L’Italia dall’unità a Bava Beccaris 11.1 1861-1876: i governi 54% della Destra Veneto 54% Un paese da costruire 54% 78% 74% 83% 84% Stato della Chiesa 68% 86% 86% 86% 86% 90% 86% 89% L’analfabetismo in Italia nel 1861 Il 1861 fu l’anno di nascita del regno d’Italia: la penisola tornava uno Stato unitario e autonomo dopo molti secoli e il Risorgimento sembrava aver raggiunto i suoi obiettivi. Alla guida del nuovo Stato c’erano i Savoia, fino ad allora sovrani del regno di Sardegna, che applicarono a tutto il paese lo Statuto Albertino, e organizzarono la macchina statale secondo un modello fortemente centralistico. Ogni proposta volta a concedere autonomie alle regioni o addirittura a concepire una formazione statale federata fu accantonata: Torino controllò attraverso la propria burocrazia e i propri funzionari tutti i territori periferici. In generale, l’Italia era uno Stato fondamentalmente arretrato che doveva affrontare gravissimi problemi: • molti italiani, che fino ad allora avevano avuto propri sovrani, tradizioni, leggi e consuetudini, si sentivano quasi sottomessi alla dominazione di una potenza straniera. Questo sentimento era particolarmente diffuso nel Meridione, dove la capitale Torino era vissuta come immensamente lontana e la «piemontesizzazione» del paese era mal tollerata; • la maggior parte dei cittadini non parlava l’italiano, poiché nelle diverse regioni d’Italia si usavano i dialetti locali. Inoltre il numero di coloro che sapevano leggere e scrivere era molto ridotto: gli analfabeti erano il 78% della popolazione, con punte di analfabetismo oltre l’85% nelle regioni meridionali; Gruppo di ragazzi appoggiati alle mura del Duomo di Milano, 1890 circa. • la partecipazione politica dei cittadini era molto ridotta. Il diritto di voto era garantito solo ai maschi che avevano compiuto 25 anni, sapevano leggere e scrivere e avevano il reddito necessario per pagare almeno 40 lire di tasse all’anno. Popolani di Napoli, 1883. Quindi, nel 1861 gli elettori furono poco più di 400.000, corrispondenti ad appena il 2% della popolazione del nuovo Regno d’Italia, che contava circa 22 milioni di abitanti; • Napoli, con circa 450.000 abitanti, era la città più grande. Torino, Palermo, Milano e Roma avevano intorno ai 200.000 abitanti e molti altri centri urbani erano piuttosto popolosi, ma in nessuna di queste città si trovavano attività produttive davvero rilevanti. L’80% della popolazione viveva nelle campagne e le scarse condizioni igienico-sanitarie determinavano una vasta diffusione di malattie infettive come il tifo e il colera, malattie da malnutrizione come la pellagra, e la malaria, che colpiva gli abitanti delle zone paludose; D15 • le fortissime differenze economiche e sociali tra Nord e Sud del paese ebbero ricadute d’ordine pubblico drammatiche, esplodendo nel fenomeno del brigantaggio. Ma nel 1861 pochi italiani (e quasi nessun uomo di governo) erano davvero consapevoli delle condizioni di arretratezza del meridione: scarsissima se non inesistente era infatti la conoscenza reciproca tra popolazioni regionali; • l’unificazione del paese, da ultimo, era stata realizzata per volontà e iniziativa di una parte molto limitata della sua popolazione: la borghesia più aperta e desiderosa di progresso. Le classi più povere e numerose erano rimaste escluse da tale processo, non se ne erano sentite partecipi e non si identificavano adesso nelle nuove istituzioni e nella nuova patria. Contadini toscani durante la semina. Non si deve dimenticare poi che l’unificazione dell’Italia era incompleta: mancavano il Veneto, il Trentino e la Venezia Giulia, ancora sotto controllo dell’Austria, e il Lazio, ancora governato dai papi. Sia sul piano interno sia sul piano esterno ai nuovi governi del regno spettava quindi un lavoro imponente e dagli esiti incerti. L’arretratezza dell’economia L’Italia del 1861 era dunque un paese economicamente arretrato. Ovunque l’economia era ancora basata principalmente sull’agricoltura, che impegnava il 70% della popolazione attiva e produceva circa il 60% della ricchezza nazionale. Ma questo settore era più progredito nelle regioni centro-settentrionali: qui, infatti, non mancavano aziende agricole moderne, che abbinavano coltivazioni e allevamento con criteri intensivi. I grandi proprietari sfruttavano meglio i loro fondi, investendo capitali in nuove colture o tecniche produttive, e si servivano del lavoro di salariati. Le piccole aziende a conduzione familiare erano in mano ai tanti contadini proprietari delle terre che coltivavano, ed era molto diffusa, soprattutto nelle regioni del Centro, la mezzadria. Al Sud, invece, i possedimenti dei grandi latifondisti erano talmente grandi che anche una scarsa resa dei terreni o dell’allevamento consentiva loro una vita lussuosa. In nessun modo erano quindi propensi all’investimento. Le coltivazioni estensive dei cereali coprivano l’orizzonte a perdita d’occhio e i contadini si trovavano in condizioni di miseria. Denutriti e quindi spesso © Loescher Editore – Torino 268 1860 Dossier 15 p. 356 © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 269 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo malati, costretti ad accalcarsi in abitazioni malsane, apparivano legati ai padroni da rapporti sociali oppressivi e di stampo ancora feudale. Nel complesso l’agricoltura italiana soffriva di rese bassissime, che richiedevano peraltro l’applicazione di numerosa manodopera, e non soddisfaceva il fabbisogno del paese. L’Italia rimaneva dunque un importatore di beni alimentari, a partire dal grano. Tanto meno le campagne svolgevano il ruolo di accumulatrici dei capitali necessari agli investimenti industriali. L’industria contava sul 18% del totale degli occupati ed era gravemente in ritardo rispetto a quella degli Stati europei più evoluti. Mancavano l’alta borghesia imprenditoriale, le banche capaci di fornire investimenti adeguati e le società assicurative in grado di coprire i rischi d’impresa, le materie prime fondamentali come il carbone e il ferro, le infrastrutture necessarie ai traffici industriali. Degli appena 2700 chilometri di ferrovia, la gran parte si trovava in Piemonte e Lombardia e meno di un decimo attraversava l’ex Regno delle Due Sicilie. Mancavano strade, ponti e porti commerciali. D12 Il terziario contava appena sul 12% dei lavoratori italiani e assieme all’industria, contribuiva per appena il 20% alla ricchezza complessiva del paese. Destra e Sinistra «storiche» Dossier 12 p. 350 Cavour morì il 6 giugno 1861 ma i suoi successori non si discostarono dalla sua linea politica: rispetto e applicazione dello Statuto Albertino, liberalismo in Parlamento e liberismo in economia, laicità e separazione tra Stato e Chiesa. I deputati che sedevano in Parlamento nei primi decenni dopo l’unità erano divisi, salvo poche eccezioni, in due grandi gruppi: la Destra e la Sinistra, dette «storiche» per distinguerle dai successivi partiti di destra e di sinistra, che avranno caratteristiche diverse. La Destra rappresentava gli interessi della nobiltà terriera e della borghesia più ricca, e aveva come obiettivo principale quello di costruire un’Italia forte e saldamente guidata dalla monarchia sabauda. Conduceva una politica moderata e i suoi uomini di punta erano i piemontesi Alfonso La Marmora e Quintino Sella, l’emiliano Marco Minghetti, Marco Minghetti. il lombardo Stefano Jacini e il toscano Bettino Ricasoli. Non appartenevano a questo schieramento i clericali e i conservatori più tradizionalisti, rimasti fuori dal Parlamento. La Sinistra era sostenuta invece dalla media borghesia e si distingueva dalla Destra perché era più attenta alle esigenze delle classi più povere, le quali, escluse dal diritto di voto e prive di una propria rappresentanza alle Camere, guardavano inevitabilmente, per la protezione dei propri interessi, alla Sinistra. Gli uomini di spicco di questo schieramento erano i lombardi Agostino Depretis e Benedetto Cairoli, e il siciliano Francesco Crispi. La Sinistra aspirava a una politica progressista e mirava a introdurre alcune riforme che avevano già fatto parte del programma dei democratici risorgimentali: l’allargamento del diritto di voto, la diffusione dell’istruzione, la modernizzazione dell’Italia attraverso l’industrializzazione, la maggiore autonomia delle regioni e delle città dal potere centrale. Le fila della Sinistra non comprendevano i mazziniani e garibaldini più intransigenti che, in quanto repubblicani, non volevano sedere nel Parlamento monarchico. Negli anni subito successivi all’unità il governo fu affidato a uomini della Destra, che erano la maggioranza nella Camera dei Deputati, ma non bisogna dimenticare che, nel complesso, tanto gli esponenti della Destra quanto quelli della Sinistra rappresentavano una base sociale assai limitata. Nella prima Camera dei Deputati sedevano infatti nobili, avvocati, medici, ingegneri, banchieri, ufficiali dell’esercito, docenti, scrittori, commercianti e industriali. Era naturale quindi che il primo Parlamento dell’Italia unita prestasse poca attenzione ai problemi e alle esigenze delle classi più povere della nazione. Il diritto di voto era inoltre tanto ristretto che l’intero gioco politico si imperniava sul notabilato locale, sulle sue conoscenze e sulla sua capacità di influenzare, spesso in cambio della promessa di favori e vantaggi materiali, l’opinione dei votanti. Non vincevano dunque partiti e programmi, ma personalità. Lo stesso potere centrale, attraverso l’azione dei prefetti e della polizia, era in grado di orientare il voto sui candidati più graditi, semplicemente ostacolando o addirittura vietando l’attività degli uomini politici meno vicini al governo. Il brigantaggio Il primo obiettivo che si assunsero i governi della Destra fu quello di imporre su tutto il territorio nazionale le stesse leggi e l’autorità dello Stato. Doveva in ogni modo essere salvaguardata l’unità appena raggiunta e – come accennato – non sembrava esserci spazio per la concessione di autonomie alle comunità locali. L’estensione a tutto il regno degli ordinamenti piemontesi comportò dunque che a capo dei comuni si ponessero i sindaci e a capo delle province i prefetti, rispettivamente di nomina regia e governativa. A questi funzionari spettava interpretare le esigenze dello Stato accentrato ed eseguirne gli ordini. L’applicazione di tale tendenza centralistica appariva agli uomini di governo estremamente urgente, data la situazione creatasi nel Sud della penisola negli anni immediatamente seguenti alle annessioni. Qui vivevano grandi masse di contadini poveri che avevano nutrito forti speranze nella nascita dell’Italia. Desideravano, infatti, l’introduzione di una profonda riforma agraria, basata sulla distribuzione delle terre a chi le lavorava. Tuttavia, i nuovi esecutivi non solo ignorarono queste richieste, ma imposero nuove tasse, introdussero il servizio militare obbligatorio (che all’epoca durava ben cinque anni) e nominarono amministratori locali di proprio gradimento. Anche le terre demaniali, concesse fino a quel momento agli usi dei villaggi, vennero incamerate dai comuni, sottraendo agli abitanti una fondamentale risorsa di sopravvivenza. Il malcontento popolare crebbe fino a sfociare tra 1861 e 1865 in aperta ribellione. Si formarono gruppi armati che contavano centinaia di volontari e radunavano delinquenti veri e propri, contadini in rivolta ed ex militari di Napoli. Queste bande spontanee, composte secondo il governo da «briganti», attaccavano i funzionari dello Stato incaricati di riscuotere le tasse o di arruolare soldati, occupavano le terre dei grandi proprietari, assalivano i borghi rurali incendiando gli archivi comunali e uccidendo i notabili più in vista. Il clero più retrivo e quanti volevano un ritorno dei Borboni – la cui corte si era rifugiata a Roma, presso il papa – cercavano d’altra parte di sfruttare a loro vantaggio lo scontento del popolo, fornendo armi e sostegno economico alle rivolte. Per soffocare il «brigantaggio», che metteva in pericolo la stessa unità nazionale, il go- Uno scontro fra briganti e soldati presso Isernia. © Loescher Editore – Torino 270 1860 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 271 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo verno inviò nelle regioni meridionali l’esercito: oltre 100.000 soldati riuscirono, con anni di combattimenti, a soffocare brutalmente ogni ribellione; i briganti catturati vennero condannati alla fucilazione e i morti, tra le file dei rivoltosi, furono almeno 5000. L’autorità dello Stato dunque si impose, ma venne scavato un solco tra le popolazioni meridionali e i governanti d’Italia, i quali non agirono in alcun modo per alleviare la miseria del Meridione e per ridurre il divario che già lo separava, a tutto suo svantaggio, dal Settentrione del paese. A Incentivi all’economia e pareggio di bilancio Album p. 288 Il brigantaggio rappresentò dunque un problema di ordine pubblico da affrontare subito e con decisione. Altrettanto urgente era il rinnovamento dell’economia italiana, da favorire con misure più complesse e destinate spesso a non dare risultati immediati. I governi della Destra vararono prima di tutto alcuni interventi di base. I sistemi fiscali e monetari dei diversi regni preunitari furono sostituiti da quelli sabaudi. I dazi doganali tra le vecchie frontiere interne vennero abbattuti e il liberismo imposto a tutti i mercati della penisola. Contestualmente, trattati commerciali di libero scambio furono stipulati con tutti i maggiori paesi europei ed extra europei. Furono anche messi in cantiere migliaia di chilometri di strade e ferrovie, allo scopo di stimolare nel più breve tempo possibile gli scambi commerciali. Aiutata da questi provvedimenti, la produzione agricola crebbe moderatamente, così come l’esportazione dei prodotti delle campagne. Le colture specializzate del Meridione, in particolare, fornivano olio, vino e agrumi che viaggiavano verso i mercati francese, inglese e poi anche statunitense. Tuttavia rimase cronica la mancanza di investimenti in nuovi prodotti e tecniche di coltivazione. Peggiore fu l’esito degli sforzi nel settore industriale. Anzi, la scelta liberista mise in grave difficoltà le poche fabbriche dell’Italia centro-meridionale, che avevano goduto fino a quel momento del protezionismo papale e borbonico, e che adesso non erano in grado di concorrere con le industrie del Nord. Più in generale, le industrie italiane uscivano perdenti dal confronto compe- titivo con le produzioni di paesi molto più sviluppati. Metallurgico, tessile e meccanico non diedero i risultati sperati, rimanendo a uno stadio di sviluppo embrionale, e una vera e radicata industrializzazione dell’Italia sarebbe giunta solo nell’ultima fase del secolo. A prevalere per il momento era ancora la piccola manifattura artigiana o addirittura l’industria a domicilio, particolarmente diffusa nelle campagne: due tipi di produzione che non potevano evidentemente supportare gli investimenti su larga scala necessari agli impianti industriali. Altro problema di capitale importanza riguardava le finanze del regno. Lo sforzo per sostenere le guerre necessarie al raggiungimento dell’unità nazionale aveva svuotato le casse dello Stato, gravate anche dalla pesante eredità dei bilanci in passivo dei regni appena annessi. Le spese stesse erano cresciute a dismisura dopo il 1861, perché Torino aveva dovuto finanziare lo sviluppo di tutti i settori pubblici della vita del paese, con l’apertura di scuole, la costruzione di vie di comunicazione, l’estensione dell’amministrazione periferica, l’allargamento e il potenziamento dell’esercito, per il quale fu introdotta la coscrizione obbligatoria. Il governo italiano aveva urgente bisogno di risanare le finanze pubbliche e gli esecutivi che si succedettero nei quindici anni tra 1861 e 1876 si posero l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio. Per questo motivo le spese furono contenute il più possibile, mentre la pressione fiscale fu inasprita e vennero introdotte sempre nuove tasse. Le più appariscenti e impopolari erano le imposte indirette sui beni di consumo: sugli alcolici, sul sale, sul tabacco. Nel 1868 fu introdotta anche la «tassa sul macinato», che ogni contadino doveva pagare in base alla quantità di grano che portava a macinare al mulino. Essa faceva aumentare il prezzo della farina e quindi del pane, e provocò proteste accesissime in tutto il paese, con vere e proprie ribellioni, soprattutto nelle campagne. Ancora una volta intervenne l’esercito e le proteste furono represse con la forza. Nel complesso, la durezza del fisco sabaudo si tradusse in un peggioramento delle condizioni di vita degli italiani e sottrasse preziose risorse agli investimenti privati per la crescita economica. Tali difficoltà furono solo in parte compensate dal raggiungi- mento dell’agognato pareggio di bilancio, dichiarato dal ministro delle Finanze nel 1875, e la stessa Destra pagò la scarsa crescita economica del paese con un notevole calo dei consensi elettorali. Nel 1876 fu la Sinistra a dare all’Italia il primo ministro. La Terza guerra d’indipendenza Il principale problema di politica estera affrontato dai governi della Destra fu quello del completamento dell’unificazione della penisola. Il Veneto era infatti ancora in mano all’Austria, insieme al Trentino e alla Venezia Giulia, mentre Roma, capitale storica d’Italia, era il cuore dello Stato pontificio, ormai ridotto al solo Lazio. Incandescente era anche il dibattito politico tra la Destra, che voleva ottenere questi territori attraverso l’azione diplomatica, e la Sinistra, favorevole invece alla ripresa dell’azione militare nel solco dell’impeto garibaldino risorgimentale e dei plebisciti popolari. Per quanto riguarda il Nord-est della penisola, furono gli avvenimenti internazionali a dare al governo di Torino l’occasione tanto attesa e un nuovo forte alleato europeo: nella primavera 1866, infatti, la Prussia si alleò con l’Italia e dichiarò guerra all’Austria, che sarebbe così stata impegnata su due fronti: a nord contro i prussiani (che sconfiggevano gli Asburgo a Sadowa), a sud contro i sabaudi, in quella che divenne la Terza guerra d’indipendenza. La guerra si concluse favorevolmente per via diplomatica: la pace imposta agli austriaci dai tedeschi prevedeva infatti tra l’altro la cessione all’Italia del Veneto. Militarmente, al contrario, il conflitto si risolse in un disastro. L’esercito italiano fu sconfitto a Custoza, in territorio veneto, il 24 giugno. Comandato dal generale La Marmora, venne attaccato dagli austriaci e costretto a indietreggiare, ritirandosi poi senza aver davvero dato battaglia. La flotta regia fu messa in acqua sotto la guida dell’ammiraglio Carlo Persano per compensare con una vittoria l’esito di Custoza, ma fu battuta nelle acque dell’isola di Lissa, nel Mare Adriatico, il 20 luglio, nonostante fosse superiore agli avversari per armamenti e tonnellaggio. Solo Garibaldi, alla testa di un nutrito corpo di volontari, prevalse sugli austriaci a Bezzecca, in Trentino, il 21 luglio. F. Zennaro, Battaglia di Bezzecca, 1866, Milano, Museo del Risorgimento. L’unione del Veneto al Regno d’Italia fu sancita da un plebiscito popolare il 31 ottobre 1866, con una maggioranza schiacciante di favorevoli all’annessione, ma l’importante guadagno territoriale, ottenuto per merito esclusivo della Prussia, non alleviò l’umiliazione per la sconfitta patita sul campo, di cui vennero ritenute responsabili l’incapacità degli alti comandi e la scarsa coesione delle neonate forze armate nazionali. Rimasero inoltre in mano austriaca la Venezia Giulia e il Trentino e tale sarebbe rimasta la situazione per i cinquant’anni seguenti, tanto che la conquista di quelle regioni irredente abitate da italiani rappresentò uno dei motivi della partecipazione del nostro paese alla Prima guerra mondiale, nel 1915. 1860 regioni irredente: territori sottoposti a dominazione straniera e che si volevano ricongiungere con la madrepatria. In queste regioni si sviluppò in seguito il movimento degli irredentisti. La Terza guerra d’indipendenza (1866) Vezza d’Oglio Bezzecca R E G NO A U STRO- U N G A R I CO Levico Vicenza Custoza Padova Cormons Garibaldi Venezia Esercito italiano Esercito austriaco Pola Bologna R E G NO D ’ I TA LI A M ar A d r i a ti c o Firenze Ancona Lissa © Loescher Editore – Torino 272 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 273 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo La conquista di Roma Altrettanto complesso appariva il problema dell’annessione di Roma. Nessun uomo politico né l’opinione pubblica dubitava che Roma dovesse diventare la capitale dello Stato italiano, tanto che già nella primavera del 1861 il Parlamento di Torino l’aveva proclamata futura capitale del Regno d’Italia. Lo stesso Cavour, che si ispirava nella sua azione di governo al principio «libera Chiesa in libero Stato», aveva condotto con il Vaticano trattative segrete per cercare una soluzione alla «questione romana». [Testimonianze documento 5, p. 320] Senza esito, però, da un lato per l’opposizione netta di Pio IX a qualsiasi cessione di sovranità, dall’altro per la tutela offerta alla Santa Sede da Napoleone III: l’imperatore francese, pressato dai cattolici del suo paese, si era reso infatti garante dell’indipendenza dello Stato pontificio. Proprio la consapevolezza della posizione di Parigi e il timore di un intervento francese portarono nel 1862 allo scontro tra il governo e Garibaldi. Il comandante si era recato in Sicilia ed era poi passato in Calabria nel tentativo di lanciare una spedizione contro Roma. Le truppe regie lo fermarono sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862, con un duro scontro a fuoco. Il problema rimaneva però in tutto il suo peso e un passo avanti fu fatto solo nel settembre 1864, quando Torino firmò con la Francia la Convenzione di Settembre. Il governo italiano, guidato dal primo ministro Marco Minghetti, si impegnò a rispettare i confini dello Stato della Chiesa e in cambio l’imperatore ritirò le sue truppe da Roma e dal Lazio. Nel contempo, la capitale italiana fu trasferita da Torino a Firenze, a garanzia che le mire sabaude su Roma erano sfumate. In molte città della penisola si svolsero proteste popolari per quella che sembrava una rinuncia definitiva alla conquista dell’Urbe, ma la Convenzione di Settembre assicurava un importante risultato: l’allontanamento dei francesi dal teatro d’operazioni italiano. Essa non escludeva inoltre che fosse lo stesso popolo romano a voler mutare le sue sorti e a chiedere l’annessione. Nell’autunno 1867, un gruppo di garibaldini cercò di fomentare la ribellione popolare in città. Il tentativo fallì per l’indifferenza e il mancato sostegno degli abitanti della capitale pontificia. Lo stesso Garibaldi, penetrato nel Lazio, batté le truppe pontificie a Monterotondo il 25 ottobre, ma fu sconfitto a Mentana da truppe francesi appena sbarcate a Civitavecchia. Napoleone III aveva mandato infatti in soccorso del papa ben 20.000 uomini, assai meglio armati dei garibaldini, che furono costretti a ritirarsi in Toscana. In quegli anni le relazioni tra il Regno d’Italia e lo Stato pontificio toccarono il punto più basso. Nel 1866 e 1867 furono emanate le leggi che sancivano la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e il passaggio all’Italia dei loro beni. Contestualmente, Firenze riconobbe validità unicamente al matrimonio civile. Fu tuttavia un nuovo cambiamento della situazione internazionale a permettere infine al Regno d’Italia di impadronirsi di Roma. Nell’estate del 1870, la Prussia entrò in guerra con la Francia e sconfisse Napoleone III a Sedan. L’imperatore francese perse il regno e venne così a mancare l’unico vero garante dell’indipendenza papale: Pio IX era infatti diplomaticamente isolato in Europa e ogni sua richiesta d’aiuto rimase inascoltata. Approfittando dell’occasione irripetibile, il Regno d’Italia rigettò la Convenzione di Settembre e le truppe di Vittorio Emanuele II entrarono nel Lazio: il 20 settembre 1870 aprirono con l’artiglieria una breccia nelle mura di Roma presso Porta Pia. L’occupazione di Roma si svolse senza scontri o incidenti di rilievo e il 2 ottobre un plebiscito popolare sancì con maggioranza schiacciante l’unione di Roma stessa e del Lazio al Regno d’Italia. Si chiudeva così la storia dello Stato pontificio e del potere temporale dei papi. Pio IX non accettò però la situazione: si rifiutò di riconoscere l’autorità dello Stato italiano e si considerò prigioniero nei suoi palazzi, negandosi a qualsiasi trattativa o accordo. Per questo la cosiddetta «legge delle guarentigie» del 13 maggio 1871, emanata dal Parlamento poco prima che la capitale d’Italia fosse trasferita a Roma, fu un atto unilaterale del regno. Con essa il papa fu riconosciuto capo di Stato; gli fu concesso di governare sui palazzi del Vaticano e del Laterano, che godettero di extraterritoriali- L’Italia dall’unità a Bava Beccaris tà, e poté godere di consistenti emolumenti annui per il mantenimento della curia e dell’amministrazione pontificia; ebbe un suo corpo armato di difesa, la possibilità di nominare suoi ambasciatori nel mondo, il diritto di istituire un servizio postale e telegrafico indipendente. Alla Chiesa venne inoltre riconosciuto il diritto di organizzarsi e di esercitare senza restrizioni il suo magistero spirituale in Italia, in linea con quanto previsto già anni prima da Cavour. Pio IX però non legittimò la «legge delle guarentigie» e nel 1874 emanò il «non expedit», con cui proibiva formalmente ai cattolici italiani di partecipare alla vita pubblica nazionale. Il divieto, per quanto doloroso, fu osservato dai fedeli e causò una profonda ferita nel tessuto del paese, perché rendeva palese l’inimicizia tra le sue anime laica e religiosa. D’altro canto, il pontefice era convinto che l’affievolirsi nelle società di tutta Europa dello spirito religioso fosse causato proprio dall’avanzata dell’ideologia liberale; non a caso, nel 1864, aveva emanato il Syllabus Errorum, vale a dire la «Raccolta di errori» del tempo moderno. Tra essi secondo Pio IX rientravano anche il liberalismo e le libertà civile da esso propugnate, come quelle d’opinione, religiosa e di stampa. Il conflitto tra Pio IX e lo Stato italiano non era dunque altro che un aspetto della più generale battaglia portata avanti dalla Chiesa per conservare a se stessa e al cattolicesimo un ruolo centrale nella società moderna. La breccia di Porta Pia veduta da villa Patrizi, 1870. La presa di Roma (1870) e Te v re Monterotondo Mentana Mar Tirreno Roma Garibaldi Esercito italiano Esercito francese Giuseppe Garibaldi con il piede destro ferito in Aspromonte, 1862. C. Ademollo, La breccia di Porta Pia, 1880 circa, Milano, Museo del Risorgimento. © Loescher Editore – Torino 274 1860 © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 275 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 11.2 1876-1900: i governi della Sinistra 1876: la Sinistra assume il governo dell’Italia Negli anni successivi al 1861, la Destra aveva guidato l’Italia al raggiungimento di tre obiettivi: il rafforzamento e l’accentramento del regno, l’arricchimento delle casse dello Stato e la conquista del Veneto e di Roma. A metà degli anni Settanta la Destra appariva però divisa e logorata dall’azione di governo, mentre la Sinistra aveva in buona parte rinnovato il suo schieramento e si era spostata su posizioni politiche più moderate di quelle iniziali. Poteva così aspirare a raccogliere il consenso di fasce più vaste della borghesia italiana, in costante espansione, senza per questo perdere l’appoggio dei ceti popolari. Nel marzo 1876 l’esecutivo della Destra venne battuto in Parlamento durante l’esame di un disegno di legge che prevedeva il trasferimento del controllo delle ferrovie dalle compagnie private, che le avevano avute in gestione fino a quel momento, allo Stato. Il primo ministro Marco Minghetti si dimise e Vittorio Emanuele II affidò l’incarico di formare un nuovo governo ad Agostino Depretis, uomo della Sinistra. Nel novembre di quello stesso anno le elezioni politiche consolidarono la svolta, dando alla Sinistra una forte maggioranza parlamentare, e segnalarono al ceto dirigente il desiderio di cambiamento proveniente dal paese. Appariva necessario dedicare più sforzi allo sviluppo industriale, migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ampliare il diritto di voto dei cittadini, combattere l’analfabetismo e istruire i giovani, alleggerire il carico fiscale e distribuirlo più equamente secondo le possibilità delle diverse classi sociali, alleviare l’arretratezza sociale ed economica del Meridione, accrescere l’importanza dell’Italia tra i paesi europei. Molti di questi punti furono enunciati come punti di programma della Sinistra dallo stesso Depretis in un celebre discorso, tenuto a Stradella, presso Pavia, nell’autunno del 1875, pochi mesi prima che le contingenze politiche lo conducessero al governo. Depretis avrebbe conservato il potere con alcune interruzioni per circa un ventennio, fino al 1887, e avrebbe pienamente incarnato con la sua personalità questa nuova fase della vita politica italiana. In quello stesso lasso di tempo, nel 1878, Umberto I divenne re d’Italia in seguito alla morte di Vittorio Emanuele II. Il nuovo sovrano era legato per inclinazioni personali alla Destra e ai circoli dirigenti più conservatori, ma per buona parte del suo regno seppe farsi garante di un’ordinata vita parlamentare e delle libertà assicurate dallo Statuto Albertino. La riforma dell’istruzione elementare e la parziale riforma elettorale pp. 314, 316 Umberto I, re d’Italia. Già nel 1877, la Sinistra mise mano al suo programma con la legge Coppino, dal nome del ministro dell’Istruzione che la ideò. La legge rendeva obbligatori i primi due anni di scuola elementare e ne assicurava la gratuità, introducendo sanzioni per i genitori che sottraevano i figli all’istruzione. Essa tuttavia non prevedeva adeguati strumenti di controllo della sua attuazione e addossava ai comuni, le cui risorse finanziarie erano molto scarse, le spese per il mantenimento delle scuole e degli insegnanti (di cui peraltro, vi era carenza su tutto il territorio nazionale). L’obbligo dell’istruzione elementa- F. Bergamini, Scuola di villaggio in Campania, 1895. F. Pastoris, La merenda, 1861 circa. re rimase in tal modo largamente inevaso, soprattutto nelle campagne, dove i bambini erano un aiuto prezioso nei lavori della terra. L’altissimo tasso di analfabetismo italiano iniziò a declinare, ma alla fine dell’Ottocento era ancora molto alto. [ I NODI DELLA STORIA p. 286] Nel 1882 il governo Depretis introdusse una seconda importante riforma, ampliando il diritto di voto. Il limite di censo fu abbassato da 40 a 20 lire di imposte annue, e anche il limite di età venne portato da 25 a 21 anni; il voto fu inoltre concesso a chi era in possesso della licenza elementare. In questo modo il numero di elettori salì a 2 milioni, oltre il 7% della popolazione italiana e il 25% dei maschi maggiorenni. Si trattava certamente di un progresso, che per la prima volta garantiva accesso alle urne ai membri più istruiti del ceto artigiano e operaio del Nord; tuttavia non era un passo ancora sufficiente a permettere la partecipazione alla politica delle masse popolari, proprio a causa della scarsissima diffusione tra esse dell’istruzione elementare. Disegno satirico di un camaleonte con la faccia di Agostino Depretis, fine del XIX secolo. Il trasformismo Negli anni successivi la Sinistra governò il paese ma accantonò in buona parte i suoi programmi democratici. Questa svolta fu causata principalmente dalle preoccupazioni generate nel mondo borghese proprio dall’allargamento del suffragio elettorale e dal rafforzamento della componente parlamentare più progressista. Così, per garantire la stabilità della sua maggioranza, dal 1882 in poi Depretis cercò sempre più di frequente l’appoggio della Destra. Gli appartenenti ai due schieramenti, dietro esplicito accordo tra Depretis e Minghetti, finirono per votare congiuntamente i più importanti provvedimenti del governo. Si creò una situazione in cui, di fatto, a guidare il paese era un unico grande raggruppamento moderato, mentre i conservatori da un lato e la sinistra dall’altro venivano esclusi dal gioco parlamentare. Questa politica fu detta del «trasformismo», perché a seconda delle circostanze i rappresentanti dell’opposizione si trasfor- © Loescher Editore – Torino 276 1860 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 277 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo mavano in sostenitori dell’esecutivo. Ben presto, la distinzione tra Destra e Sinistra perse ogni significato, mentre si smarrivano le differenze di programma e ideologie. La maggioranza parlamentare si creava di volta in volta sulla base degli interessi contingenti e delle capacità di manovra di Depretis; inoltre, l’appoggiarsi dell’esecutivo sul centro dello schieramento politico produceva come risultato un’azione di governo lontana dagli obiettivi riformistici della Sinistra all’esordio. In tale modo si allargò anche la già ampia spaccatura tra governo e società. Il governo era sempre sostenuto soprattutto dalla borghesia, mentre nel paese la maggioranza dei cittadini era priva di diritti sociali e politici e cresceva l’importanza dei sindacati e dei movimenti ispirati al socialismo e al marxismo. Una realtà di cui il Parlamento avrebbe dovuto prima o poi tenere conto. La nuova politica economica del governo e la crisi dell’agricoltura Dossier 11 p. 348 Dossier 12 p. 350 Al principio degli anni Ottanta del XIX secolo, l’Italia doveva ancora sviluppare la sua economia per poter fare concorrenza alle grandi nazioni industriali europee, ma adesso poteva per lo meno contare su adeguate infrastrutture. Entro il 1876, la Destra diede infatti alla penisola circa 8000 chilometri di binari ferroviari, più di 34.000 chilometri di strade e 23.000 chilometri di linee telegrafiche. D11, 12 Il problema dello sviluppo venne affrontato dalla Sinistra impostando una politica economica in parte diversa da quella degli esecutivi della Destra. Per quanto riguarda il fisco, la tassa sul macinato venne abolita nel 1884, contestualmente tuttavia a un aggravio delle imposte al consumo. Anche le tasse sui redditi e sui patrimoni vennero ridotte, per liberare le risorse che la borghesia poteva mettere a disposizione degli investimenti e dello sviluppo. La spesa pubblica, pure questa a stimolo degli investimenti, aumentò, tanto da portare alla ricomparsa del deficit di bilancio dello Stato. E alla fine degli anni Settanta furono adottati i primi dazi doganali contro le merci d’importazione, a difesa dei comparti industriali meccanico e tessile. Tutto ciò però non diede risultati immediati. Anzi, al principio degli anni Ottanta l’agricoltura italiana entrò in una fase di grave crisi. Nel primo ventennio di vita unitaria la produzione delle campagne era cresciuta, ma poco era cambiato quanto ad ammodernamento del settore: esso continuava ad avere le sue produzioni di punta nelle coltivazioni cerealicole intensive della pianura padana e negli olivi, negli agrumi e nei vigneti del Mezzogiorno. Pochissime terre erano state bonificate e conquistate all’agricoltura e niente era mutato quanto ai rapporti di produzione. Fu in tale quadro che si fecero sentire nella penisola gli effetti della «grande depressione» inaugurata dall’arrivo nel continente europeo di grandi quantità di merci agricole a basso prezzo provenienti da Stati Uniti, Russia e Australia. I prodotti dei campi italiani non ressero la concorrenza: i loro prezzi scesero e subito dopo calò drammaticamente anche la produzione. L’intero settore affrontò difficoltà enormi e impreviste e naturale corollario furono l’abbandono delle campagne da parte della popolazione e l’incremento dell’emigrazione transoceanica. Il protezionismo e il decollo economico dell’Italia G. Fattori, Il carro rosso, 1887, Milano, Pinacoteca di Brera. Spinta dall’opinione pubblica, dal ceto imprenditoriale che aveva bisogno di aiuto e da risultati insoddisfacenti anche in campo industriale, la Sinistra si decise ad abbandonare il libero scambio e adottò nel 1887 il protezionismo. Furono introdotti nuovi Il primo stabilimento della Fiat, che aveva sede in corso Dante a Torino, in una fotografia del 1916. dazi molto pesanti sui prodotti agricoli e industriali importati dall’estero e in questo modo le merci acquistate dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra divennero più costose di quelle prodotte in Italia: gli industriali e i grandi proprietari della penisola si impadronirono del mercato interno. Particolarmente protette dall’intervento dello Stato furono la produzione siderurgica e quelle della lana, del cotone, dello zucchero e del grano. Le sorti dei coltivatori furono risollevate dal protezionismo, ma fu soprattutto la borghesia industriale del Nord a trarre da esso straordinari benefici. La nascente industria italiana si sviluppò molto rapidamente, usufruendo di elevati guadagni che potevano essere reinvestiti nell’ampliamento e ammodernamento dell’apparato di fabbrica. Nacquero grandi banche d’investimento, disposte ad affidare capitali consistenti agli imprenditori per la creazione di nuove aziende, mentre anche i grandi gruppi d’affari esteri – ritenendo ormai mature le condizioni del mercato italiano – portavano nella penisola capitali da investire. Tra gli anni Novanta dell’Ottocento e il primo quindicennio del Novecento, l’Italia divenne una potenza industriale e attuò il passaggio decisivo verso una società e un’economia moderne, non più dominate solo dall’agricoltura. Nacquero la Marzotto e la Cantoni nel comparto tessile, la Falck, la Breda, l’Ansaldo e le Acciaierie di Terni nel comparto siderurgico e meccanico, la Edi- son nel campo della produzione idroelettrica, la Pirelli e la Montecatini nel comparto chimico, la Fiat nel comparto automobilistico. Erano tutti marchi destinati a segnare la storia dell’industria italiana e – trattandosi di produzioni strategiche anche per lo Stato – spesso a fondere i loro destini con quelli della politica. Le misure protezionistiche ebbero comunque anche effetti negativi. L’insufficiente dotazione infrastrutturale (strade, ferrovie e porti) svantaggiò le poche ma importanti realtà industriali del Mezzogiorno. Per esempio i cantieri navali di Napoli, che non poterono reggere la concorrenza delle analoghe industrie del Nord. I latifondisti del Meridione, beneficiando della protezione dello Stato, si sentirono ancor meno che in passato incoraggiati a innovare i metodi di conduzione delle proprie terre. Mantennero le tecniche di coltivazione più arretrate e i loro profitti continuarono a reggersi sul lavoro di migliaia di braccianti sottopagati. I prodotti specializzati dell’agricoltura meridionale soffrirono per la chiusura dei mercati esteri, protetti dai loro governi con misure analoghe a quelle adottate da Roma. Basta ricordare il caso della Francia, che esportava molti dei suoi manufatti nella penisola ed era a sua volta la principale acquirente degli agrumi del Sud. Parigi inaugurò allora contro Roma una guerra tariffaria che giunse a compromettere seriamente i rapporti tra i due paesi: essi imponevano infatti alle merci dell’avversario dazi più alti di quelli previsti per ogni altro partner commerciale, 1860 guerra tariffaria: conflitto di natura economica, ispirato dalla dottrina del protezionismo, che contrappone le nazioni attraverso limitazioni nel commercio e che penalizza gli scambi reciproci. L. Delleani, Il trenino, 1883, Torino, GAM. © Loescher Editore – Torino 278 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 279 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo Lo sviluppo dell’industria italiana alla fine dell’Ottocento Solfare Udine Automobili Milano Verona Torino Gomma Venezia Vetro Ceramiche Bologna Genova Cartiere Zuccherifici Firenze Piombino Ancona Perugia L’Aquila Metallurgia Siderurgia Meccanica Industria tessile Roma Bari Napoli Cagliari Palermo Zone industriali Reggio Calabria Zone minerarie letteralmente impedendone la penetrazione delle frontiere. Complessivamente, l’adozione del protezionismo causò un calo drammatico delle esportazioni italiane. I danni maggiori vennero però ai consumatori, che dovettero fronteggiare l’immediato rialzo dei prezzi dei prodotti nazionali, a partire dal pane, non più calmierati dalla concorrenza straniera. L’emigrazione di massa L’azione dei governi della Sinistra non fu per il Mezzogiorno molto più incisiva di quella degli esecutivi della Destra. Alla fine dell’Ottocento, le industrie italiane erano concentrate quasi esclusivamente al Nord, dove si trovavano anche le aziende agricole e d’allevamento più moderne. Anche in quella fase di sviluppo, il Sud continuava dunque a essere l’area economica meno produttiva del paese. Arretratezza dell’agricoltura, rapporti di lavoro e sociali arcaici, miserabili condizioni di vita delle masse contadine, colpite da povertà, malattie e analfabetismo: le autorità centrali conoscevano questi problemi, ma sembravano impotenti. Questa situazione spiega l’emigrazione di milioni di italiani, che tra il 1890 e i primi venti anni del Novecento abbandonarono la penisola per cercare fortuna in altri continenti. Tra 1891 e 1900 partirono 2,8 milioni di emigranti, che diventarono addirittura sei milioni nel decennio 1901-1910. La maggior parte di loro veniva proprio dalle regioni meridionali ed era diretta verso gli Stati Uniti, ma anche il Canada, l’Argentina, il Brasile e l’Australia accolsero molti nostri connazionali in cerca di un destino migliore. Erano statistiche da inquadrare nell’analogo e più generale fenomeno migratorio europeo verso il Nuovo Mondo. La nascita del movimento dei lavoratori Emigranti italiani dell’inizio del secolo in attesa dell’imbarco. Alla metà degli anni Ottanta, la Sinistra varò i primi elementi della legislazione sociale italiana, creando la Cassa nazionale per gli incidenti sul lavoro, destinata a fornire un sussidio agli infortunati di fabbrica, e limitando rigidamente il lavoro delle donne e dei ragazzi. Questa tendenza politica sfumò però alla morte di Agostino Depretis, avve- nuta nel 1887, quando il governo fu assunto da Francesco Crispi. Crispi in passato aveva militato con Mazzini e Garibaldi; dopo l’unità, convintosi a servire la monarchia, era divenuto un sostenitore dello Stato forte e ammiratore della politica decisa praticata in Germania da Bismarck. Ad attuare questa linea fu aiutato dal fatto che per l’intero suo primo mandato, tra 1887 e 1891, fu, oltre che primo ministro, anche ministro degli Interni e ministro degli Esteri. Sul piano interno, Crispi volle evitare che lo sviluppo di un’industria e di un’agricoltura moderne generasse conseguenze sociali troppo rischiose: suo obiettivo era dunque evitare che il continuo aumento del numero dei salariati si traducesse in scioperi e violente contestazioni per l’affermazione dei diritti dei lavoratori. In tutto il paese, infatti, stavano sorgendo associazioni per la difesa degli interessi dei contadini e degli operai. Esse nascevano soprattutto al Nord, dove era alta la presenza di salariati nei rapporti di lavoro agricoli e dove l’industrializzazione in forte espansione faceva lievitare le dimensioni del proletariato di fabbrica. Queste organizzazioni erano state create dapprima con fini esclusivamente solidaristici e di mutuo soccorso tra lavoratori, ma dopo la fondazione della Prima internazionale si erano diffuse anche in Italia le idee di sinistra, soprattutto anarchiche. All’epoca in cui Crispi divenne primo ministro, l’anarchismo era ormai entrato in crisi e gran parte delle organizzazioni dei lavoratori si ispiravano alle idee socialiste e di Marx. Miravano quindi a ottenere risultati materiali concreti a vantaggio dei lavoratori, come dimostrarono i primi grandi scioperi agricoli, svoltisi nelle campagne padane nel 1884-1885, e la nascita a cavallo tra anni Ottanta e Novanta delle prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base territoriale che rappresentavano gli interessi dei salariati nelle controversie con i padroni di fabbrica e lo Stato). A tali organizzazioni si aggiunsero presto le associazioni dei lavoratori guidate da esponenti cattolici, che si ispiravano agli insegnamenti di papa Leone XIII. Il pontefice aveva difeso con la Rerum novarum alcuni diritti fondamentali dei salariati e invitato i credenti a lottare per una società più equa. Fiorirono allora, soprattutto nelle campagne di Veneto e Lombardia, le «leghe bian- Uno sciopero alla Camera del Lavoro di Milano nel 1891. che» di matrice cattolica, capaci di affiancare e sostenere i contadini nelle loro lotte con la stessa efficacia delle associazioni di sinistra. A Crispi e la risposta del governo alle tensioni sociali L’atteggiamento del governo nei confronti delle proteste dei lavoratori fu molto duro. Più volte l’esercito intervenne con la forza per sedare manifestazioni e scioperi. In questo clima, nel 1892, a Genova nacque il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno successivo divenne il Partito socialista dei lavoratori italiani e nel 1895, definitivamente, il Partito socialista italiano. La nuova forza politica, guidata dall’avvocato Filippo Turati, lombardo e di origini borghesi, sorse come rappresentanza nazionale e unitaria della miriade di associazioni sparse per l’Italia a difesa dei diritti di operai e contadini. La strategia dei socialisti fu quella di partecipare alle competizioni elettorali e di tutelare in Parlamento le ragioni dei ceti © Loescher Editore – Torino 280 1860 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris Album p. 288 Francesco Crispi. © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 281 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo Colonia eritrea: «Asmara. Festa di Fede e Italianità», 1890. Tweet Storia p. 358 più poveri. Al contempo essi rifiutavano sia l’approccio rivoluzionario degli anarchici sia il compromesso contingente con la borghesia democratica. Solo attraverso la lotta di classe e la conquista nelle urne elettorali del potere politico si sarebbe giunti alla gestione sociale dei mezzi di produzione. Proprio alla Camera dei Deputati, d’altro canto, fin dal 1882 sedeva un rappresentante socialista. Era il deputato romagnolo Andrea Costa, primo esponente di uno schieramento che entro l’inizio del Novecento avrebbe contato su una forza parlamentare di tutto rilievo: 33 deputati, conquistati alle elezioni politiche del 1900. Simbolo dei tempi che cambiavano fu nel 1889 il varo di un nuovo codice penale, detto «Codice Zanardelli», dal nome del ministro della Giustizia che lo patrocinò. Esso aboliva la pena di morte e, pur non riconoscendolo a chiare lettere, ammetteva il diritto di sciopero. Per i lavoratori si trattava di una grande conquista. I repubblicani e i radicali, raccoltisi in partito in quegli stessi anni, completavano lo schieramento della sinistra parlamentare italiana. Pur riconoscendo la forma capitalistica dell’economia e la legittimità della proprietà privata, essi lottavano per una democrazia più avanzata di quella promossa da Destra e Sinistra storiche. I repubblicani M. Cammarano, La battaglia di Dogali, 1893. rifiutavano l’istituto monarchico e, insieme ai radicali, auspicavano il suffragio universale, un maggiore decentramento dell’amministrazione statale, la riforma fondiaria e quella del fisco. La politica estera: l’adesione alla Triplice Alleanza Grazie alla Destra era stata completata l’unificazione territoriale e politica della penisola, e nel ventennio postunitario Roma aveva cercato l’equidistanza dalle grandi capitali d’Europa, coltivando semmai una relazione speciale con la Francia, che aveva patrocinato l’indipendenza italiana. Assunto il potere, i governi della Sinistra cercarono di inserire l’Italia nel gioco degli equilibri di potenza europei e per questo impressero alla politica estera una svolta. Nel maggio 1882, Roma aderì alla Triplice Alleanza , patto militare difensivo di mutua assistenza con la Germania e l’Austria. La nuova politica amichevole con l’Austria, che occupava ancora Trento e Trieste, fu criticata da molti. Essa sembrava smentire decenni di storia risorgimentale e appariva incoerente con gli interessi più urgenti dell’Italia: la conquista del Trentino e della Venezia Giulia. Ma grazie all’adesione alla Triplice Alleanza l’Italia evitava l’isolamento internazionale e trovava un appoggio nella sua rivalità con Francia e Inghilterra. Era infatti in concorrenza con le due potenze democratiche per motivi commerciali e perché esse si opponevano all’espansione coloniale di Roma in Africa. Nel 1881, le aspirazioni italiane all’occupazione della Tunisia – dove vivevano e lavoravano molti nostri emigrati – erano state frustrate proprio da Parigi, che aveva mandato le sue truppe ad insediarsi nel territorio nordafricano. Ora, firmata la Triplice Alleanza, anche il nostro paese cercò di creare delle proprie colonie, così come avevano fatto in precedenza tutte le principali potenze europee. Spingevano Roma ovvie motivazioni di prestigio internazionale, la pressione della corte e dei circoli militari, gli interessi dei gruppi industriali e commerciali che contavano di realizzare grandi affari nella nuova avventura; nelle parole dei governi della Sinistra, inoltre, vi era la convinzione che le colonie avrebbero offerto una prospettiva di lavoro migliore agli emigranti italiani. La politica coloniale In realtà l’espansione coloniale si rivelò difficile e non diede i risultati sperati. Nel 1882 l’Italia acquisì in Africa orientale la baia di Assab, sulla costa eritrea del Mar Rosso, dove passavano le rotte commerciali verso l’Asia potenziate dalla recente apertura del Menelik II, imperatore di Etiopia. Canale di Suez. Nel 1885, un corpo di spedizione occupò il territorio compreso tra la baia di Assab e la città portuale di Massaua e il passo successivo fu estendere il possesso territoriale verso ovest, in direzione dell’Impero d’Etiopia. Il regno etiope era economicamente arretrato, la sua popolazione si dedicava esclusivamente ad agricoltura e pastorizia nomade, e i clan tribali dominavano la vita pubblica, limitati solo in parte dal potere del negus, ossia l’imperatore, scelto dagli stessi signori locali. Era tuttavia una formazione statale coesa e, quando ne violarono i confini, gli italiani furono affrontati e sconfitti: nel gennaio 1887, presso Dogali, una colonna di 500 soldati del regio esercito fu annientata dai militari dell’imperatore Giovanni IV. L’impressione in Italia fu enorme, ma lo smacco non spinse il governo a desistere. Anzi, proprio per motivi di prestigio Crispi – che era appena diventato primo ministro – ampliò i possedimenti italiani fino a conquistare l’intera Eritrea e porre le basi per l’occupazione della Somalia, sempre in Africa orientale. Nel 1889, poi, stipulò con il nuovo negus Menelik il trattato di Uccialli, che stabiliva il protettorato dell’Italia sull’Etiopia. Scalzato dal governo nel 1891, Crispi riannodò i fili della sua politica coloniale nel © Loescher Editore – Torino 282 1860 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 283 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo Suda n ang loegi zia no L’espansione coloniale italiana in Africa orientale Mar Rosso Dogali Massaua (1887) (1885) Asmara Eritrea Adua (colonia 1890) (1896) Macallè (1896) Assab (1882) Aden o di Amba Alagi (1895) Golf Somalia Alula Uccialli francese Harar Addis Abeba So ma l i a br i ta nni ca I M P E RO D I E T IOPIA (protettorato italiano 1889) Ob b ia (protettorato italiano 1889) S om ali a i tali ana Obbia (protettorato 1889, colonia 1905) Ug and a Mogadiscio (R.U.) Ke ny a (R.U.) Territori italiani prima del 1889 Territori italiani dopo il 1889 Battaglie principali Le fasi finali della battaglia di Adua, 1° marzo 1896. 1893, al ritorno alla carica di primo ministro, e diede nuovo vigore ai tentativi di penetrare in Etiopia. Menelik si oppose però a questa ambizione e si arrivò allo scontro: il 1° marzo 1896, gli etiopi sconfissero duramente gli italiani ad Adua e circa 7000 soldati persero la vita. Il disastro provocò manifestazioni di protesta contro la guerra in tutte le maggiori città italiane e Crispi dovette dimettersi dal governo. La sua carriera politica si chiuse allora, mentre i successori dovettero concludere la pace con l’Etiopia e puntellare i possedimenti eritrei e somali. Alla fine dell’Ottocento l’Italia aveva conquistato ampi territori sulle coste africane, ma era ben lontana dall’aver costruito un impero. La crisi di fine secolo e l’uccisione di Umberto I Nell’ultima decade dell’Ottocento, la vita pubblica italiana assunse ritmi concitati e spesso drammatici. Tra il principio del 1891 e la primavera del 1892 primo ministro fu Antonio di Rudinì, uomo della Destra. Egli prese il posto di Francesco Crispi, messo in minoranza dalle Camere sulla politica fiscale, resa sempre più pesante dalle necessità dell’avventura militare. Caduto anche il governo di Rudinì, tra il maggio 1892 e il dicembre 1893 la guida del governo andò a Giovanni Giolitti, della Sinistra. Egli sarebbe stato il principale protagonista della politica italiana nel primo quindicennio del Novecento, ma già allora poté praticare alcuni cardini del suo personale programma di governo. Era convinto per esempio che lo Stato non dovesse intervenire nelle lotte sociali, lasciando piuttosto alle parti il compito di arrivare a un accordo attraverso trattativa, e rifiutava dunque di impegnare la polizia o addirittura l’esercito per reprimere scioperi e manifestazioni operaie. Per questo Giolitti diede libero corso alle proteste dei Fasci dei lavoratori siciliani. Essi raccoglievano soprattutto contadini e braccianti, che si scagliavano contro la fiscalità oppressiva, l’incapacità a governare del notabilato locale e la grande proprietà fondiaria, chiedendo terre per i contadini e rapporti di lavoro più equi. Nonostante le pressioni dei ceti agrari, che esigevano a gran voce l’invio dell’esercito in Sicilia, Giolitti permise ai Fasci di manifestare. L’uomo politico piemontese perse però egualmente il potere, proprio mentre metteva a punto una riforma fiscale che avreb- be alleviato la pressione sui ceti più deboli per intensificarla sui redditi e i patrimoni più alti. Cadde per uno scandalo immobiliare, il cosiddetto «scandalo della Banca Romana» , nel quale erano coinvolti importanti uomini politici ed esponenti della finanza, e fu sostituito da Crispi, che tornò così al potere. Crispi riorganizzò allora il sistema creditizio varando una legge che istituiva la Banca d’Italia, cui furono conferiti ampi poteri di controllo sulle altre banche. Impose nuove tasse per finanziare l’avventura coloniale e affrontò l’avanzata del mondo operaio e contadino con eccezionali misure di sicurezza. Nel gennaio 1894, in Sicilia fu proclamato lo stato d’assedio e le agitazioni dei Fasci vennero represse dall’esercito. In luglio, il Parlamento limitò le libertà di stampa, di riunione e di associazione. In ottobre, il Partito socialista fu messo fuori legge. Tutte queste misure non valsero però a frenare la crescita delle organizzazioni dei lavoratori, ormai ben saldamente radicate nel paese. Dimessosi Crispi in seguito alla sconfitta di Adua, capo del governo fu ancora Rudinì, alla testa di un blocco politico conserva- I Fasci siciliani: «Palermo. Il processo De Felice e compagni. Gli imputati», prima pagina de «L’Illustrazione italiana», 29 aprile 1894. tore che vedeva nell’opposizione socialista un pericolo mortale per lo Stato. In effetti, in tutto il paese furono anni di fortissime tensioni sociali, che trovarono il culmine nella primavera del 1898, quando un forte aumento del prezzo del pane – dovuto al cattivo raccolto dell’anno precedente e alle mancate importazioni di grano dagli Stati Uniti – provocò scioperi, manifestazioni e tumulti sia nel Meridione che nelle città del Nord. Le proteste non avevano un carattere politico e a legarle era l’unico filo del malcontento popolare per il caro vita, ma il governo temette che scoppiasse una rivoluzione e non esitò a sospendere i diritti civili garantiti dallo Statuto Albertino. Furono arrestati molti esponenti socialisti e cattolici, chiusi diversi giornali e proibite le riunioni delle associazioni dei lavoratori. Lo stato d’assedio fu proclamato a Milano, a Napoli e in Toscana. E proprio a Milano, in maggio, l’esercito intervenne contro i manifestanti di strada. Il generale Bava Beccaris fece sparare sulla folla e i morti furono circa 100. A Il re Umberto I approvò la linea dura e autoritaria imposta dal governo, che però incontrava in Parlamento l’opposizione 1860 Giovanni Giolitti. Album p. 288 Tweet Storia p. 358 La cavalleria appiedata distrugge una barricata durante i moti del 1898 a Milano. © Loescher Editore – Torino 284 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris © Loescher Editore – Torino 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina 1914 285 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo L’assassinio di Umberto I in una illustrazione della «Domenica del Corriere». crescente dei deputati della Sinistra e ora anche di molti esponenti moderati. Questa fase politica convulsa, durante la quale la guida dell’esecutivo passò di mano più volte, ebbe un esito drammatico e imprevisto il 29 luglio 1900, quando il re fu assassinato da Gaetano Bresci, un anarchico che voleva così vendicare le vittime di Milano del 1898. In Parlamento furono presentati dei provvedimenti di legge che limitavano gravemente le libertà civili, ma il nuovo re Vittorio Emanuele III scelse di far calare la tensione e si proclamò fedele allo Statuto Albertino. L’Italia non cedette dunque alle tentazioni autoritarie e la sua vita istituzionale rimase inserita nel solco del liberalismo. Rimaneva però urgente trovare un equilibrio tra le diverse forze sociali e politiche. Fu questo il compito che negli anni successivi si assunse Giovanni Giolitti. Dapprima, dal febbraio 1901, come ministro degli Interni del governo guidato da Giuseppe Zanardelli, e poi, dal novembre 1903 e quasi ininterrottamente per un decennio, come primo ministro. 1861-1876 Governi della Destra storica 1861-1865 Esplosione e repressione del brigantaggio 1866 Terza guerra d’indipendenza: annessione del Veneto all’Italia 1870 Annessione di Roma all’Italia 1874 Non expedit : Pio IX proibisce ai cattolici la partecipazione politica 1876-1900 Governi della Sinistra storica I NODI DELLA STORIA Com’era la scuola italiana nel periodo post-unitario? La costruzione dell’identità nazionale, il celebre «fare gli italiani», poggiò sulla necessità di dare un’istruzione di base a una popolazione dove, nel periodo post-unitario, i tassi di analfabetismo erano altissimi. Il Piemonte sabaudo, con la promulgazione nel 1859 della legge Casati, si era dotato di una scuola statale. Il modello piemontese prevedeva una scuola elementare di quattro anni, divisa in un ciclo inferiore (frequentato dai bambini di sei e sette anni) e in un ciclo superiore (dagli otto ai nove). Al compiere dei dieci anni gli studenti si dividevano tra i pochi privilegiati destinati a frequentare i cinque anni del ginnasio seguiti dai tre del liceo (istruzione superiore classica), e quelli destinati alle scuole tecniche (al massimo sei anni di istruzione superiore e praticamente nessun accesso all’università). In realtà la maggior parte della popolazione, anche nel più evoluto Piemonte, non frequentava nessun tipo di istruzione superiore. In teoria la frequenza della scuola elementare era obbligatoria: in realtà non erano previste sanzioni per il mancato adempimento dell’obbligo e nessuna strategia fu attuata per favorire la frequenza scolastica. Con l’unità nazionale la legge Casati fu estesa a tutto il territorio nazionale. Nel 1877, sotto il governo della Sinistra di Depretis, fu varata la legge Coppino che prevedeva l’obbligatorietà 286 © Loescher Editore – Torino dell’istruzione elementare (con relative sanzioni in caso di inadempimento) almeno per il primo ciclo. Tuttavia, rimanendo sui Comuni e non sullo Stato centrale il peso dell’organizzazione e del finanziamento della stessa, la norma fu largamente disattesa. Non tutte le autonomie locali, infatti, erano in grado di sobbarcarsi il carico del mantenimento degli insegnanti e della costruzione di locali atti a ospitare le scolaresche. Questo fenomeno era particolarmente grave nelle regioni dell’Italia meridionale e nelle zone più povere del resto del paese. Sin dai tempi della legge Casati era stata prevista la costituzione di una scuola detta «normale» per la formazione degli insegnanti, articolata in soli quattro anni di corso. In seguito la scuola fu chiamata magistrale e dalle sue file uscirono quei maestri e quelle maestre elementari ai quali va il grande merito di avere contribuito all’alfabetizzazione della nazione. Mal pagati, ma dotati, generalmente, di una buona reputazione sociale, i maestri elementari divennero gli eroi civili di un grande processo di ammodernamento del paese, celebrati, magari un po’ retoricamente, in romanzi famosi come Il libro Cuore del torinese Edmondo De Amicis. Solo con l’età giolittiana, nel 1911, lo Stato avocò a sé il compito dell’istruzione elementare (legge Daneo-Credano) rendendo finalmente più diffuso il concetto di obbligo scolastico. 1882 L’Italia stringe la Triplice Alleanza con Germania e Austria 1892 Fondazione del Partito socialista italiano 1896 Truppe coloniali italiane sconfitte ad Adua 1898 Repressione delle proteste popolari a Milano 1900 Assassinio di Umberto I: Vittorio Emanuele III re d’Italia L’Italia dall’unità a Bava Beccaris 1 I primi governi affrontano gli enormi problemi di un paese arretrato. Fino al 1876 governa la Destra, mentre dal 1876 gli esecutivi sono in mano alla Sinistra. I governi post-unitari si impegnarono a risolvere gli enormi problemi che affliggevano il paese, economicamente e socialmente assai arretrato. Fu scelto un modello di Stato fortemente accentrato, che poca o nessuna autonomia lasciava agli enti territoriali periferici. Tra 1861 e 1876, la Destra attuò una politica assai moderata; dal 1876 i governi della Sinistra promossero invece idee più aperte e progressiste. Gli uni e gli altri, comunque, facenti capo alla borghesia media o alta e alla nobiltà, erano poco propensi a considerare con attenzione i bisogni degli strati più deboli della popolazione. Nell’ultimo ventennio del secolo, l’identità di interessi tra Destra e Sinistra fu praticamente totale e le politiche dei due partiti convergenti: era la cosiddetta pratica del «trasformismo». Ecco i principali provvedimenti presi dai governi del regno: si stabilì la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione elementare; monetazione, sistemi di misura e fisco vennero uniformati ovunque; si costruirono migliaia di chilometri di strade, ferrovie e linee telegrafiche; dagli anni Ottanta, il liberoscambismo fu abbandonato in favore del protezionismo, che consentì in breve tempo lo sviluppo di un apparato industriale di rango europeo; il bilancio dello Stato fu risanato e il diritto di voto allargato. Non sempre però l’azione dei governi fu efficace: ciò valse soprattutto per il Meridione, arretrato in ogni campo rispetto al resto d’Italia. Il malcontento del Sud venne represso con la forza: accadde negli anni Sessanta, al tempo del brigantaggio, e negli anni Novanta, all’epoca dei Fasci dei lavoratori siciliani. Le cause sociali dell’arretratezza meridionale non furono mai rimosse. Ciò indusse una imponente emigrazione oltreoceano e l’approfondirsi del divario tra Nord e Sud del paese. 2 Con la Terza guerra d’indipendenza viene conquistato il Veneto, mentre nel 1870 le truppe italiane annettono il Lazio e Roma. Tra 1866 e 1870 fu portata a termine la conquista della penisola. Nel 1866, nonostante le sconfitte subite da esercito e marina nella Terza guerra d’indipendenza, venne annesso il Veneto. Nel 1870 furono conquistati il Lazio e Roma, che divenne finalmente la nuova capitale del regno. Il papa Pio IX rifiutò di riconoscere il nuovo Stato e non legittimò la «legge delle guarentigie», che assicurava alla Chiesa il diritto di svolgere liberamente in Italia il proprio magistero spirituale. Il pontefice proibì anche ai cattolici di partecipare alla vita pubblica del regno. 3 Anche l’Italia, come le altre potenze europee, si lancia alla conquista di un impero coloniale, ma gli esiti sono disastrosi. Negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, l’Italia si affacciò alla ribalta internazionale con una propria politica di potenza. Nel 1882 aderì alla Triplice Alleanza, con Germania e Austria-Ungheria. Nel periodo successivo avviò la costruzione di un impero coloniale. Le truppe regie occuparono l’Eritrea e la Somalia, in Africa orientale, ma vennero duramente e ripetutamente battute mentre tentavano di penetrare in Etiopia: a Dogali, nel 1887, e ad Adua, nel 1896. La politica coloniale italiana rimase comunque in piedi. Avrebbe ripreso vigore col Novecento. 4 Alla fine del secolo la tensione sociale raggiunge il livello di guardia. Gli scontri di piazza di susseguono in tutto il paese e nel 1900 il re viene assassinato in un attentato. Gli anni Novanta furono per la politica italiana piuttosto convulsi. Il movimento operaio e contadino prese piede e trovò un punto d’unione nel Partito socialista, nato nel 1892. I governi videro nell’avanzata socialista una minaccia e proteste e scioperi dei lavoratori furono spesso soffocati brutalmente. La tensione culminò in occasione dei moti contro il caro vita del 1898: l’esercito sparò sulla folla, a Milano, causando numerose vittime, vendicate poi dall’attentato anarchico che nel 1900 costò la vita al re Umberto I. Vittorio Emanuele III, il nuovo sovrano, si proclamò fedele allo Statuto Albertino e la vita istituzionale italiana rimase inserita nel solco del liberalismo. © Loescher Editore – Torino 287 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo Sollevazioni contadine e urbane nell’Italia liberale Con il processo di unificazione compiuto tra 1860 e 1870, l’Italia era diventata uno Stato moderno e unitario di tipo liberale. Era governata da una classe dirigente di formazione europea occidentale, che guardava al Regno Unito, alla Francia e alla Germania. Tuttavia, a differenza di questi paesi, che incarnavano modelli di progresso sociale e politico, con importanti centri urbani e industriali, l’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo. Inoltre, le sue campagne erano caratterizzate da una fondamentale arretratezza economica, da radicate tradizioni religiose, non prive di superstizione, da forme endemiche di violenza, che tendevano a tradursi, in casi di crisi grave, in rivolte aperte e sanguinose. L’Italia dall’unità a Bava Beccaris Le rivolte urbane Numerosi furono gli altri episodi di rivolte contadine nell’Italia liberale, da Nord a Sud, come i moti per il macinato nel 1869 e i fasci siciliani nel 1893-1894. Nel frattempo, con la crescita delle città e con la nascita del Partito socialista nel 1892, le masse popolari urbane avevano cominciato a mostrare forti inquietudini, alimentate dalle difficili condizioni di vita e di lavoro. Una delle più importanti insurrezioni urbane si verificò nel 1898, a seguito del netto incremento del costo del grano, e dunque del prezzo del pane. In un quadro di agitazioni che coinvolse varie zone della penisola, le masse popolari di Milano si rivoltarono nel maggio del 1898. La repressione fu decisa e cruenta: i cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla, provocando un centinaio di morti tra i manifestanti. Fu questo uno dei momenti più tragici della cosiddetta «crisi di fine secolo», in cui le istituzioni liberali italiane attraversarono un grave momento di instabilità, correndo il rischio di una svolta autoritaria e antiparlamentare. E. Longoni, L’oratore dello sciopero, 1891, Pisa, collezione privata. Il brigantaggio Il caso più clamoroso – nell’Italia post-risorgimentale – fu quel fenomeno che la storiografia usualmente definisce il «brigantaggio». Con questa formula riduttiva, si faceva riferimento in realtà a un’amplissima rivolta sociale che divampò in larga parte delle campagne corrispondenti al Regno delle Due Sicilie tra 1861 e 1865. I briganti erano veri e propri guerrieri contadini, che imperversarono tra Molise, Campania, Puglia e Basilicata. Il più famoso fu Carmine Crocco, originario di Rio Nero in Vulture (Basilicata), che riuscì a radunare e comandare circa 2000 briganti. Briganti catturati presso Salerno nel giugno 1865. Il brigante Francesco Fasella dopo l’arresto, 1863. G. Fattori, Episodio della campagna contro il brigantaggio nel 1863, 1864. 288 © Loescher Editore – Torino La reazione dello Stato al brigantaggio Una delle ragioni fondamentali dell’insurrezione rurale fu il rifiuto della coscrizione obbligatoria nell’esercito sabaudo, diventato dal 1861 esercito italiano: si trattava di un segno della più generale riluttanza ad accettare l’unificazione statale nazionale. Nelle zone dove imperversava il brigantaggio fu perciò necessario un intervento massiccio dell’esercito, che raggiunse le 120.000 unità. Nel 1863, furono proclamate le «leggi Pica», con cui si autorizzava la repressione delle insorgenze contadine. Ben lungi dall’essere una semplice operazione di polizia, l’intervento militare scatenò una vera e propria guerra civile, che provocò non meno di 5000 morti e che aprì una profonda frattura tra alcune regioni meridionali e il nuovo Stato. I bersaglieri occupano una barricata in via della Moscova: fotografia del 1898. A. Beltrame, I tumulti del 7 maggio 1898 a Milano. © Loescher Editore – Torino 289 4 11 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo Ragiona sul tempo e sullo spazio Impara il significato 1 4 ATTIVITÀ 2 Osserva la cartina a p. 280 e rispondi alle domande: quali sono le regioni maggiormente industrializzate della penisola? Quali sono i tre settori più sviluppati e come sono distribuiti sul territorio italiano? 1 Nel 2 Nel 3 Il 13 maggio pontificio 4 Nel 5 Nel 6 Nel 7 Nel 8 Nel 9 Nel 10 Nel moderno 11 Nel 12 Nel pubblica il re Umberto primo è assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci Garibaldi è sconfitto a Mentana dalle truppe francesi viene emanata la «legge delle guarentigie» che regola i rapporti tra Regno d’Italia e Stato Torino firma con la Francia la Convenzione di Settembre la Prussia si allea con l’Italia e dichiara guerra all’Austria; ha inizio la Terza guerra d’indipendenza la capitale è trasferita da Firenze a Roma il ministro delle Finanze dichiara il raggiungimento del pareggio di bilancio Umberto I diviene re d’Italia il trattato di Uccialli stabilisce il protettorato dell’Italia sull’Etiopia Pio IX emana il Syllabus Errorum, documento che condanna il liberalismo e le acquisizioni del pensiero la legge Coppino attua una riforma dell’istruzione elementare Pio IX emana il «non expedit», con cui proibisce formalmente ai cattolici la partecipazione alla vita Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nei primi decenni successivi all’unità d’Italia. 1 2 3 4 5 6 7 8 Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento, poi distingui con due colori diversi gli eventi che accadono durante il governo della Destra storica e quelli che si verificano negli anni della Sinistra storica. 5 L’Italia dall’unità a Bava Beccaris Rischio d’impresa Notabilato Coscrizione obbligatoria Regioni irredente Ordini religiosi contemplativi Guarentigia Prodotti calmierati Pareggio di bilancio Prova a riflettere sul significato di «emigrazione» e, alla luce di quello che hai letto nel capitolo, spiega analogie e differenze con il fenomeno dell’emigrazione dei giorni nostri. Osserva, rifletti e rispondi alle domande 6 Osserva la mappa concettuale relativa all’Italia unita. Poi rispondi alle domande. Le condizioni dell’Italia unita Esplora il macrotema 3 Completa il testo. Il Regno d’Italia nasce sotto il segno dell’egemonia della monarchia sabauda che porta al superamento della tradizionale frammentazione politica della penisola italiana. I deputati che siedono in (1) nei primi decenni dopo l’unità sono divisi, salvo poche eccezioni, in due grandi gruppi: la Destra e la Sinistra, dette «(2) » per distinguerle dai successivi partiti di destra e di sinistra che avranno caratteristiche diverse. La Destra rappresenta gli interessi della nobiltà terriera e della borghesia più (3) e ha come obiettivo principale quello di costruire un’Italia forte e saldamente guidata dalla (4) sabauda; conduce una politica moderata e non comprende i clericali e i conservatori più tradizionalisti, che rimangono fuori dal Parlamento. La Sinistra, invece, è sostenuta dalla media (5) e si distingue dalla Destra perché è più attenta alle esigenze delle classi più povere, le quali, escluse dal diritto di (6) e prive di una propria rappresentanza alle Camere, guardano alla Sinistra per la protezione dei propri interessi. Tale schieramento aspira a una politica progressista e mira a introdurre alcune (7) già presenti nel programma dei democratici risorgimentali, quali l’allargamento del diritto di (8) , la diffusione dell’istruzione, la modernizzazione dell’Italia attraverso l’industrializzazione, la maggiore autonomia delle regioni e delle città dal potere centrale. Le fila della Sinistra non comprendono i mazziniani e i garibaldini più intransigenti che, essendo repubblicani, non vogliono sedere nel Parlamento monarchico. Negli anni successivi all’unità il governo è affidato a uomini della Destra, che sono la maggioranza nella (9) dei Deputati. Tuttavia entrambi gli schieramenti rappresentano una base sociale assai limitata, che esclude le classi più povere della nazione; anche il successivo governo della Sinistra storica, infatti, nonostante la parziale riforma elettorale e alcune misure di stampo progressista, stempera il suo programma democratico e si fa portavoce degli interessi della borghesia italiana, attuando il protezionismo e avviando l’espansione coloniale in (10) . 290 © Loescher Editore – Torino 1 Qual è la situazione economica? 2 Quali fattori generano il brigantaggio? 3 Per quale motivo è difficile estendere le strutture statuali piemontesi all’intero regno? Mostra quello che sai 7 Osserva l’immagine a p. 280 e descrivi i soggetti raffigurati. Qual è il valore simbolico di questa foto? © Loescher Editore – Torino 291