degli operai.
Vecchia e anacronistica [appare la] struttura sociale demografica europea [che il vecchio ceto
plutocratico vorrebbe] conciliare con una forma modernissima di produzione e di modo di lavorare
quale è offerto dal tipo americano più perfezionato, l’industria di Enrico Ford.
L’Europa vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca: tutti i benefizi che il fordismo
produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che, divorando masse
ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato
internazionale. L’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione
preliminare … questa condizione si può chiamare «una condizione demografica razionale» e
consiste in ciò che non esistono [in America] classi numerose senza una funzione essenziale nel
mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie.
La «tradizione», la «civiltà» europea, è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi
simili. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, tanto più numerose e gravose
sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio» degli «avi»,
di questi pensionati della storia economica.
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati di tipo urbano senza industria
(senza fabbriche) è un … indizio e dei più rilevanti [dell’esistenza di queste masse parassite].
[Viene descritto il caso Napoli, sintetizzato nelle pagine precedenti].
[Relativamente alle campagne] la media e la piccola proprietà terriera non è in mano a contadini
coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo.
Un’altra sorgente di parassitismo assoluto è sempre stata l’amministrazione dello Stato.
Avviene anche oggi che uomini relativamente giovani … con buonissima salute, nel pieno vigore
delle forze fisiche e intellettuali, dopo venticinque anni di servizio statale, non si dedicano più a
nessuna attività produttiva, ma vivacchiano con le pensioni più o meno grandi.
L’America non ha grandi «tradizioni storiche e culturali», ma non è neanche gravata da questa
cappa di piombo: è questa una delle principali ragioni … della sua formidabile accumulazione di
capitali, nonostante il tenore di vita superiore, nelle classi popolari, a quello europeo.
[In America] è stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando
abilmente la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti
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salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di
imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha
bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e della
ideologia.
In America la razionalizzazione ha determinato la necessità di elaborare un nuovo tipo umano,
conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo. È ancora la fase dell’adattamento
psicofisico alla nuova struttura industriale, ricercata attraverso gli alti salari. Il sindacato operaio
americano è più l’espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro, e perciò
la stroncamento che ne domandano gli industriali ha un aspetto «progressivo».
[Relativamente ad alcuni aspetti di una questione che sembrerebbe secondaria e marginale, ma
non lo è affatto], gli istinti sessuali sono quelli che hanno subìto la maggiore repressione da parte
della società in isviluppo; il loro «regolamento», per le contraddizioni cui dà luogo e per le
perversioni che gli si attribuiscono, sembra il più «innaturale», quindi più frequenti in questo campo
i richiami alla «norma».
Distacco, in questo campo, tra città e campagna, ma non in senso idilliaco per la campagna.
La sessualità come funzione riproduttiva e come sport: l’ideale «estetico» della donna oscilla tra
la concezione di «fattrice» e di «ninnolo». La funzione economica della riproduzione … non è solo
un fatto generale … ma è anche un fatto «molecolare», interno ai più piccoli aggregati economici,
quali le famiglie. L’espressione sul «bastone della vecchiaia» mostra la coscienza istintiva del
bisogno economico che ci sia un certo rapporto tra giovani e vecchi in tutta l’area sociale.
Le generazioni vecchie vanno mettendosi in un rapporto sempre più anormale con le
generazioni giovani … le masse lavoratrici s’impinguano di elementi stranieri immigrati che
modifichino la base: si verifica già, come in America, una certa divisione del lavoro (mestieri
qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni di direzione e organizzazione; mestieri non qualificati
per gli immigrati).
[Problemi sorgono dal rapporto] tra le città industriali a bassa natalità e la campagna prolifica: la
vita dell’industria domanda un tirocinio generale … così la bassa natalità urbana domanda una
continua e rilevante spesa per il tirocinio di continuamente nuovi inurbati. Finché la donna non avrà
raggiunto non solo una reale indipendenza di fronte all’uomo, ma anche un nuovo modo di
concepire se stessa e la sua parte nei rapporti sessuali, la questione sessuale rimarrà ricca di caratteri
morbosi e occorrerà esser cauti in ogni innovazione legislativa.
È da rilevare come gli industriali (specialmente Ford) si siano interessati dei rapporti sessuali
dei loro dipendenti e in generale della sistemazione generale delle loro famiglie; l’apparenza di
«puritanesimo» che ha assunto questo interesse (come nel caso del proibizionismo) non deve trarre
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in errore; la verità è che non può svilupparsi il nuovo tipo di uomo domandato dalla
razionalizzazione della produzione e del lavoro, finché l’istinto sessuale non sia stato
conformemente regolato. La storia dell’industrialismo è sempre stata … una continua lotta contro
l’elemento «animalità» dell’uomo. La selezione o «educazione» dell’uomo adatto ai nuovi tipi di
civiltà, cioè alla nuova forma di produzione e di lavoro, è avvenuta con l’impiego di brutalità
inaudite, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli e i refrattari.
Nel campo sessuale il fattore ideologico più depravante e «regressivo» è la concezione
illuministica e libertaria propria delle classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da
queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici.
[Gramsci critica la tendenza di Trotzkij] di dare la supremazia, nella vita nazionale, all’industria
e ai metodi industriali, di accelerare, con mezzi coercitivi esteriori, la disciplina e l’ordine nella
produzione, di adeguare i costumi alla necessità del lavoro. Il principio della coercizione, diretta e
indiretta, nell’ordinamento della produzione e del lavoro è giusto, ma la forma che esso aveva
assunto era errata: il modello militare era diventato un pregiudizio funesto e gli eserciti del lavoro
fallirono. In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo sono indubbiamente
connessi: chi irridesse a queste iniziative (anche se andate fallite) e vedesse in esse solo una
manifestazione ipocrita di «puritanesimo», si negherebbe ogni possibilità di capire … la portata
obiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggiore sforzo collettivo verificatosi finora per
creare, con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di
lavoratore e di uomo. Le iniziative [degli industriali americani tipo Ford] «puritane» hanno solo il
fine di conservare, fuori del lavoro, un certo equilibrio psicofisico che impedisce il collasso
fisiologico del lavoratore. Questo equilibrio … potrà diventare interiore se … sarà proposto dal
lavoratore stesso e non imposto dal di fuori, da una nuova forma di società, con mezzi appropriati e
originali. [Uno di questi mezzi è l’alto salario] … strumento per selezionare una maestranza adatta
al sistema di produzione di lavoro.
Ma l’alto salario è a due tagli: occorre che il lavoratore spenda «razionalmente» i quattrini più
abbondanti. Ed ecco allora la lotta contro l’alcool, l’agente più pericoloso di distruzione della forza
lavoro, che diventa funzione di Stato.
Questione legata a quella dell’alcool è l’altra sessuale: l’abuso e l’irregolarità delle funzioni
sessuali è, dopo l’alcolismo, il nemico più pericoloso delle energie nervose ed è osservazione
comune che il lavoro «ossessionante» provoca depravazione alcoolica e sessuale.
Il fatto più notevole del fenomeno americano, in rapporto a queste manifestazioni, è il distacco
che si è formato, e si andrà sempre più accentuando, tra la moralità-costume dei lavoratori e quella
di altri strati di popolazione. Fino a poco tempo fa quello americano era un popolo di lavoratori: la
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«vocazione laboriosa» non era un tratto inerente solo alle classi operaie ma era una qualità specifica
anche delle classi dirigenti. Negli Stati Uniti … è recente ancora la «tradizione» dei pionieri, cioè di
forti individualità in cui la «vocazione laboriosa» aveva raggiunto la maggiore intensità e vigore, di
uomini che direttamente, e non per il tramite di un esercito di schiavi e di servi, entravano in
contatto energico con le forze naturali per dominarle e sfruttarle vittoriosamente.
A proposito del distacco che il taylorismo determinerebbe tra il lavoro manuale e il «contenuto
umano» del lavoro [si ricordi l’espressione cinica di Taylor circa il lavoratore da ridurre come un
«gorilla ammaestrato»] … lo sforzo che … i lavoratori [vengono da Gramsci portati ad esempio
lavoratori di professioni intellettuali, quali tipografi, stenografi, dattilografi] devono fare per la
meccanizzazione del loro lavoro viene [comunque] fatto e non ammazza spiritualmente l’uomo.
Quando il processo di adattamento è avvenuto, si verifica in realtà che il cervello dell’operaio,
invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà. Si è completamente
meccanizzato solo il gesto fisico; la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo
intenso, si è «annidata» nei fasci muscolari e nervosi e ha lasciato il cervello libero e sgombro da
altre occupazioni.
[È come quando si cammina]: si cammina automaticamente e nello stesso tempo si pensa a tutto
ciò che si vuole.
[Gli industriali americani] hanno capito che «gorilla ammaestrato» è una frase, che l’operaio
rimane «purtroppo» uomo e perfino che egli, durante il lavoro, pensa più o per lo meno ha molto
maggiore possibilità di pensare, almeno quando ha superato la crisi di addestramento e non è stato
eliminato: e non solo pensa, ma il fatto che non ha soddisfazioni immediate del lavoro e comprende
che lo si vuol ridurre a un gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco
conformisti.
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