Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della Commedia CARLOS LÓPEZ CORTEZO Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología [email protected] I. IL “VARCO FOLLE” DI DANTE Il fatto che Dante cominci -e concluda- il suo viaggio immaginario ai trentacinque anni (“Nel mezzo del cammin di nostra vita”) ha ulteriori e importanti implicazioni filosofiche che trascendono il mero dato autobiografico. Infatti, per Averroè e gli averroisti, “soltanto verso la fine della vita l’uomo raggiunge il compimento dell’intelletto e realizza il fine” (Gagliardi 2002: 30), vale a dire, raggiunge la felicità consistente nella visione dell’essenza di Dio. Quando il poeta scrive questo primo verso è sicuramente consapevole di contraddire questa teoria1, se si tiene conto che il suo “averroista” Ulisse (Gagliardi 2002: 138, 146, 283) fa il suo vano quanto “folle volo” alla fine della sua vita (senio)2: “Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi / quando venimmo a quella foce stretta / dov’ Ercule segnò li suoi riguardi // acciò che l’uom più oltre non si metta; […] "O frati", dissi, "che per cento milia / perigli siete giunti a l’occidente, / a questa tanto picciola vigilia // d’i nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperïenza, / di retro al sol, del mondo sanza gente. // Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza" (If. XXVI, 106-120). Il personaggio Dante, invece, preciserà, nella sua risposta alla domanda di Brunetto (“Qual fortuna o destino / anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?” If. XV, 46-47), che il suo smarrimento è avvenuto “avanti che l’età mia fosse piena” (51)3. Mi sembra che questa differenza d’età possa segnare una 115 Tenzone nº 4 2003 diversità ideologica tra i due personaggi4, anche se li accomuna una stessa “follia”: “Questi non vide mai l’ultima sera; / ma per la sua follia le fu sì presso, / che molto poco tempo a volger era.” (Pg. I, 5860). Che questa follia, nel caso d’Ulisse, vada riferita al suo “varcare” la “foce stretta / dov’ Ercule segnò li suoi riguardi // acciò che l’uom più oltre non si metta”, (“de’ remi facemmo ali al folle volo”, If. XXVI, 125; “il varco / folle d’Ulisse” di Pd. XXVII, 82-83) mi sembra indubbio, ma non altrettanto si può dire del “varco” di Dante, di dubbia determinazione, anche se una cosa è sicura: la sua “follia” -e perciò il suo “folle varco”- rimanda al proemio, nel quale l’unico “varco” rintracciabile è “lo passo / che non lasciò già mai persona viva” (26-27), vale a dire il passaggio dalla selva al colle, situato “là dove terminava quella valle” (14). Importante al riguardo è la similitudine del naufrago, in quanto ci aiuta a comprendere il significato delle immagini: E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva, si volge a l’acqua perigliosa e guata, così l’animo mio, ch’ancor fuggiva, si volse a retro a rimirar lo passo che non lasciò già mai persona viva. (22-27) La prima osservazione da fare -soprattutto in un contesto di “follia” ulissiana- è che l’animo di Dante -a cui è riferito il personaggio della similitudine- si salva da un naufragio, a differenza d’Ulisse, che muore (“com’ altrui piacque”) prima di poter arrivare alla montagna “bruna / per la distanza” e “alta tanto / quanto veduta non avëa alcuna” (XXVI, 133-135). La seconda è che al “passo” dalla selva alla “piaggia diserta” del colle, corrisponde, nella similitudine, quello "del pelago a la riva”. Lucia, nel secondo canto, manterrà la stessa metafora marina, per riferirsi alla situazione di Dante: Non odi tu la pieta del suo pianto, non vedi tu la morte che ‘l combatte su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto? (106-108) 116 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ Il verso 108 dovrebbe intendersi: 'presso la corrente, ove ‘l mar non ha vanto'5, vale a dire, a riva, “fuor del pelago” e, anche se vicino all’acqua “perigliosa”, dove questa però non può arrivare (“ove ‘l mar non ha vanto”). Mi è sembrato necessario chiarire il significato di questo verso, perché sicuramente rimanda al Salmo 103, in cui si parla del limite posto da Dio alle acque (“Terminum posuisti quem non transgredientur"), interpretato da Dante nel Convivio come il limite posto da Dio alla vita umana6: “E alcuna morte è violenta, o vero per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per lo Salmista: «Ponesti termine, lo quale passare non si può»” (IV xxiii 8), vale a dire, non si può passare 'da vivo' (con il corpo), il che spiega il significato di “lo passo / che non lasciò già mai persona viva” come il limite o “termine” naturale della vita7 (“là dove terminava quella valle”, la valle “lacrymarum” del Salmo 83,7, dove si dice “Concupiscit, et deficit anima mea in / atria Domini”), che mai nessuno ha potuto 'varcare' da vivo. Si noti anche l’analogia del passo del Salmo citato nel Convivio con “quella foce stretta / dov’ Ercule segnò li suoi riguardi // acciò che l’uom più oltre non si metta” e che Ulisse -come il Dante della selva- invece varca8, in un vano e folle tentativo di raggiungere 'da vivo' quel che è stato posto da Dio al di là della vita mortale. E qui va ricordato che la sapienza “non si trova nella terra dei viventi” (“Sapientia vero ubi invenitur? / Et quis est locus intelligentiae? / Nescit homo pretium eius, / Nec invenitur in terra suaviter viventium”, Iob 28,12-13) e che soltanto Dio la attribuisce a chi vuole: (“Atque utinam Deus loqueretur tecum, / Et aperiret labia sua tibi, / Ut ostenderet tibi secreta sapientiae”, Iob 11,56; “Quia Dominus dat sapientiam, / Et ex ore eius prudentia et scientia. / Custodiet rectorum salutem, / Et proteget gradientes simpliciter”, Prov. 2,6-7; “Et ut scivi quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det; / Et hoc ipsum erat sapientiae, scire cuius esset hoc donum: / Adii Dominum, et deprecatus sum illum, / Et dixi ex totis praecordiis meis: […] Da mihi sedium tuarum assistricem sapientiam“, 117 Tenzone nº 4 2003 Sap. 8,21 e 9,4). Nel Convivio, questi limiti 'naturali' coincidono anche con quelli posti alla conoscenza umana e al desiderio di sapere: Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono9, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia a l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario andrebbe: chè, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sè sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maladetto, e non s’accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione […] Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere (III xv 6-10). II. IL NAUFRAGO AVARO Il fatto che Dante esemplifichi “l’errore” di chi desidera “in questa vita” possedere la “scienza che qui avere non si può”, con “l’errore” dell’avaro che va “dietro al numero impossibile a giugnere”, 118 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ mi sembra significativo, e indicativo riguardo all’episodio del colle, nel quale si serve anche della stessa figura all’interno di una similitudine che verrà più avanti considerata: basti per ora osservare che se l’avaro si condanna ad un desiderio impossibile di saziare, anche colui che, in questa vita, desidera di sapere oltre i limiti della natura umana: “Avaritia…non solum pecuniae est, sed etiam altitudinis. Recte enim avaritia dicitur cum supra modum sublimitas ambitur” (Gregorio Magno, In Evang. I. 1 hom. 16:ML 76, 1136). Interessanti al riguardo le osservazioni di Isidoro: “Avidus dictus ab avendo; avere enim cupere est. Hinc et avarus. Nam quid est avarum esse ? progredi ultra quam sufficit. Avarus ex eo dictus, quod sit avidus auri, et numquam opibus expleatur, et quantum plus habuerit tantum plus cupiat” (Etym. X, 9). Il fatto va considerato alla luce della teoria aristotelica della concupiscenza (“appetito di ciò che diletta”, Rhetor. I, c.11 n.5, 1370a17) e della distinzione tra concupiscenza 'naturale' e 'non naturale'10, ripresa da S. Tommaso: concupiscenza è l’appetito del bene dilettevole. Ma una cosa è dilettevole in due maniere. Una perché è convenevole alla natura dell’animale, come l’alimento, la bibita e altre cose simili. Questa concupiscenza di ciò che è dilettevole si chiama naturale. Un’altra, quando qualcosa è dilettevole perché convenevole all’animale secondo l’apprensione, come quando si apprende qualcosa come buona e convenevole e conseguentemente ci si diletta in essa. Questa concupiscenza di ciò che è dilettevole si dice non naturale, e piuttosto si suole chiamarla cupidigia […] Ma le seconde concupiscenze sono proprie degli uomini, dei quali è proprio rappresentarsi qualcosa come buono e convenevole aldilà di ciò che la natura esige […] La concupiscenza naturale non può, in verità, essere infinita in atto, perché è di quello che esige la natura, e la natura sempre tende verso qualcosa finita e certa. Per questo l’uomo non desidera mai alimento infinito o bibita infinita. Ma così come nella natura si dà l’infinito in potenza, mediante la successione, così anche questa concupiscenza può essere infinita successivamente, vale a dire, in maniera che dopo aver presso l’alimento, se ne desideri di prendere altro o qualche altra cosa 119 Tenzone nº 4 2003 che esiga la natura, perché simili beni corporali, una volta ottenuti non durano sempre, ma finiscono. Per questo motivo disse il Signore alla Samaritana: ‘Chi berrà di quest’acqua, riavrà sete' (Giov. 4,13). La concupiscenza non naturale, però, è assolutamente infinita, perché segue la ragione, come detto (a.3), ed è proprio della ragione procedere all’infinito. Per questo chi desidera le ricchezze lo può fare non fino un determinato limite, ma vuole essere assolutamente ricco, tanto quanto gli sia possibile. Secondo il Filosofo in I Polit. c’è un’altra ragione per la quale una concupiscenza è finita e l’altra infinita. In effetti, la concupiscenza del fine è sempre infinita, dato che il fine si desidera per se stesso, come la salute. Di qui che si desideri sempre una maggiore salute, e così fino all’infinito […] Invece, la concupiscenza di ciò che è per il fine non è infinita, ma si desidera nella misura in che è convenevole per il fine. Perciò coloro che pongono il fine nelle ricchezze ne hanno concupiscenza fino all’infinito, mentre coloro che le desiderano per soddisfare i bisogni della vita, le desiderano limitate, sufficienti per coprire questi bisogni, come dice il Filosofo nello stesso luogo. E lo stesso argomento può essere applicato alla concupiscenza di qualunque altra cosa (S. Theol. I-II, C.30, a.3 e 4)11. Va considerato, però, che ci sono due classi di ricchezze, allo stesso modo che ci sono due classi di beni: quelle materiali e temporali, e quelle intellettuali e spirituali. Questo sdoppiamento semantico, come si sa, ha una lunga tradizione, tanto classica quanto biblica12, e Dante ne fa largo uso13, ma specialmente interessante mi sembra questo passo del Paradiso: Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! oh vita intègra d’amore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza! (XXVII 7-9) ed il commento che ne fa Anna Maria Chiavacci Leonardi: 120 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ ed ecco l’altro segno distintivo del cielo, che è ignoto alla terra: il possesso di una ricchezza che nessuno potrà togliere, e che non lascia spazio a desiderio, perché non può essere maggiore. Si veda come l’accento batte su ogni parola del verso (sanza brama sicura): senza il tormento quotidiano dell’uomo che sempre sospira qualcosa che possa appagarlo e sempre teme di perdere ciò che ha acquistato. Così già scriveva Dante in Conv. III xv 3: «lo quale (scil. il desiderio) essere non può colla beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa, e lo desiderio sia cosa defettiva» […] Dietro queste parole [“sicura ricchezza”] c’è una lunga storia della meditazione dantesca, da quelle ricchezze «false traditrici» che mai mantengono ciò che promettono (Conv. IV xii 3-7) alla sicura povertà di Par. XI 67 (e ancora, in quel canto, al v.82: Oh ignota ricchezza!), fino al sicuro e gaudïoso regno che definirà l’Empireo nel canto XXXI al v. 25. La relazione tra “ricchezza” e “altezza” (“guardai in alto…”) e i suoi significati allegorici viene stabilita da Alain de Lille in un modo molto preciso: “altitudo: proprie dicitur profunditas, id est incomprehensibilitas secretorum Dei, unde Apostolus: ‘O altitudo divitiarum sapientiae Dei!’. Dicitur sublimitas potestatis, unde Paulus: ‘Neque altitudo, neque profundum separabit nos a charitate Dei’”. Se il desiderio di ricchezza materiale dell’avaro (cioè, del Dante personaggio) è inappagabile, anche quello analogo 'intellettuale e spirituale' non può essere soddisfatto in questa vita mortale che, come tale, è finita. Il fatto che il poeta stabilisca nella similitudine un’analogia tra il suo personaggio, che “volontieri” guadagna terreno nel suo salire il colle, e “quei che volontieri acquista”, rimanda sicuramente al suo desiderio insaziabile, vale a dire, non ad una “concupiscenza naturale” (“finita”), ma ad una “non naturale” e perciò “infinita” (“cupiditas”), in contrasto con il carattere 'finito' del colle, i cui limiti coincidono con quelli della sua cima. Ma anche la similitudine del naufrago conduce agli stessi concetti; infatti, è implicito che sia arrivato a riva seguendo un desiderio naturale di fuggire la morte, di salvarsi (salute) o, in altre parole, di vivere. Non 121 Tenzone nº 4 2003 gli basta, però, di essere a riva, vale a dire, di aver raggiunto ormai la sua “salus” e riposarsi, ma dopo -e qui va continuata (implicito) l’analogia stabilita (esplicito) dal poeta tra i due personaggi- vuole salire il più alto che può, come Dante. I naufraghi, nella letteratura di tutti i tempi, dopo essersi salvati dalla morte in mare, cercano -anche per allontanarsi sempre più dal pericolo- un’altezza dalla quale non soltanto osservare (contemplare) le dimensioni e le caratteristiche del luogo dove sono arrivati, ma pure raggiungere con lo sguardo l’orizzonte, cioè guardare il più lontano possibile: più salgono, di più aumenta il loro campo visivo e la loro sensazione di sicurezza (“fin dove si stende la contemplazione anche la felicità, e quelli che possono contemplare di più sono anche più felici […] in maniera che la felicità è una specie di contemplazione” (Aristotele, Et. Nic., X, 8, 1178b 28). Il raggiungimento della riva risponde ad un desiderio naturale (proprio dell’animale) di salvezza, di sopravvivenza; ma l’altro è un desiderio 'aggiunto' e perciò “non naturale” (razionale), come quello delle ricchezze, perché il naufrago (l’animo di Dante, “ch'ancor fuggiva”), dopo essersi volto “a rimirar lo passo / che non lasciò già mai persona viva”, vuole allontanarsi il più che può dal pericolo e dalla sofferenza patita in mare (selva oscura), cercando la protezione dell’altezza, la luce del sole (le spalle illuminate del colle), e anche un maggiore campo visivo (conoscenza), ma rimarrà sempre insoddisfatto, perché il suo desiderio, illimitato, dovrà fermarsi nei limiti del colle. Le due similitudini, quella del naufrago e quella dell’avaro, rimandano quindi al passo di Tommaso, e a una “concupiscenza del fine”, riprendendo esattamente i due esempi scelti dal filosofo: la salute e le ricchezze, ma senza dimenticare il loro significato gnoseologico e che ‘affrettare il passo, accelerare l’andatura’ (“Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso, / ripresi via per la piaggia diserta, / sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso”) rimanda al verbo “studiare” (cfr. Pg. XXVII 62; Cv. IV xxiv 5). Il fatto che Dante si riposi soltanto “un poco” dopo una notte nella selva, come quella descritta nei versi iniziali, indica la sua fretta (desiderio ardente) di salire il colle, o in altre parole, il suo 122 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ appassionato incontro con la filosofia, raffigurato nella Vita nuova nell’episodio della donna pietosa. Ma tornando al passo del Convivio (III xv 6-10), si osservi che Dante non nega il desiderio di conoscere l’essenza di Dio (“per quello che sono”, infatti, riproduce la definizione aristotelica di essenza: “ciò per cui una cosa è quel che è”), ma si limita a considerarlo un desiderio “non naturale” (“Onde, con ciò sia cosa che conoscere Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere”), allo stesso modo che le ricchezze possono desiderarsi “naturalmente” come fanno, secondo Tommaso, “coloro che le desiderano per soddisfare i bisogni della vita”, cioè, “limitate, sufficienti per coprire questi bisogni”, o in un modo “non naturale”, come -sempre in parole di Tommaso- “coloro che pongono il fine nelle ricchezze” e perciò “ne hanno concupiscenza fino all’infinito” (“cupiditas”). Il passo non si contraddice con quel che afferma il personaggio Dante nel canto IV del Paradiso: Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a piè del vero il dubbio; ed è natura ch’al sommo pinge noi di collo in collo. (124-132) E non si contraddice, in primo luogo, perché qui si parla della conoscenza che di Dio abbiamo “per rivelazione” (“se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia”), senza la quale “già mai non si sazia / nostro intelletto” e “ciascun disio sarebbe frustra”. In secondo luogo, perché “Posasi in esso, come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: / se non, ciascun disio sarebbe frustra” non vuol dire che l’uomo possa conoscere in questa vita l’essenza di Dio, ma piuttosto credo vada riferito a ciò che afferma 123 Tenzone nº 4 2003 Tommaso sulla conoscenza che di Dio si ha mediante la grazia e quella che si ha mediante la filosofia naturale: Anche se in questa vita per rivelazione della grazia non possiamo sapere di Dio ‘ciò che è’, e in conseguenza ci uniamo a Lui come qualcosa sconosciuta, in ogni modo però lo conosciamo più profondamente [che per ragione naturale] perché ci mette a portata di mano opere sue sempre più sublimi, e perché gli conferiamo per rivelazione divina proprietà alle quali la ragione naturale non può arrivare, come che Dio sia trino e uno (S. Theol. I. C12 a.13). Quel che di Dio può intendere la ragione umana da sola, necessita anche della rivelazione divina, perché con solo la ragione umana la verità di Dio sarebbe conosciuta da pochi, dopo molte analisi e con dei risultati pieni di errori (S. Theol. I. C1 a.1). In terzo luogo, perché qui si parla di “desiderio naturale” di raggiungere “il sommo” (“ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”), ma al “sommo” di quella scienza “che qui avere si può”, che esclude non Dio, ma sì la sua essenza. Infatti, non a caso Dante si serve dell’immagine della “fera in lustra”, cioè, dell’animale che si riposa dopo aver saziato la sua fame14 (diversamente dall’avaro, sempre insaziabile), ma che sicuramente riavrà fame e dovrà un’altra volta cercare un altro cibo ecc.: “La concupiscenza naturale non può, in verità, essere infinita in atto, perché è di quello che esige la natura, e la natura sempre tende verso qualcosa di finito e certo. Per questo l’uomo [ma anche l’animale] non desidera mai alimento infinito o bibita infinita. Ma così come nella natura si dà l’infinito in potenza, mediante la successione, così anche questa concupiscenza può essere infinita successivamente, vale a dire, in maniera che dopo aver presso il cibo, se ne desideri di prendere altro o qualche altra cosa che esiga la natura, perché simili beni corporali, una volta ottenuti non durano sempre, ma finiscono. Per questo motivo disse il Signore alla Samaritana: ‘Chi berrà di quest’acqua, riavrà sete’ (Gio. 4,13)” (S. Theol. I-II, C.30, a. 4). Si noti anche che il motivo della “successione” 124 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ è palesemente introdotto nei versi che seguono: “Nasce per quello, a guisa di rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”. Nel passo evangelico citato da Tommaso sono implicite le restanti parole di Gesù: “Ma chi berrà della mia acqua non riavrà mai sete…”, che rimandano non ad un’acqua 'naturale' quale la filosofia (ragione naturale), ma 'sopranaturale' quali la rivelazione e la grazia, senza le quali il nostro intelletto “già mai non si sazia”. Il desiderio naturale si appaga al quia, mentre il desiderare di conoscere il quid (l’essenza), in questa vita e senza l’aiuto divino, è considerato un eccesso (cupiditas) destinato a rimanere insoddisfatto, come la cupidigia dell’avaro, ma anche come il desiderio dei “limbicoli”, tra i quali i massimi filosofi naturali, Aristotele e Platone, “che sanza speme” vivono “in disio”: «Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto: io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. (Pg. III, 34-45) Si osservi, però, che qui non si nega il desiderio, ma lo si sospende nel senso che non verrà mai soddisfatto. Folle (“matto”) è chi non si limita15 al quia, ma spera “che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone”, vale a dire, la misteriosa essenza di Dio, la quale non solo è inaccessibile all’uomo in questa vita, ma anche vietata. Il richiamo al peccato originale e ai limiti (divieto) posti da Dio al primo uomo è palese in “se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria”16: la trasgressione 125 Tenzone nº 4 2003 d’Adamo, che volle conoscere quanto Dio, fece necessaria la redenzione di Cristo. Infatti Tommaso, trattando del peccato del primo uomo, ed in risposta all’obbiezione che difendeva che Adamo non peccò per voler essere simile a Dio, perché il desiderio di scienza è naturale all’uomo, afferma: "Non è peccato desiderare la somiglianza con Dio riguardo alla scienza. Lo è, però, desiderarla in un modo disordinato, vale a dire, aldilà di quel che è conveniente. Per questo, nel suo commentario al salmo 70,19, dice Sant’Agostino: ‘Chi vuole essere Dio mediante le sole sue forze desidera essere simile a Dio in un modo cattivo, come il diavolo, che non volle sommettersi a Lui, e l’uomo, che non volle ubbidire i suoi mandati’” (S. Theol. II-II, C.163 a.2). Voler trascorrere “la infinita via” in questa vita “finita” e da soli è una follia. Assieme a questo dell’Aquinate va considerato anche quest’altro passo dantesco, di un’opera posteriore alla Commedia quale la Questio de Aqua et Terra: Cessino dunque, cessino gli uomini di voler capire le cose al di sopra di loro, e indaghino fin dove possono, accostandosi alle cose immortali e divine secondo le loro possibilità, e lascino da parte quanto è più grande di loro. Odano l’Amico di Giobbe che dice: «Forse che potrai descrivere le orme di Dio, e ritrovare l’Onnipotente fino alla perfezione?». Odano il Salmista che dice: «Mirabile è divenuta per me la tua scienza; è vigorosa, e non potrò acquisirla». Ascoltino Isaia che dice: «Quanto distano i cieli dalla terra, cotanto distano le mie vie dalle vie vostre»; parlava invero agli uomini nel nome di Dio. Odano la voce dell’Apostolo Ai Romani: «O altezza delle divizie della sapienza e della scienza di Dio, come sono incomprensibili i suoi giudizi e ininvestigabili le sue vie». E finalmente odano la voce stessa del Creatore, che dice: «Dove io vado, voi non potete venire». E questo basti a indagare la ricercata verità (XXII)17. La metafora paolina delle “ricchezze de la sapienza di Dio”, che sta alla base della “cupiditas” gnoseologica del passo del Purgatorio, è 126 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ ricorrente nell’opera di Dante, come osserva F. Mazzoni in nota al passo: Siamo invece manifestamente di fronte ad un autore, ad uno scrittore che tiene sul tavolo e rimescola le medesime schede, come prova quest’altro esempio, che rilega con filo non certo sottile -mediante le parole di Paolo- Convivio, Monarchia e Questio. Si veda Conv., IV, xxi, 6: «Per che io voglio dire come l’Apostolo: "O altezza de le divizie de la sapienza di Dio, come sono incomprensibili li tuoi giudicii e investigabili le tue vie!"»; Mon., II, viii, 10: «O altitudo divitiarum scientie et sapientie Dei…»; Questio, XXII, 77: «Audiant vocem Apostoli ad Romanos: "O altitudo divitiarum scientie et sapientie Dei, quam incomprehensibilia iudicia eius et investigabiles vie eius!”». III. VENERUNT IN SOLITUDINEM SINAI Penso, però, che quando si affronti la cornice del proemio dovrebbe essere considerata anche la sua connotazione biblica, probabile supporto dell’allegoria. Sorprende, infatti, la sua somiglianza con quella che si descrive in Exodus 19: Mense tertio egressionis Israel terra Aegypti, in die hac venerunt in solitudinem Sinai. Nam profecti de Raphidim, et pervenientes usque in desertum Sinai, castrametati sunt in eodem loco, ibique Israel fixit tentoria e regione montis. Moyses autem ascendit ad Deum: vocavitque eum Dominus de monte [...] Qui dixit ei: [...] Constituesque terminos populo per circuitum, et dices ad eos: Cavete ne ascendatis in montem, nec tangatis fines illius: omnis qui tetigerit montem, morte morietur. [...] Descenditque Dominus super montem Sinai in ipso montis vertice, et vocavit Moysen in cacumen eius. Quo cum ascendisset, dixit ad eum: Descende, et contestare populum: ne forte velit transcendere terminos ad videndum Dominum, et pereat ex eis plurima multitudo. [...] Dixitque Moyses Dominum: Non poterit vulgus ascendere in montem Sinai: tu enim testificatus es, et iussisti, dicens: Pone terminos circa 127 Tenzone nº 4 2003 montem, et sanctifica illum. Cui ait Dominus: Vade, descende: ascendesque tu, et Aaron tecum: sacerdotes autem et populus ne transeant terminos, nec ascendant ad Dominum, ne forte interficiat illos (1-25). Si noti che il luogo dove arriva Dante appena uscito dalla selva (equivalente alla uscita di “Israel terra Aegypti”) corrisponde nei suoi elementi essenziali a quello dove arriva Moisè: il “gran deserto” e il “monte”; e lo stesso si può dire del “termine…lo quale passare non si può”, coincidente con quello posto da Dio in torno al monte per impedire al popolo, sotto minaccia di morte, di salire “ad videndum Dominum”: in entrambi i casi “termine” e “morte” sono inseparabili e, come si vedrà, sarà anche la morte ad impedire al vivente Dante di salire sul colle. Importante è notare il significato che Tommaso d’Aquino attribuisce al passo biblico in una delle obiezioni della Somma Teologica: “Aspetta alla vita attiva disporre e dirigere la contemplativa, d’accordo con gli ordini ricevuti da Moisè in Ex. 19,21: ‘Scendi e vieta al popolo di varcare il termine da me segnato per andare a vedere Yahveh’. Dunque la vita attiva è migliore della contemplativa” (II-II C.182 a.1): quindi il salire il monte era interpretato come “vita contemplativa”18, mentre il rimanere a valle come “vita attiva”. La risposta all’obiezione mi sembra anche interessante: “La vita contemplativa consiste in una certa libertà di spirito, attenendoci a quel che dice S. Gregorio in Super Ez.: «La vita contemplativa produce una qualche libertà di spirito dato che non si preoccupa delle cose temporali», ma di quelle eterne. E Boezio dice nella Consolatio (V 2): «Le anime umane, poi, risultano, necessariamente, più libere proprio quando si conservano nella contemplazione della mente divina, meno, invece, quando si abbassano agli esseri materiali, e meno ancora quando sono incatenate nelle membra terrene»19. In ogni modo conviene osservare che, nel caso di Moisè, è Dio a chiamarlo in cima al monte, dove gli apparirà, mentre in quello di Dante no, il che vorrebbe dire che sta trasgredendo il divieto, o, in altre parole, varcando i limiti segnati o vietati dalla divinità al comune dei 128 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ mortali, con eccezion fatta di quelli da lui chiamati (grazia), come Moisè. Il ragionamento, però, varrebbe nel caso che il colle fosse il monte “santo” del Purgatorio, cosa che non accade, tra l’altro perché Beatrice -a mio parere- li distingue nel suo rimprovero a Dante di Purgatorio XXX: “Come degnasti d’accedere al monte? / non sapei tu che qui è l’uom felice?”. La domanda di Beatrice, infatti, sarebbe assurda nel caso si trattasse del monte del Purgatorio, se si considera che è stata lei stessa a chiedere Virgilio di menare Dante fin lì. Il passo -sempre a mio parere- andrebbe letto in quest’altra maniera: 'Come degnasti (osasti) d’accedere al monte (il colle)? non sapevi tu che qui (e non lì) è l’uom felice?'. L’interpretazione più “piena” dell’importante passo biblico, però, è quella analitica fatta da Agostino nel suo trattato De Trinitate (II, 15, 25-26; 16, 27-28; 17,28-32), dove si nega che Moisè abbia visto l’essenza di Dio, limitando la sua visione a un’immagine di Dio, e dove si afferma -citando la prima epistola a Timoteo- “Regi autem saeculorum immortali, invisibili soli Deo” (1,17) e “Quem nemo hominum vidit, nec videre potest” (6,16). IV. “O DONNA DI VIRTÙ…” Credo sia utile e forse necessario riflettere nuovamente su alcuni passi iniziali della Commedia -già rilevati dalla critica come chiaramente 'boeziani'- che sono stati inseriti da Dante con un’intenzione precisa, la cui vera portata -a mio avviso- non è stata sempre valutata nei suoi giusti termini e implicazioni. Per esempio, quando nel canto secondo dell’Inferno, Virgilio si rivolge a Beatrice in questi termini: “O donna di virtù, sola per cui l’umana spezie eccede ogne contento di quel ciel c’ha minor li cerchi sui, (76-78) Ma dimmi la cagion che non ti guardi de lo scender qua giuso in questo centro 129 Tenzone nº 4 2003 de l’ampio loco ove tornar tu ardi” (82-84) Come si sa l’intervento di Virgilio riproduce la domanda di Boezio alla Filosofia nella Consolatio: “Quid, inquam, tu in has exsilii nostri solitudines, o omnium magistra virtutum, supero cardine delapsa venisti?” (I, III) [“Come mai -dissi- tu, o maestra di tutte le virtù, sei discesa dalla tua alta dimora celeste per venire nella solitudine del mio esilio?”20]. In questo caso ci sarebbe da rilevare -oltre che nel passo dantesco la “maestra di tutte le virtù” non è la Filosofia, ma Beatrice-, anche, o soprattutto, il fatto che l’aggettivo “sola” (“sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui”), riferito con marcata “esclusività” a Beatrice, rimanda ad un potere o ad una “virtù” attribuiti, nella Consolatio, alla sola Filosofia: “Finora tu [dice la Filosofia a Boezio], seguendo le mie indicazioni, hai visto la vera immagine della felicità, ed hai anche appreso dove essa si trovi; ora io, una volta esaurito l’esame delle premesse che ritengo necessarie, ti mostrerò la via che è in grado di riportarti a casa. Applicherò anche ali al tuo ingegno, perché si possa sollevare verso l’alto, di modo che tu, liberato da ogni turbamento, possa ritornare in patria con la mia guida, per il mio sentiero e addirittura, con i mezzi di trasporto da me forniti. Io posseggo infatti ali veloci, capaci di sollevarsi alle alte regioni del cielo; quando la mente le indossa, alzandosi celermente, vede dall’alto la terra e la detesta, supera la smisurata sfera dell’aria, lasciando alle sue spalle le nubi, trascende la massa vorticosa del fuoco che trae il suo calore dal rapido movimento dell’etere, finché assurge alle dimore degli astri e unisce la sua traiettoria a quella di Febo o accompagna il cammino del gelido vegliardo come cavaliere dell’astro dalla tremula luce o, dovunque la notte si anima di scintille, essa rincorre l’orbita dell’astro notturno, 130 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ e, una volta sazia di quanto già ha osservato, abbandona le zone più periferiche del cielo, si posa sulla sommità del rapido etere, padrona, ormai, della sacra luce dell’empireo. Qui sta, con il suo scettro, il signore dei re, e regola con le sue mani le redini del mondo e, immobile, guida il celere cocchio, lui, lo splendente arbitro dell’universo. Se qui ti farà ritornare quella strada che ora, immemore del tuo passato, vai ricercando, questa –dirai-, me ne ricordo, è la mia patria, di qui son nato, qui fermerò i miei passi. E se di qui vorrai rimirare le tenebre della terra che hai lasciato, vedrai che vi stanno, come proscritti dalla patria, i torvi tiranni, tanto temuti dai popoli infelici (IV,I)21 In poche parole, la Filosofia promette a Boezio lo stesso viaggio che Dante, guidato prima da Virgilio e poi da Beatrice, farà nella seconda e terza cantica, e lo fa, per di più, usando le stesse metafore che troviamo nel Purgatorio (“Tanto voler sopra voler mi venne / de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi / al volo mi sentia crescer le penne”, XXVII, 121-123) e nel Paradiso riferite a Beatrice: “E quella pïa che guidò le penne / de le mie ali a così alto volo” (XXV 49-50) o “…mercè di colei / ch’a l’alto volo ti vestì le piume” (XV 54). Il fatto mi sembra importante perché qui la Filosofia si attribuisce la capacità di sollevare, da sola, la “mente” dell’uomo fino all’empireo, cioè, fino alla visione di Dio, “il signore dei re”; vale a dire, gli promette non solo la somma felicità ma anche la “deificazione: Infatti, poiché gli uomini diventano felici quando raggiungono la felicità, e, d’altra parte, la felicità è la divinità stessa, risulta evidente che essi diventano felici quando raggiungono la divinità. Ma come i giusti diventano tali quando raggiungono la giustizia, i sapienti quando raggiungono la sapienza, così, per un criterio analogo, diventeranno necessariamente dèi coloro che hanno raggiunto la 131 Tenzone nº 4 2003 divinità. Ogni persona felice è dunque un dio (III,10; cfr. anche IV,3).22 Il fatto straordinario è messo in risalto nella risposta di Boezio: “Caspita -dissi- che grandi cose prometti! E non dubito che tu possa realizzarle; solo, non lasciarmi in attesa, dopo aver suscitato il mio interesse” (IV,2)23. Siccome non possiamo identificare la Beatrice di Dante con la personificazione della Filosofia della Consolatio, ne deriva che la consolatrice di Boezio (una pretesa “beatrice”, ma con la minuscola) entra in concorrenza con la Beatrice dantesca, promettendo cose che soltanto lei, mediante la grazia, dovrebbe essere in grado di compiere, come risulta dalle già citate parole poste dal poeta in bocca di Virgilio: “O donna di virtù, sola per cui / l’umana specie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui”24. Nella Commedia, infatti, è Virgilio a promettere: Dunque: che è? perché, perché restai, perché tanta viltà nel core allette, perché ardire e franchezza non hai, poscia che tai tre donne benedette curan di te ne la corte del cielo, e ‘l mio parlar tanto ben ti promette?” (If. II, 121-126) ma sempre tenendo conto che le sue promesse sono state fatte in nome di Beatrice, autentica soccorritrice (“Oh pietosa colei che mi soccorse! / e te cortese ch’ubidisti tosto / a le vere parole che ti porse!”, If. II, 133-135; “Da me non venni: / donna scese del ciel, per li cui prieghi / de la mia compagnia costui sovvenni”, Pg. I, 52-54) e il loro compimento dipende sempre dell’appoggio del Cielo (“de l’alto scende virtù che m’aiuta”, Pg I, 68), un aiuto che gli permetterà di guidare Dante per l’inferno e il purgatorio fino alla sua cima dove “anima…a ciò più di me degna” -se Dante vorrà- lo farà salire “a le beate genti”, cioè, all’empireo, alla visione di Dio. Questi sono i limiti di Virgilio, ma anche quelli del suo significato allegorico, e questi dovrebbero essere pure quelli della Filosofia, una Filosofia che invece non dice il vero, perché promette cose che non è in grado di poter compiere, diventando, in conseguenza, anche lei una di quelle false 132 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ “imagini di ben…che nulla promession rendono intera”. Si confrontino le “vere parole” di Beatrice con quelle non veritiere della Filosofia. Di qui forse il suo rimprovero nel Paradiso Terrestre: Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. Quando di carne a spirto era salita, e bellezza e virtù cresciuta m’era, fu’ io a lui men cara e men gradita; e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendono intera. Tanto giù cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran già corti, fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l’uscio d’i morti, e a colui che l’ha qua su condotto, li preghi miei, piangendo, furon porti. (Pg. XXX, 124-141) Il discorso di Beatrice situa il suo soccorso (la sua discesa al Limbo) rimandando esattamente al momento nel quale Dante rinuncia, a causa delle tre fiere, alla sua salita al colle, facendolo coincidere con la tappa in cui “si diede altrui” dimenticandola, vale a dire con la tappa della Donna gentile o la Filosofia, come lui stesso spiega nel Convivio: come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, […] io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che nè ‘l mio nè l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea […] io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E imaginava lei fatta come una donna 133 Tenzone nº 4 2003 gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se non misericordioso (Cv. II xii 1-6). Che questo periodo sia immaginato nel proemio come l’uscita dalla selva oscura (il periodo di “tristizia” o perdita del suo “diletto”, come definisce Tommaso la “tristizia”25) e il tentativo di raggiungere il “sommo” del “dilettoso monte” mi sembra molto probabile. In primo luogo perché il gesto che il personaggio fa appena uscito dalla selva è quello di guardare in alto (“guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle”), lo stesso gesto che fa il Dante della Vita Nuova quando vede per la prima volta la Donna gentile: “Ond’io, accorgendomi del mio travagliare, levai gli occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra26 mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta” (XXXV); in secondo luogo, perché è in questo momento preciso che appare Virgilio, il soccorso inviatogli da Beatrice, e, nella Vita Nuova, il ricupero di Beatrice coincide con l’abbandono della Donna gentile; in terzo luogo, perché l’immagine del colle rimanda al latino specula, che valeva 'luogo elevato, monte' da dove si osserva o contempla (speculazione)27, e come il proprio Dante afferma nel Convivio: “fine della Filosofia è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade s’acquista. E così si può vedere chi è omai questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la sua ragione, e perché Filosofia si chiama, e chi è vero filosofo, e chi è per accidente.” (III xi 14-15). Credo al riguardo che nel tentativo di Dante di salire il colle (“il dilettoso monte”), sia implicito il “fine” della Filosofia di cui si parla nel Convivio, cioè, la contemplazione del “sole” o della “veritade” in che consiste la “vera felicitade”. Il diletto, oltre ad essere proprio dei sensi, appartiene anche alla speculazione: “è naturale all’uomo dilettarsi nella contemplazione della verità” (S. Theol. I-II, C.31 a.7); “C’è, pertanto, un diletto che si da nell’uso della ragione, come quando ci si diletta nel contemplare o nel ragionare” (S. Theol. III, C.33 a.3; cfr. anche C.31 a.4). La relazione “sole”—“sapienza” è 134 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ evidente nel Paradiso, dove il personaggio incontrerà gli spiriti sapienti nel cielo del sole, e tra questi anche Boezio. Ma è proprio in quest’episodio che Beatrice dirà a Dante qualcosa che mi sembra interessante: E Bëatrice cominciò: «Ringrazia, ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo sensibil t’ha levato per sua grazia». (X, 52-54) La distinzione tra il “Sol de li angeli”, ovvero Dio, e il “sole sensibile”, soltanto immagine di Dio (“Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l sole. Lo quale di sensibile luce sè prima e poi tutte le corpora celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sè con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l’altre intelligibili”, Cv. III xii 7) rimanda anche al sole del proemio che Dante vuole contemplare dal colle: “guardai in alto e vidi le sue spalle / vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle”. Qui si tratta del sole sensibile, e non del “vero” Sole, quello “degli angeli”, l’unico capace di dare all’uomo la “vera felicitade” (beatitudine). Se il colle significa la filosofia, vuol dire che questa non ci può dare la “vera felicitade”, come si afferma nel passo del Convivio, ma soltanto diletto. In effetti, Virgilio, riferendosi al colle, parla di “diletto” e di “gioia”, opponendolo alla “noia” della selva (“Ma tu perché ritorni a tanta noia? / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?” vv. 76-78), ma non propriamente di felicità: S. Tommaso distingue tra diletto e felicità, spiegando che il diletto è un accidente che accompagna la felicità o beatitudine, ma non è la sua essenza: Secondo questo, va considerato che ogni diletto è un accidente proprio che accompagna la beatitudine o alcuna parte di essa, perché si sente diletto quando si possiede un bene conveniente, sia reale, sperato o ricordato. Ma un bene conveniente, se in più è perfetto, s’identifica con la beatitudine dell’uomo; ma se è imperfetto s’identifica con una parte prossima, remota o almeno apparente, della beatitudine. Pertanto, è chiaro che nemmeno il diletto che accompagna il 135 Tenzone nº 4 2003 bene perfetto è l’essenza stessa della beatitudine, ma qualcosa che l’accompagna come accidente (S. Theol. I-II C. 2 a.6). Si osservi al rispetto che “diletto” è anche parola chiave dell’episodio della Donna gentile: “Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla” (V.N. XXXVII), allo stesso modo che “consolare” (XXXVIII), con un chiaro rimando alla Filosofia di Boezio. Ci sarebbe da notare anche, che dal sommo del colle questo sole sensibile è contemplato da lontano, senza che si possa raggiungere, mentre il Dante del Paradiso Terrestre, sarà 'levato' da Beatrice, 'per grazia' divina -come lei stessa dice- dal sommo del monte, fino al sole 'sensibile' ed oltre, allo stesso modo che per grazia divina, e non dalla Filosofia, sono stati levati tutti gli spiriti sapienti, tra i quali Boezio28. Se la Filosofia -ovvero, il colle- non può innalzare l’uomo fino al sole, meno ancora potrà farlo fino a Dio, il vero Sole, come il proprio Boezio lo chiama nella Consolatio, opponendolo o distinguendolo da Febo, i cui raggi non hanno la forza di penetrare “le intime viscere della terra o del mare”, allo stesso modo che i raggi del sole del proemio non possono penetrare la materia montuosa del colle o la vegetazione della selva “oscura” (“là dove ‘l sol tace”): Non così il creatore dell’immenso mondo; a lui che dall’alto vede ogni cosa non fann o schermo con la loro mole i mondi, non si oppone la notte con le sue caliginose nubi. Le cose che furono, che sono e che saranno con un solo lampo della sua mente scruta e lui, poiché solo vede tutte le cose, si potrà chiamare vero sole. (V,II)29 Ma se il desiderio umano, rispetto al sole sensibile, è limitato alla sua contemplazione da lontano, data l’impossibilità di raggiungerlo (“l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione”, Cv. III xv 9), a maggior ragione il desiderio della visione divina, cioè del “vero Sole”, 136 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ è anche limitato a quella visione che qui possiamo avere, ai suoi effetti: “Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere.” (ivi, 10). L’immagine del colle, in questo senso, implica anche non soltanto i limiti della speculazione, ma anche i limiti “naturali” del desiderio. Ma oltre quello già detto fin qui, penso sia proficuo comparare questo “dilettoso monte” con il “sacro monte” (Pg. XIX, 38) o “santo monte”30 (XXVIII, 12) del Purgatorio, che s’innalza fino alla terza regione dell’aria, cioè fino al cielo della luna (Pg. XXI, 40-57; XXVIII, 101). Che i monti siano diversi mi sembra ovvio, ma anche il modo di salire di Dante: infatti la salita del monte del Purgatorio è a spirale (XIV, 1; XV, 8; XXII, 123), mentre quella del colle è quella più breve (“corto andar”, la chiama Virgilio), vale a dire, “retta” (“sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso”)31. Al riguardo Tommaso osserva che nella contemplazione si parla di movimento “a spirale” per significare che l’anima usa razionalmente la rivelazione divina, e di movimento “rettilineo” quando il discorso della ragione passa dal sensibile all’intelligibile senza uscire dall’ordine naturale, e quando si procede di verità in verità (S.Theol. II-II C.180 a.6). Significativo in questo senso mi sembra come Dante metta in risalto, nel suo tentativo di salire il colle, il fatto che lo faccia a passo a passo, cioè, di verità in verità ("'l piè fermo"), indicando implicitamente, allo stesso tempo, anche lo sforzo e l’attaccamento dei piedi al suolo, vale a dire, il peso del corpo (“l’intelligenza umana finché rimane unita al corpo non può vedere Dio, perché appesantita dal corpo corruttibile, e così non può raggiungere l’apice della contemplazione”, Tommaso d’Aquino 1990: 148). Il fatto è risaltato pure nel Purgatorio: “ché questi che vien meco, per lo ‘ncarco / de la carne d’Adamo onde si veste, / al montar su, contra sua voglia, è parco” (XI, 43-45), anche se alla fine per descrivere i suoi ultimi passi prima di arrivare al sommo del monte si serve della metafora del volo: “Tanto voler sopra voler mi venne / de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi / al volo mi sentia crescer le penne” (XXVII, 121-123)32. Tuttavia, oltre il già detto, la chiave per “sì che ‘l 137 Tenzone nº 4 2003 piè fermo sempre era ‘l più basso” si trova nel De Trinitate di Agostino, nel capitolo intitolato “Requies et finis voluntatis in visione qualis censeri debeat”: Beati ergo qui factis et moribus cantant canticum graduum: et vae iis qui trahunt peccata, sicut restem longam (cf. Is. 5,18). Sic est autem requies voluntatis quem dicimus finem, si adhuc refertur ad aliud, quemadmodum possumus dicere requiem pedis esse in ambulando cum ponitur unde alius innitatur quo passibus pergitur. Si autem aliquid ita placet, ut in eo cum aliqua delectatione voluntas acquiescat: nondum est tamen illud quo tenditur, sed et hoc refertur ad aliud, ut deputetur non tanquam patria civis, sed tanquam refectio, vel etiam mansio viatoris (XI, 6, 10)33. A questo punto credo non si possano ignorare le implicazioni e ulteriori sviluppi della bellissima -e non comune- metafora del 'sole che tace' (“mi ripigneva là dove ‘l sol tace”), riferita sì alla “selva oscura”, ma che, per opposizione, coinvolge anche il colle, le cui “spalle” erano “vestite già de’ raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle”. Se nella selva il sole “tace” (oscurità), nel sommo del colle invece dovrebbe, implicitamente, 'parlare' (illuminazione): 'luce' e 'parola' s’identificano, allo stesso modo che 'oscurità' e 'silenzio'. Ma se il sole, oltre al suo significato letterale, assume un significato simbolico, vale a dire 'Dio', conseguentemente, a tacere o a parlare è Dio34, “divina podestate”, “somma sapïenza” e “primo amore” (If. III, 5-6; Cv. II v 8), tratti teologici che combaciano con la potenza, la luce e il calore del sole, il quale invia i suoi 'potenti', 'luminosi' e 'caldi' raggi fino alla terra, varcando l’immensa distanza che separa i due astri: sono questi raggi 'la parola' (rivelazione) e il 'Verbo' divino, che 'illuminano' il sommo del colle, e senza i quali questo rimarrebbe immerso nella tenebra, come la selva. Questi raggi 'verbali' sono anche 'mediatori' tra il sole e la terra, separati come sono da un’immensa distanza, non varcabile dall’uomo, ma questa 'mediazione' è di vita, in quanto senza il sole la vita non è possibile: 138 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ Qui è da sapere che sì come trattando di sensibile cosa per cosa insensibile, si tratta convenevolemente, così di cosa intelligibile per cosa inintelligibile trattare si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è Iddio. Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo di Dio che ‘l sole. Lo quale di sensibile luce sè prima e poi tutte le corpora celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sè con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l’altre intelligibili. Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se alcuna ne corrompe, non è de la ‘ntenzione de la cagione, ma è accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se alcuna n’è rea, non è de la divina intenzione, ma conviene quello per accidente essere [ne] lo processo de lo inteso effetto. […] Dico adunque che Iddio, che tutto intende (chè suo ‘girare’ è suo ‘intendere’), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando mira là dove è questa Filosofia (Cv. III xii 5-11): guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle. V. LA METAMORFOSI DELLA BESTIA. IL VELTRO Sul significato dei tre animali che ostacolano la salita del personaggio c’è ancora molto da dire. È vero che Dante si sofferma soprattutto sulla lupa, ma questo fatto non dovrebbe distogliere lo sguardo critico dalle altre due fiere, specialmente dal leone, considerato da sempre -e anche nel medioevo- il “re” degli animali, e situato dal poeta nella posizione mediana della triade, nel posto centrale. La regalità, infatti, è un tratto inerente al leone, e ciò dovrebbe implicare anche la sua superiorità fisica e gerarchica sulla lonza e la lupa. Questa condizione di re viene ad aggiungersi all’altro tratto già rilevato dalla critica, la superbia (“con la test’ alta”), una coppia ben avvenuta se si considera che la superbia è “la regina di tutti 139 Tenzone nº 4 2003 i vizi” (S. Gregorio, XXXI Moral. C.45: ML 76,621), ma che ha l’inconveniente del sesso: qui non abbiamo una leonessa-regina, ma un maschio, allo stesso modo che gli altri due animali non sono maschi, ma femmine. Questo fatto fa pensare più che alla superbia (femminile), al “rex superbus” di cui parla Agostino in un passo del suo De Trinitate che mi pare sia una delle chiavi fondamentali del proemio: Nequaquam igitur per sacrilegas similitudines et impias curiositates et magicas consecrationes animae purgantur et reconciliantur Deo: quia falsus mediator non traicit ad superiora, sed potius obsidens intercludit viam per affectus, quos tanto maligniores, quanto superbiores suae societati inspirat; qui non possunt ad evolandum pennas nutrire virtutum, sed potius ad demergendum pondera exaggerare vitiorum, tanto gravius anima ruitura, quanto sibi videtur evecta sublimius. Proinde, sicut Magi fecerunt divinitus moniti (cf. Mt. 2,12), quos ad humilitatem Domini adorandam stella perduxit, ita et nos, non qua venimus, sed per aliam viam in patriam redire debemus, quam rex humilis docuit, et quam rex superbus humili regi adversarius obsidere non possit. […] Via nobis fuit ad mortem per peccatum in Adam. Per unum quippe hominem peccatum intravit in mundum, et per peccatum mors; et ita in omnes homines pertransiit, in quo omnes peccaverunt (Rom. 5,12). Huius viae mediator diabolus fuit, persuasor peccati, et praecipitator in mortem. […] Ut ergo sicut per unum hominem mors, ita et per unum hominem fieret resurrectio mortuorum, quia magis vitabant homines quod evitare non poterant, mortem carnis, quam mortem spiritus, id est, magis poenam quam meritum poenae (nam non peccare, aut non curatur, aut parum curatur; non mori autem quamvis non obtineatur, vehementer satagitur); vitae Mediator ostendens, quam non sit mors timenda, quae per humanam condicionem iam evadi non potest, sed potius impietas, quae per fidem caveri potest, occurrit nobis ad finem quo venimus, sed non qua venimus. Nos enim ad mortem per peccatum venimus; ille, per iustitiam: et ideo cum 140 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ sit mors nostra poena peccati, mors illius facta est hostia pro peccato (IV xii 15)35. Si osservi, infatti, come nel passo di Agostino il “rex superbus” o falso mediatore, impedisce l’anima di salire “ad superiora”, tagliandole la strada e facendole rovinare “quanto sibi videtur evecta sublimius”36, in opposizione al “rex humilis”, mediatore di vita, che fa ritornare l’anima in patria per un’altra via da quella percorsa37. Se nel leone “con la test’ alta” è possibile riconoscere il “rex superbus” (Lucifero), nel Veltro, la cui “nazion sarà tra feltro e feltro”, si potrebbe intravedere il “rex humilis”. Infatti, la associazione 'cane' ("veltro")38 - “feltro” è analoga a quella che figura in questo passo di G. Villani: “Feciono per divina visione loro imperadore e signore uno fabbro di povero stato, il quale avea nome Cangius, il quale in su un povero feltro fu levato imperadore, e come fu fatto signore, fu chiamato il soprannome di Cane, cioè in loro lingua imperadore” (apud Grande Dizionario della Lingua Italiana, vox “cane”). Va chiarito, però, che Dante non intende accennare ad un Can, ma volendo elaborare un discorso profetico ed enigmatico, si serve di queste immagini per riferirsi ad un imperatore o re “umile”, forse non tanto -o solo- di 'nascita', quanto di 'natura' (“nazion”)39, in opposizione al “re superbo”40. In sintesi, si servirebbe del passo e dei concetti agostiniani, riferiti a Cristo, per trasferirli ad un imperatore “venturo”, figura o prefigura Christi41. In questo senso va tenuta presente l’epistola VII, nella quale -come si sa- rivolge ad Arrigo VII la stessa domanda del Battista a Cristo: “«Tu es qui venturus es, an alium expectamus?»”, senza esitare in presentarlo addirittura come “Agnus Dei”: “Tunc exultavit in te spiritus meus, cum tacitus dixi mecum: «Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi»”. L’idea non è necessariamente originale di Dante, infatti è probabile che l’abbia presa dal libro III del De Regimine Principum di S. Tommaso (1998: 331), nel cui capitolo XIII si parla dell’imperatore come 'rappresentazione' di Cristo “vero Dio e Monarca del mondo”. Importante mi sembra il fatto che, in questo stesso capitolo dell’opera dell’Aquinate, e a proposito dell’umiltà di Cristo Re, si dica: “Per 141 Tenzone nº 4 2003 questo, anche se Cristo, per significare il suo dominio universale, fu adorato dai magi e glorificato dagli angeli, tuttavia si coricò in un luogo umile, avvolto in poveri panni” (1998: 330): che il poeta abbia 'tradotto' quest’ultima espressione nella enigmatica formula “tra feltro e feltro” non mi sembra improbabile, dato che il feltro è -come si sa e come è stato detto- una specie di panno 'povero'. Per concludere quest’approccio provvisorio al Veltro, osserverei, però, che anche se l’immagine segnala un imperatore, questo a sua volta significa (rappresenta) Cristo, il quale diventerebbe così il suo ultimo referente. A questo punto, però, c’è da domandarsi cosa c’entri la filosofia con l’imperatore venturo: al riguardo credo che sia utile rimandare al Convivio: Per che, tutto ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che l’autoritade del filosofo sommo di cui s’intende [Aristotele] sia piena di tutto vigore. E non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sé, ma per disordinanza de la gente; sì che l’una con l’altra congiunta utilissime e pienissime sono d’ogni vigore. E però si scrive in quello di Sapienza: «Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che siete dinanzi a’ populi». Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere (IV vi 17-19). Si osservi che nel passo si afferma che la “autoritade” filosofica di Aristotele “è pericolosa” senza quella imperiale (cioè, senza il Veltro), affermazione che può chiarire -a mio parere- la situazione di estremo “pericolo”42 del personaggio Dante, all’inizio della sua salita “filosofica”, minacciato dalla bestia. Della lonza [un raro animale che non è famelico, come il leone e la lupa, (l’osservazione appartiene a Gorni), che è “leggero e presto molto” (cioè, difficile a catturare) e che “alcuna volta” Dante aveva pensato prendere con una corda, cioè, al laccio (If. XVI, 105-108)]43, si è detto che corrisponde alla “lynx” dell’Eneide, la cui pelle avvolge la 142 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ compagna di Venere (I, 323) od anche al “pardus” di Geremia (5,6), e che perciò significa la lussuria. Ma se questo fosse stato il significato che il poeta voleva dare all’animale, ci sarebbe da chiedersi perché non parla di “lince” o di “pardo”, considerato che avevano le stesse caratteristiche: pel maculato, leggeri e presti anche loro, ed inoltre i loro nomi non offrivano problemi metrici. Evidentemente se sceglie la “lonza” è perché gli interessa proprio questo nome, interpretabile (nomina sunt consequentia rerum) come “la onza” (l’onza) o “la oncia” (l’oncia), l’antica unità di misura dell’oro e anche moneta in uso in molti stati italiani nel Medioevo (Cfr. Boccaccio, Dec. I, IV, 433; Cielo d’Alcamo, Contrasto)44, ed infatti così, con l’articolo, il nome dell’animale figura nei Proverbia super natura feminarum. Credo sia proprio questo il significato della lonza: l’oro, la ricchezza, e non la lussuria45. Anche perché l’apparizione successiva dei tre animali sta ad indicare, oltre la gerarchica già considerata, un rapporto di causalità -Gorni (1995: 23-55), le cui preziose osservazioni tengo molto presenti, a questo proposito parla di metamorfosi della “bestia”-, e non vedo la relazione tra lussuria (almeno che non sia intesa nel suo significato latino di 'vita lussuosa') e il significato attribuito al leone (superbia) e alla lupa (cupidigia)46: la lussuria non genera superbia e non ha niente a che vedere con la cupidigia. Sì invece le ricchezze, dalle quali nasce la superbia: “ex divitiis nascitur superbia” (Alain de Lille: vox dives) e la cupidigia (cfr. Pg. XXII, 40-41: “Perché non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito de’ mortali?”), se si considera che è “un desiderio disordinato di possedere ricchezze” (S. Theol. II-II C.118 a.2), ma -come si è visto sopra- in un senso ampio era definita pure come un desiderio smisurato, non soltanto di danaro, ma anche di scienza (ibid.)47. Al riguardo mi sembra fondamentale l’epistola I a Timoteo: “Nam qui volunt divites fieri, incidunt in tentationem, et in laqueum diaboli, et desideria multa inutilia, et nociva, quae mergunt homines in interitum et perditionem. Radix enim omnium malorum est cupiditas: quam quidam appetentes erraverunt a fide, et inseruerunt se doloribus multis […] Divitibus huius speculi praecipe non sublime sapere, neque sperare in incerto divitiarum, sed 143 Tenzone nº 4 2003 in Deo vivo (qui praestat omnia abunde ad fruendum) bene agere, divites fieri in bonis operibus, facile tribuere, comunicare, thesaurizare sibi fundamentum bonum in futurum; ut apprehendant veram vitam”(6, 9-19). Al carattere 'fraudolento' e 'traditore' delle ricchezze è dedicato, come si sa, un ampio passo del Convivio (IV x-xiii), in gran parte ispirato a Boezio, il quale tratta in profondità il tema nella Consolatio (1991: 125, 145, 149, 151, 159, 183, 195, 221), ed è proprio questo il significato del “pel maculato” (“gaetta pelle”, “pelle dipinta”) della lonza, se si tiene conto del simbolismo attribuito da Alain de Lille ai colori di un altro felino, di diverso significato, ma di uguali caratteristiche quale il “pardus”: “Dicitur etiam haereticus qui diversis fraudibus decipit, sicut pardus diversis coloribus est distinctus” (vox “pardus”)48. Una conferma di questo valore simbolico si trova nella fisionomia di Gerione (“sozza immagine di froda”): “lo dosso e ‘l petto e ambedue le coste / dipinti avea di nodi e di rotelle. // Con più color, sommesse e sovraposte / non fer mai drappi Tartari né Turchi, / né fuor tai tele per Aragne imposte.” (If. XVII, 14-18). Dei passi indicati del Convivio credo basti riprodurre questo brano: Promettono le false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno d’ogni appagamento; e con questa promissione conducono l’umana volontade in vizio d’avarizia […] Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di torre ogni sete e ogni mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio a ciascuno uomo, questa promissione in certa quantità di loro accrescimento affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitade a desiderio, e, con questa, paura grande e sollecitudine sopra l’acquisto (IV xii 4-5). Ho risaltato nel passo il tema della 'promessa' delle ricchezze perché penso che non sia assente nell’episodio della lonza: questa, infatti, 'si mette davanti' (pro-mette) a Dante (“e non mi si partia 144 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ dinanzi al volto”) suscitando in lui, in un primo momento, timore (“anzi ‘mpediva tanto il mio cammino, / ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto”), e poi -a causa de “l’ora del tempo e la dolce stagione”- un sentimento di speranza (“sì ch’a bene sperar m’era cagione / di quella fiera a la gaetta pelle”)49, sentimenti che in un certo modo preannunciano quelli analoghi che il personaggio sentirà davanti alla 'promessa' di Virgilio (vid. If. II, 121-126). È palese che quel che promettono di saziare le ricchezze è il desiderio umano di felicità, anche se non soltanto non sono in grado di compiere la promessa, ma anzi “molto sovente si son rivelate dannose per chi le detiene, dato che sono i tipi più prepotenti, e perciò più avidi della roba altrui, a ritener di essere loro soli i più degni di possedere tutto l’oro e le pietre preziose che ci son nel mondo […] Magnifica veramente la felicità che viene dalle ricchezze terrene, felicità che, quando l’hai raggiunta, ti toglie la condizione di serenità.” (Boezio II, 5). Il significato della lonza, perciò, implica anche il problema della felicità. L’animale, d’altronde come la lince, doveva essere un ‘felino’ molto simile al gatto, anche se non era un ‘vero’ gatto: il ragionamento potrebbe sembrare non pertinente -e forse lo è- se non fosse che la parola “felicità” offriva a Dante la possibilità di essere interpretata (ancora nomina sunt consequentia rerum) come il latino “felis-cita”50, vale a dire, “gatta presta, veloce” (“una lonza leggera e presta molto”), cioè -come detto- non facile da prendere, sfuggevole come la ricchezza, ma anche come la felicità. In sintesi, il tutto condurrebbe alla seguente conclusione: allo stesso modo che la lonza non è un vero gatto –anche se apparentemente gli somiglia-, la ricchezza (lonza) non è nemmeno la vera felicità (gatto). La speranza, però, non dura molto: la lonza si trasforma in un leone che, non contento di mettersi davanti, gli viene incontro minaccioso, “con la test’ alta e con rabbiosa fame”, impaurendolo. A prescindere d’altri significati, è un fatto che l’aggressività delle fiere, e perciò anche la loro pericolosità, è significata nella loro fame: è questa che giustifica l’aggressione, e il suo significato va spiegato nel fatto che tanto la superbia quanto la cupidigia sono 'appetiti': il primo, “della 145 Tenzone nº 4 2003 propria eccellenza” (S. Theol. II-II C.162 a.3); il secondo, di ricchezza, ma come si è visto, anche nel suo significato metaforico di 'sapienza'. Questa considerazione spiega il carattere famelico dei due animali e, allo stesso tempo, conferma il significato attribuito alla lonza, giacché le ricchezze non sono un appetito, ma lo suscitano (cupidigia): se Dante avesse voluto rappresentare nella lonza la lussuria (un altro appetito), l’avrebbe sicuramente descritta 'famelica'. Le ricchezze -come la lonza- sono una pro-messa (tentazione) del diavolo o Rex superbus (“qui volunt divites fieri, incidunt in tentationem, et in laqueum diaboli”), fraudolenta, perché all’inizio promettono di saziare ogni appetito (la lonza è sazia) e poi invece rendono una fame insaziabile: la lupa, “che mai non empie la bramosa voglia, / e dopo il pasto ha più fame che pria”. Gorni (1995: 33), per questi versi, rimanda ad Ovidio (Metam. VIII 834): “Plusque cupit quo plura suam demittit in alvum”, esametro riferito al sacrilego Erissitone, punito per aver profanato un recinto di Cèrere e abbattuto una quercia immensa cara alla dea. L’incaricata di punirlo è Fames51, che s’impossessa del personaggio trasmettendogli una fame tale che solo potrà saziare alla fine divorando il proprio corpo, cioè morendo. Il mito ricorda fortemente il peccato d’Adamo ed Eva, castigato con una concupiscenza (fomes) che non ha termine se non con la morte; e non credo casuale che a proposito della “bestia” il poeta rimandi a quest’episodio biblico: “Questi la caccerà per ogne villa, / fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno, / là onde ‘nvidia prima dipartilla”. Se il verso è un rinvio al momento della tentazione di Eva (“invidia autem diaboli mors introivit in orbem terrarum”, Sap. 2, 24), non possiamo dimenticare che la promessa del diavolo consisteva proprio nel fatto che se avessero mangiato il frutto vietato gli si sarebbero aperti gli occhi (conoscenza del bene e del male) e sarebbero diventati “sicut dii” (Gen. I, 3), vale a dire, la stessa promessa fatta a Boezio dalla Filosofia. È, quindi, questa promessa a suscitare la cupidigia d’Eva, il suo desiderio di mangiare il frutto, allo stesso modo che è la promessa della ricchezza-sapienza (lonza) a suscitare il desiderio di Dante, il quale non casualmente si compara nei versi 55-57 ad un avaro: 146 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ E qual è quei che volentieri acquista, e giugne ‘l tempo che perder lo face, che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista; tal mi fece la bestia sanza pace, che, venendomi ‘ncontro, a poco a poco mi ripigneva là dove ‘l sol tace. Evidentemente la bestia gli fa retrocedere e perdere il terreno guadagnato, come la sfortuna52 fa perdere all’avaro la ricchezza accumulata (l’acquisto). Il terreno (il colle) dunque è considerato come l’acquisto dell’avaro, e l’avaro non è altro che Dante che sta salendo il colle con 'cupidigia', vale a dire, con un desiderio ‘insaziabile’ come quello che suscitano le ricchezze, anche se promettono “rendere lo raunatore pieno d’ogni appagamento” (cfr. Cv. IV xii 4). A questo punto, quindi, appare chiara la funzione della similitudine: Dante è l’avaro, ma la lonza (la ricchezza) è il proprio “colle”, che all’inizio gli si presenta come un bene 'seduttore' (nel senso etimologico), amabile (“gaetta”) anche se 'arduo' (“fiera”), difficile da conquistare (come la ricchezza), ma possibile per lui (data “l’ora del tempo e la dolce stagione”), e che dopo diventa, ai suoi occhi, sempre più alto e aggressivo (il leone) fino al punto di non lasciarsi togliere le sue “ricchezze” (la lupa), anzi uccidendo chi tenta di farlo: “ché questa bestia, per la qual tu gride, / non lascia altrui passar per la sua via, / ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide;”. Infatti, la lonza (un animale probabilmente piccolo come la lince) appare davanti a Dante “quasi al cominciar de l’erta”, cioè quando la salita è meno ripida e perciò più promettente, anche se non facile se si pensa che Dante fu “per ritornar più volte vòlto”; il leone compare quando la costa del monte si fa più verticale e la cima, perciò, pare più alta (“con la test’ alta”), vale a dire, 'superba', in tal modo che "parea che contra me venisse / con la test’ alta e con rabbiosa fame, / sì che parea che l’aere ne tremesse”53: al riguardo, credo sia chiarificatore questo passo del Purgatorio: “Lo sommo er’ alto che vincea la vista, / e la costa superba più assai / che da mezzo quadrante a centro lista” (IV, 40-42); ed infine la lupa, che viene a segnare l’impossibilità di raggiungere il sommo senza 147 Tenzone nº 4 2003 ammazzarsi. C’è da notare che il colle, che all’inizio pare arduo ma sormontabile e successivamente diventa, allo sguardo di Dante, sempre più pericoloso e alto, impossibile a salirsi (mortale), presenta delle caratteristiche opposte a quelle del monte del Purgatorio: “Ed elli a me: «Questa montagna è tale, / che sempre al cominciar di sotto è grave; / e quant’ om più va su, e men fa male. // Però, quand’ ella ti parrà soave / tanto, che sù andar ti fia leggero / com’ a seconda giù andar per nave, // allor sarai al fin d’esto sentiero; / quivi di riposar l’affanno aspetta.»” (IV, 88-95)54. Mi sembra che, oltre a quelli già rilevati, questi tratti opposti distinguano con chiarezza i due monti. Quello del Purgatorio è “santo”, invece quello del proemio è assimilato alla “bestia”: ingannatore -come la ricchezza- (lonza), superbo (leone) e avaro (lupa). E qui bisogna chiarire che non è che Dante progredisca nel suo salire e perciò la sua ascesa si faccia sempre più difficile fino a diventare impossibile, ma che è il suo sguardo -alzatosi dal suolo, all’inizio dell’erta, fino alla cima- a giudicare il colle 'superbo' e 'avaro', intendendo quest’ultimo come avarus in retinendo e non in capiendo, come è il caso del Dante personaggio. L’immagine del monte ed il suo carattere mutevole -rilevabile nella metamorfosi della bestia-, ricordano fortemente la descrizione che della Filosofia fa Boezio all’inizio della Consolatio: La sua statura era di ambigua valutazione. Ora infatti si manteneva nei limiti della normale statura degli uomini, ora invece sembrava toccare il cielo con la sommità del capo: e quando levava la testa ancor più in alto, penetrava nel cielo stesso, rendendo vano lo sguardo di chi tentava di seguirla con gli occhi (I,1)55. Insieme a questi tratti va considerato anche che Boezio vede la Filosofia -come Dante il monte- innanzi a sé e sopra la sua testa (“astitisse mihi supra verticem visa est mulier…”), rilevandosi pure, nello stesso passo, la sua capacità di scorgere lontano assai maggiore di quella degli uomini (“oculis ardentibus et ultra communem hominum valentiam perspicacibus”), fatto quest’ultimo già notato nel 148 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ caso del colle (“specula”), alla cima del quale Dante tenta di salire cercando di poter vedere (“speculari”) più lontano. A questo punto c’è da chiedersi, però, perché Virgilio lo chiami “il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia”. Evidentemente il problema non sta soltanto nel monte, ma soprattutto nel proprio Dante che lo “vede” e lo giudica così, influito dalla fatica dovuta alla gravezza del proprio corpo che si fa sentire già sin dall’inizio dell’erta in contrapposizione al suo ardente desiderio d’arrivare al sommo. Se Dante, appena uscito dalla selva, vede “il dilettoso monte” come un “colle” (si noti che non lo denominerà più così e che non ci sono ragioni di rima che giustifichino la scelta)56 è perché prima, nella "piaggia", gli sembra ‘poco levato’ per le sue forze, vale a dire 'umile' (“Di quella umile Italia fia salute”), e poi 'molto levato', cioè 'superbo'; in altre parole, all’inizio pensa di farcela a salire, mentre dopo invece quando guarda dall’erta la cima, impaurito dall’altezza, sente di non farcela a causa del proprio corpo che prevedibilmente diventerà sempre più pesante per lui (“questa mi porse tanto di gravezza / con la paura ch’uscia di sua vista, / ch’io perdei la speranza de l’altezza”). D’altronde non va dimenticato che proprio il corpo costituisce anche il principale problema (impedimento) per il personaggio di fronte al leone e alla lupa che, famelici, vogliono -letteralmente- divorarlo57. Il fatto che il personaggio “veda” il monte successivamente come una lonza, un leone e una lupa, è un fenomeno da riportare a quel che Dante racconta nel Convivio della donna gentile (la Filosofia): E dico che par che parli [la canzone seconda] contrara a quella [la ballatetta], dicendo: tu fai costei umile, e quella la fa superba, cioè fera e disdegnosa, che tanto vale. Proposta questa accusa, procedo a la scusa per essemplo, ne lo quale, alcuna volta, la veritade si discorda da l’apparenza, e, altra, per diverso rispetto si puote tra[nsmu]tare. Dico: Tu sai che ‘l ciel sempr’ è lucente e chiaro, cioè sempr' è con chiaritade; ma per alcuna cagione alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso. […] Partendomi da questa digressione, che mestiere è stata a vedere 149 Tenzone nº 4 2003 la veritade, ritorno al proposito e dico che sì come li nostri occhi ‘chiamano’, cioè giudicano, la stella talora altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella ballatetta considerò questa donna secondo l’apparenza, discordante dal vero per infertade de l’anima, che di troppo disio era passionata. E ciò manifesto quando dico: chè l’anima temea, sì che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua presenza. Dov’è da sapere che quanto l’agente più al paziente sé unisce, tanto più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo l’apparenza, non discernendo la veritade. E questo è quello per che lo sembiante, onesto secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero (III ix 4-5; x 1-3). Credo che lo stesso accada al personaggio Dante “per infertade de l’anima, che di troppo disio era passionata” sì che 'fiero e disdegnoso', cioè superbo, gli “parea ciò che vedea ne la sua presenza”; ma il difetto sta in lui e non nel colle: “e di tutto questo lo difetto era dal mio lato”(Cv. III xv 20). Nel nostro caso la sua “infertade” è quella di voler salire il monte da solo, vale a dire, di cercare, con cupidigia, la propria eccellenza (nel senso etimologico di “eccellere”), che è come definisce Agostino la “superbia”: “un desiderio d’eccellenza smisurata” (De Civ. Dei, XIV, C.13: ML 41,420) e, per l’Aquinate, anche “ardua”: “Oggetto proprio della superbia è l’arduo, dato che è il desiderio della propria eccellenza” (S. Theol. II-II C.162, a. 3); ma pure nella Commedia si trovano gli stessi concetti: “È chi, per esser suo vicin soppresso, / spera eccellenza, e sol per questo brama / ch’el sia di sua grandezza in basso messo” (Pg. XVII 115-117). Ma l’esempio più significativo al riguardo lo troviamo nel personaggio Adriano V (“Vidi che lì non s’acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita; / per che di questa in me s’accese amore. // Fino a quel punto misera e partita / da Dio anima fui, del 150 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ tutto avara; / or, come vedi, qui ne son punita” (Pg. XIX 109-114), nel quale si uniscono inseparabilmente avarizia e superbia: si ricordi al proposito l’osservazione -già citata- di S. Gregorio: “Avaritia…non solum pecuniae est, sed etiam altitudinis. Recte enim avaritia dicitur cum supra modum sublimitas ambitur”. È la propria avarizia e superbia a far sì che il ‘dilettoso monte’ si trasformi ai suoi occhi in un ‘superbo e avaro’ monte: è il suo desiderio smisurato di ‘eccellenza’ ad elevare anche smisuratamente il sommo che vuole raggiungere, facendolo diventare inaccessibile. L’amore per la sapienza (filosofia), la speculazione, è un’attività interiore: l’immaginare quest’attività intellettuale come il salire un “umile” colle o una “superba” montagna, rimanda anche all’ambizione del soggetto e alla valutazione delle proprie forze: L’umiltà considera la norma della retta ragione, secondo la quale uno fa una vera valutazione di se stesso. La superbia, diversamente, non segue questa norma, ma crede di valere più di quel che vale. Questo deriva dal desiderio disordinato della propria eccellenza, perché quel che si desidera ardentemente si crede facile d’ottenere. Per questo anche il suo appetito si leva ad oggetti più alti di quelli che gli convengono. Per questo tutte le cose che contribuiscono ad una sopravalutazione di se stesso conducono l’uomo alla superbia (S. Theol. II-II C.162 a.3). L’altezza equivale alla profondità e questa all’incomprensibilità della sapienza divina: “Altitudo proprie dicitur profunditas, id est incomprehensibilitas secretorum Dei, unde Apostolus: «O altitudo divitiarum sapientiae Dei!»” (Alain de Lille); “...il superbo non sommette il suo intelletto a Dio per conoscere la verità da Lui, secondo si dice in Mt. 11,25: ‘Nascondesti queste cose ai sapienti e ai prudenti’, vale a dire ai superbi, che credono di essere sapienti e prudenti, ‘e le rivelasti ai piccoli’, cioè, agli umili”’ (S. Theol. II-II C.162 a.3). Paolo chiama questi sapienti-superbi “principi di questo mondo” (I Cor. 2,6 e 8), vale a dire, “filosofi”, secondo l’interpretazione della Glossa accolta da Tommaso (S.Theol. I C.12 a.13)58. Ma forse è nel De beata vita di S. Agostino dove si può trovare una spiegazione più chiara del 151 Tenzone nº 4 2003 significato “soggettivo” del “monte” dantesco, in un passo nel quale figurano elementi molto simili a quelli del proemio: se fosse vero che soltanto la via della ragione e la nostra volontà conducono al porto della filosofia, dal quale si sbarca sul suolo e sulla terra della felicità, non esiterei a dire che vi giungerebbe un numero di persone ancora più esiguo di quello che ora possiamo vedere. Dal momento che Dio, la natura, la nostra volontà, forze che tutte assieme, ci hanno gettato a caso e senza un ordine apparente in questo mondo come in un mare in burrasca, chi potrebbe conoscere la rotta da seguire e sapere per quale via tornare se una tempesta, che gli stolti credono nemica, non spingesse noi verso questa terra desideratissima noi, errabondi e inconsapevoli? […] Tutti coloro che in un modo o nell’altro fanno rotta verso la terra della felicità devono guardarsi bene e cercare di evitare in tutti i modi quell’altissimo monte che s’innalza giusto di fronte al porto e lascia aperto un piccolo spiraglio a chi si appresta ad entrare. Infatti esso è avvolto [uestitur] e brilla di una luce tanto ingannevole da sembrare, scambiato per la terra della felicità da coloro che vi arrivano e ancora non sono entrati, il posto giusto per fermarsi e soddisfare le proprie aspirazioni; ma non solo: sovente richiama persone dal porto stesso e li vincola a sé con la lusinga di un’altezza, la sua, da dove disprezzare gli altri è fonte di soddisfazione […] Quale altro monte la ragione potrebbe rappresentare, temibile a chi si avvicini o già sia entrato nella filosofia, se non il superbo affannarsi per una gloria del tutto vana? Un monte scavato e vuoto, di una solidità solo apparente. Al punto che, sfondatasi la leggera crosta, rovini e sprofondi quei tronfi individui che lo solcano vietando loro, ripiombati nelle tenebre, quella splendida patria che appena cominciavano a scorgere (I, 1-3)59. Per una maggiore comprensione delle immagini credo sia utile anche ricorrere a Riccardo di San Vittore, per il quale l’anima non può arrivare alla contemplazione di Dio senza prima avere una piena conoscenza di sé: “l’anima che non si è esercitata a lungo e non è pienamente istruita nella conoscenza di sé non può elevarsi alla 152 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ conoscenza di Dio” (1991:137). L’immagine della quale si serve è proprio quella del “monte”: L’animo che si sforza di ascendere all’altitudine della scienza, deve prima di tutto impegnarsi a conoscere se stesso. Aver conosciuto profondamente se stessi rappresenta una grande profondità di scienza. La piena cognizione dello spirito razionale è come un monte grande e alto. Questo monte supera le vette di tutte le scienze del mondo, e guarda dall’alto ogni filosofia e ogni scienza del mondo. Che cosa di simile hanno trovato Aristotele e Platone, che cosa di simile ha potuto trovare una così grande moltitudine di filosofi? Senza dubbio, se essi avessero potuto salire su questo monte con l’acutezza del loro ingegno, se gli studi fossero bastati loro a trovare se stessi, se avessero potuto conoscere pienamente se stessi, non avrebbero mai adorato gli idoli, non avrebbero mai piegato il collo a una creatura né alzata la testa contro il Creatore. Qui i ricercatori sono venuti meno nella loro ricerca. Qui sono venuti meno, e non potevano assolutamente salire su questo monte. […] Quanto più ogni giorno avanzerai nella conoscenza di te stesso, tanto più tenderai alle cose più alte. Chi arriva a una piena conoscenza di sé, prende già possesso della cima del monte (Ib. 143-144). Riccardo distingue tra salita del monte e sosta nella sua cima: La salita del monte, come si è detto, appartiene alla conoscenza di sé, mentre le cose che avvengono sopra il monte portano alla conoscenza di Dio (Ib. 155) L’uomo salga quindi a cuore alto su questo monte se vuole conoscere quelle cose che sono al di sopra delle facoltà umane. Salga attraverso la conoscenza di se stesso: attraverso la conoscenza di sé alla conoscenza di Dio (Ib.155), anche se 153 Tenzone nº 4 2003 bisogna però dire che molti pensano di aver già conquistato la cima di questo monte quando ne hanno toccato appena le falde (Ib.149). Il monte, quindi, sarebbe non soltanto “specula” dal quale si contempla, ma anche “speculum” nel quale si contempla la propria immagine: in questo senso vanno interpretate Lia e Rachele, simboli rispettivamente della vita attiva e contemplativa. La prima, difatti, dichiara: “Per piacermi a lo specchio, qui m’adorno; / ma mia suora Rachel mai non si smaga / dal suo miraglio, e siede tutto giorno. // Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga / com’io de l’addornarmi con le mani; / lei lo vedere, e me l’ovrare appaga” (Pg. XXVII 103-108). Le due sorelle, effettivamente, rappresentano, oltre che la vita attiva e la contemplativa, le due fasi dell’ascesa al monte santo: una prima (Lia) nella quale l’anima “adorna” la sua immagine (purificazione) e un’altra nella quale contempla sullo specchio la propria immagine diventata ormai immagine di Dio: L’anima razionale senza dubbio ha a disposizione se stessa come immagine speciale e principale per vedere Dio. Se infatti si colgono i misteri di Dio attraverso la comprensione delle cose create, le tracce della conoscenza dove si trovano impresse più esplicitamente che nella sua stessa immagine? Noi leggiamo e crediamo che l’uomo, nella sua anima, è creato a immagine di Dio, e finché «camminiamo nella fede e non in visione», finché vediamo «attraverso uno specchio e confusamente», non possiamo trovare uno specchio più adatto alla sua immagine simbolica dello spirito razionale. Chiunque desidera vedere Dio, pulisca il suo specchio, purifichi il suo spirito. (Ib. 138). Si osservi la coincidenza in uno stesso significato (‘autoconoscenza’) delle due immagini: specchio (“speculum”) e monte (“specula”), a differenza di ciò che afferma Agostino nel De Trinitate: 154 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ Speculantes dixit, per speculum videntes, non de specula prospicientes. Quod in greca lingua non est ambiguum, unde in latinam translatae sunt apostolicae Litterae. Ibi quippe speculum ubi apparent imagines rerum, a specula de cuius altitudine longius aliquid intuemur, etiam sono verbi distat omnino; satisque apparet Apostolum a speculo, non a specula dixisse gloriam Domini speculantes. Quod vero ait: In eamdem imaginem transformamur, utique imaginem Dei vult intellegi, eamdem dicens, istam ipsam scilicet, id est, quam speculamur (XV,8,14)60. Se non mi sono sbagliato nell’analisi fatta, il colle dantesco come quello di Riccardo- oltre che “specula”, sarebbe anche “speculum”, cioè, immagine interiore del personaggio, dominato dalla superbia e dall’avarizia (leone e lupa), cioè dalla “bestia”: “Sed peccando, iustitiam et sanctitatem veritatis amisit; propter quod imago deformis et decolor facta est: hanc recipit, cum reformatur et renovatur” (De Trinitate, XIV, 16,22. Cfr. anche XII, 11,16: «Imago pecudis in nomine»). In altre parole nel monte Dante vedrebbe l’immagine della sua anima diventata simile, non a Dio, ma alla “bestia”, vale a dire, a Lucifero (“rex superbus”). 155 Tenzone nº 4 2003 NOTE 1 Altrettanto può dirsi riguardo all’allusione alla creazione del mondo dei versi 3940 (“Temp’ era dal principio del mattino, / e ‘l sol montava ‘n sù con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino // mosse di prima quelle cose belle”) che -oltre il già detto dalla critica- va considerata –in un contesto filosofico come quello del canto primo- come un rifiuto della tesi aristotelica dell’eternità del mondo (De Caelo, I,9, 279a25), sostenuta anche dagli averroisti. 2 Ulisse è nel "senio" quando arriva alle Colonne d'Ercole (settanta anni secondo ciò che Dante dice nel quarto trattato del Convivio), il che vuol dire che il Dante del proemio avrebbe la metà dei suoi anni (trentacinque). 3 L’interpretazione che si fa di questo verso (prima che la mia vita fosse giunta alla sua pienezza, al colmo dell’arco, cioè al trentacinquesimo anno) non mi pare corretta. Il colmo dell’arco, infatti, sarebbero esattamente i trentacinque anni, non giustificandosi in questo caso che dica “avanti”, quando nel primo verso della Commedia dice “nel mezzo”. Penso si deva intendere 'prima che la mia età fosse giunta alla sua pienezza, cioè, alla sua fine', senso che d’altronde si corrisponde con i termini e il contenuto della domanda di Brunetto (“anzi l’ultimo dì”). 4 Sarà la grazia divina a concedere finalmente il “varco” del personaggio Dante ai trentacinque anni, allo stesso modo che è Dio a non concederglielo a Ulisse alla fine della sua vita (“com’ altrui piacque”): la grazia non ha in considerazione né l’età né la scienza. 5 Riguardo a “su” come 'presso', si veda If. V, 98. D’altronde la situazione di Dante in quel momento non ammette altra lettura, essendo com’è "presso” la selva e dove questa “non ha vanto”, cioè nella “piaggia diserta”. 6 Si tenga presente anche che nel Convivio Dante adopera la metafora del mare per riferirsi alla vita: “E dice ch’ella [l’anima nobile] fa due cose: l’una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde ella si partio quando venne ad entrare nel mare di questa vita; l’altra si è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però che è stato diritto e buono e sanza amaritudine di tempesta.” (IV xxviii 2). In questo caso, il personaggio della similitudine (ma anche il Dante della Commedia) sarebbe uscito del "mare di questa vita” fuggendo la “amaritudine di tempesta” e avendo perso il cammino “diritto e buono”. 7 Come si sa il verso è ambiguo, potendosi leggere con “che” soggetto (che non lasciò mai sopravvivere alcuno) o con “che” oggetto (che nessuno lasciò mai da 156 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ vivo), ma la risoluzione, in entrambi i casi, è la stessa: la morte naturale non lascia sopravvivere nessuno e nessuno ha potuto mai lasciare da vivo la vita. 8 Lo stesso concetto di 'termine della vita' si trova nel capitolo XIV della Vita Nuova: “Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona la quale uno suo amico a l’estremitade de la vita condotto avea…”, “Allora io, riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: ‘Io tenni li piedi in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”. 9 Si noti la diversa portata semantica di “guardare” e “vedere”: “…che lo intelletto nostro guardare non può […] che certissimamente si veggiono…”, dove “guardare” vuol dire ‘intendere’: “e per quello che sono intendere noi non potemo”. 10 “Il desiderio di sapienza o d’altri beni spirituali a volte si denomina concupiscenza, o per una certa somiglianza, o per l’intensità dell’appetito della parte superiore che ridonda in quello inferiore, in modo che anche questo tende a suo modo al bene spirituale seguendo l’appetito superiore, e persino lo stesso corpo serve a ciò che è spirituale, come si dice nel Salmo 83,3: ‘Cor meum et caro mea exsultaverunt in Deum vivum’” (S. Theol. I-II, C.30 a.1, r.1). 11 Tutti i passi qui citati della Somma Teologica sono stati tradotti dall'autore dall'edizione spagnola dell'opera. 12 “Dives: proprie amans divitias, unde in Evangelio: ‘Facilius est camelum per foramen’, etc. […] Dicitur superbus, quia ex divitiis nascitur superbia […] Dicitur aliquis habens spirituales divitias, unde in Psalmo: ‘Vultum tuum deprecabuntur omnes divites plebis’, id est qui amant divitias spirituales. Dicitur Deus propter totius boni plenitudinem et abundantiam, propter scientiam et potentiam; unde dicit Apostolus: ‘Deus autem qui dives est in misericordia'. Dicitur etiam divina natura, unde in Psalmo: ‘Simul in unum dives et pauper’, id est divina natura secundum quam Christus dicitur dives et pauper, id est humana Christi natura secundum quam fuit pauper”. “Divitiae [...] Dicuntur divitiae divinum eloquium, unde Job: ‘Et bibent scientes divitias ejus’; […] Dicitur abundantia, unde Apostolus: ‘O altitudo divitiarum sapientiae et scientiae!” (Alain de Lille). Va considerato al riguardo anche l’etimologia che Varrone attribuisce alla parola dives, facendola derivare da “divus, qui ut Deus nihil indigere videtur” (De Miguel 2000: vox "dives"). 13 Vid. Enciclopedia Dantesca, vox “ricchezza”. 14 Non va dimenticato che le fiere si mangiano tra di loro. Qui la fiera è l'intelletto umano, ma nel Purgatorio è il grifone (XXXI 80, 122, XXXII 96) simbolo di Cristo e del mistero ("grifo" vale 'enigma') della sua doppia natura divina e umana. In quest'ultimo caso la "fiera" non si lascerebbe divorare dal famelico intelletto umano. 157 Tenzone nº 4 2003 15 “State contenti” va interpretato nel senso che gli dà Chimenz: “Accontentatevi, o –come parrebbe piuttosto suggerire l’uso della prep. a, invece di di– restate contenuti (contenti, latinismo: cfr. Inf. II, 77), contenetevi, limitatevi a constatare che le cose sono (quia sunt, formula scolastica), senza presumere di volerne sapere le cause e l’essenza, perché, se la ragione umana avesse potuto da sé spiegar tutto, non era necessaria la venuta di Cristo”. 16 “Dixit autem serpens ad mulierem. Nequaquam morte moriemini. Scit enim Deus quod in quocumque die comederitis ex eo, aperientur oculi vestri et eritis sicut dii, scientes bonum et malum” (Gen. I,3). 17 “Desinant ergo, desinant homines querere que supra eos sunt, et querant usque quo possunt, ut trahant se ad inmortalia et divina pro posse, ac maiora se relinquant. Audiant amicum Iob dicentem: «Nunquid vestigia Dei comprehendes, et Omnipotentem usque ad perfectionem reperies?». Audiant Psalmistam dicentem: «Mirabilis facta est scientia tua ex me: confortata est, et non potero ad eam». Audiant Ysaiam dicentem: «Quam distant celi a terra, tantum distant vie mee a viis vestris»; loquebatur equidem in persona Dei ad hominem. Audiant vocem Apostoli ad Romanos: «O altitudo divitiarum scientie et sapientie Dei, quam incomprehensibilia iudicia eius et investigabiles vie eius!». Et denique audiant propriam Creatoris vocem dicentis: «Quo ego vado, vos non potestis venire». Et hec sufficiant ad inquisitionem intente veritatis”. (Alighieri 1979: II, 768). 18 Si confronti Alain de Lille, vox “mons”: “Dicitur alta contemplatio”. 19 "Humanas vero animas liberiores quidam esse necesse est, cum se in mentis divinae speculatione conservant, minus vero, cum dilabuntur ad corpora, minusque etiam, cum terrenis artubus colligantur". 20 Se si considera che la vera patria dell’uomo è il Cielo, anche Virgilio è esiliato nel Limbo. 21 “Sunt etenim pennae volucres mihi, / quae celsa conscendant poli; / quas sibi cum velox mens induit, / terras perosa despicit, / aeris immensi superat globum / nubesque postergum videt, / quique agili motu calet aetheris, / trascendit ignis verticem, / donec in astriferas surgat domos / Phoeboque coniungat vias / aut comitetur iter gelidi senis / miles corusci sideris, / vel, quocumque micans nox pingitur, / recurrat astri circulum / atque, ubi iam exhausti fuerit satis, / polum relinquat extimum / dorsaque velocis premat aetheris / compos verendi luminis. / Hic regum sceptrum dominus tenet / orbisque habenas temperat / et volucrem currum stabilis regit / rerum coruscus arbiter. / Huc te si reducem referat via, / quam nunc requiris immemor, / haec, dices, memini, patria est mihi, / hinc ortus, hic sistam gradum. / Quodsi terrarum placeat tibi / noctem relictam visere, / quos miseri torvos populi timent / cernes tyrannos exsules”. 158 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ 22 “Nam quoniam beatitudinis adeptione fiunt homines beati, beatitudo vero est ipsa divinitas, divinitatis adeptione beatos fieri manifestum est. Sed uti iustitiae adeptione iusti, sapientiae sapientes fiunt, ita divinitatem adeptos deos fieri simili ratione necesse est. Omnis igitur beatus deus”. 23 “Tum ego: Papae, inquam, ut magna promittis! Nec dubito, quin possis effimere, tu modo, quem excitaveris, ne moreris”. 24 Si osservi che nelle parole di Virgilio è implicito il desiderio umano di “eccedere ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui”, cioè il desiderio del “volo”, ma anche la sua incapacità di farlo se non tramite Beatrice. 25 “Se il diletto proviene dalla presenza di una determinata cosa, la tristezza proviene dall’assenza di quella cosa” (S. Theol. I-2 C. 36 a. 1) (Trad. nostra). 26 Mi pare altamente significativo che la Donna gentile ci sia presentata per la prima volta guardando –cioè “contemplando”- da una finestra, vale a dire, da un luogo alto che serve appunto per contemplare. Una conferma di questo significato si trova in Alain de Lille: “Dicitur mens contemplativa” (Vox: “fenestra”). 27 S. Agostino nel suo De Trinitate fa derivare speculantes da speculum, non da specula (XV, 8, 14). L'argomento verrà trattato più avanti. 28 Nell’ultimo Libro della Consolatio, Boezio sembra contraddire ciò che la Filosofia afferma nel passo del Libro IV citato: “Verrà, dunque, eliminato quell’unico rapporto possibile tra uomini e Dio, che consiste appunto nello sperare e nel pregare, se è vero che noi, in premio di un doveroso riconoscimento della nostra bassezza, meritiamo l’inestimabile contraccambio della grazia divina, che è la sola via per cui sembra che gli uomini possano entrare in colloquio con Dio e congiungersi con quella inaccessibile luce, grazie all’atto stesso della preghiera, prima ancora di essere esauditi.” (V,3) [Auferetur igitur unicum illud inter homines deumque commercium sperandi scilicet ac deprecandi, si quidem iustae humilitatis pretio inaestimabilem vicem divinae gratiae promeremur, qui solus modus est, quo cum deo colloqui homines posse videantur illique inaccessae luci prius quoque, quam impetrent, ipsa supplicandi ratione coniungi]. 29 "Haud sic magni conditor orbis; / huic ex alto cuncta tuenti / nulla terrae mole resistunt, / non nox atris nubibus obstat. / Quae sint, quae fuerint veniantque, / uno mentis cernit in ictu; / quem, quia respicit omnia solus, / verum possis dicere solem". 30 “Quis ascendet in montem Domini? aut quis stabit in loco sancto eius?” (Ps. 23,3). 31 “Mostra l’usato costume di coloro che salgono, che sempre si fermano più in su quel piè che più basso rimane” (Boccaccio). L’osservazione è vera soltanto nel caso si salga rettamente, non se la salita è a spirale. 159 Tenzone nº 4 2003 32 Si osservi che qui si parla soltanto di “volo” e non ancora di “alto volo”, riservato al mondo sopra lunare. 33 Questo passo agostiniano merita un ulteriore studio in relazione con quello del proemio. 34 “Silere proprie. Notat verbum Dei Patris ab humana separari natura, illa enim separatio metaphorice dicitur silentium. Qui loquitur ad aliquem, quodammodo ad eum mittit verbum suum, Pater ergo quodammodo ad Filium locutus est quando ad eum verbum suum misit, id est ei univit. A simile silere diceretur si verbum ab nomine separaretur, unde David: ‘Ad te, Domine, Deus meus, ne sileas a me’” (Alain de Lille, vox “silere”). “Verbum. Dei Filius etiam dicitur Verbum, quia sicut intellectus procedit a mente et est coevus menti, alius tamen a mente, sic Filius procedit a Patre, Patri coeternus, alius tamen a Patre” (vox “verbum”). 35 Gli stessi concetti o molto simili in quest’altro passo: “Sunt autem quidam qui se putant ad contemplandum Deum et inhaerendum Deo virtute propria posse purgari: quos ipsa superbia maxime maculat. Nullum enim vitium est cui magis divina lege resistatur, et in quod maius accipiat dominandi ius ille superbissimus spiritus, ad ima mediator, ad summa interclusor: nisi occulte insidians alia via devitetur; aut per populum deficientem, quod interpretatur Amalec, aperte saeviens, et ad terram promissionis repugnando transitum negans, per crucem Domini quae Moysi manibus extensis est prefigurata, superetur. Hinc enim purgationem sibi isti virtute propria pollicentur, quia nonnulla eorum potuerunt aciem mentis ultra omnem creaturam transmittere, et lucem incommutabilis veritatis quantulacumque ex parte contingere: quod christianos multos ex fide interim sola viventes, nondum potuisse derident” (IV, xv, 20). 36 Il fatto sarebbe da riportare alla similitudine di “quei che volentieri acquista, / e giugne ‘l tempo che perder lo face, / che ‘n tutti suoi pensier piange e s’attrista”. 37 Si tengano presenti le parole di Virgilio dei versi 91-96 (“A te convien tenere altro vïaggio…”), ma anche quelle di Dante a Brunetto: “«Là sù di sopra, in la vita serena», / rispuos’ io lui, «mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fosse piena. // Pur ier mattina le volsi le spalle: / questi m’apparve, tornand’ ïo in quella, / e reducemi a ca per questo calle” (If. XV, 49-54). 38 C’è da domandarsi perché “veltro” e non “cane”. Oltre i motivi di rima, si potrebbe pensare ad una “interpretatio nominis”, basata nel greco “bélteros”, comparativo poetico di “ágazòs”, che significa “il migliore”: si tenga presente che la monarchia era considerata da Dante la migliore forma di governo. 39 “Ant. Insieme delle caratteristiche innate, fisiche e morali, di una persona […], natura, costituzione; carattere: Anonimo, I-568: ‘Simile hai nazion di badalischio / 160 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ che pur concedi male e già non bene’” (Grande Dizionario della Lingua Italiana, vox “nazione”). 40 Per il problema del Veltro va considerato anche Alain de Lille: “Canis, proprie, dicitur praedicator vel bonus praelatus. Canis insignes habet proprietates: bonos significat pastores; secundum dejectos mercenarios et fures. Canis autem hae sunt insignes proprietates. Canis est animal exhibens homini familiaritatem domini custodiens aedem, furem arcens, latrans contra lupum venientem, fugans latronem, linguam medicinalem habens: secundum has proprietates signat bonum pastorem qui tenetur subditis exhibere compassionis familiaritatem, judicare subditorum infirmitatem, congaudere sanis, compati aegris, regere viantes, corrigere deviantes; hic etiam tenetur custodire domum Domini, id est Ecclesiam Dei ne fur, id est haereticus, aliquem subripiat de Ecclesia per sugestionem; ne lupus, id est diabolus, aliquem devoret per tentationem; ne latro, id est tyrannus, in Ecclesia irruat per violentam tyrannidem, unde Psalmista: ‘Famem patientur ut canes’, et alibi: “Lingua canum tuorum”. 41 Escludo che il Veltro possa riferirsi ad un pontefice, in quanto nell’epistola VI, la situazione della Chiesa e del Papato è considerata anche una conseguenza del trono imperiale vacante: “solio augustali vacante, totus orbis exorbitat, quod nauclerus et remiges in navicula Petri dormitant, et quod Ytalia misera, sola, privatis arbitriis derelicta omnique publico moderamine destituta, quanta ventorum fluentorumve concussione feratur verba non caperent, sed et vix Ytali infelices lacrimis metiuntur”. 42 Si ricordi che “pericolo” rimanda etimologicamente al latino “periri”, ‘perire, morire’. 43 Il fatto che nel 1285 ci fosse una lonza ingabbiata nel Comune di Firenze fa pensare ad un animale raro, che non abbondava e difficile a catturare: in caso contrario non si spiegherebbe che fosse esposta alla curiosità pubblica e, addirittura, in un luogo così marcato politicamente e così rappresentativo della città. Per riassumere, doveva essere considerato una preda difficile e ambita dai cacciatori. La sua esposizione al pubblico sarà stata probabilmente un’espressione dell’orgoglio cittadino di possederla, qualcosa che gli altri Comuni non erano riusciti ad avere. 44 “ha il suo corrispondente nel francese antico ‘lonce’ [nel francese antico si ritenne però articolo la l- iniziale, e tale forma, ‘la onça’, è conservata nel nostro Proverbia super natura feminarum [I 542] 461” (E. Dantesca). 45 Va ricordato al riguardo che Ricchezza è anche personaggio allegorico del Roman de la rose (10051-271), del Fiore (LXXIV-LXXVI) e del Detto d’Amore (277-360), e che impedisce l’amante di salire al Castello per la via più breve (“la droite voie” nel Roman, “camino / Più corto” nel Detto), mostrandosi verso questo “crudel e 161 Tenzone nº 4 2003 fera” (Fiore LXXVII, CCXXXII; Roman 10074). Il tema merita ulteriori e più profonde considerazioni. 46 Sono dell’opinione che, basicamente, il leone significhi il potere e la lupa, la fame. Infatti il verso 99, “e dopo ‘l pasto ha più fame che pria”, come si vedrà più avanti, rinvia a Ovidio, “plusque cupit, quo plura suam demittit in alvum” ['e quanto più insacca nel ventre, tanto più brama'], riferito a Fames, personificazione della fame (Metam. VIII, 834). 47 “Aurum dicitur contemplatio, unde in Apostolo: ‘Alii sunt qui aedificant aurum, alii argentum, alii lapides pretiosos’, id est contemplantur” (Alain de Lille). 48 Significativo anche il simbolismo della “pelle”: “Dicitur etiam bonum temporale” (vox “pellis”) se si considera che le ricchezze sono un bene temporale. 49 La chiave di queste passioni contrastanti di fronte alla lonza si trova in questo passo di S. Tommaso: “…il bene arduo ha qualcosa che attrae l’appetito, cioè, il fatto che è un bene, e qualcosa che lo ritrae, la difficoltà di riuscire ad averlo. Dall’essere un bene ne deriva il movimento di speranza e dall’essere arduo quello di disperazione. D’altra parte i movimenti dell’appetito che si comportano come impulsi esigono una virtù che li moderi e li freni, mentre quelli che indicano un ritiramento necessitano una virtù morale che li riaffermi e li spinga. Perciò riguardo l’appetito del bene arduo è necessaria una doppia virtù. Una che temperi e raffreni l’animo affinché non aspiri smisuratamente alle cose eccelse, e questa sarebbe l’umiltà, e l’altra dovrà rafforzare l’animo contro la disperazione ed spingerlo a desiderare le cose grandi conforme alla retta ragione, e questo è quel che fa la magnanimità” (S. Theol. II-II, C. 161 a. 1). 50 Da felis -is (fem.), 'gatto' e citus -a -um, 'presto, rapido'. Ovviamente si tratterebbe di un’interpretazione del nome, non di un’etimologia. 51 Jean de Meun s’ispira al personaggio ovidiano per la sua Faim, della quale fa una dettagliata descrizione nell’episodio di Ricchezza (10167-10185). 52 La “bestia” ha a che vedere con la sfortuna ("'l tempo che perder lo face”), mentre la lonza con la fortuna (“sì ch’a bene sperar m’era cagione / di quella fiera a la gaetta pelle / l’ora del tempo e la dolce stagione”). 53 Il fenomeno ottico è simile a quello che Dante descrive in If. XXXI: “Qual pare a riguardar la Carisenda / sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada / sovr’ essa sì, ched ella incontro penda” (136-138). 54 Montagna e anima sembrano fondersi in uno stesso significato: "il significato spirituale di questa condizione della montagna è evidente: le difficoltà che l'anima gravata dall'abito del peccato, dapprima trova a spogliarsene, diminuiscono man mano ch'essa si purifica mediante la penitenza" (Chimenz). Non si dimentichi che nel monte sono rappresentati i peccati che appesantiscono l'anima e che il primo, la 162 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ superbia, è il più 'grave'. Virgilio rileva il carattere 'non naturale' del monte ("Questa montagna è tale" vale 'questa montagna non è come le altre'): infatti le montagne generalmente offrono meno difficoltà alla base e più a seconda che si salgono. 55 “…statura discretionis ambiguae. Nam nunc quidam ad communem sese hominum mensuram cohibebat, nunc vero pulsare caelum summi verticis cacumine videbatur; quae cum altius caput extulisset, ipsum etiam caelum penetrabat respicientiumque hominum frustrabatur intuitum”. 56 La scelta del nome si giustificherebbe nel principio nomina sunt consequentia rerum. Infatti -come si sa- “colle” valeva tanto ‘collina’ quanto ‘monte’ o ‘montagna’: il fatto linguistico rimanderebbe al carattere ‘mutevole’ del colle. 57 In questo senso i tre animali, che come afferma Gorni “sono accomunati dall’iniziale comune”, rappresentano “la morte” per Dante. All’interpretazione che dell’iniziale fa lo studioso, “L (El) è il nome stesso di Dio […] Dunque in questa L iniziale il poeta autorizza a scorgere –come nelle tre facce di Lucifero, come nella maiuscola iniziale del nome stesso dell’angelo ribelle- un segno negato della divinità” (1995: 31-32), ci sarebbe da aggiungere che questa lettera simbolicamente significava anche “morte violenta” (Pérez-Rioja 1988: 262), simbolismo da riportare forse al significato del latino “letum”. Si ricordi a questo proposito che la morte -della quale Lucifero è il mediatore- è negazione della vita (Dio). 58 L’espressione paolina e l’interpretazione che ne danno la Glossa e Tommaso, giustificano e spiegano l’analoga formula dantesca di Vita Nuova XXX: “Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lacrimando in questa desolata cittade, scrissi a li principi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola civitas”. Non si tratta, come in genere si commenta, dei governanti del mondo, ma dei filosofi o sapienti di questo mondo. Si noti che Paolo, forse non casualmente, per riferirsi ai filosofi usa, al plurale, la stessa espressione che nel Vangelo si applica al diavolo: “Dicitur diabolus, unde in Evangelio: Venit enim princeps hujus mundi” (Alain de Lille: vox “princeps”). 59 “Si ad philosophiae portum, e quo iam in beatae uitae regionem solumque proceditur […] ratione institutus cursus et uoluntas ipsa perduceret, nescio, utrum temere dixerim multo minoris numeri homines ad eum peruenturus fuisse, quamuis nunc quoque, ut uidemus, rari admodum paucique perueniant. Cum enim in hunc mundum siue natura siue necessitas siue uoluntas nostra siue coniuncta horum aliqua siue simul omnia […] uelut in quoddam procellosum salum nos quasi temere passimque proiecerit, quotusquisque cognosceret, quo sibi nitendum esset quaue redeundum, nisi aliquando et inuitos contraque obnitentes aliqua tempestas, quae stultis uidetur aduersa, in optatissimam terram nescientes errantesque conpingeret? 163 Tenzone nº 4 2003 […] His autem omnibus, qui quocumque modo ad beatae uitae regionem feruntur, unus inmanissimus mons ante ipsum portum constitutus, qui etiam magnas ingredientibus gignit angustias, uehementissime formidandus cautissimeque uitandus est. Nam ita fulget, ita mentiente illa luce uestitur, ut non solum peruenientibus nondumque ingressis incolendum se offerat et eorum uoluntati pro ipsa beata terra satisfacturum polliceatur sed plerumque de ipso portu ad sese homines inuitet, eosque nonnumquam detineat ipsa altitudine delectatos, unde ceteros despicere libeat […] Nam quem montem alium uult intellegi ratio propinquantibus ad philosophiam ingressisue metuendum nisi superbum studium inanissimae gloriae, quo ita nihil intus plenum atque solidum habet, ut inflatos sibi superambulantes subcrepante fragili solo demergat ac sorbeat eisque in tenebras reuolutis eripiat luculentam domum, quam paene iam uiderant?”. 60 Agostino sembra riferirsi all’etimologia, ma questa non esclude ulteriori interpretazioni del termine. 164 Carlos LÓPEZ CORTEZO Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della ... _____________________________________________________________________________________________________ RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI∗ AAVV. (1993): “Lettura del Fiore”, in Letture Classensi, vol. XXII, a c. di Z. G. Baranski, P. Boyde e L. Pertile. Ravenna, Longo Ed. AGUSTÍN DE HIPONA (1985): La Trinidad, Madrid, B.A.C. —— (1995): La felicità. La libertà, Milano, B.U.R. ALANI DE INSULI: Liber in theologicalium, P.L. 210,687-1.112. distinctionibus dictionum ALIGHIERI, D. (1968): Il Convivio, a c. di G. Busnelli e G. Vandelli, Firenze, Le Monnier. —— (1968): La Divina Commedia, a c. di S. A. Chimenz, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese. —— (1979): Opere minori, in La letteratura Italiana, Storia e Testi, vol. 5, tomo II, Milano-Napoli, Ricciardi. —— (1991): Commedia. Inferno. Con il commento di A. Mª. Chiavacci Leonardi, Milano, Garzanti. —— (1994): Commedia. Purgatorio. Con il commento di A. Mª. 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