Della musica e del silenzio - "Ferraris"

Gianmarco Pinciroli1
Della musica e del silenzio
Note d’ascolto quotidiano in tempi di nichilismo compiuto
Il cammino della storia della musica consta del normale
germogliare, del rifarsi indietro e del progredire prudente. I
genii rappresentano le catastrofi che, come il fulmine,
abbagliano e atterriscono e il cui tuono viene percepito in
ritardo. Quando tutto è passato, colui che ama gli spettacoli
della natura esclama: “Magnifico il temporale!”
[Ferruccio Busoni, 1921]
1. Nella musica2 sono in gioco due perfezioni: la prima presuppone come luogo
progettuale essenziale la sintassi, la seconda s'affida prioritariamente al suono. Spesso i due
presupposti si escludono nel progetto di composizione per lo più operante oggi. La loro
connessione resta, quando accade il miracolo di un tale felice coniugarsi di suono e sintassi,
comunque molto problematica nella sua provvisorietà di riuscita; nel migliore dei casi,
1
E’ stato docente di filosofia e storia al Ferraris.
2
L’andamento di questo scritto, come si vedrà, è progettualmente rapsodico, perché così è nato, e ha inteso
essere scritto: giorno dopo giorno, come ‘note d’ascolto quotidiano’; è stato fatto, comunque, un minimo
d’ordine tra i frammenti là dove l’argomento in essi dominante trattato lo ha reso possibile, e i titoli dei
paragrafi accennano, appunto, e senza imposizione o sforzo, ad un tema comune tra quelli in tal modo
sussunti. Cosicché, l’impressione che se ne potrebbe ricavare è che in queste pagine riposino per lo più – e
non trovino affatto soluzione – delle domande, che una prolungata abitudine all’ascolto musicale ha finito
per destare, persuadendo chi scrive a impostarne la problematica per quel che è riuscito a fare.
1
infatti, non può che metter capo ad un'opera imperfetta, finalmente imperfetta, l'unica vera
opera, a dire il vero, che venga voglia di riascoltare una seconda volta, come se la sua
imperfezione chiamasse a sanarla la colmatura pertinente al nostro ascolto, come se il
nostro ascolto soltanto fosse in grado di offrire all'opera una provvisoria perfezione3.
Chi ha paura della musica contemporanea?
2. Molti hanno paura della musica cosiddetta contemporanea, e nascondono il terrore
dietro la noia o il disprezzo verso le sue manifestazioni. Essi hanno paura esattamente di
questo: del fatto che la musica d'oggi sembra loro abitata dal più radicale non-senso. Non
sarebbe possibile, dunque, riposare dentro il ‘tempo’ di questa musica – la musica essendo
comunque tempo, tempo che passa, ma tempo sospeso che l'ascoltatore scopre soltanto in
fondo all'ascolto come tempo trascorso (il senso!) della sua vita – poiché la musica
contemporanea non offrirebbe da sé spontaneamente la giustificazione del suo senso. Le
abitudini percettive, infatti, danno senso, questa è una ben conosciuta regola d'ascolto (e di
composizione); il disattendimento radicale delle abitudini, il vanificarsi del senso ad esse
legato, scatena dunque, in chi si trova a fruirne, il terrore. Ma forse la questione è di gran
lunga più complessa; infatti, la presunta mancanza di senso della musica cosiddetta
Si tratterebbe di tradurre in termini di ricezione musicale quanto da tempo si conosce circa la ricezione
letteraria. A tale scopo si veda, per un’introduzione generale alla tematica della ricezione letteraria, AA. VV.
[Gumbrecht, Iser, Jauss, Naumann, Stempel, Stierle, Weimann, Weinrich], Teoria della ricezione, Torino,
Einaudi, 1989. A titolo di esempio, per chiarire l’invito ad operare il trasporto da linguistica verbale a segno
musicale, si consideri questa affermazione di W. Iser contenuta in uno dei contributi (‘Il processo della
lettura. Una prospettiva fenomenologica’) presenti nel testo citato: “La teoria fenomenologica dell’arte ha
messo in particolare evidenza che la riflessione sull’opera letteraria non deve considerare soltanto la forma
data del testo, ma anche, e in eguale misura, gli atti inerenti alla sua comprensione. […] Si potrebbe arrivare
alla seguente conclusione: l’opera letteraria ha due poli, che potremmo definire il polo artistico e il polo
estetico; il polo artistico corrisponderebbe al testo creato dall’autore, quello estetico alla concretizzazione
attuata dal lettore.” Cfr. AA. VV., op. cit., p. 43. È chiaro che il passaggio dal linguaggio verbale a quello
musicale è comunque ricco di insidie, e va effettuato con la dovuta prudenza; la coppia
compositore/esecutore, responsabile del testo musicale, complica l’operatività della coppia lettore/testo
verbale, dal momento che il testo musicale risulta dall’interazione di fattori (partitura, interpretazione
esecutiva) del tutto assenti dal testo verbale.
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2
contemporanea è progettuale solo in casi ben dichiarati e circoscritti; per lo più, infatti, essa
persegue una sintassi organizzativa ed una filosofia del suono che s'appoggiano, eccome, a
progetti di senso4. Il problema, allora, è conoscere quei progetti, avere la pazienza di
riconoscerli all'ascolto, pensare che valga la pena di uscire dalla falsa spontaneità di un
ascolto fatto di consolidate abitudini superficiali per entrare in una nuova spontaneità, le cui
profonde radici andrebbero a raggiungere livelli di sensibilità e d'emozione, d'intelligenza e
d'immaginazione che mai nessuna tradizione auditiva, confermata nel tempo dalla pigrizia e
dalla viltà estetiche, sarà in grado di mobilitare.
3. Spesso, nella musica d’oggi, l'inizio del brano dà l'idea dell'emergere di qualcosa dal
nulla sonoro; la musica, o meglio, il suono che sorge dal silenzio descrive allora l'incessante
miracolo, non del cominciamento, ma del ricominciamento. D'altro canto, soprattutto (ma
non solo) nei concerti scritti oggi per strumento solista, sembra di assistere davvero alla
lotta mortale del singolo rispetto alla totalità di cui è, ma non vorrebbe, pacificamente
essere parte, magari a tale parzialità essendo tale singolo costretto a ridursi e dovendo
rinunciare, così, a valere in sé come altro dal semplice esser-parte. Talvolta, come in
Portrait per clavicembalo e orchestra (1975-76) di Franco Donatoni 5, ambedue le
Una disamina abbastanza completa dei progetti musicali inerenti al vasto arcipelago della musica cosiddetta
contemporanea è contenuta nel bel volume, cui si rimanda, di Paul Griffiths, The Twentieth-Century Music,
2014; trad. it. P. G., La musica del Novecento, Torino, Einaudi, 2014. Per un contributo strettamente teorico
del problema riguardante il progetto musicale contemporaneo, un riferimento (per quanto non scevro di
parzialità polemica) importante è costituito dal lavoro saggistico di Pierre Boulez; in particolare cfr. il
capitolo “Considerazioni generali” in Penser la musique aujourd’hui, Mainz, Schott’s Söhne, 1963; trad. it.
Pensare la musica oggi, Torino, Einaudi, 1979.
4
5
In F. Donatoni, Stradivarius, STR 33541; G. P. Minardi riporta le parole di Donatoni, nel booklet allegato
al cd, che rivelano l’intenzione sottesa alla scrittura rispetto alla parte del solista (qui: la dedicataria, la
clavicembalista Elizabeth Chojnacka): “Tutte le volte che ho scritto qualcosa per un solista ho sempre voluto
conoscerlo di persona, vedere il suo modo di suonare e di muoversi. Non mi sembra affatto strano: in fondo è
quello che facevano i compositori di opere con i cantanti. Non scrivevano astrattamente per una voce di
soprano ma per questo o quel soprano e per me, trattandosi di strumentisti, anche il modo di muoversi riveste
una certa importanza”. Minardi, circa il risultato finale ottenuto da Donatoni nello scrivere la partitura
ubbidendo agli automatismi contenuti nel progetto, così commenta: “’Portrait’ è un vero e proprio
annullamento dell’intendimento mirato a rievocare un preciso personaggio […] ed altresì l’annichilimento
della scrittura nell’automatismo dalla quale, tuttavia, sembra tralucere un filo di speranza, quella insita
nell’atto stesso del comporre, inteso come ‘il luogo di un rito nel quale il sacrificio dell’artigiano redime
l’uomo’”.
3
dimensioni descritte (ricominciamento, lotta) sono presenti e allora come non sospettare
che,
in
questa
musica
apparentemente
così
ostica
al
gusto
dei
più,
così
fenomenologicamente incomprensibile ad esso, non siano poi purtroppo, non facciamo
ormai più di tanto caso durante l'ascolto di una Missa di Palestrina o di un concerto per
pianoforte di Mozart?
4. Spesso, chi scrive in sede critica, e soprattutto in sede d’informazione, della musica
d'oggi, dopo aver dato i termini del progetto e avere accennato per sommi capi alle
caratteristiche strutturali e linguistiche del brano, è costretto, se vuole fornire al lettoreascoltatore una qualche visibilità al brano, una qualche immagine dotata di senso, a ricorrere
a metafore o a descrizioni emotive che, nella loro eccessiva gratuità, finiscono per risultare
allarmanti. Intanto, bisogna pur dire che la descrizione di un'emozione sorta dall'ascolto
musicale è, o dovrebbe essere, una delle esperienze più solitarie, uniche, irripetibili e
inconfrontabili che sia dato fare; cosicché l'intervento ex cathedra dell’informatore ‘addetto
ai lavori’ equivarrebbe qui a uno scippo delle nostre capacità d’ascolto. Ma va poi ancora
detto che il campionario d'immagini e situazioni, spesso ridicolmente naturalistiche, cui
codesti scriventi, non essendo Proust, ricorrono, finisce per essere così riduttivo nei
confronti della ricchezza dell'esperibile emotivo ed immaginifico sotteso al brano che,
qualora si desse loro piena e incondizionata fiducia, verrebbe francamente meno gran parte
del desiderio di conoscenza che avevamo deciso d'investire nell'ascolto di quel brano stesso.
Questo non significa che non sia mai possibile descrivere naturalisticamente o
emotivamente la musica, bensì che – fatti salvi i casi previsti dalla progettualità descrittiva
eventualmente impostata dal compositore stesso – sarebbe bene lasciare all'ascoltatore la
piacevole responsabilità di colmare con la propria vita interiore, con la propria esperienza
vissuta, la superficie sonora: essa gli si offre come materiale organizzato suscettibile di una
colmatura di senso che lui, ascoltatore attento e desiderante, e soltanto lui, potrà effettuare.
Della musica si può allora dire: non ha senso, ma è disponibile a riceverne.
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5. La Serenata6(1954) di Bernstein sul Simposio platonico solleva un problema che vale
per un gran numero di opere analoghe di cosiddetta ‘musica assoluta’, non vocali, e
originate – secondo quanto afferma il compositore spesso fin dal loro stesso titolo – da
un'opera linguisticamente altra da quella musicale. Il problema consiste nelriconoscimento
di legittimità nel passare dal senso, per esempio, di un'opera filosofica come il Simposio
platonico a quello di un'opera musicale come questa in oggetto, omonima, di Bernstein;
traduzione? translinguismo? critica o commento dell'una verso l'altra? semplice
corrispondenza d'occasione? Tutte e quattro le cose, probabilmente, ma dal momento che
qui è implicato il senso di due testi linguisticamente diversi, la faccenda si complica. Il
senso, infatti, ha una manifestazione materiale dalla quale l'altra faccia del senso, quella
concettuale, oltre a non essere in arte quella determinante rispetto alla prima, è da essa
strettamente dipendente. La natura di questa dipendenza decide della quota di piacere
estetico di cui un testo è capace di farsi carico, dipendendo esso proprio dalla mobilitazione
materiale in cui si concreta il testo, a sua volta riportata alla natura linguistica del mezzo con
cui l'artista opera. E allora qual è il senso della Serenata di Bernstein rispetto al Simposio
platonico? Dobbiamo pensare, per salvaguardare la reciproca autonomia dei due testi, che
ambedue collaborino all'illustrazione di un medesimo quid, anche, ma non solo, concettuale,
supportando la loro comunicazione con delle materialità, quella impalpabile del concetto,
quella linguistica – qui sonora – percepibile dai sensi, che, per essere differenti, non si
negano, o si escludono, o si subordinano l'una l'altra, anzi affermano due volte il piacere,
ineffabile al fondo e unico vero compimento dell'operare artistico, di pensare il concetto
sotto le forme del sogno e della gioia.
6
In Sony Classical, SM3K 47 162, “Leonard Bernstein – A Portrait: Orchestral Works”; nelle note del
commentatore, David Patrick Stearns, si legge: “Bernstein trasse ispirazione dal ‘Symposium’ di Platone:
[…] Ognuno dei cinque movimenti rappresenta un carattere diverso, iniziando da Fedro e continuando con
Aristofane, Erissimaco, Agatone e Socrate. […] la conoscenza del libro che ha ispirato la musica non aiuta a
capire la Serenata. L’unico punto poco chiaro in questo allegro brano lirico, composto poco dopo il
matrimonio di Bernstein con Felicia Montealegre, è il movimento finale in cui Socrate è interrotto
dall’impetuoso Alcibiade, episodio che Bernstein musicò con grande esuberanza.”
5
6. Anche Bernstein, come tutti i compositori d'oggi, correda la propria partitura con delle
annotazioni esplicative che intendono illustrare il suo progetto. Rispetto al problema della
corrispondenza tra la sua Serenata e il Simposio platonico può essere sufficiente constatare
che Bernstein, un po' ingenuamente, ritiene di dover tradurre la forma in cui si presentano i
movimenti e le relazioni (tema-variazioni) che risultano dall'organizzazione del materiale
linguistico sonoro, attribuendoli alle sequenze linguistico-verbali principali che scandiscono
il dialogo platonico. Più in generale, però, è degno di riflessione il fatto che oggi pressoché
ogni compositore senta il bisogno di spiegarsi. E' un po' come se la musica non parlasse più
da sé, come se, nei fatti, essa non fosse più un'arte autonoma, e non debba più rendere conto
soltanto alla sua storia del suo divenire contemporaneo. Al contrario, spesso nelle note
introduttive ad una partitura si trova di tutto, proveniente da tutti i saperi, anche i più
formalizzati, come la matematica. E non è un'osservazione granché consolante constatare,
come si fa sempre, che la musica è anche matematica, perché la matematica mobilitata dalla
musica, dal punto di vista strettamente materiale, è davvero poca cosa rispetto all'immensa
complessità di questa disciplina. Il motivo per cui lo “spiegarsi” da parte del compositore
risulti necessario potrebbe ridursi a questo: la rottura novecentesca con la presunta
"naturalità" (quasi sempre da tradursi in termini di sistema di funzioni tonali tipiche della
pratica musicale europea) del linguaggio musicale classico in realtà è stata vissuta da tutti,
compositori e ascoltatori, come un trauma, di più, una rottura epistemologica. La
conseguenza di questa frattura è l'instaurarsi nell'opinione comune di un sospetto: che a tale
frattura faccia seguito il non-senso, cosicché si renderebbe necessario, presso i compositori
più sensibili all'esigenza di una comunicazione che si voglia mantenere più allargata
possibile, il fatto di razionalizzare a scopo divulgativo il senso sotteso a questi progetti
musicali che, il più delle volte, come peraltro è giusto, mal sopportano queste
razionalizzazioni forzate, dal momento che anch'essi, proprio come nella storia della musica
sempre è successo, intendono rivolgersi prima di tutto alle facoltà emotive, magari rese più
complesse da un contributo globalmente riflessivo dell'ascoltatore, più che a quelle
strettamente razionali. E comunque, una riflessione sul senso della musica, spostato come
essa è oggi sul versante del significato, e del significato razionale, non consente certo ad una
filosofia della musica di porsi in relazione sana con l'oggetto della propria attenzione. Viene
quasi da rimpiangere la vecchia musica a programma...
6
Dell’ascoltare (non solo musicale)
7. La ricettività alla musica, in certi giorni, è molto più alta che in altri. E’ probabile che
questo sia un fenomeno superficiale riguardante per lo più i cosiddetti amatori, o audiofili, o
semplicemente appassionati, che dedicano una parte del loro tempo libero alla fruizione di
questo linguaggio, che amano, o di cui sono appassionati senza sapere bene che cosa
capiscano ascoltando, e senza sapere bene se stanno capendo correttamente. Quasi sempre
l’audiofilo è un lontano erede del primitivo raccoglitore, che andava per boschi e
raccoglieva frutti e uccideva animali; l’unica differenza qui è che i frutti e gli animali non
vengono mangiati dal cacciatore per la semplice sopravvivenza ma vengono collezionati,
riuniti a comporre serie complete (questo è lo scopo di un tal raccoglitore) per fare bella
mostra di sé (cd, dischi) su scaffali, dentro armadi, scatole, comodini. Certo, l’audiofilo
ascolta, ma poiché la sua prima preoccupazione è possedere la serie completa delle cose che
ascolta, e la seconda è ascoltarle col migliore degli impianti possibile (alle sue tasche), il suo
ascolto troppo sovente finisce per essere compiacimento di una completezza posseduta e
godimento del suono dell’impianto. Dov’è la musica? Ma ci sono giorni in cui, anche
l’audiofilo, questo inconsapevole benefattore del mercato, è più recettivo alla musica, e alla
domanda “Dov’è la musica?” saprebbe rispondere senza indicare per forza gli scaffali e
senza puntare ipnoticamente lo sguardo sull’impianto. Ha una tal capacità di penetrazione
presso chiunque l’autentica bellezza sonora, indipendentemente dal supporto che ce la
veicola, che persino una sensibilità così refrattaria (e così ignorante: per lo più costui non sa
leggere la musica, e legge malvolentieri libri sulla musica, essendo un fautore dell’ascolto
“naturale”, o “selvaggio”, o simili), come quella di certi audiofili, all’esperienza musicale
genuina non può che commuoversi ascoltando, quasi “fuori” dall’impianto di riproduzione,
il dipanarsi del discorso musicale. E in questa semplice, spontanea commozione sta forse
tutto il segreto del significato della musica, a patto naturalmente di articolare questa
suscettibilità a commuoversi con tutta la complessità funzionale di cui si carica: non esiste,
infatti, alcuna funzione umana (intelletto, ragione, sensi, immaginazione, fantasia,
sentimento…ognuno scelga i nomi che vuole, sono tutti mobilitati in questa esperienza) così
completa come quella che mette capo all’esperienza dell’ascolto musicale profondo.
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8. In fin dei conti, l’ascolto musicale (non solo esso, anche le fruizioni di altre arti, se
pure con minore rilevanza) è senza parole. L’ascolto può essere denso di risonanze,
d’affetti, fitto di quelle impressioni ‘non-so-che’ che nessuna verbalizzazione sarà mai in
grado di restituire, o se cercherà di farlo, lo potrà soltanto mediante approssimazioni che, sul
piano letterario questa volta, potrebbero finire per assumere uno statuto d’autonomia
estetica o filosofica, e per non riguardare ormai più di tanto il fatto musicale. Non è
nemmeno certo che all’ascolto musicale necessiti per forza la consapevolezza ‘tecnica’ di
ciò che sta accadendo sul piano delle forme che si stanno svolgendo per le nostre orecchie,
sicuramente non più di tanto per il cosiddetto godimento estetico, che è a sua volta una sorta
di ‘indicibile’, a mezzo tra elogio dei sensi e trionfo della consapevolezza razionale, il tutto
filtrato da un’emotività disponibile a mettersi in gioco malgrado il mondo, malgrado
l’imponenza dei rumori del mondo, della sordità assordante del suono del mondo,
indifferente a qualsiasi ritaglio e selezione dei suoni a fini di elaborazione musicale. Ma
Cage ammonisce a non crederci troppo, a questa selezione intenzionata a marcare il suono
musicale da quello non musicale: il mondo suona, tutti i suoni del mondo possono essere
musica e forse lo sono, almeno per Cage, fin da subito. Lo decidi dunque tu ascoltatore che
cosa sia o non sia musica? Tra relativismo sonoro e soggettivismo fruitivo si muove però
l’intero della gamma dei suoni possibili, e anche per questo intero non ci sono parole: il
mondo è il mondo, il suono del mondo è tutto ciò che al mondo risuona per le nostre
orecchie, tutto ciò che le nostre orecchie sono in grado di cogliere è dunque suono: musica è
dunque l’intero del suono del mondo?
9. L’ascolto distratto della musica mentre ci si dedica ad altro, possibile con la musica
strumentale, meno possibile con quella vocale, ricalca due modi assai diffusi di stare col
nostro prossimo. Per lo più, nella vita quotidiana di relazione, si ascolta con l’orecchio
esteriore quello che ci viene detto, e con quello interiore continuiamo nel frattempo a
svolgere una sorta di monologo cominciato già prima, quand’eravamo soli, che interagisce
soltanto superficialmente con le parole di colui che ci ha incontrato, consentendoci così di
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fingere attenzione all’esterno senza perdere il filo del pensiero che per noi conta davvero,
quello interno. Finché la cosa funziona, la cosiddetta conversazione procede da parte nostra
per monosillabi (“Ah sì?”, “Ma davvero…” ecc.), ma giunge un momento in cui una
domanda postaci dal nostro sfortunato interlocutore esige una risposta un minimo articolata,
e allora la nostra abilità, se ce l’abbiamo in dotazione, deve farci uscire dalla doppia
attenzione e consegnarci interamente, per tutto il tempo che resta del dialogo, all’autenticità
di una parola ascoltata e detta in conseguenza. Diciamo che questa modalità dell’ascolto
assomiglia a quella dell’ascolto musicale strumentale. Per quanto riguarda, invece, l’altra
somiglianza, quella con l’ascolto musicale vocale, l’estrema difficoltà di continuare il nostro
monologo interiore, a fronte degli obblighi di un dialogo che si va facendo sempre più
impegnativo, finisce per smascherare la nostra falsa attenzione senza, d’altro canto, averci
fatto conseguire dei risultati rispetto al dialogo interiore, cosicché in questo caso l’astuzia,
per non farci rivelare quanto poco ci interessi quello che ci viene raccontato, o ricorre al
silenzio totale, la cui tenuta ha un effetto raro e limitato nel tempo, poiché la sua efficacia
cade alla prima domanda cui non possiamo più rispondere con monosillabi, o rinuncia una
buona volta ad una delle due attenzioni. La buona educazione ci costringe di solito a
rinunciare all’ascolto interiore, ma allora, nei confronti del malcapitato interlocutore,
restiamo maldisposti, innervositi, scocciati spesso visibilmente (fallendo l’astuzia nel
mimare la condiscendenza di un sorriso accomodante), e invece di por rimedio alla cattiva
conduzione di almeno una delle due attenzioni finiamo per fallire il bersaglio di ambedue,
dimentichiamo quello che stavamo pensando quando siamo stati interrotti dall’incontro
casuale e rischiamo di avere lasciato di noi, presso colui che ci ha incontrato e fermato per
strada, un’immagine tutto sommato non completamente vera, o non sempre vera, di un gran
maleducato, di un timido noioso, di un nevrotico da evitare, di un supponente che si dà un
sacco di arie, e simili. Anche questo è un piccolo contributo all’illustrazione della ‘normale’
giungla quotidiana.
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10. L'abitudine all'ascolto domestico della musica potrebbe impedire a lungo andare la
necessaria concentrazione al concerto7, proprio come l'invenzione della stampa ha coinciso
con la lenta, inarrestabile decadenza dell'attenzione all'espressione orale del concetto. I
vantaggi e gli svantaggi della riproduzione musicale domestica sembrano ripercorrere una
storia secolare, quella che ha portato oggi a formulare l'ipotesi relazionale di una sostanziale
incomunicazione tra gli uomini, la cui compartecipazione diretta sarebbe oggi ampiamente,
se non totalmente, sostituita dalla fruizione solitaria guidata dai massmedia audiovisuali.
Nessuno comprenderebbe più nessuno, secondo questa ipotesi, se non per via indiretta,
faccia a faccia le persone potrebbero soltanto confliggere, o tacere.
Musica e nichilismo
11. Esiste una musica nichilista? Fatto salvo che occorre definire prima che cosa
intendiamo con nichilismo, e naturalmente che cosa intendiamo con musica, resterebbe poi
da chiarire se una eventuale musica è nichilista in quanto partecipe di un movimento
comune che ascriviamo al nichilismo o se essa è, a suo modo, una protagonista del
movimento, la cui collaborazione alla definizione del nichilismo potrebbe essere importante
per il movimento stesso. Ma intanto varrebbe la pena di saggiare il terreno, domandandoci
Quello che qui viene proposto come un semplice sospetto, una componente più conservatrice della critica
musicale lo assume invece come una certezza inderogabile; ad es. Casini scrive: ”In realtà l’alta fedeltà
costituisce uno spaesamento, rispetto all’acustica naturale. Inoltre, quando si tratta di riproduzione sonora
senza immagini, viene tolto all’ascoltatore un elemento importante: la vista degli strumenti. La musica,
infatti, non si ascolta soltanto, la si ‘vede’ nell’atto in cui gli esecutori suonano i diversi strumenti, il direttore
sollecita e dirige i suoi professori, il cantante emette parole e suoni: vedere, in certi casi, aiuta a concentrarsi
nell’ascolto, a capire quali strumenti stanno suonando, quali parole vengono cantate, quale ritmo ha
esattamente preso il direttore d’orchestra, qual è la ‘cavata’ di un violinista, in che modo un pianista calibra il
‘tocco’ sulla tastiera.” Cfr. C. Casini, L’arte di ascoltare la musica, Milano, Rusconi, 1995, p. 13. In realtà,
molti degli elementi spettacolari sopra elencati, lo spettatore medio a concerto non li ‘vede’ affatto; li può
vedere, tutt’al più, fruendo di un dvd o di un cd-rom, insomma di uno spettacolo registrato, che però
ricadrebbe (a parte le scelte soggettive d’inquadratura e di montaggio da parte del regista) negli stessi limiti
acustici denunciati in apertura di citazione da Casini stesso.
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se nella musica una qualche manifestazione del nihil sia mai stata tematizzata; è un'astuzia
un po' sottocosto, un sotterfugio e, forse, una bassezza teoretica, questa: essa non implica,
infatti, nessuno sbilanciamento nei confronti del dibattito in corso sul concetto di nichilismo
e però ammette, surrettiziamente, l'esibizione di alcuni tratti che presumiamo facciano parte
della cosa. E' una scorrettezza che va stigmatizzata con severità? Senz'altro. Ebbene, io
(quell'Io che è sempre in discussione nel Diario, anche in quello di chi ascolta
quotidianamente musica), io, quella scorrettezza, la azzarderò. E affermo subito, senza tanti
preamboli, che il nihil musicale ha a che fare col silenzio. Già, ma che cos'è il silenzio? 8 E'
forse anch'esso (ma il silenzio musicale 9 non è poi che uno dei silenzi possibili) un approdo
tra i molti che l'immenso complesso dell'intelligenza occidentale più recente in generale ha
chiamato la “morte di Dio”? Quali sono i valori musicali profondi – aldilà di ciò che se ne
legge nelle storie della musica sotto l’aspetto tecnico sintattico-grammaticale – che hanno
perso il diritto all'assolutezza del Bene? E poi, allora: da dove, da chi far cominciare la
Tappa inevitabile per una riflessione sul ‘silenzio’ in musica è John Cage, Silenzio, Milano, Feltrinelli,
1971, che raccoglie in traduzione italiana Silence (1961) e A Year from Monday (1967); in uno dei testi qui
assemblati (‘Conferenza sul niente’) si legge quest’affermazione progettuale: “Quello che chiediamo è il
silenzio; ma quel che il silenzio richiede è che io seguiti a parlare” Cfr. J. C., op. cit., p. 71. L’apparente
contraddizione qui manifestata in realtà viene assunta come l’unica possibilità di rapportarsi pacificamente al
rumore del mondo: i suoni estratti, mediante l’alea, dal rumore del mondo va a configurare la provvisorietà
di un oggetto musicale che non ubbidisce ad altra regola che quella cui l’alea del compositore/esecutore si
sottopone (si legge in ‘Il futuro della musica: credo’: “Dovunque ci si trovi, quello che sentiamo è per la
maggior parte rumore. Quando lo vogliamo ignorare ci disturba; quando lo stiamo ad ascoltare, troviamo che
ci affascina. Il rombare di un camion a novanta all’ora. Scariche elettrostatiche alla radio. Pioggia. Ci viene
voglia di catturare e controllare questi suoni, di usarli non come effetti sonori ma come elementi musicali.”
Cfr. J. C., op. cit., p. 24. Nella ‘Conferenza sul niente’ la parola ‘niente’ non sembra consentire di rispondere
facilmente alla domanda sul nichilismo musicale; il testo si chiude nel modo seguente: “Tutto ciò che so sul
metodo è che quando non lavoro qualche volta penso di sapere qualche cosa; ma, quando lavoro, è
perfettamente chiaro che io so (il) Niente”. Cfr. J. C., op. cit., p. 83. L’elemento discriminante qui sembra
essere il lavoro (musicale), il comporre/eseguire vero e proprio, che permette alla conoscenza del
compositore/esecutore di fare il proprio ingresso in qualcosa come (il) Niente, dove le parentesi custodiscono
il Niente come un paradossale oggetto analogo a qualsiasi altro, suscettibile di conoscenza (musicale):
potrebbe rappresentare – ma è davvero soltanto un’ipotesi – una sorta di oltrepassamento del nichilismo:
nichilismo così come la tradizione terminologica di origine nietzscheana tramanda; un oltrepassamento
attraverso l’assunzione frontale del nichilismo stesso, e il suo rovesciamento di segno (e di senso).
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Il violoncellista Mario Brunello declina un’estetica del silenzio differente da quella cageana e sganciata,
d’altro canto, da qualsiasi problematica nichilista, anzi, testimonianza di tutt’altro: “Nella musica degli
uomini il silenzio è uno spazio in cui le idee e i sentimenti del compositore si incrociano con quelli
dell’ascoltatore. Un punto d’incontro, un unisono o una tregua, ma anche uno scontro o una dissonanza, un
battimento. […] In questo silenzio i sentimenti trovano lo spazio per la personale elaborazione del messaggio
musicale che porta ognuno a prendere la strada per la propria avventura nel mondo dei suoni.” Cfr. M.
Brunello, Silenzio, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 16-17.
9
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consapevolezza che anche nel linguaggio musicale “Dio è morto”? Non certamente
dall'Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, questo è certo…
12. Pare che Donatoni abbia ritenuto pericoloso per la musica il progetto estetico di Cage,
che nondimeno egli aveva in precedenza saputo apprezzare, e che lo abbia ritenuto tale a
causa del potenziale nichilismo in esso contenuto (M. Vignal, note contenute nel booklet del
cd Harmonic Records 8616). E' singolare questa accusa di nichilismo a Cage da parte di un
compositore che ha teorizzato nel 1975, in una fase precisa della sua vita, l'automatismo
compositivo corrispondente «a un processo controllabile ad ogni istante dall'interno,
secondo la mossa d'una volontà e di una coscienza che determinano ad ogni istante l'insieme
delle condizioni». E' vero che la poetica di Donatoni è molto ricca e articolata, e non può
essere ridotta all'adozione di quest’unico proposito compositivo, ma non si può nemmeno
far finta che esso non conti nell'economia complessiva del suo progetto musicale. Il fatto è
che l'adozione sistematica e radicale dell'alea cageana (nulla è mai preordinabile e quindi
progettualmente prevedibile prima dell’interpretazione da parte dell’esecutore) o
l'automatismo ben controllato (nulla è affidato al caso) riconducono la musica, comunque
sia, alla necessità di un gesto, casuale in Cage, razionalizzato in Donatoni, ovvero ad una
soggettività che, in ambedue le occorrenze, non si perde e non si abbandona mai nemmeno
un attimo, poiché nella prima riconduce il caso, che ha presieduto all'atto del comporre,
all'intervento dell'interprete e alla sua esigenza di un ordine esecutivo qualsiasi e, nella
seconda, riconduce l'automatizzazione della regola compositiva al compositore stesso che
ha posto la regola stessa: «[...] comporre significa per me inventare lo svolgimento
necessario alla trasformazione continua della materia». Perdersi per ritrovarsi: forse è
proprio in questo paradosso che sta nascosto l'eventuale riscatto dal nichilismo
soggettivistico implicito in ambedue i progetti.
13. In Puccini il kitch è necessario per la riuscita dell'opera. E non solo nella messa in
scena, che difficilmente potrà essere altro che kitch dovendoci rappresentare, attraverso i
costumi, per esempio nella Turandot, una Cina fuori dal tempo ma non dal desiderio di
12
rendercela credibile all’immaginario, ma anche nella musica stessa, giacché tradurre le
forme narrative astratte e stereotipe di una fiaba esotica in situazioni agite da caratteri dotati
di complesse psicologie individuali è un'operazione sufficientemente mostruosa per
mandare qualsiasi progetto musicale, allineato a una qualche forma di credibilità
“realistica”, in bancarotta. La musica di Puccini, per lo più, descrive questa bancarotta, ne è
la cifra neanche poi tanto segreta e, in fin dei conti, questa sorta di nobile, geniale fallimento
è anche il maggior contributo che lui ha saputo dare alla modernità, categoria che Puccini
senz'altro non amava, ma nei confronti della quale sentiva il bisogno di porsi in una qualche
relazione. L'apprezzamento di Schoenberg10 nei confronti di Puccini va forse letto in questa
chiave.
14. Elementi di una possibile relazione intercorrente tra musica cosiddetta contemporanea
e coscienza nichilistica: a) il progetto musicale e il suo rapporto con la (solo presunta?)
necessità di esser-merce (si veda: Adorno11, naturalmente, ma anche il Benjamin12
dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica; attenzione privilegiata alla
L’ambivalenza della relazione Puccini/Schoenberg è ben testimoniata da numerosi passi contenuti nella
grande raccolta di scritti schoenberghiani Stile e pensiero; nel 1930, ad esempio, Schoenberg (‘Il mio
pubblico’) scrive, a proposito della difficile accoglienza subita dal suo Pierrot lunaire in Italia: “Ebbi sì
l’onore che Puccini – non un competente, ma uno che sa – affrontò un viaggio di sei ore, pur essendo già
malato, per conoscere la mia composizione e mi disse in seguito cose molto amichevoli; è stato bello, anche
se la mia musica doveva essergli rimasta estranea.” Cfr. A. Schoenberg, Stile e pensiero. Scritti su musica e
società, Milano, Saggiatore, 2008, p. 457. Secondo una testimonianza di Guido Mariotti e Ferruccio Pagni,
Puccini così si sarebbe espresso sul Pierrot lunaire: “Per giungere a concepire un mondo musicale siffatto,
bisogna aver superato ogni senso armonistico comune, avere cioè una natura totalmente diversa da quella
attuale. Chi ci dice che Schoenberg non sia un punto di partenza per una lontana meta futura? Oggi, o io non
capisco nulla, o siamo lontani, come Marte dalla Terra, da una concreta realizzazione artistica.” Cfr. A. S.,
op. cit, p. 585. A Puccini Schoenberg (in ‘Opinione o cognizione?’, 1926) riconosceva, accomunandolo in
questo ad altri grandi compositori vissuti tra ‘800 e ‘900, uno sguardo nuovo sul futuro dell’arte dei suoni:
“[…] dall’opera di Wagner, Strauss, Mahler, Reger, Debussy, Puccini ecc. la maggior parte dei compositori
viventi ha tratto determinate conseguenze da un punto di vista armonico, il cui risultato va indicato
nell’emancipazione della dissonanza.” Cfr. A. S., op. cit., p. 111.
10
Cfr. T. W. Adorno, Einleitung in die Musiksoziologie. Zwölf theoretische Vorlesungen, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt am Main, 1962; trad. it. T. W. A., Introduzione alla sociologia della musica, Torino, Einaudi,
1971; Id., [a cura di V. Cuomo] La musica, i media e la critica, Napoli, Tempo Lungo Edizioni/Cuzzolin
Editore, 2002.
11
W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp Verlag,
Frankfurt am Main, 1955; trad. it. W. B., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino,
Einaudi, 1966.
12
13
musica di consumo massificato sul piano progettuale, la musica leggera in primis); b) la
mutata relazione tra suono musicale e rumore13: da mutazione quantitativa/sintatticogrammaticale (il rumore come semplice dissonanza all’interno di una gamma sonoromusicale riconosciuta come legittimamente consonante, e per tutti i restanti parametri
altrettanto del tutto conformista) a mutazione qualitativa (fonte sonora non riconducibile al
quadro strumentario tramandato; adozione dell’intera gamma timbrica strumentale fino
all’indistinzione, rispetto ad una qualsivoglia differenza tra suono e rumore; adozione di una
fonte sonora artificiale: electronics, computer…); c) l’indebolimento delle distinzioni
tradizionali:
compositore/esecutore
(parametro
testuale
strutturale
privilegiato:
l’identificazione della doppia operatività ‘creativa’ sul fatto musicale), esecutore/pubblico
(parametro sociologico testuale privilegiato: la partecipazione della ricezione alla
composizione
del
testo),
composizione/esecuzione
(parametro
testuale
temporale
privilegiato: il presente – sottoposto all’alea – esecutivo/compositivo del farsi dell’evento
musicale). Resta il problema di dare una definizione di nichilismo in grado di spiegare
l’eventuale pertinenza per essa di questi elementi.
15. Se s’intende collegare musica e nichilismo, prima ancora di sapere che cos’è
“nichilismo”, è certo che dobbiamo frequentare i testi musicali estremi, i non-testi, le
famigerate avanguardie che, più oggi che ieri, nascondono un nucleo nullificante, destruente
o decostruttivo rispetto a ciò che “normalmente” s’intende per musica. Infatti, in questi testi,
la musica viene spesso assorbita dal gesto con cui si fa musica, dalla performance, e spesso
nel gesto che l’attualizza essa ad esso si riduce, in esso la musica finisce per essere tutto
quello che è, che dev’essere, che può essere, senza resti: progetti cosiddetti aperti, a struttura
tendenzialmente debole, a maglie larghe, donde si fugge all’inseguimento di una
J. J. Nattiez riconduce la posizione del problema ad un ambito semiologico/antropologico, e si pone – al
fine di chiarire tale posizione – due ulteriori domande fondamentali: “Disponiamo di una definizione stabile
della musica e del musicale? È legittimo parlare di ‘musica’ a proposito di culture che non possiedono tale
nozione, che non distinguono tra musica e non-musica? In questo caso, abbiamo il diritto di proiettare le
nostre categorie occidentali di pensiero e d’analisi su ciò che noi consideriamo musicale?”. Cfr. J.-J. Nattiez,
Musicologia générale et sémiologie, Christian Bourgois Editeur, Paris, 1987; trad. it. J.-J. N., Musicologia
generale e semiologia, Torino, EDT, 1989, p. 33.
13
14
soggettività qualsiasi, decentrata se non proprio dislocata, musica centrifuga che si rarefà in
trama labile, che si scompagina, che nasce nell’istante in cui viene eseguita e subito dopo
muore, cenno alla precarietà essenziale del fare musica, a sua volta segno di una precarietà
più generale, ontologica ed esistenziale, traccia sonora che denuncia l’impossibile sua
adibizione per qualsivoglia utilizzo che non sia l’espressione immediata di quella
soggettività in fuga da se stessa nel testo e insieme al testo. Fino al punto, forse, di cogliere,
attraverso ciò che oggi chiamiamo “musica” l’essenza di un nichilismo al lavoro; fino al
punto di tentarne una definizione che sappia render conto non solo di certo modo di fare
musica, ma del fare in generale.
16. Poniamo provvisoriamente una distinzione: un conto è Musica e Nichilismo, e un
conto è Musica nel tempo del Nichilismo. Nel primo caso la riflessione sulla musica è
chiamata a collaborare ad una definizione aggiornata del Nichilismo e, attraverso tale
aggiornamento, a ristrutturare anche la propria definizione; nel secondo caso sembra che si
parta da due definizioni già date, e quindi in sé indiscutibili, l’una rispetto alla domanda: che
cos’è Musica?, l’altra rispetto alla domanda: che cos’è Nichilismo?, e che si rifletta dunque
all’interno di una coppia di concetti certi, la cui interazione aumenterebbe la quota di
informazioni relative soprattutto alla Musica, dal momento che essa compare come prima
parola in ambedue le domande, e perciò proprio essa risulterebbe suscettibile di prioritario
approfondimento. Per scrivere questo secondo lavoro (“Musica nel tempo del Nichilismo”),
occorre forse essere prima di tutto musicologi, ed avere in simpatia e in amicizia qualche
esperto storico della filosofia, mentre per scrivere il primo lavoro (“Musica e Nichilismo”)
occorre forse essere prima di tutto filosofi, filosofi che abbiano in simpatia e in amicizia la
musica: infatti, qui occorre pensare ed ascoltare, e ascoltare pensando, e pensare ascoltando.
Verrebbe voglia di istituire un conflitto tra i progetti di questi due lavori, al punto da
considerare impossibile per ambedue gli scriventi la stesura di uno dei due saggi, giacché di
solito (non sempre!, si pensi ad Adorno, o a Jankélevitch sul piano del pensiero, o a
Schoenberg, o oggi a Boulez sul piano del comporre) colui che ascolta ‘professionalmente’
e colui che pensa ‘professionalmente’ assorbono tutto il loro tempo in queste attività, non
escludenti de jure ma esclusive de facto, e scrivono eventualmente qualcosa, circa l’altro
15
sapere in gioco nel progetto (in un caso la storia del pensiero, nell’altro la storia della
musica), soltanto a coronamento del sapere di loro prima competenza, prescindendo magari
dalla dovuta precisione di dati storici o da storicizzazioni aggiornate. Inoltre, capita che chi
interpreta, cataloga e storicizza come si conviene non abbia però anche l’abitudine faticosa,
e sempre problematizzante quando è consuetudine genuina, di una propria, originale
elaborazione concettuale, ma cerchi in fretta dati già ‘pensati’ da altri, ordinandoli in una
loro sensata, ma obsoleta sintassi storica, capace di istituire subito tra essi relazioni di causa
e di effetto un po’ troppo affrettate, magari con l’aggiunta di valutazioni in merito
all’eventuale raggiungimento di un’eccellenza qualitativa (il cosiddetto capolavoro, a fronte
di una quieta opera di presunta routine).
Chissà se tutto questo è vero. È bene dubitarne, è bene soprattutto dubitare dell’eccessivo
schematismo di queste osservazioni. Infatti, questo conflitto tra scriventi di diverse
discipline potrebbe apparire più che altro un falso problema, che rischia d’impedire sia ai
primi che ai secondi di modificare, attraverso la riflessione su ciò di cui si occupano in
seconda battuta (la musica per l’uno, la filosofia per l’altro), le definizioni ‘istituzionali’ di
ciò che studiano in prima battuta (la filosofia per l’uno, la musica per l’altro), condannando
ambedue le tipologie di studiosi, a questo punto, come vorrebbe il senso comune, alla
dannazione specialistica circa le semplici varianti di ciò che, nelle rispettive discipline,
dovrebbe apparire conformisticamente indiscutibile; laddove, appunto, Musica e Nichilismo
sarebbero, nella loro rispettiva risposta ‘istituzionale’ al che cos’è?, le due mitologiche
invarianti, già da sempre, si presume, conosciute nella loro essenza.
Tutto questo, infine, per impedire ad ambedue le tipologie di studiosi di turbare, coi loro
prodotti eventualmente trasgressivi rispetto a quelle definizioni codificate, la pacifica e
mortifera aria fritta che si respira spesso presso il pensiero, sia filosofico che musicologico,
ubbidiente alle aspettative consolidate, e riconosciuto da esse come l’unico pensiero che sia
lecito “pensare”, ovvero riconoscere come “pensiero” capace di conoscere la cosa. Tutto ciò
che non vi si adeguerebbe sarebbe, allora, fantasia di superficie, gioco di dilettanti,
16
trasgressioni della domenica pomeriggio, chiacchiera priva di fondamento, priva di
“scientificità”. Dov’è, allora, il nichilismo? In quale dei due (il Professionista, il Dilettante)
atteggiamenti?
17. È lecito a questo punto esprimere un dubbio, e un desiderio: La musica nell’età del
massimo dispiegamento del nichilismo non è necessariamente nichilistica nella sua essenza,
anzi, in essa riposa lo sguardo lucido e disincantato di un’intenzione altra dal nichilismo,
un’intenzione d’oltrepassamento. L’oltrepassamento: ecco il limite. Il limite? il limite di che
cosa? del nichilismo? come se in esso, il nichilismo compiuto, giacesse un limite, come se
esso fosse quel limite che chiama il pensiero pensante all’oltrepassamento della condizione
in cui sta l’età del massimo dispiegamento nichilistico. Oppure il limite di un pensiero che,
di fronte al nichilismo, non sa pensare che in termini di suo oltrepassamento, come se il
nichilismo rappresentasse (e funzionasse in tal modo) il limite necessario allo sguardo di un
tale pensiero per poter continuare a pensare ma, in sé, nichilistico non fosse affatto. Ma si
potrebbe anche riflettere in quest’altro modo: domandandoci (come Nietzsche, come
Severino) se esiste soltanto oggi qualcosa come il nichilismo, e se ciò che chiamiamo con
questa parola altro non sia che lo sviluppo logicamente determinato (e anche: storicamente
determinato?) del pensare stesso tout court, del pensare in sé e per sé.
18. E dunque: che ne è della musica nell’età del massimo dispiegamento del nichilismo?
Ne è quello che ne deve essere, date le condizioni e il contesto in cui essa viene o non viene
riconosciuta come musica. Ecco un elemento da tener sempre presente: che cosa viene
riconosciuto come musica oggi? Che cosa, invece, non viene riconosciuto come musica? Il
problema del riconoscimento di qualcosa per ciò che è o pretende di essere è centrale per
comprendere, almeno con un primo sguardo, l’oggetto che intendiamo conoscere; il
riconoscimento, o il mancato riconoscimento, la dice lunga poi sull’attribuzione di
nichilismo all’epoca in cui quell’oggetto offre il suo status quaestionis. La relazione tra ciò
che si riconosce, e ciò che non si riconosce come appartenente all’oggetto di cui intendiamo
comprendere la fenomenologia attuale, descrive la quota di nichilismo con cui l’oggetto
17
costituisce esperienza vissuta in quell’epoca; riconoscere e non riconoscere, assai prima che
valutare esteticamente, significa dire di sì e dire di no a qualcosa per come si presenta, ed il
modo di presentarsi di quel qualcosa costituisce l’esperienza vissuta di quel qualcosa,
ovvero: il suo modo di essere, ovvero ancora: l’essere di qualcosa rispetto all’esperienza che
possiamo farne in quell’epoca. Quell’epoca è quell’esperienza, quell’esperienza è quella
cosa; ma la cosa, in sé, che cos’è? La musica in sé che cos’è? Noi possiamo soltanto dire
che cosa è per noi oggi, e che cosa non è per noi oggi; in questo per noi risiede il limite,
risiede il nichilismo dell’epoca, di un’epoca che riconosce qualcosa o non lo riconosce, e
riduce il conoscere a questa doppia operazione del dire di sì e del dire di no. Il
prospettivismo valoriale asciuga la cosa, la inaridisce, l’appiattisce, la funzionalizza, la
subordina ad altro, le toglie spessore e noumenicità, la lascia essere e non essere a seconda
dell’utilità o dell’utile inutilità cui è in grado di assoggettarla. E’ dentro questo
prospettivismo del dire di sì e del dire di no che noi possiamo inizialmente comprendere la
relazione odierna tra musica e nichilismo.
Intermezzo sul silenzio (musicale e non)
a. Il silenzio? Il silenzio è una questione tutta umana: coincide col fatto che la
componente umana del mondo taccia, e con lui si tacciano tutti i suoi marchingegni.
Possibile o impossibile che sia, talvolta, nel cuore profondo di notti invernali coperte di
neve, la cosa si realizza ed è una vera meraviglia, come se l’udito udisse per la prima volta,
udisse per la prima volta finalmente quel quasi niente che basta al mondo perché sia quel
paradiso che può essere. Il silenzio è un quasi niente, poiché di per sé alberi e animali di
rumori ne emettono ben pochi se sono liberi di crescere, muoversi e morire senza intervento
umano; e poi il rumore che essi emettono non è per nulla fastidioso, mentre quello emesso
dagli esseri umani lo è sempre, a meno che non facciano musica, che il rumore più vicino a
quello naturale che l’uomo sia in grado di produrre. Ma a parte queste considerazioni del
18
tutto superficiali, la questione del silenzio si presenta come l’atto deliberato di una volontà
stanca e disperata, stanca soprattutto, stanca della mancanza di motivi per cui qualcuno
debba prendere incessantemente la parola, qualcuno sempre, qualcuno dovunque, dovunque
senza scampo, poiché questi ‘infiniti qualcuno’ pensano che ci sia sempre qualcosa da dire,
e se non ci fosse niente da dire (ma è raro che lo pensino) risulta a costoro comunque
necessario testimoniare con una parola o un rumore qualsiasi la loro presenza, quasi essa
fosse il pregio di una rarità possibile soltanto nell’emissione di suoni, il dono prezioso che
non si può lasciar correre nel silenzio come se niente fosse. Così, il silenzio per costoro è il
male, il negativo della parola detta a ogni costo, è ciò che va evitato perché – così si dice –
la buona educazione risiede nel rivolgere la parola e non nel rivolgere semplicemente (e
direttamente, e soltanto, o prima di tutto) il volto; il volto, infatti, emerge nella sua umanità
misteriosa assai meglio nel silenzio perfetto di chi sceglie di tacere, e sceglie questo perché
tutto quello che c’è da dire è già detto dai tratti dei volti che s’incontrano, e si guardano, e si
vedono, e sono e stanno nel silenzio dell’enigma d’esserci uguali e diversi,
incommensurabilmente uguali nell’incommensurabile diversità. E dunque, tutto questo, quioggi non è possibile, poiché il silenzio presuppone un accordo tra uomini che è di là da
venire, un accordo di fondo, silenzioso e condiviso, come forse talvolta accade soltanto tra
amanti alle prime mosse della relazione d’amore, quando gli occhi si bevono e le bocche si
mangiano reciprocamente negli ultimi residui di gioia che la cosiddetta civiltà concede fuori
dall’utile, dall’economico, dal potere e dalla gloria.
b. E’ particolarmente impressionante il silenzio che si viene a formare attorno ad
un’opera d’arte, quando riusciamo ad entrare in sintonia con la sua essenza visiva o auditiva
più riposta. La sospensione del mondo attorno è una sorta di effetto che, insieme e grazie al
godimento dell’opera che abbiamo di fronte, ci consente di riflettere sullo statuto
volontaristico dell’attenzione. In fin dei conti, il fare attenzione a qualcosa è sempre una
forma di silenzio ottenuta con la volontà di focalizzarsi su quel qualcosa, escludendo di
necessità tutto quanto resta ai margini o fuori da quel fuoco. Così, è possibile dedurne che i
disturbi dell’attenzione hanno a che fare con l’incapacità di ottenere silenzio attorno, di
ottenere silenzio nella propria vita, laddove poi il silenzio non è la cessazione tout court di
19
ogni forma di rumore, ma semplicemente la distribuzione su piani diversi delle fonti dei
rumori, secondo una gerarchia che fissa la massima intensità sul fuoco che ci riguarda e il
minimo, fino allo spegnimento sonoro, per ciò che ne resta escluso, con gradazioni mediane
che, vieppiù che si procede nella scala, allontanano dalla coscienza la presenza di quelle
fonti, fino ad annullarne lo statuto d’essere, come se ad un certo punto non ci fossero, e in
realtà non ci sono, ma non ci sono perché noi le abbiamo relegate fuori dal fuoco della
nostra attenzione, in ciò che appunto chiamiamo silenzio. Tutto questo nella fruizione
autentica di un’opera d’arte si realizza con relativa facilità, e laddove è più facile la
realizzazione, proprio là siamo di fronte a qualcosa che ci riguarda assai intimamente: tra
l’opera, ciò che rappresenta, soprattutto come lo rappresenta (secondo il noto principio
formalista che la forma è il contenuto), e la nostra vita vissuta corre improvvisamente un
brivido comunicativo, non dicibile più di tanto a causa della sua immediatezza. Quell’opera
potrebbe equivalere, nella realtà bidimensionale prodotta dall’arte, alla multidimensionalità
onirica di un incubo o di un sogno di desiderio, e tanto più la riconoscibilità delle forme è
bassa tanto più dentro di noi si muove qualcosa d’impensato; il ritorno del represso verrebbe voglia di dire – fa il silenzio tutt’attorno e fa il suo ingresso per quegli attimi di
godimento estetico che sono anche attimi di rivelazione ontologica, di responsabilità etica
verso se stessi, di gestione imbarazzante del sacro che fin da bambini abbiamo imparato ad
accettare e che oggi lasciamo convivere con sufficienza accanto ai prodotti contingenti e
delusivi della nostra ragione calcolante.
c. C’è un tipo di silenzio drammatico, inquietante, addirittura tragico se, nell’analizzarlo,
si seguono corrette vie teoretiche. E’ il silenzio di chi sceglie di non parlare più, e sceglie
questo dopo aver parlato tanto, dopo essersi accorto, ad un certo punto, che il fatto di parlare
non era per nulla un fatto innocente, che i suoi automatismi (nel domandare, nel rispondere)
erano responsabili dei mali che, a causa di quelle parole, inspiegabilmente accadevano
(meglio: apparentemente, in modo inspiegabile). A quel punto, allora, chi tanto ha parlato
ha cominciato a tacere, o semplicemente a parlare meno, all’inizio, a parlare solo quando lo
riteneva necessario, prima di tacere del tutto. Infatti, fino lì non aveva mai pensato che il
fatto di parlare fosse legato a qualche necessità, altrimenti gli sarebbe apparso altrettanto
20
necessario tacere: le due necessità vanno di conserva, cosicché data la coscienza dell’una
data anche quella dell’altra. Ma date ambedue queste consapevolezze, la via che porta al
silenzio totale è tutta in discesa, soprattutto se in precedenza si è parlato tanto, e
naturalmente si pensa che questo ‘tanto’ sia stato un troppo, un insopportabile troppo. Si
reagisce al tanto e al troppo con misura uguale e contraria: il poco e il nulla. Al nulla di
parola non ci si abitua facilmente, anche se se ne sente il bisogno; le persone che erano
abituate ai nostri sproloqui (tali ci appaiono oggi le nostre conversazioni, o meglio, il
contributo che ad esse davamo noi, noi che oggi scegliamo di tacere) non possono
comprendere un tale cambiamento, tanto più che esse non avvertono affatto questo bisogno.
Noi che abbiamo scelto ad un certo punto di non parlare più, siamo pronti alle conseguenze?
Siamo pronti al radicale mutamento di considerazione e di giudizio nei nostri confronti?
Siamo preparati ad essere disprezzati, odiati, lasciati soli, messi da parte, indicati a dito
come pazzi e quindi dimenticati, come si dimentica sempre tutto ciò che ci turba perché ci
manifesta una qualche verità che non vogliamo conoscere? Siamo pronti a tutto questo, ad
essere socialmente e moralmente incarcerati, mandati al confino, torturati dalla logorrea di
scherno altrui, uccisi nella nostra umanità di uomini che tacciono, che hanno scelto di
tacere, o di parlare così poco che quel poco è in grado di far emergere la vera, rara,
incontrovertibile necessità del parlare quando si deve, quando non se ne può fare a meno,
quando ne va della moralità di un comportamento, del senso di una vita? Siamo pronti?
Sono pronti a tutto questo coloro che svolgono per tutta la vita un’attività di relazione, in cui
il fatto di parlare è il fuoco dell’attenzione di chi entra in quella relazione, e il portatore di
senso dell’agire e del subire? Domandiamocelo, prima di tacere, e prepariamoci a
comunicare col silenzio buono di chi impara finalmente a sorridere, o a dire semplicemente
grazie, invece di continuare a raccontare la bugia della comunicazione articolata in lunghi
ragionamenti il cui approdo è sempre quello: la malafede di chi si fa gli affari suoi a spese
degli altri, non vuole ammetterlo e cerca e trova infinite giustificazioni al proprio modo
colpevole di avere a che fare col mondo.
d. Abbiamo suggerito che, sul versante dell'oggetto, il nichilismo musicale si trova, forse,
ad aver a che fare con la forma musicale del silenzio, col modo in cui la musica dei nostri
21
tempi si relaziona ad esso e col senso che, grazie a questo modo, tanto il silenzio (non solo
musicale) quanto il far musica finiscono per assumere. Cosa pensare, ad esempio, di un
progetto musicale che intende approdare alla cancellazione progressiva di qualsivoglia
suono fino qui riconosciuto come tale, oppure di un altro che intende utilizzare il silenzio
per togliere la maschera al senso, presuntivamente metafisico, dei modi di far musica fino lì
sperimentati? Da Cage a Lachenmann: facendo però un doveroso passo indietro verso la
seconda scuola di Vienna per come è stata vissuta nella seconda metà del Novecento, per
esempio proprio dagli autori citati, ovvero come un ultimo tentativo di salvare un senso,
un'assolutezza di senso, una metafisica, probabilmente, del senso del fare musica. Sul
versante del soggetto, invece, il nichilismo musicale si trova ad aver a che fare col ruolo che
assume l'identità, sia esso sotto le specie del compositore o dell'interprete, nella
composizione dell’opera, cosicché la necessità di rispondere alla domanda: di chi è questa
musica? si trasforma nella domanda: che ne è dell'appartenenza identitaria nel fatto
musicale? e la questione del fare musica s'inserisce a pieno titolo nel più grande problema
della dislocazione della coscienza rispetto all'identità, storicamente consolidatasi attraverso
l'esperienza più generale dell’agire metafisico tout court.
Della consolazione: riscatto dal nichilismo?
19. La difficoltà circa lo scrivere sulla relazione tra musica e nichilismo sta nel fatto che
la musica sembra risolvere il problema che si apre col nichilismo, sembra costituire il
farmaco di questa malattia del pensiero. Ma la morte di Dio, che ci assicura iniziata l'era del
nichilismo compiuto, come può trovare nella musica il suo superamento? Infatti, non lo
trova. Si tratta, a dire il vero, di un effetto deformante, giacché la pienezza di cui va colma la
misura della musica è una pienezza del cuore, e la conoscenza che si apre con essa è una
simpatia, non un concetto, un'identificazione intenzionale, non una specularità oggettiva.
Chiunque, tra i molti nemici e spregiatori della musica avrebbe facile gioco a sorridere di un
22
tale approccio conoscitivo al mondo delle cose e dei fatti; la conoscenza – direbbe costui – è
un fatto dell'intelligenza che approda al concetto, non del cuore che approda all'emozione. E
avrebbe forse qualche ragione, ma l'avrebbe contro di lui, non a suo favore; infatti, il
nichilismo non è prima di tutto una questione riguardante il concetto? La svalorizzazione, la
deassolutizzazione, la caduta degli dei, la ‘morte di Dio’ non sono forse prodotti razionali
che si appoggiano al lavoro demistificatorio della ragione, tra le altre ‘ragioni’, scientifica?
Che ne è del nichilismo del cuore? delle emozioni? Che ne è della musica? Ecco, dunque, da
dove viene l'impressione che la musica riscatti il nichilismo anticipando il suo superamento,
ecco il motivo della difficoltà circa il fatto se si possa parlare, se davvero lo si possa, di
musica e nichilismo. A tal punto che il concetto di musica nichilistica o di nichilismo
musicale appare un controsenso; il concetto, forse, ma l'emozione musicale?
20. Tanto nel leggere quanto nell’ascoltare musica si tratta di arrivare a ciò che sta dietro
il primo piano della consumazione sintattica della frase, che brucia il suo senso di superficie
nella velocità con cui ci esibisce il suo ordine del discorso, lasciando sullo sfondo il
brulicante, apparentemente confuso e oscuro lavoro degli elementi che supportano
quell’emergenza di senso in primo piano. La difficoltà di raggiungere questo livello più
profondo della lettura e dell’ascolto non sta soltanto nella nostra capacità assoluta di
penetrazione, ma soprattutto nel tempo relativo che riteniamo di avere a disposizione per
scendere nell’abisso della frase, o nella cantina che nasconde il piano armonico e ritmico su
cui il solista si libra per sedurci con la sua melodia apparentemente libera. Apparentemente
libera: infatti, se si effettua questa discesa, si scopre subito la dipendenza di questa ‘libertà’
dal fondo su cui si eleva, come se fili invisibili provenienti da questo movimento confuso
tenessero e guidassero, addirittura, mantenendola a comando, l’autonomia di quel senso che
ci piace tanto, grazie alla forte valenza simbolica che esso possiede rispetto alla libertà, che
non sappiamo bene che cosa sia ma di cui manifestiamo così spesso l’esigenza, appunto,
leggendo ed ascoltando musica.
23
21. A volte chi ascolta Bach, ad esempio – come me ora – i suoi concerti trascritti per
tastiera, potrebbe avere l’impressione che la musica, perlomeno quella grande, arrivi dove
mai nessuna filosofia potrà arrivare: a consolare14 del nudo fatto di esserci, e soprattutto di
esserci nel modo di non doverci essere più dopo un punto x della linea del tempo di cui
l’esserci stesso, con la sua cura, è peraltro responsabile. E’ incredibile come la musica, e
soprattutto Bach per me ora, nella misura in cui la musica è arte nel tempo e del tempo,
proprio per questo ne sospenda il normale fluire interiore e ci consegni ad un’esperienza
d’intemporalità. Cosicché si dovrebbe dire: per intemporalità intendiamo la sospensione
dell’esperienza consueta del tempo; ma così dicendo, rischiamo di fare dell’intemporalità
una semplice negazione del tempo, una sorta di non-tempo in attesa che esso riprenda il suo
corso normale, un tempo che dà momentaneamente le dimissioni dalle sue funzioni e ci
lascia vagare in una terra di nessuno dell’esperienza. Ma non è così; soprattutto perché non
si può sospendere né il tempo né l’esperienza del tempo, o meglio: poiché il tempo coincide
con l’esperienza del tempo, e poiché l’esperienza del tempo coincide a sua volta col tempo
dell’esperienza tout court, bisognerebbe allora sostenere che con l’esperienza della
sospensione del tempo noi facciamo esperienza della sospensione dell’esperienza, ovvero:
che facciamo un’esperienza di una non-esperienza, il che, se nella sua paradossalità non è
impossibile, però forse non è augurabile. Eppure l’esperienza di una sospensione del tempo
attraverso l’ascolto profondo della musica è un’esperienza vera, non un’illusione, e
quand’anche lo fosse sarebbe pur sempre anch’essa un’esperienza, ovvero: l’esperienza di
un’illusione. Ma non si tratta nemmeno di questo: la sospensione del tempo attraverso la
musica non è un’illusione, tutt’al più – e qui mi pare che stia il suo lato davvero
Nessuno come il filosofo Jankélévitch, che ha scritto molto sui compositori francesi della seconda metà
dell’Ottocento, ha saputo così bene, dopo Schopenhauer, identificare l’esperienza musicale con la più grande
delle consolazioni possibili; il potere consolatorio della musica risiede proprio nella sua ineffabilità,
nell’impossibilità di tradurla in qualsivoglia altro linguaggio. Jankélévitch, comunque, ritiene lecito parlarne,
senza pretendere di raggiungere un qualche calco rispetto alla sua effettualità, e articolarne almeno una
qualche struttura esplicativa: “La musica è per me (sottolineo ‘per me’ e non obbligo nessuno a pensarla allo
stesso modo) la forma per eccellenza della modernità; e uno degli elementi di questa modernità è,
paradossalmente, la nostalgia. Prima del XIX secolo, la musica non si preoccupa affatto di ritrovare i paradisi
perduti, né di risvegliare l’infanzia perduta, o di rianimare il tempo trascorso, o di commuovere il cuore con
le delizie del Mai-più… Essa ignora la dolcezza straziante delle consolazioni; non è tormentata da rimpianti
né ossessionata dalle nostalgie che lacerano interiormente l’uomo moderno.” Cfr. V. Jankélévitch, Quelque
part dans l’inachevé, Paris, Gallimard, 1978; trad. it. Da qualche parte nell’incompiuto, Torino, Einaudi,
2012, p. 175.
14
24
consolatorio, impossibile da ottenere altrove, presso la riflessione filosofica per esempio – è
una sospensione, come si suggeriva all’inizio, della percezione ‘naturale’ del tempo,
cosicché al suo posto compare nell’esperire il fondamento di tale percezione,
l’intemporalità appunto, intesa non tanto e non solo nel senso di una sospensione
momentanea del tempo, ma nel senso di una provvisoria emersione in primo piano di ciò,
l’Intemporale, che sta, custodito e nascosto, eternamente sullo sfondo di ogni nostro
percepire. Ascoltando musica, il tempo rivela il proprio fondamento enigmatico, che nella
sua manifestazione quotidiana percepita ‘naturalmente’ si afferma per quel tanto che si nega
e si nega per quel tanto che si afferma. E la consolazione? L’esperienza dell’intemporale,
così intesa, è nientemeno che l’esperienza – questa sì illusoria, ahimé! – dell’immortalità.
22. Ha senso vietarsi di ascoltare Mahler?15 E’ tale la mobilitazione emotiva, che
l’ascolto della musica di Mahler è in grado di realizzare, che poi, nell’immediato almeno,
l’ascolto della musica di qualunque altro compositore, anche grandissimo, risulta
momentaneamente inibito in quanto, forse, necessitante in prima battuta più d’intelligenza
mediata che d’emozione immediata16. Qualcosa del genere accade a chi ascolta in gioventù
Quirino Principe, autore di una bella monografia su Mahler, pone un problema di sociologia della ricezione
musicale rispetto a questo compositore (ma identico problema porrebbe l’ascolto diffuso di molti altri autori
assai popolari, come Chopin, o Čaikovskij o il Beethoven sinfonico ecc.): “Ma possiamo parlare davvero di
ascolto? Se vogliamo prendere atto dei fenomeni, riconosciamo che il dato di fatto non è tanto l’atto di
ascoltare la musica di Mahler quanto l’abitudine di alludere ad essa come degna di ascolto. Quella musica,
dai più udita in realtà a frammenti e quasi per caso, povera di correlazioni e nel fragore delle sue parvenze
meno veritiere, è troppe volte un pretesto per un evasivo discorso su Mahler, mentre un intelligente ascolto
di Mahler dovrebbe essere un buon pretesto per un discorso sulla musica, sull’arte e su altro ancora […].”
Cfr. Q. Principe, Mahler, Milano, Rusconi, 1983, p. 13.
15
Nella modernità la polemica antiwagneriana, dopo il giovanile innamoramento per la sua musica, da parte
dell’ultimo Nietzsche potrebbe essere servita da modello per tutte le analoghe polemiche che sono seguite:
“L’adesione a Wagner costa cara. Osservo i giovani che sono stati lungamente esposti al suo contagio.
L’effetto più immediato e relativamente innocuo è il pervertimento del gusto. Wagner agisce come un uso
prolungato di alcol. Ottunde, ingorga di catarri lo stomaco. Effetto specifico: degenerazione del senso
ritmico. Il wagneriano finisce per chiamare ritmico quel che io, per parte mia, con un proverbio greco, dico
‘muovere il pantano’. Già molto più pericoloso è il pervertimento dei concetti. Il giovane diventa imbecille –
‘idealista’. […] Indubbiamente la cosa più sinistra resta lo sfacelo dei nervi. Si attraversi di notte una città
abbastanza grande: si sentiranno ovunque strumenti violentati con solenne furore – il tutto inframezzato da
selvaggi ululati. Che sta succedendo? – I giovani sono in adorazione di Wagner…”. Cfr. F. Nietzsche, Il
caso Wagner. Crepuscolo degli idoli. L’Anticristo, Milano, Mondadori [su licenza Adelphi 1970-71], 1981,
p. 33.
16
25
Chopin, e presso le persone musicalmente meno avvertite accade normalmente con certe
pagine molto conosciute di Čajkovskij. Il che però non significa affatto che la musica di
Mahler o di Chopin non sia intelligente, e il suo ascolto non la debba mobilitare, al contrario
– sul Čajkovskij più diffuso dipende –, ma si vuol dire che l’emotività, nell’ascolto delle
loro opere, prevale sempre, ad onta dell’enorme quantità d’intelligenza che è occorsa per
scriverle e che risulta, così parrebbe, esclusivamente al servizio della resa emotiva al punto
da sopraffare ogni altra eventuale dimensione dell’ascolto. Ma poi le cose sono sempre così
tanto più complesse: un ascolto emotivo puro, quando si ha a che fare con opere di
compositori così ricchi di mente, e non soltanto di cuore, non è mai possibile, così come è
pur vero che un ascolto esclusivamente teso a mobilitare l’intelligenza strutturale dell’opera
a sua volta non esiste, la musica essendo quel linguaggio che è in grado, lei solo, di
mobilitare al tempo stesso, e secondo i gradi di mescolanza più diversi e imprevedibili,
intelligenza e sentimento, al punto da configurare, come facoltà utile alla fruizione, una
sorta di emozione intelligente o di intelligenza emotiva e commossa, e questo ogni volta.
Così, vietarsi l’ascolto di Mahler non ha senso, ha senso, invece, esercitare l’ascolto a
scendere sempre più nell’intimo di un’opera che, in questa catabasi controllata, consente di
trovare dentro di sé il paradiso e l’inferno di cui noi tutti, grazie a quell’opera, scopriamo di
esser fatti.
23. La malinconia, ed una malinconia che dà il tono a tutto il resto attorno che
malinconico altrimenti non sarebbe, la si ritrova nei luoghi più impensati, o più semplici,
elementari. Powderfinger17, per esempio, una bella canzone elettrica di Neil Young, ad un
certo punto del racconto epico che ci trasmette innesta sul tessuto accordale maggiore un
paio di accordi in minore che modificano radicalmente tutto il senso del testo (sia musicale
che verbale) e fanno scattare un registro lirico-memoriale fino lì assolutamente imprevisto.
Ma bisogna aggiungere che questo disattendimento del tono generale con cui si presentano
e, fino ad un certo punto, si sviluppano molte canzoni di questo musicista è, appunto, un
tratto pertinente del suo stile compositivo, al punto che, anche senza saperlo prima, si è in
17
In Reprise Records W 5105, Neil Young & Crazy Horse, “Rust Never Sleeps” (1979).
26
grado di riconoscere una sua canzone, anche se cantata da altri (si pensi a questa stessa
cantata, ad esempio, dai Cowboy Junkies18), proprio per questa caratteristica, abbastanza
unica in quel mondo musicale piuttosto monocorde nel tono emotivo, che ogni canzone
mobilita, unica, perlomeno, a causa dell’intensità e della frequenza con cui si presenta nel
suo immenso e popolare canzoniere.
Una questione antica: musica e significato
24. La non semanticità della musica19 è cosa diversa dall’eventuale non semanticità di
altre arti. Alla musica sembra mancare ogni diretta descrittività, ogni diretta mimeticità,
ogni referenza ingenua all’utilizzo di un ‘senso’ esterno, nella misura in cui essa, anche
quando descrive, lo fa prioritariamente in termini di nudo decorso temporale, e quindi in
termini del tutto interiori, rivelando – rispetto alla coppia spazio/tempo – la natura
eminentemente temporale dello spazio vissuto. Nella musica – linguaggio privo di senso
diretto – tutto è temporalità, e gli spazi che in essa si disegnano acquistano senso
esclusivamente sulla linea del tempo, vissuto come durata intima, come emozione, come
sentimento, come sentimento del tempo. Cosicché la sua semanticità è sempre una
semanticità derivata, di riporto, secondaria, allusiva ed enigmatica, come se la musica
dicesse all’uomo che ascolta: “Ecco il mondo, esso non è mai ciò che appare, esso è ciò che
sta nel vissuto del tuo tempo intimo, ed il senso di tutto ciò sta chiuso nella parola rivelata e
non comunicata del tuo cuore, nel lavoro donazionistico della tua mente, nella complessità
18
In RCA PK 90450, Cowboy Junkies, “The Caution Horses” (1990)
Un recente aggiornamento circa la questione della semanticità e non-semanticità della musica, secondo un
percorso diverso ma non opposto da quello qui accennato, è costituito dalla proposta di un ‘formalismo
arricchito’, contenuta nel testo del filosofo americano Peter Kivy, Introduction to a Philosophy of Music,
Oxford University Press, New York, 2002; trad. it. Filosofia della musica. Un’introduzione, Torino, Einaudi,
2007 (in particolare i capitoli V-VIII).
19
27
relazionale dell’interiorità di un ente, l’uomo, quell’ente che tu sei e che, grazie alla musica
che in te si rivela e si produce, in te distinto in questo e diverso da tutti gli altri enti, scopre
un’appartenenza che ne fa un enigma essenziale”.
25. «Adesso capisco meglio la mia insistenza nell’ascoltare musica, – dice A., l’amico
audiofilo di una vita intera – musica non importa quale, tanto – aggiunge sorridendo – mi
sembra di non capirci più di tanto. La musica, sì, questo lo posso dire, mi ferma il tempo, –
dice ancora A. – mi fa andare ad un ritmo diverso da quello a cui va il mondo, almeno per
come lo percepisco io, anzi, se pure mi fa procedere, mi dà però anche e soprattutto
l’impressione di un ritorno al punto dal quale sono partito, e dunque mi dà l’impressione di
non essere mai partito, come se il tempo non fosse mai realmente trascorso; c’è nella musica
qualcosa di reversibile che dà una grande consolazione – dice ancora A., dopo un attimo di
sosta –, non importa il ritmo al quale è stato fatto il viaggio, non importa la quantità di
tempo che è trascorso dopo l’attacco iniziale, quel che conta è che ad un certo punto si torna
a casa e ci si sente come se non fosse successo nulla. E’ per questo – conclude infine A.
dopo un’ultima pausa, guardandomi fisso – che la musica di oggi mi fa tanta paura. Nella
musica d’oggi non si torna indietro, si parte e non si sa dove si arriva, e poi le regole durante
il cammino sono tutte diverse, non mi ci riconosco più; infine, lo confesso: preferisco Bach
a tutto il resto, persino a Mozart e senz’altro a Beethoven, quell’avventuriero, è poi colpa
sua se la musica ha preso la strada donde più non si torna. Bach – proclama A. – mi salva la
vita tutti i giorni”.
26. E’ spesso (non sempre: spesso) vero che la musica della seconda metà del Novecento
non è felice, e che non vuole esserlo in qualche caso, e non riesce ad esserlo in qualche altro.
Non è felice20: ossia non consola, se la consolazione è una forma praticabile di felicità, se
Ma la coniugazione di musica e felicità richiederebbe, com’è ovvio, che si chiarisse che cos’intenda mai
col secondo termine (qui proponiamo di tradurlo in termini di consolazione, con lontana memoria
schopenhaueriana); può essere interessante, però, sul piano storico, ricordare che cosa sta dietro le quinte del
più famoso esempio di abbinamento musica/felicità, quello relativo al beethoveniano Inno alla Gioia dalla
20
28
forse è l’unica che resta ad un vivente dopo la messe di tutti i possibili esistenziali in questa
parte immensamente complicata di mondo nella quale viviamo. Trascurando per il momento
il caso in cui non vuole essere felice, può essere interessante riflettere un poco sul caso
secondo il quale la musica d’oggi non riesce, pur volendolo, ad essere felice; non ci riesce,
ma naturalmente ci prova, e ci prova mobilitando il meglio dei valori, estetici e non, che
l’Occidente ha saputo inventarsi nel corso del tempo. La libertà, prima di tutto, che in
musica diventa, a seconda dei contesti, improvvisazione o alea; che farsene oggi della
libertà in musica? Che farsene, dal momento che oggi si può fare musica con ogni mezzo, in
qualunque modo, e anche dal momento che oggi non ci sono più né regole oggettive, da tutti
riconosciute e quindi invalicabili (disattenderle diventa, in questo caso, il prodotto eventuale
di una libera scelta; e ci sono persino regole di propria invenzione, naturalmente e per lo
più) né spettatori più o meno paganti che ne esigano il rispetto? E ancora: la libertà nel
materiale musicale di partenza, la libertà nel produrre suoni, ovvero più in generale: la
libertà delle competenze. Oggi chiunque, anche senza studi musicologici tradizionali,
potrebbe fare musica: campionando quella degli altri; l’esecutore competente sembrerebbe
necessario soltanto entro l’ambito che ripropone la tradizione, e la sua libertà è sempre,
com’è ovvio e come è sempre stato, una libertà regolata, o ben delimitata (non fosse che
dalla partitura). Ma una libertà estetica tendenzialmente ‘assoluta’ 21 – sacrosanta fuori dal
contesto estetico, e da difendere probabilmente contro i rigurgiti autoritari e censori che
potrebbero venire –, non produce automaticamente felicità in chi ascolta musica, o
IX Sinfonia: “Gioia attraverso la sofferenza: questa frase (estrapolata da una delle lettere di Beethoven, nella
quale, in realtà, era riferita a uno scomodo viaggio in carrozza) divenne la principale parola d’ordine del
culto di Beethoven propugnato nella prima metà del XX secolo dallo scrittore francese Romani Rolland.
Rolland, in un’epoca meno eroica, elevò Beethoven al ruolo di modello di riferimento, come esempio di
sincerità personale, altruismo e abnegazione – insomma di autenticità. I risultati di una vita di militanza, da
parte di Rolland, possono ancora essere riscontrati nel ruolo speciale che l’immagine di Beethoven, in
generale, e della Nona Sinfonia, in particolare, rivestono nel mondo d’oggi: come inno sopranazionale
dell’Unione Europea (sebbene sia solo la melodia dell’Inno alla Gioia, non le parole, a essere ufficialmente
riconosciuta a Bruxelles) […].“ Cfr. N. Cook, Music. A Very Short Introduction, Oxford University Press,
New York, 1998; trad. it. N. C., Musica. Una breve introduzione, Torino, EDT, 2005, p. 28.
Resta sempre valido l’avvertimento di Debussy, affidato all’alter ego Monsieur Croche ‘antidilettante’ che,
nella finzione narrativa, gli fa visita: “Bisogna cercare la disciplina nella libertà e non nelle formule di una
filosofia caduca e buona soltanto per i deboli. Non si dovrebbero ascoltare i consigli di nessuno, se non quelli
del vento che passa e ci narra la storia del mondo.” Cfr. C. Debussy, Monsieur Croche antidilettante; trad. it,
C. D., Il signor Croche antidilettante, Milano, SE, 2000, p. 15; ne ricorda l’imprescindibile valore
progettuale proprio nella nostra contemporaneità compositiva Boulez in chiusura del testo citato alla nota 3.
21
29
perlomeno musica nata da questo progetto libertario; forse la produce in chi la fa
(bisognerebbe chiederlo espressamente agli interessati), ma in chi l’ascolta induce un
leggero stato d’angoscia, come se questa musica fosse una colonna sonora anche fin troppo
fedele, nella sua sfasata e disperata acronicità, rispetto al nostro tempo povero di sicurezze e
di dèi. Una musica descrittiva contro le proprie stesse intenzioni, nientemeno?
27. “Quando sento che dentro di me le cose volgono al peggio – dice A., l’amico
audiofilo di cui ho già detto – io ho una soluzione che funziona sempre: Verklärte Nacht, di
Schönberg, possibilmente nella versione del sestetto d’archi, quella originale. Ma non mi si
chieda perché – confessa A. –, non saprei che cosa rispondere; se la musica è latrice
benefica di un mistero che ci riguarda tutti – aggiunge A. – non si deve rispondere mai a una
domanda del genere. Una volta tanto – continua A. – conta soltanto il risultato di un agire, e
le sue motivazioni profonde possono e debbono restare nell’oscuro, dove forse non ci è
lecito introdurre uno sguardo che intenda spiegare. E’ possibile, però – conclude A. – è
possibile almeno descrivere: descrivere la superficie di un oggetto tanto salvifico, descrivere
la nostra provvisoria guarigione per tutto il tempo che l’articolazione di quel racconto
musicale si sviluppa. Musicologi e poeti possono dunque dare il loro contributo descrittivo,
ma l’enigma della momentanea salvezza dall’angoscia quotidiana grazie alla musica
comunque rimane intatto”.
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31