Il ritorno all`oro in Belgio, Francia e Italia: stabilizzazione sociale e

S tudi e docum enti
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia:
stabilizzazione sociale e politiche monetarie (1926-1928)*
« Sfortunatamente le aspettative di quanti erano responsabili del nostro ritorno
al gold standard nel 1925 non sono state in larga parte realizzate [...] I sei
anni trascorsi da quella scelta politica si sono rivelati di carattere molto anomalo
e i sacrifici che comportava il ritorno all’oro all’antica parità non sono stati com­
pensati dagli attesi vantaggi della stabilità dei prezzi internazionali », dichiarava
il Macmillan Report nel 1931, alla vigilia della svalutazione della sterlina e del­
l’abbandono del tallone aureo 1. La constatazione del fallimento di un indirizzo
di politica economica che aveva impegnato le autorità monetarie inglesi fin dalla
conclusione della prima guerra mondiale può essere estesa al complesso degli
sforzi compiuti nel corso degli anni venti per ricostruire un sistema monetario
internazionale fondato su parità di cambio fisse e regolato dalla disponibilità di
riserve auree o equivalenti. Nell’applicazione di questi principi governi ed espo­
nenti economici individuarono la soluzione ai fondamentali problemi che la guer­
ra mondiale aveva sollevato trasformando l’ordine economico internazionale e
l’assetto interno di ciascuno dei paesi coinvolti. Essi avrebbero consentito di crea­
re un’economia mondiale coordinata in cui prezzi, salari, tassi di interesse, spesa
pubblica e privata di ciascun paese sarebbero stati regolati dalle condizioni della
sua bilancia dei pagamenti2: un deficit o un’eccedenza nei conti con l’estero
avrebbero provocato, data l’esistenza di parità fisse tra le monete, un movimen­
to compensatore di divise (o in ultima istanza di oro) che avrebbe messo in moto
* Gli autori ringraziano la Banca d’Italia per aver consentito l’accesso al suo Archivio sto­
rico e all’Archivio Beneduce e per aver reso più spedito il lavoro di raccolta del materiale
con la fattiva e generosa collaborazione della direzione e del personale dell’Archivio stesso.
Abbreviazioni usate nel testo:
Archivio Storico della Banca d’Italia: ASBI
Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Varie: PV
Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Speciali: PS
Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Riservate: PR
Operazioni Finanziarie: Op.F.
Bobina: bob.
Fotogramma/i: ftgr.
Archivio centrale dello Stato: ACS
Istituto Nazionale per i Cambi con l’Estero: INC.
1 Committee on Finance and Industry, Report presented to Parliament by Financial Se­
cretary to the Treasury by Command of His Majesty, june 1931 (Cmd. 3897), London, 1931,
p. 106.
2 Stephen v.o. clarke , The reconstruction of the international monetary system: the
attempts of 1922 and 1933, Princeton, 1973, pp. 11-12.
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Giancarlo Falco, Marina Storaci
il meccanismo atto a ricostituire un nuovo equilibrio. Grazie ad uno strumento che
pareva agire secondo principi di indiscutibile razionalità e oggettività, sembrava
possibile eliminare ogni anomalia economica che turbasse la stabilità delle relazioni
economiche internazionali, garantendo i presupposti su cui fondare un ordinato
sviluppo del commercio e delle transazioni finanziarie. In realtà quest’esigenza,
largamente accettata da economisti e uomini politici, poteva avere significati e
implicazioni diverse o addirittura contraddittorie a seconda degli interessi na­
zionali coinvolti. Per gli ambienti economici americani più avvertiti delle oppor­
tunità che la nuova posizione internazionale del loro paese offriva, si trattava
di consolidare il ruolo di grande esportatore non solo di materie prime fondamentali, ma anche di prodotti industriali tecnologicamente avanzati conquistato
dagli Stati Uniti durante la guerra. New York doveva diventare un centro di
finanziamento del commercio mondiale alla pari o in vantaggio rispetto a Lon­
dra; in questo modo l’iniziativa privata e le forze di mercato avrebbero conti­
nuato a svolgere la funzione che negli anni di guerra avevano svolto i crediti
concessi agli alleati, realizzando compiutamente un progetto di egemonia eco­
nomica mondiale già delineato negli anni precedenti la guerra. Anche per l’In­
ghilterra (che pure costituiva la prima vittima dell’ascesa americana) la stabilità
monetaria internazionale doveva garantire lo sviluppo del commercio mondiale
e quindi delle esportazioni inglesi. La loro competitività, anzi, sarebbe cresciuta
in seguito alla diffusione del nuovo sistema di pagamenti perché esso, impegnan­
do i paesi che l’adottavano in una politica deflazionistica, avrebbe provocato un
aumento dei prezzi sul mercato mondiale, tenuti bassi nel dopoguerra dai paesi
a valuta deprezzata3. Londra inoltre avrebbe tanto più agevolmente riconqui­
stato l’antica funzione di centro finanziario mondiale quanto più rapidamente
fosse stata restaurata la fiducia nella sterlina come mezzo di pagamento mon­
diale e quanto più celere fosse stato il ritorno alla normalità nelle relazioni eco­
nomiche internazionali perché ciò avrebbe permesso al sistema bancario inglese
di far valere appieno l’efficacia dei suoi metodi di lavoro e l’estensione della sua
rete di relazioni. Le due potenze maggiori si attendevano i benefici più cospicui
dalla restaurazione di un sistema di parità di cambio fisse, ma lo stesso obiettivo
incontrava anche il consenso di quei paesi industrializzati minori le cui espor­
tazioni, venivano favorite dalla progressiva svalutazione delle loro monete, la­
sciate libere di fluttuare rispetto a quelle stabili. Per questi paesi la stabilizza­
zione dei cambi costituiva una garanzia di ulteriore sviluppo della loro econo­
mia: solo a questa condizione sarebbero affluiti i crediti esteri con cui risolvere
le difficoltà causate da ricorrenti deficit della bilancia dei pagamenti o (dati i li­
miti fissati alla circolazione monetaria e all’attività creditizia) da un’insufficiente
disponibilità di capitali all’interno per gli investimenti. Ragioni analoghe, infine,
agivano con forza ancora maggiore sui paesi produttori di materie prime, tradi­
zionalmente debitori e largamente dipendenti dagli investimenti stranieri.
Accettando di aderire a un sistema di parità fisse, però, i responsabili della po­
litica economica dei diversi paesi dovevano tener conto delle condizioni interne
a ciascuno di essi. Un simile orientamento comportò inevitabilmente l’adegua­
mento dei principi del gold standard alla natura degli interessi e dei rapporti
sociali esistenti all’interno dei diversi paesi: una controllata espansione della
circolazione e il pareggio del bilancio statale, ad esempio, pur rimanendo punti
di riferimento fondamentali della politica monetaria, dovettero spesso venir
3 Vedi le convinzioni espresse da Lord Bradbury durante l ’inchiesta preparatoria del Mac­
millan Report cit. in d. e . moggeidge, The return to gold 1925. The formulation of economie
policy and its critics, Cambridge, 1969, p. 81.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
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accordati con l’esistenza di una vischiosità dei prezzi e con una limitata mobili­
tà delle risorse interne, dovuta all’organizzazione produttiva storicamente realiz­
zatasi in ogni paese e ai rapporti di forza tra le classi sociali al loro interno. Nel­
l’applicazione reale, perciò, i principi del gold standard (o del gold exchange
standard per i paesi le cui riserve non erano costituite prevalentemente da oro)
subirono numerosi adattamenti, la cui ampiezza dipese in sostanza dai margini
di autonomia di cui disponevano le autorità monetarie di un paese nell’elaborare
la propria politica in rapporto al contesto internazionale e agli obiettivi politici
che si intendevano realizzare con gli strumenti monetari.
Nelle vicende delle stabilizzazioni monetarie europee si inserirono infine le ra­
gioni di tensione economica e diplomatica esistenti tra i paesi maggiori, in lotta
tra loro per la conquista di aree di influenza, e gli effetti stabilizzanti che ci si
attendeva dalla restaurazione di un sistema di parità di cambio fisse risultarono
in definitiva assai limitati. I principi del gold standard si trasformarono piut­
tosto in uno strumento di pressione dei paesi creditori su quelli debitori, utiliz­
zabile nell’ambito della politica di egemonia che i primi perseguivano per creare
un vincolo esterno alle scelte dei secondi e per orientarle. Tuttavia la mancanza
di un paese che esercitasse in modo indiscutibile la propria egemonia econo­
mica e politica sul resto del mondo ridusse considerevolmente l’efficacia di un
simile strumento e accentuò gli aspetti squilibranti presenti nelle relazioni eco­
nomiche internazionali durante gli anni venti, provocando in definitiva il falli­
mento dei tentativi compiuti in quel periodo per giungere ad un sistema eco­
nomico mondiale stabile ed unitario.
Le stabilizzazioni di Belgio, Francia e Italia costituiscono un’adeguata esempli­
ficazione dei limiti e delle conseguenze del generale processo di stabilizzazione
monetaria in atto negli anni venti. Le notevoli differenze nei tassi di stabilizza­
zione in paesi che pure alla vigilia della guerra avevano una parità di cambio
identica rispetto all’oro, il peso attribuito alle opportunità di concorrenza com­
merciale che potevano derivare dalle diverse politiche monetarie seguite o quel­
lo dato alle motivazioni di prestigio politico, così come le pressioni esercitate
dagli ambienti finanziari americani e inglesi per determinare la politica moneta­
ria dei tre paesi, contribuiscono a chiarire fino a che punto il ritorno al gold
standard non potesse venir ricondotto agli astratti principi di razionalità e di
ordine economico che i suoi teorici proclamavano.
Le vicende dei tre paesi consentono anche di chiarire le implicazioni sociali sul
piano interno della stabilizzazione monetaria. Il ritorno alla convertibilità aurea
delle tre monete venne spesso presentato come un atto che avrebbe riprodotto
le condizioni di stabilità dei prezzi prevalenti in Europa nei decenni prima del­
la guerra. La convinzione che questa misura monetaria sarebbe stata coronata
dal ritorno alla parità di cambio prebellica (cioè in definitiva al livello prebel­
lico dei prezzi) fu largamente diffusa nell’Europa degli anni venti e alimentò
per anni l’illusione che fosse possibile cancellare con mezzi opportuni le con­
seguenze più traumatizzanti, per ampi strati sociali, della guerra e delle trasfor­
mazioni economiche che ne erano derivate. Si trattava in particolare dei ceti
medi e della piccola borghesia, la cui posizione era stata gravemente minacciata
dall’inflazione postbellica e che vedevano con particolare favore una politica che
perseguisse non solo la stabilità dei prezzi, ma addirittura la rivalutazione della
moneta. Una simile prospettiva rischiava, se effettivamente realizzata, di sacri­
ficare gli interessi dei gruppi industriali, normalmente più avvantaggiati (al­
meno entro certi limiti) da una politica monetaria inflazionistica. Questi riusci­
rono, in definitiva, ad influenzare la politica economica complessiva che accom­
pagnò il ritorno alla convertibilità aurea, pur dovendosi adattare a condizioni
6
Giancarlo Falco, Marina Storaci
sociali e politiche molto diverse nei tre paesi. Un simile risultato, tuttavia, fu
raggiunto solo a prezzo di gravi tensioni all’interno dei gruppi dirigenti nazio­
nali, come mostra la difficoltà e la contraddittorietà con cui fu elaborata, nei tre
paesi, la politica monetaria che alla fine prevalse: difficoltà aggravata, d ’altra
parte, dalle implicazioni internazionali che una simile decisione comportva. Il
risultato politico delle stabilizzazioni fu un successo delle tendenze più conser­
vatrici all’interno di Belgio e Francia, mentre in Italia il ritorno all’oro si in­
trecciò strettamente con l’accentuazione del carattere autoritario della dittatura
fascista, coronando così il processo di stabilizzazione sociale in senso conserva­
tore e reazionario che seguì, in Europa, il fallimento delle prospettive di rivo­
luzione sociale dell’immediato dopoguerra. La stabilizzazione monetaria si ri­
velava strumentale rispetto a tale processo, consentendo ai gruppi dirigenti dei
tre paesi di consolidare il proprio potere e di ottenere l’appoggio e il consenso
della piccola e media borghesia. Un atto di politica economica che si preten­
deva dettato esclusivamente da principi di razionalità economica risulta così il
punto di convergenza di un complesso di problemi chiave nella trasformazione
della struttura sociale dei singoli paesi e dei rapporti economici internazionali e
si rivela il tentativo forse più complesso per liquidare e riassorbire le conseguen­
ze di una situazione squilibrata e conflittuale lasciata dalla guerra mondiale.
La crisi italiana del 1925:
la bilancia dei pagamenti e il mercato dei capitali
Fino al 1925 la congiuntura economica espansiva in atto in Italia dalla metà
del 1922 trovò alimento e sostegno in numerose condizioni favorevoli, alcune
riconducibili alle trasformazioni provocate dalla guerra nell’apparato produttivo
italiano e nella situazione internazionale, altre connesse a fattori congiunturali
esteri, alla politica seguita dalle autorità monetarie italiane, alla possibilità in­
fine di comprimere i salari dopo la sconfitta del movimento operaio nel 1921-22
che accresceva la competitività delle esportazioni. Il risultato di questo com­
plesso di fattori fu una crescita vigorosa della produzione industriale senza che
si verificassero ripercussioni negative sulla bilancia dei pagamenti, benché le in­
dustrie importassero la maggior parte delle materie prime e dei semilavorati
loro occorrenti. Le partite attive della bilancia dei pagamenti (rimesse, noli e
introiti derivanti dal turismo) furono perciò sufficienti anche in questi anni,
come già prima della guerra, a compensare il deficit commerciale.
A partire dalla crisi del 1920-21 migliorarono i rapporti di scambio del com­
mercio estero italiano. I prezzi delle materie prime e degli alimentari, che co­
stituiscono oltre il 67 per cento delle importazioni nel 1920-25, contro il 57,6
per cento nel 1909-13, si riducono per effetto della crisi più di quelli dei pro­
dotti industriali finiti o semilavorati che costituiscono la parte maggiore e cre­
scente delle esportazioni (il 69,4 e 63,9 per cento rispettivamente nel 1920-22
e 1923-25, contro il 56,4 per cento nel 1909-13)4. Le cifre indicano somma­
riamente il profondo mutamento che intervenne durante la guerra nella compo­
sizione del commercio estero italiano. Alcuni settori industriali sviluppatisi du­
rante il conflitto riuscirono a conquistare una quota del mercato mondiale di
alcuni prodotti tecnologicamente avanzati la cui domanda era in rapida espan4 Cifre calcolate sui dati del commercio internazionale dell’Italia divisi per categorie mer­
ceologiche citati in Banca Commerciale italiana, Movimento economico dell’Italia, vol. XV,
Milano, 1927, p. 50.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
7
sione: in particolare automobili e (in misura più ridotta) prodotti meccanici.
La quota italiana sulle esportazioni meccaniche e di mezzi di trasporto degli otto
paesi più industrializzati passò infatti dal 7,6 per cento in termini di valore nel
1913 al 9,8 per cento nel 1928, quando già la rivalutazione monetaria aveva
ridotto le esportazioni italiane in questi settori5. Il successo maggiore, tuttavia,
lo ottenne il settore tessile. La quota delle esportazioni italiane di tessuti sul
totale dei dieci maggiori produttori6 aumentò infatti dal 4,7 per cento del
1913 all’8 per cento nel 1928 7, benché il commercio mondiale presentasse una
accentuata tendenza al ristagno proprio in questo settore a causa dello sviluppo
della produzione tessile in molti paesi di recente industrializzazione8. Le espor­
tazioni italiane del settore ricevettero nuovo impulso dall’affermarsi in Italia di
un’importante produzione di fibre artificiali (rayon) che andarono ad affiancarsi
in misura crescente alle tradizionali esportazioni di prodotti in cotone, lana
e seta.
La brusca caduta delle esportazioni tedesche negli anni venti rispetto al periodo
prebellico in conseguenza della sconfitta militare favorì certamente l’affermazio­
ne all’estero di alcuni prodotti italiani, ma è probabile che la competitività delle
industrie esportatrici italiane migliorasse nella prima metà degli anni venti per
effetto sia della compressione dei salari, sia della politica monetaria seguita dopo
la fine del conflitto. Essa aveva come obiettivo l’attenuazione delle gravi spinte
inflazionistiche manifestatesi nel 1919-20, pur evitando misure pesantemente
deflazionistiche. Lo stato ridusse il proprio deficit di bilancio tra il 1922 e il
1925, riuscendo addirittura a conseguire un modesto attivo nel 1924-25, ma
accompagnò questa misura con la riduzione del debito pubblico e con una
politica di espansione creditizia (realizzata con l’aumento degli sconti degli isti­
tuti di emissione e lo smobilizzo dei portafogli della Banca italiana di sconto
e del Banco di Roma). In tal modo le autorità monetarie accrebbero la liqui­
dità a disposizione dei privati e sostennero lo sviluppo produttivo, mentre il
pericolo di un prolungato peggioramento della lira veniva scongiurato (dopo la
drastica svalutazione degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra) dall’equi­
librio della bilancia dei pagamenti. Modeste fluttuazioni verso il basso della lira
si risolvevano invece in un’accresciuta concorrenzialità delle esportazioni italiane.
Una situazione simile, tuttavia, imponeva un controllo dell’equilibrio della bi­
lancia dei pagamenti che non era facile ottenere in presenza di un deficit com­
merciale che restava consistente e di una situazione internazionale resa insta­
bile da molti fattori, tutti strettamente connessi l ’uno all’altro: dalla questio­
ne delle riparazioni tedesche e dei debiti di guerra interalleati alla presenza
competitiva di nuovi paesi sul mercato mondiale, alla mancanza di un’efficace
concertazione delle politiche monetarie dei maggiori paesi industrializzati (qua­
le si ebbe dopo la seconda guerra mondiale), ai frequenti e ampi movimenti
speculativi contro monete chiave del sistema di pagamenti internazionale.
La rottura dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti italiana cominciò a pro­
filarsi negli ultimi mesi del 1924. Il raccolto di grano era stato scarso: 44,8 mi­
lioni di quintali contro 59,2 del 1923 9; un anno di particolare abbondanza in
5 v. ingvar svennilson , Growth and stagnation in thè Européen economy, UN Commismission for Europe, Geneva, 1954, tab. A 61, p. 295. Gli otto paesi a cui si fa riferimento
sono: Italia, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Svezia e Svizzera.
6 Oltre i paesi già citati, India e Giappone.
7 Ibid., tab. 55, p. 188.
*
Ibid. e pp. 178 sgg.
9 V. ista t , Sommario di statistiche storiche 1861-1965, Roma, 1968, p. 62. Per un’idea
più precisa del fabbisogno reale di grano, calcolato sulTannata agraria cfr. Giacomo acerbo,
8
Giancarlo Falco, Marina Storaci
cui, però, erano stati importati quasi 28 milioni di quintali per riuscire a sal­
dare l’annata agraria, essendosi verificato un cattivo raccolto anche nel 1922.
Per il 1924-25 sarebbero state necessarie nuove importazioni, proprio quando
il prezzo del grano (come quello di molti alimentari e materie prime) raggiun­
geva livelli relativamente alti. Gli effetti del cattivo raccolto sulla bilancia dei
pagamenti furono pienamente evidenti, però, nei primi mesi del 1925, quando
gli importatori di grano che avevano dilazionato gli acquisti nel 1924 per l’alto
livello dei prezzi internazionali, non poterono più rinviarli10. Le importazioni
alimentari nel primo trimestre del 1925 aumentarono del 27 per cento in ter­
mini di quantità rispetto al trimestre precedente. Il peggioramento della lira fu
immediato; parallelamente i prezzi interni, che già nel secondo semestre 1924
erano in aumento a causa soprattutto del forte sviluppo degli investimenti (edi­
li e industriali), crebbero più rapidamente sotto la spinta della svalutazione. La
situazione presentava ormai i caratteri tipici di una congiuntura inflazionistica:
allora si scatenò una corsa alla speculazione. Gli importatori accelerarono gli
acquisti per accumulare scorte, gli esportatori tesaurizzarono all’estero il pro­
vento delle loro vendite, aggravando il deficit della bilancia dei pagamenti e il
deprezzamento della lira. Nei primi sei mesi del 1925 le importazioni crebbero
del 33 per cento in volume n, aumento dovuto soprattutto all’acquisto di com­
bustibili e materie prime per le industrie e sproporzionato alle esigenze produt­
tive. Nel secondo semestre, poi, il deficit della bilancia commerciale risultò ag­
gravato dal venir meno dell’espansione stagionale delle esportazioni n, sia per
le difficoltà economiche e monetarie di alcuni paesi importatori, sia per una
perdita di concorrenzialità degli esportatori che adeguarono i prezzi di vendita
all’aumento dei costi. Si profilava inoltre il pericolo che l’aumento dei prezzi al
consumo desse spazio a una ripresa della lotta operaia nelle fabbriche nonostan­
te la repressione e la vigilanza poliziesca, la pressione dei disoccupati e le in­
certezze e divisioni riscontrabili nella Confederazione generale del lavoro 13. La
seconda metà del 1924 e la prima del 1925 sono caratterizzate da una diffusa
ripresa delle lotte operaie (culminate nello sciopero dei metallurgici del febL ‘economia dei cereali nell’Italia e nel mondo. Evoluzione storica e consistenza attuale della
produzione, del consumo e del commercio. Politica agraria e commerciale, Milano, 1934, p.
215, da cui si ricava che la quota delle importazioni nette sul totale delle disponibilità agra­
rie fu rispettivamente del 41,7% nel corso dell’annata agraria 1922-23, del 23,6% in quella
1923-24, del 34,3% in quella successiva e del 22,9% in quella 1925-26. I dati sono calcolati
a partire da quelli citati in Banca commerciale italiana, Movimento cit., p. 16 e nelle Prospet­
tive economiche del Mortara. Essi non coincidono con quelli citati in ista t , Sommario cit.,
ma l ’ordine di grandezza del fenomeno che si vuole mettere in evidenza non risulta sensi­
bilmente alterato da questa discrepanza.
10 Cfr. riccardo bachi, Variazioni di quantità e di prezzo negli scambi commerciali fra
l ’Italia e l ’estero, in « Rivista bancaria », 1925, p. 292.
11 Ibid., p. 709.
u Le esportazioni italiane tendevano a crescere negli ultimi mesi dell’anno: l’incremento
quantitativo delle esportazioni nel secondo semestre rispetto al primo era stato del 20% nel
1922, del 30% nel 1923, ma solo dell’11% nel 1924 e dell’1% nel 1925. Cifre dedotte da
Riccardo Bachi, art. cit., in « Rivista bancaria », 1924, p. 146 e 1926, p. 294.
13 Preoccupazioni in questo senso sono espresse nelle istruzioni ai prefetti del ministro
dell’Interno Federzoni del 17 ottobre 1924, riportate in Renzo de felic e , Mussolini il fa­
scista. I La conquista del potere. 1921-1925, Torino, 1966, p. 639, intese a sventare i pericoli
per l’ordine pubblico che l ’aumento del prezzo del pane poteva creare. In quell’occasione
doveva essere vivo il timore che le agitazioni contro il carovita colpissero il governo mentre
ancora non era risolta a suo favore la crisi successiva all’assassinio di Matteotti. Se le auto­
rità di governo si fossero dimostrate incapaci di garantire l ’ordine sociale e la stabilità che
il memoriale della Confindustria del 9 settembre 1924 chiedeva a Mussolini, ben più arduo
si sarebbe rivelato il compito del gruppo dirigente fascista di recuperare quegli appoggi e
quel consenso che ne avevano agevolato l’arrivo al governo.
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
9
braio-marzo 1925) che minacciavano la politica di compressione salariale in
atto da oltre un triennio. Un aumento salariale esteso a molte categorie operaie
poteva aggiungersi all’aumento dei prezzi di importazione, aggravando la posi­
zione dell’industria esportatrice. La bilancia dei pagamenti italiana, benché fos­
sero aumentati gli introiti del turismo grazie all’Anno santo e alla svalutazione
della lira e si fossero accresciute anche le rimesse degli emigrati, potè essere
saldata nel 1925 solo grazie ai prestiti esteri.
Insieme con le manovre speculative di importatori ed esportatori, negli ultimi
mesi del 1924 e nei primi del 1925 si verifica una corsa a beni e valori rifugio:
gli investimenti in case e terreni aumentano 14 e piccoli e medi risparmiatori si
affiancarono agli abituali operatori di borsa per accaparrarsi azioni, abbando­
nando i tradizionali impieghi in titoli di stato. L ’indice generale delle quotazio­
ni di borsa, da 107,4 nel dicembre 1923, sale a 163,4 nel dicembre 1924, a
164,4 nel gennaio 1925, a 183,1 nel febbraio 15. Probabilmente anche i più im­
portanti gruppi industriali impegnarono riserve patrimoniali e altre disponibilità
liquide per compravendite di titoli. Il rialzo era sostenuto dai principali istituti
di credito, come accertò un’inchiesta del direttore generale della Banca d ’Italia
condotta presso i direttori delle filiali 16. D ’altra parte l’attività borsistica era
stata fin dal suo inizio regolata dall’azione delle grandi banche che curavano il
collocamento dei titoli presso la propria clientela, ne sostenevano le quotazio­
ni e si accollavano gli stocks invenduti perché dal livello delle quotazioni dipen­
deva sia la riuscita delle emissioni, sia il valore della quota che la banca aveva
trattenuto 17. Di fronte a questa ondata speculativa che rifletteva la diffusa sfi­
ducia nelle sorti della lira, il governo decise di intervenire drasticamente per
ridurre il giro d ’affari borsistico. Il 28 febbraio furono vietati gli acquisti a
termine dei titoli (cioè il canale più importante che alimentava l’attività specu-
14 Gli anni del primo dopoguerra, specie il 1922 e i seguenti, sono caratterizzati da un
forte sviluppo dell’attività edilizia; in termini assoluti il numero delle stanze disponibili
aumenta in modo evidente soprattutto nel triennio 1924-26. Cfr. ornello vitali, La stima
degli investimenti e lo stock del capitale, in Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’eco­
nomia italiana negli ultimi cento anni, voi. I l i , Milano, 1969, p. 489.
15 Vedi Banca commerciale italiana, Movimento cit., p. 141; l ’indice ha base 1913. Le quo­
tazioni della rendita, invece, scesero di quasi tre punti nel gennaio 1925; dopo un recupero
in febbraio (che non riportò tuttavia le quotazioni ai livelli medi del secondo semestre 1924),
continuarono a cadere nei mesi successivi, toccando il minimo in luglio (Ibid., p. 142).
16 « ... I regolatori del mercato sono le grandi banche e i noti gruppi di Milano e Torino... »,
scriveva Del Vecchio [direttore della filiale di Genova della Banca d ’Italia] a Stringher,
24 febbraio 1925, ASBI, PV 16/8; « F r a i responsabili di questa pericolosa situazione non
v’ha dubbio che siano purtroppo da annoverarsi i grandi istituti di credito, i quali in luogo
di moderare questa tendenza al rialzo, al contrario l ’agevolano con larghe sovvenzioni — e
taluno con diretti interventi... », ribadiva Giacomini [direttore della filiale di Milano della
Banca d ’Italia] a Stringher, 26 febbraio 1925, A SBI, PV 16/8.
17 Cfr. R. bachi, Il mercato finanziario italiano 1919-1936, in « Annali di economia del­
l’Università di Milano », X II, 1937, pp. 222-224. La prima importante ondata di colloca­
mento di azioni, su un mercato fino ad allora costituito prevalentemente da titoli di stato o
garantiti dallo stato, si effettuò negli anni 1901-1905 ed ebbe come protagoniste le imprese
che si erano appoggiate alle banche maggiori per svilupparsi in settori nuovi. Sui rapporti
fra banche e imprese e sulle caratteristiche del mercato finanziario in quegli anni vedi franco
bonelli , Osservazioni e dati sul finanziamento dell’industria italiana all’inizio del secolo X X ,
in « Annali della Fondazione L. Einaudi », a. II, 1968, pp. 257-286 e, dello stesso autore,
La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Torino, 1971, pp. 13 sgg.
Dopo la battuta d ’arresto imputabile alla crisi del 1905-1907, il mercato azionario tornò ad
espandersi in concomitanza con la ristrutturazione e il grande sviluppo di alcuni settori in­
dustriali durante la guerra e nell’immediato dopoguerra (1917-1919). Dalla fine del 1922,
comunque, le quotazioni erano in aumento pressoché costante, salvo una modesta crisi dopo
il delitto Matteotti, conclusa però nel settembre 1924.
10
Giancarlo Falco, Marina Storaci
lativa) se non versando immediatamente il 25 per cento del prezzo dei titoli
trattati, mentre in marzo e aprile seguirono altre misure restrittive (l’aumento di
mezzo punto del tasso di sconto, l’aumento di un punto del tasso sulle
anticipazioni, una nuova e più rigida disciplina del funzionamento delle borse)
e la proibizione delle vendite a termine senza versamento immediato del 25 per
cento del valore trattato.
Le disposizioni del ministero delle Finanze frenarono la corsa alla compraven­
dita di titoli e diedero l’avvio a un rapido ribasso delle quotazioni, mettendo
così in difficoltà, in primo luogo, le banche che si trovarono con un portafoglio
titoli in rapida svalutazione e impegnate in cospicue operazioni di riporto. I
provvedimenti sulle borse, inoltre, toglievano alle banche ogni prospettiva di
alleggerire i propri immobilizzi verso le imprese che finanziavano trasforman­
done una parte in emissioni azionarie da collocare presso il pubblico. A ciò si
aggiunga che nella nuova situazione gli istituti di credito dovettero impegnarsi
anche nel sottoscrivere buona parte delle emissioni di capitali già deliberate o
comunque inevitabili. Queste misure, però, ebbero ripercussioni negative anche
per le imprese, molte delle quali (già largamente indebitate verso le banche e
incapaci di accrescere nell’immediato il proprio autofinanziamento) si rivolge­
vano al mercato borsistico per accrescere la propria liquidità e far fronte ai pro­
grammi di investimento. Il risultato complessivo fu una generale riduzione del­
la liquidità del sistema creditizio, aggravata forse dalla speculazione sui cambi
che le banche conducevano in quei mesi. Essa tuttavia non divenne dramma­
tica grazie all’intervento della Banca d ’Italia che allargò la circolazione nel mo­
mento di maggior pesantezza ed estese le operazioni di sconto « nell’intento di
rendere possibile una liquidazione che si annunciava difficile e di allontanare
una crisi di fiducia che avrebbe potuto avere non desiderate conseguenze per
l’economia generale » 18.
Le misure sulle borse ebbero, però, un ruolo determinante nel provocare le di­
missioni forzate del ministro delle Finanze e di quello dell’Economia nazionale 19.
Contro l’azione di De’ Stefani alle Finanze si erano già occasionalmente mani­
festate critiche e opposizioni da parte di singoli settori industriali, lesi in specifi­
ci interessi; nel complesso però le sue direttive di politica fiscale, monetaria e
“ Banca d ’Italia, Adunanza generale ordinaria degli azionisti tenuta in Roma il giorno 31
marzo 1926, Roma, 1926, p. 22. La circolazione degli istituti di emissione nel 1925 aumentò
di 1,2 miliardi circa e le operazioni attive di 2 miliardi circa, un aumento enorme e non
giustificato dall’aumento dei prezzi, se si paragona con quello di 200 milioni verificatosi
nel 1924.
19 Le dimissioni di De’ Stefani furono agevolate dall’indebolirsi della sua posizione nel
partito fascista quando Farinacci ne fu nominato segretario. Il ministro delle Finanze aveva
fama di moderato (come confermavano le sue posizioni nel corso della recente crisi politica)
e il suo rigido liberismo dottrinario contrastava con il dirigismo ostentato da molti settori
del partito. Per un esame dei rapporti fra D e’ Stefani e il mondo industriale cfr. Roland
sarti , Fascism and thè industriai leadership in Italy, 1919-1940. A study in thè expansion
of private power under Fascism, Berkeley-Los Angeles-London, 1971, pp. 50-58, Adrian lyt tleton , La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, 1974, pp. 516-17, 542-48
e r . de felic e , Mussolini il fascista. I L L'organizzazione dello stato fascista 1925-1929, To­
rino, 1968, pp. 87-90. Ma questo autore sembra accettare troppo affrettatamente la convinzione
— ripresa da « Lo stato democratico » — che « D e’ Stefani aveva in due anni e mezzo <re­
sistito tenacemente, ostinatamente alle maggiori pressioni che sono state esercitate su di lui,
perché il Tesoro dello Stato diventasse il Tesoro dei singoli >» (ibid., p. 90) e vede nella
caduta di D e’ Stefani e nella sua sostituzione con Volpi una sconfitta di Mussolini (e in
definitiva di tutto il fascismo) ad opera degli industriali. Sull’atteggiamento del ministro del­
le Finanze durante la crisi Matteotti vedi r . de felic e , Mussolini il fascista. I, cit., in par­
ticolare le pp. 645, 703-04.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
11
di spesa pubblica si erano rivelate conformi a ciò che banchieri e industriali si
attendevano, negli anni di congiuntura favorevole, dal suo ministero. Nei primi
mesi del 1925, però, la gravità e l’urgenza dei problemi che si presentavano
all’economia italiana sia sul piano interno che internazionale minacciavano di
estendere l’effetto dei provvedimenti deflazionistici del ministro delle Finanze
ben oltre l’obiettivo iniziale, trasformandoli nell’inizio di una crisi. Per questo
il giudizio negativo contro De’ Stefani fu unanime da parte dei diversi gruppi
economici, ormai convinti che solo un più diretto controllo nell’elaborazione
della politica economica governativa offrisse sufficienti garanzie: tanto più che
era ormai avviato il processo di trasformazione istituzionale dello stato che do­
veva permettere al fascismo di superare, con una nuova svolta autoritaria, la
crisi politica nata dall’assassinio di Matteotti e ciò imponeva una vigile parteci­
pazione all’elaborazione delle misure che si andavano realizzando.
Le vicende economiche italiane nel primo semestre del 1925 misero in luce, per
un verso, le debolezze presenti nella posizione internazionale dell’Italia. Il
saldo della bilancia dei pagamenti veniva assicurato da partite invisibili il cui
comportamento dipendeva in misura prevalente dalla congiuntura internazio­
nale e dalla politica economica perseguita nei diversi stati da cui giungevano
le partite attive. Gli introiti turistici erano estremamente aleatori; le rimesse
degù emigrati, negli anni venti, risultavano minacciate dalla profonda trasfor­
mazione intervenuta nella distribuzione geografica dell’emigrazione italiana do­
po la guerra mondiale. Il Quota Act che entrò in vigore negli Stati Uniti nel
1923, due anni dopo la sua promulgazione, limitò drasticamente l’immigrazione
italiana in quel paese ed effetti ancor più gravi ebbe un analogo provvedimento
del 1924 entrato in vigore nel 1925. Argentina e Brasile imitarono il governo
americano, imponendo anch’essi dei limiti all’immigrazione, per cui in meno
di cinque anni si chiusero i paesi verso cui si era diretta la maggior parte de­
gù emigrati italiani a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo. Negli anni
venti una quota crescente di emigrati italiani si diresse verso paesi europei: Sviz­
zera, Belgio e soprattutto Francia. Belgio e Francia, però, subivano nella prima
metà degli anni venti un processo inflazionistico che provocava, attraverso am­
pie fluttuazioni, la progressiva svalutazione delle loro monete, addirittura ri­
spetto alla lira 20, per cui il valore delle rimesse provenienti da quei paesi era
soggetto a oscillazioni e ribassi21. Molte esportazioni, inoltre, presentavano un
elevato grado di elasticità nei confronti delle fluttuazioni di reddito dei paesi a
cui erano dirette, trattandosi di prodotti non essenziali e comunque soggetti a
forte concorrenza, mentre le importazioni italiane risultavano notevolmente
più rigide, trattandosi di prodotti essenziali per l’attività delle industrie o di
alimentari che l’agricoltura italiana non produceva in misura adeguata ad un
consumo in leggero aumento22.
20 Per un’analisi più dettagliata vedi Giancarlo falco e marina storaci, Fluttuazioni mo­
netarie alla metà degli anni '20: Belgio, Francia e Italia, in « Studi Storici » a. XVI, 1975,
n. 1, pp. 57-101, a cui si rinvia anche per un esame più preciso delle differenze nella situa­
zione di ognuno dei paesi considerati.
21 È possibile tuttavia che l’instabilità monetaria dei due paesi favorisse un rapido trasfe­
rimento verso l ’Italia delle rimesse, attenuando almeno in parte gli effetti negativi della pro­
gressiva svalutazione delle divise così ottenute. Per valutare più esattamente l’incidenza dei
mutamenti intervenuti nella distribuzione degli emigrati italiani sul volume delle rimesse,
occorrerebbe prendere in considerazione anche le diversità esistenti fra condizione sociale
e professionale degli emigrati oltre oceano e degli emigrati in Europa per intendere quale
differenza di redditi esse comportassero.
22 Per un’indicazione in questo senso si veda ista t , Sommario cit., p. 134, da cui risulta
un aumento nel consumo medio per abitante di alcuni generi alimentari nel periodo che ci
12
Giancarlo Falco, Marina Storaci
Il peggioramento della lira, primo frutto del deterioramento della bilancia dei
pagamenti, mise in luce, a sua volta, gravi carenze della struttura finanziaria
interna. Il declino dell’attività di borsa bastò a mettere in serio pericolo tutto
il sistema finanziario su cui poggiavano gli investimenti, proprio mentre la pres­
sione sui prezzi, non imputabile solo al deprezzamento della lira, indicava resi­
stenza di un divario effettivo fra domanda di beni e capacità produttiva del si­
stema economico. Il ricorso al capitale estero, una misura tradizionale nell’espe­
rienza dello sviluppo economico italiano, apparve la soluzione appropriata di
questa difficile situazione.
Negli anni venti un appoggio finanziario esterno poteva provenire solo dagli
Stati Uniti, già largamente intervenuti in Europa sia a favore dei governi per le
operazioni connesse alle stabilizzazioni monetarie di alcuni paesi, sia a favore
di imprese. L ’accesso al mercato finanziario di New York, tuttavia, era subor­
dinato dal governo americano al raggiungimento di un accordo sui prestiti in­
tergovernativi che l’Italia, come numerosi altri paesi, aveva ottenuto durante
e subito dopo la guerra23. Questa condizione, ribadita nel 1925, era l’espres­
sione attuale di una posizione assunta fin dal 1919. Quell’anno il partito repub­
blicano condusse la campagna elettorale e vinse le elezioni presidenziali propo­
nendo di far pagare senza esitazioni i debiti che gli stati europei avevano con­
tratto fino a quel momento, secondo la tesi che gli aiuti americani avevano
rappresentato in primo luogo veri e propri affari e non la realizzazione di un
impegno morale a cui gli Stati Uniti non potevano sottrarsi e la cui contropar­
tita era costituita dall’esito vittorioso della guerra. Inoltre nel Congresso era
radicata la convinzione che i rimborsi ottenuti dall’Europa permettessero di
alleggerire le imposte che gravavano sui cittadini americani.
All’inizio del 1925, proprio in concomitanza con il peggioramento della bilan­
cia dei pagamenti italiana e del corso della lira, gli Stati Uniti espressero un’as­
soluta intransigenza sul problema dei debiti interalleati e ciò costituì un’ulte­
riore e consistente ragione per speculare al ribasso della lira e delle altre monete
che potevano essere danneggiate dall’imposizione americana. Oltre all’Italia i
principali debitori degli Stati Uniti che ancora dovevano sistemare la loro posi­
zione erano il Belgio e la Francia. Le loro monete si trovarono così contempo­
raneamente indebolite dalla prospettiva di un peggioramento delle bilance dei
pagamenti provocato dai rimborsi che avrebbero dovuto effettuare; tanto più
che gli Stati Uniti si rifiutavano di collegare i pagamenti dei loro debitori alle
riparazioni tedesche.
interessa. Sull’agricoltura italiana vedi ester Fano damascelli , Problemi e vicende dell’agri­
coltura italiana tra le due guerre, in « Quaderni Storici », a. X, 1975, nn. 29-30, pp. 468-496.
23 I Combined annual reports of World War foreign Debt Commission del gennaio 1925
esprimevano in questi termini il legame fra pagamenti dei debiti di guerra e concessione di
crediti americani: « [...] in seguito a molte considerazioni si decise che era contrario al vero
interesse degli Stati Uniti permettere a governi esteri che rifiutassero di regolare o di com­
piere un ragionevole sforzo per regolare i loro debiti verso gli Stati Uniti, di reperire in
questo paese una qualsiasi parte dei finanziamenti di cui necessitano. Stati, municipalità e
imprese private dei paesi interessati sono inclusi nel divieto. Ai banchieri che hanno consul­
tato il Dipartimento di Stato è stato notificato che il Governo era contrario a tali finanzia­
menti » cit. in Richard h . meyer , Bankers’ diplomacy. Monetary stabilization in thè twenties, New York-London, 1971, p. 18. Il problema dei debiti di guerra vedeva anche contrap­
posti gli interessi dei banchieri americani, convinti che il peso dei debiti europei dovesse es­
sere alleggerito, e gli industrali, convinti invece che i debiti di guerra potessero trasformarsi
in un mezzo per acquisire forme di investimento diretto nei paesi europei e che potessero
comunque costituire un utile elemento di contrattazione per abbattere la protezione tariffa­
ria dei paesi debitori e delle loro colonie. Cfr. Charles p . parrini, Heir to Empire. United
States economie diplomacy, 1916-1923, s i., 1969, pp. 265-267.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
13
Il contesto internazionale sfavorevole alle tre monete era ulteriormente appe­
santito dalla grave situazione monetaria della Francia. A differenza di Belgio e
Italia, questo paese non aveva messo in atto dopo la guerra una politica defla­
zionistica nei confronti della spesa pubblica, contando più degli altri sulla pos­
sibilità di far ricadere sulla Germania le spese della propria ricostruzione. Si
succedettero così, fino al 1926, i deficit del bilancio statale, coperti con remis­
sione di buoni del tesoro e altri titoli che le banche riscontavano presso l ’isti­
tuto di emissione, facendo aumentare la circolazione monetaria. La massiccia
domanda dello stato e dei privati continuò a stimolare l’aumento dei prezzi an­
che dopo la crisi del 1920-21, mentre la sfiducia nel franco cresceva, dando
origine a fughe di capitali all’estero, diventate consistenti soprattutto dopo la
vittoria elettorale di una coalizione di sinistra moderata nel maggio 1924. La
sfiducia nella capacità del Cartel des gauches di porre un freno all’inflazione e
l’opposizione ai suoi tentativi di una riforma fiscale, coincisero con la scadenza
di una massa ingente di titoli del debito pubblico, quasi uguale alla metà della
circolazione monetaria. La maggior parte dei detentori dei buoni, invece di rin­
novare la sottoscrizione dei titoli come fino ad allora avevano fatto, ne chie­
sero il rimborso, costringendo il Tesoro a ricorrere alla banca centrale per ono­
rare i suoi impegni. Benché quest’eventualità fosse stata prevista, il Cartel des
gauches non aveva potuto consolidare forzosamente il debito fluttuante, o una
sua parte, per l’opposizione dell’« alta banca » che deteneva una parte dei buo­
ni 24. Con l’allargamento della circolazione si accentuò l’inflazione e la fuga dal
franco: tra il maggio 1925 e il luglio 1926 la moneta si deprezzò del 61 per
cento rispetto al dollaro, influenzando negativamente le altre due monete non
stabilizzate, il franco belga e la lira, che oscillarono nel medesimo senso del
franco francese per circa un anno, salvo un intervallo di alcuni mesi tra l’autun­
no 1925 e la primavera del 1926.
Tuttavia la diversità delle condizioni interne di Belgio e Italia rispetto alla Fran­
ca convinsero i rispettivi governi che esistevano i presupposti per tentare di
risolvere più rapidamente della Francia il problema della stabilizzazione mone­
taria e che occorresse a questo scopo sganciare al più presto la propria moneta
dall’influenza negativa del franco francese. Per questi motivi Belgio e Italia si
affrettarono a concludere nel 1925 (rispettivamente in agosto e novembre) un
accordo con gli Stati Uniti sui debiti di guerra e ottenere, pur in forme molto
diverse, l’appoggio delle banche americane per stabilizzare le loro monete. Per
quanto riguarda l’Italia, la vertenza relativa ai debiti di guerra si concluse il
19 novembre e il giorno successivo veniva emesso a New York un prestito
obbligazionario dello stato italiano di 100 milioni di dollari, il cui ricavato do­
veva servire a stabilizzare la lira e ad aumentare le riserve auree. Poco dopo, a
dicembre, fu lanciato, sempre sul mercato di New York, il primo prestito a
favore di un’impresa privata italiana, la Edison, rendendo esplicito che, per
l’Italia, l ’obiettivo della stabilizzazione monetaria si intrecciava con il migliora­
mento delle finanze aziendali dei maggiori gruppi industriali del paese.
I primi tentativi di stabilizzazione monetaria: in Italia e in Belgio
La prima linea di condotta dell’Italia di fronte al peggioramento della lira ri­
sultò commisurata alla non eccessiva ampiezza della svalutazione nei primi mesi
del 1925. La Banca d’Italia, attraverso l ’Istituto nazionale per i cambi con
l’estero, decise di limitarsi a contrastare con vendite di divise le operazioni ai
24
Cfr. Raymond ph ilippe , Le drame financier de 1924-1928, Paris, 1931, pp. 77-78.
14
Giancarlo Falco, Marina Storaci
danni della lira quando queste erano più intense, nella speranza che la sua sem­
plice presenza sul mercato convincesse gli speculatori che le loro operazioni al
ribasso erano destinate a fallire. Pur ridotti in questi termini, gli obiettivi delle
autorità monetarie rischiavano di essere difficilmente perseguibili perché il fon­
do di divise di cui potevano disporre era estremamente esiguo, benché avessero
cercato di aumentarlo nel corso del 1924 approfittando di una più favorevole
posizione della lira. Anche a questo riguardo solo gli Stati Uniti in quel mo­
mento potevano fornire in misura adeguata i fondi di cui l’Italia aveva bisogno
per fronteggiare la caduta della lira.
I primi contatti in proposito fra i due paesi si stabilirono nel gennaio: anzi, fu­
rono le due maggiori banche americane, tra loro rivali, la National City Bank
di New York di Rockfeller, e la J.P . Morgan, a offrire un’apertura di credito
alla Banca d’Italia25. Fra le due, Stringher scelse la banca dei M organ26 e trat­
tò le condizioni di un credito di entità modesta: 5 milioni di dollari, ottenuti a
fine gennaio. Lo scopo principale dell’operazione, contenuta nei limiti di una
« ordinaria trattazione bancaria », come la definirono gli americani27, e decisa
in un momento in cui il peggioramento della moneta era limitato, era di uscire
dall’isolamento finanziario in cui l’Italia si trovava dalla fine della guerra, sta­
bilendo un primo legame con una banca fra le più importanti del mondo, già
largamente intervenuta in Europa per sostenere Inghilterra e Francia durante
le recenti crisi monetarie. Pochi giorni prima dell’accordo, Stringher scriveva
a De’ Stefani: « Avrei in animo di accettare tale offerta [di 5 milioni di dol­
lari] e ne sto infatti trattando le condizioni e ciò [...] anche nell’intento di
stabilire con la casa Morgan più stretti e cordiali e continuativi rapporti che
potrebbero tornare molto utili qualora, in avvenire, si ravvisasse l’opportunità
di ricorrere ad essa per operazioni di maggior volume » 28.
Le circostanze previste dal direttore generale della Banca d ’Italia si verificarono
alla fine di maggio, quando la lira subì un improvviso peggioramento. Questa
volta fu la Banca d ’Italia a sollecitare una seconda apertura di credito ben più
rilevante della prima: 50 milioni di dollari che dovevano essere utilizzati, se­
condo gli accordi tra le parti, con criteri analoghi a quelli del primo credito,
per moderare cioè le oscillazioni del cambio senza pretendere di migliorarlo,
obiettivo che avrebbe avuto come unica conseguenza di consumare e sprecare
25 II ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Economica presentato al­
l’Assemblea Costituente, voi. I l i , Problemi monetari e commercio estero, t. 1, Relazione,
Roma, 1946, p. 60, indica che nel 1924 la Banca d ’Italia ottenne un’anticipazione a breve ter­
mine da banchieri americani per sostenere il cambio. È probabile che si tratti dello stesso
prestito indicato qui come risalente al gennaio 1925. È verosimile che la trattativa per otte­
nerlo risalisse alle ultime settimane del 1924, anche se di queste gli autori non hanno trovato
finora traccia negli archivi della Banca d ’Italia. Sulle proposte fatte dalle due banche ame­
ricane vedi il carteggio in ASBI, PV 1/7.
“ La scelta di Stringher privilegiava la banca d ’investimento che da maggior tempo si era
impegnata nel finanziamento di enti pubblici e privati in Europa sfruttando una politica di
alleanza con il sistema bancario inglese e che aveva maggiori contatti con il Tesoro americano
e la Federai Reserve Bank di New York. Essa era il portavoce degli interessi più propria­
mente finanziari del capitalismo americano, mentre la National City Bank, una banca com­
merciale, si orientava soprattutto verso l ’America Latina e l ’Asia ed era legata agli interessi
industriali (particolarmente petroliferi). Essa era fortemente concorrenziale nei confronti del­
le banche inglesi e favoriva la creazione di un sistema finanziario e commerciale mondiale
indipendente da quello inglese e sotto controllo americano. Cfr. CH. p . parrini, Heir to
Empire cit., pp. 55-65.
27 Vedi il telegramma di J . P. Morgan a G. Fummi, s.d., ASBI, PV 16/1.
“ Vedi la lettera di Stringher a D e’ Stefani, 26 gennaio 1925, ASBI, PV 1/7.
Il ritorno all'oro in Belgio, Francia e Italia
15
il credito stesso29. Le divise messe a disposizione dell’Italia furono immediata­
mente intaccate per contrastare il deprezzamento della lira ai primi di giugno,
e poi nuovamente in luglio. All’inizio di quel mese il cambio cadde addirittura
del 18 per cento rispetto alle quotazioni precedenti: solo a prezzo di massicci
acquisti di lire l’INC riuscì a far risalire la lira e a contenere la svalutazione
entro il 10 per cento circa. Ai primi di luglio, mentre il suo fondo di divise
andava rapidamente esaurendosi, la Banca d’Italia cercò di ottenere un amplia­
mento del credito concesso poco più di un mese prima dai M organ30. Per parte
sua il governo, che stava trattando con gli Stati Uniti il problema dei debiti di
guerra, chiese formalmente agli americani verso la fine di luglio di rivedere le
loro posizioni negative sulla concessione di prestiti. Sottolineando la grave ca­
duta della lira, Mussolini tentò di rovesciare la logica del governo statunitense:
se i due paesi avessero trovato un accordo sui debiti di guerra senza un preven­
tivo intervento stabilizzatore nei confronti della lira da realizzarsi con un presti­
to americano, l’Italia si sarebbe trovata nell’impossibilità di far fronte al pa­
gamento dei debiti stessi. Ma gli Stati Uniti respinsero sistematicamente que­
ste richieste allo scopo di affrettare una soluzione a proprio vantaggio delle
trattative sui debiti di guerra; in particolare, rifiutarono, verso la fine di agosto,
un prestito per opere pubbliche destinato alle città di Milano e Napoli che sa­
rebbe stato, in realtà, un prestito indiretto al governo31. La condizione finan­
ziaria del paese era precaria e ben evidente la dipendenza dagli Stati Uniti. D ’al­
tra parte i due crediti ottenuti dalla Banca Morgan nella prima metà del 1925
smentivano solo parzialmente la linea intransigente delle autorità statunitensi
perché ad essi si era voluto dare il carattere (con insistenza sottolineato dalle
parti) di normali iniziative bancarie, per di più temporanee, perché solo in que­
sti termini limitativi potevano essere accettati dal Dipartimento di stato 32. In
realtà il governo americano era disposto ad accettare l’intervento delle banche
del proprio paese se si trattava di salvare da una situazione senza uscita un
paese debitore (come accadde per la Francia nella crisi del marzo 1924), per le
ripercussioni negative che le sue difficoltà avrebbero avuto sul sistema mone­
tario e commerciale internazionale nel suo complesso. Contemporaneamente
però, esso intendeva sottolineare l’eccezionaiità di simili interventi per conser­
vare tutti i propri mezzi di pressione sui debitori europei.
Sotto la spinta della pesante svalutazione estiva della lira (che rischiava di ag­
gravare oltre il limite delle compatibilità, se si fosse prolungata, il disagio e le
tensioni sociali interne) e di fronte all’impossibilità di ottenere crediti per l’in­
dustria e lo stato al di fuori di un accordo sui debiti di guerra (ciò che im­
plicava uno sforzo deciso per migliorare le condizioni monetarie interne),
maturò nelle autorità monetarie italiane un sostanziale cambiamento di intenti
rispetto alla prima metà dell’anno. Non solo esse fecero in modo di superare
rapidamente le difficoltà emerse durante le discussioni sui debiti di guerra e
concordarono tra agosto e settembre le grandi linee di un accordo, ma valendosi
del prestito Morgan decisero di rivalutare la lira del 9-10 per cento e di stabiliz­
zarla di fatto attorno alla quota 120 rispetto alla sterlina. Era pressapoco il
29 Cfr. la corrispondenza tra Stringher e D e’ Stefani, 2-5 giugno 1925, ASBI, PV 16/2.
30 Vedi la lettera di J . P. Morgan a G. Fummi, 7 luglio 1925, ASBI, PRX.
31 Vedi il carteggio Mussolini-De Martino dell’agosto 1925, ACS, Carte Volpi, b. 11.
32 Vedi Gian Giacomo migone, Aspetti internazionali della stabilizzazione della lira: il pia­
no. Leffingwell in Problemi di storia nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, Torino, 1971, p. 44.
I banchieri americani, interessati a promuovere prestiti e investimenti in Europa, seguivano
una strategia diversa da quella proposta dal Congresso e consistente nel ricercare contatti
diretti con le banche centrali e con altri importanti istituti di credito europei.
16
Giancarlo Falco, Marina Storaci
livello di cambio che la moneta italiana aveva prima della crisi; rispetto ai li­
velli medi del 1923 e 1924 quota 120 comportava una svalutazione di qualche
punto, ma era un livello di cambio « da tutti riconosciuto corrispondente pie­
namente alla situazione della bilancia dei pagamenti dell’Italia », secondo una
opinione diffusa negli ambienti del Tesoro33.
Un cambiamento ai vertici del potere politico (la sostituzione di De’ Stefani con
Volpi al ministero delle Finanze) sottolineò la svolta di politica monetaria; ma
mutarono anche i rapporti interni fra Tesoro e Banca d ’Italia. I problemi mo­
netari presentatisi nel corso del 1925 erano stati affrontati e gestiti nei loro
aspetti più delicati e rilevanti dal solo direttore generale della Banca d ’Italia,
le cui decisioni erano state avallate da De’ Stefani. Era stato Stringher a pro­
muovere nel gennaio i primi contatti con gli Stati Uniti; e furono le sue preoc­
cupazioni a spingerlo, nel breve spazio di una settimana, a contrattare con i
Morgan entità, durata, forme della seconda apertura di credito e a condurre
le successive operazioni sul mercato dei cambi. In quel momento, d ’altra parte,
dopo le sfortunate misure sulle borse, il prestigio politico di De’ Stefani era
compromesso. Nell’agosto 1925, invece, il nuovo ministro delle Finanze pre­
se in mano la direzione delle operazioni nei confronti della lira, decidendo
per suo conto il rialzo del cambio fino a quota 120 e la difesa di quel corso
nei mesi successivi. Lo stesso INC fu costretto ad abbandonare la tutela diretta
del mercato delle divise, sua principale funzione istituzionale; per un certo
periodo continuò a svolgere alcune limitate operazioni sui mercati esteri, finché
nel dicembre 1925 ebbe termine ogni sua residua autonomia perché Volpi de­
cise di impartire lui stesso gli ordini ai rappresentanti all’estero dell’Istituto34.
All’inizio di settembre il Tesoro (dopo qualche intervento in agosto) lanciò
un’operazione di rastrellamento di lire che per l’ampiezza dei mezzi usati e la
pubblicità con cui le autorità monetarie operavano, ebbe un rapido successo:
in sei giorni la lira si rivalutò del 10 per cento rispetto alle principali monete
auree e 1*8 settembre la borsa di New York quotò la sterlina a 114 lire, risultato
che il Tesoro ritenne eccessivo, tanto che invertì per qualche giorno il senso
dei propri interventi e vendette lire. Il frutto degli interventi « d ’urto » dell’agosto-settembre fu il raggiungimento della quota media mensile per quest’ultimo
mese di 119,5 rispetto alla sterlina; questo livello di cambio fu mantenuto per
circa otto mesi attraverso un continuo controllo del mercato e operazioni arti­
colate e complesse dal punto di vista tecnico-finanziario. La stabilizzazione di
fatto della lira non si inseriva però ancora in un piano esplicito di ritorno all’oro:
l’Italia si muoveva in quel momento con estrema cautela attendendo di verificare
gli svolgimenti della situazione monetaria in Belgio e in Francia. Quando però
il successo iniziale di quota 120 fu rinsaldato dalla conclusione dell’accordo con
gli Stati Uniti sui debiti di guerra e dalla stipulazione del prestito di 100 milioni
di dollari allo stato, Volpi, che aveva diretto a New York la fase finale di en­
trambe le trattative, prima di rientrare in Italia si dichiarò pronto a stringere i
tempi del ritorno al gold standard e si spinse fino ad indicare nel febbraio 1926
il « periodo propizio per il ritorno all’oro » 35.
!! Memoria del Direttore Generale del Tesoro Pace a Volpi del 23 dicembre 1925, ASBI,
Op.F. 297 e ACS, Carte Volpi, b. 1, fase. «Relazioni del Direttore Generale del Tesoro»,
cit. anche in R. de felic e , I lineamenti politici di « quota 90 » attraverso i documenti di
Mussolini e di Volpi, in « Il Nuovo Osservatore politico economico sociale », a. V II (n.s.),
1966, n. 50, pp. 374-376.
34 Cfr. lettera di Volpi a Stringher, 12 dicembre 1925, ASBI, PS 11/20.
55 Vedi G. G. migone, Aspetti internazionali cit., p. 49.
Il ritorno all'oro In Belgio, Francia e Italia
17
Il viaggio di Volpi negli Stati Uniti alla fine del 1925 rappresentò il momento
di maggior successo per la politica monetaria di quota 120. Mentre i cordiali
rapporti fra i due stati si traducevano immediatamente nel lancio di prestiti ob­
bligazionari da parte delle imprese italiane, la lira si manteneva stabile sul mer­
cato dei cambi, differenziandosi dal franco francese che continuava ad oscillare
e peggiorare e si svalutò, fra il settembre e il dicembre del 1925, del 26 per
cento circa rispetto a dollaro e sterlina e del 20 per cento rispetto alla lira. Ma
proprio l’andamento sfavorevole del franco francese rese difficile la manovra di
difesa di quota 120 a partire dall’inizio del 1926. Nel febbraio-marzo il franco at­
traversò una nuova crisi, mentre contemporaneamente falliva (come vedremo) un
tentativo di stabilizzazione del Belgio. Questi fatti, di per sé, indebolivano la posi­
zione della lira: come scrisse Volpi a Mussolini, « [...] il distanziamento preso
dalla lira sui due franchi aizzava la speculazione internazionale che non consi­
derava, come non considera, che la lira abbia consistenza intrinseca corrispon­
dente alla sua valutazione in proporzione alle altre due monete dei vicini » 36.
Dopo l’aprile 1926 la manovra di difesa della lira divenne insostenibile. Il 13
maggio il Tesoro decise di sospendere gli interventi diretti sul mercato e la lira
si svalutò tra il maggio e l’agosto del 17-18 per cento rispetto a dollaro e
sterlina, condividendo in questo periodo le oscillazioni e il peggioramento dei
due franchi. La manovra di Volpi non aveva raggiunto l’obiettivo proposto di
rompere in modo definitivo le relazioni fra la lira e il franco francese; ottenne
però il risultato di portare il valore della lira rispetto a dollaro e sterlina a fivelli molto superiori a quelli che il franco francese aveva rispetto ad essi. Anche
la crisi dei cambi dell’estate 1926 ebbe effetti molto più gravi sul franco che si
svalutò di circa il 67 per cento rispetto al dollaro fra aprile e luglio.
Il fallimento italiano era stato preceduto di alcune settimane da quello, politi­
camente ben più grave, del Belgio. In questo caso infatti la stabilizzazione di
fatto del franco era parte di un programma di riforma fiscale e monetaria che
aveva come obiettivo il ritorno a una parità di cambio fissa e il controllo del­
l’inflazione. Il programma era stato varato da un governo di coalizione riformi­
sta (comprendente i socialisti, la frazione democratica del partito cattolico e
alcune personalità liberali), che si era formato (dopo molte opposizioni e alcu­
ni tentativi di dar vita a governi diversi) per rispecchiare lo spostamento a si­
nistra dell’elettorato nelle consultazioni politiche del 1925.
Appena insediato, il governo dovette fronteggiare un netto peggioramento della
situazione di cassa del Tesoro e una caduta del cambio. Lo stato aveva accu­
mulato (e continuava ad accumulare) un importante debito a breve termine con
cui finanziava un bilancio in deficit, ma appena furono noti i risultati elettorali
le richieste di rimborso dei buoni del tesoro divennero più numerose, metten­
do in serio imbarazzo il Tesoro. Una parte di questi buoni, inoltre, apparteneva
a stranieri che ritiravano le proprie disponibilità dal Belgio, provocando un peg­
gioramento della bilancia dei pagamenti che veniva aggravato dalle operazioni
di banche e privati belgi che cercavano di trasformare i propri buoni del Tesoro
in divise e titoli esteri. La banca centrale intervenne per sostenere il corso del
franco, ma senza successo, a causa anche del contemporaneo peggioramento del
franco francese. Le autorità monetarie belghe giudicarono indispensabile rompe­
re il legame con il franco francese per migliorare la situazione monetaria del
proprio paese e il primo passo in questo senso fu una rapida conclusione delle
36 Lettera di Volpi a Mussolini, 12 maggio 1926, cit. in r . de felic e , I lineamenti politici
cit., p. 396.
18
Giancarlo Falco, Marina Storaci
trattative per consolidare il debito di guerra con gli Stati Uniti (il 18 agosto
1925), dal momento che solo a questa condizione il Belgio (che già aveva ri­
cevuto un prestito dai Morgan in giugno) avrebbe ottenuto le divise necessa­
rie alla manovra sul mercato dei cambi. Nello stesso mese Janssen, ministro del
Tesoro, mise a punto un piano di riforma monetaria e delle misure fiscali che
dovevano assicurare il pareggio del bilancio nel 1926. A metà settembre ini­
ziarono gli interventi della banca centrale sul cambio per stabilizzarlo a 107
franchi per sterlina: 1/4 circa del valore prebellico e una leggera svalutazione
rispetto alle medie annuali degli anni precedenti3738. Ma queste operazioni erano
sostenute da un fondo di divise relativamente limitato e che avrebbe dovuto
essere integrato in un secondo tempo dai crediti di banche centrali e banchieri
privati esteri. In realtà le trattative (protratte per molti mesi) per ottenere i
crediti privati fallirono perché i Morgan, che dirigevano il consorzio di banchieri,
non ritennero le misure fiscali sufficienti a garantire il pareggio del bilancio sta­
tale. Fallì anche il tentativo di consolidare il debito fluttuante con la trasfor­
mazione volontaria di una sua parte in titoli a lungo termine, nonostante le con­
dizioni estremamente vantaggiose della conversione3S.
Questo fallimento rese definitivamente incontrollabile la situazione monetaria,
poiché i rimborsi dei buoni accrescevano le disponibilità liquide di cui si valeva
chi speculava sui cambi ed esportava capitali. Gli ambienti economici procla­
mavano ormai apertamente che quota 107 era insostenibile perché troppo alta
e di questa opinione si dichiararono anche Montagu Norman e Benjamin Strong,
rispettivamente governatore della Banca d ’Inghilterra e della Federal Reserve
Bank di New York, sotto il cui patrocinio si sarebbe dovuta realizzare la sta­
bilizzazione. Nel marzo 1926, mentre si intensificava la speculazione contro il
franco, fallirono le ultime trattative per ottenere un prestito in divise. Il 15
marzo, dopo aver impiegato 20 milioni di dollari in soli due giorni, il governo
abbandonava la difesa del franco39: sei mesi dopo esso si era svalutato del 72
37 Media annuale del cambio franco belga-sterlina (franchi per sterlina): 1923: 88,5; 1924:
96,03; 1925: 101,78.
38 Vedi Ferdinand baudhuin , La stabilisation et ses conséquettces, Paris-Bruxelles, 19282,
p. 89.
3’ Sul fallito tentativo di stabilizzazione belga cfr. R. H. m eyer , Bankers’ diplomacy cit.,
pp. 17-25 e lester v. chandler, Benjamin Strong centrai banker, Washington, 1958, pp.
338-347. f . baudhuin , in La stabilisation cit., sottolinea il problema del debito fluttuante
e chiarisce il carattere di confronto politico presente nelle richieste di rimborso dei buoni del
Tesoro. Cfr. dello stesso autore, Histoire économique de la Belgique 1914-1939, t. I, Bruxel­
les, 1946, pp. 153-162. In queste opere manca un’analisi sufficientemente articolata della na­
tura degli interessi che si scontrarono sulla stabilizzazione del franco a quota 107. Si può
avanzare l’ipotesi, per esempio, che una causa del fallimento di questo tentativo fosse il ti­
more degli industriali esportatori (avvantaggiati dalla progressiva svalutazione della loro
moneta) di veder messa in pericolo la propria concorrenzialità rispetto agli industriali fran­
cesi dalla definizione di una parità che sopravvalutava il franco belga rispetto a quello fran­
cese, ancora fluttuante e in progressiva svalutazione. In quegli anni non solo la Francia era
uno dei principali partner commerciali del Belgio, ma le principali esportazioni industriali di
questo paese (prodotti metallurgici, meccanici, chimici, veicoli, tessili) coincidevano con
quelli della Francia e si indirizzavano sugli stessi mercati. Va sottolineato, infine, che esisteva
uno stretto legame tra i principali istituti finanziari e di credito belgi e gli ambienti finanziari
internazionali e che ciò probabilmente influì sul progressivo irrigidimento di questi ultimi nei
confronti del govèrno belga. Infatti, una riunione tra Janssen e i banchieri belgi del 28 set­
tembre 1926, intesa a definire un piano di azione comune tra il Tesoro e i banchieri era
praticamente fallita: questi ultimi destinarono alle operazioni sui cambi solo 60 milioni di
franchi. V. R. h . m eyer , Bankers' diplomacy cit., p. 20; henry l . shepherd , The monetary
experience of Belgium, 1914-1936, Princeton, 1936, pp. 131-133 e valéry ja n sse n s , De
inflatie na de cevste wereldoorlog en de stabilisatie van de belgische frank, in Archives Généra-
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
19
per cento circa rispetto al dollaro e alla sterlina e fluttuava insieme con la lira
e il franco francese e il Belgio era retto da un governo di coalizione nazionale
in cui prevalevano cattolici e liberali conservatori e che disponeva dei pieni
poteri per ridare la stabilità al paese.
Le riforme monetarie. Quota 175 in Belgio
Dopo la crisi della metà di marzo e il « lunedì nero » che segnò l’abbandono
di quota 107, il governo democratico fu investito da aspre polemiche in Par­
lamento e sulla stampa; ciò nonostante rifiutò di cedere alle richieste dell’oppo­
sizione che indicava due misure drastiche per alleggerire subito la posizione de­
bitoria dello stato: l’aggravamento delle imposte di consumo e il passaggio
della rete ferroviaria a una società condotta con metodi privatistici, in modo
da realizzare un profitto. Le proposte della destra relative alle ferrovie per il
momento vennero respinte anche per la violenta opposizione dei lavoratori: i
dipendenti delle poste minacciarono lo sciopero generale, gli operai metallurgici
organizzarono manifestazioni e scioperi. Uno degli slogans era: « le nostre fer­
rovie non saranno dei banchieri » 40.
I cambi continuarono a peggiorare e il franco toccò ai primi di maggio il li­
vello di 148 rispetto alla sterlina. Contemporaneamente continuavano le richie­
ste di buoni del Tesoro, che diminuirono, fra il 31 marzo e il 30 aprile, da 5,4
a 4,8 miliardi. Lo stato fronteggiava i suoi impegni allargando il debito verso la
Banca nazionale ed emettendo all’estero buoni con la garanzia del cambio.
All’inizio di maggio i liberali (che al momento della crisi di marzo avevano di­
feso in Parlamento gli speculatori belgi sabotatori del piano Janssen) propo­
sero un governo di coalizione nazionale basato sull’intesa dei tre più importanti
partiti (il cattolico, il socialista e il liberale) per far fronte alla grave situazione
finanziaria41 e il 7 maggio riuscirono ad ottenere le dimissioni di Poullet e di
Janssen: il franco quotava allora 162,4 per sterlina. Alla fine del mese fu creato
un governo tripartito con a capo il cattolico Jaspar, mentre il posto di ministro
delle Finanze fu affidato a Hautart, senatore di destra e banchiere di profes­
sione. La figura più rilevante del nuovo governo era però Émile Franqui, mini­
stro senza portafoglio, di cui erano noti gli stretti legami con la finanza inter­
nazionale e che fu il vero responsabile della stabilizzazione42. La prima legge
les du Royaume et Archives de l’Ètat dans les Provinces, Histoire économique de la Belgique.
Traitement des sources et état des questiona. Actes du colloque de Brussel, 17-19 novembre
1971, Bruxelles, 1972, pp. 88-89.
40 Vedi eraldo fo ssa ti , La stabilizzazione monetaria in Belgio, in «Giornale degli econo­
misti e rivista di statistica », s. IV, a. X L II, 1927, p. 99.
41 Louis Frank, membro del governo dal 19Ì8 al 1924, poi uno dei principali esponenti
dell’opposizione liberale, dichiarava alla Camera il 4 maggio 1926: « [...] la salvezza finan­
ziaria del paese non riguarda una sola classe, riguarda tutta la nazione. Io non ho mai sot­
tovalutato la grandezza dello sforzo della classe operaia, né l ’importanza della sua coopera­
zione a questo proposito [...] Ma occorre di più. Occorre una politica finanziaria capace di
raccogliere l’appoggio di tutti i partiti e di raggiungere i suoi fini ». Vedi L. Frank, Stabilisation monétaire en Belgique, Paris, 1927, p. 59; per la difesa degli speculatori, ibid. p. 45.
Louis Frank successe a Hautain nella direzione della Banca nazionale del Belgio quando fu
intrapresa la stabilizzazione definitiva del franco.
42 V. l . v. chandler, Benjamin Strong cit., p. 347. Militare e diplomatico prima, impor­
tante uomo d ’affari poi, Franqui divenne nel dopoguerra vice-governatore, e dal 1932 go­
vernatore della Soclété Generale, il più importante istituto di credito belga. La sua attività
di diplomatico in oriente e di direttore della Campagnie internationale d ’orient, che operava
20
Giancarlo Falco, Marina Storaci
importante che il nuovo governo fece votare fu quella costitutiva del Fondo
d ’ammortamento del debito pubblico, un ente che doveva avere il duplice
scopo di assorbire il debito dello stato verso la banca centrale e ridurre progres­
sivamente l’ammontare dei buoni del Tesoro in circolazione, soprattutto di quel­
li a più breve termine. Il Fondo riceveva come dotazione iniziale un credito
straordinario della Banca nazionale di un miliardo e mezzo di franchi all’anno
per quattro anni, corrispondente al gettito previsto di imposte e tasse straordi­
narie introdotte a quello scopo. Il contributo più importante venne dalla mag­
giorazione delle imposte indirette: fu raddoppiata la tassa sugli scambi e aumen­
tate numerose imposte di consumo (su birra, alcool, vino, tabacco, benzina, con­
sumazioni in alberghi e ristoranti, beni di lusso). Relativamente contenuto fu
il maggior contributo richiesto sotto forma di imposte dirette.
Nonostante questi provvedimenti, che la destra richiedeva da tempo, il nuovo
governo non suscitò la corrente di fiducia che doveva arrestare le domande di
rimborso del debito fluttuante: mentre continuavano le eccedenze dei rimborsi
sui rinnovi di buoni del Tesoro e l ’allargamento delle anticipazioni della banca
centrale, il franco peggiorava sul mercato dei cambi, finché a luglio esso fu
coinvolto nella crisi che colpiva in quel momento il franco francese, rispetto al
quale, anzi, subì una svalutazione maggiore. Il giorno in cui il franco raggiunse
il livello di cambio più basso (240 franchi per sterlina a metà luglio) il governo
Jaspar attuò una misura di cui si parlava fin dalla costituzione del nuovo ministe­
ro, ma che i socialisti non avevano fino a quel momento permesso: accordare al­
l’esecutivo poteri speciali per migliorare la situazione finanziaria. La « legge
dei pieni poteri », come fu chiamata, fu lo strumento con cui si realizzò un
profondo cambiamento di gestione delle ferrovie di stato, a cui era collegato il
consolidamento pressoché obbligatorio del debito fluttuante.
Lo stato belga controllava in quel momento la quasi totalità delle ferrovie na­
zionali, che in precedenza aveva dato in concessione, per la maggior parte, a
società private; il luglio 1926 segnò un radicale mutamento di direttive. Il
governo creò la Société nationale des chemins de fer belges, basata sull’unione
di capitale pubblico e privato (in proporzioni tali da garantire il controllo dello
stato) e su criteri privatistici di gestione: da allora in poi la gestione delle
ferrovie doveva avere come principale direttiva il conseguire un profitto. Si
trattava di una soluzione già sperimentata nel Congo per quasi tutte le più
importanti iniziative economiche, comprese le ferrovie43. Nelle decisioni prese
ora per le ferrovie nazionali c’era però un aspetto originale: una parte delle
azioni della società venne infatti data al Fondo di ammortamento che a sua
volta le offrì ai possessori dei buoni del Tesoro a 3-6 mesi e a 5 anni che sca­
devano nel 1926. L ’interesse sui titoli non presentati per la conversione veniva
ridotto dal 6 al 5 per cento e il loro rimborso era subordinato all’estrazione a
sorte e alle disponibilità del Fondo di ammortamento. L ’operazione era quindi
un consolidamento forzoso, ma le nuove azioni delle ferrovie rappresentavano
un buon affare per i privati e, almeno per alcuni anni, un probabile onere per
il Tesoro. Lo stato infatti garantiva ai portatori dei titoli ferroviari un dividendo
principalmente in Cina, lo portò ai primi contatti con gli ambienti finanziari internazionali,
continuati nel corso degli anni ’20 quando rappresentò il Belgio nel Comitato Dawes e in
quello Young, e quando partecipò alla fondazione della Banca dei regolamenti internazionali,
Vedi f . BAUDHUIN, Histoire économique cit., t. II, pp. 268-274.
,3 A partire dal 1919 erano stati trasformati in régies industrialisées marina fluviale, fabbri­
che cotoniere, miniere d’oro, ferrovie, abitazioni di funzionari nel Katanga. Per ogni caso fu­
rono adottate modalità specifiche; ma per tutti l ’idea ispiratrice era di unire il controllo
pubblico a una gestione analoga a quella dell’industria privata.
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
21
annuo fisso pari al 6 per cento e un super-dividendo (inizialmente del 2,7 per
cento) pari alla metà degli utili societari. Si impegnava inoltre a fornire una
garanzia indiretta di cambio, per cui i franchi rappresentati da titoli e cedole
dovevano valere almeno la 175a parte della sterlina. Come contropartita entra­
va nelle casse dello stato la restante metà degli utili.
L ’operazione avvenne quando i principali istituti di credito e le grandi im­
prese industriali e commerciali si erano già disfatti da molte settimane della
maggor parte dei loro buoni del Tesoro: il consolidamento riguardava perciò
soprattutto i risparmiatori privati. Ciò nonostante, il governo volle evitare che
il provvedimento creasse difficoltà alle banche diminuendone la liquidità; perciò
quelle che detenevano ancora buoni del Tesoro soggetti alla conversione pote­
rono avere in cambio buoni speciali al 7 per cento utilizzabili per il riscontro
presso la banca centrale. L ’operazione riguardò poco meno del 20 per cento del
totale dei buoni in circolazione: 1,2 miliardi circa su 5,8, mentre la quasi tota­
lità del resto fu consolidata (4,2 miliardi)44. In realtà il pericolo di una crisi di
liquidità non esisteva: fin dal momento in cui era stata votata la legge dei pieni
poteri, la speculazione al ribasso del franco aveva attenuato i suoi attacchi, e
il cambio era migliorato. I capitali belgi esportati tra la metà del 1925 e la metà
del 1926 iniziarono a rientrare nel luglio di quell’anno grazie al notevole gua­
dagno consentito dalla svalutazione e alle maggiori garanzie che le circostanze
ora offrivano ai detentori di capitali: è stato calcolato che rifluisse in Belgio
dal luglio del 1926 ai primi mesi del 1927 l’equivalente in divise estere di circa
6 miliardi di franchi, molto di più di quanto Janssen aveva impiegato per di­
fendere quota 107. Il consolidamento del debito fluttuante e il rientro dei ca­
pitali spianarono la via alla riforma monetaria. Nell’ottobre 1926 il governo in­
trodusse il gold exchange standard scegliendo un tasso di stabilizzazione che
svalutava notevolmente il franco rispetto al valore medio dell’anno in corso e,
a maggior ragione, degli anni precedenti:
cambio medio con il dollaro, gennaio-settembre 1926
cambio successivo alla stabilizzazione del 25 ottobre 1926
29,8
39,6
La parità nei confronti della sterlina era di 175. Di « quota 175 » si era parlato
pubblicamente per la prima volta al momento del consolidamento del debito
fluttuante, in quanto era la quota scelta per la garanzia di cambio che il Tesoro
concedeva ai possessori di azioni della Société des chemins de fer. In quel mo­
mento (fine luglio 1926) la sterlina quotava circa 200 franchi e quindi il livello di
175 non sembrava elevato; ma le nuove condizioni createsi in poco più di due me­
si offrivano al Belgio la possibilità di stabilizzare a un valore fra 150 e 160, livelli
su cui il franco era spinto dalle ingenti quantità di divise che rimpatriavano. An­
che nei giorni immediatamente precedenti la riforma monetaria la sterlina si
teneva nettamente al di sotto di quota 175. Nello scegliere quest’ultimo livello
di cambio certamente il governo fu influenzato dall’incertezza che avvolgeva in
quel momento il futuro del franco francese: si poteva ancora temere nell’autun­
no 1926 che la stabilizzazione del franco francese ne comportasse una sostan­
ziale svalutazione. Ma quota 175 rispondeva soprattutto a un’altra esigenza:
dopo il fallimento del piano Janssen la preoccupazione maggiore della nuova
compagine governativa era quella di formulare un programma di stabilizzazione
di sicuro successo, in modo da rafforzare con la sua riuscita la svolta politica
del maggio. La quota prescelta permetteva di ridurre da 6,7 a 2 miliardi di
franchi il debito dello stato nei confronti della Banca nazionale del Belgio me44
Cfr. l . Frank, Stabilisation, cit., p. 161.
22
Giancarlo Falco, Marina Storaci
diante le plusvalenze determinate dalla nuova parità nel computo delle riserve
della banca centrale, fino ad allora iscritte in bilancio alla parità prebellica. Lo
stato della finanza pubblica ne risultava rafforzato e nello stesso senso agiva la
possibilità di mantenere stabili le spese statali per il servizio del debito pub­
blico e quelle per il personale dipendente dallo stato, di fronte ad un aumento
delle entrate stimolato dall’aumento dei prezzi e dei redditi monetari.
Per garantire il successo della stabilizzazione, era stato necessario ricorrere al
consolidamento dei buoni del Tesoro, anche se le forme specifiche con cui il
provvedimento fu realizzato indicano l’intenzione di addolcire al massimo una
imposizione nei confronti di ceti sociali che sicuramente appoggiavano il nuovo
corso politico. Stabilizzando a quota 175, il governo mostrò di non voler creare
difficoltà all’economia, in modo da accontentare industriali e banchieri senza però
suscitare l’opposizione di sindacati e partiti operai, che vedevano salvaguardati
l’occupazione e i salari monetari43.
Negli anni immediatamente successivi alla riforma monetaria l’economia belga
attraversò una fase espansiva che coinvolse la maggior parte dei settori indu­
striali. Ne fu esclusa una delle principali produzioni del paese, quella carboni­
fera, ma per motivi estranei alla poh tica monetaria. Essa condivideva le diffi­
coltà che avevano colpito il settore in tutti gli altri paesi produttori a causa del­
la crescente concorrenza di petrolio ed energia idroelettrica. Benché si avviasse
in Belgio, fra il 1926 e il 1930, la riorganizzazione delle imprese estrattive e
si affermasse in misura crescente la meccanizzazione, solo l’interruzione della
concorrenza inglese durante il grande sciopero del 1926 concesse all’industria
carbonifera belga una momentanea prosperità. L ’aumento della disoccupazione
in Belgio sul finire del 1926 si può spiegare con l ’improvvisa cessazione di quel­
le circostanze favorevoli. Un aspetto determinante del boom del 1927-1930 è
costituito dal ruolo della domanda estera: la svalutazione della moneta conso­
lidò infatti le linee di sviluppo che aveva seguito l’economia belga nella prima
metà degli anni ’20, permettendo che continuasse l’espansione di alcuni settori
produttivi tradizionalmente esportatori che avevano rapidamente rimediato ai
danni bellici e riattivato i loro rapporti commerciali con l’estero. È il caso del­
l’industria tessile, che godeva dal dopoguerra di facilitazioni per l ’esportazione
dei suoi prodotti; dell’industria vetraria, che vendeva all’estero gran parte della
sua produzione e a condizioni più vantaggiose che in Belgio, grazie anche ad
accordi interni e internazionali fra le imprese del settore; dell’industria diaman­
tifera e di alcuni prodotti meccanici (soprattutto i materiali ferroviari). Quota
175 incoraggiò le esportazioni siderurgiche: anche la produzione di acciaio era
stata assorbita in misura crescente dai mercati esteri fra il 1922 e il 1926, ben­
ché i principali e tradizionali acquirenti del Belgio avessero a loro volta am­
pliato la produzione nazionale sotto la spinta della domanda bellica46. Lo svi­
luppo delle esportazioni portò ad una progressiva diminuzione del deficit com­
merciale, ormai largamente compensato dagli introiti di cui il Belgio fruiva sot­
to forma di spese di turisti stranieri, e soprattutto di redditi derivanti da in­
vestimenti all’esterno. La bilancia dei pagamenti registrò quindi, in particolare*
*5 Nel 1928 F. Baudhuin, La stabilisation cit. p. 159, commentava a questo proposito:
« l’ideale per una stabilizzazione monetaria è consacrare una situazione di fatto, in modo che
nulla debba cambiare nel paese [...] Una stabilizzazione che esiga il ribasso del costo della
vita e dei salari diventa estremamente aleatoria. Non diciamo che sia impossibile; ma non è
certo consigliabile quando la situazione interna non è ben assestata, o quando si è subito
un insuccesso ».
K Per l ’analisi dei singoli settori economici v. F. baudhuin , Histoire économique cit., t. II,
parte prima, « Le développement de l ’industrie ».
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
23
nella seconda metà degli anni venti, un costante attivo nelle partite correnti che
permise ai grandi gruppi finanziari belgi di riprendere i loro investimenti al­
l’estero senza che difficoltà nella bilancia dei pagamenti li mettessero in pericolo
imponendo alle autorità monetarie misure restrittive47.
Fino al 1933, inoltre, il saldo attivo della bilancia dei pagamenti fu incremen­
tato dalle partite in conto capitale. L ’afflusso di divise iniziato pochi mesi prima
della stabilizzazione continuò negli anni successivi, facendo del Belgio (come
della Francia) uno dei maggiori detentori di riserve, soprattutto auree, negli
anni della crisi. Esse infatti crebbero da 5,5 miliardi di franchi nel 1927 a
13,4 nel 1933, stimolando un aumento parallelo (seppure non nella stessa
misura) della circolazione, cresciuta da 9,6 miliardi a 17,8 nello stesso periodo.
In definitiva la politica monetaria seguita dal governo belga sembrò tener conto,
in primo luogo, delle esigenze di una grande industria di esportazione a cui si
garantivano un cambio relativamente vantaggioso e un aumento dei salari meno
rapido dell’aumento dei prezzi. Apparentemente, almeno, risultavano sacrificati
soprattutto gli interessi dei percettori di redditi fissi, cioè di strati sociali ap­
partenenti alle classi medie, ma è possibile che essi trovassero qualche contropartita al consolidamento dei buoni del Tesoro e all’aumento dei prezzi interni
nel generale sviluppo dell’economia belga e nella restaurata stabilità monetaria.
La politica di stabilizzazione valse infine ad impedire uno spostamento dell’asse
politico del paese verso sinistra. A un anno di distanza dalla stabilizzazione, in­
fatti, i socialisti uscirono dal governo di unione nazionale e le elezioni legislative
del maggio 1929, in pieno boom economico, videro l’ascesa del partito liberale.
Quota 124 in Francia
Le vicende politiche che si intrecciano con la crisi monetaria francese del 1925-26
e con la successiva stabilizzazione presentano alcune analogie con quelle già in­
dividuate nell’esperienza belga. In Francia, come accadrà un anno dopo in
Belgio, le elezioni del maggio 1924 registrarono uno spostamento a sinistra del­
l’elettorato. L ’aumento dei prezzi che continuava ormai dal 1921 e la pesantezza
delle imposizioni fiscali (particolarmente gravose per i livelli medi e bassi di
reddito) indussero una parte della piccola e media borghesia a sostenere i ra­
dicali e i socialisti della SFIO che condussero la campagna elettorale prometten­
do di proteggere i ceti meno elevati, di far pagare le tasse ai ricchi e di age­
volare a tutti l’accesso alla proprietà48. Le forze conservatrici del Bloc National,
al potere fin dal 1919, persero la maggioranza relativa a vantaggio della coali­
zione di radicali e socialisti, il Cartel des Gauches, che non riuscì tuttavia a
conquistare una solida maggioranza parlamentare. Il nuovo governo ereditò
una situazione finanziaria e monetaria pericolosa. Il franco aveva appena su­
perato un grave attacco speculativo al ribasso grazie ad un prestito che i ban­
chieri americani avevano fatto al Tesoro per consentirgli di intervenire sul mer-
47 Redditi provenienti da investimenti all’estero, a breve e a lungo termine: 1927, circa
2050 milioni di franchi; 1929, 3,6 miliardi di franchi. Cfr. f . baudhuin , Histoire économique
cit. t. I, pp. 203 e 220.
48 Sulle sperequazioni del sistema fiscale francese, troppo permissivo verso i redditi più
elevati e troppo pesante per quelli più bassi, vedi Alfred sauvy , Histoire économique de la
France entre les deux guerres, voi. I, Paris, 1965, pp. 378-381. Sul logoramento del Bloc
national vedi Charles s. m aier , Recasting Bourgeois Europe. Stabìlization in France Germany and Italy in thè decade after World War I, Princeton, 1975, pp. 458-479.
24
Giancarlo Falco, Marina Storaci
cato dei cambi. Il bilancio dello stato era in deficit e lo stato era costretto a in­
debitarsi con larghezza per sostenere una spesa pubblica difficilmente compri­
mibile dal momento che i 3 /4 circa del totale erano assorbiti dal servizio del
debito pubblico, dalla rendita vitalizia, dalle pensioni dei combattenti e dalle
spese militari49, intoccabili in un paese che stava appena uscendo dall’occupa­
zione della Ruhr. L ’inflazione che erodeva progressivamente il reddito reale del­
la piccola e media borghesia, tradizionale acquirente dei titoli pubblici, non con­
sentiva ormai più di collocare titoli a lungo termine: solo i buoni del Tesoro a
breve termine (addirittura di pochi mesi) trovavano un mercato. La situazione
del Tesoro si faceva sempre più difficile: ogni scossa alla fiducia dei sottroscrittori di buoni provocava immediatamente difficoltà di cassa perché esisteva un
limite legale sia alle anticipazioni che lo stato poteva ottenere dalla banca cen­
trale, sia un limite alla circolazione monetaria complessiva, come imponeva la
tradizionale ortodossia monetaria.
In realtà l’inflazione, la svalutazione e il deficit del bilancio statale stimolavano
la crescita industriale e le esportazioni industriali della Francia che già risultava
avvantaggiata dal rafforzamento della siderurgia in seguito alla riannessione del­
la Lorena e dal declino della concorrenza tedesca e inglese in Europa. Le espor­
tazioni industriali avevano assunto un ruolo centrale nella bilancia dei paga­
menti francesi, la cui struttura si era modificata profondamente nel dopoguerra.
Il saldo attivo delle partite correnti era stato nuovamente raggiunto già nel
1921, ma l’importanza dei redditi derivanti dagli investimenti all’estero si era
notevolmente ridotta e altre partite avevano assunto grande rilievo: in pri­
mo luogo le spese dei turisti e le esportazioni di prodotti industriali, ormai es­
senziali per raggiungere un saldo attivo del conto corrente. L ’instabilità mo­
netaria aveva favorito questi risultati, ma le ripercussioni negative sui redditi
di vasti strati sociali decisivi per gli equilibri politici del paese e il pericolo che
un deterioramente eccessivo delle condizioni monetarie bloccasse Io stesso svi­
luppo economico, rendevano opportuno un controllo sull’inflazione.
Il programma economico del Cartel des Gauches, tuttavia, era assai impreciso.
Al suo interno le diverse componenti erano favorevoli a soluzioni diverse per
migliorare le condizioni del bilancio statale, al cui deficit si attribuiva l’espansio­
ne della circolazione monetaria e di conseguenza, si riteneva, l’aumento dei
prezzi. Mentre alcuni settori erano favorevoli ad accrescere le imposizioni fiscali
sui redditi più elevati, raggiungendo il pareggio del bilancio con un aumento
delle entrate, altri preferivano parlare di un contenimento della spesa pubblica
o di forme di tassazione meno discriminanti. Tutti però ritenevano improponi­
bile aumentare la circolazione monetaria per far fronte alle esigenze di cassa del
Tesoro, benché l’aumento dei rimborsi dei buoni del Tesoro con cui si manife­
stavano i sospetti verso il nuovo governo radicalsocialista lo rendesse sempre
più probabile. Così, benché il governo fosse costretto nel dicembre 1924 a finan­
ziarsi con un aumento della circolazione e delle anticipazioni oltre i limiti legali,
il timore che questa decisione riducesse ancora la fiducia dei detentori del de­
bito pubblico e che la coalizione si indebolisse ulteriormente, lo indusse ad
49 Utilizziamo i dati che Alfred Sauvy ha calcolato per il bilancio 1930-31 sulla ripartizione
della spesa pubblica, non essendone disponibili altri più vicini al periodo che consideriamo.
La distorsione che ne risulta non dovrebbe tuttavia comportare errori rilevanti per il discorso
che si sviluppa, come mostra un confronto con i calcoli analoghi compiuti per il 1913 da cui
risulta una certa stabilità nella ripartizione delle spese. V. Alfred sauvy , Histoire économique cit., p. 371.
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
25
assumersi la responsabilità di una falsificazione dei bilanci della banca centrale50.
L ’espansione della circolazione monetaria non potè essere riassorbita come si
era inizialmente sperato e ciò costrinse a rivelare, nell’aprile 1925, la contraffa­
zione dei bilanci e ad elevare ripetutamente i livelli legali della circolazione nel
corso dell’anno. Il governo non era riuscito ad evitare ciò che temeva e il com­
portamento seguito ne comprometteva gravemente la credibilità. La situazione
monetaria stessa risultò aggravata e il governo si trovò costretto ad agire senza
un piano preciso, lasciandosi trascinare dalle circostanze, incapace ormai di con­
trollare l’inflazione, di impedire le fughe di capitali e limitare le richieste di rim­
borso dei buoni del Tesoro in scadenza.
Anche l’atteggiamento nei confronti della riforma fiscale era contraddittorio. Fin
dal febbraio 1925 il governo fu costretto a revocare, per l’ostilità dei banchieri
da cui dipendeva per finanziare il deficit, il borderau des coupons, una misura
introdotta dal precedente governo Poincaré che permetteva di accertare i reddi­
ti percepiti come interessi e dividendi e di tassarli quindi nell’ambito dell’im­
posta progressiva sul totale del reddito anziché con la semplice cedolare propor­
zionale. Nei mesi seguenti, tuttavia, si continuò a parlare di imporre nuove tasse
o di modificare le percentuali di imposizione di quelle già esistenti per accresce­
re gli introiti delle imposte dirette e realizzare un prelievo maggiore sui livelli
più alti di reddito. Si proposero così imposte sui « beni improduttivi » (oggetti
artistici e di lusso) nel novembre 1925 e poche settimane dopo un aumento
dal 20 al 50 per cento sull’imposta globale sul reddito e su quelle previste per
le varie forme di reddito, ma si ripiegò infine su una proposta di raddoppio
della tassa sul volume degli affari, particolarmente pesante per i settori del pic­
colo commercio e gli artigiani e comunque interamente traslata51. Il Cartel des
Gauches, dunque, riproponeva in definitiva un inasprimento di quel genere di
imposte contro le quali aveva condotto la propria campagna elettorale meno di
due anni prima. Due fatti soprattutto spiegano una simile evoluzione: la ne­
cessità di ricorrere a un tipo di prelievo fiscale largamente collaudato per ot­
tenere immediatamente degli introiti e un progressivo accentuarsi delle influen­
ze conservatrici sulla coalizione. Il disaccordo in materia finanziaria che divideva
il Cartel des Gauches passava all’interno dello stesso partito radicale e il go­
verno, non potendo contare su una propria sicura maggioranza parlamentare, si
rivolgeva verso i radical-nazionali di centro-destra per ottenere un appoggio estre­
mamente condizionante contro la propria sinistra interna. Il risultato sul piano
fiscale di quest’evoluzione politica fu un complesso di misure approvate nell’apri­
le 1926 per riuscire a chiudere in pareggio il bilancio di quell’anno. Il governo
(ormai il quarto dopo le elezioni) prevedeva, accanto ad un aumento delle im­
poste indirette, una determinazione più accurata delle imposte dirette, l’impo­
sizione di una sorta di sovratassa per il 1926 e l’introduzione del carnet des
coupons, un espediente analogo al borderau soppresso poco più di un anno
prim a52.
50 Poco dopo la violazione della legge, il 17 genaio 1925, Herriot dichiarava alla Camera:
« I l governo attuale, a qualsiasi costo è contro tutto ciò che è inflazione [...] Niente infla­
zione. Subordiniamo tutto a ciò ». Vedi r . ph ilippe , Le drame cit., p. 69n.
s' Sulla riforma fiscale durante i governi del Cartel des Gauches vedi A. sauvy , Histoire
économique cit. t. 1, pp. 381-385 e c. s. maier , Recasting Bourgeois Europe cit., pp. 497-500.
52 Sulla progressiva disintegrazione del Cartel des gauches e il suo spostamento a destra
ibid, pp. 494 sgg., che attribuisce un ruolo centrale in queste vicende ai problemi fiscali. Le
misure approvate precedevano tra l ’altro l ’eliminazione del pagamento à forfait delle tasse
sui redditi commerciali e l ’obbligo della dichiarazione giurata del totale dei redditi perce­
piti, oltre la pubblicità delle dichiarazioni mediante affissione nei comuni delle liste dei
contribuenti soggetti all’imposta generale sul reddito.
26
Giancarlo Falco, Marina Storaci
Il miglioramento effettivo del bilancio statale, in realtà, era affidato ancora una
volta alla maggiorazione delle imposte indirette53, ma le misure destinate ad
accrescere il prelievo diretto erano sufficienti a suscitare una reazione immedia­
ta e inequivocabile di ostilità da parte degli interessi che ne sarebbero stati col­
piti. La fuga di capitali all’estero si aggravò rendendo ingovernabile il cambio
che in sette mesi, tra il gennaio e il luglio 1926, perse oltre metà del suo valore
rispetto al dollaro (in termini di medie mensili), in palese coincidenza con la
lunga discussione della legge fiscale e la sua approvazione54. Ancora una volta
il governo cedette verso destra: il 10 giugno il ministro delle Finanze Péret,
annunziava la revoca del Carnet des coupons e il 31 maggio un decreto nomi­
nava un gruppo di esperti, scelti negli ambienti dell’alta banca, dell’industria,
del commercio e in quello accademico5S, incaricati di definire un programma di
stabilizzazione. Péret ammetteva ormai che bisognava « cessare di far guerra
ai possidenti, se si vuole arrestare l’esodo dei capitali e farli rientrare all’ovile ».
Il compito di riconquistare la fiducia di capitalisti e classi medie veniva tentato
da un nuovo governo che avrebbe dovuto comprendere anche Poincaré, ma que­
sta possibilità fallì e Briand, presidente incaricato, si rivolse a Caillaux per le
Finanze. In poche settimane veniva profondamente mutato il gruppo dirigente
della banca centrale e si raggiungeva un accordo con la Treasury inglese per il
consolidamento del debito di guerra. Il 4 luglio il Comitato degli esperti pre­
sentava le sue proposte, ben rispondenti all’esigenza di tranquillizzare i ceti
conservatori: alleggerimento delle imposte dirette, soppressione di qualsiasi con­
trollo sui valori mobiliari, rigida politica di bilancio per bloccare l’inflazione e
stabilizzazione del franco con l’appoggio della finanza internazionale56. Gli am­
bienti non ministeriali da cui gli esperti provenivano, la rapidità con cui si svol­
sero i lavori, la novità stessa del definire per la prima volta una strategia della
stabilizzazione, contribuirono a collocare il piano degli esperti in una dimen­
sione di efficienza tecnocratica quale i politici non erano stati in grado di rag­
giungere fino a quel momento. La contrapposizione strumentale fra tecnica e
politica era spinta al punto di chiedere poteri speciali per l’esecutivo (come av-
53 Vedi A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 382.
54 Indice del cambio medio mensile del dollaro a Parigi:
gennaio 1926: 100; marzo 1926: 105,4; maggio 1926: 111,5; luglio 1926: 154,5.
Fonte: elab. da A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 445.
55 Sulla composizione del Comitato vedi Ém ile moreau , Souvenirs d’un gouverneur de la
banque de France. Histoire de la stabilisation du Franc (1926-1928), Paris, 1954, p. 54, che
attribuisce a Raymond Philippe, funzionario della Lazard Frères, l ’iniziativa di indurre il
presidente del consiglio Briand a battersi per la nomina del Comitato. Si veda di R. Ph ilippe ,
Le drame cit. Sul significato politico del Comitato vedi A. sauvy , Histoire économique cit.,
t. I, p. 76 e c. s. maier , Recasting Bourgeois Europe cit., p. 503, che sottolinea anche le
implicazioni internazionali della nomina del Comitato. La caduta del franco aveva indotto il
ministro delle Finanze francese a chiedere un prestito a Benjamin Strong per stabilizzare
il cambio, ma questi aveva sostenuto l ’inutilità di un simile intervento finché fi governo fran­
cese non avesse riconquistato la fiducia del paese. Contemporaneamente erano giunte a con­
clusione le trattative per fi consolidamento del debito di guerra con gli Stati Uniti, ma il
governo non aveva la forza di far ratificare l ’accordo dal Parlamento, in maggioranza ostile
al rimborso dei debiti. Sull’atteggiamento di Strong vedi L. v. chandler, Benjamin Strong
cit., pp. 361-362 e in particolare la convinzione espressa dal governatore della Federai Re­
serve Bank di New York a Pierre Jay che « la base di qualsiasi progetto per la Francia deve
essere un accordo di unificazione degli intenti da parte del governo e da parte dell’opposizione
in Parlamento, di cui fi più importante è il gruppo Blum-Herriot, includendo ugualmente
la Banca di Francia e tutti i banchieri francesi importanti. Devono deporre le loro contro­
versie e accordarsi su un programma ». Sull’ostilità della Banca di Francia verso fi governo
del Cartel des gauches, vedi r . Ph ilippe , Le drame cit., pp. 95-108.
“
Vedi É . moreau , Souvenirs cit., pp. 14-17.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
27
veniva in Belgio quasi negli stessi giorni) che consentissero di procedere rapida­
mente verso il risanamento monetario senza i ritardi e le incertezze della pro­
cedura parlamentare57. Il 16 luglio il governo presentò in Parlamento un pro­
gramma monetario che accoglieva i suggerimenti degli esperti e si concludeva
con la richiesta di una delega di poteri fino a novembre. Proprio su questa ri­
chiesta il governo, diviso al suo interno, cadde. Dopo un ennesimo tentativo
di formare un governo sotto la direzione di Herriot, principale responsabile
della caduta dell’ultimo governo Briand, la sera del 21 luglio il Parlamento vo­
tava la sfiducia all’ultimo governo del Cartel des Gauches e Poincaré accettava
la responsabilità di costituire un nuovo governo di coalizione nazionale. Il 23 il
governo era costituito: comprendeva tutti i partiti, esclusi i socialisti, i comu­
nisti e i radicali vicini a Caillaux e nelle sue file si trovavano gli esponenti po­
litici conservatori più prestigiosi. L ’effetto sui cambi fu immediato: in dieci
giorni il franco recuperò oltre l’i l per cento del suo valore58, benché l’unica
misura presa fino ad allora fosse l’aumento di 1 punto e mezzo dello sconto. II
3 agosto il Parlamento approvava una legge fiscale che prevedeva l’inaspri­
mento di parecchie imposte dirette insieme con l’aumento dell’imposizione sui
redditi mobiliari (ma senza introdurre strumenti che impedissero le evasioni e
riducendo i diritti di trasmissione sui buoni al portatore), l’imposizione di una
tassa del 7 per cento sul primo passaggio di proprietà dei beni immobili, l’au­
mento delle imposte sui diversi redditi, compresi quelli da lavoro dipendente,
ma prevedendo un aumento del reddito esente e riducendo drasticamente il tasso
dell’imposta generale sul reddito59: un insieme di misure che apparentemente
colpivano tutte le classi sociali, senza distinzioni, come ci si doveva attendere
da un governo di coalizione nazionale e che accresceva le entrate fiscali permet­
tendo non solo il pareggio, ma addirittura un avanzo nel bilancio statale (man­
tenutosi fino al 1 930)60 e consentendo anche di ridurre le anticipazioni della
banca centrale allo stato.
Contemporaneamente fu affrontato il problema del debito pubblico interno:
Poincaré, con un atto destinato a fare impressione, convocò le due camere a
Versailles perché creassero la Cassa di ammortamento del debito pubblico, che
doveva gestire i Bons de la défense nationale (la parte maggiore del debito flut­
tuante) e i buoni del Tesoro ordinari. Come nel caso del Belgio, l’istituzione
della Cassa era una misura in sé inutile ma di sicuro effetto propagandistico nei
confronti dei possessori di titoli pubblici perché indicava la volontà del governo
di riscattare il suo debito e quindi ne rafforzava le quotazioni.
L ’orientamento politico del governo Poincaré era importante almeno quanto
le misure fiscali e monetarie che adottava nel bloccare la svalutazione del fran­
co. Il cambio continuò a migliorare mentre i capitalisti francesi rimpatriavano
le disponibilità liquide che avevano collocato all’estero nei mesi precedenti: tra
l’agosto e il dicembre del 1926 si rivalutò del 28 per cento. Quando il franco
toccò la quota di 119,50 rispetto alla sterlina, la Banca di Francia decise di in­
tervenire per rialzarne il corso e stabilizzarlo tra 120 e 125 franchi per sterlina.
Per 18 mesi il franco oscillò lievemente attorno a queste quote, ma solo grazie
ai continui interventi che la banca centrale effettuò per contrastare un vasto
movimento speculativo al rialzo. Al rimpatrio dei capitali francesi si unì infatti
57 Ibid. p. 15.
51 II cambio del franco rispetto alla sterlina scese da 218,50, massimo del 23 luglio, a 194,
massimo del 3 agosto; nello stesso giorno il minimo raggiunse 184,50. Ibid pp. 40 e 59.
59 Vedi A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 45.
“
Ibid., p. 513.
28
Giancarlo Falco, Marina Storaci
la speculazione estera che cercò di assicurarsi franchi anche quando la moneta
era di fatto stabilizzata, per l’incertezza (che durò fino alla stabilizzazione legale
del 1928) sul livello a cui il franco sarebbe stato fissato. Fra il secondo seme­
stre del 1926 e la metà del 1928 si accumulò nelle casse della banca centrale
l’equivalente di oltre un miliardo di dollari in divise61 (soprattutto sterline) che
rese inutile il ricorso a prestiti internazionali per stabilizzare il franco 62. Ciò
permise al governo Poincaré di non affrontare un voto parlamentare di ratifica
dell’accordo Mellon-Bérenger sul consolidamento del debito di guerra con gli
Stati Uniti e questo valse a rafforzare la posizione del governo63. Le conse­
guenze principali dell’afflusso di divise su Parigi, tuttavia, si verificarono nella
posizione della Francia nel sistema monetario internazionale. La Banca di Fran­
cia accumulò un enorme credito a breve termine sull’estero che, data la con­
vertibilità aurea allora legalmente sancita in molti paesi come sbocco del proces­
so di generale stabilizzazione monetaria del primo dopoguerra, avrebbe potuto
essere trasformato in oro, pena la dichiarazione di insolvibilità del paese che vi
si fosse sottratto. Per ragioni tecniche (principale centro di compensazione in­
ternazionale in Europa, maggior mercato mondiale dell’oro), Londra costituiva,
anche per le minori spese di trasporto del metallo che la sua posizione geografi­
ca permetteva, il punto di riferimento naturale di una richiesta di conversione
e ad essa, nella prima metà del 1927, si rivolse la Banca di Francia per ottenere
in rate settimanali l’equivalente di 20 milioni di sterline64. Una simile richiesta
imponeva alla Banca d’Inghilterra una severa deflazione per adeguare circola­
zione e crediti bancari alle riserve auree decurtate dalle richieste francesi. Que­
sto era effettivamente lo scopo di Moreau, governatore della Banca di Francia,
poiché egli era convinto che l’afflusso di divise su Parigi potesse essere bloccato
solo inasprendo le condizioni monetarie all’estero e particolarmente in Inghil­
terra, dal momento che proprio da questo paese giungeva la maggior parte delle
divise65. Le condizioni dell’industria inglese, in realtà, non consentivano una
ulteriore stretta deflazionistica dopo le difficoltà create dal ritorno alla parità
aurea della sterlina secondo un tasso di cambio che la sopravvalutava66. Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra, riuscì a contrattare una
riduzione delle richieste francesi su Londra grazie alla mediazione americana e
ad ottenere che altre richieste venissero rivolte agli Stati Uniti. La Banca di
61 Cfr. « New York Times », 11 dicembre 1927, p. 12 e « Times », supplemento del 7 feb­
braio 1928, p. XV. Vedi anche ràgnar nurske e Willia m a. brown jr., International Currency Experience. Lessons of thè inter-war period, League of Nations, s.l., 1944, p. 36, se­
condo cui la Banca di Francia acquisì 26 miliardi di franchi in valuta fra l ’agosto 1926 e il
25 giugno 1928, cioè circa un miliardo di dollari. Contemporaneamente gli acquisti di oro
ammontarono a 10 miliardi di franchi.
62 Sull’evoluzione dell’atteggiamento francese nei confronti dei crediti americani vedi G.
falco e M. storaci, Fluttuazioni monetarie cit., p. 59 n. Occorre sottolineare che l ’acquisto
di divise da parte della Banca di Francia costituiva una novità tecnica per l’istituto che venne
messo in grado di operare sul mercato dei cambi acquistando e vendendo divise a una parità
diversa da quella prevista per il frane germinai solo nell’agosto 1926. Fino ad allora tali ope­
razioni erano di esclusiva competenza del Tesoro.
63 Vedi É. moreau , Souvenirs cit., p. 278.
64 Vedi stephen v. o. clarke , Central Bank cooperation 1924-1931, New York, s.d., pp.
116-123. Rivolgendosi a Londra, tuttavia, la Banca di Francia intendeva anche mettere in
difficoltà un rivale che negli anni precedenti, per esempio nel 1923, aveva fatto pesare alla
Francia la precarietà della sua posizione monetaria e perseguiva obiettivi di egemonia finan­
ziaria sull’Europa che urtavano l ’interesse francese per i Balcani e l’Europa centro-orientale.
65 Cfr. É . moreau, Souvenirs cit., p. 309. Attraverso il mercato londinese Moreau intendeva
anche colpire la Germania, impedendo che gli speculatori tedeschi che acquistavano franchi
trovassero crediti presso le banche inglesi.
66 Ibid., p. 330.
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
29
Francia ricorse ad altre soluzioni tecniche per impedire che il costante flusso di
divise (stimolato soprattutto dal lungo rinvio della stabilizzazione legale), impo­
nesse una drastica rivalutazione del franco o si risolvesse in un incontrollato
aumento della liquidità, capace di creare nuove tensioni inflazionistiche61. Tut­
tavia la richiesta di conversione in oro delle divise metteva bruscamente in luce
l’enorme potere che la Banca di Francia aveva conquistato sul sistema monetario
internazionale e ne rafforzava la posizione in senso antagonistico alla Banca d ’In­
ghilterra, rendendola un punto di riferimento ad essa alternativo, almeno nel­
l’ambito europeo.
I capitali che affluivano in Francia, inoltre, permisero al Tesoro di risolvere il
problema del proprio indebitamento sia verso il pubblico che verso l’istituto di
emissione. Le disponibilità liquide di franchi rifluirono dapprima verso titoli di
stato a breve e medio termine e, quando il franco si presentò come una moneta
ormai garantita contro ogni svalutazione, anche verso titoli a lunga scadenza,
emessi a condizioni vantaggiose soprattutto verso la metà del 1927 6768. Dopo il
lungo periodo di stabilizzazione di fatto, la Francia reintrodusse la parità aurea
del franco (0,065 grammi di oro fino per franco) il 24 giugno 1928: occorre­
vano 124,21 franchi per sterlina e il franco valeva ora circa 1/5 di quello
prebellico.
II progetto di legge che ristabiliva la convertibilità aurea del franco si apriva
esprimendo il disappunto del governo per non poter ripristinare la parità aurea
che il franco aveva avuto dal 17 germinale XI (il 7 aprile 1803) fino all’agosto
1914 e per non poter neppure proporre una riforma monetaria che comportasse
una minor svalutazione del franco. La quota scelta, infatti, fu il risultato di
una contrapposizione ai vertici del potere politico: il presidente del consiglio,
appoggiato da alcuni reggenti della Banca di Francia (Rothschild e Wendel so­
pratutto), dal presidente del Senato Doumer, dal presidente della Repubblica
Doumergue, aveva tentato di imporre una sostanziale rivalutazione rispetto ai
livelli del 1925-26. L ’opinione di Poincaré sul franco era sostenuta da conside­
razioni sociali e politiche. La guerra e le opportunità offerte dalla ricostruzione
postbellica avevano modificato profondamente la struttura dell’industria fran­
cese, favorendo la formazione di imprese di grandi dimensioni, organizzate con
criteri moderni e tecniche produttive avanzate. Ma l’espansione economica della
prima metà degli anni venti non aveva rimediato a tradizionali debolezze del­
l’economia francese: l’agricoltura, la cui importanza in termini di occupati era
pari a quella dell’industria verso il 1930, era condotta con metodi prevalente­
mente arretrati a causa soprattutto delle dimensioni ridotte dei fondi. Una buo­
na parte dei contadini erano piccoli e medi proprietari o affittuari che lavora­
vano una terra corrispondente, come ampiezza, all’unità tecnica della famiglia,
le cui esigenze di economia alimentare inducevano a coltivare un’ampia varietà
di prodotti anche se le rese erano basse. In queste condizioni i cambiamenti tec­
nici si effettuavano con lentezza mentre il flusso dei nuovi investimenti postbel­
lici si dirigeva verso l’industria, coinvolgendo tutt’al più le imprese agricole ca­
pitalistiche del sud viticolo, della Piccardia, dell’Ue de France, o anche le pro­
prietà più grandi presenti in ogni villaggio, importanti più per il loro peso po­
litico e sociale che non per la rilevanza economica. La vasta fascia dei conta­
dini che sopravvivevano grazie al rigido controllo dei propri consumi, alimenta67 Ibid., p. 293: « [...] l’inflazione condizionata a cui ci obbligano questi acquisti di divise
ci preoccupa perché turba molti interessi e minacca di provocare un aumento artificioso e
nocivo dei prezzi » (28 aprile 1927).
“ Ibid. pp. 293-294.
30
Giancarlo Falco, Marina Storaci
va una corrente annuale di risparmio di vitale importanza per chi era esposto
alle fluttuazioni della produzione agraria e proprio loro erano stati gravemente
danneggiati dall’inflazione dell’ultimo decennio67*69.
A questi strati sociali di piccoli risparmiatori se ne aggiungevano altri le cui
fortune erano più consistenti (pur se spesso collegate all’economia agricola) e il
cui peso politico e sociale era ben più rilevante. Si trattava di ceti medi formati
di notabili e professionisti, proprietari di terre, di commercianti e artigiani, tutti
tradizionali acquirenti di titoli pubblici a reddito fìsso, danneggiati una prima
volta dall’inflazione degli anni di guerra e dalla lenta svalutazione del franco
negli anni successivi. Poincaré rappresentava gli interessi di queste categorie
sociali. Nel settembre 1926, quando il franco si era già rivalutato del 30 per
cento circa rispetto a luglio, egli dichiarò di desiderarne l’ulteriore apprezza­
mento perché, commentava il governatore della Banca di Francia, « [...] gli in­
teressi dei piccoli rentiers sembrano gli unici che preoccupano il presidente del
consiglio. Per il momento non presta alcuna attenzione agli interessi dell’indu­
stria e del commercio, né ai carichi fiscali » 70. Anche il Comitato degli esperti,
che pure aveva proposto una svalutazione del franco maggiore di quella realiz­
zata (160 franchi per una sterlina), non aveva ignorato nel suo rapporto con­
clusivo gli effetti negativi delle vicende monetarie sui ceti medi: « In Francia,
paese di classi medie, d ’industrializzazione limitata, paese la cui prosperità è
soprattutto fatta di capacità di risparmio, le conseguenze dell’instabilità mone­
taria sono particolarmente gravi » 71. Ma il settore più dinamico del capitalismo
francese, protagonista dell’espansione economica degli ultimi anni, sarebbe stato
danneggiato pesantemente dalla scelta di una quota elevata per il franco. In­
fatti l’esportazione di merci aveva assunto dimensioni via via maggiori, tanto
che a partire dal 1924 la bilancia commerciale si era chiusa in attivo, per la pri­
ma volta dopo il 1905. La drastica rivalutazione del franco proposta da Poin­
caré avrebbe certamente compromesso questo positivo risultato e industriali e
commercianti cominciarono a premere sul governo, verso la fine del 1926, perché
arrestasse l’apprezzamento del cambio72, tanto più che il danno insito nella ri­
valutazione monetaria non si sarebbe limitato alle sole industrie esportatrici. I
primi mesi di rivalutazione del franco, tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927,
coincisero con una crisi industriale che fece aumentare bruscamente la disoccu­
pazione e misero in luce le gravi conseguenze che una rivalutazione troppo ac­
centuata avrebbe avuto sui salari. Una simile evoluzione avrebbe avuto conse­
guenze sociali che governo ed autorità monetarie erano ben decisi ad evitare.
Per questo Poincaré si mostrò sensibile agli avvertimenti che Léon Jouhaux, se­
gretario CGT, potè indirizzargli in numerosi incontri avvenuti nell’autunno 1926
e secondo Jacques Rueff la questione dei salari e dell’occupazione finì con l’ave­
re un peso decisivo nell’orientare il presidente del consiglio ad accettare, il 20
novembre 1926, che la Banca di Francia intervenisse sul mercato dei cambi per
impedire un’ulteriore rivalutazione del franco73.
67
Sulla struttura sociale nelle campagne francesi vedi Pierre George, Les Paysan, in A.
(avec la collaboration de Anita Hirsch et d’autres auteurs), Histoire économique de la
France entre les deux guerres, t. I l i , Divers sujets, Paris, 1972, pp. 55-65. Il carattere arre­
trato dell’economia francese viene sottolineato da TOM kem p , The French Economy under
thè Frane Poincaré, in «Economie History Review », 1971, fase. 1, pp. 82-99 e in The
French economy 1913-1939. The History of a Decline, London, 1972, pp. 84-85, 90.
70 Cfr. É. moreau , Souvenìrs cit., p. 94.
71 Ibid., p. 15.
72 Vedi la dichiarazione di Poincaré in « Journal des Débats politiques et Iittéraires », 23
giugno 1928.
73 Vedi J acques r u eff , Sur un point d ’histoire: le niveau de la stabilisation Poincaré, in
sauvy
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
31
In questo contesto la quota 124 (124 franchi per una sterlina) a cui il franco
fu stabilizzato di fatto nel dicembre 1926 fu presentata come un soddisfacente
compromesso tra opposte tendenze o meglio come risultato di una lotta in cui
Poincaré e i suoi seguaci si adeguarono alla soluzione che comportava, per loro,
il male minore. La quota scelta, d’altra parte, evitando di aggravare la posizione
del Tesoro con un’eccessiva rivalutazione degli interessi del debito pubblico,
garantiva un fondamento più solido alla riforma monetaria. Essa infine tutelava
la Banca di Francia dalle gravissime perdite che avrebbe dovuto subire se l’enor­
me massa di divise acquistate durante le operazioni sui cambi fossero state regi­
strate in bilancio per un corrispettivo in franchi di molto inferiore a quello ef­
fettivamente impiegato per acquistarlo. Quota 124 rivalutava il franco solo ri­
spetto ai valori medi del 1926; ciò nonostante, la rivalutazione del 19 per cento
circa e più ancora la stabilità della moneta dopo anni di lento deprezzamento
furono sufficienti a ridimensionare lo sviluppo delle esportazioni francesi, provo­
cando un netto peggioramento della bilancia commerciale. A determinare questo
risultato concorreva anche l’aumento delle importazioni, particolarmente rile­
vante nel 1929, quando l’economia francese era ancora in pieno sviluppo. Que­
st’evoluzione della bilancia commerciale (che si accentuò negli anni seguenti, pro­
vocando il declino della posizione internazionale della Francia per tutto il corso
degli anni trenta) non riuscì tuttavia a compromettere, per il momento, il saldo
attivo della bilancia dei pagamenti. Le maggiori voci attive del conto corrente
(soprattutto i proventi del turismo, stimati in aumento fino al 1929-30) e i
flussi registrati nel conto capitale (tra cui giocavano un ruolo decisivo le ripa­
razioni tedesche e le entrate di divise), riuscirono a conservare alla Francia la
posizione creditrice sull’estero che aveva raggiunto già nel 1927 in seguito al
massiccio ingresso di capitali francesi ed esteri attratti dalle prospettive di ri­
valutazione del franco 74. Si trattava di crediti a breve termine, concentrati in
gran parte presso la Banca di Francia e altri istituti bancari, a cui erano stati ceduti
dai precedenti possessori in cambio di franchi. Di essi si valsero le banche francesi
per accrescere la propria liquidità quando dovettero fronteggiare sia momenta­
nee difficoltà stagionali, sia le tensioni causate dai fallimenti bancari del 19301 9 3 1 7:>. Ma le stesse autorità monetarie francesi ricorsero ai crediti sull’estero
per favorire il loro proposito di rendere Parigi un mercato finanziario di im­
portanza europea. Sfruttando il potere che tali crediti attribuivano alla Banca
di Francia e al Tesoro sul mercato finanziario di Londra (e per questa via, anche
su quello di Berlino), le autorità francesi migliorarono la propria posizione con­
trattuale nelle intese internazionali che portarono alla sistemazione monetaria
di alcuni paesi dell’Europa balcanica e della Polonia, garantendo alla Francia
una presenza politica ed economica in questi paesi, alternativa rispetto a quella
di Inghilterra e Germania76. Analogamente, esse cercarono di influire sulle trat­
tative per la revisione del problema delle riparazioni tedesche77. Man mano che
«R evue d’Économie Politique », a. LXIX, 1959, fase. 1, pp. 168-178, che riprende sostan­
zialmente le considerazioni svolte nella prefazione dello stesso autore a É. moreau , Souvenirs
cit., pp. V III-IX, aggiungendovi la Note sur le choix d ’un cours de stabilisation da lui pre­
parata per Poincaré nel novembre 1926.
71 Sulla bilancia commerciale francese vedi in see , Annuaire statìstìque de la France 1966,
Resumé rétrospectif, voi. LXXII, n.s., n. 14, p. 350; sulla bilancia dei pagamenti, ibid. p. 365
e, per valutazioni parzialmente diverse che però non incidono sul tipo di considerazioni qui
svolte, a. sauvy , Histoire économique, t. 1, cit., pp. 492-494.
75 Vedi Willia m A. brown jr., International gold standard reinterpreted 1914-1934, New
York, 1940, p. 990 e s. v. o. clarke , Central bank cooperation cit., p. 167.
76 Per un esempio anteriore dell’atteggiamento francese cfr. É. moreau , Souvenirs cit., pp.
488-489 e in generale r . h . m eyer , Bankers’ Diplomacy, cit., passim.
71 s. v. o. clarke , Central Bank cooperation cit., pp. 165-166.
32
Giancarlo Falco, Marina Storaci
la crisi si accentuava nel resto del mondo, la posizione della Francia sul mer­
cato finanziario internazionale sembrava rafforzarsi e il flusso di oro che la Banca
di Francia continuò ad attrarre dal resto del mondo fino al 1933, dava un’evi­
denza fisica a questa condizione, contribuendo con ciò a fare di Parigi il punto
di raccolta di quei capitali liquidi che cercavano sicurezza dopo la svalutazione
della sterlina. In realtà la svalutazione della sterlina e del dollaro, che accentua­
vano la concorrenzialità delle esportazioni inglesi e americane, e il progressivo
deterioramento delle voci del conto corrente della bilancia dei pagamenti fran­
cese rovesciarono, dal 1934, la posizione internazionale della Francia, rivelando
la sua precarietà e dipendenza da una congiuntura monetaria eccezionale.
Quota 90 in Italia
Tra la fine del luglio e l’inizio dell’agosto 1926 i due franchi avevano comin­
ciato a migliorare sul mercato dei cambi. In Belgio il nuovo governo che avreb­
be stabilizzato la moneta si era formato fin da giugno, ma solo il 27 luglio era
stata votata la legge dei pieni poteri che permise il consolidamento del debito
fluttuante e con esso l’arresto della svalutazione del franco. In Francia la costi­
tuzione del ministero Poincaré aveva determinato un aumento immediato del
cambio e il 3 agosto erano state prese le prime misure fiscali deflazionistiche. Si
stava quindi verificando una dissociazione nell’andamento delle tre monete a
svantaggio della lira, che si trovava contemporaneamente e per la prima volta
scavalcata dalle altre due monete sulla via del ritorno all’oro. L ’Italia (e il re­
gime) rischiava di offrire una dimostrazione d ’incapacità di azione proprio nei
confronti del problema che da un anno e mezzo era al centro del dibattito eco­
nomico. Ciò spiega la risolutezza con cui Mussolini, all’inizio di agosto del 1926 78
cercò di impostare una soluzione del problema monetario italiano che bloccasse
la svalutazione e migliorasse il cambio della lira. Fino ad allora non erano state
prese misure adeguate in questo senso. Il primo luglio era entrato in vigore
il decreto (emanato in maggio) che revocava il diritto di emettere moneta al
Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, accentrando tutte le funzioni di istituto
di emissione presso la sola Banca d ’Italia. Si trattava di un provvedimento im­
portante per garantire un’efficace gestione della politica monetaria, che era stato
studiato già durante il ministero De’ Stefani e che era sollecitato anche dalla ca­
sa M organ79, ma non bastava da solo a caratterizzare una linea d’intervento per
risolvere il problema monetario. Ancora alla fine di maggio, dopo la decisione
di sospendere la difesa delle quotazioni della Fra con operazioni sul mercato dei
cambi, pareva che Volpi non intendesse impegnarsi in una precisa e univoca
politica monetaria 80 che mettesse in discussione i criteri d ’intervento da lui se­
guiti fin dall’agosto-settembre 1925 per mantenere stabili i cambi, confortato
probabilmente dall’accumulo di divise presso il Tesoro in seguito al trasferi­
mento dei prestiti obbligazionari emessi negli ultimi mesi del 1925 e nei primi
del 1926 81. L ’accentuarsi della svalutazione tra giugno e agosto aveva reso im­
possibile rinviare una scelta fra strategie monetarie alternative. Gli ambienti
finanziari americani si mostravano preoccupati e scontenti di fronte all’impiego
78 Vedi la lettera di Mussolini a Volpi, 8 ogasto 1926, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase. « Capo
del Governo », cit. in e . de felic e , I lineamenti politici cit., p. 399.
79 Vedi G. g. migone, Aspetti internazionali cit., p. 64.
80 Vedi il resoconto dei colloqui suoi e di Mussolini con Benjamin Strong a Roma tra il
26 e il 28 maggio 1926 in G. G. migone, La stabilizzazione della lira: la finanza americana e
Mussolini, in « Rivista di storia contemporanea » 1974, fase. 2, pp. 162 sgg.
“ Cfr. gino borgatta, La stabilizzazione dei cambi e la bilancia dei pagamenti in Mini-
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
33
dei fondi fino ad allora concessi con i prestiti obbligazionari allo stato, all’ICIPU
e alle imprese private, per le operazioni di sostegno della lira, convinti dell’inef­
ficacia di una difesa logorante e dispendiosa che si risolveva in un sicuro pro­
fitto per la speculazione al ribasso della lira, fino all’esaurimento delle riserve
italianes2. Essi premevano per una sistemazione globale del problema moneta­
rio che avesse come obiettivo il ritorno della lira a una parità fissa fondata sul
gold exchange standard.
All’inizio di agosto, perciò, Mussolini impegnava il ministro delle Finanze a se­
guire un piano di stabilizzazione (in cui traspaiono probabilmente suggermenti
di Beneduce nonostante l’insistente sottolineatura del carattere personale ed
autonomo delle sue indicazioni); esso comportava l’immediata rivalutazione del­
la lira mediante una severa deflazione destinata a ridurre addirittura la circola­
zióne. La lettera di Mussolini a Volpi non precisava la misura della rivalutazio­
ne giudicata opportuna, pur escludendo l’ipotesi di una rivalutazione integrale ai
livelli prebellici; ma molti richiami ad un livello « decente », ad « una rivalu­
tazione che torni ad onore del regime fascista » rendevano chiaro che il capo
del governo aspirava a non recuperare semplicemente la parità mantenuta con
le manovre sui cambi di Volpi. Nello stesso senso agiva l’esplicito riferimento
alla necessità di mantenere la lira al di sopra del franco francese e alla parità
della lira con la sterlina subito dopo la costituzione del primo governo fascista
(pressapoco quota 90). Il discorso di Pesaro del 18 agosto rendeva pubbliche le
intenzioni del governo e il 31 agosto venivano presi alcuni provvedimenti de­
stinati a ridurre drasticamente le operazioni attive della Banca d ’Italia e la cir­
colazione e ad aumentare le sue riserve83. In un primo tempo, tuttavia, la restri­
zione creditizia potè essere in parte elusa con il mancato rinnovo dei buoni del
Tesoro in scadenza. Man mano che « le classi industriali commerciali e banca­
rie che costituivano la clientela più importante dei buoni » chiedevano il rim­
borso dei loro titoli84, crescevano le difficoltà del Tesoro i cui fondi liquidi si
ridussero drasticamente tra luglio e ottobre, tanto da rendere necessario il ri­
corso al credito della Banca d ’Italia. Per continuare la politica restrittiva inaugu­
rata in agosto il governo dovette risolversi alla conversione forzosa dei buoni
del Tesoro ordinari e di quelli quinquennali (la cui scadenza era imminente) e
settennali, in titoli consolidati al 5 per cento. Le condizioni della conversione
erano relativamente favorevoli per i possessori di titoli85. Contemporaneamente
si ribadivano gli intenti deflazionistici disponendo la soppressione della Sezione
autonoma del Consorzio sovvenzioni su valori industriali, creata nel 1922 per
gestire il salvataggio del Banco di Roma e la liquidazione delle attività della
Banca di sconto: all’estinzione delle sue operazioni, affidata a un Istituto di li­
quidazioni appositamente costituito, venivano attribuiti i 3 /4 del ricavato della
tassa straordinaria sulla circolazione e altri proventi. Parallelamente la Banca
d ’Italia proseguiva con successo la politica di restrizione creditizia. Le anti­
cipazioni si ridussero del 24% e gli sconti del 13,1% , i prorogati pagamenti
stero delle Finanze, Le esperienze monetane prima e dopo la guerra, voi. I I problemi della
valuta in Italia dopo la guerra, Roma, 1927, pp. 220-221.
82 Vedi g. g. migone, La stabilizzazione cit., pp. 158-159.
83 Un elenco delle misure è riportato in Banca d ’Italia, Adunanza generale ordinaria degli
azionisti tenuta in Roma il giorno 31 marzo 1927, Roma, 1927, pp. 58-71; v. anche g. borgatta, La politica monetaria nel sistema corporativo, in « Annali di Economia dell’Universi­
tà di Milano », a. X II, 1937, pp. 255-256 e paolo b a ffi , La rivalutazione del 1926-27, gli in­
terventi sul mercato e l’opinione pubblica, in Nuovi studi sulla moneta, Milano, 1973, p. 104.
84 G. borgatta, La politica monetaria cit., p. 261.
85 Ibid. e felice guarneri, Battaglie economiche tra le due grandi guerre, voi. I 1918-1935,
Milano, 1953, pp. 120-121.
34
Giancarlo Falco, Marina Storaci
delle stanze di compensazione del 31,9 per cento nel secondo semestre 1926 86.
La stretta creditizia rendeva ormai molto difficile l’esportazione di capitali, non
più vantaggiosa, d’altra parte, da quando il governo si era impegnato a fermare
la svalutazione e si era diffusa la convinzione di una drastica rivalutazione. Nel­
la nuova situazione, anzi, cominciava a profilarsi il ritorno di capitali esportati e
l’afflusso di capitali a breve dall’estero. La caduta della domanda interna,
causata dalla crisi che colpiva tutti i settori produttivi per la brusca svolta
nella politica creditizia, riduceva immediatamente le importazioni, mentre gli
esportatori, pur di mantenere sbocchi all’estero particolarmente preziosi nella
crisi, riducevano i prezzi di vendita per compensare la progressiva rivalutazione.
II deficit commerciale era sostituito da un leggero saldo attivo nel secondo se­
mestre 1926 87. L ’effetto di quest’evoluzione della bilancia dei pagamenti sul
livello di cambio della lira fu positivo. Tra l’agosto e il dicembre essa si riva­
lutò del 26 per cento rispetto a dollaro e sterlina e continuò a rivalutarsi an­
cora nel primo semestre del 1927, toccando il livello massimo il 25 giugno, col
dollaro a 17,24 e la sterlina a 83,74 88.
Un simile risultato, tuttavia, aggravava la crisi economica: agli esportatori era
più difficile mantenere le posizioni favorevoli raggiunte negli anni di progressiva
svalutazione e le misure deflazionistiche decise dal governo colpivano tutte le
attività produttive, senza che i prestiti ottenuti sul mercato internazionale riu­
scissero ad attenuarne le conseguenze. Alcuni dei gruppi industriali maggiori ave­
vano già ottenuto capitali mediante l ’emissione di obbligazioni negli Stati Uniti;
altri si preparavano ad imitarli, specie le imprese elettriche, particolarmente in­
teressate ad aumentare le proprie disponibilità liquide. Ma la fruizione dei pre­
stiti non potè essere immediata perché le autorità monetarie cercarono di con­
tenere l ’espansione della liquidità interna in conseguenza dell’afflusso di divise
dall’estero; perciò le emissioni obbligazionarie poterono alleviare le conseguenze
immediate della stretta creditizia solo in misura ridotta.
Negli ultimi mesi del 1926 l’ostilità alla rivalutazione della lira da parte di
molti imprenditori trovò sfogo nella riunione di una cinquantina di loro, tra i
maggiori, il 3 novembre, presso la federazione industriale di Milano sotto la
direzione del presidente e del segretario della Confindustria. Lamentando la per­
dita di concorrenzialità delle esportazioni in seguito al miglioramento dei cambi
della lira, gli industriali cercarono di fissare una quota limite a cui dovesse ar­
restarsi la rivalutazione perseguita dalle autorità monetarie. Nello stesso senso,
seppure con maggiore durezza, agirono i cotonieri che ricavavano i maggiori
vantaggi dalla svalutazione della lira. Già nella riunione di novembre avevano
“ Vedi renato de mattia , I bilanci degli istituti di emissione italiani 1845-1936, voi. II,
taw . 15 e 16, rispettivamente per gli sconti e le anticipazioni; per i prorogati pagamenti cfr.
Banca d ’Italia, Adunanza cit., p. 115.
Valori trimestrali del commercio estero italiano 1926:
Importazioni Esportazioni
Saldo
I
trim.
6606
4605
— 2001
II trim.
7653
5140
— 2513
III trim.
5421
5805
— 384
IV trim.
5814
6296
+ 482
Fonte: Banca Commerciale Italiana, Movimento economico cit., voi. X V II, Milano, 1928, p.
268. Le cifre riproducono quelle calcolate nel 1927 dall’ISTA T che riducono il deficit del
commercio estero applicando un coefficiente di maggiorazione del 15% alle esportazioni regi­
strate dalle dogane. Il risultato è largamente criticabile (vedi per esempio G. borgatta, La
stabilizzazione dei cambi e la bilancia dei pagamenti cit., pp. 224-232), ma non dovrebbe in­
validare la sostanza del discorso sviluppato nel testo.
!S Vedi Banca d ’Italia, Adunanza ecc. 31 marzo 1928, Roma, 1928, p. 23n.
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
35
protestato con particolare energia e il 20 dicembre inviarono un memoriale a
Mussolini in cui minacciavano addirittura la chiusura delle fabbriche e il li­
cenziamento degli occupati se la lira avesse continuato a rivalutarsi oltre la
quota a cui era giunta (97,34 lire per sterlina)89. Anche il ministro delle Finan­
ze Volpi sembrava convinto che una rivalutazione della lira oltre i livelli che si
era sforzato di mantenere durante il mese dei suoi interventi sul mercato avreb­
be avuto conseguenze negative per l’industria italiana. Le lettere scambiate con
Mussolini in quei mesi contengono spesso richiami, cauti ma non per questo
meno eloquenti, alla necessità di procedere con gradualità nella deflazione e nel­
la rivalutazione90. Queste posizioni, però, non riuscirono a prevalere. L ’opposi­
zione degli industriali tessili non venne raccolta dalla direzione della Confindustria che rinunciò ad esprimere una propria posizione sul livello di cambio, di­
chiarando che tale scelta spettava al solo capo del governo. Essa preferì, vero­
similmente, evitare uno scontro frontale e cercare compensazioni a una politica
monetaria che si giudicava errata in altre misure economiche (controllo dei sa­
lari, sgravi fiscali, garanzia di commesse statali, aumento dei dazi doganali) e
in un rafforzamento politico della Confederazione stessa. D ’altra parte i signi­
ficati politici di cui si era caricato negli ultimi mesi il problema monetario in
Italia sconsigliavano uno scontro in proposito con il governo, suggerendo piut­
tosto un’azione discreta per limitare la politica monetaria seguita91.
Un aiuto in questo senso parve venire dagli ambienti finanziari americani, i
quali desideravano giungere a una rapida stabilizzazione delle principali monete
europee. Mentre la stabilizzazione belga giungeva alla fase culminante il 25 ot­
tobre 1926, essi cominciarono a prospettarsi la possibilità di una rapida conclu­
sione della stabilizzazione italiana. La Federai Reserve Bank di New York con­
statava che le misure monetarie fino ad allora deliberate costituivano un com­
plesso organico capace di garantire la stabilizzazione se fossero state accompa­
gnate da un nuovo prestito, analogo a quello concesso per la riforma moneta­
ria del Belgio e si dichiarava favorevole a una stabilizzazione non molto ele­
vata perché più sicura per la lira: 27 lire (piuttosto che 25) per dollaro, indi­
cava un rapporto del 16 novembre a Harrison, vice-governatore della Banca92.
Un paio di settimane più tardi lo stesso funzionario autore del rapporto prece­
dente, tuttavia, si dichiarava convinto che la Banca d’Italia avrebbe potuto reg­
gere una parità più alta (circa 23,5 lire) se motivi patriottici avessero indotto a
preferire una rivalutazione della lira 93. I rapporti americani mostravano qualche
timore per l’instabilità politica che secondo loro minacciava il governo e che sa­
rebbe stata accentuata dalla definizione di una parità troppo alta. Timori analo­
ghi vennero espressi da Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilter-85
85 Cfr. r. de felic e , Mussolini il fascista, II cit., pp. 249-252; r. sarti , Mussolini and thè
industriai Italian leadership in thè hattle of thè lira 1925-1927, in « Past and Present »
1970, n. 47, pp. 108-109 e pierò melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, 1972, pp. 181-185.
90 Vedi la lettera di Volpi a Mussolini, 20 ottobre 1926, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase.
« Capo del Governo » cit. in r . de felic e , I lineamenti politici cit., pp. 410-412. In questo sen­
so si muovono, per esempio, i richiami di Volpi a usare il rapporto tra prezzi all’interno e
prezzi esteri come metro per fissare la parità di cambio nella lettera a Mussolini del 15
agosto 1926, ibid. p. 405.
51 Sembrano significativi in questo senso gli sforzi di Volpi per convincere Mussolini che
le sorti del fascismo non dipendevano dalle vicende della lira nella lettera cit. del 15 ago­
sto 1926, o quelli intesi a sdrammatizzare l’accusa di bluff che ambienti dell’antifascismo
liberale avrebbero potuto rivolgere alla politica monetaria fascista di fronte ad un aumento
della circolazione, nella lettera cit. del 20 ottobre 1926.
52 Vedi h . m eyer , Bankers’ Diplomacy cit., p. 48.
83 Ibid. p. 49.
36
Giancarlo Falco, Marina Storaci
ra, che si adoperò con successo per rinviare la stabilizzazione della lira, lascian­
do così aperta, seppur involontariamente, la via ad un’ulteriore rivalutazione94.
L ’orientamento favorevole alla rivalutazione del capo del governo e le numero­
se esortazioni di esponenti del mondo politico e accademico a portare la lira ad
una parità elevata (si sostenne addirittura la necessità di tornare alla parità
prebellica), alimentarono un’importante speculazione al rialzo della Hra: molti
capitali affluirono dall’estero, accentuando la rivalutazione nei primi mesi del
1927. L ’afflusso dei prestiti obbligazionari collocati all’estero da enti pubblici e
imprese private (equivalenti a 3 miliardi di lire circa nel 1927, quasi intera­
mente concentrati nella prima metà dell’anno) rafforzava questa tendenza. Le
autorità monetarie, in un primo tempo, non contrastarono la rivalutazione con
vendite adeguate di lire sul mercato, limitandosi a frenarne l’apprezzamento
senza bloccarlo. Nel maggio 1927 il valore medio mensile della lira risultava
ormai superiore di oltre il 32 per cento a quello del settembre precedente, sen­
za che il governo o le autorità monetarie facessero dichiarazioni che mostrassero
l’intenzione di prendere atto della crisi che colpiva l’economia italiana. In realtà
fin dagli ultimi giorni di aprile Mussolini sembrava essersi convinto dell’opportu­
nità di bloccare temporaneamente la rivalutazione, orientandosi su una quota
di 85-80 lire per sterlina, nella convinzione che solo tale « livello drammatico »
avrebbe permesso allo stato di ridurre i salari e gli stipendi in modo generaliz­
zato, per « alleggerì ire] i costi di produzione delle imprese private e assicu­
riate] il Bilancio dello Stato per il prossimo esercizio»95. Contemporaneamen­
te meditava una misura coattiva per ridurre gli affitti e i salari. La rivalutazione
della lira continuò ancora in maggio e giugno, portando il cambio al valore de­
siderato dal capo del governo. Ma in giugno le autorità monetarie modificarono
la natura del loro intervento %, acquistando lire in gran quantità per riportare
il cambio a « quota 90 », mentre Mussolini il 26 maggio e Volpi all’inizio di
giugno assicuravano ufficialmente che su questa quota ci si sarebbe arrestati
almeno fino all’autunno successivo97. Gli ambienti industriali ottenevano final­
mente soddisfazione, senza tuttavia che in pubblico trasparissero clamorose ma54 Su quest’episodio Vedi g. falco e m . storaci, Fluttuazioni monetarie cit.
55 Vedi lettera di Mussolini a Volpi del 26 aprile 1927, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase.
« Capo del Governo » cit. in r . de felic e , I lineamenti politici cit., p. 414-415.
96 Vedi p. b a ffi , La rivalutazione cit., pp. 108-109. Tra l’agosto e il dicembre 1926 la
lira migliorò « senza alcun intervento del Tesoro in nessun senso, né in Italia né altrove »
affermava Stringher nella sua relazione del 1926 sull’attività dell’INC. Vedi INC, Bilancio
dell’esercizio 1926, Roma, 1927, p. 11. Nell’ottobre 1926 iniziarono i primi modesti acquisti
da parte della Banca d ’Italia che proseguirono fino al maggio 1927. Complessivamente la
Banca acquistò (al netto delle vendite) 3.422.500 sterline (parzialmente investite in buoni
del Tesoro inglesi) e 5.815.000 dollari, per un controvalore in lire di circa mezzo miliardo.
Queste operazioni, comprese nella tav. 1, erano effettuate per conto dell’INC a cui furono
accreditati i rispettivi importi alla fine del primo semestre 1927 presso varie banche estere
e presso le filiali londinesi della Banca commerciale italiana e del Credito italiano. Nel gen­
naio 1927, intanto, l ’INC fu riorganizzato e gli venne nuovamente attribuito il compito
di intervenire sul mercato per regolare la quotazione della lira, cosa che fece a partire dal
febbraio 1927 per conto del Tesoro che non interveniva più sul mercato dei cambi dal­
l ’agosto 1926 (vedi INC, Bilancio dell'esercizio 1927, Roma, 1928, p. 22). Nell’arco dei
dodici mesi del 1927 le autorità monetarie acquistarono circa 78 milioni di dollari e 20
di sterline, equivalenti a circa 3,5 miliardi di lire, una somma ingente se si pensa che la cir­
colazione complessiva dei biglietti si aggirava attorno ai 19 miliardi. Gli interventi della
Banca d ’Italia comportarono elevati costi medi di acquisto: 21,15 per il dollaro e 107,51
per la sterlina. L ’INC, intervenendo più tardi, potè operare a condizioni migliori; per
questo il costo medio delle divise comprate complessivamente dai due istituti tra l’ottobre
1926 e il luglio 1927 risultò di 18,88 e 94,60 rispettivamente per dollaro e sterlina, costi
che si ridussero ulteriormente nel periodo successivo. (Tavole statistiche. ASBI, Op. F. 297).
” Dopo pochi giorni Mussolini revocò anche il termine di ottobre, accettando che non
Il ritorno all'oro In Belgio, Francia e Italia
37
nifestazioni di dissenso per la politica fino ad allora seguita, escluso il discorso
di Ettore Conti in Senato il 21 maggio, in cui l’influente industriale milanese
sostenne la necessità di bloccare la rivalutazione per non rovinare l’industria
italiana9S. D ’altra parte la politica di rivalutazione ad oltranza imposta da Mus­
solini fino alla metà del 1927 si scontrava con difficoltà tecniche, data la rapi­
dità con cui avveniva; proprio tali difficoltà potevano offrire dei margini d’in­
tervento a quanti erano responsabili della gestione monetaria per bloccare l’ap­
prezzamento della lira. L ’afflusso di divise dovuto alla speculazione e all’inde­
bitamento estero di enti e imprese costringeva le autorità monetarie a conci­
liare obiettivi tra loro contrastanti, poiché tale afflusso, oltre a provocare l’au­
mento del cambio, causava un aumento della circolazione monetaria, in con­
trasto con le direttive che ispiravano l’azione della Banca d ’Italia. In realtà,
accentuando la stretta deflazionistica nella seconda metà del 1927, l’istituto di
emissione riuscì a impedire che la circolazione aumentasse mentre crescevano
le disponibilità sull’estero sue e dell’INC. Fin dall’inizio del 1926, inoltre, le
autorità monetarie avevano disposto alcune misure che permettevano ai due
istituti di assorbire le divise giunte con i prestiti obbligazionari senza accrescere
la liquidità interna e graduando il trasferimento del provento dei prestiti agli
enti che si erano indebitati. Le società private che avevano emesso i prestiti
all’estero avevano tutte in qualche misura debiti verso le banche ordinarie, a
loro volta indebitate verso la banca centrale. Ciò permise all’INC di cancel­
lare debiti come contropartita delle divise raccolte all’estero anziché sborsare
lire; i crediti della Banca d’Italia e i debiti delle imprese venivano compensati
attraverso la mediazione dei grandi istituti di credito e dell’INC. Le compensa­
zioni riguardavano circa il 20 per cento dell’ammontare globale dei capitali af­
fluiti nel corso del 1927 e grazie ad esse fu possibile continuare la restrizione
creditizia pur contribuendo ad alleggerire gli immobilizzi delle banche verso
le industrie99. Un’altra quota importante del provento dei prestiti, circa il 36
per cento, confluì in un conto corrente vincolato presso l’INC. Si trattava di ca­
pitali di enti pubblici che accettarono di versare all’Istituto il controvalore in
lire delle divise introitate, per cui fu possibile « conseguire uno scaglionamento
nell’uso dei fondi relativi, poi che i prelievi degli enti a valere sui rispettivi
conti sono stati opportunamente disciplinanti nel tempo e nella misura, secondo
le necessità di pagamento degli enti stessi » I0°. Infatti l’INC provvide al paga­
mento del suo debito con lentezza: alla fine del 1928 i conti vincolati ammon­
tavano ancora a più di mezzo miliardo di lire.
Con l’insieme di queste misure (compensazioni, conti vincolati, buoni) le auto­
si parlasse più di ulteriori rivalutazioni della lira. Vedi la lettera di Mussolini a Volpi,
27 giugno 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 1, ftgr. 1469 (copia).
53 Vedi Ettore conti, Dal taccuino dì un borghese, Milano, 1946, pp. 375-378 e, per
gli strascichi polemici del discorso, le pp. 379-384. A ll’aprile 1927 risale la presa di posi­
zione contro la rivalutazione desiderata da Mussolini di Gino Olivetti, riportata in o. mosca ,
Nessuno volle i miei dollari d’oro, Roma, 1961, p. 225.
99 Vedi Banca d ’Italia, Adunanza cit., 1927, pp. 17-18. Un altro mezzo « per accrescere
la possibilità dela compensazione di debiti verso la Banca d ’Italia » (INC, Bilancio cit., 1927,
p. 39), mezzo predisposto in quanto « le operazioni connesse al ritiro dei mutui stipulati
all’estero [erano] venute successivamente eccedendo i limiti del previsto» (ibid.) era co­
stituito dall’autorizzazione concessa all’Istituto di emettere buoni fruttiferi nominativi a
favore di enti e imprese che versavano al Tesoro il ricavo netto dell’indebitamento all’estero.
Tali buoni potevano essere versati in un conto corrente della Banca d’Italia utilizzabile
solo per pagare i debiti verso la Banca stessa, oppure potevano essere accettati per estin­
guere crediti presso lo stato. Nel 1927 furono emessi circa 450 milioni di buoni, pari al
15% circa dell’incasso in lire relativo ai prestiti (cfr. tav. 3).
100 Vedi INC, Bilancio dell’esercizio 1927, Roma, 1928, p. 37.
38
Giancarlo Falco, Marina Storaci
rità monetarie riuscirono a limitare l’esborso di lire relativo all’indebitamento
con l’estero a poco più di 800 milioni di lire; il 29 per cento circa del controvalore in lire del totale delle divise incassate nel 1927 (vedi la tav. 3). D ’altra
parte gli enti e le società che si erano indebitati potevano accettare una restri­
zione temporanea nell’uso del provento dei prestiti perché molto più importante
per loro era poterli effettivamente emettere in un momento in cui lo consenti­
vano sia le condizioni del mercato finanziario internazionale, sia le scelte del
governo italiano, due condizioni che non necessariamente sarebbero durate a
lungo. Nonostante l’efficacia di queste misure (alcune delle quali erano state
inizialmente applicate per garantire l’accumulo di divise presso gli organi pre­
posti alla gestione della politica monetaria e accrescere il loro margine di ma­
novra in caso di attacco speculativo al ribasso o di un peggioramento della bi­
lancia dei pagamenti), una delle prime conseguenze del nuovo orientamento pre­
valso nel governo nella tarda primavera del 1927, ostile ad un’ulteriore rivalu­
tazione, fu la sospensione delle emissioni obbligazionarie all’estero. Fin dall’inizio
del 1927 Bonaldo Stringher aveva cercato di ostacolare l’indebitamento estero
dell’Italia ritenendolo eccessivo. Nel marzo aveva indicato al ministro delle
Finanze le preoccupazioni che suscitava in lui l’aumento dei prestiti esteri, essen­
do convinto di non lavorare « su un solido terreno »; egli temeva che i prestiti
impedissero, nell’immediato, il contenimento della circolazione e provocassero
in futuro il peggioramento della bilancia dei pagamenti attraverso il rimborso
del capitale e il pagamento degli interessi. Le posizioni del direttore generale
della Banca d’Italia furono addirittura ribadite nella relazione agli azionisti del­
l’istituto alla fine di marzo e l’emissione del prestito del Consorzio di credito per
le opere pubbliche e del governatorato di Roma in aprile gli fornirono una nuova
occasione per insistere sulle ripercussioni negative dei prestiti:
Per quanto sia previsto che i prelievi da parte degli enti mutuatari dell’equivalente in lire
del ricavo dei mutui verranno opportunamente disciplinati, scaglionando l’utilizzazione dei
fondi relativi, non si potrà evitare che siffatti prelevamenti non si traducano in un aggravio
della circolazione; e più precisamente per quella parte che fornisce i mezzi liquidi al com­
mercio e all’industria. Ed è ovvio che, ove si intenda di non dipartirsi dalle attuali direttive
in materia e di non accrescere, pertanto, la massa dei biglietti in circolazione per conto del
commercio, le utilizzazioni del controvalore delle divise assorbite dallo stato, per mezzo del­
l ’Istituto, dovranno necessariamente tradursi in un’ulteriore restrizione delle ordinarie ope­
razioni per il commercio101.
In quel momento la sola risposta alle pressioni di Stringher fu una circolare, di­
ramata all’estero, che precisava l’intenzione del governo di procedere per gradi
nel dare disponibilità liquide agli enti che avevano contratto i prestiti102. Ma
l’opinione di Stringher prevalse in giugno, quando il governo decise di riportare
la lira a « quota 90 » e di mantenervela dopo il forte apprezzamento delle set­
timane precedenti. Dopo una dichiarazione ufficiale di temporanea sospensione
dei prestiti esteri furono emanate nel luglio disposizioni limitative « per consi­
derazioni superiori di equilibrio monetario » I03. Nella seconda metà dell’anno
fu emesso all’estero un solo prestito, quello dell’Istituto di credito fondiario
101 Vedi la lettera di Stringher a Volpi, 5 aprile 1927, ASBI, PV 17/8.
102 Le città di Roma e Milano, si spiegava, possono prelevare i fondi relativi ai prestiti
« man mano che saranno da pagare i lavori preventivati, ciò che avverrà nel corso di più
anni [...] Anche per i prossimi prestiti industriali (Meridionale di elettricità, Pirelli, ecc.)
il Tesoro acquisterà e terrà per sé i dollari dando le lire man mano che le industrie do­
vranno pagare i lavori per nuovi impianti pei quali occorse ricorrere ai mutui esteri. Col
sistema adottato, che è e sarà mantenuto in pieno, le operazioni estere gioveranno per
aumentare le riserve di valute pregiate senza pesare sulla circolazione ». Vedi lo Schema
di comunicazione per l’estero, Vincenzo Azzolini a Stringher, 13 aprile 1927, ASBI, PV 17/8,
■“ Vedi INC, Bilancio dell’esercizio 1928, Roma, 1929, p. 22,
Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia
39
delle Venezie. Le emissioni ripresero in seguito, ma vennero rigidamente con­
tenute: le operazioni consentite fra il 1928 e il 1931 (anno in cui cessarono
definitivamente) ammontano a poco più del 19 per cento del totale di quelle
compiute dal 1925 al 1931 104.
L ’emissione dei prestiti all’estero prima, le vendite di lire in seguito, resero
possibile l’accumulo di una notevole quantità di valute auree, per i 2 /3 dol­
lari, che furono cedute dall’INC alla Banca d ’Italia in seguito alla legge di
riforma monetaria del 21 dicembre 1927 105. All’inizio del 1928 le divise accre­
ditate dall’Istituto alla Banca ammontavano a 22,5 milioni di sterline e a 106,5
milioni di dollari, oltre ad alcune partite minori di franchi svizzeri e fiorini
olandesi, pari complessivamente a 5 miliardi di lire 106. Ciò permise alla Banca
d ’Italia di denunciare, al momento della stabilizzazione legale, una copertura
aurea dei biglietti in circolazione e degli altri impegni a vista pari al 55 per cen­
to, ben superiore quindi al 40 per cento che la legge monetaria del 21 dicembre
imponeva. Le vicende della stabilizzazione e rivalutazione della lira sembrano
dunque concludersi con un successo per il governo e le autorità monetarie ita­
liane, a cui un’imponente massa di riserve garantiva di poter mantenere la pa­
rità di cambio ufficiale contro un peggioramento della bilancia dei pagamenti
conseguente alla rivalutazione o contro attacchi speculativi al ribasso favoriti
dalla debole posizione economica dell’Italia nei confronti del resto del mondo.
In realtà pochi mesi furono sufficienti a trasformare la crescita delle riserve va­
lutarie della banca centrale in una persistente diminuzione, parallela al peggio­
ramento dei conti con l ’estero dell’Italia. Sulla bilancia dei pagamenti gravavano
le quote di ammortamento degli interessi dei debiti di guerra e dei prestiti
contratti all’estero; per di più la ripresa economica verificatasi dopo la fine del
1927 fu dovuta in gran parte all’aumento della domanda interna, mentre le
esportazioni italiane si contraevano: il deficit commerciale aumentò, mentre la
nuova parità di cambio influiva negativamente anche sulle due più importanti
104 Numerose imprese continuarono a esercitare pressioni sul governo per poter lanciare
altri prestiti e la prospettiva che essi riprendessero fu sufficiente, secondo Stringher, a
inasprire i cambi. In agosto, quando la lira fu mantenuta a 89,25 rispetto alla sterlina grazie
all’intervento delTINC, il direttore generale della Banca d ’Italia scrisse a Volpi: « È con
tutta schiettezza che reputo opportuno di confessare il dubbio in me sorto che questo ina­
sprirsi del movimento ascendente della nostra valuta sia la conseguenza delle voci, pur­
troppo qua e là trapelate, di una non lontana ripresa di emissioni di nuovi prestiti italiani
nel mercato di New York, e forse, più particolarmente delle trattative che la “T em i”
starebbe già energicamente svolgendo. Dove si vuole effettivamente andare, e dove an­
dremo? Parlo sempre nell’ipotesi che si voglia tener ferma la quota 90! » (lettera di
Stringher a Volpi, 28 giugno 1927, A SBI, Op.F. 297). La Terni emise il prestito a New
York il 1° febbraio 1928. Per le ragioni che indussero ad emetterlo vedi franco bonelli,
Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino, 1975,
pp. 191-192. Le emissioni di obbligazioni all’estero ripresero negli anni successivi, seppure
in misura molto più limitata, fino ad esaurirsi nel 1931. Nel corso del periodo 1928-1931
furono emesse obbligazioni per 1,5 miliardi circa. Di questo miliardo e mezzo circa 1/3
era costituito dal consolidamento di prestiti a breve emessi in precedenza. Vedi Ministero
per la Costituente, Rapporto cit., p. 98.
105 Con le valute raccolte il Tesoro provvide anche a liquidare gran parte dei debiti in
divise estere contratti durante il tentativo di stabilizzare la lira a quota 120. La partita più
ingente era costituita dalle « prestazioni reciproche », che nel gennaio 1927 ammontavano
a 63,5 milioni di dollari a debito del Tesoro, di fronte a un credito di 1,6 miliardi di lire,
prevalentemente liquidati tra febbraio e dicembre. Vedi INC, Bilancio cit. 1927, p. 33.
104 Queste disponibilità (che escludono il ricavato dal prestito Morgan già iscritto da
oltre un anno nelle riserve della banca centrale) furono investite in conti correnti a
Londra e New York e in piccola parte in buoni del Tesoro inglesi e americani. I conti in
sterline rendevano quasi il 496, quelli in dollari poco più del 3% . Vedi Tavole dattiloscritte, febbraio-aprile 1928, ASBI, Op.F. 313. L ’interesse medio netto a cui erano stati
contratti i prestiti italiani all’estero era invece del 796.
40
Giancarlo Falco, Marina Storaci
partite compensative della bilancia dei pagamenti: gli introiti derivanti dalle
rimesse degli emigrati e dal turismo 107. Gli effetti della politica monetaria del
1926-27 sulla collocazione internazionale dell’Italia appaiono ancora più gravi
se si considerano le caratteristiche di fondo assunte dai conti con l’estero del
paese immediatamente dopo la guerra. Il saldo attivo dei noli marittimi dell’Ita­
lia rimaneva stazionario, né si poteva prevedere un suo aumento a breve termine.
Dato il volume e la ripartizione geografica del commercio mondiale, il tonnel­
laggio lasciato dall’intensa attività cantieristica degli anni di guerra e del dopo­
guerra nei principali paesi risultava sovrabbondante ancora alla fine degli anni
venti e provocava il ristagno dei noli. Negativi erano anche i mutamenti avve­
nuti nel movimento degli emigranti, cioè nella fonte delle rimesse. Non solo
l’emigrazione italiana si ridusse nel corso degli anni venti a causa dei provvedi­
menti restrittivi di alcuni paesi verso cui si orientava, ma essa dovette dirigersi
verso paesi meno ricchi; contemporaneamente aumentò l ’emigrazione permanen­
te (la meno generosa di rimesse), mentre gli emigrati nell’Europa occidentale
erano soggetti all’influenza di una congiuntura economica instabile 108.
L ’evoluzione del contesto internazionale in cui era inserita l’Italia sommava
quindi i suoi effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti con quelli derivanti da
una sopravvalutazione della lira. La parità di cambio definita il 21 dicembre 1927
(92,46 lire per sterlina, 19 lire per dollaro) riduceva la competitività delle prin­
cipali industrie esportatrici, in primo luogo di quella cotoniera in cui lavorava
allora la quota maggiore degli occupati nell’industria. Le conseguenze della quota
scelta, tuttavia, non furono disastrose per l’equilibrio economico delle industrie
nel loro complesso perché il governo fascista, una volta accettato di bloccare la
rivalutazione e di difendere « quota 90 », mise in atto una serie di provvedi­
menti destinati ad attenuare le implicazioni negative della deflazione e della ri­
valutazione o a compensarne gli effetti. Si ebbero così nell’agosto alcuni sgravi
fiscali sulle imposte dirette 109 intesi a ridurre di un miliardo circa il prelievo
e alla fine di giugno un decreto assoggettava al semplice prelievo di un irri­
sorio diritto fisso le fusioni di società, sopprimendo temporaneamente l ’im­
posta proporzionale fino ad allora applicata. Nell’ottobre il governo lanciava un
piano di lavori pubblici per 15 miliardi che avrebbe dovuto far fronte sia al­
l’aumento della disoccupazione, sia al ristagno produttivo di alcuni settori, men­
tre le spese militari dello stato consentivano ad altri settori di non interrom­
pere la loro attività no. La compensazione fondamentale, tuttavia, venne cercata
nella diminuzione di salari e stipendi. Nel gennaio 1927 cominciò l’attacco alle
indennità di carovita e ai premi di anzianità in singoli settori dell’industria; in
maggio fu decisa la riduzione del 10 per cento delle paghe in alcuni settori,
cominciando dai braccianti del Bresciano, mentre nell’ottobre successivo le de107 Dati sulla bilancia dei pagamenti italiana 1925-1929:
Turismo
Deficit commerciale
Rimesse
(2)
(2)
(1)
1925
8030
3,2
69,4
3,5-3,7
1926
3,0-3,2
2,7
7335
71,7
1927
4856
76,2
2,0-2,1
2,2
1928
7476
2,0-2,1
2,2
65,9
1929
6536
2,1-2,2
69,3
2,1
Fonti: (1) ISTA T, Sommario cit., p. 97; nella seconda colonna la copertura delle esporta­
zioni in percentuale delle importazioni; (2) g. borgatta, Rimesse degli emigranti e turismo, in
« Rassegna economica del Banco di Napoli », 1933, pp. 10-11,24.
108 Cfr. G. borgatta, Rimesse cit., pp. 13 sgg.
,09 Cfr. P. melograni, Gli industriali e Mussolini cit., pp. 223-224.
110 Un rapporto dell’ambasciatore inglese a Roma, Graham, al Foreign Office del 12 gen­
naio 1927, per esempio, sottolinea che le fabbriche della FIA T, escluse le produzioni di
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
41
curtazioni delle paghe (in misura variabile tra il 10 e il 20 per cento) venivano
estese a tutti i settori m. In realtà tali diminuzioni, calcolate sul livello con­
trattuale delle retribuzioni, furono largamente inferiori alle diminuzioni effet­
tive, causate dalla pratica (sempre più diffusa nel corso del 1927) di tenere gli
stabilimenti in attività solo alcuni giorni alle settimana, in generale 3 o 4, per
cui le paghe realmente percepite risultavano ridotte alla metà circa dei livel­
li precedenti la politica di rivalutazione. Alla contemporanea campagna per ra­
zionalizzare l’organizzazione del lavoro spettò il compito di non far ripercuo­
tere in misura proporzionale la riduzione degli orari di lavoro sulla produttività.
La politica monetaria di rivalutazione, più che rivelare una frattura fra governo
fascista e capitalismo italiano, rappresentò l ’occasione per rinsaldare la strut­
tura oligopolistica dell’economia italiana. La congiuntura economica che essa
determinò colpì in misura minore, o addirittura favorì, le industrie di gran­
di dimensioni. Solo esse ebbero la possibilità di reagire rapidamente alla crisi
avviando un vasto processo di consolidamento e di espansione delle loro strut­
ture monopolistiche, assorbendo imprese minori in difficoltà e stringendo accor­
di con imprese concorrenti per spartire produzioni e mercati e regolare i prezzi
di vendita con il favore del governo m, all’insegna di una campagna che esal­
tava la selezione così operata ai danni delle imprese che si pretendevano ineffi­
cienti, fino ad allora mantenute artificiosamente in vita dall’inflazione e dalla
politica di « danaro facile » dei primi anni venti113. Nessuno dei numerosissimi
fallimenti o chiusure di fabbriche verificatisi nel corso del 1927 coinvolse im­
prese importanti. Queste, d’altra parte, ebbero la possibilità di sottrarsi almeno
in parte alla stretta creditizia: oltre i loro tradizionali legami con le maggiori
banche (grazie ai quali potevano ottenere credito anche nei momenti difficili),
solo ad esse fu aperto il mercato finanziario estero per emettere obbligazioni o
per ottenere la quotazione delle loro azioni nelle principali borse estere. Un si­
mile processo comportò la modifica degli equilibri interni ai gruppi capitalistici
italiani. Oltre ad accentuare l’importanza delle grandi imprese e ad attribuire ad
esse un maggiore peso nei rapporti con il potere politico a scapito delle piccole
e m edie114, la politica monetaria del 1926-27 provocò il ridimensionamento
dell’industria tessile (soprattutto cotoniera), rendendone più difficile l’esporta­
zione e provocando la caduta dei consumi interni in seguito alla diminuzione
dei redditi di vasti strati della popolazione, senza sostituire ad essi una domanda
compensativa di origine statale come avvenne per altri settori (per esempio
quello automobilistico). La politica di rivalutazione pose le premesse per il ridi­
mensionamento delle banche di credito ordinario come centri di potere econo­
mico autonomo. Le perdite causate dalla crisi delle borse nel ’25 e dalla stagna­
zione dell’attività borsistica diminuirono la liquidità; nello stesso senso agì la
politica deflazionistica applicata dalla Banca d ’Italia dal settembre 1926 in poi,
auto, continuavano a lavorare per importanti commesse statali, specialmente di autocarri.
V. Foreign Office, General Correspondence, F.O. 371, 12195, doc. n. C 475/80/22,
Public Record Office, Londra.
111 Vedi p. melograni, Gli industriali e Mussolini cit., pp. 225-226; A. lyttleton , La con­
quista del potere cit., pp. 555-556.
112 Vedi Pietro grifone, Il capitale finanziario in Italia, Torino, 19712, pp. 67 sgg.
113 Vedi le dichiarazioni di Benni su « I l Popolo d ’Italia», 20 marzo 1927; il discorso
di Belluzzo alla Camera il 12 marzo 1927 (definito da Angelo Tasca in « Stato Operaio »
2 aprile 1927, p. 208, « una specie di programma di razionalizzazione ») a cui si riallaccia
Stringher nella sua relazione agli azionisti della Banca d ’Italia del 31 marzo successivo,
pp. 33-34; quello di Bianchini, presidente dell’Associazione bancaria italiana, riportato in
« Rivista Bancaria », 1927, p. 385.
114 Vedi R. sarti , Fascism and thè Industriai Leadership cit., pp. 80 sgg.
42
Giancarlo Falco, Marina Storaci
mentre lo sviluppo di enti di credito parastatali quali il CREDIOP, l’ICIPU,
l ’Istituto di Credito Navale 115 che miravano a rastrellare le disponibilità liquide
del pubblico con l’emissione di obbligazioni, l’accentuazione del ruolo pubblico
dei due banchi meridionali, trasformati in collettori del risparmio per conto del­
lo stato, toglievano spazio all’azione dei tre maggiori istituti di credito privati e
sembrano porre le premesse della loro pubblicizzazione nel 1933 116.
È difficile tuttavia rintracciare nella politica monetaria di quegli anni un dise­
gno inequivocabile e coerente che miri a una ristrutturazione dell’economia
italiana nel senso, per esempio, di favorire la conversione da un tipo di svi­
luppo largamente sostenuto dalle esportazioni (come sarebbe quello operante
tra la fine della guerra e il 1925), ad uno in cui la domanda interna sostenuta
dalla spesa pubblica risulti prevalente 117*. Le misure prese in campo monetario,
doganale e produttivo a partire dal 1925 sembrano ubbidire non alla lungimi­
rante previsione degli sviluppi dell’economia mondiale negli anni della grande
crisi, preparando una sorta di soluzione autarchica, ma piuttosto alla necessità
di trovare di volta in volta soluzioni che permettessero di bloccare gli effetti
negativi dell’inflazione e quelli del deficit della bilancia dei pagamenti, di ov­
viare a insufficienze del sistema monetario e finanziario con interventi di razio­
nalizzazione e di utile differenziazione dei compiti istituzionali, di attenuare in­
fine, dopo l’agosto 1926, le conseguenze della deflazione e della rivalutazione.
Le giustificazioni ufficiali della politica di rivalutazione applicata dall’estate del
1926 sottolineano la volontà di avvantaggiare « gli interessi delle classi a red­
diti fissi o più lenti, risparmiatrici e consumatrici, già impoverite ed indebolite
dalle svalutazioni verificatesi tra il 1914 e il 1922 » us, un obiettivo coerente
con lo sforzo di stabilizzazione sociale che il fascismo aveva dovuto affrontare
dopo la crisi del delitto Matteotti e la rapida inflazione del 1925-26 per non
perdere il sostegno delle classi medie nella fase cruciale della riorganizzazione
in senso totalitario dello stato. Verso la rivalutazione della lira spingevano an­
che le esigenze di prestigio nazionale (apertamente e frequentemente ammesse
dal capo del governo), in base all’identità stabilita così spesso negli anni venti
fra alto tasso di cambio e prestigio internazionale. Decisiva appare sotto que­
sto aspetto la tensione con la Francia determinatasi a partire dal 1924. Le
divergenze sull’assetto dell’Europa e del Mediterraneo scaturito dal trattato di
pace erano sfociate in politiche estere contrastanti, motivate dall’antagonismo
economico dei due paesi nei Balcani, nel Levante e nell’Africa settentrionale 1I9,
mentre gli attriti fra i due paesi erano aggravati dall’evoluzione in senso demo­
cratico radicale della Francia all’epoca dei governi del Cartel des Gauches. In
questo contesto non stupisce il confronto tra il livello della lira e quello del
franco, ripetutamente evocato da Mussolini. Il paragone fra le due monete non
115 Cfr. p. grifone, II capitale finanziario cit., pp. 72-73.
116 Ibid., pp. 64-65. Sul ridimensionamento del potere delle banche vedi anche A. lyttleton ,
La conquista del potere cit., pp. 582-584.
117 Era diffusa la convinzione che l’Italia fosse un paese importatore piuttosto che espor­
tatore e questo argomento venne spesso richiamato per giustificare la rivalutazione della
lira, anche da Volpi; ma è una constatazione che può tutt’al più indurre a dolersi meno
per una politica monetaria indiscutibilmente infelice anziché il punto di partenza per
elaborare una politica economica alternativa.
Cfr. G. borgatta, La politica monetaria del sistema corporativo cit., p. 252; un’utile
rassegna delle posizioni di economisti e politici in p . ba ffi , La rivalutazione del 1927,
cit. p. 115-120. Fondamentale per questa interpretazione il dibattito Sraffa-Tasca su « Stato
O peraio» del nov.-dic. 1927, pp. 1089-1095; l’analisi di Piero Sraffa su tempi e modi in cui
si giunge alla rivalutazione sembra confermata dalla ricerca qui proposta.
Vedi Giampiero carocci, La politica estera dell’Italia fascista (1925-1928), Bari, 1969,
pp. 102-sgg.
Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia
43
conduceva necessariamente a « quota 90 », ma certo ad una rivalutazione della
lira rispetto al franco, a dispetto degli svantaggi che ne sarebbero derivati alle
esportazioni italiane. D ’altronde il margine di manovra di cui disponevano le
autorità italiane nel fissare la parità di cambio era certamente maggiore di quel­
lo esistente in altri paesi grazie alla possibilità di far ricadere sui lavoratori le
conseguenze più gravi della rivalutazione, mentre la caratterizzazione dell’Italia
nel contesto internazionale era di un paese importatore piuttosto che esportatore.
Proprio questi due fattori permisero, in definitiva, al governo fascista di far ac­
cettare agli ambienti industriali la rivalutazione della lira in alternativa alla
semplice stabilizzazione sui livelli medi del 1925 e dei primi mesi del 1926 che
essi sembravano preferire. Il livello della quota definitiva risultò comunque da
un compromesso tra le tendenze rivalutazioniste del capo del governo e di certi
settori dell’opinione pubblica più vicina al fascismo e le preoccupazioni degli
ambienti industriali e finanziari. L ’analogia tra la parità con la sterlina del di­
cembre 1927 e quella dei mesi in cui il fascismo giunse al potere nel 1922 po­
teva offrire una facile giustificazione propagandistica al governo per non dover
ammettere di aver dovuto modificare i propri obiettivi di fronte alle richieste
degli industriali, mentre le falle che alla metà del 1927 cominciavano ad appa­
rire nel bilancio statale per il restringersi delle entrate provocato dalla crisi
economica e l’appesantirsi della spesa per il servizio del debito pubblico offri­
rono probabilmente ai responsabili della politica monetaria (molto cauti nelle
loro dichiarazioni, seppur non entusiasti di una politica di rivalutazione ad ol­
tranza) di intervenire efficacemente per modificare la volontà del capo del governo.
In novembre, quando le autorità monetarie italiane iniziarono a trattare con la
Federai Reserve Bank di New York e, poi, con la Banca d ’Inghilterra per otte­
nere un credito alla Banca d ’Italia in vista della stabilizzazione definitiva 12°, i
responsabili americani e inglesi cercarono di ottenere un livello di rivalutazione
meno alto (100 l i r e = l sterlina) 12021, ma pur trovando consensi nella delegazione
italiana, dovettero accettare una quota ritenuta alta (quindi suscettibile di non
poter essere mantenuta, con effetti negativi sulla stabilità del sistema monetario
internazionale). L ’atteggiamento del governo italiano non dava spazi per mutare
una quota che risultava da equilibri complessi.
Si deve considerare che il successo della nostra rivalutazione è stato ottenuto dalla decisa
volontà del Primo Ministro di ottenere una disciplina di tutto il paese a quota 90 per Ls —
scriveva^ il 14 dicembre 1927 Volpi a Stringher che trattava con Strong e Montagu Norman
la parità di cambio — ciò che costituisce un impegno di carattere politico molto pericoloso
da rivedere... La nostra formula fondamentale è che la lira abbia ri massimo potere di ac­
quisto visto che siamo e saremo ancora per una generazione un paese importatore soprattutto
di materie indispensabili alla vita. È quindi preferibile far fare dei sacrifici all’industria
esportatrice che in Italia è in limiti ancora non grandi e che del resto sta adeguandosi nella
sua maggioranza a quota 90 — invece di aumentare i prezzi del pane. Faccio assegnamento
sulla cordialità dei due Governatori per finire subito perché ogni giorno di ritardo costitui­
sce un pericolo 122.
G iancarlo F alco - M arina S toraci
120 Sui contatti con americani e inglesi prima della stabilizzazione ufficiale della lira vedi
R. h . m eyer , Bankers’ Diplomacy cit., pp. 50-53 ed É. moreau , Souvenirs cit., pp. 435,
436, 438, 440, 455. Delle pressioni che inglesi e americani fecero per stabilizzare a quota
100 durante le trattative per la stabilizzazione ufficiale era forse informato Egisto Ginella,
articolista di « Il Sole », che il 10 novembre 1927 chiese appunto di stabilizzare a 100 lire
per sterlina per tener conto del livello interno dei prezzi rispetto a quello internazionale.
Cfr. r. de felic e , Mussolini il fascista, II cit., pp. 257-258.
121 Vedi il telegramma che Nathan inviò per conto di Stringher da Londra ad Azzolini
per Volpi, s.g., dicembre 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 24, ftgr. 1511-1512.
122 Vedi il telegramma di Azzolini per conto di Volpi a Nathan per Stringher, Roma 14
dicembre 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 24, ftgr. 1513.
44
Giancarlo Falco, Marina Storaci
TAV. 1 - INC e Banca d’Italia. Operazioni inerenti alia difesa delia valuta: 1927
sterline
Gennaio*
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
640.275
508.000
165.000
463.346
279.747
6.863.807
5.018.084
3.294.557
3.068.339
4.325.533
149.136
2.996.373
Controvalore
in
sterline
dollari
Lire
268.319.980
640.275
7.305.225
275.064.418
600.335
7.823.225
277.090.211
7.683.225
665.335
436.530.342
1.128.681
13.499.959
468.199.150
14.914.126
1.204.529
1.597.465.457
7.970.421
40.121.399
2.193.627.610
49.119.936
12.833.661
2.442.803.171
58.461.246
13.711.973
2.821.613.106
16.534.056
65.375.514
3.334.261.934
20.668.892
73.276.858
3.209.937.652
19.343.920
72.970.534
20.913.021*** 78.013.390*** 3.453.728.486
Vendite
Acquisti
dollari
sterline
7.305.225
1.068.000
1.250.000
5.816.733
1.414.167
26.150.612
9.032.372
10.168.593
7.573.007
8.042.522
295.086
9.849.066
Rimanenze
dollari
_
_
547.940
100.000
550.000
1.390.000
—
203.899
97.916
154.843
2.416.245
246.257
190.697
1.474.109
1.427.272
—
—
943.340
33.835
827.282
658.739
141.178
601.409
4.806.211
6.859.178** 9.951.994**
27.772.197
87.965.383
I dati relativi a gennaio si riferiscono all’attività dell’INC nel 1926 e all’intervento della Banca d’Italia.
Da febbraio i dati riguardano solo l ’INC.
* * Scorte realizzate.
* * * Rimanenze delle divise assorbite.
Fonte: INC., Bilancio 1927, cit., p. 27.
*
TAV. 2 - Divise estere cedute all’Istituto dei Cambi, per conto del Tesoro, durante il
1927, da Enti e Società che hanno stipulato prestiti all’estero.
Mese
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
$
£
16.283.846,15
7.318.850,25
39.988.845,51
40.412.434,27
13.105.194,37
800.000,—
900.000,—
1.376.281,23
2.280.002,—
2.745.534,86
4.524,722,22
130.000
140.000
1.638.066
75.000
200.000
129.735.708,—
2.183.066
Controvalore
in lire al
cambio corrente
Fr. svizzeri
.
380.837.350
202.418.709
1.064.175.224
774.058.022
264.611.889
15.632.866
16.452.000
28.739.313
48.776.380
50.399.568
83.361.672
5.000.000
500.000
2.000.000
400.000
—
—
1 . 000.000
2.000.000
—
—
10.900.000
2.929.462.993
Fonte: INC, Bilancio 1927, cit., p. 35.
TAV. 3 - Divise introitate per mutui di enti e imprese e pagamenti relativi dell’INC. - 1927.
1927
Controvalore
delle divise
ritirate
con
in buoni
Febbraio
Marzo
Aprile
Maggio
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre
Novembre
Dicembre
i
380.837.350,00
202.418.709,85
1.064.175.224,87
774.058.022,35
254.611.889,30
15.632.866,65
16.452.000,00
28.739.313,15
48.776.380,00
50.399.568,05
83.361.672,30
2.919.462.996,52
Fonte: INC., Bilancio 1927, cit., p. 40.
c/c vincolati
(consistenze
mensili)
Pagamenti effettuati
2
189.337.350,00
125.378.456,00
80.354.572,65
132.948.246,80
100.747.940,35
41.980.366,65
20.158.693,47
27.489.542,61
26.562.055,97
60.327.507,75
10.356.672,30
814.641.404,55
3
___
—
—
17.600.000,00
103.200.000,00
57.300.000,00
53.800.000,00
45.700.000,00
53.600.000,00
—
119.100.000,00
450.300.000,00
4
191.500.000,00
78.040.253,85
—
187.259.052,30
108.568.725,40
—
12.000.000,00
—
21.594.000,00
—
—
598.962.031,55
5
—
—
983.820.652,22
3.420.071.375,47
1.381.846.555,60
1.297.939.055,60
1.228.332.362,13
1.444.000.667,42
1.091.305.375,95
1.080.917.916,25
1.062.186.696,50