Claudio_I laici nella Chiesa prima del Concilio

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Convegno 23-25 luglio 2013
Il Concilio e i laici nella Chiesa
Relazione prima serata
I laici nella Chiesa prima del Concilio
Nelle nostre parrocchie quale figura di laico c’era prima del Concilio? Sarebbe troppo
facile e schematico contrapporre il protagonismo e la consapevolezza dei laici nella
Chiesa di oggi ad una passiva subordinazione del laico preconciliare. In realtà, di laici
impegnati e protagonisti, in forme per certi versi più organizzate, si deve parlare
anche prima del Vaticano II che, anzi, come vedremo, raccoglie i frutti di un lungo
cammino di riflessioni e di esperienze laicali distese lungo tutto il novecento. D’altra
parte, ancora oggi la presenza dei laici nelle nostre comunità mantiene per lo più un
carattere operativo ed esecutivo e la loro azione, in genere molto guidata e
sorvegliata, fatica ad uscire dalla logica della collaborazione e della supplenza.
Quindi, più che descrivere in modo un poco ideologico e astratto dei modelli laicali
pre o post-conciliari proviamo a percorrere ancora una volta la via della storia per
evidenziare come, in realtà, la storia dei laici è una storia della Chiesa e
dell’ecclesiologia. Il variare della figura del laico lungo i secoli è, infatti, intimamente
dipendente e collegato ai mutamenti dell’immagine della Chiesa nella successione
delle varie situazioni storiche. In queste pagine ricostruiamo, quindi, a brevi tratti una
storia del laico ripercorrendo velocemente alcuni momenti della storia della Chiesa
mettendo al centro la svolta tridentina che costituisce il luogo di una grandiosa
riforma, di una nuova forma di Chiesa, dentro la quale avviene l’invenzione del
‘fedele parrocchiano’ che ha plasmato il vissuto cristiano delle nostre comunità con
tale forza da giungere fino e oltre il Vaticano II.
L’eredità medioevale
L’epoca medioevale riceve dal mondo antico, dall’età dei Padri, una visione di
Chiesa che, almeno a partire dal III secolo, era andata progressivamente
clericalizzandosi. Se nei primi tempi del cristianesimo, la preoccupazione è
soprattutto quella della diffusione del Vangelo e della crescita delle comunità, una
volta compiuta l’opera dell’annuncio e con il venir meno delle figure di riferimento
(gli apostoli e poi i loro discepoli), sorge la necessità di strutturare stabilmente le
comunità e di garantire la fedeltà della dottrina alla predicazione originaria. Uno degli
elementi sui quali si fa leva è quello della successione apostolica; si tratta cioè di
assicurare una continuità tra l’autorità degli apostoli e quella dei vescovi e tra questi
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ai presbiteri. Una tale prospettiva conduce inevitabilmente ad una visione di chiesa
dove l’accento cade sui responsabili che, successivamente e in concomitanza ad un
parallelo processo di istituzionalizzazione della Chiesa, verranno sempre più
configurandosi come sacra gerarchia. Sarà un autore del V secolo, Dionigi
l’Areopagita, a dare un fondamento ideologico a questa sistemazione: ad una
gerarchia celeste corrisponde una gerarchia ecclesiastica al vertice della quale sta il
vescovo, detto appunto hierarchês, a cui fanno seguito i presbiteri e i ministri. La
composizione del ‘Kleros’ sembra ormai fissata con le sue funzioni: vescovo,
presbitero, diaconi, suddiaconi, lettori. È l’inizio del corso clericale modellato sul
cursus honorum della società civile e insieme è il riflesso di un processo di
sacralizzazione di quelle funzioni che hanno a che fare con le celebrazioni liturgiche.
Il passaggio dal periodo di diffusione a quello di dominanza (il cristianesimo diventa
la religione dell’impero romano e il piccolo gregge assume le proporzioni di una
grande Chiesa), insomma, ha ormai trasformato la natura delle comunità: i legami tra
esse vengono attuati sempre più attraverso istanze ‘ufficiali’; la linea della
testimonianza spontanea dei semplici cristiani scompare (“i cristiani non si
distinguono dagli altri uomini” si leggeva nella Lettera a Diogneto degli inizi del III
secolo); sparisce la figura del martire mentre le funzioni gerarchiche tendono ad
assorbire tutte le responsabilità per l’edificazione della Chiesa. In una lettera apocrifa
del tempo, la Lettera di Clemente a Giacomo, si può leggere questa immagine della
Chiesa: “Il corpo intero della Chiesa assomiglia ad una grande nave che in una
violenta tempesta trasporta uomini di provenienza diversa … Guardate dunque a Dio
come il capitano di questa nave, a Cristo come al pilota, al vescovo come la vedetta,
ai presbiteri come ai responsabili dell’equipaggio, ai diaconi come ai capi dei
rematori, ai catechisti come agli ufficiali di reclutamento, alla generalità dei fratelli
come ai passeggeri…”. Ecco la generalità del popolo di Dio è paragonato ai
passeggeri; è il segno che chi non appartiene alla gerarchia è diventato solo recettore
e non ha nulla da fare se non lasciarsi condurre.
La civiltà medioevale, questa creazione nata dalla sintesi operata dalla Chiesa tra la
romanità e il mondo dei barbari, in continuità con l’ideologia antica, concepisce la
realtà tutta (la società, la politica, la cultura, la religione) come unico corpo, come
una visione unitaria, organica e gerarchica senza distinzione tra dimensione religiosa
e profana. La società è costituita gerarchicamente da ordini che, data l’equivalenza tra
Chiesa e società, hanno una valenza sia sociale che teologica. Ogni persona, ogni
categoria ha il suo ordo e l’interdipendenza, l’armonia e la solidarietà tra gli ordines è
indispensabile al mantenersi della società stessa. È dentro questo ordinamento fisso e
rigido che i laici sono posti e il loro ordo è l’ultimo della scala. Infatti, in una società
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sacrale come quella medioevale, i laici che non hanno una funzione sacra e che si
dedicano agli affari del mondo trovano il loro posto alla base della piramide, mentre
al vertice si trovano coloro che più si avvicinano alla realtà divina, i contemplativi, i
monaci che esibiscono una forma di vita simile a quella di Cristo. Significativa è
l’immagine che san Bernardo usa per illustrare questi stati di vita di perfezione: il
mondo è come un vasto mare che si deve attraversare per raggiungere la salvezza;
nella traversata i monaci non si bagnano neppure in quanto passano su un ponte; gli
ecclesiastici viaggiano su un battello; gli sposati devono procedere a nuoto.
Insieme alla perfezione spirituale, l’altro criterio di appartenenza è quello
dell’officium e del potere: il clero e i chierici che insieme alle lettere gestiscono il
potere, occupano il posto preminente mentre i laici che sono gli illetterati e i senza
nulla sono all’ultimo posto. In conclusione, i laici nella Chiesa sono sempre
all’ultimo posto, tuttavia in questa visione gerarchica occorre tener presente che ogni
ordine realizza se stesso solo svolgendo il compito che gli è assegnato. La società
medioevale, infatti, non riconosce l’individuo isolato ma lo comprende solo rispetto
all’ordo, alle categorie, alle corporazioni a cui appartiene, e solo l’ordo dà al singolo
la propria realizzazione e collocazione nella società-chiesa. Significativo è il fatto che
l’immagine del corpo, che nella tradizione antica aveva l’intento di valorizzare
l’aspetto comunionale della Chiesa, venga ora utilizzato per teorizzare la gerarchia
dei vari ordini nella società-chiesa come in questo testo del cardinal Umberto di
Silvacandida: “L’ordine clericale occupa nella chiesa il posto principale, come gli
occhi nel corpo … La potestà laicale è come il petto e le braccia capaci e pronte a
obbedire e difendere la chiesa. Il volgo è come le membra inferiori e le estremità,
sottomesso e insieme necessario all’autorità ecclesiastica e secolare”.
Si affaccia il mondo moderno
Tuttavia a partire dal XII-XIII secolo affiorano i primi germi di cambiamento
soprattutto a partire dal basso, a partire dai laici. Emergono nella società nuovi gruppi
sociali in seguito alla rinascita economica (la ricchezza non passa più dai
possedimenti terrieri della campagna ma dal commercio e dall’artigianato delle città),
si risveglia una nuova coscienza civile (la nascita dei Comuni). Da una società
fondata sugli ordini (sacerdoti–guerrieri-contadini), dove il valore era quello di
aderire allo ‘stato’ di appartenenza trasmesso da generazione in generazione, si passa
ad una cultura più mobile fondata sui commerci e sugli scambi. Dalla una società
come ordinamento fisso e rigido emerge l’individuo, il primo frutto dell’iniziale
modernità. Sul piano religioso questo significa il sorgere di una sensibilità nuova che
attraversa prima di tutto i ceti popolari: si tratta del desiderio di una vita spirituale più
intensa (che accosti più da vicino la Parola di Dio in lingua volgare); dell’esigenza
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crescente di una vita cristiana per tutti (a partire da una scelta di fraternità, di povertà
e semplicità a imitazione delle prime comunità); della richiesta di una predicazione
accessibile anche ai laici. Questa linea attraversa i movimenti di protesta ereticali che
prefigurano una diversa visione ecclesiologica: la Chiesa è essenzialmente
congregatio fidelium, ossia assemblea di coloro che sono uniti dalla sola fede
riducendo al minimo l’elemento ministeriale e sacramentale; ma pure, restando
nell’ortodossia, accomuna i movimenti dei predicatori, dei mendicanti e le
confraternite laicali. Un sentire e una realtà nuova che ha consentito a molti fedeli di
ritrovare quella dimensione evangelica che la Chiesa istituzionale sembrava aver
perso; non solo, che ha saputo indicare una via pratica di spiritualità ispirata al
Vangelo, alla riscoperta di Gesù umile e povero, il Cristo della nascita e della croce,
della devozione della Madonna che diventa l’immagine di una Chiesa nuova, più
umana, più vicina e misericordiosa.
Queste rivendicazioni rivelano una consapevolezza mai vista, coerente con lo
sviluppo della civiltà comunale e mercantile che raggiungerà un grande sviluppo nei
secoli successivi. La grandiosa costruzione istituzionale e dottrinale del Medioevo,
che trova nelle cattedrali la sua traduzione plastica e architettonica più potente, non
reggerà all’urto delle contestazioni e delle spinte di ‘laicizzazione’ della Chiesa e
della società. Un esempio tra tutti: a metà del ‘400, l’umanista Lorenzo Valla tiene
una disputa con un frate sulla vita religiosa da cui emerge una nuova figura di laico
cristiano. Essere religioso, afferma, coincide con l’essere cristiano, sicché quella dei
frati è solo una scelta di vita diversa ma non superiore rispetto a quella del laico.
Cristiano è il laico che vive onestamente nel mondo, dedito alla cultura e alla virtù. E
il principio della virtù sta nel battesimo che è comune a tutti.
Il medioevo è ormai lontano, un nuovo ordine si profila: la Riforma prima e il
concilio di Trento, poi, saranno due modi di affrontare questo sfida della modernità
che avanzava inesorabile.
La tradizione tridentina
Il Concilio di Trento e l’epoca che ne è seguita, il ‘paradigma’ tridentino come lo ha
definito uno storico, va, quindi, compreso non solo come un’opera di riforma per
purificare la Chiesa dalla decadenza e dagli abusi ma più in profondità come risposta
alla trasformazione e alla frantumazione della grande cristianità medioevale sotto i
colpi di un nascente e nuovo assetto politico (gli Stati nazionali), di una nuova cultura
e società (l’umanesimo e la scoperta dell’individuo), di una nuova spiritualità e
modalità di rapportarsi a Dio; in altre parole, dietro l’urto dell’incipiente modernità.
Questa nasce quando l’uomo si emancipa da un cosmo e da un destino fissato dagli
‘ordines’ della società e si ritrova come individuo. Il suo smarrimento è proprio di un
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uomo che non ha più una posizione fissa e determinata in un ordine fisico e morale,
che non è più inserito in un’immutabile gerarchia degli esseri, mentre, diviene, di
conseguenza, a poco a poco sempre più solo. Solo davanti a Dio nell’angosciosa
incertezza provocata dall’abbandono di quel rassicurante mondo fornito dalla
christianitas medioevale. In questo orizzonte nasce il problema della salvezza
individuale, il problema teologico della grazia: l’uomo si salva per i propri meriti
oppure, peccatore, si deve affidare totalmente alla misericordia di Dio? Una questione
teologica che insieme rivela, all’inizio della modernità, la ricerca di una coscienza
nuova e di una nuova collocazione nel mondo.
La risposta di Lutero, più immediata e passionale, è molto più vicina alla linea
moderna e più consona alle esigenze dell’individuo: Lutero, infatti, si richiama alla
libertà del cristiano, al sacerdozio universale dei fedeli. Tutti i cristiani sono
sacerdoti-mediatori tra l’uomo e Dio e capaci, a partire dal battesimo, di stabilire un
rapporto diretto tra la coscienza del singolo e la parola di Dio, superando la
mediazione della Chiesa il cui governo, come di ogni struttura visibile, Lutero affida
allo Stato e al principe. La Chiesa di Roma arriva più tardi e adotta una soluzione più
complessa perché il principio di appartenenza alla Chiesa per Roma deve mantenere
una sua visibilità e un’autonomia rispetto ai poteri degli Stati nazionali emergenti in
vista della costruzione un nuovo universalismo dopo di quello medioevale. La Chiesa
cattolica aggiunge alla sola gratia luterana le buone opere riaffermando nel rapporto
tra Dio e l’uomo la funzione mediatrice della Chiesa attraverso l’autorità del
sacerdozio che si fonda sull’ordinazione e sul potere specifico di celebrare messa e di
confessare. A Trento i padri conciliari sono consapevoli che se si nega la
sacramentalità dell’ordine, come aveva fatto Lutero, viene meno anche la struttura
gerarchica della Chiesa e il carattere sacrificale della messa. Il concilio, di
conseguenza, mira fortemente a difendere il sacerdozio ordinato affermando
l’esistenza di un sacerdozio visibile ed esterno istituito da Cristo in vista del sacrificio
eucaristico e della remissione dei peccati ribadendo la differenza tra i cristiani in
generale e coloro che in forza del sacramento dell’ordine fanno parte della sacra
gerarchia.
Il passaggio dal cristiano al ‘fedele’ parrocchiano
La sfida che la Chiesa cattolica ha di fronte è difficile e grandiosa: è necessario
rispondere alla Riforma protestante su questioni dottrinali decisive per la propria
identità ma, insieme, deve conservare la sua tradizione e la sua immagine di chiesa in
un’epoca di grandi cambiamenti. La Chiesa cattolica, chiamata ‘romana’ dai suoi
avversari, per mantenere il proprio magistero (la dottrina) e la propria giurisdizione
(l’istituzione) caratterizza la sua riforma con una rigida confessionalizzazione a
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partire dalla pretesa di essere la sola custode della vera fede. Dentro questa strategia,
centrale appare la dottrina sul sacerdozio che, non solo è funzionale alle contestazioni
protestanti, ma viene considerata come la totalità della dottrina cattolica. Questa
dottrina viene tradotta pastoralmente da alcuni decisivi decreti di riforma conciliari,
uno dei più importanti, che avrà effetti decisivi sulla pstorale, punta su una sorta di
‘professionalizzazione’ dell’‘officium’ ecclesiastico attraverso l’istituzione dei
seminari. Il seminario diventa così la pietra angolare della restaurazione cattolica,
perché la sollecitudine per la qualità dei preti non è per Trento uno dei tanti aspetti su
cui intervenire ma risponde ad un progetto piramidale e gerarchico di Chiesa per la
quale, prima di tutto, occorre partire dall’alto e dai ‘quadri’ dirigenti. La formazione
dei preti è funzionale alla salus animarum, alla cura verso il popolo che diventerà
oggetto di un impressionante, minuzioso e articolato lavoro pastorale per trasformare
il semplice cristiano in “suddito-fedele”. Luogo di quest’azione sarà la parrocchia che
risponde ad un altro grande principio riformatore di Trento: la residenza obbligatoria
dei pastori, lo stare in un territorio per la cura d’anime. “Il santo sinodo comanda ai
vescovi, perché sia più certa la salvezza delle anime loro affidate, di dividere il
popolo in parrocchie determinate e di assegnare a ciascuna un proprio parroco
stabile che possa conoscere i propri parrocchiani”. A noi che, oggi, siamo intenti a
definire un nuovo spazio pastorale (le unità) che sostituisca quello tradizionale della
parrocchia non è difficile cogliere la portata rivoluzionaria di questa riforma sul
tessuto religioso e sociale. Infatti, la parrocchia diventerà, in questo modo, la leva per
la costruzione di quel cattolicesimo tridentino che ha profondamente inciso sulla
formazione cristiana e sulla vita delle nostre società. Come si può vedere, in questa
prospettiva, la cura animarum (“la salvezza delle anime deve essere per la Chiesa la
prima legge” è il motto pastorale di Trento) non è da considerarsi soltanto un
principio e un motto di riforma ma è la traduzione pratica di una precisa ‘forma’ di
Chiesa, una Chiesa appunto confessante che ha per finalità la sovranità sulle anime e
sui fedeli. Se nel medioevo la pratica e il culto cristiano faceva parte dei riti della vita
sociale e familiare, senza che ci si dovesse porre il problema di una “partecipazione”
individuale perché già il fatto di vivere in società significava essere partecipe della
Chiesa, ora la riforma tridentina, per rispondere all’emergere del moderno individuo,
struttura la cura d’anime in modo da assumere una propria organizzazione territoriale
e burocratica portando a coscienza la situazione del singolo. Ne danno testimonianza
i libri parrocchiali, i registri dei battezzati, dei matrimoni, dei funerali, resi
obbligatori dopo Trento, che rivelano nelle grafie spesso incerte dei parroci che li
hanno redatti, significati più profondi rispetto alla loro natura ecclesiastica. Il Liber
status animarum non è solo un’operazione amministrativa, un immenso archivio
anagrafico e statistico che diventa oggi una fonte di inestimabile valore per le
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ricerche degli storici, ma illustra concretamente il passaggio dall’uomo cristiano
medioevale al fedele moderno, è una ‘conta delle anime’ dalla quale discende un
nuovo modo di concepire la partecipazione del singolo alla vita della Chiesa, di
definire l’identità dell’individuo e insieme del fedele. L’individuo fedele dal suo
ingresso nella Chiesa fino al suo decesso viene registrato insieme alla sua pratica
religiosa, accuratamente annotata al fianco del suo nome con le tre c: c(onfessus),
c(omunicatus), c(onfirmatus). Da quei registri fino ad oggi anche noi ci
identifichiamo per essere nati in un certo posto, in una certa Chiesa, per essere
registrati in una comunità parrocchiale. Quindi, il registro delle anime è stato uno
strumento fondamentale per il processo di confessionalizzazione oltre che di
controllo del fedele.
Un discorso analogo si può fare per un altro caposaldo della riforma tridentina: la
dottrina al popolo. Non solo i preti erano obbligati allo studio del catechismo per
conoscere bene gli articoli della fede, i sette sacramenti e i dieci comandamenti. Non
solo c’era l’obbligo di insegnare la dottrina nel pomeriggio di tutte le domeniche e
dei giorni festivi ed erano previste pesanti penitenze e ammende per chi rifiutava di
partecipare al catechismo e anche per quei padroni che impedivano ai servi di
assistervi. La novità, e in un certo senso, la modernità sta nel fatto che
l’insegnamento del catechismo rappresenta, per quell’epoca dove la cultura era
ancora aristocratico monopolio di pochi, un primo passo verso la cultura scritta, verso
la cultura del libro non rivolta quindi solo ai letterati ma destinata al grande pubblico
popolare, come fondamento di una formazione religiosa e umana, di una nuova
consapevolezza del divenire cristiano. Per molti aspetti la futura scuola ‘moderna’,
sia nata dall’Illuminismo come emancipazione dell’individuo attraverso il sapere, sia
istituita dai nuovi Stati nazionali per formare il cittadino, ha nel binomio grammaticacatechismo la sua matrice.
In un altro ambito la Chiesa di tridentina impegnò tutto il suo sforzo per formare
l’individuo-fedele: quello della predicazione e dell’esortazione morale. Tre sono le
direzioni di questo disegno: l’elaborazione di una teologia morale, l’individuazione di
norme pratiche per normare la vita quotidiana e, da ultimo, l’istituzione di un
rigoroso e capillare sistema di controllo delle coscienze. Nei secoli seguenti il
Tridentino non si ha nessuna grande discussione di tipo dogmatico, invece l’interesse
della teologia si sposta dalla dogmatica alla morale e in questi secoli si moltiplicano i
trattati di morale e di analisi della coscienza attraverso la casistica che ha in Alfonso
Maria de’ Liguori il maestro che dominerà tutto l’insegnamento morale nei seminari
fino al novecento inoltrato. Per quanto riguarda le norme etiche la loro base rimane il
catalogo delle virtù di origine medioevale e soprattutto rimangono fondamentali i
dieci comandamenti. Ma fatto particolare del mondo cattolico è l’imporsi dei precetti
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della Chiesa come una terza tavola della legge, la tavola che fissa i doveri del
cristiano in quanto fedele. Norme ribadite per secoli in tutte le sedi, in tutte le
prediche, in tutti i manuali per confessori, a tutto il popolo sino a raggiungere il
Catechismo attuale della Chiesa cattolica: partecipa alla Messa la domenica e le altre
feste comandate, rimani libero dal lavoro, confessati almeno una volta l’anno, fai la
comunione almeno a Pasqua, in giorni stabiliti astieniti dalle carni e osserva il
digiuno. Per secoli la vita del fedele ha ruotato intorno a questi elementi di
prescrizione morale: decalogo, precetti della Chiesa, frequenza ai sacramenti (in
particolare la confessione e la comunione pasquale). Infine, sarà la confessione lo
strumento per il controllo delle coscienze e per un nuovo disciplinamento
ecclesiastico. Anzi, la confessione diventerà l’espressione più significativa del
passaggio dal sentimento religioso-sociale medioevale alla consapevolezza personale
dell’individuo moderno. In primo luogo, dopo Trento vengono disposti diversi
ordinamenti intorno al precetto della confessione e della comunione annuale. In
confessionale, per esempio, il parroco doveva munirsi di una lista alfabetica dei
parrocchiani e spuntare i nomi di chi veniva a confessarsi; ai padroni si
raccomandava di non assumere garzoni che quell’anno non si fossero confessati e
comunicati; il medico, poi, aveva doveri ancor più specifici perché, accorso al
capezzale di un malato, lo doveva esortare a confessarsi pena la scomunica. Ma
soprattutto, dietro questa cedola-certificato, il cosiddetto ‘biglietto pasquale’, di
avvenuto adempimento dell’obbligo di confessione annuale per essere mostrato ai
datori di lavoro e alle autorità ecclesiastiche e civili si intravede il processo di
formazione della società confessionale forse al suo massimo punto di maturazione.
La confessione diventava lo snodo fondamentale tra la sfera interiore della coscienza
del suddito-fedele e la sfera pubblica, tra l’individuo, la famiglia (dove in particole
veniva controllato il ruolo della sessualità) e la bottega.
Verso altre prospettive
La riforma della Chiesa certamente ha avuto con il concilio di Trento un passaggio
epocale. Tuttavia l’ecclesiologia tridentina, ma sarebbe meglio dire lo spirito della
Contro-Riforma, con l’accentuazione dei caratteri gerarchici, giuridici, difensivi e di
controllo della Chiesa e della pastorale ha ulteriormente determinato, in ambito
cattolico, una clericalizzazione della vita ecclesiale e una riduzione del laico fedele a
solo recettore passivo dell’azione del clero. In realtà, nei decenni dopo Trento,
pensiamo a san Filippo Neri e san Francesco di Sales con la sua Introduzione alla vita
devota, possiamo trovare altre figure ed esperienze che, più improntate alla linea
dell’umanesimo cristiano sulla scia di Erasmo, si ispirarono ad uno stile pastorale di
maggior coinvolgimento laicale, più comunitario, con una maggior attenzione alle
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persone. Ma possiamo segnalare, a metà dell’Ottocento, le figure di Newman in
Inghileterra che, contro gli eccessi del clero cattolico, difese la libertà dei laici
nell’indagine e nella ricerca teologica con uno scritto dal titolo significativo: Sulla
consultazione dei fedeli in materia di dottrina che scatenò da Roma violenti attacchi
al suo autore; e in Italia, Antonio Rosmini, che dedicò delle belle pagine al ruolo e ai
diritti dei fedeli soprattutto nella sua opera Delle cinque piaghe della Chiesa messa
poi all’Indice. Si può, quindi, affermare che per certi aspetti il modello tridentino si
mostrò incapace di comprendere gli orientamenti fondamentali di un mondo nuovo
che stava nascendo sotto i suoi occhi? O almeno, si può dire che abbia creduto di
poterlo arginare con la forza di una pastorale autoritaria, rigida e casuistica che
considerava il fedele laico anzitutto come ascoltatore privo di qualsiasi potere e
quindi senza diritto di parola nella Chiesa? Certo, l’espressione: il compito dei laici è
quello di “lasciarsi guidare”, può sintetizzare bene la vicenda del laico tridentino fino
ad Novecento. Troviamo, significativamente, questa espressione contenuta in
un’enciclica, Vehementer nos di Pio X, del 1906. “La Sacra Scrittura ci insegna e la
Tradizione dei Padri ci conferma che la Chiesa è il corpo mistico di Gesù Cristo,
corpo retto da Pastori e da Dottori; cioè una società di uomini in seno alla quale si
trovano dei capi che hanno pieni e perfetti poteri per governare, per insegnare e per
giudicare. Ne risulta che la Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè una
società formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge, coloro che
occupano un grado fra quelli della gerarchia e la folla dei fedeli. E queste categorie
sono così nettamente distinte fra loro che solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e
l’autorità necessari per promuovere e indirizzare …; e che la moltitudine non ha altro
dovere che dilasciarsi guidare e di seguire, come un docile gregge, i suoi pastori”.
Tuttavia di fronte ad una sempre più vasta e profonda laicizzazione delle istituzioni,
della cultura e delle mentalità, e davanti all’inesorabile avanzare del fenomeno della
secolarizzazione delle masse (quindi davanti ad un mondo “altro” da come sempre la
Chiesa l’aveva conosciuto e che, per la prima volta dal Medioevo, appariva come
realtà e mondo separato e sussistente dalla Chiesa stessa), la Chiesa, come cittadella
assediata (tutte le prediche e i documenti ufficiali lamentano la malvagità dei tempi, e
condannano gli errori moderni e la peste del laicismo), rinserra i suoi ranghi e chiama
i laici alla mobilitazione generale quale forza ausiliaria e di supporto all’opera della
gerarchia di “riconquista” della società. Ma proprio questo disegno di “riconquista”
(quindi ancora un movimento di chiusura frutto di una Chiesa risentita e tutta
investita nella missione di recuperare il terreno perduto della cristianità), tra
Ottocento e Novecento, risveglia un movimento di rinascita laicale che si svilupperà
in più direzioni. C’è una linea sociale che ha le sue radici nel Movimento cattolico
che comincia a rispondere ai bisogni e ai problemi di una società che conosceva
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un’incipiente e selvaggia industrializzazione sulla cui scia nascerà la prima enciclica
sociale, la Rerum Novarum di Leone XIII (che considera i laici nella società come
un’ancora gettata dalla gerarchia per salvare l’umanità da una catastrofe imminente).
La scelta politica, più libera e indipendente e quindi più sospetta agli occhi della
Chiesa, parte dall’esperienza dei cattolici liberali (Fogazzaro, Gallarati Scotti, Murri)
e sfocerà nell’esperienza politica del Partito Popolare di Sturzo e, nel dopoguerra,
della Democrazia Cristiana che porterà al riconoscimento dello Stato moderno e della
sua legittima laicità, del metodo democratico e del pluralismo e di un diverso
rapporto tra Stato e Chiesa. Infine, un’esperienza situata più dentro un alveo
ecclesiastico che ebbe un’enorme diffusione nelle nostre parrocchie, è invece
interpretata dall’Azione cattolica che caratterizzando i laici, a partire da un mandato,
come ‘collaboratori’ dell’apostolato della gerarchia, li riconosce, a partire dal
battesimo e dalla cresima (che rende, appunto, “soldati” di Cristo), come membri
attivi per la diffusione del Regno, da svolgersi, comunque, sempre sotto la tutela del
clero. È questo fecondo e promettente terreno, dopo un lungo inverno, a risvegliare
lungo il Novecento una nuova primavera di pratiche, di studi e di riflessioni (Maritain
- un laico! -, Congar e la Teologia del laicato, Chenu e la Teologia delle realtà
terrestri) che porterà alla maturazione di quei frutti che verranno raccolti dal
Vaticano II.
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