L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
11.1 1861-1876: i governi
54%
della Destra
Veneto
54%
Un paese da costruire
54%
78%
74%
83%
84%
Stato della
Chiesa 68%
86%
86%
86%
86%
90%
86%
89%
L’analfabetismo in Italia nel 1861
Il 1861 fu l’anno di nascita del regno d’Italia:
la penisola tornava uno Stato unitario e autonomo dopo molti secoli e il Risorgimento sembrava aver raggiunto i suoi obiettivi.
Alla guida del nuovo Stato c’erano i Savoia,
fino ad allora sovrani del regno di Sardegna,
che applicarono a tutto il paese lo Statuto
Albertino, e organizzarono la macchina statale secondo un modello fortemente centralistico. Ogni proposta volta a concedere
autonomie alle regioni o addirittura a concepire una formazione statale federata fu
accantonata: Torino controllò attraverso la
propria burocrazia e i propri funzionari tutti i territori periferici. In generale, l’Italia era
uno Stato fondamentalmente arretrato che
doveva affrontare gravissimi problemi:
• molti italiani, che fino ad allora avevano
avuto propri sovrani, tradizioni, leggi e
consuetudini, si sentivano quasi sottomessi alla dominazione di una potenza
straniera. Questo sentimento era particolarmente diffuso nel Meridione, dove la
capitale Torino era vissuta come immensamente lontana e la «piemontesizzazione» del paese era mal tollerata;
• la maggior parte dei cittadini non parlava l’italiano, poiché nelle diverse regioni
d’Italia si usavano i dialetti locali. Inoltre
il numero di coloro che sapevano leggere
e scrivere era molto ridotto: gli analfabeti erano il 78% della popolazione, con
punte di analfabetismo oltre l’85% nelle
regioni meridionali;
Gruppo di ragazzi appoggiati alle mura del Duomo di Milano, 1890 circa.
• la partecipazione politica dei cittadini
era molto ridotta. Il diritto di voto era garantito solo ai maschi che avevano compiuto 25 anni, sapevano leggere e scrivere e avevano il reddito necessario per
pagare almeno 40 lire di tasse all’anno.
Popolani di Napoli, 1883.
Quindi, nel 1861 gli elettori furono poco
più di 400.000, corrispondenti ad appena
il 2% della popolazione del nuovo Regno
d’Italia, che contava circa 22 milioni di
abitanti;
• Napoli, con circa 450.000 abitanti, era la
città più grande. Torino, Palermo, Milano e Roma avevano intorno ai 200.000
abitanti e molti altri centri urbani erano piuttosto popolosi, ma in nessuna di
queste città si trovavano attività produttive davvero rilevanti. L’80% della popolazione viveva nelle campagne e le scarse
condizioni igienico-sanitarie determinavano una vasta diffusione di malattie
infettive come il tifo e il colera, malattie da malnutrizione come la pellagra, e
la malaria, che colpiva gli abitanti delle
zone paludose; D15
• le fortissime differenze economiche e sociali tra Nord e Sud del paese ebbero ricadute d’ordine pubblico drammatiche,
esplodendo nel fenomeno del brigantaggio. Ma nel 1861 pochi italiani (e quasi
nessun uomo di governo) erano davvero
consapevoli delle condizioni di arretratezza del meridione: scarsissima se non
inesistente era infatti la conoscenza reciproca tra popolazioni regionali;
• l’unificazione del paese, da ultimo, era
stata realizzata per volontà e iniziativa di
una parte molto limitata della sua popolazione: la borghesia più aperta e desiderosa di progresso. Le classi più povere e
numerose erano rimaste escluse da tale
processo, non se ne erano sentite partecipi e non si identificavano adesso nelle
nuove istituzioni e nella nuova patria.
Contadini toscani durante la semina.
Non si deve dimenticare poi che l’unificazione dell’Italia era incompleta: mancavano
il Veneto, il Trentino e la Venezia Giulia, ancora sotto controllo dell’Austria, e il Lazio,
ancora governato dai papi.
Sia sul piano interno sia sul piano esterno
ai nuovi governi del regno spettava quindi
un lavoro imponente e dagli esiti incerti.
L’arretratezza dell’economia
L’Italia del 1861 era dunque un paese economicamente arretrato. Ovunque l’economia
era ancora basata principalmente sull’agricoltura, che impegnava il 70% della popolazione attiva e produceva circa il 60% della
ricchezza nazionale.
Ma questo settore era più progredito nelle regioni centro-settentrionali: qui, infatti,
non mancavano aziende agricole moderne,
che abbinavano coltivazioni e allevamento con criteri intensivi. I grandi proprietari
sfruttavano meglio i loro fondi, investendo
capitali in nuove colture o tecniche produttive, e si servivano del lavoro di salariati.
Le piccole aziende a conduzione familiare
erano in mano ai tanti contadini proprietari
delle terre che coltivavano, ed era molto diffusa, soprattutto nelle regioni del Centro, la
mezzadria.
Al Sud, invece, i possedimenti dei grandi latifondisti erano talmente grandi che
anche una scarsa resa dei terreni o dell’allevamento consentiva loro una vita lussuosa. In nessun modo erano quindi propensi
all’investimento. Le coltivazioni estensive
dei cereali coprivano l’orizzonte a perdita
d’occhio e i contadini si trovavano in condizioni di miseria. Denutriti e quindi spesso
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1860
Dossier 15 p. 356
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
malati, costretti ad accalcarsi in abitazioni
malsane, apparivano legati ai padroni da
rapporti sociali oppressivi e di stampo ancora feudale.
Nel complesso l’agricoltura italiana soffriva di rese bassissime, che richiedevano
peraltro l’applicazione di numerosa manodopera, e non soddisfaceva il fabbisogno
del paese. L’Italia rimaneva dunque un importatore di beni alimentari, a partire dal
grano. Tanto meno le campagne svolgevano
il ruolo di accumulatrici dei capitali necessari agli investimenti industriali.
L’industria contava sul 18% del totale
degli occupati ed era gravemente in ritardo
rispetto a quella degli Stati europei più evoluti. Mancavano l’alta borghesia imprenditoriale, le banche capaci di fornire investimenti adeguati e le società assicurative in
grado di coprire i rischi d’impresa, le materie prime fondamentali come il carbone e il
ferro, le infrastrutture necessarie ai traffici
industriali. Degli appena 2700 chilometri di
ferrovia, la gran parte si trovava in Piemonte
e Lombardia e meno di un decimo attraversava l’ex Regno delle Due Sicilie. Mancavano strade, ponti e porti commerciali. D12
Il terziario contava appena sul 12% dei
lavoratori italiani e assieme all’industria,
contribuiva per appena il 20% alla ricchezza
complessiva del paese.
Destra e Sinistra «storiche»
Dossier 12 p. 350
Cavour morì il 6 giugno 1861 ma i suoi successori non si discostarono dalla sua linea
politica: rispetto e applicazione dello Statuto Albertino, liberalismo in Parlamento e
liberismo in economia, laicità e separazione
tra Stato e Chiesa.
I deputati che sedevano in Parlamento
nei primi decenni dopo l’unità erano divisi,
salvo poche eccezioni, in due grandi gruppi:
la Destra e la Sinistra, dette «storiche» per
distinguerle dai successivi partiti di destra
e di sinistra, che avranno caratteristiche diverse.
La Destra rappresentava gli interessi della
nobiltà terriera e della borghesia più ricca,
e aveva come obiettivo principale quello di
costruire un’Italia forte e saldamente guidata dalla monarchia sabauda. Conduceva una
politica moderata e i suoi uomini di punta
erano i piemontesi Alfonso La Marmora e
Quintino Sella, l’emiliano Marco Minghetti,
Marco Minghetti.
il lombardo Stefano Jacini e il toscano Bettino Ricasoli. Non appartenevano a questo
schieramento i clericali e i conservatori più
tradizionalisti, rimasti fuori dal Parlamento.
La Sinistra era sostenuta invece dalla media borghesia e si distingueva dalla Destra
perché era più attenta alle esigenze delle
classi più povere, le quali, escluse dal diritto
di voto e prive di una propria rappresentanza alle Camere, guardavano inevitabilmente, per la protezione dei propri interessi,
alla Sinistra. Gli uomini di spicco di questo
schieramento erano i lombardi Agostino
Depretis e Benedetto Cairoli, e il siciliano
Francesco Crispi. La Sinistra aspirava a una
politica progressista e mirava a introdurre
alcune riforme che avevano già fatto parte
del programma dei democratici risorgimentali: l’allargamento del diritto di voto, la diffusione dell’istruzione, la modernizzazione
dell’Italia attraverso l’industrializzazione,
la maggiore autonomia delle regioni e delle
città dal potere centrale. Le fila della Sinistra
non comprendevano i mazziniani e garibaldini più intransigenti che, in quanto repubblicani, non volevano sedere nel Parlamento monarchico.
Negli anni subito successivi all’unità il
governo fu affidato a uomini della Destra,
che erano la maggioranza nella Camera dei
Deputati, ma non bisogna dimenticare che,
nel complesso, tanto gli esponenti della Destra quanto quelli della Sinistra rappresentavano una base sociale assai limitata. Nella
prima Camera dei Deputati sedevano infatti
nobili, avvocati, medici, ingegneri, banchieri, ufficiali dell’esercito, docenti, scrittori,
commercianti e industriali. Era naturale
quindi che il primo Parlamento dell’Italia
unita prestasse poca attenzione ai problemi
e alle esigenze delle classi più povere della
nazione.
Il diritto di voto era inoltre tanto ristretto che l’intero gioco politico si imperniava
sul notabilato locale, sulle sue conoscenze
e sulla sua capacità di influenzare, spesso
in cambio della promessa di favori e vantaggi materiali, l’opinione dei votanti. Non
vincevano dunque partiti e programmi, ma
personalità. Lo stesso potere centrale, attraverso l’azione dei prefetti e della polizia, era
in grado di orientare il voto sui candidati più
graditi, semplicemente ostacolando o addirittura vietando l’attività degli uomini politici meno vicini al governo.
Il brigantaggio
Il primo obiettivo che si assunsero i governi
della Destra fu quello di imporre su tutto il
territorio nazionale le stesse leggi e l’autorità dello Stato. Doveva in ogni modo essere
salvaguardata l’unità appena raggiunta e
– come accennato – non sembrava esserci
spazio per la concessione di autonomie alle
comunità locali. L’estensione a tutto il regno
degli ordinamenti piemontesi comportò
dunque che a capo dei comuni si ponessero
i sindaci e a capo delle province i prefetti,
rispettivamente di nomina regia e governativa. A questi funzionari spettava interpretare le esigenze dello Stato accentrato ed
eseguirne gli ordini.
L’applicazione di tale tendenza centralistica appariva agli uomini di governo estremamente urgente, data la situazione creatasi
nel Sud della penisola negli anni immediatamente seguenti alle annessioni. Qui vivevano grandi masse di contadini poveri che
avevano nutrito forti speranze nella nascita
dell’Italia. Desideravano, infatti, l’introduzione di una profonda riforma agraria, basata sulla distribuzione delle terre a chi le
lavorava. Tuttavia, i nuovi esecutivi non solo
ignorarono queste richieste, ma imposero
nuove tasse, introdussero il servizio militare obbligatorio (che all’epoca durava ben
cinque anni) e nominarono amministratori
locali di proprio gradimento. Anche le terre
demaniali, concesse fino a quel momento
agli usi dei villaggi, vennero incamerate dai
comuni, sottraendo agli abitanti una fondamentale risorsa di sopravvivenza.
Il malcontento popolare crebbe fino a
sfociare tra 1861 e 1865 in aperta ribellione.
Si formarono gruppi armati che contavano
centinaia di volontari e radunavano delinquenti veri e propri, contadini in rivolta ed ex
militari di Napoli. Queste bande spontanee,
composte secondo il governo da «briganti»,
attaccavano i funzionari dello Stato incaricati di riscuotere le tasse o di arruolare soldati,
occupavano le terre dei grandi proprietari,
assalivano i borghi rurali incendiando gli
archivi comunali e uccidendo i notabili più
in vista. Il clero più retrivo e quanti volevano un ritorno dei Borboni – la cui corte si era
rifugiata a Roma, presso il papa – cercavano
d’altra parte di sfruttare a loro vantaggio lo
scontento del popolo, fornendo armi e sostegno economico alle rivolte.
Per soffocare il «brigantaggio», che metteva in pericolo la stessa unità nazionale, il go-
Uno scontro fra briganti e soldati presso Isernia.
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1860
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
verno inviò nelle regioni meridionali l’esercito: oltre 100.000 soldati riuscirono, con anni
di combattimenti, a soffocare brutalmente
ogni ribellione; i briganti catturati vennero
condannati alla fucilazione e i morti, tra le
file dei rivoltosi, furono almeno 5000.
L’autorità dello Stato dunque si impose,
ma venne scavato un solco tra le popolazioni meridionali e i governanti d’Italia, i quali
non agirono in alcun modo per alleviare la
miseria del Meridione e per ridurre il divario
che già lo separava, a tutto suo svantaggio,
dal Settentrione del paese. A
Incentivi all’economia
e pareggio di bilancio
Album p. 288
Il brigantaggio rappresentò dunque un problema di ordine pubblico da affrontare subito e con decisione. Altrettanto urgente era
il rinnovamento dell’economia italiana, da
favorire con misure più complesse e destinate spesso a non dare risultati immediati.
I governi della Destra vararono prima di
tutto alcuni interventi di base. I sistemi fiscali e monetari dei diversi regni preunitari
furono sostituiti da quelli sabaudi. I dazi doganali tra le vecchie frontiere interne vennero abbattuti e il liberismo imposto a tutti i
mercati della penisola. Contestualmente,
trattati commerciali di libero scambio furono stipulati con tutti i maggiori paesi europei ed extra europei. Furono anche messi
in cantiere migliaia di chilometri di strade e
ferrovie, allo scopo di stimolare nel più breve tempo possibile gli scambi commerciali.
Aiutata da questi provvedimenti, la produzione agricola crebbe moderatamente,
così come l’esportazione dei prodotti delle
campagne. Le colture specializzate del Meridione, in particolare, fornivano olio, vino
e agrumi che viaggiavano verso i mercati
francese, inglese e poi anche statunitense.
Tuttavia rimase cronica la mancanza di investimenti in nuovi prodotti e tecniche di
coltivazione.
Peggiore fu l’esito degli sforzi nel settore
industriale. Anzi, la scelta liberista mise in
grave difficoltà le poche fabbriche dell’Italia centro-meridionale, che avevano goduto fino a quel momento del protezionismo
papale e borbonico, e che adesso non erano
in grado di concorrere con le industrie del
Nord. Più in generale, le industrie italiane
uscivano perdenti dal confronto compe-
titivo con le produzioni di paesi molto più
sviluppati. Metallurgico, tessile e meccanico
non diedero i risultati sperati, rimanendo a
uno stadio di sviluppo embrionale, e una
vera e radicata industrializzazione dell’Italia
sarebbe giunta solo nell’ultima fase del secolo. A prevalere per il momento era ancora
la piccola manifattura artigiana o addirittura l’industria a domicilio, particolarmente diffusa nelle campagne: due tipi di produzione che non potevano evidentemente
supportare gli investimenti su larga scala
necessari agli impianti industriali.
Altro problema di capitale importanza riguardava le finanze del regno. Lo sforzo per
sostenere le guerre necessarie al raggiungimento dell’unità nazionale aveva svuotato le casse dello Stato, gravate anche dalla
pesante eredità dei bilanci in passivo dei
regni appena annessi. Le spese stesse erano
cresciute a dismisura dopo il 1861, perché
Torino aveva dovuto finanziare lo sviluppo
di tutti i settori pubblici della vita del paese,
con l’apertura di scuole, la costruzione di
vie di comunicazione, l’estensione dell’amministrazione periferica, l’allargamento e
il potenziamento dell’esercito, per il quale
fu introdotta la coscrizione obbligatoria. Il
governo italiano aveva urgente bisogno di
risanare le finanze pubbliche e gli esecutivi che si succedettero nei quindici anni tra
1861 e 1876 si posero l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio.
Per questo motivo le spese furono contenute il più possibile, mentre la pressione fiscale fu inasprita e vennero introdotte
sempre nuove tasse. Le più appariscenti e
impopolari erano le imposte indirette sui
beni di consumo: sugli alcolici, sul sale, sul
tabacco. Nel 1868 fu introdotta anche la
«tassa sul macinato», che ogni contadino
doveva pagare in base alla quantità di grano
che portava a macinare al mulino. Essa faceva aumentare il prezzo della farina e quindi del pane, e provocò proteste accesissime
in tutto il paese, con vere e proprie ribellioni, soprattutto nelle campagne. Ancora una
volta intervenne l’esercito e le proteste furono represse con la forza.
Nel complesso, la durezza del fisco sabaudo si tradusse in un peggioramento delle condizioni di vita degli italiani e sottrasse
preziose risorse agli investimenti privati per
la crescita economica. Tali difficoltà furono
solo in parte compensate dal raggiungi-
mento dell’agognato pareggio di bilancio,
dichiarato dal ministro delle Finanze nel
1875, e la stessa Destra pagò la scarsa crescita economica del paese con un notevole
calo dei consensi elettorali. Nel 1876 fu la Sinistra a dare all’Italia il primo ministro.
La Terza guerra
d’indipendenza
Il principale problema di politica estera affrontato dai governi della Destra fu quello
del completamento dell’unificazione della penisola. Il Veneto era infatti ancora in
mano all’Austria, insieme al Trentino e alla
Venezia Giulia, mentre Roma, capitale storica d’Italia, era il cuore dello Stato pontificio,
ormai ridotto al solo Lazio. Incandescente
era anche il dibattito politico tra la Destra,
che voleva ottenere questi territori attraverso l’azione diplomatica, e la Sinistra,
favorevole invece alla ripresa dell’azione
militare nel solco dell’impeto garibaldino
risorgimentale e dei plebisciti popolari.
Per quanto riguarda il Nord-est della penisola, furono gli avvenimenti internazionali
a dare al governo di Torino l’occasione tanto
attesa e un nuovo forte alleato europeo: nella primavera 1866, infatti, la Prussia si alleò
con l’Italia e dichiarò guerra all’Austria, che
sarebbe così stata impegnata su due fronti:
a nord contro i prussiani (che sconfiggevano gli Asburgo a Sadowa), a sud contro i sabaudi, in quella che divenne la Terza guerra
d’indipendenza.
La guerra si concluse favorevolmente
per via diplomatica: la pace imposta agli
austriaci dai tedeschi prevedeva infatti tra
l’altro la cessione all’Italia del Veneto. Militarmente, al contrario, il conflitto si risolse
in un disastro. L’esercito italiano fu sconfitto
a Custoza, in territorio veneto, il 24 giugno.
Comandato dal generale La Marmora, venne attaccato dagli austriaci e costretto a indietreggiare, ritirandosi poi senza aver davvero dato battaglia. La flotta regia fu messa
in acqua sotto la guida dell’ammiraglio Carlo Persano per compensare con una vittoria
l’esito di Custoza, ma fu battuta nelle acque
dell’isola di Lissa, nel Mare Adriatico, il 20
luglio, nonostante fosse superiore agli avversari per armamenti e tonnellaggio. Solo
Garibaldi, alla testa di un nutrito corpo di
volontari, prevalse sugli austriaci a Bezzecca, in Trentino, il 21 luglio.
F. Zennaro, Battaglia di Bezzecca, 1866, Milano, Museo del Risorgimento.
L’unione del Veneto al Regno d’Italia fu
sancita da un plebiscito popolare il 31 ottobre 1866, con una maggioranza schiacciante
di favorevoli all’annessione, ma l’importante guadagno territoriale, ottenuto per merito esclusivo della Prussia, non alleviò l’umiliazione per la sconfitta patita sul campo, di
cui vennero ritenute responsabili l’incapacità degli alti comandi e la scarsa coesione
delle neonate forze armate nazionali. Rimasero inoltre in mano austriaca la Venezia
Giulia e il Trentino e tale sarebbe rimasta
la situazione per i cinquant’anni seguenti,
tanto che la conquista di quelle regioni irredente abitate da italiani rappresentò uno
dei motivi della partecipazione del nostro
paese alla Prima guerra mondiale, nel 1915.
1860
regioni irredente:
territori sottoposti a
dominazione straniera
e che si volevano
ricongiungere con
la madrepatria. In queste
regioni si sviluppò in
seguito il movimento
degli irredentisti.
La Terza guerra d’indipendenza (1866)
Vezza d’Oglio
Bezzecca
R E G NO A U STRO- U N G A R I CO
Levico
Vicenza
Custoza
Padova
Cormons
Garibaldi
Venezia
Esercito italiano
Esercito austriaco
Pola
Bologna
R E G NO D ’ I TA LI A
M ar A d r i a ti c o
Firenze
Ancona
Lissa
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L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
La conquista di Roma
Altrettanto complesso appariva il problema
dell’annessione di Roma. Nessun uomo politico né l’opinione pubblica dubitava che
Roma dovesse diventare la capitale dello
Stato italiano, tanto che già nella primavera
del 1861 il Parlamento di Torino l’aveva proclamata futura capitale del Regno d’Italia. Lo
stesso Cavour, che si ispirava nella sua azione di governo al principio «libera Chiesa in
libero Stato», aveva condotto con il Vaticano
trattative segrete per cercare una soluzione
alla «questione romana». [Testimonianze 
documento 5, p. 320] Senza esito, però, da un
lato per l’opposizione netta di Pio IX a qualsiasi cessione di sovranità, dall’altro per la
tutela offerta alla Santa Sede da Napoleone
III: l’imperatore francese, pressato dai cattolici del suo paese, si era reso infatti garante dell’indipendenza dello Stato pontificio.
Proprio la consapevolezza della posizione di Parigi e il timore di un intervento francese portarono nel 1862 allo scontro tra il
governo e Garibaldi. Il comandante si era
recato in Sicilia ed era poi passato in Calabria nel tentativo di lanciare una spedizione
contro Roma. Le truppe regie lo fermarono
sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862, con un
duro scontro a fuoco.
Il problema rimaneva però in tutto il suo
peso e un passo avanti fu fatto solo nel settembre 1864, quando Torino firmò con la
Francia la Convenzione di Settembre. Il governo italiano, guidato dal primo ministro
Marco Minghetti, si impegnò a rispettare i
confini dello Stato della Chiesa e in cambio
l’imperatore ritirò le sue truppe da Roma e
dal Lazio. Nel contempo, la capitale italiana
fu trasferita da Torino a Firenze, a garanzia
che le mire sabaude su Roma erano sfumate.
In molte città della penisola si svolsero proteste popolari per quella che sembrava una
rinuncia definitiva alla conquista dell’Urbe,
ma la Convenzione di Settembre assicurava
un importante risultato: l’allontanamento
dei francesi dal teatro d’operazioni italiano. Essa non escludeva inoltre che fosse lo
stesso popolo romano a voler mutare le sue
sorti e a chiedere l’annessione.
Nell’autunno 1867, un gruppo di garibaldini cercò di fomentare la ribellione popolare in città. Il tentativo fallì per l’indifferenza
e il mancato sostegno degli abitanti della
capitale pontificia. Lo stesso Garibaldi, penetrato nel Lazio, batté le truppe pontificie a
Monterotondo il 25 ottobre, ma fu sconfitto a
Mentana da truppe francesi appena sbarcate a Civitavecchia. Napoleone III aveva mandato infatti in soccorso del papa ben 20.000
uomini, assai meglio armati dei garibaldini,
che furono costretti a ritirarsi in Toscana.
In quegli anni le relazioni tra il Regno
d’Italia e lo Stato pontificio toccarono il
punto più basso. Nel 1866 e 1867 furono
emanate le leggi che sancivano la soppressione degli ordini religiosi contemplativi e
il passaggio all’Italia dei loro beni. Contestualmente, Firenze riconobbe validità unicamente al matrimonio civile.
Fu tuttavia un nuovo cambiamento della situazione internazionale a permettere
infine al Regno d’Italia di impadronirsi di
Roma. Nell’estate del 1870, la Prussia entrò
in guerra con la Francia e sconfisse Napoleone III a Sedan. L’imperatore francese perse il regno e venne così a mancare l’unico
vero garante dell’indipendenza papale: Pio
IX era infatti diplomaticamente isolato in
Europa e ogni sua richiesta d’aiuto rimase
inascoltata. Approfittando dell’occasione
irripetibile, il Regno d’Italia rigettò la Convenzione di Settembre e le truppe di Vittorio
Emanuele II entrarono nel Lazio: il 20 settembre 1870 aprirono con l’artiglieria una
breccia nelle mura di Roma presso Porta
Pia. L’occupazione di Roma si svolse senza
scontri o incidenti di rilievo e il 2 ottobre un
plebiscito popolare sancì con maggioranza schiacciante l’unione di Roma stessa e
del Lazio al Regno d’Italia. Si chiudeva così
la storia dello Stato pontificio e del potere
temporale dei papi.
Pio IX non accettò però la situazione: si
rifiutò di riconoscere l’autorità dello Stato
italiano e si considerò prigioniero nei suoi
palazzi, negandosi a qualsiasi trattativa o
accordo. Per questo la cosiddetta «legge
delle guarentigie» del 13 maggio 1871, emanata dal Parlamento poco prima che la capitale d’Italia fosse trasferita a Roma, fu un
atto unilaterale del regno. Con essa il papa
fu riconosciuto capo di Stato; gli fu concesso di governare sui palazzi del Vaticano e del
Laterano, che godettero di extraterritoriali-
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
tà, e poté godere di consistenti emolumenti annui per il mantenimento della curia e
dell’amministrazione pontificia; ebbe un
suo corpo armato di difesa, la possibilità
di nominare suoi ambasciatori nel mondo,
il diritto di istituire un servizio postale e telegrafico indipendente. Alla Chiesa venne
inoltre riconosciuto il diritto di organizzarsi
e di esercitare senza restrizioni il suo magistero spirituale in Italia, in linea con quanto
previsto già anni prima da Cavour.
Pio IX però non legittimò la «legge delle
guarentigie» e nel 1874 emanò il «non expedit», con cui proibiva formalmente ai cattolici italiani di partecipare alla vita pubblica
nazionale. Il divieto, per quanto doloroso,
fu osservato dai fedeli e causò una profonda
ferita nel tessuto del paese, perché rendeva
palese l’inimicizia tra le sue anime laica e
religiosa. D’altro canto, il pontefice era convinto che l’affievolirsi nelle società di tutta
Europa dello spirito religioso fosse causato
proprio dall’avanzata dell’ideologia liberale; non a caso, nel 1864, aveva emanato il
Syllabus Errorum, vale a dire la «Raccolta di
errori» del tempo moderno. Tra essi secondo Pio IX rientravano anche il liberalismo
e le libertà civile da esso propugnate, come
quelle d’opinione, religiosa e di stampa. Il
conflitto tra Pio IX e lo Stato italiano non era
dunque altro che un aspetto della più generale battaglia portata avanti dalla Chiesa per
conservare a se stessa e al cattolicesimo un
ruolo centrale nella società moderna.
La breccia di Porta Pia veduta da villa Patrizi, 1870.
La presa di Roma (1870)
e
Te v
re
Monterotondo
Mentana
Mar Tirreno
Roma
Garibaldi
Esercito italiano
Esercito francese
Giuseppe Garibaldi con il piede destro ferito in Aspromonte, 1862.
C. Ademollo, La breccia di Porta Pia, 1880 circa,
Milano, Museo del Risorgimento.
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
11.2 1876-1900: i governi
della Sinistra
1876: la Sinistra assume
il governo dell’Italia
Negli anni successivi al 1861, la Destra aveva guidato l’Italia al raggiungimento di tre
obiettivi: il rafforzamento e l’accentramento
del regno, l’arricchimento delle casse dello
Stato e la conquista del Veneto e di Roma.
A metà degli anni Settanta la Destra appariva però divisa e logorata dall’azione di
governo, mentre la Sinistra aveva in buona
parte rinnovato il suo schieramento e si era
spostata su posizioni politiche più moderate di quelle iniziali. Poteva così aspirare
a raccogliere il consenso di fasce più vaste
della borghesia italiana, in costante espansione, senza per questo perdere l’appoggio
dei ceti popolari.
Nel marzo 1876 l’esecutivo della Destra
venne battuto in Parlamento durante l’esame di un disegno di legge che prevedeva il
trasferimento del controllo delle ferrovie
dalle compagnie private, che le avevano
avute in gestione fino a quel momento, allo
Stato. Il primo ministro Marco Minghetti si
dimise e Vittorio Emanuele II affidò l’incarico di formare un nuovo governo ad Agostino
Depretis, uomo della Sinistra. Nel novembre di quello stesso anno le elezioni politiche consolidarono la svolta, dando alla Sinistra una forte maggioranza parlamentare, e
segnalarono al ceto dirigente il desiderio di
cambiamento proveniente dal paese.
Appariva necessario dedicare più sforzi
allo sviluppo industriale, migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ampliare il diritto di voto dei cittadini, combattere l’analfabetismo e istruire i giovani, alleggerire il
carico fiscale e distribuirlo più equamente
secondo le possibilità delle diverse classi
sociali, alleviare l’arretratezza sociale ed
economica del Meridione, accrescere l’importanza dell’Italia tra i paesi europei. Molti
di questi punti furono enunciati come punti
di programma della Sinistra dallo stesso Depretis in un celebre discorso, tenuto a Stradella, presso Pavia, nell’autunno del 1875,
pochi mesi prima che le contingenze politiche lo conducessero al governo. Depretis
avrebbe conservato il potere con alcune
interruzioni per circa un ventennio, fino al
1887, e avrebbe pienamente incarnato con
la sua personalità questa nuova fase della
vita politica italiana.
In quello stesso lasso di tempo, nel 1878,
Umberto I divenne re d’Italia in seguito alla
morte di Vittorio Emanuele II. Il nuovo sovrano era legato per inclinazioni personali
alla Destra e ai circoli dirigenti più conservatori, ma per buona parte del suo regno
seppe farsi garante di un’ordinata vita parlamentare e delle libertà assicurate dallo
Statuto Albertino.
La riforma dell’istruzione
elementare e la parziale riforma
elettorale
pp. 314, 316
Umberto I, re d’Italia.
Già nel 1877, la Sinistra mise mano al suo
programma con la legge Coppino, dal nome
del ministro dell’Istruzione che la ideò. La
legge rendeva obbligatori i primi due anni
di scuola elementare e ne assicurava la gratuità, introducendo sanzioni per i genitori
che sottraevano i figli all’istruzione. Essa
tuttavia non prevedeva adeguati strumenti
di controllo della sua attuazione e addossava ai comuni, le cui risorse finanziarie erano
molto scarse, le spese per il mantenimento
delle scuole e degli insegnanti (di cui peraltro, vi era carenza su tutto il territorio nazionale). L’obbligo dell’istruzione elementa-
F. Bergamini, Scuola di villaggio in Campania, 1895.
F. Pastoris, La merenda, 1861 circa.
re rimase in tal modo largamente inevaso,
soprattutto nelle campagne, dove i bambini
erano un aiuto prezioso nei lavori della terra. L’altissimo tasso di analfabetismo italiano iniziò a declinare, ma alla fine dell’Ottocento era ancora molto alto. [ I NODI DELLA
STORIA p. 286]
Nel 1882 il governo Depretis introdusse
una seconda importante riforma, ampliando il diritto di voto. Il limite di censo fu abbassato da 40 a 20 lire di imposte annue, e
anche il limite di età venne portato da 25 a 21
anni; il voto fu inoltre concesso a chi era in
possesso della licenza elementare. In questo
modo il numero di elettori salì a 2 milioni,
oltre il 7% della popolazione italiana e il 25%
dei maschi maggiorenni. Si trattava certamente di un progresso, che per la prima volta garantiva accesso alle urne ai membri più
istruiti del ceto artigiano e operaio del Nord;
tuttavia non era un passo ancora sufficiente
a permettere la partecipazione alla politica
delle masse popolari, proprio a causa della
scarsissima diffusione tra esse dell’istruzione elementare.
Disegno satirico di un camaleonte con la faccia di Agostino Depretis, fine del XIX secolo.
Il trasformismo
Negli anni successivi la Sinistra governò il
paese ma accantonò in buona parte i suoi
programmi democratici. Questa svolta fu
causata principalmente dalle preoccupazioni generate nel mondo borghese proprio
dall’allargamento del suffragio elettorale e
dal rafforzamento della componente parlamentare più progressista. Così, per garantire la stabilità della sua maggioranza, dal
1882 in poi Depretis cercò sempre più di frequente l’appoggio della Destra. Gli appartenenti ai due schieramenti, dietro esplicito
accordo tra Depretis e Minghetti, finirono
per votare congiuntamente i più importanti
provvedimenti del governo. Si creò una situazione in cui, di fatto, a guidare il paese
era un unico grande raggruppamento moderato, mentre i conservatori da un lato e la
sinistra dall’altro venivano esclusi dal gioco
parlamentare.
Questa politica fu detta del «trasformismo», perché a seconda delle circostanze i
rappresentanti dell’opposizione si trasfor-
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1860
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
mavano in sostenitori dell’esecutivo. Ben
presto, la distinzione tra Destra e Sinistra
perse ogni significato, mentre si smarrivano le differenze di programma e ideologie.
La maggioranza parlamentare si creava di
volta in volta sulla base degli interessi contingenti e delle capacità di manovra di Depretis; inoltre, l’appoggiarsi dell’esecutivo
sul centro dello schieramento politico produceva come risultato un’azione di governo lontana dagli obiettivi riformistici della
Sinistra all’esordio. In tale modo si allargò
anche la già ampia spaccatura tra governo e
società. Il governo era sempre sostenuto soprattutto dalla borghesia, mentre nel paese
la maggioranza dei cittadini era priva di diritti sociali e politici e cresceva l’importanza dei sindacati e dei movimenti ispirati al
socialismo e al marxismo. Una realtà di cui
il Parlamento avrebbe dovuto prima o poi
tenere conto.
La nuova politica economica
del governo e la crisi
dell’agricoltura
Dossier 11 p. 348
Dossier 12 p. 350
Al principio degli anni Ottanta del XIX secolo, l’Italia doveva ancora sviluppare la
sua economia per poter fare concorrenza
alle grandi nazioni industriali europee, ma
adesso poteva per lo meno contare su adeguate infrastrutture. Entro il 1876, la Destra
diede infatti alla penisola circa 8000 chilometri di binari ferroviari, più di 34.000 chilometri di strade e 23.000 chilometri di linee
telegrafiche. D11, 12
Il problema dello sviluppo venne affrontato dalla Sinistra impostando una politica
economica in parte diversa da quella degli
esecutivi della Destra. Per quanto riguarda il
fisco, la tassa sul macinato venne abolita nel
1884, contestualmente tuttavia a un aggravio delle imposte al consumo. Anche le tasse
sui redditi e sui patrimoni vennero ridotte,
per liberare le risorse che la borghesia poteva mettere a disposizione degli investimenti e dello sviluppo. La spesa pubblica, pure
questa a stimolo degli investimenti, aumentò, tanto da portare alla ricomparsa del deficit di bilancio dello Stato. E alla fine degli
anni Settanta furono adottati i primi dazi
doganali contro le merci d’importazione, a
difesa dei comparti industriali meccanico
e tessile. Tutto ciò però non diede risultati
immediati. Anzi, al principio degli anni Ottanta l’agricoltura italiana entrò in una fase
di grave crisi.
Nel primo ventennio di vita unitaria la
produzione delle campagne era cresciuta,
ma poco era cambiato quanto ad ammodernamento del settore: esso continuava
ad avere le sue produzioni di punta nelle
coltivazioni cerealicole intensive della pianura padana e negli olivi, negli agrumi e nei
vigneti del Mezzogiorno. Pochissime terre
erano state bonificate e conquistate all’agricoltura e niente era mutato quanto ai rapporti di produzione. Fu in tale quadro che si
fecero sentire nella penisola gli effetti della
«grande depressione» inaugurata dall’arrivo
nel continente europeo di grandi quantità
di merci agricole a basso prezzo provenienti
da Stati Uniti, Russia e Australia. I prodotti
dei campi italiani non ressero la concorrenza: i loro prezzi scesero e subito dopo calò
drammaticamente anche la produzione.
L’intero settore affrontò difficoltà enormi e
impreviste e naturale corollario furono l’abbandono delle campagne da parte della popolazione e l’incremento dell’emigrazione
transoceanica.
Il protezionismo e il decollo
economico dell’Italia
G. Fattori, Il carro rosso, 1887, Milano, Pinacoteca di Brera.
Spinta dall’opinione pubblica, dal ceto imprenditoriale che aveva bisogno di aiuto e
da risultati insoddisfacenti anche in campo
industriale, la Sinistra si decise ad abbandonare il libero scambio e adottò nel 1887
il protezionismo. Furono introdotti nuovi
Il primo stabilimento della Fiat, che aveva sede in
corso Dante a Torino, in una fotografia del 1916.
dazi molto pesanti sui prodotti agricoli e
industriali importati dall’estero e in questo
modo le merci acquistate dalla Francia, dalla Germania, dall’Inghilterra divennero più
costose di quelle prodotte in Italia: gli industriali e i grandi proprietari della penisola si
impadronirono del mercato interno. Particolarmente protette dall’intervento dello
Stato furono la produzione siderurgica e
quelle della lana, del cotone, dello zucchero
e del grano.
Le sorti dei coltivatori furono risollevate
dal protezionismo, ma fu soprattutto la borghesia industriale del Nord a trarre da esso
straordinari benefici. La nascente industria
italiana si sviluppò molto rapidamente,
usufruendo di elevati guadagni che potevano essere reinvestiti nell’ampliamento e
ammodernamento dell’apparato di fabbrica. Nacquero grandi banche d’investimento, disposte ad affidare capitali consistenti
agli imprenditori per la creazione di nuove aziende, mentre anche i grandi gruppi
d’affari esteri – ritenendo ormai mature le
condizioni del mercato italiano – portavano nella penisola capitali da investire. Tra
gli anni Novanta dell’Ottocento e il primo
quindicennio del Novecento, l’Italia divenne una potenza industriale e attuò il passaggio decisivo verso una società e un’economia moderne, non più dominate solo
dall’agricoltura. Nacquero la Marzotto e la
Cantoni nel comparto tessile, la Falck, la
Breda, l’Ansaldo e le Acciaierie di Terni nel
comparto siderurgico e meccanico, la Edi-
son nel campo della produzione idroelettrica, la Pirelli e la Montecatini nel comparto
chimico, la Fiat nel comparto automobilistico. Erano tutti marchi destinati a segnare la
storia dell’industria italiana e – trattandosi
di produzioni strategiche anche per lo Stato
– spesso a fondere i loro destini con quelli
della politica.
Le misure protezionistiche ebbero comunque anche effetti negativi. L’insufficiente dotazione infrastrutturale (strade,
ferrovie e porti) svantaggiò le poche ma importanti realtà industriali del Mezzogiorno.
Per esempio i cantieri navali di Napoli, che
non poterono reggere la concorrenza delle
analoghe industrie del Nord.
I latifondisti del Meridione, beneficiando della protezione dello Stato, si sentirono
ancor meno che in passato incoraggiati a
innovare i metodi di conduzione delle proprie terre. Mantennero le tecniche di coltivazione più arretrate e i loro profitti continuarono a reggersi sul lavoro di migliaia di
braccianti sottopagati. I prodotti specializzati dell’agricoltura meridionale soffrirono
per la chiusura dei mercati esteri, protetti
dai loro governi con misure analoghe a
quelle adottate da Roma. Basta ricordare il
caso della Francia, che esportava molti dei
suoi manufatti nella penisola ed era a sua
volta la principale acquirente degli agrumi
del Sud. Parigi inaugurò allora contro Roma
una guerra tariffaria che giunse a compromettere seriamente i rapporti tra i due
paesi: essi imponevano infatti alle merci
dell’avversario dazi più alti di quelli previsti per ogni altro partner commerciale,
1860
guerra tariffaria:
conflitto di natura
economica, ispirato
dalla dottrina del
protezionismo, che
contrappone le nazioni
attraverso limitazioni
nel commercio e che
penalizza gli scambi
reciproci.
L. Delleani, Il trenino, 1883, Torino, GAM.
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L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Lo sviluppo dell’industria italiana alla fine dell’Ottocento
Solfare
Udine
Automobili
Milano Verona
Torino
Gomma
Venezia
Vetro
Ceramiche
Bologna
Genova
Cartiere
Zuccherifici
Firenze
Piombino
Ancona
Perugia
L’Aquila
Metallurgia
Siderurgia
Meccanica
Industria
tessile
Roma
Bari
Napoli
Cagliari
Palermo
Zone industriali
Reggio Calabria
Zone minerarie
letteralmente impedendone la penetrazione delle frontiere.
Complessivamente, l’adozione del protezionismo causò un calo drammatico delle
esportazioni italiane. I danni maggiori vennero però ai consumatori, che dovettero
fronteggiare l’immediato rialzo dei prezzi
dei prodotti nazionali, a partire dal pane,
non più calmierati dalla concorrenza straniera.
L’emigrazione di massa
L’azione dei governi della Sinistra non fu per
il Mezzogiorno molto più incisiva di quella
degli esecutivi della Destra. Alla fine dell’Ottocento, le industrie italiane erano concentrate quasi esclusivamente al Nord, dove si
trovavano anche le aziende agricole e d’allevamento più moderne. Anche in quella
fase di sviluppo, il Sud continuava dunque
a essere l’area economica meno produttiva
del paese.
Arretratezza dell’agricoltura, rapporti di lavoro e sociali arcaici, miserabili condizioni di
vita delle masse contadine, colpite da povertà, malattie e analfabetismo: le autorità centrali conoscevano questi problemi, ma sembravano impotenti. Questa situazione spiega
l’emigrazione di milioni di italiani, che tra il
1890 e i primi venti anni del Novecento abbandonarono la penisola per cercare fortuna
in altri continenti. Tra 1891 e 1900 partirono
2,8 milioni di emigranti, che diventarono addirittura sei milioni nel decennio 1901-1910.
La maggior parte di loro veniva proprio dalle regioni meridionali ed era diretta verso gli
Stati Uniti, ma anche il Canada, l’Argentina,
il Brasile e l’Australia accolsero molti nostri
connazionali in cerca di un destino migliore.
Erano statistiche da inquadrare nell’analogo
e più generale fenomeno migratorio europeo
verso il Nuovo Mondo.
La nascita del movimento
dei lavoratori
Emigranti italiani dell’inizio del secolo in attesa dell’imbarco.
Alla metà degli anni Ottanta, la Sinistra varò
i primi elementi della legislazione sociale
italiana, creando la Cassa nazionale per gli
incidenti sul lavoro, destinata a fornire un
sussidio agli infortunati di fabbrica, e limitando rigidamente il lavoro delle donne e
dei ragazzi. Questa tendenza politica sfumò
però alla morte di Agostino Depretis, avve-
nuta nel 1887, quando il governo fu assunto
da Francesco Crispi.
Crispi in passato aveva militato con Mazzini e Garibaldi; dopo l’unità, convintosi a
servire la monarchia, era divenuto un sostenitore dello Stato forte e ammiratore della
politica decisa praticata in Germania da Bismarck. Ad attuare questa linea fu aiutato
dal fatto che per l’intero suo primo mandato, tra 1887 e 1891, fu, oltre che primo ministro, anche ministro degli Interni e ministro
degli Esteri.
Sul piano interno, Crispi volle evitare che
lo sviluppo di un’industria e di un’agricoltura moderne generasse conseguenze sociali
troppo rischiose: suo obiettivo era dunque
evitare che il continuo aumento del numero
dei salariati si traducesse in scioperi e violente contestazioni per l’affermazione dei
diritti dei lavoratori. In tutto il paese, infatti,
stavano sorgendo associazioni per la difesa
degli interessi dei contadini e degli operai.
Esse nascevano soprattutto al Nord, dove
era alta la presenza di salariati nei rapporti
di lavoro agricoli e dove l’industrializzazione in forte espansione faceva lievitare le dimensioni del proletariato di fabbrica.
Queste organizzazioni erano state create
dapprima con fini esclusivamente solidaristici e di mutuo soccorso tra lavoratori, ma
dopo la fondazione della Prima internazionale si erano diffuse anche in Italia le idee di
sinistra, soprattutto anarchiche. All’epoca in
cui Crispi divenne primo ministro, l’anarchismo era ormai entrato in crisi e gran parte
delle organizzazioni dei lavoratori si ispiravano alle idee socialiste e di Marx. Miravano
quindi a ottenere risultati materiali concreti a
vantaggio dei lavoratori, come dimostrarono
i primi grandi scioperi agricoli, svoltisi nelle
campagne padane nel 1884-1885, e la nascita
a cavallo tra anni Ottanta e Novanta delle prime Camere del lavoro (organizzazioni sindacali a base territoriale che rappresentavano
gli interessi dei salariati nelle controversie
con i padroni di fabbrica e lo Stato).
A tali organizzazioni si aggiunsero presto le associazioni dei lavoratori guidate da
esponenti cattolici, che si ispiravano agli insegnamenti di papa Leone XIII. Il pontefice
aveva difeso con la Rerum novarum alcuni
diritti fondamentali dei salariati e invitato i
credenti a lottare per una società più equa.
Fiorirono allora, soprattutto nelle campagne di Veneto e Lombardia, le «leghe bian-
Uno sciopero alla Camera del Lavoro di Milano nel 1891.
che» di matrice cattolica, capaci di affiancare e sostenere i contadini nelle loro lotte
con la stessa efficacia delle associazioni di
sinistra. A
Crispi e la risposta del governo
alle tensioni sociali
L’atteggiamento del governo nei confronti
delle proteste dei lavoratori fu molto duro.
Più volte l’esercito intervenne con la forza per sedare manifestazioni e scioperi. In
questo clima, nel 1892, a Genova nacque
il Partito dei lavoratori italiani, che l’anno
successivo divenne il Partito socialista dei
lavoratori italiani e nel 1895, definitivamente, il Partito socialista italiano. La nuova
forza politica, guidata dall’avvocato Filippo
Turati, lombardo e di origini borghesi, sorse come rappresentanza nazionale e unitaria della miriade di associazioni sparse per
l’Italia a difesa dei diritti di operai e contadini. La strategia dei socialisti fu quella di
partecipare alle competizioni elettorali e
di tutelare in Parlamento le ragioni dei ceti
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L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
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Francesco
Crispi.
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1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Colonia eritrea: «Asmara. Festa di Fede e Italianità», 1890.
 Tweet Storia p. 358
più poveri. Al contempo essi rifiutavano sia
l’approccio rivoluzionario degli anarchici
sia il compromesso contingente con la borghesia democratica. Solo attraverso la lotta
di classe e la conquista nelle urne elettorali
del potere politico si sarebbe giunti alla gestione sociale dei mezzi di produzione.
Proprio alla Camera dei Deputati, d’altro
canto, fin dal 1882 sedeva un rappresentante socialista. Era il deputato romagnolo Andrea Costa, primo esponente di uno schieramento che entro l’inizio del Novecento
avrebbe contato su una forza parlamentare
di tutto rilievo: 33 deputati, conquistati alle
elezioni politiche del 1900.
Simbolo dei tempi che cambiavano fu nel
1889 il varo di un nuovo codice penale, detto
«Codice Zanardelli», dal nome del ministro
della Giustizia che lo patrocinò. Esso aboliva la pena di morte e, pur non riconoscendolo a chiare lettere, ammetteva il diritto di
sciopero. Per i lavoratori si trattava di una
grande conquista.
I repubblicani e i radicali, raccoltisi in
partito in quegli stessi anni, completavano
lo schieramento della sinistra parlamentare
italiana. Pur riconoscendo la forma capitalistica dell’economia e la legittimità della
proprietà privata, essi lottavano per una democrazia più avanzata di quella promossa
da Destra e Sinistra storiche. I repubblicani
M. Cammarano, La battaglia di Dogali, 1893.
rifiutavano l’istituto monarchico e, insieme
ai radicali, auspicavano il suffragio universale, un maggiore decentramento dell’amministrazione statale, la riforma fondiaria e
quella del fisco.
La politica estera: l’adesione
alla Triplice Alleanza
Grazie alla Destra era stata completata
l’unificazione territoriale e politica della penisola, e nel ventennio postunitario Roma
aveva cercato l’equidistanza dalle grandi
capitali d’Europa, coltivando semmai una
relazione speciale con la Francia, che aveva
patrocinato l’indipendenza italiana. Assunto il potere, i governi della Sinistra cercarono di inserire l’Italia nel gioco degli equilibri
di potenza europei e per questo impressero
alla politica estera una svolta. Nel maggio
1882, Roma aderì alla Triplice Alleanza  ,
patto militare difensivo di mutua assistenza
con la Germania e l’Austria.
La nuova politica amichevole con l’Austria, che occupava ancora Trento e Trieste,
fu criticata da molti. Essa sembrava smentire decenni di storia risorgimentale e appariva incoerente con gli interessi più urgenti
dell’Italia: la conquista del Trentino e della
Venezia Giulia. Ma grazie all’adesione alla
Triplice Alleanza l’Italia evitava l’isolamento
internazionale e trovava un appoggio nella
sua rivalità con Francia e Inghilterra. Era infatti in concorrenza con le due potenze democratiche per motivi commerciali e perché
esse si opponevano all’espansione coloniale di Roma in Africa. Nel 1881, le aspirazioni
italiane all’occupazione della Tunisia – dove
vivevano e lavoravano molti nostri emigrati
– erano state frustrate proprio da Parigi, che
aveva mandato le sue truppe ad insediarsi
nel territorio nordafricano.
Ora, firmata la Triplice Alleanza, anche
il nostro paese cercò di creare delle proprie
colonie, così come avevano fatto in precedenza tutte le principali potenze europee.
Spingevano Roma ovvie motivazioni di prestigio internazionale, la pressione della corte e dei circoli militari, gli interessi dei gruppi industriali e commerciali che contavano
di realizzare grandi affari nella nuova avventura; nelle parole dei governi della Sinistra,
inoltre, vi era la convinzione che le colonie
avrebbero offerto una prospettiva di lavoro
migliore agli emigranti italiani.
La politica coloniale
In realtà l’espansione coloniale si rivelò difficile e non diede i risultati sperati. Nel 1882
l’Italia acquisì in Africa orientale la baia di
Assab, sulla costa eritrea del Mar Rosso,
dove passavano le rotte commerciali verso
l’Asia potenziate dalla recente apertura del
Menelik II, imperatore di Etiopia.
Canale di Suez. Nel 1885, un corpo di spedizione occupò il territorio compreso tra la
baia di Assab e la città portuale di Massaua
e il passo successivo fu estendere il possesso
territoriale verso ovest, in direzione dell’Impero d’Etiopia.
Il regno etiope era economicamente
arretrato, la sua popolazione si dedicava
esclusivamente ad agricoltura e pastorizia
nomade, e i clan tribali dominavano la vita
pubblica, limitati solo in parte dal potere
del negus, ossia l’imperatore, scelto dagli
stessi signori locali. Era tuttavia una formazione statale coesa e, quando ne violarono i
confini, gli italiani furono affrontati e sconfitti: nel gennaio 1887, presso Dogali, una
colonna di 500 soldati del regio esercito fu
annientata dai militari dell’imperatore Giovanni IV. L’impressione in Italia fu enorme,
ma lo smacco non spinse il governo a desistere. Anzi, proprio per motivi di prestigio
Crispi – che era appena diventato primo
ministro – ampliò i possedimenti italiani
fino a conquistare l’intera Eritrea e porre le
basi per l’occupazione della Somalia, sempre in Africa orientale. Nel 1889, poi, stipulò
con il nuovo negus Menelik il trattato di Uccialli, che stabiliva il protettorato dell’Italia
sull’Etiopia.
Scalzato dal governo nel 1891, Crispi riannodò i fili della sua politica coloniale nel
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Suda
n
ang
loegi
zia
no
L’espansione coloniale italiana in Africa orientale
Mar
Rosso
Dogali
Massaua
(1887)
(1885)
Asmara Eritrea
Adua (colonia 1890)
(1896)
Macallè (1896)
Assab (1882)
Aden
o di
Amba Alagi (1895)
Golf
Somalia
Alula
Uccialli
francese
Harar
Addis Abeba
So ma l i a
br i ta nni ca
I M P E RO D I E T IOPIA
(protettorato
italiano 1889)
Ob b ia
(protettorato
italiano 1889)
S om ali a
i tali ana
Obbia
(protettorato 1889,
colonia 1905)
Ug and a
Mogadiscio
(R.U.)
Ke ny a
(R.U.)
Territori italiani prima del 1889
Territori italiani dopo il 1889
Battaglie principali
Le fasi finali della battaglia di Adua, 1° marzo 1896.
1893, al ritorno alla carica di primo ministro,
e diede nuovo vigore ai tentativi di penetrare
in Etiopia. Menelik si oppose però a questa
ambizione e si arrivò allo scontro: il 1° marzo 1896, gli etiopi sconfissero duramente gli
italiani ad Adua e circa 7000 soldati persero
la vita. Il disastro provocò manifestazioni di
protesta contro la guerra in tutte le maggiori
città italiane e Crispi dovette dimettersi dal
governo. La sua carriera politica si chiuse
allora, mentre i successori dovettero concludere la pace con l’Etiopia e puntellare i possedimenti eritrei e somali. Alla fine dell’Ottocento l’Italia aveva conquistato ampi
territori sulle coste africane, ma era ben lontana dall’aver costruito un impero.
La crisi di fine secolo
e l’uccisione di Umberto I
Nell’ultima decade dell’Ottocento, la vita
pubblica italiana assunse ritmi concitati e
spesso drammatici.
Tra il principio del 1891 e la primavera
del 1892 primo ministro fu Antonio di Rudinì, uomo della Destra. Egli prese il posto di
Francesco Crispi, messo in minoranza dalle
Camere sulla politica fiscale, resa sempre
più pesante dalle necessità dell’avventura
militare.
Caduto anche il governo di Rudinì, tra
il maggio 1892 e il dicembre 1893 la guida
del governo andò a Giovanni Giolitti, della
Sinistra. Egli sarebbe stato il principale protagonista della politica italiana nel primo
quindicennio del Novecento, ma già allora
poté praticare alcuni cardini del suo personale programma di governo. Era convinto
per esempio che lo Stato non dovesse intervenire nelle lotte sociali, lasciando piuttosto
alle parti il compito di arrivare a un accordo
attraverso trattativa, e rifiutava dunque di
impegnare la polizia o addirittura l’esercito per reprimere scioperi e manifestazioni
operaie.
Per questo Giolitti diede libero corso alle
proteste dei Fasci dei lavoratori siciliani.
Essi raccoglievano soprattutto contadini e
braccianti, che si scagliavano contro la fiscalità oppressiva, l’incapacità a governare
del notabilato locale e la grande proprietà
fondiaria, chiedendo terre per i contadini
e rapporti di lavoro più equi. Nonostante
le pressioni dei ceti agrari, che esigevano
a gran voce l’invio dell’esercito in Sicilia,
Giolitti permise ai Fasci di manifestare.
L’uomo politico piemontese perse però
egualmente il potere, proprio mentre metteva a punto una riforma fiscale che avreb-
be alleviato la pressione sui ceti più deboli
per intensificarla sui redditi e i patrimoni
più alti. Cadde per uno scandalo immobiliare, il cosiddetto «scandalo della Banca
Romana»  , nel quale erano coinvolti importanti uomini politici ed esponenti della
finanza, e fu sostituito da Crispi, che tornò
così al potere.
Crispi riorganizzò allora il sistema creditizio varando una legge che istituiva la
Banca d’Italia, cui furono conferiti ampi
poteri di controllo sulle altre banche. Impose nuove tasse per finanziare l’avventura
coloniale e affrontò l’avanzata del mondo
operaio e contadino con eccezionali misure
di sicurezza. Nel gennaio 1894, in Sicilia fu
proclamato lo stato d’assedio e le agitazioni dei Fasci vennero represse dall’esercito.
In luglio, il Parlamento limitò le libertà di
stampa, di riunione e di associazione. In
ottobre, il Partito socialista fu messo fuori
legge. Tutte queste misure non valsero però
a frenare la crescita delle organizzazioni dei
lavoratori, ormai ben saldamente radicate
nel paese.
Dimessosi Crispi in seguito alla sconfitta
di Adua, capo del governo fu ancora Rudinì, alla testa di un blocco politico conserva-
I Fasci siciliani: «Palermo. Il processo De Felice e compagni. Gli
imputati», prima pagina de «L’Illustrazione italiana», 29 aprile 1894.
tore che vedeva nell’opposizione socialista
un pericolo mortale per lo Stato. In effetti,
in tutto il paese furono anni di fortissime
tensioni sociali, che trovarono il culmine
nella primavera del 1898, quando un forte aumento del prezzo del pane – dovuto
al cattivo raccolto dell’anno precedente e
alle mancate importazioni di grano dagli
Stati Uniti – provocò scioperi, manifestazioni e tumulti sia nel Meridione che nelle
città del Nord. Le proteste non avevano un
carattere politico e a legarle era l’unico filo
del malcontento popolare per il caro vita,
ma il governo temette che scoppiasse una
rivoluzione e non esitò a sospendere i diritti civili garantiti dallo Statuto Albertino.
Furono arrestati molti esponenti socialisti
e cattolici, chiusi diversi giornali e proibite
le riunioni delle associazioni dei lavoratori. Lo stato d’assedio fu proclamato a Milano, a Napoli e in Toscana. E proprio a Milano, in maggio, l’esercito intervenne contro
i manifestanti di strada. Il generale Bava
Beccaris fece sparare sulla folla e i morti
furono circa 100. A
Il re Umberto I approvò la linea dura e
autoritaria imposta dal governo, che però
incontrava in Parlamento l’opposizione
1860
Giovanni
Giolitti.
Album p. 288
 Tweet Storia p. 358
La cavalleria appiedata distrugge una barricata durante i moti del 1898 a Milano.
© Loescher Editore – Torino
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L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
© Loescher Editore – Torino
1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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4
11
Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
L’assassinio di Umberto I in una illustrazione della «Domenica del Corriere».
crescente dei deputati della Sinistra e ora
anche di molti esponenti moderati. Questa
fase politica convulsa, durante la quale la
guida dell’esecutivo passò di mano più volte, ebbe un esito drammatico e imprevisto il
29 luglio 1900, quando il re fu assassinato
da Gaetano Bresci, un anarchico che voleva
così vendicare le vittime di Milano del 1898.
In Parlamento furono presentati dei provvedimenti di legge che limitavano gravemente le libertà civili, ma il nuovo re Vittorio
Emanuele III scelse di far calare la tensione
e si proclamò fedele allo Statuto Albertino.
L’Italia non cedette dunque alle tentazioni
autoritarie e la sua vita istituzionale rimase
inserita nel solco del liberalismo. Rimaneva però urgente trovare un equilibrio tra le
diverse forze sociali e politiche. Fu questo il
compito che negli anni successivi si assunse Giovanni Giolitti. Dapprima, dal febbraio
1901, come ministro degli Interni del governo guidato da Giuseppe Zanardelli, e poi,
dal novembre 1903 e quasi ininterrottamente per un decennio, come primo ministro.
1861-1876
Governi della Destra storica
1861-1865
Esplosione e repressione
del brigantaggio
1866
Terza guerra d’indipendenza:
annessione del Veneto all’Italia
1870
Annessione di Roma all’Italia
1874
Non expedit : Pio IX proibisce ai
cattolici la partecipazione politica
1876-1900
Governi della Sinistra storica
I NODI DELLA STORIA
Com’era la scuola italiana nel periodo post-unitario?
La costruzione dell’identità nazionale, il celebre «fare gli italiani», poggiò sulla necessità di dare un’istruzione di base a una
popolazione dove, nel periodo post-unitario, i tassi di analfabetismo erano altissimi. Il Piemonte sabaudo, con la promulgazione nel 1859 della legge Casati, si era dotato di una scuola statale. Il modello piemontese prevedeva una scuola elementare di
quattro anni, divisa in un ciclo inferiore (frequentato dai bambini
di sei e sette anni) e in un ciclo superiore (dagli otto ai nove).
Al compiere dei dieci anni gli studenti si dividevano tra i pochi
privilegiati destinati a frequentare i cinque anni del ginnasio
seguiti dai tre del liceo (istruzione superiore classica), e quelli
destinati alle scuole tecniche (al massimo sei anni di istruzione superiore e praticamente nessun accesso all’università). In
realtà la maggior parte della popolazione, anche nel più evoluto
Piemonte, non frequentava nessun tipo di istruzione superiore.
In teoria la frequenza della scuola elementare era obbligatoria:
in realtà non erano previste sanzioni per il mancato adempimento dell’obbligo e nessuna strategia fu attuata per favorire la
frequenza scolastica.
Con l’unità nazionale la legge Casati fu estesa a tutto il territorio
nazionale. Nel 1877, sotto il governo della Sinistra di Depretis, fu varata la legge Coppino che prevedeva l’obbligatorietà
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© Loescher Editore – Torino
dell’istruzione elementare (con relative sanzioni in caso di inadempimento) almeno per il primo ciclo. Tuttavia, rimanendo sui
Comuni e non sullo Stato centrale il peso dell’organizzazione
e del finanziamento della stessa, la norma fu largamente disattesa. Non tutte le autonomie locali, infatti, erano in grado di
sobbarcarsi il carico del mantenimento degli insegnanti e della
costruzione di locali atti a ospitare le scolaresche. Questo fenomeno era particolarmente grave nelle regioni dell’Italia meridionale e nelle zone più povere del resto del paese. Sin dai tempi
della legge Casati era stata prevista la costituzione di una scuola
detta «normale» per la formazione degli insegnanti, articolata in
soli quattro anni di corso. In seguito la scuola fu chiamata magistrale e dalle sue file uscirono quei maestri e quelle maestre
elementari ai quali va il grande merito di avere contribuito all’alfabetizzazione della nazione. Mal pagati, ma dotati, generalmente, di una buona reputazione sociale, i maestri elementari divennero gli eroi civili di un grande processo di ammodernamento
del paese, celebrati, magari un po’ retoricamente, in romanzi
famosi come Il libro Cuore del torinese Edmondo De Amicis.
Solo con l’età giolittiana, nel 1911, lo Stato avocò a sé il compito dell’istruzione elementare (legge Daneo-Credano) rendendo
finalmente più diffuso il concetto di obbligo scolastico.
1882
L’Italia stringe la Triplice Alleanza
con Germania e Austria
1892
Fondazione del Partito socialista
italiano
1896
Truppe coloniali italiane sconfitte
ad Adua
1898
Repressione delle proteste
popolari a Milano
1900
Assassinio di Umberto I: Vittorio
Emanuele III re d’Italia
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
1 I primi governi affrontano gli enormi problemi di un paese arretrato. Fino
al 1876 governa la Destra, mentre dal 1876 gli esecutivi sono in mano alla
Sinistra. I governi post-unitari si impegnarono a risolvere gli enormi problemi che
affliggevano il paese, economicamente e socialmente assai arretrato. Fu scelto un
modello di Stato fortemente accentrato, che poca o nessuna autonomia lasciava agli
enti territoriali periferici. Tra 1861 e 1876, la Destra attuò una politica assai moderata; dal 1876 i governi della Sinistra promossero invece idee più aperte e progressiste.
Gli uni e gli altri, comunque, facenti capo alla borghesia media o alta e alla nobiltà,
erano poco propensi a considerare con attenzione i bisogni degli strati più deboli
della popolazione. Nell’ultimo ventennio del secolo, l’identità di interessi tra Destra e
Sinistra fu praticamente totale e le politiche dei due partiti convergenti: era la cosiddetta pratica del «trasformismo». Ecco i principali provvedimenti presi dai governi del
regno: si stabilì la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione elementare; monetazione,
sistemi di misura e fisco vennero uniformati ovunque; si costruirono migliaia di chilometri di strade, ferrovie e linee telegrafiche; dagli anni Ottanta, il liberoscambismo fu
abbandonato in favore del protezionismo, che consentì in breve tempo lo sviluppo di
un apparato industriale di rango europeo; il bilancio dello Stato fu risanato e il diritto di
voto allargato. Non sempre però l’azione dei governi fu efficace: ciò valse soprattutto
per il Meridione, arretrato in ogni campo rispetto al resto d’Italia. Il malcontento del
Sud venne represso con la forza: accadde negli anni Sessanta, al tempo del brigantaggio, e negli anni Novanta, all’epoca dei Fasci dei lavoratori siciliani. Le cause sociali dell’arretratezza meridionale non furono mai rimosse. Ciò indusse una imponente
emigrazione oltreoceano e l’approfondirsi del divario tra Nord e Sud del paese.
2 Con la Terza guerra d’indipendenza viene conquistato il Veneto, mentre
nel 1870 le truppe italiane annettono il Lazio e Roma. Tra 1866 e 1870
fu portata a termine la conquista della penisola. Nel 1866, nonostante le sconfitte
subite da esercito e marina nella Terza guerra d’indipendenza, venne annesso il Veneto. Nel 1870 furono conquistati il Lazio e Roma, che divenne finalmente la nuova
capitale del regno. Il papa Pio IX rifiutò di riconoscere il nuovo Stato e non legittimò la
«legge delle guarentigie», che assicurava alla Chiesa il diritto di svolgere liberamente
in Italia il proprio magistero spirituale. Il pontefice proibì anche ai cattolici di partecipare alla vita pubblica del regno.
3 Anche l’Italia, come le altre potenze europee, si lancia alla conquista di un
impero coloniale, ma gli esiti sono disastrosi. Negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, l’Italia si affacciò alla ribalta internazionale con una propria politica di potenza. Nel
1882 aderì alla Triplice Alleanza, con Germania e Austria-Ungheria. Nel periodo successivo avviò la costruzione di un impero coloniale. Le truppe regie occuparono l’Eritrea
e la Somalia, in Africa orientale, ma vennero duramente e ripetutamente battute mentre
tentavano di penetrare in Etiopia: a Dogali, nel 1887, e ad Adua, nel 1896. La politica
coloniale italiana rimase comunque in piedi. Avrebbe ripreso vigore col Novecento.
4 Alla fine del secolo la tensione sociale raggiunge il livello di guardia. Gli
scontri di piazza di susseguono in tutto il paese e nel 1900 il re viene assassinato in un attentato. Gli anni Novanta furono per la politica italiana piuttosto
convulsi. Il movimento operaio e contadino prese piede e trovò un punto d’unione
nel Partito socialista, nato nel 1892. I governi videro nell’avanzata socialista una
minaccia e proteste e scioperi dei lavoratori furono spesso soffocati brutalmente.
La tensione culminò in occasione dei moti contro il caro vita del 1898: l’esercito
sparò sulla folla, a Milano, causando numerose vittime, vendicate poi dall’attentato
anarchico che nel 1900 costò la vita al re Umberto I. Vittorio Emanuele III, il nuovo
sovrano, si proclamò fedele allo Statuto Albertino e la vita istituzionale italiana rimase
inserita nel solco del liberalismo.
© Loescher Editore – Torino
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4
11
Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Sollevazioni contadine e urbane
nell’Italia liberale
Con il processo di unificazione compiuto tra 1860 e 1870, l’Italia era diventata uno Stato moderno e unitario
di tipo liberale. Era governata da una classe dirigente di formazione europea occidentale, che guardava al
Regno Unito, alla Francia e alla Germania. Tuttavia, a differenza di questi paesi, che incarnavano modelli di
progresso sociale e politico, con importanti centri urbani e industriali, l’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo. Inoltre, le sue campagne erano caratterizzate da una fondamentale arretratezza economica,
da radicate tradizioni religiose, non prive di superstizione, da forme endemiche di violenza, che tendevano a
tradursi, in casi di crisi grave, in rivolte aperte e sanguinose.
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
Le rivolte urbane
Numerosi furono gli altri episodi di rivolte contadine nell’Italia liberale, da Nord a Sud, come i moti per il macinato nel 1869 e i
fasci siciliani nel 1893-1894. Nel frattempo, con la crescita delle città e con la nascita del Partito socialista nel 1892, le masse
popolari urbane avevano cominciato a mostrare forti inquietudini, alimentate dalle difficili condizioni di vita e di lavoro. Una delle più
importanti insurrezioni urbane si verificò nel 1898, a seguito del netto incremento del costo del grano, e dunque del prezzo del pane.
In un quadro di agitazioni che coinvolse varie zone della penisola, le masse popolari di Milano si rivoltarono nel maggio del 1898.
La repressione fu decisa e cruenta: i cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla, provocando un centinaio di
morti tra i manifestanti. Fu questo uno dei momenti più tragici della cosiddetta «crisi di fine secolo», in cui le istituzioni liberali italiane
attraversarono un grave momento di instabilità, correndo il rischio di una svolta autoritaria e antiparlamentare.
E. Longoni, L’oratore
dello sciopero, 1891,
Pisa, collezione privata.
Il brigantaggio
Il caso più clamoroso – nell’Italia post-risorgimentale
– fu quel fenomeno che la storiografia usualmente
definisce il «brigantaggio». Con questa formula riduttiva, si faceva riferimento in realtà a un’amplissima rivolta sociale che divampò in larga parte delle
campagne corrispondenti al Regno delle Due Sicilie
tra 1861 e 1865. I briganti erano veri e propri guerrieri
contadini, che imperversarono tra Molise, Campania,
Puglia e Basilicata. Il più famoso fu Carmine Crocco,
originario di Rio Nero in Vulture (Basilicata), che riuscì
a radunare e comandare circa 2000 briganti.
Briganti catturati presso Salerno nel giugno 1865.
Il brigante Francesco Fasella dopo l’arresto, 1863.
G. Fattori, Episodio della campagna contro il brigantaggio nel 1863, 1864.
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© Loescher Editore – Torino
La reazione dello Stato
al brigantaggio
Una delle ragioni fondamentali dell’insurrezione rurale fu il rifiuto della coscrizione obbligatoria nell’esercito sabaudo, diventato dal 1861 esercito italiano: si
trattava di un segno della più generale riluttanza ad
accettare l’unificazione statale nazionale. Nelle zone
dove imperversava il brigantaggio fu perciò necessario un intervento massiccio dell’esercito, che raggiunse le 120.000 unità. Nel 1863, furono proclamate le
«leggi Pica», con cui si autorizzava la repressione delle
insorgenze contadine. Ben lungi dall’essere una semplice operazione di polizia, l’intervento militare scatenò una vera e propria guerra civile, che provocò non
meno di 5000 morti e che aprì una profonda frattura
tra alcune regioni meridionali e il nuovo Stato.
I bersaglieri occupano una barricata in via della Moscova:
fotografia del 1898.
A. Beltrame, I tumulti del 7 maggio 1898 a Milano.
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4
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Ragiona sul tempo e sullo spazio
Impara il significato
1
4
ATTIVITÀ
2
Osserva la cartina a p. 280 e rispondi alle domande: quali sono le regioni maggiormente industrializzate della
penisola? Quali sono i tre settori più sviluppati e come sono distribuiti sul territorio italiano?
1 Nel
2 Nel
3 Il 13 maggio
pontificio
4 Nel
5 Nel
6 Nel
7 Nel
8 Nel
9 Nel
10 Nel
moderno
11 Nel
12 Nel
pubblica
il re Umberto primo è assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci
Garibaldi è sconfitto a Mentana dalle truppe francesi
viene emanata la «legge delle guarentigie» che regola i rapporti tra Regno d’Italia e Stato
Torino firma con la Francia la Convenzione di Settembre
la Prussia si allea con l’Italia e dichiara guerra all’Austria; ha inizio la Terza guerra d’indipendenza
la capitale è trasferita da Firenze a Roma
il ministro delle Finanze dichiara il raggiungimento del pareggio di bilancio
Umberto I diviene re d’Italia
il trattato di Uccialli stabilisce il protettorato dell’Italia sull’Etiopia
Pio IX emana il Syllabus Errorum, documento che condanna il liberalismo e le acquisizioni del pensiero
la legge Coppino attua una riforma dell’istruzione elementare
Pio IX emana il «non expedit», con cui proibisce formalmente ai cattolici la partecipazione alla vita
Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nei primi decenni successivi all’unità d’Italia.
1
2
3
4
5
6
7
8
Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento, poi distingui con due colori diversi gli eventi
che accadono durante il governo della Destra storica e quelli che si verificano negli anni della Sinistra storica.
5
L’Italia dall’unità a Bava Beccaris
Rischio d’impresa
Notabilato
Coscrizione obbligatoria
Regioni irredente
Ordini religiosi contemplativi
Guarentigia
Prodotti calmierati
Pareggio di bilancio
Prova a riflettere sul significato di «emigrazione» e, alla luce di quello che hai letto nel capitolo, spiega analogie
e differenze con il fenomeno dell’emigrazione dei giorni nostri.
Osserva, rifletti e rispondi alle domande
6
Osserva la mappa concettuale relativa all’Italia unita. Poi rispondi alle domande.
Le condizioni dell’Italia unita
Esplora il macrotema
3
Completa il testo.
Il Regno d’Italia nasce sotto il segno dell’egemonia della monarchia sabauda che porta al superamento della tradizionale frammentazione politica della penisola italiana. I deputati che siedono in
(1)
nei primi decenni dopo l’unità sono divisi, salvo poche eccezioni, in due grandi
gruppi: la Destra e la Sinistra, dette «(2)
» per distinguerle dai successivi partiti di destra
e di sinistra che avranno caratteristiche diverse.
La Destra rappresenta gli interessi della nobiltà terriera e della borghesia più (3)
e ha
come obiettivo principale quello di costruire un’Italia forte e saldamente guidata dalla (4)
sabauda; conduce una politica moderata e non comprende i clericali e i conservatori più tradizionalisti,
che rimangono fuori dal Parlamento.
La Sinistra, invece, è sostenuta dalla media (5)
e si distingue dalla Destra perché è più
attenta alle esigenze delle classi più povere, le quali, escluse dal diritto di (6)
e prive
di una propria rappresentanza alle Camere, guardano alla Sinistra per la protezione dei propri interessi. Tale schieramento aspira a una politica progressista e mira a introdurre alcune (7)
già presenti nel programma dei democratici risorgimentali, quali l’allargamento del diritto di
(8)
, la diffusione dell’istruzione, la modernizzazione dell’Italia attraverso l’industrializzazione, la maggiore autonomia delle regioni e delle città dal potere centrale. Le fila della Sinistra non
comprendono i mazziniani e i garibaldini più intransigenti che, essendo repubblicani, non vogliono
sedere nel Parlamento monarchico.
Negli anni successivi all’unità il governo è affidato a uomini della Destra, che sono la maggioranza nella
(9)
dei Deputati. Tuttavia entrambi gli schieramenti rappresentano una base sociale
assai limitata, che esclude le classi più povere della nazione; anche il successivo governo della Sinistra
storica, infatti, nonostante la parziale riforma elettorale e alcune misure di stampo progressista, stempera il suo programma democratico e si fa portavoce degli interessi della borghesia italiana, attuando il
protezionismo e avviando l’espansione coloniale in (10)
.
290
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1 Qual è la situazione economica?
2 Quali fattori generano il brigantaggio?
3 Per quale motivo è difficile estendere le
strutture statuali piemontesi all’intero regno?
Mostra quello che sai
7
Osserva l’immagine a p. 280 e descrivi i soggetti raffigurati. Qual è il valore simbolico di questa foto?
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