S tudi e docum enti Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia: stabilizzazione sociale e politiche monetarie (1926-1928)* « Sfortunatamente le aspettative di quanti erano responsabili del nostro ritorno al gold standard nel 1925 non sono state in larga parte realizzate [...] I sei anni trascorsi da quella scelta politica si sono rivelati di carattere molto anomalo e i sacrifici che comportava il ritorno all’oro all’antica parità non sono stati com­ pensati dagli attesi vantaggi della stabilità dei prezzi internazionali », dichiarava il Macmillan Report nel 1931, alla vigilia della svalutazione della sterlina e del­ l’abbandono del tallone aureo 1. La constatazione del fallimento di un indirizzo di politica economica che aveva impegnato le autorità monetarie inglesi fin dalla conclusione della prima guerra mondiale può essere estesa al complesso degli sforzi compiuti nel corso degli anni venti per ricostruire un sistema monetario internazionale fondato su parità di cambio fisse e regolato dalla disponibilità di riserve auree o equivalenti. Nell’applicazione di questi principi governi ed espo­ nenti economici individuarono la soluzione ai fondamentali problemi che la guer­ ra mondiale aveva sollevato trasformando l’ordine economico internazionale e l’assetto interno di ciascuno dei paesi coinvolti. Essi avrebbero consentito di crea­ re un’economia mondiale coordinata in cui prezzi, salari, tassi di interesse, spesa pubblica e privata di ciascun paese sarebbero stati regolati dalle condizioni della sua bilancia dei pagamenti2: un deficit o un’eccedenza nei conti con l’estero avrebbero provocato, data l’esistenza di parità fisse tra le monete, un movimen­ to compensatore di divise (o in ultima istanza di oro) che avrebbe messo in moto * Gli autori ringraziano la Banca d’Italia per aver consentito l’accesso al suo Archivio sto­ rico e all’Archivio Beneduce e per aver reso più spedito il lavoro di raccolta del materiale con la fattiva e generosa collaborazione della direzione e del personale dell’Archivio stesso. Abbreviazioni usate nel testo: Archivio Storico della Banca d’Italia: ASBI Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Varie: PV Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Speciali: PS Servizio Rapporti con l’Estero, Pratiche Riservate: PR Operazioni Finanziarie: Op.F. Bobina: bob. Fotogramma/i: ftgr. Archivio centrale dello Stato: ACS Istituto Nazionale per i Cambi con l’Estero: INC. 1 Committee on Finance and Industry, Report presented to Parliament by Financial Se­ cretary to the Treasury by Command of His Majesty, june 1931 (Cmd. 3897), London, 1931, p. 106. 2 Stephen v.o. clarke , The reconstruction of the international monetary system: the attempts of 1922 and 1933, Princeton, 1973, pp. 11-12. 4 Giancarlo Falco, Marina Storaci il meccanismo atto a ricostituire un nuovo equilibrio. Grazie ad uno strumento che pareva agire secondo principi di indiscutibile razionalità e oggettività, sembrava possibile eliminare ogni anomalia economica che turbasse la stabilità delle relazioni economiche internazionali, garantendo i presupposti su cui fondare un ordinato sviluppo del commercio e delle transazioni finanziarie. In realtà quest’esigenza, largamente accettata da economisti e uomini politici, poteva avere significati e implicazioni diverse o addirittura contraddittorie a seconda degli interessi na­ zionali coinvolti. Per gli ambienti economici americani più avvertiti delle oppor­ tunità che la nuova posizione internazionale del loro paese offriva, si trattava di consolidare il ruolo di grande esportatore non solo di materie prime fondamentali, ma anche di prodotti industriali tecnologicamente avanzati conquistato dagli Stati Uniti durante la guerra. New York doveva diventare un centro di finanziamento del commercio mondiale alla pari o in vantaggio rispetto a Lon­ dra; in questo modo l’iniziativa privata e le forze di mercato avrebbero conti­ nuato a svolgere la funzione che negli anni di guerra avevano svolto i crediti concessi agli alleati, realizzando compiutamente un progetto di egemonia eco­ nomica mondiale già delineato negli anni precedenti la guerra. Anche per l’In­ ghilterra (che pure costituiva la prima vittima dell’ascesa americana) la stabilità monetaria internazionale doveva garantire lo sviluppo del commercio mondiale e quindi delle esportazioni inglesi. La loro competitività, anzi, sarebbe cresciuta in seguito alla diffusione del nuovo sistema di pagamenti perché esso, impegnan­ do i paesi che l’adottavano in una politica deflazionistica, avrebbe provocato un aumento dei prezzi sul mercato mondiale, tenuti bassi nel dopoguerra dai paesi a valuta deprezzata3. Londra inoltre avrebbe tanto più agevolmente riconqui­ stato l’antica funzione di centro finanziario mondiale quanto più rapidamente fosse stata restaurata la fiducia nella sterlina come mezzo di pagamento mon­ diale e quanto più celere fosse stato il ritorno alla normalità nelle relazioni eco­ nomiche internazionali perché ciò avrebbe permesso al sistema bancario inglese di far valere appieno l’efficacia dei suoi metodi di lavoro e l’estensione della sua rete di relazioni. Le due potenze maggiori si attendevano i benefici più cospicui dalla restaurazione di un sistema di parità di cambio fisse, ma lo stesso obiettivo incontrava anche il consenso di quei paesi industrializzati minori le cui espor­ tazioni, venivano favorite dalla progressiva svalutazione delle loro monete, la­ sciate libere di fluttuare rispetto a quelle stabili. Per questi paesi la stabilizza­ zione dei cambi costituiva una garanzia di ulteriore sviluppo della loro econo­ mia: solo a questa condizione sarebbero affluiti i crediti esteri con cui risolvere le difficoltà causate da ricorrenti deficit della bilancia dei pagamenti o (dati i li­ miti fissati alla circolazione monetaria e all’attività creditizia) da un’insufficiente disponibilità di capitali all’interno per gli investimenti. Ragioni analoghe, infine, agivano con forza ancora maggiore sui paesi produttori di materie prime, tradi­ zionalmente debitori e largamente dipendenti dagli investimenti stranieri. Accettando di aderire a un sistema di parità fisse, però, i responsabili della po­ litica economica dei diversi paesi dovevano tener conto delle condizioni interne a ciascuno di essi. Un simile orientamento comportò inevitabilmente l’adegua­ mento dei principi del gold standard alla natura degli interessi e dei rapporti sociali esistenti all’interno dei diversi paesi: una controllata espansione della circolazione e il pareggio del bilancio statale, ad esempio, pur rimanendo punti di riferimento fondamentali della politica monetaria, dovettero spesso venir 3 Vedi le convinzioni espresse da Lord Bradbury durante l ’inchiesta preparatoria del Mac­ millan Report cit. in d. e . moggeidge, The return to gold 1925. The formulation of economie policy and its critics, Cambridge, 1969, p. 81. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 5 accordati con l’esistenza di una vischiosità dei prezzi e con una limitata mobili­ tà delle risorse interne, dovuta all’organizzazione produttiva storicamente realiz­ zatasi in ogni paese e ai rapporti di forza tra le classi sociali al loro interno. Nel­ l’applicazione reale, perciò, i principi del gold standard (o del gold exchange standard per i paesi le cui riserve non erano costituite prevalentemente da oro) subirono numerosi adattamenti, la cui ampiezza dipese in sostanza dai margini di autonomia di cui disponevano le autorità monetarie di un paese nell’elaborare la propria politica in rapporto al contesto internazionale e agli obiettivi politici che si intendevano realizzare con gli strumenti monetari. Nelle vicende delle stabilizzazioni monetarie europee si inserirono infine le ra­ gioni di tensione economica e diplomatica esistenti tra i paesi maggiori, in lotta tra loro per la conquista di aree di influenza, e gli effetti stabilizzanti che ci si attendeva dalla restaurazione di un sistema di parità di cambio fisse risultarono in definitiva assai limitati. I principi del gold standard si trasformarono piut­ tosto in uno strumento di pressione dei paesi creditori su quelli debitori, utiliz­ zabile nell’ambito della politica di egemonia che i primi perseguivano per creare un vincolo esterno alle scelte dei secondi e per orientarle. Tuttavia la mancanza di un paese che esercitasse in modo indiscutibile la propria egemonia econo­ mica e politica sul resto del mondo ridusse considerevolmente l’efficacia di un simile strumento e accentuò gli aspetti squilibranti presenti nelle relazioni eco­ nomiche internazionali durante gli anni venti, provocando in definitiva il falli­ mento dei tentativi compiuti in quel periodo per giungere ad un sistema eco­ nomico mondiale stabile ed unitario. Le stabilizzazioni di Belgio, Francia e Italia costituiscono un’adeguata esempli­ ficazione dei limiti e delle conseguenze del generale processo di stabilizzazione monetaria in atto negli anni venti. Le notevoli differenze nei tassi di stabilizza­ zione in paesi che pure alla vigilia della guerra avevano una parità di cambio identica rispetto all’oro, il peso attribuito alle opportunità di concorrenza com­ merciale che potevano derivare dalle diverse politiche monetarie seguite o quel­ lo dato alle motivazioni di prestigio politico, così come le pressioni esercitate dagli ambienti finanziari americani e inglesi per determinare la politica moneta­ ria dei tre paesi, contribuiscono a chiarire fino a che punto il ritorno al gold standard non potesse venir ricondotto agli astratti principi di razionalità e di ordine economico che i suoi teorici proclamavano. Le vicende dei tre paesi consentono anche di chiarire le implicazioni sociali sul piano interno della stabilizzazione monetaria. Il ritorno alla convertibilità aurea delle tre monete venne spesso presentato come un atto che avrebbe riprodotto le condizioni di stabilità dei prezzi prevalenti in Europa nei decenni prima del­ la guerra. La convinzione che questa misura monetaria sarebbe stata coronata dal ritorno alla parità di cambio prebellica (cioè in definitiva al livello prebel­ lico dei prezzi) fu largamente diffusa nell’Europa degli anni venti e alimentò per anni l’illusione che fosse possibile cancellare con mezzi opportuni le con­ seguenze più traumatizzanti, per ampi strati sociali, della guerra e delle trasfor­ mazioni economiche che ne erano derivate. Si trattava in particolare dei ceti medi e della piccola borghesia, la cui posizione era stata gravemente minacciata dall’inflazione postbellica e che vedevano con particolare favore una politica che perseguisse non solo la stabilità dei prezzi, ma addirittura la rivalutazione della moneta. Una simile prospettiva rischiava, se effettivamente realizzata, di sacri­ ficare gli interessi dei gruppi industriali, normalmente più avvantaggiati (al­ meno entro certi limiti) da una politica monetaria inflazionistica. Questi riusci­ rono, in definitiva, ad influenzare la politica economica complessiva che accom­ pagnò il ritorno alla convertibilità aurea, pur dovendosi adattare a condizioni 6 Giancarlo Falco, Marina Storaci sociali e politiche molto diverse nei tre paesi. Un simile risultato, tuttavia, fu raggiunto solo a prezzo di gravi tensioni all’interno dei gruppi dirigenti nazio­ nali, come mostra la difficoltà e la contraddittorietà con cui fu elaborata, nei tre paesi, la politica monetaria che alla fine prevalse: difficoltà aggravata, d ’altra parte, dalle implicazioni internazionali che una simile decisione comportva. Il risultato politico delle stabilizzazioni fu un successo delle tendenze più conser­ vatrici all’interno di Belgio e Francia, mentre in Italia il ritorno all’oro si in­ trecciò strettamente con l’accentuazione del carattere autoritario della dittatura fascista, coronando così il processo di stabilizzazione sociale in senso conserva­ tore e reazionario che seguì, in Europa, il fallimento delle prospettive di rivo­ luzione sociale dell’immediato dopoguerra. La stabilizzazione monetaria si ri­ velava strumentale rispetto a tale processo, consentendo ai gruppi dirigenti dei tre paesi di consolidare il proprio potere e di ottenere l’appoggio e il consenso della piccola e media borghesia. Un atto di politica economica che si preten­ deva dettato esclusivamente da principi di razionalità economica risulta così il punto di convergenza di un complesso di problemi chiave nella trasformazione della struttura sociale dei singoli paesi e dei rapporti economici internazionali e si rivela il tentativo forse più complesso per liquidare e riassorbire le conseguen­ ze di una situazione squilibrata e conflittuale lasciata dalla guerra mondiale. La crisi italiana del 1925: la bilancia dei pagamenti e il mercato dei capitali Fino al 1925 la congiuntura economica espansiva in atto in Italia dalla metà del 1922 trovò alimento e sostegno in numerose condizioni favorevoli, alcune riconducibili alle trasformazioni provocate dalla guerra nell’apparato produttivo italiano e nella situazione internazionale, altre connesse a fattori congiunturali esteri, alla politica seguita dalle autorità monetarie italiane, alla possibilità in­ fine di comprimere i salari dopo la sconfitta del movimento operaio nel 1921-22 che accresceva la competitività delle esportazioni. Il risultato di questo com­ plesso di fattori fu una crescita vigorosa della produzione industriale senza che si verificassero ripercussioni negative sulla bilancia dei pagamenti, benché le in­ dustrie importassero la maggior parte delle materie prime e dei semilavorati loro occorrenti. Le partite attive della bilancia dei pagamenti (rimesse, noli e introiti derivanti dal turismo) furono perciò sufficienti anche in questi anni, come già prima della guerra, a compensare il deficit commerciale. A partire dalla crisi del 1920-21 migliorarono i rapporti di scambio del com­ mercio estero italiano. I prezzi delle materie prime e degli alimentari, che co­ stituiscono oltre il 67 per cento delle importazioni nel 1920-25, contro il 57,6 per cento nel 1909-13, si riducono per effetto della crisi più di quelli dei pro­ dotti industriali finiti o semilavorati che costituiscono la parte maggiore e cre­ scente delle esportazioni (il 69,4 e 63,9 per cento rispettivamente nel 1920-22 e 1923-25, contro il 56,4 per cento nel 1909-13)4. Le cifre indicano somma­ riamente il profondo mutamento che intervenne durante la guerra nella compo­ sizione del commercio estero italiano. Alcuni settori industriali sviluppatisi du­ rante il conflitto riuscirono a conquistare una quota del mercato mondiale di alcuni prodotti tecnologicamente avanzati la cui domanda era in rapida espan4 Cifre calcolate sui dati del commercio internazionale dell’Italia divisi per categorie mer­ ceologiche citati in Banca Commerciale italiana, Movimento economico dell’Italia, vol. XV, Milano, 1927, p. 50. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 7 sione: in particolare automobili e (in misura più ridotta) prodotti meccanici. La quota italiana sulle esportazioni meccaniche e di mezzi di trasporto degli otto paesi più industrializzati passò infatti dal 7,6 per cento in termini di valore nel 1913 al 9,8 per cento nel 1928, quando già la rivalutazione monetaria aveva ridotto le esportazioni italiane in questi settori5. Il successo maggiore, tuttavia, lo ottenne il settore tessile. La quota delle esportazioni italiane di tessuti sul totale dei dieci maggiori produttori6 aumentò infatti dal 4,7 per cento del 1913 all’8 per cento nel 1928 7, benché il commercio mondiale presentasse una accentuata tendenza al ristagno proprio in questo settore a causa dello sviluppo della produzione tessile in molti paesi di recente industrializzazione8. Le espor­ tazioni italiane del settore ricevettero nuovo impulso dall’affermarsi in Italia di un’importante produzione di fibre artificiali (rayon) che andarono ad affiancarsi in misura crescente alle tradizionali esportazioni di prodotti in cotone, lana e seta. La brusca caduta delle esportazioni tedesche negli anni venti rispetto al periodo prebellico in conseguenza della sconfitta militare favorì certamente l’affermazio­ ne all’estero di alcuni prodotti italiani, ma è probabile che la competitività delle industrie esportatrici italiane migliorasse nella prima metà degli anni venti per effetto sia della compressione dei salari, sia della politica monetaria seguita dopo la fine del conflitto. Essa aveva come obiettivo l’attenuazione delle gravi spinte inflazionistiche manifestatesi nel 1919-20, pur evitando misure pesantemente deflazionistiche. Lo stato ridusse il proprio deficit di bilancio tra il 1922 e il 1925, riuscendo addirittura a conseguire un modesto attivo nel 1924-25, ma accompagnò questa misura con la riduzione del debito pubblico e con una politica di espansione creditizia (realizzata con l’aumento degli sconti degli isti­ tuti di emissione e lo smobilizzo dei portafogli della Banca italiana di sconto e del Banco di Roma). In tal modo le autorità monetarie accrebbero la liqui­ dità a disposizione dei privati e sostennero lo sviluppo produttivo, mentre il pericolo di un prolungato peggioramento della lira veniva scongiurato (dopo la drastica svalutazione degli anni di guerra e dell’immediato dopoguerra) dall’equi­ librio della bilancia dei pagamenti. Modeste fluttuazioni verso il basso della lira si risolvevano invece in un’accresciuta concorrenzialità delle esportazioni italiane. Una situazione simile, tuttavia, imponeva un controllo dell’equilibrio della bi­ lancia dei pagamenti che non era facile ottenere in presenza di un deficit com­ merciale che restava consistente e di una situazione internazionale resa insta­ bile da molti fattori, tutti strettamente connessi l ’uno all’altro: dalla questio­ ne delle riparazioni tedesche e dei debiti di guerra interalleati alla presenza competitiva di nuovi paesi sul mercato mondiale, alla mancanza di un’efficace concertazione delle politiche monetarie dei maggiori paesi industrializzati (qua­ le si ebbe dopo la seconda guerra mondiale), ai frequenti e ampi movimenti speculativi contro monete chiave del sistema di pagamenti internazionale. La rottura dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti italiana cominciò a pro­ filarsi negli ultimi mesi del 1924. Il raccolto di grano era stato scarso: 44,8 mi­ lioni di quintali contro 59,2 del 1923 9; un anno di particolare abbondanza in 5 v. ingvar svennilson , Growth and stagnation in thè Européen economy, UN Commismission for Europe, Geneva, 1954, tab. A 61, p. 295. Gli otto paesi a cui si fa riferimento sono: Italia, Belgio, Francia, Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. 6 Oltre i paesi già citati, India e Giappone. 7 Ibid., tab. 55, p. 188. * Ibid. e pp. 178 sgg. 9 V. ista t , Sommario di statistiche storiche 1861-1965, Roma, 1968, p. 62. Per un’idea più precisa del fabbisogno reale di grano, calcolato sulTannata agraria cfr. Giacomo acerbo, 8 Giancarlo Falco, Marina Storaci cui, però, erano stati importati quasi 28 milioni di quintali per riuscire a sal­ dare l’annata agraria, essendosi verificato un cattivo raccolto anche nel 1922. Per il 1924-25 sarebbero state necessarie nuove importazioni, proprio quando il prezzo del grano (come quello di molti alimentari e materie prime) raggiun­ geva livelli relativamente alti. Gli effetti del cattivo raccolto sulla bilancia dei pagamenti furono pienamente evidenti, però, nei primi mesi del 1925, quando gli importatori di grano che avevano dilazionato gli acquisti nel 1924 per l’alto livello dei prezzi internazionali, non poterono più rinviarli10. Le importazioni alimentari nel primo trimestre del 1925 aumentarono del 27 per cento in ter­ mini di quantità rispetto al trimestre precedente. Il peggioramento della lira fu immediato; parallelamente i prezzi interni, che già nel secondo semestre 1924 erano in aumento a causa soprattutto del forte sviluppo degli investimenti (edi­ li e industriali), crebbero più rapidamente sotto la spinta della svalutazione. La situazione presentava ormai i caratteri tipici di una congiuntura inflazionistica: allora si scatenò una corsa alla speculazione. Gli importatori accelerarono gli acquisti per accumulare scorte, gli esportatori tesaurizzarono all’estero il pro­ vento delle loro vendite, aggravando il deficit della bilancia dei pagamenti e il deprezzamento della lira. Nei primi sei mesi del 1925 le importazioni crebbero del 33 per cento in volume n, aumento dovuto soprattutto all’acquisto di com­ bustibili e materie prime per le industrie e sproporzionato alle esigenze produt­ tive. Nel secondo semestre, poi, il deficit della bilancia commerciale risultò ag­ gravato dal venir meno dell’espansione stagionale delle esportazioni n, sia per le difficoltà economiche e monetarie di alcuni paesi importatori, sia per una perdita di concorrenzialità degli esportatori che adeguarono i prezzi di vendita all’aumento dei costi. Si profilava inoltre il pericolo che l’aumento dei prezzi al consumo desse spazio a una ripresa della lotta operaia nelle fabbriche nonostan­ te la repressione e la vigilanza poliziesca, la pressione dei disoccupati e le in­ certezze e divisioni riscontrabili nella Confederazione generale del lavoro 13. La seconda metà del 1924 e la prima del 1925 sono caratterizzate da una diffusa ripresa delle lotte operaie (culminate nello sciopero dei metallurgici del febL ‘economia dei cereali nell’Italia e nel mondo. Evoluzione storica e consistenza attuale della produzione, del consumo e del commercio. Politica agraria e commerciale, Milano, 1934, p. 215, da cui si ricava che la quota delle importazioni nette sul totale delle disponibilità agra­ rie fu rispettivamente del 41,7% nel corso dell’annata agraria 1922-23, del 23,6% in quella 1923-24, del 34,3% in quella successiva e del 22,9% in quella 1925-26. I dati sono calcolati a partire da quelli citati in Banca commerciale italiana, Movimento cit., p. 16 e nelle Prospet­ tive economiche del Mortara. Essi non coincidono con quelli citati in ista t , Sommario cit., ma l ’ordine di grandezza del fenomeno che si vuole mettere in evidenza non risulta sensi­ bilmente alterato da questa discrepanza. 10 Cfr. riccardo bachi, Variazioni di quantità e di prezzo negli scambi commerciali fra l ’Italia e l ’estero, in « Rivista bancaria », 1925, p. 292. 11 Ibid., p. 709. u Le esportazioni italiane tendevano a crescere negli ultimi mesi dell’anno: l’incremento quantitativo delle esportazioni nel secondo semestre rispetto al primo era stato del 20% nel 1922, del 30% nel 1923, ma solo dell’11% nel 1924 e dell’1% nel 1925. Cifre dedotte da Riccardo Bachi, art. cit., in « Rivista bancaria », 1924, p. 146 e 1926, p. 294. 13 Preoccupazioni in questo senso sono espresse nelle istruzioni ai prefetti del ministro dell’Interno Federzoni del 17 ottobre 1924, riportate in Renzo de felic e , Mussolini il fa­ scista. I La conquista del potere. 1921-1925, Torino, 1966, p. 639, intese a sventare i pericoli per l’ordine pubblico che l ’aumento del prezzo del pane poteva creare. In quell’occasione doveva essere vivo il timore che le agitazioni contro il carovita colpissero il governo mentre ancora non era risolta a suo favore la crisi successiva all’assassinio di Matteotti. Se le auto­ rità di governo si fossero dimostrate incapaci di garantire l ’ordine sociale e la stabilità che il memoriale della Confindustria del 9 settembre 1924 chiedeva a Mussolini, ben più arduo si sarebbe rivelato il compito del gruppo dirigente fascista di recuperare quegli appoggi e quel consenso che ne avevano agevolato l’arrivo al governo. Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 9 braio-marzo 1925) che minacciavano la politica di compressione salariale in atto da oltre un triennio. Un aumento salariale esteso a molte categorie operaie poteva aggiungersi all’aumento dei prezzi di importazione, aggravando la posi­ zione dell’industria esportatrice. La bilancia dei pagamenti italiana, benché fos­ sero aumentati gli introiti del turismo grazie all’Anno santo e alla svalutazione della lira e si fossero accresciute anche le rimesse degli emigrati, potè essere saldata nel 1925 solo grazie ai prestiti esteri. Insieme con le manovre speculative di importatori ed esportatori, negli ultimi mesi del 1924 e nei primi del 1925 si verifica una corsa a beni e valori rifugio: gli investimenti in case e terreni aumentano 14 e piccoli e medi risparmiatori si affiancarono agli abituali operatori di borsa per accaparrarsi azioni, abbando­ nando i tradizionali impieghi in titoli di stato. L ’indice generale delle quotazio­ ni di borsa, da 107,4 nel dicembre 1923, sale a 163,4 nel dicembre 1924, a 164,4 nel gennaio 1925, a 183,1 nel febbraio 15. Probabilmente anche i più im­ portanti gruppi industriali impegnarono riserve patrimoniali e altre disponibilità liquide per compravendite di titoli. Il rialzo era sostenuto dai principali istituti di credito, come accertò un’inchiesta del direttore generale della Banca d ’Italia condotta presso i direttori delle filiali 16. D ’altra parte l’attività borsistica era stata fin dal suo inizio regolata dall’azione delle grandi banche che curavano il collocamento dei titoli presso la propria clientela, ne sostenevano le quotazio­ ni e si accollavano gli stocks invenduti perché dal livello delle quotazioni dipen­ deva sia la riuscita delle emissioni, sia il valore della quota che la banca aveva trattenuto 17. Di fronte a questa ondata speculativa che rifletteva la diffusa sfi­ ducia nelle sorti della lira, il governo decise di intervenire drasticamente per ridurre il giro d ’affari borsistico. Il 28 febbraio furono vietati gli acquisti a termine dei titoli (cioè il canale più importante che alimentava l’attività specu- 14 Gli anni del primo dopoguerra, specie il 1922 e i seguenti, sono caratterizzati da un forte sviluppo dell’attività edilizia; in termini assoluti il numero delle stanze disponibili aumenta in modo evidente soprattutto nel triennio 1924-26. Cfr. ornello vitali, La stima degli investimenti e lo stock del capitale, in Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’eco­ nomia italiana negli ultimi cento anni, voi. I l i , Milano, 1969, p. 489. 15 Vedi Banca commerciale italiana, Movimento cit., p. 141; l ’indice ha base 1913. Le quo­ tazioni della rendita, invece, scesero di quasi tre punti nel gennaio 1925; dopo un recupero in febbraio (che non riportò tuttavia le quotazioni ai livelli medi del secondo semestre 1924), continuarono a cadere nei mesi successivi, toccando il minimo in luglio (Ibid., p. 142). 16 « ... I regolatori del mercato sono le grandi banche e i noti gruppi di Milano e Torino... », scriveva Del Vecchio [direttore della filiale di Genova della Banca d ’Italia] a Stringher, 24 febbraio 1925, ASBI, PV 16/8; « F r a i responsabili di questa pericolosa situazione non v’ha dubbio che siano purtroppo da annoverarsi i grandi istituti di credito, i quali in luogo di moderare questa tendenza al rialzo, al contrario l ’agevolano con larghe sovvenzioni — e taluno con diretti interventi... », ribadiva Giacomini [direttore della filiale di Milano della Banca d ’Italia] a Stringher, 26 febbraio 1925, A SBI, PV 16/8. 17 Cfr. R. bachi, Il mercato finanziario italiano 1919-1936, in « Annali di economia del­ l’Università di Milano », X II, 1937, pp. 222-224. La prima importante ondata di colloca­ mento di azioni, su un mercato fino ad allora costituito prevalentemente da titoli di stato o garantiti dallo stato, si effettuò negli anni 1901-1905 ed ebbe come protagoniste le imprese che si erano appoggiate alle banche maggiori per svilupparsi in settori nuovi. Sui rapporti fra banche e imprese e sulle caratteristiche del mercato finanziario in quegli anni vedi franco bonelli , Osservazioni e dati sul finanziamento dell’industria italiana all’inizio del secolo X X , in « Annali della Fondazione L. Einaudi », a. II, 1968, pp. 257-286 e, dello stesso autore, La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Torino, 1971, pp. 13 sgg. Dopo la battuta d ’arresto imputabile alla crisi del 1905-1907, il mercato azionario tornò ad espandersi in concomitanza con la ristrutturazione e il grande sviluppo di alcuni settori in­ dustriali durante la guerra e nell’immediato dopoguerra (1917-1919). Dalla fine del 1922, comunque, le quotazioni erano in aumento pressoché costante, salvo una modesta crisi dopo il delitto Matteotti, conclusa però nel settembre 1924. 10 Giancarlo Falco, Marina Storaci lativa) se non versando immediatamente il 25 per cento del prezzo dei titoli trattati, mentre in marzo e aprile seguirono altre misure restrittive (l’aumento di mezzo punto del tasso di sconto, l’aumento di un punto del tasso sulle anticipazioni, una nuova e più rigida disciplina del funzionamento delle borse) e la proibizione delle vendite a termine senza versamento immediato del 25 per cento del valore trattato. Le disposizioni del ministero delle Finanze frenarono la corsa alla compraven­ dita di titoli e diedero l’avvio a un rapido ribasso delle quotazioni, mettendo così in difficoltà, in primo luogo, le banche che si trovarono con un portafoglio titoli in rapida svalutazione e impegnate in cospicue operazioni di riporto. I provvedimenti sulle borse, inoltre, toglievano alle banche ogni prospettiva di alleggerire i propri immobilizzi verso le imprese che finanziavano trasforman­ done una parte in emissioni azionarie da collocare presso il pubblico. A ciò si aggiunga che nella nuova situazione gli istituti di credito dovettero impegnarsi anche nel sottoscrivere buona parte delle emissioni di capitali già deliberate o comunque inevitabili. Queste misure, però, ebbero ripercussioni negative anche per le imprese, molte delle quali (già largamente indebitate verso le banche e incapaci di accrescere nell’immediato il proprio autofinanziamento) si rivolge­ vano al mercato borsistico per accrescere la propria liquidità e far fronte ai pro­ grammi di investimento. Il risultato complessivo fu una generale riduzione del­ la liquidità del sistema creditizio, aggravata forse dalla speculazione sui cambi che le banche conducevano in quei mesi. Essa tuttavia non divenne dramma­ tica grazie all’intervento della Banca d ’Italia che allargò la circolazione nel mo­ mento di maggior pesantezza ed estese le operazioni di sconto « nell’intento di rendere possibile una liquidazione che si annunciava difficile e di allontanare una crisi di fiducia che avrebbe potuto avere non desiderate conseguenze per l’economia generale » 18. Le misure sulle borse ebbero, però, un ruolo determinante nel provocare le di­ missioni forzate del ministro delle Finanze e di quello dell’Economia nazionale 19. Contro l’azione di De’ Stefani alle Finanze si erano già occasionalmente mani­ festate critiche e opposizioni da parte di singoli settori industriali, lesi in specifi­ ci interessi; nel complesso però le sue direttive di politica fiscale, monetaria e “ Banca d ’Italia, Adunanza generale ordinaria degli azionisti tenuta in Roma il giorno 31 marzo 1926, Roma, 1926, p. 22. La circolazione degli istituti di emissione nel 1925 aumentò di 1,2 miliardi circa e le operazioni attive di 2 miliardi circa, un aumento enorme e non giustificato dall’aumento dei prezzi, se si paragona con quello di 200 milioni verificatosi nel 1924. 19 Le dimissioni di De’ Stefani furono agevolate dall’indebolirsi della sua posizione nel partito fascista quando Farinacci ne fu nominato segretario. Il ministro delle Finanze aveva fama di moderato (come confermavano le sue posizioni nel corso della recente crisi politica) e il suo rigido liberismo dottrinario contrastava con il dirigismo ostentato da molti settori del partito. Per un esame dei rapporti fra D e’ Stefani e il mondo industriale cfr. Roland sarti , Fascism and thè industriai leadership in Italy, 1919-1940. A study in thè expansion of private power under Fascism, Berkeley-Los Angeles-London, 1971, pp. 50-58, Adrian lyt tleton , La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Bari, 1974, pp. 516-17, 542-48 e r . de felic e , Mussolini il fascista. I L L'organizzazione dello stato fascista 1925-1929, To­ rino, 1968, pp. 87-90. Ma questo autore sembra accettare troppo affrettatamente la convinzione — ripresa da « Lo stato democratico » — che « D e’ Stefani aveva in due anni e mezzo <re­ sistito tenacemente, ostinatamente alle maggiori pressioni che sono state esercitate su di lui, perché il Tesoro dello Stato diventasse il Tesoro dei singoli >» (ibid., p. 90) e vede nella caduta di D e’ Stefani e nella sua sostituzione con Volpi una sconfitta di Mussolini (e in definitiva di tutto il fascismo) ad opera degli industriali. Sull’atteggiamento del ministro del­ le Finanze durante la crisi Matteotti vedi r . de felic e , Mussolini il fascista. I, cit., in par­ ticolare le pp. 645, 703-04. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 11 di spesa pubblica si erano rivelate conformi a ciò che banchieri e industriali si attendevano, negli anni di congiuntura favorevole, dal suo ministero. Nei primi mesi del 1925, però, la gravità e l’urgenza dei problemi che si presentavano all’economia italiana sia sul piano interno che internazionale minacciavano di estendere l’effetto dei provvedimenti deflazionistici del ministro delle Finanze ben oltre l’obiettivo iniziale, trasformandoli nell’inizio di una crisi. Per questo il giudizio negativo contro De’ Stefani fu unanime da parte dei diversi gruppi economici, ormai convinti che solo un più diretto controllo nell’elaborazione della politica economica governativa offrisse sufficienti garanzie: tanto più che era ormai avviato il processo di trasformazione istituzionale dello stato che do­ veva permettere al fascismo di superare, con una nuova svolta autoritaria, la crisi politica nata dall’assassinio di Matteotti e ciò imponeva una vigile parteci­ pazione all’elaborazione delle misure che si andavano realizzando. Le vicende economiche italiane nel primo semestre del 1925 misero in luce, per un verso, le debolezze presenti nella posizione internazionale dell’Italia. Il saldo della bilancia dei pagamenti veniva assicurato da partite invisibili il cui comportamento dipendeva in misura prevalente dalla congiuntura internazio­ nale e dalla politica economica perseguita nei diversi stati da cui giungevano le partite attive. Gli introiti turistici erano estremamente aleatori; le rimesse degù emigrati, negli anni venti, risultavano minacciate dalla profonda trasfor­ mazione intervenuta nella distribuzione geografica dell’emigrazione italiana do­ po la guerra mondiale. Il Quota Act che entrò in vigore negli Stati Uniti nel 1923, due anni dopo la sua promulgazione, limitò drasticamente l’immigrazione italiana in quel paese ed effetti ancor più gravi ebbe un analogo provvedimento del 1924 entrato in vigore nel 1925. Argentina e Brasile imitarono il governo americano, imponendo anch’essi dei limiti all’immigrazione, per cui in meno di cinque anni si chiusero i paesi verso cui si era diretta la maggior parte de­ gù emigrati italiani a partire dall’ultimo ventennio del XIX secolo. Negli anni venti una quota crescente di emigrati italiani si diresse verso paesi europei: Sviz­ zera, Belgio e soprattutto Francia. Belgio e Francia, però, subivano nella prima metà degli anni venti un processo inflazionistico che provocava, attraverso am­ pie fluttuazioni, la progressiva svalutazione delle loro monete, addirittura ri­ spetto alla lira 20, per cui il valore delle rimesse provenienti da quei paesi era soggetto a oscillazioni e ribassi21. Molte esportazioni, inoltre, presentavano un elevato grado di elasticità nei confronti delle fluttuazioni di reddito dei paesi a cui erano dirette, trattandosi di prodotti non essenziali e comunque soggetti a forte concorrenza, mentre le importazioni italiane risultavano notevolmente più rigide, trattandosi di prodotti essenziali per l’attività delle industrie o di alimentari che l’agricoltura italiana non produceva in misura adeguata ad un consumo in leggero aumento22. 20 Per un’analisi più dettagliata vedi Giancarlo falco e marina storaci, Fluttuazioni mo­ netarie alla metà degli anni '20: Belgio, Francia e Italia, in « Studi Storici » a. XVI, 1975, n. 1, pp. 57-101, a cui si rinvia anche per un esame più preciso delle differenze nella situa­ zione di ognuno dei paesi considerati. 21 È possibile tuttavia che l’instabilità monetaria dei due paesi favorisse un rapido trasfe­ rimento verso l ’Italia delle rimesse, attenuando almeno in parte gli effetti negativi della pro­ gressiva svalutazione delle divise così ottenute. Per valutare più esattamente l’incidenza dei mutamenti intervenuti nella distribuzione degli emigrati italiani sul volume delle rimesse, occorrerebbe prendere in considerazione anche le diversità esistenti fra condizione sociale e professionale degli emigrati oltre oceano e degli emigrati in Europa per intendere quale differenza di redditi esse comportassero. 22 Per un’indicazione in questo senso si veda ista t , Sommario cit., p. 134, da cui risulta un aumento nel consumo medio per abitante di alcuni generi alimentari nel periodo che ci 12 Giancarlo Falco, Marina Storaci Il peggioramento della lira, primo frutto del deterioramento della bilancia dei pagamenti, mise in luce, a sua volta, gravi carenze della struttura finanziaria interna. Il declino dell’attività di borsa bastò a mettere in serio pericolo tutto il sistema finanziario su cui poggiavano gli investimenti, proprio mentre la pres­ sione sui prezzi, non imputabile solo al deprezzamento della lira, indicava resi­ stenza di un divario effettivo fra domanda di beni e capacità produttiva del si­ stema economico. Il ricorso al capitale estero, una misura tradizionale nell’espe­ rienza dello sviluppo economico italiano, apparve la soluzione appropriata di questa difficile situazione. Negli anni venti un appoggio finanziario esterno poteva provenire solo dagli Stati Uniti, già largamente intervenuti in Europa sia a favore dei governi per le operazioni connesse alle stabilizzazioni monetarie di alcuni paesi, sia a favore di imprese. L ’accesso al mercato finanziario di New York, tuttavia, era subor­ dinato dal governo americano al raggiungimento di un accordo sui prestiti in­ tergovernativi che l’Italia, come numerosi altri paesi, aveva ottenuto durante e subito dopo la guerra23. Questa condizione, ribadita nel 1925, era l’espres­ sione attuale di una posizione assunta fin dal 1919. Quell’anno il partito repub­ blicano condusse la campagna elettorale e vinse le elezioni presidenziali propo­ nendo di far pagare senza esitazioni i debiti che gli stati europei avevano con­ tratto fino a quel momento, secondo la tesi che gli aiuti americani avevano rappresentato in primo luogo veri e propri affari e non la realizzazione di un impegno morale a cui gli Stati Uniti non potevano sottrarsi e la cui contropar­ tita era costituita dall’esito vittorioso della guerra. Inoltre nel Congresso era radicata la convinzione che i rimborsi ottenuti dall’Europa permettessero di alleggerire le imposte che gravavano sui cittadini americani. All’inizio del 1925, proprio in concomitanza con il peggioramento della bilan­ cia dei pagamenti italiana e del corso della lira, gli Stati Uniti espressero un’as­ soluta intransigenza sul problema dei debiti interalleati e ciò costituì un’ulte­ riore e consistente ragione per speculare al ribasso della lira e delle altre monete che potevano essere danneggiate dall’imposizione americana. Oltre all’Italia i principali debitori degli Stati Uniti che ancora dovevano sistemare la loro posi­ zione erano il Belgio e la Francia. Le loro monete si trovarono così contempo­ raneamente indebolite dalla prospettiva di un peggioramento delle bilance dei pagamenti provocato dai rimborsi che avrebbero dovuto effettuare; tanto più che gli Stati Uniti si rifiutavano di collegare i pagamenti dei loro debitori alle riparazioni tedesche. interessa. Sull’agricoltura italiana vedi ester Fano damascelli , Problemi e vicende dell’agri­ coltura italiana tra le due guerre, in « Quaderni Storici », a. X, 1975, nn. 29-30, pp. 468-496. 23 I Combined annual reports of World War foreign Debt Commission del gennaio 1925 esprimevano in questi termini il legame fra pagamenti dei debiti di guerra e concessione di crediti americani: « [...] in seguito a molte considerazioni si decise che era contrario al vero interesse degli Stati Uniti permettere a governi esteri che rifiutassero di regolare o di com­ piere un ragionevole sforzo per regolare i loro debiti verso gli Stati Uniti, di reperire in questo paese una qualsiasi parte dei finanziamenti di cui necessitano. Stati, municipalità e imprese private dei paesi interessati sono inclusi nel divieto. Ai banchieri che hanno consul­ tato il Dipartimento di Stato è stato notificato che il Governo era contrario a tali finanzia­ menti » cit. in Richard h . meyer , Bankers’ diplomacy. Monetary stabilization in thè twenties, New York-London, 1971, p. 18. Il problema dei debiti di guerra vedeva anche contrap­ posti gli interessi dei banchieri americani, convinti che il peso dei debiti europei dovesse es­ sere alleggerito, e gli industrali, convinti invece che i debiti di guerra potessero trasformarsi in un mezzo per acquisire forme di investimento diretto nei paesi europei e che potessero comunque costituire un utile elemento di contrattazione per abbattere la protezione tariffa­ ria dei paesi debitori e delle loro colonie. Cfr. Charles p . parrini, Heir to Empire. United States economie diplomacy, 1916-1923, s i., 1969, pp. 265-267. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 13 Il contesto internazionale sfavorevole alle tre monete era ulteriormente appe­ santito dalla grave situazione monetaria della Francia. A differenza di Belgio e Italia, questo paese non aveva messo in atto dopo la guerra una politica defla­ zionistica nei confronti della spesa pubblica, contando più degli altri sulla pos­ sibilità di far ricadere sulla Germania le spese della propria ricostruzione. Si succedettero così, fino al 1926, i deficit del bilancio statale, coperti con remis­ sione di buoni del tesoro e altri titoli che le banche riscontavano presso l ’isti­ tuto di emissione, facendo aumentare la circolazione monetaria. La massiccia domanda dello stato e dei privati continuò a stimolare l’aumento dei prezzi an­ che dopo la crisi del 1920-21, mentre la sfiducia nel franco cresceva, dando origine a fughe di capitali all’estero, diventate consistenti soprattutto dopo la vittoria elettorale di una coalizione di sinistra moderata nel maggio 1924. La sfiducia nella capacità del Cartel des gauches di porre un freno all’inflazione e l’opposizione ai suoi tentativi di una riforma fiscale, coincisero con la scadenza di una massa ingente di titoli del debito pubblico, quasi uguale alla metà della circolazione monetaria. La maggior parte dei detentori dei buoni, invece di rin­ novare la sottoscrizione dei titoli come fino ad allora avevano fatto, ne chie­ sero il rimborso, costringendo il Tesoro a ricorrere alla banca centrale per ono­ rare i suoi impegni. Benché quest’eventualità fosse stata prevista, il Cartel des gauches non aveva potuto consolidare forzosamente il debito fluttuante, o una sua parte, per l’opposizione dell’« alta banca » che deteneva una parte dei buo­ ni 24. Con l’allargamento della circolazione si accentuò l’inflazione e la fuga dal franco: tra il maggio 1925 e il luglio 1926 la moneta si deprezzò del 61 per cento rispetto al dollaro, influenzando negativamente le altre due monete non stabilizzate, il franco belga e la lira, che oscillarono nel medesimo senso del franco francese per circa un anno, salvo un intervallo di alcuni mesi tra l’autun­ no 1925 e la primavera del 1926. Tuttavia la diversità delle condizioni interne di Belgio e Italia rispetto alla Fran­ ca convinsero i rispettivi governi che esistevano i presupposti per tentare di risolvere più rapidamente della Francia il problema della stabilizzazione mone­ taria e che occorresse a questo scopo sganciare al più presto la propria moneta dall’influenza negativa del franco francese. Per questi motivi Belgio e Italia si affrettarono a concludere nel 1925 (rispettivamente in agosto e novembre) un accordo con gli Stati Uniti sui debiti di guerra e ottenere, pur in forme molto diverse, l’appoggio delle banche americane per stabilizzare le loro monete. Per quanto riguarda l’Italia, la vertenza relativa ai debiti di guerra si concluse il 19 novembre e il giorno successivo veniva emesso a New York un prestito obbligazionario dello stato italiano di 100 milioni di dollari, il cui ricavato do­ veva servire a stabilizzare la lira e ad aumentare le riserve auree. Poco dopo, a dicembre, fu lanciato, sempre sul mercato di New York, il primo prestito a favore di un’impresa privata italiana, la Edison, rendendo esplicito che, per l’Italia, l ’obiettivo della stabilizzazione monetaria si intrecciava con il migliora­ mento delle finanze aziendali dei maggiori gruppi industriali del paese. I primi tentativi di stabilizzazione monetaria: in Italia e in Belgio La prima linea di condotta dell’Italia di fronte al peggioramento della lira ri­ sultò commisurata alla non eccessiva ampiezza della svalutazione nei primi mesi del 1925. La Banca d’Italia, attraverso l ’Istituto nazionale per i cambi con l’estero, decise di limitarsi a contrastare con vendite di divise le operazioni ai 24 Cfr. Raymond ph ilippe , Le drame financier de 1924-1928, Paris, 1931, pp. 77-78. 14 Giancarlo Falco, Marina Storaci danni della lira quando queste erano più intense, nella speranza che la sua sem­ plice presenza sul mercato convincesse gli speculatori che le loro operazioni al ribasso erano destinate a fallire. Pur ridotti in questi termini, gli obiettivi delle autorità monetarie rischiavano di essere difficilmente perseguibili perché il fon­ do di divise di cui potevano disporre era estremamente esiguo, benché avessero cercato di aumentarlo nel corso del 1924 approfittando di una più favorevole posizione della lira. Anche a questo riguardo solo gli Stati Uniti in quel mo­ mento potevano fornire in misura adeguata i fondi di cui l’Italia aveva bisogno per fronteggiare la caduta della lira. I primi contatti in proposito fra i due paesi si stabilirono nel gennaio: anzi, fu­ rono le due maggiori banche americane, tra loro rivali, la National City Bank di New York di Rockfeller, e la J.P . Morgan, a offrire un’apertura di credito alla Banca d’Italia25. Fra le due, Stringher scelse la banca dei M organ26 e trat­ tò le condizioni di un credito di entità modesta: 5 milioni di dollari, ottenuti a fine gennaio. Lo scopo principale dell’operazione, contenuta nei limiti di una « ordinaria trattazione bancaria », come la definirono gli americani27, e decisa in un momento in cui il peggioramento della moneta era limitato, era di uscire dall’isolamento finanziario in cui l’Italia si trovava dalla fine della guerra, sta­ bilendo un primo legame con una banca fra le più importanti del mondo, già largamente intervenuta in Europa per sostenere Inghilterra e Francia durante le recenti crisi monetarie. Pochi giorni prima dell’accordo, Stringher scriveva a De’ Stefani: « Avrei in animo di accettare tale offerta [di 5 milioni di dol­ lari] e ne sto infatti trattando le condizioni e ciò [...] anche nell’intento di stabilire con la casa Morgan più stretti e cordiali e continuativi rapporti che potrebbero tornare molto utili qualora, in avvenire, si ravvisasse l’opportunità di ricorrere ad essa per operazioni di maggior volume » 28. Le circostanze previste dal direttore generale della Banca d ’Italia si verificarono alla fine di maggio, quando la lira subì un improvviso peggioramento. Questa volta fu la Banca d ’Italia a sollecitare una seconda apertura di credito ben più rilevante della prima: 50 milioni di dollari che dovevano essere utilizzati, se­ condo gli accordi tra le parti, con criteri analoghi a quelli del primo credito, per moderare cioè le oscillazioni del cambio senza pretendere di migliorarlo, obiettivo che avrebbe avuto come unica conseguenza di consumare e sprecare 25 II ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Economica presentato al­ l’Assemblea Costituente, voi. I l i , Problemi monetari e commercio estero, t. 1, Relazione, Roma, 1946, p. 60, indica che nel 1924 la Banca d ’Italia ottenne un’anticipazione a breve ter­ mine da banchieri americani per sostenere il cambio. È probabile che si tratti dello stesso prestito indicato qui come risalente al gennaio 1925. È verosimile che la trattativa per otte­ nerlo risalisse alle ultime settimane del 1924, anche se di queste gli autori non hanno trovato finora traccia negli archivi della Banca d ’Italia. Sulle proposte fatte dalle due banche ame­ ricane vedi il carteggio in ASBI, PV 1/7. “ La scelta di Stringher privilegiava la banca d ’investimento che da maggior tempo si era impegnata nel finanziamento di enti pubblici e privati in Europa sfruttando una politica di alleanza con il sistema bancario inglese e che aveva maggiori contatti con il Tesoro americano e la Federai Reserve Bank di New York. Essa era il portavoce degli interessi più propria­ mente finanziari del capitalismo americano, mentre la National City Bank, una banca com­ merciale, si orientava soprattutto verso l ’America Latina e l ’Asia ed era legata agli interessi industriali (particolarmente petroliferi). Essa era fortemente concorrenziale nei confronti del­ le banche inglesi e favoriva la creazione di un sistema finanziario e commerciale mondiale indipendente da quello inglese e sotto controllo americano. Cfr. CH. p . parrini, Heir to Empire cit., pp. 55-65. 27 Vedi il telegramma di J . P. Morgan a G. Fummi, s.d., ASBI, PV 16/1. “ Vedi la lettera di Stringher a D e’ Stefani, 26 gennaio 1925, ASBI, PV 1/7. Il ritorno all'oro in Belgio, Francia e Italia 15 il credito stesso29. Le divise messe a disposizione dell’Italia furono immediata­ mente intaccate per contrastare il deprezzamento della lira ai primi di giugno, e poi nuovamente in luglio. All’inizio di quel mese il cambio cadde addirittura del 18 per cento rispetto alle quotazioni precedenti: solo a prezzo di massicci acquisti di lire l’INC riuscì a far risalire la lira e a contenere la svalutazione entro il 10 per cento circa. Ai primi di luglio, mentre il suo fondo di divise andava rapidamente esaurendosi, la Banca d’Italia cercò di ottenere un amplia­ mento del credito concesso poco più di un mese prima dai M organ30. Per parte sua il governo, che stava trattando con gli Stati Uniti il problema dei debiti di guerra, chiese formalmente agli americani verso la fine di luglio di rivedere le loro posizioni negative sulla concessione di prestiti. Sottolineando la grave ca­ duta della lira, Mussolini tentò di rovesciare la logica del governo statunitense: se i due paesi avessero trovato un accordo sui debiti di guerra senza un preven­ tivo intervento stabilizzatore nei confronti della lira da realizzarsi con un presti­ to americano, l’Italia si sarebbe trovata nell’impossibilità di far fronte al pa­ gamento dei debiti stessi. Ma gli Stati Uniti respinsero sistematicamente que­ ste richieste allo scopo di affrettare una soluzione a proprio vantaggio delle trattative sui debiti di guerra; in particolare, rifiutarono, verso la fine di agosto, un prestito per opere pubbliche destinato alle città di Milano e Napoli che sa­ rebbe stato, in realtà, un prestito indiretto al governo31. La condizione finan­ ziaria del paese era precaria e ben evidente la dipendenza dagli Stati Uniti. D ’al­ tra parte i due crediti ottenuti dalla Banca Morgan nella prima metà del 1925 smentivano solo parzialmente la linea intransigente delle autorità statunitensi perché ad essi si era voluto dare il carattere (con insistenza sottolineato dalle parti) di normali iniziative bancarie, per di più temporanee, perché solo in que­ sti termini limitativi potevano essere accettati dal Dipartimento di stato 32. In realtà il governo americano era disposto ad accettare l’intervento delle banche del proprio paese se si trattava di salvare da una situazione senza uscita un paese debitore (come accadde per la Francia nella crisi del marzo 1924), per le ripercussioni negative che le sue difficoltà avrebbero avuto sul sistema mone­ tario e commerciale internazionale nel suo complesso. Contemporaneamente però, esso intendeva sottolineare l’eccezionaiità di simili interventi per conser­ vare tutti i propri mezzi di pressione sui debitori europei. Sotto la spinta della pesante svalutazione estiva della lira (che rischiava di ag­ gravare oltre il limite delle compatibilità, se si fosse prolungata, il disagio e le tensioni sociali interne) e di fronte all’impossibilità di ottenere crediti per l’in­ dustria e lo stato al di fuori di un accordo sui debiti di guerra (ciò che im­ plicava uno sforzo deciso per migliorare le condizioni monetarie interne), maturò nelle autorità monetarie italiane un sostanziale cambiamento di intenti rispetto alla prima metà dell’anno. Non solo esse fecero in modo di superare rapidamente le difficoltà emerse durante le discussioni sui debiti di guerra e concordarono tra agosto e settembre le grandi linee di un accordo, ma valendosi del prestito Morgan decisero di rivalutare la lira del 9-10 per cento e di stabiliz­ zarla di fatto attorno alla quota 120 rispetto alla sterlina. Era pressapoco il 29 Cfr. la corrispondenza tra Stringher e D e’ Stefani, 2-5 giugno 1925, ASBI, PV 16/2. 30 Vedi la lettera di J . P. Morgan a G. Fummi, 7 luglio 1925, ASBI, PRX. 31 Vedi il carteggio Mussolini-De Martino dell’agosto 1925, ACS, Carte Volpi, b. 11. 32 Vedi Gian Giacomo migone, Aspetti internazionali della stabilizzazione della lira: il pia­ no. Leffingwell in Problemi di storia nei rapporti tra Italia e Stati Uniti, Torino, 1971, p. 44. I banchieri americani, interessati a promuovere prestiti e investimenti in Europa, seguivano una strategia diversa da quella proposta dal Congresso e consistente nel ricercare contatti diretti con le banche centrali e con altri importanti istituti di credito europei. 16 Giancarlo Falco, Marina Storaci livello di cambio che la moneta italiana aveva prima della crisi; rispetto ai li­ velli medi del 1923 e 1924 quota 120 comportava una svalutazione di qualche punto, ma era un livello di cambio « da tutti riconosciuto corrispondente pie­ namente alla situazione della bilancia dei pagamenti dell’Italia », secondo una opinione diffusa negli ambienti del Tesoro33. Un cambiamento ai vertici del potere politico (la sostituzione di De’ Stefani con Volpi al ministero delle Finanze) sottolineò la svolta di politica monetaria; ma mutarono anche i rapporti interni fra Tesoro e Banca d ’Italia. I problemi mo­ netari presentatisi nel corso del 1925 erano stati affrontati e gestiti nei loro aspetti più delicati e rilevanti dal solo direttore generale della Banca d ’Italia, le cui decisioni erano state avallate da De’ Stefani. Era stato Stringher a pro­ muovere nel gennaio i primi contatti con gli Stati Uniti; e furono le sue preoc­ cupazioni a spingerlo, nel breve spazio di una settimana, a contrattare con i Morgan entità, durata, forme della seconda apertura di credito e a condurre le successive operazioni sul mercato dei cambi. In quel momento, d ’altra parte, dopo le sfortunate misure sulle borse, il prestigio politico di De’ Stefani era compromesso. Nell’agosto 1925, invece, il nuovo ministro delle Finanze pre­ se in mano la direzione delle operazioni nei confronti della lira, decidendo per suo conto il rialzo del cambio fino a quota 120 e la difesa di quel corso nei mesi successivi. Lo stesso INC fu costretto ad abbandonare la tutela diretta del mercato delle divise, sua principale funzione istituzionale; per un certo periodo continuò a svolgere alcune limitate operazioni sui mercati esteri, finché nel dicembre 1925 ebbe termine ogni sua residua autonomia perché Volpi de­ cise di impartire lui stesso gli ordini ai rappresentanti all’estero dell’Istituto34. All’inizio di settembre il Tesoro (dopo qualche intervento in agosto) lanciò un’operazione di rastrellamento di lire che per l’ampiezza dei mezzi usati e la pubblicità con cui le autorità monetarie operavano, ebbe un rapido successo: in sei giorni la lira si rivalutò del 10 per cento rispetto alle principali monete auree e 1*8 settembre la borsa di New York quotò la sterlina a 114 lire, risultato che il Tesoro ritenne eccessivo, tanto che invertì per qualche giorno il senso dei propri interventi e vendette lire. Il frutto degli interventi « d ’urto » dell’agosto-settembre fu il raggiungimento della quota media mensile per quest’ultimo mese di 119,5 rispetto alla sterlina; questo livello di cambio fu mantenuto per circa otto mesi attraverso un continuo controllo del mercato e operazioni arti­ colate e complesse dal punto di vista tecnico-finanziario. La stabilizzazione di fatto della lira non si inseriva però ancora in un piano esplicito di ritorno all’oro: l’Italia si muoveva in quel momento con estrema cautela attendendo di verificare gli svolgimenti della situazione monetaria in Belgio e in Francia. Quando però il successo iniziale di quota 120 fu rinsaldato dalla conclusione dell’accordo con gli Stati Uniti sui debiti di guerra e dalla stipulazione del prestito di 100 milioni di dollari allo stato, Volpi, che aveva diretto a New York la fase finale di en­ trambe le trattative, prima di rientrare in Italia si dichiarò pronto a stringere i tempi del ritorno al gold standard e si spinse fino ad indicare nel febbraio 1926 il « periodo propizio per il ritorno all’oro » 35. !! Memoria del Direttore Generale del Tesoro Pace a Volpi del 23 dicembre 1925, ASBI, Op.F. 297 e ACS, Carte Volpi, b. 1, fase. «Relazioni del Direttore Generale del Tesoro», cit. anche in R. de felic e , I lineamenti politici di « quota 90 » attraverso i documenti di Mussolini e di Volpi, in « Il Nuovo Osservatore politico economico sociale », a. V II (n.s.), 1966, n. 50, pp. 374-376. 34 Cfr. lettera di Volpi a Stringher, 12 dicembre 1925, ASBI, PS 11/20. 55 Vedi G. G. migone, Aspetti internazionali cit., p. 49. Il ritorno all'oro In Belgio, Francia e Italia 17 Il viaggio di Volpi negli Stati Uniti alla fine del 1925 rappresentò il momento di maggior successo per la politica monetaria di quota 120. Mentre i cordiali rapporti fra i due stati si traducevano immediatamente nel lancio di prestiti ob­ bligazionari da parte delle imprese italiane, la lira si manteneva stabile sul mer­ cato dei cambi, differenziandosi dal franco francese che continuava ad oscillare e peggiorare e si svalutò, fra il settembre e il dicembre del 1925, del 26 per cento circa rispetto a dollaro e sterlina e del 20 per cento rispetto alla lira. Ma proprio l’andamento sfavorevole del franco francese rese difficile la manovra di difesa di quota 120 a partire dall’inizio del 1926. Nel febbraio-marzo il franco at­ traversò una nuova crisi, mentre contemporaneamente falliva (come vedremo) un tentativo di stabilizzazione del Belgio. Questi fatti, di per sé, indebolivano la posi­ zione della lira: come scrisse Volpi a Mussolini, « [...] il distanziamento preso dalla lira sui due franchi aizzava la speculazione internazionale che non consi­ derava, come non considera, che la lira abbia consistenza intrinseca corrispon­ dente alla sua valutazione in proporzione alle altre due monete dei vicini » 36. Dopo l’aprile 1926 la manovra di difesa della lira divenne insostenibile. Il 13 maggio il Tesoro decise di sospendere gli interventi diretti sul mercato e la lira si svalutò tra il maggio e l’agosto del 17-18 per cento rispetto a dollaro e sterlina, condividendo in questo periodo le oscillazioni e il peggioramento dei due franchi. La manovra di Volpi non aveva raggiunto l’obiettivo proposto di rompere in modo definitivo le relazioni fra la lira e il franco francese; ottenne però il risultato di portare il valore della lira rispetto a dollaro e sterlina a fivelli molto superiori a quelli che il franco francese aveva rispetto ad essi. Anche la crisi dei cambi dell’estate 1926 ebbe effetti molto più gravi sul franco che si svalutò di circa il 67 per cento rispetto al dollaro fra aprile e luglio. Il fallimento italiano era stato preceduto di alcune settimane da quello, politi­ camente ben più grave, del Belgio. In questo caso infatti la stabilizzazione di fatto del franco era parte di un programma di riforma fiscale e monetaria che aveva come obiettivo il ritorno a una parità di cambio fissa e il controllo del­ l’inflazione. Il programma era stato varato da un governo di coalizione riformi­ sta (comprendente i socialisti, la frazione democratica del partito cattolico e alcune personalità liberali), che si era formato (dopo molte opposizioni e alcu­ ni tentativi di dar vita a governi diversi) per rispecchiare lo spostamento a si­ nistra dell’elettorato nelle consultazioni politiche del 1925. Appena insediato, il governo dovette fronteggiare un netto peggioramento della situazione di cassa del Tesoro e una caduta del cambio. Lo stato aveva accu­ mulato (e continuava ad accumulare) un importante debito a breve termine con cui finanziava un bilancio in deficit, ma appena furono noti i risultati elettorali le richieste di rimborso dei buoni del tesoro divennero più numerose, metten­ do in serio imbarazzo il Tesoro. Una parte di questi buoni, inoltre, apparteneva a stranieri che ritiravano le proprie disponibilità dal Belgio, provocando un peg­ gioramento della bilancia dei pagamenti che veniva aggravato dalle operazioni di banche e privati belgi che cercavano di trasformare i propri buoni del Tesoro in divise e titoli esteri. La banca centrale intervenne per sostenere il corso del franco, ma senza successo, a causa anche del contemporaneo peggioramento del franco francese. Le autorità monetarie belghe giudicarono indispensabile rompe­ re il legame con il franco francese per migliorare la situazione monetaria del proprio paese e il primo passo in questo senso fu una rapida conclusione delle 36 Lettera di Volpi a Mussolini, 12 maggio 1926, cit. in r . de felic e , I lineamenti politici cit., p. 396. 18 Giancarlo Falco, Marina Storaci trattative per consolidare il debito di guerra con gli Stati Uniti (il 18 agosto 1925), dal momento che solo a questa condizione il Belgio (che già aveva ri­ cevuto un prestito dai Morgan in giugno) avrebbe ottenuto le divise necessa­ rie alla manovra sul mercato dei cambi. Nello stesso mese Janssen, ministro del Tesoro, mise a punto un piano di riforma monetaria e delle misure fiscali che dovevano assicurare il pareggio del bilancio nel 1926. A metà settembre ini­ ziarono gli interventi della banca centrale sul cambio per stabilizzarlo a 107 franchi per sterlina: 1/4 circa del valore prebellico e una leggera svalutazione rispetto alle medie annuali degli anni precedenti3738. Ma queste operazioni erano sostenute da un fondo di divise relativamente limitato e che avrebbe dovuto essere integrato in un secondo tempo dai crediti di banche centrali e banchieri privati esteri. In realtà le trattative (protratte per molti mesi) per ottenere i crediti privati fallirono perché i Morgan, che dirigevano il consorzio di banchieri, non ritennero le misure fiscali sufficienti a garantire il pareggio del bilancio sta­ tale. Fallì anche il tentativo di consolidare il debito fluttuante con la trasfor­ mazione volontaria di una sua parte in titoli a lungo termine, nonostante le con­ dizioni estremamente vantaggiose della conversione3S. Questo fallimento rese definitivamente incontrollabile la situazione monetaria, poiché i rimborsi dei buoni accrescevano le disponibilità liquide di cui si valeva chi speculava sui cambi ed esportava capitali. Gli ambienti economici procla­ mavano ormai apertamente che quota 107 era insostenibile perché troppo alta e di questa opinione si dichiararono anche Montagu Norman e Benjamin Strong, rispettivamente governatore della Banca d ’Inghilterra e della Federal Reserve Bank di New York, sotto il cui patrocinio si sarebbe dovuta realizzare la sta­ bilizzazione. Nel marzo 1926, mentre si intensificava la speculazione contro il franco, fallirono le ultime trattative per ottenere un prestito in divise. Il 15 marzo, dopo aver impiegato 20 milioni di dollari in soli due giorni, il governo abbandonava la difesa del franco39: sei mesi dopo esso si era svalutato del 72 37 Media annuale del cambio franco belga-sterlina (franchi per sterlina): 1923: 88,5; 1924: 96,03; 1925: 101,78. 38 Vedi Ferdinand baudhuin , La stabilisation et ses conséquettces, Paris-Bruxelles, 19282, p. 89. 3’ Sul fallito tentativo di stabilizzazione belga cfr. R. H. m eyer , Bankers’ diplomacy cit., pp. 17-25 e lester v. chandler, Benjamin Strong centrai banker, Washington, 1958, pp. 338-347. f . baudhuin , in La stabilisation cit., sottolinea il problema del debito fluttuante e chiarisce il carattere di confronto politico presente nelle richieste di rimborso dei buoni del Tesoro. Cfr. dello stesso autore, Histoire économique de la Belgique 1914-1939, t. I, Bruxel­ les, 1946, pp. 153-162. In queste opere manca un’analisi sufficientemente articolata della na­ tura degli interessi che si scontrarono sulla stabilizzazione del franco a quota 107. Si può avanzare l’ipotesi, per esempio, che una causa del fallimento di questo tentativo fosse il ti­ more degli industriali esportatori (avvantaggiati dalla progressiva svalutazione della loro moneta) di veder messa in pericolo la propria concorrenzialità rispetto agli industriali fran­ cesi dalla definizione di una parità che sopravvalutava il franco belga rispetto a quello fran­ cese, ancora fluttuante e in progressiva svalutazione. In quegli anni non solo la Francia era uno dei principali partner commerciali del Belgio, ma le principali esportazioni industriali di questo paese (prodotti metallurgici, meccanici, chimici, veicoli, tessili) coincidevano con quelli della Francia e si indirizzavano sugli stessi mercati. Va sottolineato, infine, che esisteva uno stretto legame tra i principali istituti finanziari e di credito belgi e gli ambienti finanziari internazionali e che ciò probabilmente influì sul progressivo irrigidimento di questi ultimi nei confronti del govèrno belga. Infatti, una riunione tra Janssen e i banchieri belgi del 28 set­ tembre 1926, intesa a definire un piano di azione comune tra il Tesoro e i banchieri era praticamente fallita: questi ultimi destinarono alle operazioni sui cambi solo 60 milioni di franchi. V. R. h . m eyer , Bankers' diplomacy cit., p. 20; henry l . shepherd , The monetary experience of Belgium, 1914-1936, Princeton, 1936, pp. 131-133 e valéry ja n sse n s , De inflatie na de cevste wereldoorlog en de stabilisatie van de belgische frank, in Archives Généra- Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 19 per cento circa rispetto al dollaro e alla sterlina e fluttuava insieme con la lira e il franco francese e il Belgio era retto da un governo di coalizione nazionale in cui prevalevano cattolici e liberali conservatori e che disponeva dei pieni poteri per ridare la stabilità al paese. Le riforme monetarie. Quota 175 in Belgio Dopo la crisi della metà di marzo e il « lunedì nero » che segnò l’abbandono di quota 107, il governo democratico fu investito da aspre polemiche in Par­ lamento e sulla stampa; ciò nonostante rifiutò di cedere alle richieste dell’oppo­ sizione che indicava due misure drastiche per alleggerire subito la posizione de­ bitoria dello stato: l’aggravamento delle imposte di consumo e il passaggio della rete ferroviaria a una società condotta con metodi privatistici, in modo da realizzare un profitto. Le proposte della destra relative alle ferrovie per il momento vennero respinte anche per la violenta opposizione dei lavoratori: i dipendenti delle poste minacciarono lo sciopero generale, gli operai metallurgici organizzarono manifestazioni e scioperi. Uno degli slogans era: « le nostre fer­ rovie non saranno dei banchieri » 40. I cambi continuarono a peggiorare e il franco toccò ai primi di maggio il li­ vello di 148 rispetto alla sterlina. Contemporaneamente continuavano le richie­ ste di buoni del Tesoro, che diminuirono, fra il 31 marzo e il 30 aprile, da 5,4 a 4,8 miliardi. Lo stato fronteggiava i suoi impegni allargando il debito verso la Banca nazionale ed emettendo all’estero buoni con la garanzia del cambio. All’inizio di maggio i liberali (che al momento della crisi di marzo avevano di­ feso in Parlamento gli speculatori belgi sabotatori del piano Janssen) propo­ sero un governo di coalizione nazionale basato sull’intesa dei tre più importanti partiti (il cattolico, il socialista e il liberale) per far fronte alla grave situazione finanziaria41 e il 7 maggio riuscirono ad ottenere le dimissioni di Poullet e di Janssen: il franco quotava allora 162,4 per sterlina. Alla fine del mese fu creato un governo tripartito con a capo il cattolico Jaspar, mentre il posto di ministro delle Finanze fu affidato a Hautart, senatore di destra e banchiere di profes­ sione. La figura più rilevante del nuovo governo era però Émile Franqui, mini­ stro senza portafoglio, di cui erano noti gli stretti legami con la finanza inter­ nazionale e che fu il vero responsabile della stabilizzazione42. La prima legge les du Royaume et Archives de l’Ètat dans les Provinces, Histoire économique de la Belgique. Traitement des sources et état des questiona. Actes du colloque de Brussel, 17-19 novembre 1971, Bruxelles, 1972, pp. 88-89. 40 Vedi eraldo fo ssa ti , La stabilizzazione monetaria in Belgio, in «Giornale degli econo­ misti e rivista di statistica », s. IV, a. X L II, 1927, p. 99. 41 Louis Frank, membro del governo dal 19Ì8 al 1924, poi uno dei principali esponenti dell’opposizione liberale, dichiarava alla Camera il 4 maggio 1926: « [...] la salvezza finan­ ziaria del paese non riguarda una sola classe, riguarda tutta la nazione. Io non ho mai sot­ tovalutato la grandezza dello sforzo della classe operaia, né l ’importanza della sua coopera­ zione a questo proposito [...] Ma occorre di più. Occorre una politica finanziaria capace di raccogliere l’appoggio di tutti i partiti e di raggiungere i suoi fini ». Vedi L. Frank, Stabilisation monétaire en Belgique, Paris, 1927, p. 59; per la difesa degli speculatori, ibid. p. 45. Louis Frank successe a Hautain nella direzione della Banca nazionale del Belgio quando fu intrapresa la stabilizzazione definitiva del franco. 42 V. l . v. chandler, Benjamin Strong cit., p. 347. Militare e diplomatico prima, impor­ tante uomo d ’affari poi, Franqui divenne nel dopoguerra vice-governatore, e dal 1932 go­ vernatore della Soclété Generale, il più importante istituto di credito belga. La sua attività di diplomatico in oriente e di direttore della Campagnie internationale d ’orient, che operava 20 Giancarlo Falco, Marina Storaci importante che il nuovo governo fece votare fu quella costitutiva del Fondo d ’ammortamento del debito pubblico, un ente che doveva avere il duplice scopo di assorbire il debito dello stato verso la banca centrale e ridurre progres­ sivamente l’ammontare dei buoni del Tesoro in circolazione, soprattutto di quel­ li a più breve termine. Il Fondo riceveva come dotazione iniziale un credito straordinario della Banca nazionale di un miliardo e mezzo di franchi all’anno per quattro anni, corrispondente al gettito previsto di imposte e tasse straordi­ narie introdotte a quello scopo. Il contributo più importante venne dalla mag­ giorazione delle imposte indirette: fu raddoppiata la tassa sugli scambi e aumen­ tate numerose imposte di consumo (su birra, alcool, vino, tabacco, benzina, con­ sumazioni in alberghi e ristoranti, beni di lusso). Relativamente contenuto fu il maggior contributo richiesto sotto forma di imposte dirette. Nonostante questi provvedimenti, che la destra richiedeva da tempo, il nuovo governo non suscitò la corrente di fiducia che doveva arrestare le domande di rimborso del debito fluttuante: mentre continuavano le eccedenze dei rimborsi sui rinnovi di buoni del Tesoro e l ’allargamento delle anticipazioni della banca centrale, il franco peggiorava sul mercato dei cambi, finché a luglio esso fu coinvolto nella crisi che colpiva in quel momento il franco francese, rispetto al quale, anzi, subì una svalutazione maggiore. Il giorno in cui il franco raggiunse il livello di cambio più basso (240 franchi per sterlina a metà luglio) il governo Jaspar attuò una misura di cui si parlava fin dalla costituzione del nuovo ministe­ ro, ma che i socialisti non avevano fino a quel momento permesso: accordare al­ l’esecutivo poteri speciali per migliorare la situazione finanziaria. La « legge dei pieni poteri », come fu chiamata, fu lo strumento con cui si realizzò un profondo cambiamento di gestione delle ferrovie di stato, a cui era collegato il consolidamento pressoché obbligatorio del debito fluttuante. Lo stato belga controllava in quel momento la quasi totalità delle ferrovie na­ zionali, che in precedenza aveva dato in concessione, per la maggior parte, a società private; il luglio 1926 segnò un radicale mutamento di direttive. Il governo creò la Société nationale des chemins de fer belges, basata sull’unione di capitale pubblico e privato (in proporzioni tali da garantire il controllo dello stato) e su criteri privatistici di gestione: da allora in poi la gestione delle ferrovie doveva avere come principale direttiva il conseguire un profitto. Si trattava di una soluzione già sperimentata nel Congo per quasi tutte le più importanti iniziative economiche, comprese le ferrovie43. Nelle decisioni prese ora per le ferrovie nazionali c’era però un aspetto originale: una parte delle azioni della società venne infatti data al Fondo di ammortamento che a sua volta le offrì ai possessori dei buoni del Tesoro a 3-6 mesi e a 5 anni che sca­ devano nel 1926. L ’interesse sui titoli non presentati per la conversione veniva ridotto dal 6 al 5 per cento e il loro rimborso era subordinato all’estrazione a sorte e alle disponibilità del Fondo di ammortamento. L ’operazione era quindi un consolidamento forzoso, ma le nuove azioni delle ferrovie rappresentavano un buon affare per i privati e, almeno per alcuni anni, un probabile onere per il Tesoro. Lo stato infatti garantiva ai portatori dei titoli ferroviari un dividendo principalmente in Cina, lo portò ai primi contatti con gli ambienti finanziari internazionali, continuati nel corso degli anni ’20 quando rappresentò il Belgio nel Comitato Dawes e in quello Young, e quando partecipò alla fondazione della Banca dei regolamenti internazionali, Vedi f . BAUDHUIN, Histoire économique cit., t. II, pp. 268-274. ,3 A partire dal 1919 erano stati trasformati in régies industrialisées marina fluviale, fabbri­ che cotoniere, miniere d’oro, ferrovie, abitazioni di funzionari nel Katanga. Per ogni caso fu­ rono adottate modalità specifiche; ma per tutti l ’idea ispiratrice era di unire il controllo pubblico a una gestione analoga a quella dell’industria privata. Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 21 annuo fisso pari al 6 per cento e un super-dividendo (inizialmente del 2,7 per cento) pari alla metà degli utili societari. Si impegnava inoltre a fornire una garanzia indiretta di cambio, per cui i franchi rappresentati da titoli e cedole dovevano valere almeno la 175a parte della sterlina. Come contropartita entra­ va nelle casse dello stato la restante metà degli utili. L ’operazione avvenne quando i principali istituti di credito e le grandi im­ prese industriali e commerciali si erano già disfatti da molte settimane della maggor parte dei loro buoni del Tesoro: il consolidamento riguardava perciò soprattutto i risparmiatori privati. Ciò nonostante, il governo volle evitare che il provvedimento creasse difficoltà alle banche diminuendone la liquidità; perciò quelle che detenevano ancora buoni del Tesoro soggetti alla conversione pote­ rono avere in cambio buoni speciali al 7 per cento utilizzabili per il riscontro presso la banca centrale. L ’operazione riguardò poco meno del 20 per cento del totale dei buoni in circolazione: 1,2 miliardi circa su 5,8, mentre la quasi tota­ lità del resto fu consolidata (4,2 miliardi)44. In realtà il pericolo di una crisi di liquidità non esisteva: fin dal momento in cui era stata votata la legge dei pieni poteri, la speculazione al ribasso del franco aveva attenuato i suoi attacchi, e il cambio era migliorato. I capitali belgi esportati tra la metà del 1925 e la metà del 1926 iniziarono a rientrare nel luglio di quell’anno grazie al notevole gua­ dagno consentito dalla svalutazione e alle maggiori garanzie che le circostanze ora offrivano ai detentori di capitali: è stato calcolato che rifluisse in Belgio dal luglio del 1926 ai primi mesi del 1927 l’equivalente in divise estere di circa 6 miliardi di franchi, molto di più di quanto Janssen aveva impiegato per di­ fendere quota 107. Il consolidamento del debito fluttuante e il rientro dei ca­ pitali spianarono la via alla riforma monetaria. Nell’ottobre 1926 il governo in­ trodusse il gold exchange standard scegliendo un tasso di stabilizzazione che svalutava notevolmente il franco rispetto al valore medio dell’anno in corso e, a maggior ragione, degli anni precedenti: cambio medio con il dollaro, gennaio-settembre 1926 cambio successivo alla stabilizzazione del 25 ottobre 1926 29,8 39,6 La parità nei confronti della sterlina era di 175. Di « quota 175 » si era parlato pubblicamente per la prima volta al momento del consolidamento del debito fluttuante, in quanto era la quota scelta per la garanzia di cambio che il Tesoro concedeva ai possessori di azioni della Société des chemins de fer. In quel mo­ mento (fine luglio 1926) la sterlina quotava circa 200 franchi e quindi il livello di 175 non sembrava elevato; ma le nuove condizioni createsi in poco più di due me­ si offrivano al Belgio la possibilità di stabilizzare a un valore fra 150 e 160, livelli su cui il franco era spinto dalle ingenti quantità di divise che rimpatriavano. An­ che nei giorni immediatamente precedenti la riforma monetaria la sterlina si teneva nettamente al di sotto di quota 175. Nello scegliere quest’ultimo livello di cambio certamente il governo fu influenzato dall’incertezza che avvolgeva in quel momento il futuro del franco francese: si poteva ancora temere nell’autun­ no 1926 che la stabilizzazione del franco francese ne comportasse una sostan­ ziale svalutazione. Ma quota 175 rispondeva soprattutto a un’altra esigenza: dopo il fallimento del piano Janssen la preoccupazione maggiore della nuova compagine governativa era quella di formulare un programma di stabilizzazione di sicuro successo, in modo da rafforzare con la sua riuscita la svolta politica del maggio. La quota prescelta permetteva di ridurre da 6,7 a 2 miliardi di franchi il debito dello stato nei confronti della Banca nazionale del Belgio me44 Cfr. l . Frank, Stabilisation, cit., p. 161. 22 Giancarlo Falco, Marina Storaci diante le plusvalenze determinate dalla nuova parità nel computo delle riserve della banca centrale, fino ad allora iscritte in bilancio alla parità prebellica. Lo stato della finanza pubblica ne risultava rafforzato e nello stesso senso agiva la possibilità di mantenere stabili le spese statali per il servizio del debito pub­ blico e quelle per il personale dipendente dallo stato, di fronte ad un aumento delle entrate stimolato dall’aumento dei prezzi e dei redditi monetari. Per garantire il successo della stabilizzazione, era stato necessario ricorrere al consolidamento dei buoni del Tesoro, anche se le forme specifiche con cui il provvedimento fu realizzato indicano l’intenzione di addolcire al massimo una imposizione nei confronti di ceti sociali che sicuramente appoggiavano il nuovo corso politico. Stabilizzando a quota 175, il governo mostrò di non voler creare difficoltà all’economia, in modo da accontentare industriali e banchieri senza però suscitare l’opposizione di sindacati e partiti operai, che vedevano salvaguardati l’occupazione e i salari monetari43. Negli anni immediatamente successivi alla riforma monetaria l’economia belga attraversò una fase espansiva che coinvolse la maggior parte dei settori indu­ striali. Ne fu esclusa una delle principali produzioni del paese, quella carboni­ fera, ma per motivi estranei alla poh tica monetaria. Essa condivideva le diffi­ coltà che avevano colpito il settore in tutti gli altri paesi produttori a causa del­ la crescente concorrenza di petrolio ed energia idroelettrica. Benché si avviasse in Belgio, fra il 1926 e il 1930, la riorganizzazione delle imprese estrattive e si affermasse in misura crescente la meccanizzazione, solo l’interruzione della concorrenza inglese durante il grande sciopero del 1926 concesse all’industria carbonifera belga una momentanea prosperità. L ’aumento della disoccupazione in Belgio sul finire del 1926 si può spiegare con l ’improvvisa cessazione di quel­ le circostanze favorevoli. Un aspetto determinante del boom del 1927-1930 è costituito dal ruolo della domanda estera: la svalutazione della moneta conso­ lidò infatti le linee di sviluppo che aveva seguito l’economia belga nella prima metà degli anni ’20, permettendo che continuasse l’espansione di alcuni settori produttivi tradizionalmente esportatori che avevano rapidamente rimediato ai danni bellici e riattivato i loro rapporti commerciali con l’estero. È il caso del­ l’industria tessile, che godeva dal dopoguerra di facilitazioni per l ’esportazione dei suoi prodotti; dell’industria vetraria, che vendeva all’estero gran parte della sua produzione e a condizioni più vantaggiose che in Belgio, grazie anche ad accordi interni e internazionali fra le imprese del settore; dell’industria diaman­ tifera e di alcuni prodotti meccanici (soprattutto i materiali ferroviari). Quota 175 incoraggiò le esportazioni siderurgiche: anche la produzione di acciaio era stata assorbita in misura crescente dai mercati esteri fra il 1922 e il 1926, ben­ ché i principali e tradizionali acquirenti del Belgio avessero a loro volta am­ pliato la produzione nazionale sotto la spinta della domanda bellica46. Lo svi­ luppo delle esportazioni portò ad una progressiva diminuzione del deficit com­ merciale, ormai largamente compensato dagli introiti di cui il Belgio fruiva sot­ to forma di spese di turisti stranieri, e soprattutto di redditi derivanti da in­ vestimenti all’esterno. La bilancia dei pagamenti registrò quindi, in particolare* *5 Nel 1928 F. Baudhuin, La stabilisation cit. p. 159, commentava a questo proposito: « l’ideale per una stabilizzazione monetaria è consacrare una situazione di fatto, in modo che nulla debba cambiare nel paese [...] Una stabilizzazione che esiga il ribasso del costo della vita e dei salari diventa estremamente aleatoria. Non diciamo che sia impossibile; ma non è certo consigliabile quando la situazione interna non è ben assestata, o quando si è subito un insuccesso ». K Per l ’analisi dei singoli settori economici v. F. baudhuin , Histoire économique cit., t. II, parte prima, « Le développement de l ’industrie ». Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 23 nella seconda metà degli anni venti, un costante attivo nelle partite correnti che permise ai grandi gruppi finanziari belgi di riprendere i loro investimenti al­ l’estero senza che difficoltà nella bilancia dei pagamenti li mettessero in pericolo imponendo alle autorità monetarie misure restrittive47. Fino al 1933, inoltre, il saldo attivo della bilancia dei pagamenti fu incremen­ tato dalle partite in conto capitale. L ’afflusso di divise iniziato pochi mesi prima della stabilizzazione continuò negli anni successivi, facendo del Belgio (come della Francia) uno dei maggiori detentori di riserve, soprattutto auree, negli anni della crisi. Esse infatti crebbero da 5,5 miliardi di franchi nel 1927 a 13,4 nel 1933, stimolando un aumento parallelo (seppure non nella stessa misura) della circolazione, cresciuta da 9,6 miliardi a 17,8 nello stesso periodo. In definitiva la politica monetaria seguita dal governo belga sembrò tener conto, in primo luogo, delle esigenze di una grande industria di esportazione a cui si garantivano un cambio relativamente vantaggioso e un aumento dei salari meno rapido dell’aumento dei prezzi. Apparentemente, almeno, risultavano sacrificati soprattutto gli interessi dei percettori di redditi fissi, cioè di strati sociali ap­ partenenti alle classi medie, ma è possibile che essi trovassero qualche contropartita al consolidamento dei buoni del Tesoro e all’aumento dei prezzi interni nel generale sviluppo dell’economia belga e nella restaurata stabilità monetaria. La politica di stabilizzazione valse infine ad impedire uno spostamento dell’asse politico del paese verso sinistra. A un anno di distanza dalla stabilizzazione, in­ fatti, i socialisti uscirono dal governo di unione nazionale e le elezioni legislative del maggio 1929, in pieno boom economico, videro l’ascesa del partito liberale. Quota 124 in Francia Le vicende politiche che si intrecciano con la crisi monetaria francese del 1925-26 e con la successiva stabilizzazione presentano alcune analogie con quelle già in­ dividuate nell’esperienza belga. In Francia, come accadrà un anno dopo in Belgio, le elezioni del maggio 1924 registrarono uno spostamento a sinistra del­ l’elettorato. L ’aumento dei prezzi che continuava ormai dal 1921 e la pesantezza delle imposizioni fiscali (particolarmente gravose per i livelli medi e bassi di reddito) indussero una parte della piccola e media borghesia a sostenere i ra­ dicali e i socialisti della SFIO che condussero la campagna elettorale prometten­ do di proteggere i ceti meno elevati, di far pagare le tasse ai ricchi e di age­ volare a tutti l’accesso alla proprietà48. Le forze conservatrici del Bloc National, al potere fin dal 1919, persero la maggioranza relativa a vantaggio della coali­ zione di radicali e socialisti, il Cartel des Gauches, che non riuscì tuttavia a conquistare una solida maggioranza parlamentare. Il nuovo governo ereditò una situazione finanziaria e monetaria pericolosa. Il franco aveva appena su­ perato un grave attacco speculativo al ribasso grazie ad un prestito che i ban­ chieri americani avevano fatto al Tesoro per consentirgli di intervenire sul mer- 47 Redditi provenienti da investimenti all’estero, a breve e a lungo termine: 1927, circa 2050 milioni di franchi; 1929, 3,6 miliardi di franchi. Cfr. f . baudhuin , Histoire économique cit. t. I, pp. 203 e 220. 48 Sulle sperequazioni del sistema fiscale francese, troppo permissivo verso i redditi più elevati e troppo pesante per quelli più bassi, vedi Alfred sauvy , Histoire économique de la France entre les deux guerres, voi. I, Paris, 1965, pp. 378-381. Sul logoramento del Bloc national vedi Charles s. m aier , Recasting Bourgeois Europe. Stabìlization in France Germany and Italy in thè decade after World War I, Princeton, 1975, pp. 458-479. 24 Giancarlo Falco, Marina Storaci cato dei cambi. Il bilancio dello stato era in deficit e lo stato era costretto a in­ debitarsi con larghezza per sostenere una spesa pubblica difficilmente compri­ mibile dal momento che i 3 /4 circa del totale erano assorbiti dal servizio del debito pubblico, dalla rendita vitalizia, dalle pensioni dei combattenti e dalle spese militari49, intoccabili in un paese che stava appena uscendo dall’occupa­ zione della Ruhr. L ’inflazione che erodeva progressivamente il reddito reale del­ la piccola e media borghesia, tradizionale acquirente dei titoli pubblici, non con­ sentiva ormai più di collocare titoli a lungo termine: solo i buoni del Tesoro a breve termine (addirittura di pochi mesi) trovavano un mercato. La situazione del Tesoro si faceva sempre più difficile: ogni scossa alla fiducia dei sottroscrittori di buoni provocava immediatamente difficoltà di cassa perché esisteva un limite legale sia alle anticipazioni che lo stato poteva ottenere dalla banca cen­ trale, sia un limite alla circolazione monetaria complessiva, come imponeva la tradizionale ortodossia monetaria. In realtà l’inflazione, la svalutazione e il deficit del bilancio statale stimolavano la crescita industriale e le esportazioni industriali della Francia che già risultava avvantaggiata dal rafforzamento della siderurgia in seguito alla riannessione del­ la Lorena e dal declino della concorrenza tedesca e inglese in Europa. Le espor­ tazioni industriali avevano assunto un ruolo centrale nella bilancia dei paga­ menti francesi, la cui struttura si era modificata profondamente nel dopoguerra. Il saldo attivo delle partite correnti era stato nuovamente raggiunto già nel 1921, ma l’importanza dei redditi derivanti dagli investimenti all’estero si era notevolmente ridotta e altre partite avevano assunto grande rilievo: in pri­ mo luogo le spese dei turisti e le esportazioni di prodotti industriali, ormai es­ senziali per raggiungere un saldo attivo del conto corrente. L ’instabilità mo­ netaria aveva favorito questi risultati, ma le ripercussioni negative sui redditi di vasti strati sociali decisivi per gli equilibri politici del paese e il pericolo che un deterioramente eccessivo delle condizioni monetarie bloccasse Io stesso svi­ luppo economico, rendevano opportuno un controllo sull’inflazione. Il programma economico del Cartel des Gauches, tuttavia, era assai impreciso. Al suo interno le diverse componenti erano favorevoli a soluzioni diverse per migliorare le condizioni del bilancio statale, al cui deficit si attribuiva l’espansio­ ne della circolazione monetaria e di conseguenza, si riteneva, l’aumento dei prezzi. Mentre alcuni settori erano favorevoli ad accrescere le imposizioni fiscali sui redditi più elevati, raggiungendo il pareggio del bilancio con un aumento delle entrate, altri preferivano parlare di un contenimento della spesa pubblica o di forme di tassazione meno discriminanti. Tutti però ritenevano improponi­ bile aumentare la circolazione monetaria per far fronte alle esigenze di cassa del Tesoro, benché l’aumento dei rimborsi dei buoni del Tesoro con cui si manife­ stavano i sospetti verso il nuovo governo radicalsocialista lo rendesse sempre più probabile. Così, benché il governo fosse costretto nel dicembre 1924 a finan­ ziarsi con un aumento della circolazione e delle anticipazioni oltre i limiti legali, il timore che questa decisione riducesse ancora la fiducia dei detentori del de­ bito pubblico e che la coalizione si indebolisse ulteriormente, lo indusse ad 49 Utilizziamo i dati che Alfred Sauvy ha calcolato per il bilancio 1930-31 sulla ripartizione della spesa pubblica, non essendone disponibili altri più vicini al periodo che consideriamo. La distorsione che ne risulta non dovrebbe tuttavia comportare errori rilevanti per il discorso che si sviluppa, come mostra un confronto con i calcoli analoghi compiuti per il 1913 da cui risulta una certa stabilità nella ripartizione delle spese. V. Alfred sauvy , Histoire économique cit., p. 371. Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 25 assumersi la responsabilità di una falsificazione dei bilanci della banca centrale50. L ’espansione della circolazione monetaria non potè essere riassorbita come si era inizialmente sperato e ciò costrinse a rivelare, nell’aprile 1925, la contraffa­ zione dei bilanci e ad elevare ripetutamente i livelli legali della circolazione nel corso dell’anno. Il governo non era riuscito ad evitare ciò che temeva e il com­ portamento seguito ne comprometteva gravemente la credibilità. La situazione monetaria stessa risultò aggravata e il governo si trovò costretto ad agire senza un piano preciso, lasciandosi trascinare dalle circostanze, incapace ormai di con­ trollare l’inflazione, di impedire le fughe di capitali e limitare le richieste di rim­ borso dei buoni del Tesoro in scadenza. Anche l’atteggiamento nei confronti della riforma fiscale era contraddittorio. Fin dal febbraio 1925 il governo fu costretto a revocare, per l’ostilità dei banchieri da cui dipendeva per finanziare il deficit, il borderau des coupons, una misura introdotta dal precedente governo Poincaré che permetteva di accertare i reddi­ ti percepiti come interessi e dividendi e di tassarli quindi nell’ambito dell’im­ posta progressiva sul totale del reddito anziché con la semplice cedolare propor­ zionale. Nei mesi seguenti, tuttavia, si continuò a parlare di imporre nuove tasse o di modificare le percentuali di imposizione di quelle già esistenti per accresce­ re gli introiti delle imposte dirette e realizzare un prelievo maggiore sui livelli più alti di reddito. Si proposero così imposte sui « beni improduttivi » (oggetti artistici e di lusso) nel novembre 1925 e poche settimane dopo un aumento dal 20 al 50 per cento sull’imposta globale sul reddito e su quelle previste per le varie forme di reddito, ma si ripiegò infine su una proposta di raddoppio della tassa sul volume degli affari, particolarmente pesante per i settori del pic­ colo commercio e gli artigiani e comunque interamente traslata51. Il Cartel des Gauches, dunque, riproponeva in definitiva un inasprimento di quel genere di imposte contro le quali aveva condotto la propria campagna elettorale meno di due anni prima. Due fatti soprattutto spiegano una simile evoluzione: la ne­ cessità di ricorrere a un tipo di prelievo fiscale largamente collaudato per ot­ tenere immediatamente degli introiti e un progressivo accentuarsi delle influen­ ze conservatrici sulla coalizione. Il disaccordo in materia finanziaria che divideva il Cartel des Gauches passava all’interno dello stesso partito radicale e il go­ verno, non potendo contare su una propria sicura maggioranza parlamentare, si rivolgeva verso i radical-nazionali di centro-destra per ottenere un appoggio estre­ mamente condizionante contro la propria sinistra interna. Il risultato sul piano fiscale di quest’evoluzione politica fu un complesso di misure approvate nell’apri­ le 1926 per riuscire a chiudere in pareggio il bilancio di quell’anno. Il governo (ormai il quarto dopo le elezioni) prevedeva, accanto ad un aumento delle im­ poste indirette, una determinazione più accurata delle imposte dirette, l’impo­ sizione di una sorta di sovratassa per il 1926 e l’introduzione del carnet des coupons, un espediente analogo al borderau soppresso poco più di un anno prim a52. 50 Poco dopo la violazione della legge, il 17 genaio 1925, Herriot dichiarava alla Camera: « I l governo attuale, a qualsiasi costo è contro tutto ciò che è inflazione [...] Niente infla­ zione. Subordiniamo tutto a ciò ». Vedi r . ph ilippe , Le drame cit., p. 69n. s' Sulla riforma fiscale durante i governi del Cartel des Gauches vedi A. sauvy , Histoire économique cit. t. 1, pp. 381-385 e c. s. maier , Recasting Bourgeois Europe cit., pp. 497-500. 52 Sulla progressiva disintegrazione del Cartel des gauches e il suo spostamento a destra ibid, pp. 494 sgg., che attribuisce un ruolo centrale in queste vicende ai problemi fiscali. Le misure approvate precedevano tra l ’altro l ’eliminazione del pagamento à forfait delle tasse sui redditi commerciali e l ’obbligo della dichiarazione giurata del totale dei redditi perce­ piti, oltre la pubblicità delle dichiarazioni mediante affissione nei comuni delle liste dei contribuenti soggetti all’imposta generale sul reddito. 26 Giancarlo Falco, Marina Storaci Il miglioramento effettivo del bilancio statale, in realtà, era affidato ancora una volta alla maggiorazione delle imposte indirette53, ma le misure destinate ad accrescere il prelievo diretto erano sufficienti a suscitare una reazione immedia­ ta e inequivocabile di ostilità da parte degli interessi che ne sarebbero stati col­ piti. La fuga di capitali all’estero si aggravò rendendo ingovernabile il cambio che in sette mesi, tra il gennaio e il luglio 1926, perse oltre metà del suo valore rispetto al dollaro (in termini di medie mensili), in palese coincidenza con la lunga discussione della legge fiscale e la sua approvazione54. Ancora una volta il governo cedette verso destra: il 10 giugno il ministro delle Finanze Péret, annunziava la revoca del Carnet des coupons e il 31 maggio un decreto nomi­ nava un gruppo di esperti, scelti negli ambienti dell’alta banca, dell’industria, del commercio e in quello accademico5S, incaricati di definire un programma di stabilizzazione. Péret ammetteva ormai che bisognava « cessare di far guerra ai possidenti, se si vuole arrestare l’esodo dei capitali e farli rientrare all’ovile ». Il compito di riconquistare la fiducia di capitalisti e classi medie veniva tentato da un nuovo governo che avrebbe dovuto comprendere anche Poincaré, ma que­ sta possibilità fallì e Briand, presidente incaricato, si rivolse a Caillaux per le Finanze. In poche settimane veniva profondamente mutato il gruppo dirigente della banca centrale e si raggiungeva un accordo con la Treasury inglese per il consolidamento del debito di guerra. Il 4 luglio il Comitato degli esperti pre­ sentava le sue proposte, ben rispondenti all’esigenza di tranquillizzare i ceti conservatori: alleggerimento delle imposte dirette, soppressione di qualsiasi con­ trollo sui valori mobiliari, rigida politica di bilancio per bloccare l’inflazione e stabilizzazione del franco con l’appoggio della finanza internazionale56. Gli am­ bienti non ministeriali da cui gli esperti provenivano, la rapidità con cui si svol­ sero i lavori, la novità stessa del definire per la prima volta una strategia della stabilizzazione, contribuirono a collocare il piano degli esperti in una dimen­ sione di efficienza tecnocratica quale i politici non erano stati in grado di rag­ giungere fino a quel momento. La contrapposizione strumentale fra tecnica e politica era spinta al punto di chiedere poteri speciali per l’esecutivo (come av- 53 Vedi A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 382. 54 Indice del cambio medio mensile del dollaro a Parigi: gennaio 1926: 100; marzo 1926: 105,4; maggio 1926: 111,5; luglio 1926: 154,5. Fonte: elab. da A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 445. 55 Sulla composizione del Comitato vedi Ém ile moreau , Souvenirs d’un gouverneur de la banque de France. Histoire de la stabilisation du Franc (1926-1928), Paris, 1954, p. 54, che attribuisce a Raymond Philippe, funzionario della Lazard Frères, l ’iniziativa di indurre il presidente del consiglio Briand a battersi per la nomina del Comitato. Si veda di R. Ph ilippe , Le drame cit. Sul significato politico del Comitato vedi A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 76 e c. s. maier , Recasting Bourgeois Europe cit., p. 503, che sottolinea anche le implicazioni internazionali della nomina del Comitato. La caduta del franco aveva indotto il ministro delle Finanze francese a chiedere un prestito a Benjamin Strong per stabilizzare il cambio, ma questi aveva sostenuto l ’inutilità di un simile intervento finché fi governo fran­ cese non avesse riconquistato la fiducia del paese. Contemporaneamente erano giunte a con­ clusione le trattative per fi consolidamento del debito di guerra con gli Stati Uniti, ma il governo non aveva la forza di far ratificare l ’accordo dal Parlamento, in maggioranza ostile al rimborso dei debiti. Sull’atteggiamento di Strong vedi L. v. chandler, Benjamin Strong cit., pp. 361-362 e in particolare la convinzione espressa dal governatore della Federai Re­ serve Bank di New York a Pierre Jay che « la base di qualsiasi progetto per la Francia deve essere un accordo di unificazione degli intenti da parte del governo e da parte dell’opposizione in Parlamento, di cui fi più importante è il gruppo Blum-Herriot, includendo ugualmente la Banca di Francia e tutti i banchieri francesi importanti. Devono deporre le loro contro­ versie e accordarsi su un programma ». Sull’ostilità della Banca di Francia verso fi governo del Cartel des gauches, vedi r . Ph ilippe , Le drame cit., pp. 95-108. “ Vedi É . moreau , Souvenirs cit., pp. 14-17. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 27 veniva in Belgio quasi negli stessi giorni) che consentissero di procedere rapida­ mente verso il risanamento monetario senza i ritardi e le incertezze della pro­ cedura parlamentare57. Il 16 luglio il governo presentò in Parlamento un pro­ gramma monetario che accoglieva i suggerimenti degli esperti e si concludeva con la richiesta di una delega di poteri fino a novembre. Proprio su questa ri­ chiesta il governo, diviso al suo interno, cadde. Dopo un ennesimo tentativo di formare un governo sotto la direzione di Herriot, principale responsabile della caduta dell’ultimo governo Briand, la sera del 21 luglio il Parlamento vo­ tava la sfiducia all’ultimo governo del Cartel des Gauches e Poincaré accettava la responsabilità di costituire un nuovo governo di coalizione nazionale. Il 23 il governo era costituito: comprendeva tutti i partiti, esclusi i socialisti, i comu­ nisti e i radicali vicini a Caillaux e nelle sue file si trovavano gli esponenti po­ litici conservatori più prestigiosi. L ’effetto sui cambi fu immediato: in dieci giorni il franco recuperò oltre l’i l per cento del suo valore58, benché l’unica misura presa fino ad allora fosse l’aumento di 1 punto e mezzo dello sconto. II 3 agosto il Parlamento approvava una legge fiscale che prevedeva l’inaspri­ mento di parecchie imposte dirette insieme con l’aumento dell’imposizione sui redditi mobiliari (ma senza introdurre strumenti che impedissero le evasioni e riducendo i diritti di trasmissione sui buoni al portatore), l’imposizione di una tassa del 7 per cento sul primo passaggio di proprietà dei beni immobili, l’au­ mento delle imposte sui diversi redditi, compresi quelli da lavoro dipendente, ma prevedendo un aumento del reddito esente e riducendo drasticamente il tasso dell’imposta generale sul reddito59: un insieme di misure che apparentemente colpivano tutte le classi sociali, senza distinzioni, come ci si doveva attendere da un governo di coalizione nazionale e che accresceva le entrate fiscali permet­ tendo non solo il pareggio, ma addirittura un avanzo nel bilancio statale (man­ tenutosi fino al 1 930)60 e consentendo anche di ridurre le anticipazioni della banca centrale allo stato. Contemporaneamente fu affrontato il problema del debito pubblico interno: Poincaré, con un atto destinato a fare impressione, convocò le due camere a Versailles perché creassero la Cassa di ammortamento del debito pubblico, che doveva gestire i Bons de la défense nationale (la parte maggiore del debito flut­ tuante) e i buoni del Tesoro ordinari. Come nel caso del Belgio, l’istituzione della Cassa era una misura in sé inutile ma di sicuro effetto propagandistico nei confronti dei possessori di titoli pubblici perché indicava la volontà del governo di riscattare il suo debito e quindi ne rafforzava le quotazioni. L ’orientamento politico del governo Poincaré era importante almeno quanto le misure fiscali e monetarie che adottava nel bloccare la svalutazione del fran­ co. Il cambio continuò a migliorare mentre i capitalisti francesi rimpatriavano le disponibilità liquide che avevano collocato all’estero nei mesi precedenti: tra l’agosto e il dicembre del 1926 si rivalutò del 28 per cento. Quando il franco toccò la quota di 119,50 rispetto alla sterlina, la Banca di Francia decise di in­ tervenire per rialzarne il corso e stabilizzarlo tra 120 e 125 franchi per sterlina. Per 18 mesi il franco oscillò lievemente attorno a queste quote, ma solo grazie ai continui interventi che la banca centrale effettuò per contrastare un vasto movimento speculativo al rialzo. Al rimpatrio dei capitali francesi si unì infatti 57 Ibid. p. 15. 51 II cambio del franco rispetto alla sterlina scese da 218,50, massimo del 23 luglio, a 194, massimo del 3 agosto; nello stesso giorno il minimo raggiunse 184,50. Ibid pp. 40 e 59. 59 Vedi A. sauvy , Histoire économique cit., t. I, p. 45. “ Ibid., p. 513. 28 Giancarlo Falco, Marina Storaci la speculazione estera che cercò di assicurarsi franchi anche quando la moneta era di fatto stabilizzata, per l’incertezza (che durò fino alla stabilizzazione legale del 1928) sul livello a cui il franco sarebbe stato fissato. Fra il secondo seme­ stre del 1926 e la metà del 1928 si accumulò nelle casse della banca centrale l’equivalente di oltre un miliardo di dollari in divise61 (soprattutto sterline) che rese inutile il ricorso a prestiti internazionali per stabilizzare il franco 62. Ciò permise al governo Poincaré di non affrontare un voto parlamentare di ratifica dell’accordo Mellon-Bérenger sul consolidamento del debito di guerra con gli Stati Uniti e questo valse a rafforzare la posizione del governo63. Le conse­ guenze principali dell’afflusso di divise su Parigi, tuttavia, si verificarono nella posizione della Francia nel sistema monetario internazionale. La Banca di Fran­ cia accumulò un enorme credito a breve termine sull’estero che, data la con­ vertibilità aurea allora legalmente sancita in molti paesi come sbocco del proces­ so di generale stabilizzazione monetaria del primo dopoguerra, avrebbe potuto essere trasformato in oro, pena la dichiarazione di insolvibilità del paese che vi si fosse sottratto. Per ragioni tecniche (principale centro di compensazione in­ ternazionale in Europa, maggior mercato mondiale dell’oro), Londra costituiva, anche per le minori spese di trasporto del metallo che la sua posizione geografi­ ca permetteva, il punto di riferimento naturale di una richiesta di conversione e ad essa, nella prima metà del 1927, si rivolse la Banca di Francia per ottenere in rate settimanali l’equivalente di 20 milioni di sterline64. Una simile richiesta imponeva alla Banca d’Inghilterra una severa deflazione per adeguare circola­ zione e crediti bancari alle riserve auree decurtate dalle richieste francesi. Que­ sto era effettivamente lo scopo di Moreau, governatore della Banca di Francia, poiché egli era convinto che l’afflusso di divise su Parigi potesse essere bloccato solo inasprendo le condizioni monetarie all’estero e particolarmente in Inghil­ terra, dal momento che proprio da questo paese giungeva la maggior parte delle divise65. Le condizioni dell’industria inglese, in realtà, non consentivano una ulteriore stretta deflazionistica dopo le difficoltà create dal ritorno alla parità aurea della sterlina secondo un tasso di cambio che la sopravvalutava66. Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilterra, riuscì a contrattare una riduzione delle richieste francesi su Londra grazie alla mediazione americana e ad ottenere che altre richieste venissero rivolte agli Stati Uniti. La Banca di 61 Cfr. « New York Times », 11 dicembre 1927, p. 12 e « Times », supplemento del 7 feb­ braio 1928, p. XV. Vedi anche ràgnar nurske e Willia m a. brown jr., International Currency Experience. Lessons of thè inter-war period, League of Nations, s.l., 1944, p. 36, se­ condo cui la Banca di Francia acquisì 26 miliardi di franchi in valuta fra l ’agosto 1926 e il 25 giugno 1928, cioè circa un miliardo di dollari. Contemporaneamente gli acquisti di oro ammontarono a 10 miliardi di franchi. 62 Sull’evoluzione dell’atteggiamento francese nei confronti dei crediti americani vedi G. falco e M. storaci, Fluttuazioni monetarie cit., p. 59 n. Occorre sottolineare che l ’acquisto di divise da parte della Banca di Francia costituiva una novità tecnica per l’istituto che venne messo in grado di operare sul mercato dei cambi acquistando e vendendo divise a una parità diversa da quella prevista per il frane germinai solo nell’agosto 1926. Fino ad allora tali ope­ razioni erano di esclusiva competenza del Tesoro. 63 Vedi É. moreau , Souvenirs cit., p. 278. 64 Vedi stephen v. o. clarke , Central Bank cooperation 1924-1931, New York, s.d., pp. 116-123. Rivolgendosi a Londra, tuttavia, la Banca di Francia intendeva anche mettere in difficoltà un rivale che negli anni precedenti, per esempio nel 1923, aveva fatto pesare alla Francia la precarietà della sua posizione monetaria e perseguiva obiettivi di egemonia finan­ ziaria sull’Europa che urtavano l ’interesse francese per i Balcani e l’Europa centro-orientale. 65 Cfr. É . moreau, Souvenirs cit., p. 309. Attraverso il mercato londinese Moreau intendeva anche colpire la Germania, impedendo che gli speculatori tedeschi che acquistavano franchi trovassero crediti presso le banche inglesi. 66 Ibid., p. 330. Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 29 Francia ricorse ad altre soluzioni tecniche per impedire che il costante flusso di divise (stimolato soprattutto dal lungo rinvio della stabilizzazione legale), impo­ nesse una drastica rivalutazione del franco o si risolvesse in un incontrollato aumento della liquidità, capace di creare nuove tensioni inflazionistiche61. Tut­ tavia la richiesta di conversione in oro delle divise metteva bruscamente in luce l’enorme potere che la Banca di Francia aveva conquistato sul sistema monetario internazionale e ne rafforzava la posizione in senso antagonistico alla Banca d ’In­ ghilterra, rendendola un punto di riferimento ad essa alternativo, almeno nel­ l’ambito europeo. I capitali che affluivano in Francia, inoltre, permisero al Tesoro di risolvere il problema del proprio indebitamento sia verso il pubblico che verso l’istituto di emissione. Le disponibilità liquide di franchi rifluirono dapprima verso titoli di stato a breve e medio termine e, quando il franco si presentò come una moneta ormai garantita contro ogni svalutazione, anche verso titoli a lunga scadenza, emessi a condizioni vantaggiose soprattutto verso la metà del 1927 6768. Dopo il lungo periodo di stabilizzazione di fatto, la Francia reintrodusse la parità aurea del franco (0,065 grammi di oro fino per franco) il 24 giugno 1928: occorre­ vano 124,21 franchi per sterlina e il franco valeva ora circa 1/5 di quello prebellico. II progetto di legge che ristabiliva la convertibilità aurea del franco si apriva esprimendo il disappunto del governo per non poter ripristinare la parità aurea che il franco aveva avuto dal 17 germinale XI (il 7 aprile 1803) fino all’agosto 1914 e per non poter neppure proporre una riforma monetaria che comportasse una minor svalutazione del franco. La quota scelta, infatti, fu il risultato di una contrapposizione ai vertici del potere politico: il presidente del consiglio, appoggiato da alcuni reggenti della Banca di Francia (Rothschild e Wendel so­ pratutto), dal presidente del Senato Doumer, dal presidente della Repubblica Doumergue, aveva tentato di imporre una sostanziale rivalutazione rispetto ai livelli del 1925-26. L ’opinione di Poincaré sul franco era sostenuta da conside­ razioni sociali e politiche. La guerra e le opportunità offerte dalla ricostruzione postbellica avevano modificato profondamente la struttura dell’industria fran­ cese, favorendo la formazione di imprese di grandi dimensioni, organizzate con criteri moderni e tecniche produttive avanzate. Ma l’espansione economica della prima metà degli anni venti non aveva rimediato a tradizionali debolezze del­ l’economia francese: l’agricoltura, la cui importanza in termini di occupati era pari a quella dell’industria verso il 1930, era condotta con metodi prevalente­ mente arretrati a causa soprattutto delle dimensioni ridotte dei fondi. Una buo­ na parte dei contadini erano piccoli e medi proprietari o affittuari che lavora­ vano una terra corrispondente, come ampiezza, all’unità tecnica della famiglia, le cui esigenze di economia alimentare inducevano a coltivare un’ampia varietà di prodotti anche se le rese erano basse. In queste condizioni i cambiamenti tec­ nici si effettuavano con lentezza mentre il flusso dei nuovi investimenti postbel­ lici si dirigeva verso l’industria, coinvolgendo tutt’al più le imprese agricole ca­ pitalistiche del sud viticolo, della Piccardia, dell’Ue de France, o anche le pro­ prietà più grandi presenti in ogni villaggio, importanti più per il loro peso po­ litico e sociale che non per la rilevanza economica. La vasta fascia dei conta­ dini che sopravvivevano grazie al rigido controllo dei propri consumi, alimenta67 Ibid., p. 293: « [...] l’inflazione condizionata a cui ci obbligano questi acquisti di divise ci preoccupa perché turba molti interessi e minacca di provocare un aumento artificioso e nocivo dei prezzi » (28 aprile 1927). “ Ibid. pp. 293-294. 30 Giancarlo Falco, Marina Storaci va una corrente annuale di risparmio di vitale importanza per chi era esposto alle fluttuazioni della produzione agraria e proprio loro erano stati gravemente danneggiati dall’inflazione dell’ultimo decennio67*69. A questi strati sociali di piccoli risparmiatori se ne aggiungevano altri le cui fortune erano più consistenti (pur se spesso collegate all’economia agricola) e il cui peso politico e sociale era ben più rilevante. Si trattava di ceti medi formati di notabili e professionisti, proprietari di terre, di commercianti e artigiani, tutti tradizionali acquirenti di titoli pubblici a reddito fìsso, danneggiati una prima volta dall’inflazione degli anni di guerra e dalla lenta svalutazione del franco negli anni successivi. Poincaré rappresentava gli interessi di queste categorie sociali. Nel settembre 1926, quando il franco si era già rivalutato del 30 per cento circa rispetto a luglio, egli dichiarò di desiderarne l’ulteriore apprezza­ mento perché, commentava il governatore della Banca di Francia, « [...] gli in­ teressi dei piccoli rentiers sembrano gli unici che preoccupano il presidente del consiglio. Per il momento non presta alcuna attenzione agli interessi dell’indu­ stria e del commercio, né ai carichi fiscali » 70. Anche il Comitato degli esperti, che pure aveva proposto una svalutazione del franco maggiore di quella realiz­ zata (160 franchi per una sterlina), non aveva ignorato nel suo rapporto con­ clusivo gli effetti negativi delle vicende monetarie sui ceti medi: « In Francia, paese di classi medie, d ’industrializzazione limitata, paese la cui prosperità è soprattutto fatta di capacità di risparmio, le conseguenze dell’instabilità mone­ taria sono particolarmente gravi » 71. Ma il settore più dinamico del capitalismo francese, protagonista dell’espansione economica degli ultimi anni, sarebbe stato danneggiato pesantemente dalla scelta di una quota elevata per il franco. In­ fatti l’esportazione di merci aveva assunto dimensioni via via maggiori, tanto che a partire dal 1924 la bilancia commerciale si era chiusa in attivo, per la pri­ ma volta dopo il 1905. La drastica rivalutazione del franco proposta da Poin­ caré avrebbe certamente compromesso questo positivo risultato e industriali e commercianti cominciarono a premere sul governo, verso la fine del 1926, perché arrestasse l’apprezzamento del cambio72, tanto più che il danno insito nella ri­ valutazione monetaria non si sarebbe limitato alle sole industrie esportatrici. I primi mesi di rivalutazione del franco, tra la fine del 1926 e l’inizio del 1927, coincisero con una crisi industriale che fece aumentare bruscamente la disoccu­ pazione e misero in luce le gravi conseguenze che una rivalutazione troppo ac­ centuata avrebbe avuto sui salari. Una simile evoluzione avrebbe avuto conse­ guenze sociali che governo ed autorità monetarie erano ben decisi ad evitare. Per questo Poincaré si mostrò sensibile agli avvertimenti che Léon Jouhaux, se­ gretario CGT, potè indirizzargli in numerosi incontri avvenuti nell’autunno 1926 e secondo Jacques Rueff la questione dei salari e dell’occupazione finì con l’ave­ re un peso decisivo nell’orientare il presidente del consiglio ad accettare, il 20 novembre 1926, che la Banca di Francia intervenisse sul mercato dei cambi per impedire un’ulteriore rivalutazione del franco73. 67 Sulla struttura sociale nelle campagne francesi vedi Pierre George, Les Paysan, in A. (avec la collaboration de Anita Hirsch et d’autres auteurs), Histoire économique de la France entre les deux guerres, t. I l i , Divers sujets, Paris, 1972, pp. 55-65. Il carattere arre­ trato dell’economia francese viene sottolineato da TOM kem p , The French Economy under thè Frane Poincaré, in «Economie History Review », 1971, fase. 1, pp. 82-99 e in The French economy 1913-1939. The History of a Decline, London, 1972, pp. 84-85, 90. 70 Cfr. É. moreau , Souvenìrs cit., p. 94. 71 Ibid., p. 15. 72 Vedi la dichiarazione di Poincaré in « Journal des Débats politiques et Iittéraires », 23 giugno 1928. 73 Vedi J acques r u eff , Sur un point d ’histoire: le niveau de la stabilisation Poincaré, in sauvy Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 31 In questo contesto la quota 124 (124 franchi per una sterlina) a cui il franco fu stabilizzato di fatto nel dicembre 1926 fu presentata come un soddisfacente compromesso tra opposte tendenze o meglio come risultato di una lotta in cui Poincaré e i suoi seguaci si adeguarono alla soluzione che comportava, per loro, il male minore. La quota scelta, d’altra parte, evitando di aggravare la posizione del Tesoro con un’eccessiva rivalutazione degli interessi del debito pubblico, garantiva un fondamento più solido alla riforma monetaria. Essa infine tutelava la Banca di Francia dalle gravissime perdite che avrebbe dovuto subire se l’enor­ me massa di divise acquistate durante le operazioni sui cambi fossero state regi­ strate in bilancio per un corrispettivo in franchi di molto inferiore a quello ef­ fettivamente impiegato per acquistarlo. Quota 124 rivalutava il franco solo ri­ spetto ai valori medi del 1926; ciò nonostante, la rivalutazione del 19 per cento circa e più ancora la stabilità della moneta dopo anni di lento deprezzamento furono sufficienti a ridimensionare lo sviluppo delle esportazioni francesi, provo­ cando un netto peggioramento della bilancia commerciale. A determinare questo risultato concorreva anche l’aumento delle importazioni, particolarmente rile­ vante nel 1929, quando l’economia francese era ancora in pieno sviluppo. Que­ st’evoluzione della bilancia commerciale (che si accentuò negli anni seguenti, pro­ vocando il declino della posizione internazionale della Francia per tutto il corso degli anni trenta) non riuscì tuttavia a compromettere, per il momento, il saldo attivo della bilancia dei pagamenti. Le maggiori voci attive del conto corrente (soprattutto i proventi del turismo, stimati in aumento fino al 1929-30) e i flussi registrati nel conto capitale (tra cui giocavano un ruolo decisivo le ripa­ razioni tedesche e le entrate di divise), riuscirono a conservare alla Francia la posizione creditrice sull’estero che aveva raggiunto già nel 1927 in seguito al massiccio ingresso di capitali francesi ed esteri attratti dalle prospettive di ri­ valutazione del franco 74. Si trattava di crediti a breve termine, concentrati in gran parte presso la Banca di Francia e altri istituti bancari, a cui erano stati ceduti dai precedenti possessori in cambio di franchi. Di essi si valsero le banche francesi per accrescere la propria liquidità quando dovettero fronteggiare sia momenta­ nee difficoltà stagionali, sia le tensioni causate dai fallimenti bancari del 19301 9 3 1 7:>. Ma le stesse autorità monetarie francesi ricorsero ai crediti sull’estero per favorire il loro proposito di rendere Parigi un mercato finanziario di im­ portanza europea. Sfruttando il potere che tali crediti attribuivano alla Banca di Francia e al Tesoro sul mercato finanziario di Londra (e per questa via, anche su quello di Berlino), le autorità francesi migliorarono la propria posizione con­ trattuale nelle intese internazionali che portarono alla sistemazione monetaria di alcuni paesi dell’Europa balcanica e della Polonia, garantendo alla Francia una presenza politica ed economica in questi paesi, alternativa rispetto a quella di Inghilterra e Germania76. Analogamente, esse cercarono di influire sulle trat­ tative per la revisione del problema delle riparazioni tedesche77. Man mano che «R evue d’Économie Politique », a. LXIX, 1959, fase. 1, pp. 168-178, che riprende sostan­ zialmente le considerazioni svolte nella prefazione dello stesso autore a É. moreau , Souvenirs cit., pp. V III-IX, aggiungendovi la Note sur le choix d ’un cours de stabilisation da lui pre­ parata per Poincaré nel novembre 1926. 71 Sulla bilancia commerciale francese vedi in see , Annuaire statìstìque de la France 1966, Resumé rétrospectif, voi. LXXII, n.s., n. 14, p. 350; sulla bilancia dei pagamenti, ibid. p. 365 e, per valutazioni parzialmente diverse che però non incidono sul tipo di considerazioni qui svolte, a. sauvy , Histoire économique, t. 1, cit., pp. 492-494. 75 Vedi Willia m A. brown jr., International gold standard reinterpreted 1914-1934, New York, 1940, p. 990 e s. v. o. clarke , Central bank cooperation cit., p. 167. 76 Per un esempio anteriore dell’atteggiamento francese cfr. É. moreau , Souvenirs cit., pp. 488-489 e in generale r . h . m eyer , Bankers’ Diplomacy, cit., passim. 71 s. v. o. clarke , Central Bank cooperation cit., pp. 165-166. 32 Giancarlo Falco, Marina Storaci la crisi si accentuava nel resto del mondo, la posizione della Francia sul mer­ cato finanziario internazionale sembrava rafforzarsi e il flusso di oro che la Banca di Francia continuò ad attrarre dal resto del mondo fino al 1933, dava un’evi­ denza fisica a questa condizione, contribuendo con ciò a fare di Parigi il punto di raccolta di quei capitali liquidi che cercavano sicurezza dopo la svalutazione della sterlina. In realtà la svalutazione della sterlina e del dollaro, che accentua­ vano la concorrenzialità delle esportazioni inglesi e americane, e il progressivo deterioramento delle voci del conto corrente della bilancia dei pagamenti fran­ cese rovesciarono, dal 1934, la posizione internazionale della Francia, rivelando la sua precarietà e dipendenza da una congiuntura monetaria eccezionale. Quota 90 in Italia Tra la fine del luglio e l’inizio dell’agosto 1926 i due franchi avevano comin­ ciato a migliorare sul mercato dei cambi. In Belgio il nuovo governo che avreb­ be stabilizzato la moneta si era formato fin da giugno, ma solo il 27 luglio era stata votata la legge dei pieni poteri che permise il consolidamento del debito fluttuante e con esso l’arresto della svalutazione del franco. In Francia la costi­ tuzione del ministero Poincaré aveva determinato un aumento immediato del cambio e il 3 agosto erano state prese le prime misure fiscali deflazionistiche. Si stava quindi verificando una dissociazione nell’andamento delle tre monete a svantaggio della lira, che si trovava contemporaneamente e per la prima volta scavalcata dalle altre due monete sulla via del ritorno all’oro. L ’Italia (e il re­ gime) rischiava di offrire una dimostrazione d ’incapacità di azione proprio nei confronti del problema che da un anno e mezzo era al centro del dibattito eco­ nomico. Ciò spiega la risolutezza con cui Mussolini, all’inizio di agosto del 1926 78 cercò di impostare una soluzione del problema monetario italiano che bloccasse la svalutazione e migliorasse il cambio della lira. Fino ad allora non erano state prese misure adeguate in questo senso. Il primo luglio era entrato in vigore il decreto (emanato in maggio) che revocava il diritto di emettere moneta al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, accentrando tutte le funzioni di istituto di emissione presso la sola Banca d ’Italia. Si trattava di un provvedimento im­ portante per garantire un’efficace gestione della politica monetaria, che era stato studiato già durante il ministero De’ Stefani e che era sollecitato anche dalla ca­ sa M organ79, ma non bastava da solo a caratterizzare una linea d’intervento per risolvere il problema monetario. Ancora alla fine di maggio, dopo la decisione di sospendere la difesa delle quotazioni della Fra con operazioni sul mercato dei cambi, pareva che Volpi non intendesse impegnarsi in una precisa e univoca politica monetaria 80 che mettesse in discussione i criteri d ’intervento da lui se­ guiti fin dall’agosto-settembre 1925 per mantenere stabili i cambi, confortato probabilmente dall’accumulo di divise presso il Tesoro in seguito al trasferi­ mento dei prestiti obbligazionari emessi negli ultimi mesi del 1925 e nei primi del 1926 81. L ’accentuarsi della svalutazione tra giugno e agosto aveva reso im­ possibile rinviare una scelta fra strategie monetarie alternative. Gli ambienti finanziari americani si mostravano preoccupati e scontenti di fronte all’impiego 78 Vedi la lettera di Mussolini a Volpi, 8 ogasto 1926, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase. « Capo del Governo », cit. in e . de felic e , I lineamenti politici cit., p. 399. 79 Vedi G. g. migone, Aspetti internazionali cit., p. 64. 80 Vedi il resoconto dei colloqui suoi e di Mussolini con Benjamin Strong a Roma tra il 26 e il 28 maggio 1926 in G. G. migone, La stabilizzazione della lira: la finanza americana e Mussolini, in « Rivista di storia contemporanea » 1974, fase. 2, pp. 162 sgg. “ Cfr. gino borgatta, La stabilizzazione dei cambi e la bilancia dei pagamenti in Mini- Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 33 dei fondi fino ad allora concessi con i prestiti obbligazionari allo stato, all’ICIPU e alle imprese private, per le operazioni di sostegno della lira, convinti dell’inef­ ficacia di una difesa logorante e dispendiosa che si risolveva in un sicuro pro­ fitto per la speculazione al ribasso della lira, fino all’esaurimento delle riserve italianes2. Essi premevano per una sistemazione globale del problema moneta­ rio che avesse come obiettivo il ritorno della lira a una parità fissa fondata sul gold exchange standard. All’inizio di agosto, perciò, Mussolini impegnava il ministro delle Finanze a se­ guire un piano di stabilizzazione (in cui traspaiono probabilmente suggermenti di Beneduce nonostante l’insistente sottolineatura del carattere personale ed autonomo delle sue indicazioni); esso comportava l’immediata rivalutazione del­ la lira mediante una severa deflazione destinata a ridurre addirittura la circola­ zióne. La lettera di Mussolini a Volpi non precisava la misura della rivalutazio­ ne giudicata opportuna, pur escludendo l’ipotesi di una rivalutazione integrale ai livelli prebellici; ma molti richiami ad un livello « decente », ad « una rivalu­ tazione che torni ad onore del regime fascista » rendevano chiaro che il capo del governo aspirava a non recuperare semplicemente la parità mantenuta con le manovre sui cambi di Volpi. Nello stesso senso agiva l’esplicito riferimento alla necessità di mantenere la lira al di sopra del franco francese e alla parità della lira con la sterlina subito dopo la costituzione del primo governo fascista (pressapoco quota 90). Il discorso di Pesaro del 18 agosto rendeva pubbliche le intenzioni del governo e il 31 agosto venivano presi alcuni provvedimenti de­ stinati a ridurre drasticamente le operazioni attive della Banca d ’Italia e la cir­ colazione e ad aumentare le sue riserve83. In un primo tempo, tuttavia, la restri­ zione creditizia potè essere in parte elusa con il mancato rinnovo dei buoni del Tesoro in scadenza. Man mano che « le classi industriali commerciali e banca­ rie che costituivano la clientela più importante dei buoni » chiedevano il rim­ borso dei loro titoli84, crescevano le difficoltà del Tesoro i cui fondi liquidi si ridussero drasticamente tra luglio e ottobre, tanto da rendere necessario il ri­ corso al credito della Banca d ’Italia. Per continuare la politica restrittiva inaugu­ rata in agosto il governo dovette risolversi alla conversione forzosa dei buoni del Tesoro ordinari e di quelli quinquennali (la cui scadenza era imminente) e settennali, in titoli consolidati al 5 per cento. Le condizioni della conversione erano relativamente favorevoli per i possessori di titoli85. Contemporaneamente si ribadivano gli intenti deflazionistici disponendo la soppressione della Sezione autonoma del Consorzio sovvenzioni su valori industriali, creata nel 1922 per gestire il salvataggio del Banco di Roma e la liquidazione delle attività della Banca di sconto: all’estinzione delle sue operazioni, affidata a un Istituto di li­ quidazioni appositamente costituito, venivano attribuiti i 3 /4 del ricavato della tassa straordinaria sulla circolazione e altri proventi. Parallelamente la Banca d ’Italia proseguiva con successo la politica di restrizione creditizia. Le anti­ cipazioni si ridussero del 24% e gli sconti del 13,1% , i prorogati pagamenti stero delle Finanze, Le esperienze monetane prima e dopo la guerra, voi. I I problemi della valuta in Italia dopo la guerra, Roma, 1927, pp. 220-221. 82 Vedi g. g. migone, La stabilizzazione cit., pp. 158-159. 83 Un elenco delle misure è riportato in Banca d ’Italia, Adunanza generale ordinaria degli azionisti tenuta in Roma il giorno 31 marzo 1927, Roma, 1927, pp. 58-71; v. anche g. borgatta, La politica monetaria nel sistema corporativo, in « Annali di Economia dell’Universi­ tà di Milano », a. X II, 1937, pp. 255-256 e paolo b a ffi , La rivalutazione del 1926-27, gli in­ terventi sul mercato e l’opinione pubblica, in Nuovi studi sulla moneta, Milano, 1973, p. 104. 84 G. borgatta, La politica monetaria cit., p. 261. 85 Ibid. e felice guarneri, Battaglie economiche tra le due grandi guerre, voi. I 1918-1935, Milano, 1953, pp. 120-121. 34 Giancarlo Falco, Marina Storaci delle stanze di compensazione del 31,9 per cento nel secondo semestre 1926 86. La stretta creditizia rendeva ormai molto difficile l’esportazione di capitali, non più vantaggiosa, d’altra parte, da quando il governo si era impegnato a fermare la svalutazione e si era diffusa la convinzione di una drastica rivalutazione. Nel­ la nuova situazione, anzi, cominciava a profilarsi il ritorno di capitali esportati e l’afflusso di capitali a breve dall’estero. La caduta della domanda interna, causata dalla crisi che colpiva tutti i settori produttivi per la brusca svolta nella politica creditizia, riduceva immediatamente le importazioni, mentre gli esportatori, pur di mantenere sbocchi all’estero particolarmente preziosi nella crisi, riducevano i prezzi di vendita per compensare la progressiva rivalutazione. II deficit commerciale era sostituito da un leggero saldo attivo nel secondo se­ mestre 1926 87. L ’effetto di quest’evoluzione della bilancia dei pagamenti sul livello di cambio della lira fu positivo. Tra l’agosto e il dicembre essa si riva­ lutò del 26 per cento rispetto a dollaro e sterlina e continuò a rivalutarsi an­ cora nel primo semestre del 1927, toccando il livello massimo il 25 giugno, col dollaro a 17,24 e la sterlina a 83,74 88. Un simile risultato, tuttavia, aggravava la crisi economica: agli esportatori era più difficile mantenere le posizioni favorevoli raggiunte negli anni di progressiva svalutazione e le misure deflazionistiche decise dal governo colpivano tutte le attività produttive, senza che i prestiti ottenuti sul mercato internazionale riu­ scissero ad attenuarne le conseguenze. Alcuni dei gruppi industriali maggiori ave­ vano già ottenuto capitali mediante l ’emissione di obbligazioni negli Stati Uniti; altri si preparavano ad imitarli, specie le imprese elettriche, particolarmente in­ teressate ad aumentare le proprie disponibilità liquide. Ma la fruizione dei pre­ stiti non potè essere immediata perché le autorità monetarie cercarono di con­ tenere l ’espansione della liquidità interna in conseguenza dell’afflusso di divise dall’estero; perciò le emissioni obbligazionarie poterono alleviare le conseguenze immediate della stretta creditizia solo in misura ridotta. Negli ultimi mesi del 1926 l’ostilità alla rivalutazione della lira da parte di molti imprenditori trovò sfogo nella riunione di una cinquantina di loro, tra i maggiori, il 3 novembre, presso la federazione industriale di Milano sotto la direzione del presidente e del segretario della Confindustria. Lamentando la per­ dita di concorrenzialità delle esportazioni in seguito al miglioramento dei cambi della lira, gli industriali cercarono di fissare una quota limite a cui dovesse ar­ restarsi la rivalutazione perseguita dalle autorità monetarie. Nello stesso senso, seppure con maggiore durezza, agirono i cotonieri che ricavavano i maggiori vantaggi dalla svalutazione della lira. Già nella riunione di novembre avevano “ Vedi renato de mattia , I bilanci degli istituti di emissione italiani 1845-1936, voi. II, taw . 15 e 16, rispettivamente per gli sconti e le anticipazioni; per i prorogati pagamenti cfr. Banca d ’Italia, Adunanza cit., p. 115. Valori trimestrali del commercio estero italiano 1926: Importazioni Esportazioni Saldo I trim. 6606 4605 — 2001 II trim. 7653 5140 — 2513 III trim. 5421 5805 — 384 IV trim. 5814 6296 + 482 Fonte: Banca Commerciale Italiana, Movimento economico cit., voi. X V II, Milano, 1928, p. 268. Le cifre riproducono quelle calcolate nel 1927 dall’ISTA T che riducono il deficit del commercio estero applicando un coefficiente di maggiorazione del 15% alle esportazioni regi­ strate dalle dogane. Il risultato è largamente criticabile (vedi per esempio G. borgatta, La stabilizzazione dei cambi e la bilancia dei pagamenti cit., pp. 224-232), ma non dovrebbe in­ validare la sostanza del discorso sviluppato nel testo. !S Vedi Banca d ’Italia, Adunanza ecc. 31 marzo 1928, Roma, 1928, p. 23n. Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 35 protestato con particolare energia e il 20 dicembre inviarono un memoriale a Mussolini in cui minacciavano addirittura la chiusura delle fabbriche e il li­ cenziamento degli occupati se la lira avesse continuato a rivalutarsi oltre la quota a cui era giunta (97,34 lire per sterlina)89. Anche il ministro delle Finan­ ze Volpi sembrava convinto che una rivalutazione della lira oltre i livelli che si era sforzato di mantenere durante il mese dei suoi interventi sul mercato avreb­ be avuto conseguenze negative per l’industria italiana. Le lettere scambiate con Mussolini in quei mesi contengono spesso richiami, cauti ma non per questo meno eloquenti, alla necessità di procedere con gradualità nella deflazione e nel­ la rivalutazione90. Queste posizioni, però, non riuscirono a prevalere. L ’opposi­ zione degli industriali tessili non venne raccolta dalla direzione della Confindustria che rinunciò ad esprimere una propria posizione sul livello di cambio, di­ chiarando che tale scelta spettava al solo capo del governo. Essa preferì, vero­ similmente, evitare uno scontro frontale e cercare compensazioni a una politica monetaria che si giudicava errata in altre misure economiche (controllo dei sa­ lari, sgravi fiscali, garanzia di commesse statali, aumento dei dazi doganali) e in un rafforzamento politico della Confederazione stessa. D ’altra parte i signi­ ficati politici di cui si era caricato negli ultimi mesi il problema monetario in Italia sconsigliavano uno scontro in proposito con il governo, suggerendo piut­ tosto un’azione discreta per limitare la politica monetaria seguita91. Un aiuto in questo senso parve venire dagli ambienti finanziari americani, i quali desideravano giungere a una rapida stabilizzazione delle principali monete europee. Mentre la stabilizzazione belga giungeva alla fase culminante il 25 ot­ tobre 1926, essi cominciarono a prospettarsi la possibilità di una rapida conclu­ sione della stabilizzazione italiana. La Federai Reserve Bank di New York con­ statava che le misure monetarie fino ad allora deliberate costituivano un com­ plesso organico capace di garantire la stabilizzazione se fossero state accompa­ gnate da un nuovo prestito, analogo a quello concesso per la riforma moneta­ ria del Belgio e si dichiarava favorevole a una stabilizzazione non molto ele­ vata perché più sicura per la lira: 27 lire (piuttosto che 25) per dollaro, indi­ cava un rapporto del 16 novembre a Harrison, vice-governatore della Banca92. Un paio di settimane più tardi lo stesso funzionario autore del rapporto prece­ dente, tuttavia, si dichiarava convinto che la Banca d’Italia avrebbe potuto reg­ gere una parità più alta (circa 23,5 lire) se motivi patriottici avessero indotto a preferire una rivalutazione della lira 93. I rapporti americani mostravano qualche timore per l’instabilità politica che secondo loro minacciava il governo e che sa­ rebbe stata accentuata dalla definizione di una parità troppo alta. Timori analo­ ghi vennero espressi da Montagu Norman, governatore della Banca d’Inghilter-85 85 Cfr. r. de felic e , Mussolini il fascista, II cit., pp. 249-252; r. sarti , Mussolini and thè industriai Italian leadership in thè hattle of thè lira 1925-1927, in « Past and Present » 1970, n. 47, pp. 108-109 e pierò melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, 1972, pp. 181-185. 90 Vedi la lettera di Volpi a Mussolini, 20 ottobre 1926, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase. « Capo del Governo » cit. in r . de felic e , I lineamenti politici cit., pp. 410-412. In questo sen­ so si muovono, per esempio, i richiami di Volpi a usare il rapporto tra prezzi all’interno e prezzi esteri come metro per fissare la parità di cambio nella lettera a Mussolini del 15 agosto 1926, ibid. p. 405. 51 Sembrano significativi in questo senso gli sforzi di Volpi per convincere Mussolini che le sorti del fascismo non dipendevano dalle vicende della lira nella lettera cit. del 15 ago­ sto 1926, o quelli intesi a sdrammatizzare l’accusa di bluff che ambienti dell’antifascismo liberale avrebbero potuto rivolgere alla politica monetaria fascista di fronte ad un aumento della circolazione, nella lettera cit. del 20 ottobre 1926. 52 Vedi h . m eyer , Bankers’ Diplomacy cit., p. 48. 83 Ibid. p. 49. 36 Giancarlo Falco, Marina Storaci ra, che si adoperò con successo per rinviare la stabilizzazione della lira, lascian­ do così aperta, seppur involontariamente, la via ad un’ulteriore rivalutazione94. L ’orientamento favorevole alla rivalutazione del capo del governo e le numero­ se esortazioni di esponenti del mondo politico e accademico a portare la lira ad una parità elevata (si sostenne addirittura la necessità di tornare alla parità prebellica), alimentarono un’importante speculazione al rialzo della Hra: molti capitali affluirono dall’estero, accentuando la rivalutazione nei primi mesi del 1927. L ’afflusso dei prestiti obbligazionari collocati all’estero da enti pubblici e imprese private (equivalenti a 3 miliardi di lire circa nel 1927, quasi intera­ mente concentrati nella prima metà dell’anno) rafforzava questa tendenza. Le autorità monetarie, in un primo tempo, non contrastarono la rivalutazione con vendite adeguate di lire sul mercato, limitandosi a frenarne l’apprezzamento senza bloccarlo. Nel maggio 1927 il valore medio mensile della lira risultava ormai superiore di oltre il 32 per cento a quello del settembre precedente, sen­ za che il governo o le autorità monetarie facessero dichiarazioni che mostrassero l’intenzione di prendere atto della crisi che colpiva l’economia italiana. In realtà fin dagli ultimi giorni di aprile Mussolini sembrava essersi convinto dell’opportu­ nità di bloccare temporaneamente la rivalutazione, orientandosi su una quota di 85-80 lire per sterlina, nella convinzione che solo tale « livello drammatico » avrebbe permesso allo stato di ridurre i salari e gli stipendi in modo generaliz­ zato, per « alleggerì ire] i costi di produzione delle imprese private e assicu­ riate] il Bilancio dello Stato per il prossimo esercizio»95. Contemporaneamen­ te meditava una misura coattiva per ridurre gli affitti e i salari. La rivalutazione della lira continuò ancora in maggio e giugno, portando il cambio al valore de­ siderato dal capo del governo. Ma in giugno le autorità monetarie modificarono la natura del loro intervento %, acquistando lire in gran quantità per riportare il cambio a « quota 90 », mentre Mussolini il 26 maggio e Volpi all’inizio di giugno assicuravano ufficialmente che su questa quota ci si sarebbe arrestati almeno fino all’autunno successivo97. Gli ambienti industriali ottenevano final­ mente soddisfazione, senza tuttavia che in pubblico trasparissero clamorose ma54 Su quest’episodio Vedi g. falco e m . storaci, Fluttuazioni monetarie cit. 55 Vedi lettera di Mussolini a Volpi del 26 aprile 1927, ACS, Carte Volpi, b. 6, fase. « Capo del Governo » cit. in r . de felic e , I lineamenti politici cit., p. 414-415. 96 Vedi p. b a ffi , La rivalutazione cit., pp. 108-109. Tra l’agosto e il dicembre 1926 la lira migliorò « senza alcun intervento del Tesoro in nessun senso, né in Italia né altrove » affermava Stringher nella sua relazione del 1926 sull’attività dell’INC. Vedi INC, Bilancio dell’esercizio 1926, Roma, 1927, p. 11. Nell’ottobre 1926 iniziarono i primi modesti acquisti da parte della Banca d ’Italia che proseguirono fino al maggio 1927. Complessivamente la Banca acquistò (al netto delle vendite) 3.422.500 sterline (parzialmente investite in buoni del Tesoro inglesi) e 5.815.000 dollari, per un controvalore in lire di circa mezzo miliardo. Queste operazioni, comprese nella tav. 1, erano effettuate per conto dell’INC a cui furono accreditati i rispettivi importi alla fine del primo semestre 1927 presso varie banche estere e presso le filiali londinesi della Banca commerciale italiana e del Credito italiano. Nel gen­ naio 1927, intanto, l ’INC fu riorganizzato e gli venne nuovamente attribuito il compito di intervenire sul mercato per regolare la quotazione della lira, cosa che fece a partire dal febbraio 1927 per conto del Tesoro che non interveniva più sul mercato dei cambi dal­ l ’agosto 1926 (vedi INC, Bilancio dell'esercizio 1927, Roma, 1928, p. 22). Nell’arco dei dodici mesi del 1927 le autorità monetarie acquistarono circa 78 milioni di dollari e 20 di sterline, equivalenti a circa 3,5 miliardi di lire, una somma ingente se si pensa che la cir­ colazione complessiva dei biglietti si aggirava attorno ai 19 miliardi. Gli interventi della Banca d ’Italia comportarono elevati costi medi di acquisto: 21,15 per il dollaro e 107,51 per la sterlina. L ’INC, intervenendo più tardi, potè operare a condizioni migliori; per questo il costo medio delle divise comprate complessivamente dai due istituti tra l’ottobre 1926 e il luglio 1927 risultò di 18,88 e 94,60 rispettivamente per dollaro e sterlina, costi che si ridussero ulteriormente nel periodo successivo. (Tavole statistiche. ASBI, Op. F. 297). ” Dopo pochi giorni Mussolini revocò anche il termine di ottobre, accettando che non Il ritorno all'oro In Belgio, Francia e Italia 37 nifestazioni di dissenso per la politica fino ad allora seguita, escluso il discorso di Ettore Conti in Senato il 21 maggio, in cui l’influente industriale milanese sostenne la necessità di bloccare la rivalutazione per non rovinare l’industria italiana9S. D ’altra parte la politica di rivalutazione ad oltranza imposta da Mus­ solini fino alla metà del 1927 si scontrava con difficoltà tecniche, data la rapi­ dità con cui avveniva; proprio tali difficoltà potevano offrire dei margini d’in­ tervento a quanti erano responsabili della gestione monetaria per bloccare l’ap­ prezzamento della lira. L ’afflusso di divise dovuto alla speculazione e all’inde­ bitamento estero di enti e imprese costringeva le autorità monetarie a conci­ liare obiettivi tra loro contrastanti, poiché tale afflusso, oltre a provocare l’au­ mento del cambio, causava un aumento della circolazione monetaria, in con­ trasto con le direttive che ispiravano l’azione della Banca d ’Italia. In realtà, accentuando la stretta deflazionistica nella seconda metà del 1927, l’istituto di emissione riuscì a impedire che la circolazione aumentasse mentre crescevano le disponibilità sull’estero sue e dell’INC. Fin dall’inizio del 1926, inoltre, le autorità monetarie avevano disposto alcune misure che permettevano ai due istituti di assorbire le divise giunte con i prestiti obbligazionari senza accrescere la liquidità interna e graduando il trasferimento del provento dei prestiti agli enti che si erano indebitati. Le società private che avevano emesso i prestiti all’estero avevano tutte in qualche misura debiti verso le banche ordinarie, a loro volta indebitate verso la banca centrale. Ciò permise all’INC di cancel­ lare debiti come contropartita delle divise raccolte all’estero anziché sborsare lire; i crediti della Banca d’Italia e i debiti delle imprese venivano compensati attraverso la mediazione dei grandi istituti di credito e dell’INC. Le compensa­ zioni riguardavano circa il 20 per cento dell’ammontare globale dei capitali af­ fluiti nel corso del 1927 e grazie ad esse fu possibile continuare la restrizione creditizia pur contribuendo ad alleggerire gli immobilizzi delle banche verso le industrie99. Un’altra quota importante del provento dei prestiti, circa il 36 per cento, confluì in un conto corrente vincolato presso l’INC. Si trattava di ca­ pitali di enti pubblici che accettarono di versare all’Istituto il controvalore in lire delle divise introitate, per cui fu possibile « conseguire uno scaglionamento nell’uso dei fondi relativi, poi che i prelievi degli enti a valere sui rispettivi conti sono stati opportunamente disciplinanti nel tempo e nella misura, secondo le necessità di pagamento degli enti stessi » I0°. Infatti l’INC provvide al paga­ mento del suo debito con lentezza: alla fine del 1928 i conti vincolati ammon­ tavano ancora a più di mezzo miliardo di lire. Con l’insieme di queste misure (compensazioni, conti vincolati, buoni) le auto­ si parlasse più di ulteriori rivalutazioni della lira. Vedi la lettera di Mussolini a Volpi, 27 giugno 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 1, ftgr. 1469 (copia). 53 Vedi Ettore conti, Dal taccuino dì un borghese, Milano, 1946, pp. 375-378 e, per gli strascichi polemici del discorso, le pp. 379-384. A ll’aprile 1927 risale la presa di posi­ zione contro la rivalutazione desiderata da Mussolini di Gino Olivetti, riportata in o. mosca , Nessuno volle i miei dollari d’oro, Roma, 1961, p. 225. 99 Vedi Banca d ’Italia, Adunanza cit., 1927, pp. 17-18. Un altro mezzo « per accrescere la possibilità dela compensazione di debiti verso la Banca d ’Italia » (INC, Bilancio cit., 1927, p. 39), mezzo predisposto in quanto « le operazioni connesse al ritiro dei mutui stipulati all’estero [erano] venute successivamente eccedendo i limiti del previsto» (ibid.) era co­ stituito dall’autorizzazione concessa all’Istituto di emettere buoni fruttiferi nominativi a favore di enti e imprese che versavano al Tesoro il ricavo netto dell’indebitamento all’estero. Tali buoni potevano essere versati in un conto corrente della Banca d’Italia utilizzabile solo per pagare i debiti verso la Banca stessa, oppure potevano essere accettati per estin­ guere crediti presso lo stato. Nel 1927 furono emessi circa 450 milioni di buoni, pari al 15% circa dell’incasso in lire relativo ai prestiti (cfr. tav. 3). 100 Vedi INC, Bilancio dell’esercizio 1927, Roma, 1928, p. 37. 38 Giancarlo Falco, Marina Storaci rità monetarie riuscirono a limitare l’esborso di lire relativo all’indebitamento con l’estero a poco più di 800 milioni di lire; il 29 per cento circa del controvalore in lire del totale delle divise incassate nel 1927 (vedi la tav. 3). D ’altra parte gli enti e le società che si erano indebitati potevano accettare una restri­ zione temporanea nell’uso del provento dei prestiti perché molto più importante per loro era poterli effettivamente emettere in un momento in cui lo consenti­ vano sia le condizioni del mercato finanziario internazionale, sia le scelte del governo italiano, due condizioni che non necessariamente sarebbero durate a lungo. Nonostante l’efficacia di queste misure (alcune delle quali erano state inizialmente applicate per garantire l’accumulo di divise presso gli organi pre­ posti alla gestione della politica monetaria e accrescere il loro margine di ma­ novra in caso di attacco speculativo al ribasso o di un peggioramento della bi­ lancia dei pagamenti), una delle prime conseguenze del nuovo orientamento pre­ valso nel governo nella tarda primavera del 1927, ostile ad un’ulteriore rivalu­ tazione, fu la sospensione delle emissioni obbligazionarie all’estero. Fin dall’inizio del 1927 Bonaldo Stringher aveva cercato di ostacolare l’indebitamento estero dell’Italia ritenendolo eccessivo. Nel marzo aveva indicato al ministro delle Finanze le preoccupazioni che suscitava in lui l’aumento dei prestiti esteri, essen­ do convinto di non lavorare « su un solido terreno »; egli temeva che i prestiti impedissero, nell’immediato, il contenimento della circolazione e provocassero in futuro il peggioramento della bilancia dei pagamenti attraverso il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi. Le posizioni del direttore generale della Banca d’Italia furono addirittura ribadite nella relazione agli azionisti del­ l’istituto alla fine di marzo e l’emissione del prestito del Consorzio di credito per le opere pubbliche e del governatorato di Roma in aprile gli fornirono una nuova occasione per insistere sulle ripercussioni negative dei prestiti: Per quanto sia previsto che i prelievi da parte degli enti mutuatari dell’equivalente in lire del ricavo dei mutui verranno opportunamente disciplinati, scaglionando l’utilizzazione dei fondi relativi, non si potrà evitare che siffatti prelevamenti non si traducano in un aggravio della circolazione; e più precisamente per quella parte che fornisce i mezzi liquidi al com­ mercio e all’industria. Ed è ovvio che, ove si intenda di non dipartirsi dalle attuali direttive in materia e di non accrescere, pertanto, la massa dei biglietti in circolazione per conto del commercio, le utilizzazioni del controvalore delle divise assorbite dallo stato, per mezzo del­ l ’Istituto, dovranno necessariamente tradursi in un’ulteriore restrizione delle ordinarie ope­ razioni per il commercio101. In quel momento la sola risposta alle pressioni di Stringher fu una circolare, di­ ramata all’estero, che precisava l’intenzione del governo di procedere per gradi nel dare disponibilità liquide agli enti che avevano contratto i prestiti102. Ma l’opinione di Stringher prevalse in giugno, quando il governo decise di riportare la lira a « quota 90 » e di mantenervela dopo il forte apprezzamento delle set­ timane precedenti. Dopo una dichiarazione ufficiale di temporanea sospensione dei prestiti esteri furono emanate nel luglio disposizioni limitative « per consi­ derazioni superiori di equilibrio monetario » I03. Nella seconda metà dell’anno fu emesso all’estero un solo prestito, quello dell’Istituto di credito fondiario 101 Vedi la lettera di Stringher a Volpi, 5 aprile 1927, ASBI, PV 17/8. 102 Le città di Roma e Milano, si spiegava, possono prelevare i fondi relativi ai prestiti « man mano che saranno da pagare i lavori preventivati, ciò che avverrà nel corso di più anni [...] Anche per i prossimi prestiti industriali (Meridionale di elettricità, Pirelli, ecc.) il Tesoro acquisterà e terrà per sé i dollari dando le lire man mano che le industrie do­ vranno pagare i lavori per nuovi impianti pei quali occorse ricorrere ai mutui esteri. Col sistema adottato, che è e sarà mantenuto in pieno, le operazioni estere gioveranno per aumentare le riserve di valute pregiate senza pesare sulla circolazione ». Vedi lo Schema di comunicazione per l’estero, Vincenzo Azzolini a Stringher, 13 aprile 1927, ASBI, PV 17/8, ■“ Vedi INC, Bilancio dell’esercizio 1928, Roma, 1929, p. 22, Il ritorno all’oro In Belgio, Francia e Italia 39 delle Venezie. Le emissioni ripresero in seguito, ma vennero rigidamente con­ tenute: le operazioni consentite fra il 1928 e il 1931 (anno in cui cessarono definitivamente) ammontano a poco più del 19 per cento del totale di quelle compiute dal 1925 al 1931 104. L ’emissione dei prestiti all’estero prima, le vendite di lire in seguito, resero possibile l’accumulo di una notevole quantità di valute auree, per i 2 /3 dol­ lari, che furono cedute dall’INC alla Banca d ’Italia in seguito alla legge di riforma monetaria del 21 dicembre 1927 105. All’inizio del 1928 le divise accre­ ditate dall’Istituto alla Banca ammontavano a 22,5 milioni di sterline e a 106,5 milioni di dollari, oltre ad alcune partite minori di franchi svizzeri e fiorini olandesi, pari complessivamente a 5 miliardi di lire 106. Ciò permise alla Banca d ’Italia di denunciare, al momento della stabilizzazione legale, una copertura aurea dei biglietti in circolazione e degli altri impegni a vista pari al 55 per cen­ to, ben superiore quindi al 40 per cento che la legge monetaria del 21 dicembre imponeva. Le vicende della stabilizzazione e rivalutazione della lira sembrano dunque concludersi con un successo per il governo e le autorità monetarie ita­ liane, a cui un’imponente massa di riserve garantiva di poter mantenere la pa­ rità di cambio ufficiale contro un peggioramento della bilancia dei pagamenti conseguente alla rivalutazione o contro attacchi speculativi al ribasso favoriti dalla debole posizione economica dell’Italia nei confronti del resto del mondo. In realtà pochi mesi furono sufficienti a trasformare la crescita delle riserve va­ lutarie della banca centrale in una persistente diminuzione, parallela al peggio­ ramento dei conti con l ’estero dell’Italia. Sulla bilancia dei pagamenti gravavano le quote di ammortamento degli interessi dei debiti di guerra e dei prestiti contratti all’estero; per di più la ripresa economica verificatasi dopo la fine del 1927 fu dovuta in gran parte all’aumento della domanda interna, mentre le esportazioni italiane si contraevano: il deficit commerciale aumentò, mentre la nuova parità di cambio influiva negativamente anche sulle due più importanti 104 Numerose imprese continuarono a esercitare pressioni sul governo per poter lanciare altri prestiti e la prospettiva che essi riprendessero fu sufficiente, secondo Stringher, a inasprire i cambi. In agosto, quando la lira fu mantenuta a 89,25 rispetto alla sterlina grazie all’intervento delTINC, il direttore generale della Banca d ’Italia scrisse a Volpi: « È con tutta schiettezza che reputo opportuno di confessare il dubbio in me sorto che questo ina­ sprirsi del movimento ascendente della nostra valuta sia la conseguenza delle voci, pur­ troppo qua e là trapelate, di una non lontana ripresa di emissioni di nuovi prestiti italiani nel mercato di New York, e forse, più particolarmente delle trattative che la “T em i” starebbe già energicamente svolgendo. Dove si vuole effettivamente andare, e dove an­ dremo? Parlo sempre nell’ipotesi che si voglia tener ferma la quota 90! » (lettera di Stringher a Volpi, 28 giugno 1927, A SBI, Op.F. 297). La Terni emise il prestito a New York il 1° febbraio 1928. Per le ragioni che indussero ad emetterlo vedi franco bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino, 1975, pp. 191-192. Le emissioni di obbligazioni all’estero ripresero negli anni successivi, seppure in misura molto più limitata, fino ad esaurirsi nel 1931. Nel corso del periodo 1928-1931 furono emesse obbligazioni per 1,5 miliardi circa. Di questo miliardo e mezzo circa 1/3 era costituito dal consolidamento di prestiti a breve emessi in precedenza. Vedi Ministero per la Costituente, Rapporto cit., p. 98. 105 Con le valute raccolte il Tesoro provvide anche a liquidare gran parte dei debiti in divise estere contratti durante il tentativo di stabilizzare la lira a quota 120. La partita più ingente era costituita dalle « prestazioni reciproche », che nel gennaio 1927 ammontavano a 63,5 milioni di dollari a debito del Tesoro, di fronte a un credito di 1,6 miliardi di lire, prevalentemente liquidati tra febbraio e dicembre. Vedi INC, Bilancio cit. 1927, p. 33. 104 Queste disponibilità (che escludono il ricavato dal prestito Morgan già iscritto da oltre un anno nelle riserve della banca centrale) furono investite in conti correnti a Londra e New York e in piccola parte in buoni del Tesoro inglesi e americani. I conti in sterline rendevano quasi il 496, quelli in dollari poco più del 3% . Vedi Tavole dattiloscritte, febbraio-aprile 1928, ASBI, Op.F. 313. L ’interesse medio netto a cui erano stati contratti i prestiti italiani all’estero era invece del 796. 40 Giancarlo Falco, Marina Storaci partite compensative della bilancia dei pagamenti: gli introiti derivanti dalle rimesse degli emigrati e dal turismo 107. Gli effetti della politica monetaria del 1926-27 sulla collocazione internazionale dell’Italia appaiono ancora più gravi se si considerano le caratteristiche di fondo assunte dai conti con l’estero del paese immediatamente dopo la guerra. Il saldo attivo dei noli marittimi dell’Ita­ lia rimaneva stazionario, né si poteva prevedere un suo aumento a breve termine. Dato il volume e la ripartizione geografica del commercio mondiale, il tonnel­ laggio lasciato dall’intensa attività cantieristica degli anni di guerra e del dopo­ guerra nei principali paesi risultava sovrabbondante ancora alla fine degli anni venti e provocava il ristagno dei noli. Negativi erano anche i mutamenti avve­ nuti nel movimento degli emigranti, cioè nella fonte delle rimesse. Non solo l’emigrazione italiana si ridusse nel corso degli anni venti a causa dei provvedi­ menti restrittivi di alcuni paesi verso cui si orientava, ma essa dovette dirigersi verso paesi meno ricchi; contemporaneamente aumentò l ’emigrazione permanen­ te (la meno generosa di rimesse), mentre gli emigrati nell’Europa occidentale erano soggetti all’influenza di una congiuntura economica instabile 108. L ’evoluzione del contesto internazionale in cui era inserita l’Italia sommava quindi i suoi effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti con quelli derivanti da una sopravvalutazione della lira. La parità di cambio definita il 21 dicembre 1927 (92,46 lire per sterlina, 19 lire per dollaro) riduceva la competitività delle prin­ cipali industrie esportatrici, in primo luogo di quella cotoniera in cui lavorava allora la quota maggiore degli occupati nell’industria. Le conseguenze della quota scelta, tuttavia, non furono disastrose per l’equilibrio economico delle industrie nel loro complesso perché il governo fascista, una volta accettato di bloccare la rivalutazione e di difendere « quota 90 », mise in atto una serie di provvedi­ menti destinati ad attenuare le implicazioni negative della deflazione e della ri­ valutazione o a compensarne gli effetti. Si ebbero così nell’agosto alcuni sgravi fiscali sulle imposte dirette 109 intesi a ridurre di un miliardo circa il prelievo e alla fine di giugno un decreto assoggettava al semplice prelievo di un irri­ sorio diritto fisso le fusioni di società, sopprimendo temporaneamente l ’im­ posta proporzionale fino ad allora applicata. Nell’ottobre il governo lanciava un piano di lavori pubblici per 15 miliardi che avrebbe dovuto far fronte sia al­ l’aumento della disoccupazione, sia al ristagno produttivo di alcuni settori, men­ tre le spese militari dello stato consentivano ad altri settori di non interrom­ pere la loro attività no. La compensazione fondamentale, tuttavia, venne cercata nella diminuzione di salari e stipendi. Nel gennaio 1927 cominciò l’attacco alle indennità di carovita e ai premi di anzianità in singoli settori dell’industria; in maggio fu decisa la riduzione del 10 per cento delle paghe in alcuni settori, cominciando dai braccianti del Bresciano, mentre nell’ottobre successivo le de107 Dati sulla bilancia dei pagamenti italiana 1925-1929: Turismo Deficit commerciale Rimesse (2) (2) (1) 1925 8030 3,2 69,4 3,5-3,7 1926 3,0-3,2 2,7 7335 71,7 1927 4856 76,2 2,0-2,1 2,2 1928 7476 2,0-2,1 2,2 65,9 1929 6536 2,1-2,2 69,3 2,1 Fonti: (1) ISTA T, Sommario cit., p. 97; nella seconda colonna la copertura delle esporta­ zioni in percentuale delle importazioni; (2) g. borgatta, Rimesse degli emigranti e turismo, in « Rassegna economica del Banco di Napoli », 1933, pp. 10-11,24. 108 Cfr. G. borgatta, Rimesse cit., pp. 13 sgg. ,09 Cfr. P. melograni, Gli industriali e Mussolini cit., pp. 223-224. 110 Un rapporto dell’ambasciatore inglese a Roma, Graham, al Foreign Office del 12 gen­ naio 1927, per esempio, sottolinea che le fabbriche della FIA T, escluse le produzioni di Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 41 curtazioni delle paghe (in misura variabile tra il 10 e il 20 per cento) venivano estese a tutti i settori m. In realtà tali diminuzioni, calcolate sul livello con­ trattuale delle retribuzioni, furono largamente inferiori alle diminuzioni effet­ tive, causate dalla pratica (sempre più diffusa nel corso del 1927) di tenere gli stabilimenti in attività solo alcuni giorni alle settimana, in generale 3 o 4, per cui le paghe realmente percepite risultavano ridotte alla metà circa dei livel­ li precedenti la politica di rivalutazione. Alla contemporanea campagna per ra­ zionalizzare l’organizzazione del lavoro spettò il compito di non far ripercuo­ tere in misura proporzionale la riduzione degli orari di lavoro sulla produttività. La politica monetaria di rivalutazione, più che rivelare una frattura fra governo fascista e capitalismo italiano, rappresentò l ’occasione per rinsaldare la strut­ tura oligopolistica dell’economia italiana. La congiuntura economica che essa determinò colpì in misura minore, o addirittura favorì, le industrie di gran­ di dimensioni. Solo esse ebbero la possibilità di reagire rapidamente alla crisi avviando un vasto processo di consolidamento e di espansione delle loro strut­ ture monopolistiche, assorbendo imprese minori in difficoltà e stringendo accor­ di con imprese concorrenti per spartire produzioni e mercati e regolare i prezzi di vendita con il favore del governo m, all’insegna di una campagna che esal­ tava la selezione così operata ai danni delle imprese che si pretendevano ineffi­ cienti, fino ad allora mantenute artificiosamente in vita dall’inflazione e dalla politica di « danaro facile » dei primi anni venti113. Nessuno dei numerosissimi fallimenti o chiusure di fabbriche verificatisi nel corso del 1927 coinvolse im­ prese importanti. Queste, d’altra parte, ebbero la possibilità di sottrarsi almeno in parte alla stretta creditizia: oltre i loro tradizionali legami con le maggiori banche (grazie ai quali potevano ottenere credito anche nei momenti difficili), solo ad esse fu aperto il mercato finanziario estero per emettere obbligazioni o per ottenere la quotazione delle loro azioni nelle principali borse estere. Un si­ mile processo comportò la modifica degli equilibri interni ai gruppi capitalistici italiani. Oltre ad accentuare l’importanza delle grandi imprese e ad attribuire ad esse un maggiore peso nei rapporti con il potere politico a scapito delle piccole e m edie114, la politica monetaria del 1926-27 provocò il ridimensionamento dell’industria tessile (soprattutto cotoniera), rendendone più difficile l’esporta­ zione e provocando la caduta dei consumi interni in seguito alla diminuzione dei redditi di vasti strati della popolazione, senza sostituire ad essi una domanda compensativa di origine statale come avvenne per altri settori (per esempio quello automobilistico). La politica di rivalutazione pose le premesse per il ridi­ mensionamento delle banche di credito ordinario come centri di potere econo­ mico autonomo. Le perdite causate dalla crisi delle borse nel ’25 e dalla stagna­ zione dell’attività borsistica diminuirono la liquidità; nello stesso senso agì la politica deflazionistica applicata dalla Banca d ’Italia dal settembre 1926 in poi, auto, continuavano a lavorare per importanti commesse statali, specialmente di autocarri. V. Foreign Office, General Correspondence, F.O. 371, 12195, doc. n. C 475/80/22, Public Record Office, Londra. 111 Vedi p. melograni, Gli industriali e Mussolini cit., pp. 225-226; A. lyttleton , La con­ quista del potere cit., pp. 555-556. 112 Vedi Pietro grifone, Il capitale finanziario in Italia, Torino, 19712, pp. 67 sgg. 113 Vedi le dichiarazioni di Benni su « I l Popolo d ’Italia», 20 marzo 1927; il discorso di Belluzzo alla Camera il 12 marzo 1927 (definito da Angelo Tasca in « Stato Operaio » 2 aprile 1927, p. 208, « una specie di programma di razionalizzazione ») a cui si riallaccia Stringher nella sua relazione agli azionisti della Banca d ’Italia del 31 marzo successivo, pp. 33-34; quello di Bianchini, presidente dell’Associazione bancaria italiana, riportato in « Rivista Bancaria », 1927, p. 385. 114 Vedi R. sarti , Fascism and thè Industriai Leadership cit., pp. 80 sgg. 42 Giancarlo Falco, Marina Storaci mentre lo sviluppo di enti di credito parastatali quali il CREDIOP, l’ICIPU, l ’Istituto di Credito Navale 115 che miravano a rastrellare le disponibilità liquide del pubblico con l’emissione di obbligazioni, l’accentuazione del ruolo pubblico dei due banchi meridionali, trasformati in collettori del risparmio per conto del­ lo stato, toglievano spazio all’azione dei tre maggiori istituti di credito privati e sembrano porre le premesse della loro pubblicizzazione nel 1933 116. È difficile tuttavia rintracciare nella politica monetaria di quegli anni un dise­ gno inequivocabile e coerente che miri a una ristrutturazione dell’economia italiana nel senso, per esempio, di favorire la conversione da un tipo di svi­ luppo largamente sostenuto dalle esportazioni (come sarebbe quello operante tra la fine della guerra e il 1925), ad uno in cui la domanda interna sostenuta dalla spesa pubblica risulti prevalente 117*. Le misure prese in campo monetario, doganale e produttivo a partire dal 1925 sembrano ubbidire non alla lungimi­ rante previsione degli sviluppi dell’economia mondiale negli anni della grande crisi, preparando una sorta di soluzione autarchica, ma piuttosto alla necessità di trovare di volta in volta soluzioni che permettessero di bloccare gli effetti negativi dell’inflazione e quelli del deficit della bilancia dei pagamenti, di ov­ viare a insufficienze del sistema monetario e finanziario con interventi di razio­ nalizzazione e di utile differenziazione dei compiti istituzionali, di attenuare in­ fine, dopo l’agosto 1926, le conseguenze della deflazione e della rivalutazione. Le giustificazioni ufficiali della politica di rivalutazione applicata dall’estate del 1926 sottolineano la volontà di avvantaggiare « gli interessi delle classi a red­ diti fissi o più lenti, risparmiatrici e consumatrici, già impoverite ed indebolite dalle svalutazioni verificatesi tra il 1914 e il 1922 » us, un obiettivo coerente con lo sforzo di stabilizzazione sociale che il fascismo aveva dovuto affrontare dopo la crisi del delitto Matteotti e la rapida inflazione del 1925-26 per non perdere il sostegno delle classi medie nella fase cruciale della riorganizzazione in senso totalitario dello stato. Verso la rivalutazione della lira spingevano an­ che le esigenze di prestigio nazionale (apertamente e frequentemente ammesse dal capo del governo), in base all’identità stabilita così spesso negli anni venti fra alto tasso di cambio e prestigio internazionale. Decisiva appare sotto que­ sto aspetto la tensione con la Francia determinatasi a partire dal 1924. Le divergenze sull’assetto dell’Europa e del Mediterraneo scaturito dal trattato di pace erano sfociate in politiche estere contrastanti, motivate dall’antagonismo economico dei due paesi nei Balcani, nel Levante e nell’Africa settentrionale 1I9, mentre gli attriti fra i due paesi erano aggravati dall’evoluzione in senso demo­ cratico radicale della Francia all’epoca dei governi del Cartel des Gauches. In questo contesto non stupisce il confronto tra il livello della lira e quello del franco, ripetutamente evocato da Mussolini. Il paragone fra le due monete non 115 Cfr. p. grifone, II capitale finanziario cit., pp. 72-73. 116 Ibid., pp. 64-65. Sul ridimensionamento del potere delle banche vedi anche A. lyttleton , La conquista del potere cit., pp. 582-584. 117 Era diffusa la convinzione che l’Italia fosse un paese importatore piuttosto che espor­ tatore e questo argomento venne spesso richiamato per giustificare la rivalutazione della lira, anche da Volpi; ma è una constatazione che può tutt’al più indurre a dolersi meno per una politica monetaria indiscutibilmente infelice anziché il punto di partenza per elaborare una politica economica alternativa. Cfr. G. borgatta, La politica monetaria del sistema corporativo cit., p. 252; un’utile rassegna delle posizioni di economisti e politici in p . ba ffi , La rivalutazione del 1927, cit. p. 115-120. Fondamentale per questa interpretazione il dibattito Sraffa-Tasca su « Stato O peraio» del nov.-dic. 1927, pp. 1089-1095; l’analisi di Piero Sraffa su tempi e modi in cui si giunge alla rivalutazione sembra confermata dalla ricerca qui proposta. Vedi Giampiero carocci, La politica estera dell’Italia fascista (1925-1928), Bari, 1969, pp. 102-sgg. Il ritorno all’oro in Belgio, Francia e Italia 43 conduceva necessariamente a « quota 90 », ma certo ad una rivalutazione della lira rispetto al franco, a dispetto degli svantaggi che ne sarebbero derivati alle esportazioni italiane. D ’altronde il margine di manovra di cui disponevano le autorità italiane nel fissare la parità di cambio era certamente maggiore di quel­ lo esistente in altri paesi grazie alla possibilità di far ricadere sui lavoratori le conseguenze più gravi della rivalutazione, mentre la caratterizzazione dell’Italia nel contesto internazionale era di un paese importatore piuttosto che esportatore. Proprio questi due fattori permisero, in definitiva, al governo fascista di far ac­ cettare agli ambienti industriali la rivalutazione della lira in alternativa alla semplice stabilizzazione sui livelli medi del 1925 e dei primi mesi del 1926 che essi sembravano preferire. Il livello della quota definitiva risultò comunque da un compromesso tra le tendenze rivalutazioniste del capo del governo e di certi settori dell’opinione pubblica più vicina al fascismo e le preoccupazioni degli ambienti industriali e finanziari. L ’analogia tra la parità con la sterlina del di­ cembre 1927 e quella dei mesi in cui il fascismo giunse al potere nel 1922 po­ teva offrire una facile giustificazione propagandistica al governo per non dover ammettere di aver dovuto modificare i propri obiettivi di fronte alle richieste degli industriali, mentre le falle che alla metà del 1927 cominciavano ad appa­ rire nel bilancio statale per il restringersi delle entrate provocato dalla crisi economica e l’appesantirsi della spesa per il servizio del debito pubblico offri­ rono probabilmente ai responsabili della politica monetaria (molto cauti nelle loro dichiarazioni, seppur non entusiasti di una politica di rivalutazione ad ol­ tranza) di intervenire efficacemente per modificare la volontà del capo del governo. In novembre, quando le autorità monetarie italiane iniziarono a trattare con la Federai Reserve Bank di New York e, poi, con la Banca d ’Inghilterra per otte­ nere un credito alla Banca d ’Italia in vista della stabilizzazione definitiva 12°, i responsabili americani e inglesi cercarono di ottenere un livello di rivalutazione meno alto (100 l i r e = l sterlina) 12021, ma pur trovando consensi nella delegazione italiana, dovettero accettare una quota ritenuta alta (quindi suscettibile di non poter essere mantenuta, con effetti negativi sulla stabilità del sistema monetario internazionale). L ’atteggiamento del governo italiano non dava spazi per mutare una quota che risultava da equilibri complessi. Si deve considerare che il successo della nostra rivalutazione è stato ottenuto dalla decisa volontà del Primo Ministro di ottenere una disciplina di tutto il paese a quota 90 per Ls — scriveva^ il 14 dicembre 1927 Volpi a Stringher che trattava con Strong e Montagu Norman la parità di cambio — ciò che costituisce un impegno di carattere politico molto pericoloso da rivedere... La nostra formula fondamentale è che la lira abbia ri massimo potere di ac­ quisto visto che siamo e saremo ancora per una generazione un paese importatore soprattutto di materie indispensabili alla vita. È quindi preferibile far fare dei sacrifici all’industria esportatrice che in Italia è in limiti ancora non grandi e che del resto sta adeguandosi nella sua maggioranza a quota 90 — invece di aumentare i prezzi del pane. Faccio assegnamento sulla cordialità dei due Governatori per finire subito perché ogni giorno di ritardo costitui­ sce un pericolo 122. G iancarlo F alco - M arina S toraci 120 Sui contatti con americani e inglesi prima della stabilizzazione ufficiale della lira vedi R. h . m eyer , Bankers’ Diplomacy cit., pp. 50-53 ed É. moreau , Souvenirs cit., pp. 435, 436, 438, 440, 455. Delle pressioni che inglesi e americani fecero per stabilizzare a quota 100 durante le trattative per la stabilizzazione ufficiale era forse informato Egisto Ginella, articolista di « Il Sole », che il 10 novembre 1927 chiese appunto di stabilizzare a 100 lire per sterlina per tener conto del livello interno dei prezzi rispetto a quello internazionale. Cfr. r. de felic e , Mussolini il fascista, II cit., pp. 257-258. 121 Vedi il telegramma che Nathan inviò per conto di Stringher da Londra ad Azzolini per Volpi, s.g., dicembre 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 24, ftgr. 1511-1512. 122 Vedi il telegramma di Azzolini per conto di Volpi a Nathan per Stringher, Roma 14 dicembre 1927, ASBI, Archivio Beneduce, bob. 24, ftgr. 1513. 44 Giancarlo Falco, Marina Storaci TAV. 1 - INC e Banca d’Italia. Operazioni inerenti alia difesa delia valuta: 1927 sterline Gennaio* Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre 640.275 508.000 165.000 463.346 279.747 6.863.807 5.018.084 3.294.557 3.068.339 4.325.533 149.136 2.996.373 Controvalore in sterline dollari Lire 268.319.980 640.275 7.305.225 275.064.418 600.335 7.823.225 277.090.211 7.683.225 665.335 436.530.342 1.128.681 13.499.959 468.199.150 14.914.126 1.204.529 1.597.465.457 7.970.421 40.121.399 2.193.627.610 49.119.936 12.833.661 2.442.803.171 58.461.246 13.711.973 2.821.613.106 16.534.056 65.375.514 3.334.261.934 20.668.892 73.276.858 3.209.937.652 19.343.920 72.970.534 20.913.021*** 78.013.390*** 3.453.728.486 Vendite Acquisti dollari sterline 7.305.225 1.068.000 1.250.000 5.816.733 1.414.167 26.150.612 9.032.372 10.168.593 7.573.007 8.042.522 295.086 9.849.066 Rimanenze dollari _ _ 547.940 100.000 550.000 1.390.000 — 203.899 97.916 154.843 2.416.245 246.257 190.697 1.474.109 1.427.272 — — 943.340 33.835 827.282 658.739 141.178 601.409 4.806.211 6.859.178** 9.951.994** 27.772.197 87.965.383 I dati relativi a gennaio si riferiscono all’attività dell’INC nel 1926 e all’intervento della Banca d’Italia. Da febbraio i dati riguardano solo l ’INC. * * Scorte realizzate. * * * Rimanenze delle divise assorbite. Fonte: INC., Bilancio 1927, cit., p. 27. * TAV. 2 - Divise estere cedute all’Istituto dei Cambi, per conto del Tesoro, durante il 1927, da Enti e Società che hanno stipulato prestiti all’estero. Mese Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre $ £ 16.283.846,15 7.318.850,25 39.988.845,51 40.412.434,27 13.105.194,37 800.000,— 900.000,— 1.376.281,23 2.280.002,— 2.745.534,86 4.524,722,22 130.000 140.000 1.638.066 75.000 200.000 129.735.708,— 2.183.066 Controvalore in lire al cambio corrente Fr. svizzeri . 380.837.350 202.418.709 1.064.175.224 774.058.022 264.611.889 15.632.866 16.452.000 28.739.313 48.776.380 50.399.568 83.361.672 5.000.000 500.000 2.000.000 400.000 — — 1 . 000.000 2.000.000 — — 10.900.000 2.929.462.993 Fonte: INC, Bilancio 1927, cit., p. 35. TAV. 3 - Divise introitate per mutui di enti e imprese e pagamenti relativi dell’INC. - 1927. 1927 Controvalore delle divise ritirate con in buoni Febbraio Marzo Aprile Maggio Giugno Luglio Agosto Settembre Ottobre Novembre Dicembre i 380.837.350,00 202.418.709,85 1.064.175.224,87 774.058.022,35 254.611.889,30 15.632.866,65 16.452.000,00 28.739.313,15 48.776.380,00 50.399.568,05 83.361.672,30 2.919.462.996,52 Fonte: INC., Bilancio 1927, cit., p. 40. c/c vincolati (consistenze mensili) Pagamenti effettuati 2 189.337.350,00 125.378.456,00 80.354.572,65 132.948.246,80 100.747.940,35 41.980.366,65 20.158.693,47 27.489.542,61 26.562.055,97 60.327.507,75 10.356.672,30 814.641.404,55 3 ___ — — 17.600.000,00 103.200.000,00 57.300.000,00 53.800.000,00 45.700.000,00 53.600.000,00 — 119.100.000,00 450.300.000,00 4 191.500.000,00 78.040.253,85 — 187.259.052,30 108.568.725,40 — 12.000.000,00 — 21.594.000,00 — — 598.962.031,55 5 — — 983.820.652,22 3.420.071.375,47 1.381.846.555,60 1.297.939.055,60 1.228.332.362,13 1.444.000.667,42 1.091.305.375,95 1.080.917.916,25 1.062.186.696,50