La soglia proibita
Il 2009 è un anno ricco di ricorrenze importanti. È l’anno di Galileo, che quattrocento anni fa inventò
il cannocchiale dando una spinta straordinaria all’osservazione dei corpi celesti e alla diffusione del
sistema eliocentrico e delle teorie copernicane, anche mediante il metodo scientifico (spesso
chiamato “metodo galileiano”). È l’anno del Futurismo, il cui primo manifesto venne pubblicato
cento anni fa su Le Figaro da Filippo Tommaso Marinetti, con la sua dimensione totalizzante che
investiva pressoché tutte le forme espressive (arti figurative, teatro, musica, poesia, cinema,
letteratura, danza, grafica, moda, comunicazione, persino cucina), la sua fiducia nella tecnologia e
nelle macchine e la sua vocazione sinestetica e polisensoriale. Ma è soprattutto l’anno di Charles
Darwin, per le ricorrenze del centocinquantenario della pubblicazione de L’origine delle specie e del
bicentenario della sua nascita, che si ricollega idealmente, per le sue conseguenze filosofiche e
culturali, alla rivoluzione copernicana. Dunque, proseguendo la riflessione sulle “Soglie”, abbiamo
pensato di dedicare questo numero di “Nuovi Orizzonti” a una delle soglie più discusse dall’umanità,
ben prima di Darwin, ma anche più attuali, perché per estensione riguarda anche il nostro rapporto
con l’alterità biologica, con l’ambiente in cui viviamo, con il pianeta, con la sostenibilità delle nostre
azioni: le soglie tra uomo e animale, e, più in generale, tra esseri viventi.
Una
caricatura del 1882 sulla teoria dell’evoluzione di Darwin (courtesy Tulane University)
Il lavoro di Darwin relativizza ulteriormente la posizione dell’uomo nell’universo, in qualche modo
completando ciò che Copernico aveva iniziato tre secoli prima. Copernico aveva detronizzato l’uomo
dalla sua posizione al centro dell’universo, ma l’uomo restava pur sempre la creatura eletta che
governava la Terra, la prima, la più alta tra le creature viventi. Darwin spodesta l’uomo dalla sua
posizione privilegiata sulla Terra, dalla sua superiorità nell’ambiente, nell’habitat in cui vive. Come
per tutti gli altri esseri viventi anche l’umanità è il risultato di un processo estremamente lungo, di
un “progetto senza un progettista”, che si realizza da sé. Tutti gli esseri viventi, uomo compreso, non
sono stati creati così come sono oggi e non sono fissi e immutabili, bensì si sono evoluti a partire –
oggi sappiamo all’incirca da 3,8 miliardi di anni fa – da un remoto gruppo di organismi primordiali
comuni. La natura – “un sistema di materia in movimento guidato da precise leggi, che può essere
spiegato con il ragionamento, senza ricorrere a entità sovrannaturali”[1] – ha dunque una storia, e
questa evoluzione è avvenuta, e avviene tuttora, mediante due modalità distinte: la “variazione” (che
oggi viene chiamata “mutazione”), cioè la casuale introduzione di modificazioni (favorevoli,
sfavorevoli o neutre), e la “selezione naturale”, che è quel processo mediante il quale l’ambiente
privilegia la prolificità di alcuni organismi rispetto ad altri.
La teoria di Darwin, apparentemente così semplice da essere spesso fraintesa e forzata, si situava
nell’ambito di un processo che iniziava a considerare l’evoluzione come elemento fondamentale degli
organismi viventi (già all’inizio dell’800 Jean-Baptiste Lamarck portava la biologia al di fuori del
creazionismo). Come si può immaginare, la teoria di Darwin venne aspramente contrastata perché
andava, tra le altre cose, contro le idee del mondo come creazione da parte di un’entità “superiore”
(il “creazionismo”) e della natura come fissa e immutabile, al centro della quale risiedeva l’uomo, e
successivamente, dopo il suo L’origine dell’uomo pubblicato nel 1871, perché sosteneva la
discendenza dell’umanità da una qualche specie di antenato primitivo… Le intuizioni di Darwin sono
ancora attuali e la teoria evoluzionista è stata in seguito integrata con la genetica e la genomica,
prendendo il nome di neodarwinismo, fino a diventare un paradigma anche al di fuori della biologia,
per esempio nello studio dell’evoluzione delle lingue parlate, degli artefatti umani o delle forme di
vita non organiche. Ma non sono mai mancati tentativi di contrastarla, reintepretarla o, peggio,
sviarla, tentativi che sono ancora in atto: il creazionismo, anche sotto le spoglie di smart evolution o
di intelligent design, ha ancora dei potenti sostenitori.
Dunque tutti gli organismi viventi hanno in comune un qualche avo arcaico, cioè sono imparentati
tra loro. Ogni individuo, a qualunque specie appartenga, è unico ma è un po’ come se fosse pervaso
dalla materia e dai processi di cui sono fatti tutti gli altri. “Molte scoperte hanno messo in luce
l’incredibile unitarietà degli esseri viventi. I processi fondamentali e i meccanismi che li controllano
sono essenzialmente gli stessi in tutte le specie. Si è scoperto, per esempio, che per fare uno
storione, un ranocchio, un topo o un uomo è richiesta l’azione programmata e coordinata di un certo
numero di geni dello sviluppo che gli animali di tutte queste specie hanno in comune e che sono
anche nel patrimonio genetico di insetti e molluschi.”[2] Nei nostri geni sono presenti i geni di molte
altre specie, persino dei virus, organismi alla base della vita che possono essere considerati come
dei veri e propri “impollinatori di mutazioni”, uno dei due pilastri su cui poggia l’evoluzione
darwiniana. Le stesse difficoltà e discussioni all’interno dell’ambito scientifico sul concetto di specie
e sulle metodologie in base alle quali determinare le differenze tra le specie sottolineano in fondo
questa unitarietà.
La dimensione antropocentrica ha tuttavia una resistenza secolare. Secondo Roberto Marchesini “lo
stereotipo dell’animale quale essenzialmente diverso, estraneo da qualsiasi contiguità, addirittura
speculare nelle qualità, è nella cultura occidentale il caposaldo che sostiene una visione solipsistica
della nostra specie e basa la dignità dell’uomo sull’unicità e lontananza e su un suo presunto
carattere speciale. Trasformare questa cesura in una liminarietà valicabile nei due sensi, azzerare il
distanziamento riconoscendo parentele e ammettendo prestiti dal non umano, significa nel pensiero
comune porre una pesante ipoteca sulla dignità umana.” Secondo l’approccio zooantropologico, la
stessa peculiarità umana è il risultato dell’ibridazione e dell’inclusione del non umano, della
condizione animale. E dunque, crescere, evolversi, anche come umanità non può prescindere
dall’ibridazione con l’alterità biologica, col non umano.
Luis Bec,
Les chromatologues, progetto di comunicazione interspecie
Uno degli elementi considerati come discriminante tra umanità e altre specie viventi è il linguaggio
simbolico, cioè la capacità dell’uomo, a partire da un certo stadio della sua evoluzione, di usare i
simboli: segni indicali, immagini, linguaggio orale, scrittura… fino a giungere alla straordinaria
complessità odierna. Ma anche la capacità simbolica e il linguaggio, peculiarità della nostra specie,
si sono evoluti dalla nostra biologia. Come nota Antonio Caronia, “la percezione che noi umani
abbiamo di noi stessi è viziata dallo strumento che media e complica la nostra visione del mondo, il
linguaggio. È indubbio che nessun’altra specie animale su questo pianeta possieda uno strumento
neanche lontanamente simile al nostro, ma ciò non significa che l’origine del linguaggio non sia
profondamente e saldamente radicata nella nostra biologia. […] Non c’è quindi nessuna cesura
‘ontologica’ fra natura e cultura. La cultura è semplicemente la nostra biologia.”
L’arte ha spesso mostrato in positivo la contiguità tra umanità e animalità, e più recentemente il
lavoro dei bioartisti è andato a indagare le radici profonde questa presunta differenza, le radici del
vivente. Per Eduardo Kac la bioarte “opera col vivente – cioè con il vivente nel più ordinario senso
del termine, da una singola cellula a un mammifero. È in questo senso organico che la bioarte
utilizza le proprietà della vita e i suoi materiali, che cambia gli organismi all’interno delle loro specie,
o che inventa la vita con nuove caratteristiche.”
Dunque, il riconoscimento della permeabilità o dell’inconsistenza delle soglie tra ciò che definiamo
“umano” e “animale” è uno degli elementi chiave della nostra stessa futura umanità. La nostra
specie prima è stata in competizione con altre specie, poi con certe specie ha attivato delle forme,
sia pure limitate, di collaborazione, di cooperazione. Il passo successivo, come mostrano anche
alcune applicazioni nell’arte, potrebbe essere quello verso la comunicazione, l’empatia… il
riconoscimento, la comprensione e la condivisione delle differenze. All’interno di un panorama del
vivente che, come abbiamo visto nel numero di “Nuovi Orizzonti” dedicato alla “terza vita” (la vita
delle entità e degli organismi creati dalla cultura umana), sarà probabilmente molto più ricco e
articolato di come lo conosciamo oggi.
Pier Luigi Capucci
D’ARS year 49/nr 197/spring 2009
[1] Francisco J. Ayala, cit. in Gary Stix, “L’eredità di Darwin”, Le Scienze, n. 486, febbraio 2009, p.
40.
[2] Edoardo Boncinelli, “La genetica dell’evoluzione”, Le Scienze, op.cit, p. 50.