ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 La personalità Prescott Lecky Presentazione e traduzione di Valeria Vaccari Nel numero di settembre 2000 pubblicammo Alcune osservazioni sull’organizzazione della personalità scritto da Rogers nel 1947. Uno degli autori cui egli faceva riferimento, in termini piuttosto positivi («Molto del suo pensiero corre parallelo alle nostre osservazioni») era Prescott Lecky. Mettiamo ora a disposizione dei nostri lettori la traduzione di uno dei suoi pochi scritti, pubblicato nel volume The Self (1958) a cura di C. Moustakas. Si tratta in realtà di una bozza, cui l’autore stava lavorando prima della morte, recuperata fra le sue carte ed adattata con qualche difficoltà dall’editor; ciò ha reso problematica, in alcuni punti, la traduzione, per cui ci scusiamo di eventuali imprecisioni. Per quanto il tono generale possa apparire ingenuo e sorpassato, a ben vedere questo testo esprime prospettive estremamente attuali, del tutto geniali se teniamo conto dell’epoca in cui è stato scritto (attorno al 1945). Anzitutto l’idea che la personalità sia un’organizzazione coerente di valori trasmessi da una generazione all’altra, come nell’evocativa citazione del libro di Ruth. Da qui la visione del conflitto come inevitabile ma contingente, in profondo contrasto con la psicoanalisi, e l’idea che i meccanismi di difesa servano a proteggere l’identità, eliminando gli elementi non omogenei per assicurarne la coerenza. L’appassionata idealità di Lecky sottende una potente e sicura visione umanistica che riporta vari tipi di problemi all’unità della persona ed alle sue prerogative di soggetto. In questo tentativo di dare forma e contenuto al concetto di personalità è importante che i suoi presupposti non vengano fraintesi. Precisiamo dunque subito che la nostra concezione di personalità non è da intendersi come un resoconto puramente descrittivo del comportamento di un organismo vivente. La sua validità scientifica non è però da meno. Si tratta di un mezzo per arrivare a delle conclusioni, come abbiamo detto, ma un mezzo necessario se siamo interessati all’organizzazione del comportamento e se cerchiamo di arrivare ad una comprensione scientifica dell’individuo. 1 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Fino alla fine del XIX secolo la teoria psicologica dello stimolo-risposta, fondata sull’analogia tra il sistema nervoso e quello telegrafico, dominò tutto il pensiero psicologico. Questa teoria risultò inadeguata da un punto di vista clinico e fu messa in discussione dalla psicoanalisi, che concepiva i processi mentali sul modello di comportamento dei liquidi sotto pressione. Quest’ultima analogia definì concetti quali rimozione, catarsi, sublimazione, equilibrio, etc. Entrambe le teorie cercavano, tramite l’uso di tali analogie, di mantenere un’apparente coerenza con la tradizione meccanicistica delle scienza. L’analogia “idraulica” sembrava offrire un’alternativa alla concezione telegrafica soprattutto in virtù della sua maggiore flessibilità nel gestire i problemi legati alla motivazione. Invece di fare affidamento sulle forze ambientali che agiscono come stimoli, essa postula l’esistenza di un gruppo di forze interne che ricercano una espressione esterna. Non è stato mai possibile, tuttavia, spiegare ogni tipo di comportamento come l’espressione dello stesso tipo di energia, cosa piuttosto necessaria, ovviamente, se dovessimo seguire alla lettera il modello idraulico. Freud cercò di confinare questa teoria ad un solo istinto d’amore o sesso, ma fu costretto a riconoscere le cosiddette “istanze dell’Io” e successivamente ad aggiungere l’istinto di morte che produce aggressività e odio. Allo stesso modo, Adler cominciò teorizzando la competizione aggressiva per il potere e la superiorità, ma più tardi fu obbligato a riconoscere l’esistenza di un sentimento sociale e di tendenze cooperative. Altre scuole ammettevano l’esistenza un numero molto maggiore di istinti. Ma in ogni caso, come è stato osservato, le motivazioni entrano in conflitto e interferiscono tra loro, la qual cosa ha portato a credere che ogni differente motivazione debba essere trattata in modo indipendente. Il risultato è che l’analogia idraulica porta ad un numero di unità dinamiche proprio come la concezione telegrafica, con la sua grande varietà di abitudini e modelli reattivi, porta ad un numero di unità strutturali. Entrambe le teorie sono riuscite ad oscurare il carattere integrato dell’attività dell’organismo: l’organizzazione è stata sia decentrata da se stessa sia ridotta a un indefinito aggregato di elementi. Questi modelli meccanicistici sono stati d’aiuto nell’organizzazione preliminare dei dati ma non hanno prodotto una concezione dell’uomo che studiosi della mente aperti ed attenti all’evidenza possano accettare. Dopo cinquant’anni di ricerca fondata su principi meccanicistici, la psicologia è più disorganizzata di quanto sia mai stata nella sua storia rispetto alle prospettive teoriche. Perciò invece di assumere a priori che l’uomo è una macchina mossa da forze, una massa inerte il cui comportamento futuro è prevedibile a partire da quello passato, proviamo a pensare che egli deve essere concepito come unità, come un sistema funzionante nella sua interezza. Il suo comportamento deve perciò essere interpretato in termini di azione piuttosto che di reazione, cioè in termini di intenzione. Le teorie meccanicistiche, sostenendo che l’attività è solo un effetto di qualche causa antecedente, devono cercare di spiegare l’attività in sé e perciò cercano di definire o isolare la sua causa. La formulazione corrente è che l’organismo agisce perché stimolato. Noi sosteniamo, al contrario, che ogni organismo, fin quando vive, è continuamente attivo, per cui si pone 2 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 continuamente degli obiettivi. Vita e azione coesistono e sono inseparabili. Non dobbiamo chiederci perché un organismo agisce ma soltanto perché lo fa in un modo piuttosto che in un altro. Uno stimolo non genera un’azione, ma tende solamente a modificare in un modo o in un altro l’attività già esistente. Tale posizione non è per niente radicale da un punto di vista umanistico. Qualsiasi teoria fondata sul principio dell’azione unificata, comunque, è ogni tecnica da essa derivata per scopi clinici, esclude necessariamente l’esistenza di una pluralità di scopi. Una sola motivazione, la necessità di mantenere l’unità del sistema, deve servire come principio dinamico universale: non il conflitto ma l’unità deve essere il postulato fondamentale. Praticamente tutte le scuole di psicoterapia si propongono di eliminare il conflitto, nonostante quest’ultimo sia considerato fondamentale. Da qui è chiaro che esse aspirano all’unità come obiettivo, nonostante le possibilità di realizzarlo non siano coerenti con le premesse. E’ ovvio allora che il conflitto deve essere inteso solo come un disturbo temporaneo, una sorta di malattia in contrasto col benessere piuttosto che come una condizione permanente e necessaria. Nonostante il conflitto sia di solito presente, esso non è dovuto alla struttura della personalità stessa bensì dovuto ai cambiamenti ambientali che presentano una continua serie di problemi da risolvere. Nonostante noi teorizziamo una costante tensione verso l’unità, non sosteniamo che il risultato sia necessariamente positivo. L’ambiente pone le condizioni del problema che deve essere affrontato e in qualche caso un’adeguata soluzione può non essere disponibile. Se il risultato potesse essere garantito, come nella fisica classica, la visione meccanicistica potrebbe essere restaurata e il postulato di una lotta per gli obiettivi non sarebbe necessario. Noi proponiamo di interpretare tutti i fenomeni psicologici come illustrazioni del singolo principio di unità o autocoerenza (self-consistency). Immaginiamo la personalità come un’organizzazione di valori che sono sentiti coerenti tra loro. Il comportamento esprime lo sforzo di mantenere l’integrità e l’unità dell’organizzazione. Il punto è che tutti i valori di un individuo sono organizzati in un unico sistema, la preservazione della cui integrità è essenziale. Il nucleo del sistema, intorno cui ruota tutto il resto, è l’autovalutazione personale. L’individuo osserva il mondo dal suo punto di vista, ponendo se stesso come centro. Ogni valore in entrata incoerente col sistema con cui l’individuo valuta se stesso non può essere assimilato; incontra resistenza, e a meno che non intervenga una riorganizzazione generale, viene respinto. Questa resistenza è un fenomeno naturale, essenziale per mantenere l’individualità. Il cambiamento presenta continui problemi di adattamento, ma l’organizzazione può realizzare soltanto un movimento unitario per volta ed in una direzione, cosa che spiega perché solo una singola tendenza può essere dominante in un dato momento. In questo modo evitiamo di postulare l’esistenza di un serbatoio primitivo di motivazioni, rappresentato nello schema freudiano dall’Es, o di innumerevoli, distinte e indipendenti unità dinamiche o istinti, come sostiene McDougall. Freud riconosce chiaramente come principio unificante l’istinto di vita o d’amore, nonostante non lo consideri primario ma derivato da quello 3 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 sessuale. Esso è contrastato comunque dall’istinto di morte, d’odio, che di nuovo divide la personalità e fa sì che il conflitto sia il vero principio fondamentale. Si evita questa contraddizione quando, in accordo con la nostra prospettiva, la direzione del ragionamento è rovesciata. La motivazione sessuale, così come tutte le altre, deve essere pensata come diretta, in ultima analisi, al raggiungimento dell’unità. La tensione verso l’unità è costante, quella per il soddisfacimento sessuale è variabile. L’organizzazione dei valori dell’individuo si evidenzia nella regolarità del suo comportamento. Non solo l’organizzazione definisce il suo ruolo nella vita ma gli fornisce dei modelli che egli si sente obbligato a mantenere. Questi ultimi diventano evidenti se sorvoliamo i dettagli del movimento fisico e guardiamo al comportamento dell’individuo come una trasposizione dei modelli in azione. L’affidabilità del comportamento infantile, come indicano sia i tests che le osservazioni generali, è perciò spiegabile, secondo la teoria della autocoerenza, come espressione esterna di modelli interni relativamente fissi. Si è spesso discusso che l’affidabilità di un test prova che il test misura l’abilità del bambino. Tutto ciò che un test può misurare, tuttavia, è il livello della “performance” corrispondente al momento della somministrazione del test. Non è il test che è affidabile, ma il bambino. Non possiamo interpretare il risultato semplicemente come la misura delle capacità, a meno che ignoriamo totalmente il problema della resistenza e sosteniamo non solo la presenza di abilità specifiche ma anche della ragione per usarle limitatamente. È importante non confondere questi modelli psicologici interni con altri tipi di modelli esterni di come in generale le persone dovrebbero comportarsi. Non c’è niente che vieti a un individuo di accettare come propri questi modelli esterni integrandoli nel suo sistema. Tutti i membri di una famiglia, per esempio, si definiscono come tali e agiranno di conseguenza. Noi pensiamo a noi stessi anche come appartenenti a gruppi più estesi, ad esempio di scienziati, di americani, di esseri umani, e così via. Se ci consideriamo come appartenenti a gruppi, mantenere questa definizione è altrettanto necessario quanto definirci individui singoli. Ancora, se una persona non accetta tali definizioni, neppure si atterrà ad essa: il criminale è un esempio di ciò. Pensiamo pertanto all’individuo come a un sistema unificato con due tipi di problemi: quello di mantenere l’armonia interna con se stesso e quello di mantenere l’armonia tra sé e l’ambiente, mentre egli sta nel mezzo. Per comprendere l’ambiente deve far sì che le sue interpretazioni siano coerenti con la sua esperienza ma al fine di mantenere la sua individualità deve organizzarle a formare un sistema coerente dall’interno. Questa coerenza non è obiettiva, naturalmente, ma soggettiva e assolutamente individuale. La personalità si sviluppa come risultato di contatti reali con il mondo e incorpora in sé i significati derivati da contatti esterni. Essenzialmente, si tratta di organizzare l’esperienza in un tutto integrato. Solo queste situazioni che entrano a far parte dell’esperienza individuale, pertanto, entrano necessariamente a far parte della personalità. In teoria, allora, dovremmo cominciare col determinare la natura dell’esperienza individuale, specialmente durante il primo anno di vita e osservare il modo in 4 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 cui questa esperienza viene organizzata. Ma da un punto di vista pratico ciò è impossibile; così dobbiamo accontentarci di dedurre l’organizzazione dal modo in cui vengono affrontate le situazioni attuali. Questo chiarisce perché le spiegazioni meccanicistiche sono inutili. Dobbiamo cercare dei modi per ottenere dati sufficienti e rilevanti con cui lavorare, ma il vero obiettivo è quello di creare, a partire dai dati, una concezione del soggetto che ci dia una visione dall’interno del suo comportamento e riveli la sua coerenza e il suo scopo. Il fattore più costante dell’esperienza individuale, come abbiamo detto, è l’individuo stesso e l’interpretazione del suo significato: che tipo di persona è, il posto che occupa nel mondo, rappresentano il centro, il nucleo della sua personalità. Definiremo dunque la personalità come uno schema unificato di esperienza, un’organizzazione di valori coerenti tra loro. E dovremmo concepire lo studio degli esseri umani come studio delle loro personalità. L’organizzazione deve essere pensata per di più, non solo come figura retorica ma in un certo senso come una realtà. Se le interpretazioni del comportamento fondate su questa concezione, debbano essere intese come vere o false dipende, in un certo senso, da come si sceglie di definire la verità. Anche il meccanicista crede che le sue spiegazioni siano vere. Ma, per quanto ci riguarda, la nostra ricerca è semplicemente una spiegazione che tenterà di essere illuminante e fruttuosa. Riteniamo che ogni comportamento debba essere spiegato nei termini di questo sistema. E’ troppo presto per tentarne una trattazione esaustiva ma alcuni dei più familiari fenomeni psicologici vengono interpretati come segue Identificazione: rappresenta lo sforzo fatto dal bambino per portare le sue idee di sé e dei suoi genitori in una relazione più unificata. Non solo imita i genitori ma adotta il loro modo di vedere le cose, le loro opinioni, facendoli suoi. La religione dei suoi genitori diventa la sua, i loro modelli diventano i suoi. In tal modo si eliminano le differenze e i legami relazionali si rafforzano attraverso il crescere della “consapevolezza di appartenenza”. Assimilazione e identificazione vanno di pari passo; il debole ego del bambino, non avendo in origine valori propri, è immediatamente adattabile e assume quei valori in grado di unificare il sistema in un tutto integrato. Un’eccellente illustrazione dell’assimilazione di valori che accompagna l’identificazione si trova nel Libro di Ruth, I,16-17: «Perché dove tu andrai io andrò e dove sosterai, io sosterò; la tua gente sarà la mia gente e il tuo Dio il mio Dio, dove tu morrai io morrò, e lì sarò sepolta; il Signore mi faccia questo e altro ancora se altra cosa che la morte separerà te da me e me da te». La maggior parte dei genitori si identificano in certa misura col bambino e cercano imitarlo per rendersi più assimilabili. Tale identificazione avviene anche negli amanti. Tuttavia se il processo è portato alle estreme conseguenze, come quando i genitori si esprimono in “baby-talk”, è chiaro che il bambino fonderà i propri valori su deboli fondamenta. Ci potrebbero essere gradimenti diversi rispetto a certi valori ma non è sicuramente d’aiuto al bambino acquisire modelli dall’osservazione di comportamenti infantili siano essi dei genitori che di altri bambini. 5 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 Questo punto ci sembra sia stato sorvolato da quelle teorie moderne che abolirebbero la famiglia e segregherebbero il bambino in comunità infantili sotto un controllo scientifico che gli impedirebbe di attaccarsi all’adulto. Poiché non possiamo sostenere che i valori degli adulti siano innati o istintivi nel bambino, se non possiamo ottenerli dall’identificazione allora sarà difficile individuare da quale altra fonte possano derivare. È abbastanza facile costruire Utopie dove il comportamento è concepito come una “performance” automatica di schemi meccanici, ma il problema di stabilire nel bambino una concezione di vita per lui funzionale non può essere approcciato in termini così ottimistici. Resistenza: è l’opposto di assimilazione e apprendimento, e rappresenta il rifiuto di riorganizzare i valori, specialmente quelli dell’ego. Con gli anni, naturalmente, i valori diventano più stabili e l’adattabilità diminuisce. Allo psichiatra, lo sforzo del paziente di mantenere la sua organizzazione appare un sintomo di perversione. All’educatore appare un ostacolo all’apprendimento. Ma se capissimo realmente queste resistenze, dovremmo vederle non come manifestazioni nevrotiche o anormali ma come metodi assolutamente naturali per evitare la riorganizzazione. Se una persona fosse in grado di adattarsi tanto velocemente quanto a volte ci si aspetta, non avrebbe personalità. Se la resistenza debba essere pensata come desiderabile o indesiderabile perciò è solo una questione di punti di vista. La lealtà ai valori individuali potrebbe interferire con gli sforzi di cambiamento, ma questa lealtà è anche fonte di onestà e integrità. Il seguente esempio dimostrerà che la resistenza all’apprendimento ha anche il suo aspetto desiderabile. Per anni la minore capacità dei maschi nella lettura, se comparati a ragazze che avevano ricevuto la stessa istruzione, è stata ampiamente riconosciuta, specialmente nei corsi elementari. Abbiamo scoperto che questa differenza non è dovuta alla mancanza di capacità da parte dei ragazzi ma alla mancanza di letture adatte a loro. Il bambino dai 6 agli 8 anni, che ha appena cominciato a leggere, è principalmente impegnato a costruire un concetto di sé come maschio. Gli piace giocare ai cowboy, G-man e agli indiani. Cerca di non piangere quando si fa male,. Questo stesso ragazzo, quando comincia la lezione, deve alzarsi di fronte ai compagni a leggere: “La piccola gallina rossa dice Cluck, cluck, cluck!”, o qualcosa di altrettanto incoerente con i suoi modelli di comportamento. Essere obbligato a leggere questa roba ad alta voce, specialmente in presenza di altri, non è coerente con la sua visione dei valori maschili. Se un ragazzo sta cercando di sostenere un modello di virilità durante il gioco, non lo abbandonerà solo perché entra in classe. Se gli verranno forniti libri su treni o aerei, essi serviranno a sostenere questi valori e saranno fortemente assimilati. Il punto è, naturalmente, che il presunto difetto nella lettura non è in realtà un difetto, eccetto che per un sistema scolastico poco illuminato, ma al contrario è la manifestazione di una resistenza del tutto normale e desiderabile. Nello schema freudiano la resistenza è interpretata come il desiderio del paziente di trattenere la sua nevrosi, mentre noi la interpretiamo come il desiderio di mantenere la sua personalità. Questo ci permette di evidenziare 6 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 che ciò che la psicoanalisi chiama nevrosi e ciò che noi chiamiamo personalità sono virtualmente la stessa cosa. Il paziente difende non un disagio mentale che l’analista cerca di rimuovere ma uno schema di vita che l’analista tenta di cambiare. Molti analisti ammettono ciò liberamente. Mentre potremmo pensare che lo schema di vita di un individuo è inconscio nel senso che non è stato consapevolmente formulato come un tutto, comunque, non potremmo definire inconscio nello stesso senso il meccanismo di rimozione. I molti, cosiddetti “stati emozionali” non possono essere trattati indipendentemente ma devono essere interpretati come differenti aspetti di una singola motivazione, lo sforzo per l’unità. Per esempio, l’amore è l’emozione soggettivamente esperita in riferimento a una persona a un oggetto già assimilato e utile a supportare l’idea di sé. Il dolore è esperito quando la personalità deve essere riorganizzata in seguito alla perdita di uno dei suoi supporti. Odio e rabbia sono impulsi di reazione e distruzione provati verso oggetti non assimilabili. L’emozione d’orrore appare quando emerge una situazione improvvisa che non eravamo pronti ad assimilare, come la vista di un incidente mortale. Le esperienze che aumentano il senso di unità e forza psichica danno vita ad emozioni di gioia e al sentimento del piacere. A volte il comportamento di una persona può violare la sua concezione di sé, producendo sentimenti di rimorso e colpa. In tal caso, l’oltraggio a sé stesso potrebbe essere eliminato sia tramite la reinterpretazione sia cercando una congrua espiazione. La paura è sentita quando non si può trovare una soluzione adeguata a un problema ed è dovuta alla disorganizzazione dinamica. Dal nostro punto di vista quello di emozione è un concetto necessario solo se il problema del comportamento è formulato in maniera descrittiva. Una teoria psicologica che concepisca la motivazione come un fenomeno di organizzazione non ha alcun bisogno di una concezione della emozione. Pensare ha parimenti lo scopo di unificare l’organizzazione delle idee. Le cosiddette “logica” ed “emozione”, perciò non sono in conflitto ma mirano allo stesso fine. Se la maggior parte del nostro pensare sembra avere semplicemente lo scopo di razionalizzare il nostro comportamento per renderlo coerente o di difendere conclusioni già raggiunte o di giustificare posizioni già prese, questo è indirettamente ciò che ci si aspetterebbe date le circostanze. La teoria freudiana della rimozione, considerata pietra miliare della teoria psicoanalitica, è andata incontro a così tante revisioni che l’esatto significato attuale è in qualche modo in dubbio. L’idea generale sembra essere, comunque, che le emozioni, in quanto espressioni negate, vengano soppresse nell’inconscio, da cui in futuro cercheranno continuamente qualche mezzo per evadere. Non c’è dubbio che in certi casi questa spiegazione sembra abbastanza plausibile, ma per quanto presuppone l’esistenza di emozioni come entità separate siamo costretti a rifiutare la teoria della rimozione e a cercare di reinterpretare il fenomeno dal punto di vista dell’organizzazione. Prendiamo, ad esempio, il problema psicologico che scaturisce quando una persona si sente insultata. Ciò significa che nella sua esperienza è stato immesso un valore di sé o di qualcuno con cui egli si è identificato che non può essere assimilato. Questa incoerenza è fonte di disturbo e a meno che il 7 ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002 responsabile non “ritiri” l’offesa, il disturbo continua. Se rifiuta di ritirarlo, ne deriverà un impulso di vendetta. Cioè, il valore negativo sembra essere eliminato quando lo si scaglia indietro al suo autore. Ma supponiamo che per vari motivi non lo si possa rimandare al mittente, allora cosa accade? Dovremo dire, citando Freud, che l’energia (istinto di morte) è stata repressa nel serbatoio dell’Es per cercare in seguito una propria espressione quando l’istinto vitale viene meno, o piuttosto potremmo pensare che l’organismo continui a sforzarsi di rimuovere l’incoerenza e di unificarsi? Per rispondere a tale quesito, dobbiamo rivolgerci all’evidenza del comportamento primitivo che tanto affascina lo stesso Freud. Come potrebbe la teoria della rimozione spiegare l’esatto bilancio tra offesa e vendetta fornita dai primitivi codici di vendetta, o la concezione che la giustizia non può essere realizzata a meno che la punizione inflitta sia coerente con il crimine? Ovviamente, lo scopo è di correggere la situazione e “renderla più assimilabile”. Citiamo un passo dell’antica legge ebraica, come ci viene data dal Levitico, XXXXIV.18.20: «E colui che uccide un animale lo dovrà risarcire; animale per animale. E se un uomo ferisce il suo vicino, come ha fatto, così venga fatto a lui; braccio per braccio, occhio per occhio, dente per dente; come ha causato offesa in un altro uomo così dovrebbe subirla. Colui che uccide un animale offrirà un risarcimento e colui che uccide un uomo sarà messo a morte». L’impulso alla vendetta che nasce dall’offesa o dall’ingiustizia non è perciò un accumulo di energia che aspetta di essere scaricato, ma uno sforzo propositivo dell’organizzazione di liberarsi dall’incoerenza. 8