Malattie genetiche nell`arte. Giuseppe Castaldo , Simona Giardina

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Malattie genetiche nell’arte.
Giuseppe Castaldo1,2, Simona Giardina3, Ausilia Elce1,2, Rossella Tomaiuolo1,2
1
CEINGE-Biotecnologie avanzate; 2Dipartimento di Biochimica e Biotecnologie
Mediche, Università di Napoli Federico II; 3Università Cattolica del Sacro Cuore,
Facoltà di Medicina e Chirurgia "A. Gemelli", Roma
Oggi sono note oltre 5000 malattie genetiche, molte delle quali ereditarie. Negli ultimi
anni la ricerca di base su queste malattie, unita allo sviluppo di tecnologie sempre più
efficienti ha permesso di identificarne i geni coinvolti e le mutazioni responsabili; il
trasferimento alla routine di queste tecnologie si traduce in un contributo diagnostico
prezioso per i pazienti e le loro famiglie. Anche se la patogenesi molecolare di queste
malattie è un’acquisizione recente, molte di esse sono note da secoli, e di alcune si
trovano chiare testimonianze nell’arte, o anche in artisti celebri.
Monna Lisa Gherardini, l’enigmatica ispiratrice della più grande attrazione del
Louvre era presumibilmente affetta da ipercolesterolemia, a giudicare dalla presenza
di una piccola raccolta di grasso sottocutaneo evidente sotto l’occhio sinistro (oggi
definita xantelasma, e considerata uno dei segni patognomonici di ipercolesterolemia)
nonché di un piccolo lipoma alla mano. E fa una certa impressione pensare dopo
esattamente 500 anni, che la sfuggente e sensuale interprete di quell’icona possa
essere morta di infarto. L’ipercolesterolemia familiare (che non è azzardato definire la
peste del terzo millennio almeno nei paesi sviluppati o in via di sviluppo, a causa delle
frequenti e severe complicanze cardiovascolari) è tra le più frequenti malattie
genetiche ereditarie, con un’incidenza di 1 su 500 nuovi nati. Spesso è diagnosticata
nell’adulto, a volte soltanto dopo lo sviluppo di una complicanza cardiovascolare, una
fase in cui gli effetti dell’alterazione metabolica sono ormai poco reversibili. Eppure
in quasi tutti i casi di ipercolesterolemia familiare i livelli di colesterolo sono già
elevati in età pediatrica, l’alterazione molecolare (alterazione del recettore epatico per
le lipoproteine a bassa densità) è presente dalla nascita e può essere evidenziata
dall’analisi molecolare di un campione di DNA ottenuto da un semplice prelievo di
sangue. Uno screening di massa per l’ipercolesterolemia familiare permetterebbe di
abbattere drasticamente la frequenza (e i costi) delle complicanze cardiovascolari,
eppure non vi sono ancora, nella letteratura scientifica, esempi di screening di massa
estesi per questa patologia.
Tra gli esempi più belli della cultura di Napoli (anche se la tradizione sarebbe nata
con San Francesco) è l’arte presepiale, e gli antichi pastori ci offrono una vasta
gamma di esempi di malattie un tempo diffuse, oggi per fortuna più rare. Il nanismo,
il gozzo, la tipica facies del cretinismo tiroideo che con regolare ricorrenza
compaiono tra i pastori dei più bei presepi della storia sono ben noti ai cultori dell’arte
e della scienza medica, e rappresentano le complicanze dell’ipotiroidismo congenito.
Oggi la frequenza di queste malattie è drasticamente calata, grazie all’opera di
prevenzione garantita dagli screening neonatali per queste malattie, obbligatori da
molti anni nei paesi industrializzati e grazie all’aggiunta di iodio nel sale. E su queste
attività di prevenzione il nostro paese ha il merito di essere stato tra i primi ad
intervenire, grazie anche all’opera di scienziati “socialmente” illuminati come
Gaetano Salvatore ed Aldo Pinchera. Ma nonostante ciò esistono ancora casi di
ipotiroidismo congenito che sfuggono allo screening neonatale, soprattutto in un
paese come il nostro che - nonostante qualche poco illuminato tentativo di contrasto è tra i più aperti alla globalizzazione e all’immigrazione da paesi meno fortunati, dove
lo screening neonatale è una chimera. E’ quindi importante disporre di protocolli
diagnostici che permettano l’individuazione dei pazienti con ipotiroidismo congenito
prima che le complicanze della malattia rendano inefficace la terapia, e la medicina di
laboratorio (inclusa la diagnostica molecolare) offrono un irrinunciabile contributo
diagnostico.
E andando ai grandi artisti, la letteratura scientifica è abbastanza concorde nel ritenere
che F. Chopin fosse affetto da una forma atipica di Fibrosi Cistica (FC. Majka L, et al.
Cystic Fibrosis – a probable cause of F. Chopin’s suffering and death; J Appl Genet
2003). In realtà questa diagnosi è di oggi; all’epoca Chopin fu considerato affetto da
mal sottile, una malattia molto diffusa (forse anche perché costituiva un “refugium
peccatorum” diagnostico per tutti i pazienti affetti da malattie croniche dell’apparato
respiratorio), e tra l’altro la ”maschera romantica” della tubercolosi (Giardina S,
Letteratura del Mal sottile, KOS, 2006) ben si attaglia al compositore i cui Notturni
sono tra gli esempi più fulgidi del romanticismo musicale. Chopin era alto 1.70 per un
peso inferiore a 50 Kg (caratteristico segno di malassorbimento cronico presente nel
90% dei pazienti con FC); la sua vita fu costellata da episodi di emottisi (altro
elemento frequentissimo nella malattia); la tosse cronica accompagnò la vita del
grande compositore, e la sorella morì all’età di 14 anni per malattia respiratoria. Ma
soprattutto il patologo che eseguì l’autopsia alla morte di Chopin (all’età di 38 anni)
scrisse … “se si tratta di tubercolosi è il primo caso del genere che vedo nella mia
carriera”. E quindi quell’anima a tratti disperata che traspare da alcune Ballate o dalla
splendida Marcia Funebre sono forse nate proprio dal disagio per una malattia cronica
e progressivamente invalidante come la Fibrosi Cistica. Attualmente la patogenesi
della FC è ben nota; da oltre 15 anni l’analisi molecolare rappresenta un prezioso
ausilio alla diagnosi della malattia, e in molti paesi è offerto lo screening neonatale
per la diagnosi preclinica di FC. Eppure la storia di questa malattia non è chiusa. Oggi
la FC, considerata da sempre l’esempio paradigmatico di malattia mendeliana
semplice, forse dipende da una serie di geni modulatori responsabili di una malattia
diversa in ogni paziente. E proprio un grande compositore come Chopin con la sua
forma atipica di Fibrosi Cistica ci offre lo spunto per studiare questo “concerto” di
geni.
E per avvicinarci di più ai tempi nostri (e anche alla nostra terra, dato che il nonno era
napoletano), il grande pianista M. Petrucciani era affetto da osteogenesi imperfecta, la
malattia delle ossa di cristallo; il papà, a sua volta tra i più grandi chitarristi jazz della
storia, dové inventare ed adattare al pianoforte del figlio una serie di artifizi tecnici
che gli permettessero di raggiungere i pedali. L’osteogenesi imperfecta è una malattia
genetica oggi ben conosciuta, molto complessa, per la quale l’analisi molecolare
fornisce un prezioso contributo non solo alla diagnosi, ma addirittura alla previsione
della prognosi in ogni paziente.
Dialogare con le opere d’arte non è un esercizio fine a se stesso ma ci aiuta a guardare
al malato con uno sguardo non solo tecnico ma anche umano. L’arte è stata fin dal
passato uno strumento di indagine conoscitiva che spesso ha collaborato con la
scienza. Il linguaggio dell’arte ha la peculiarità di dare informazioni in forma umana,
di consentire allo spettatore di sentire il disagio del malato, di cogliere la profondità
della realtà fenomenica che ritrae. A questo proposito si pensi ai quadri che Géricault
- collaborando con lo psichiatra Georget - fece sui monomaniaci della Salpêtrière in
cui riuscì a trasfigurare la documentazione medica fornitagli in ritratti in cui si
mescolano l’osservazione obiettiva e il significato umano della follia. Le patologie
genetiche rappresentate nell’arte sono un elemento importante perché si dà voce
all’“imperfezione” del corpo come luogo fragile in cui si snodano le passioni e i
tormenti dell’uomo. In primo piano vi è la dimensione privata della malattia e della
sofferenza di chi porta sul corpo i segni spesso sfiguranti e per questo segnate nel
passato (e a volte ancor oggi, soprattutto per le malattie genetiche) da la connotazione
morale della malattia come colpa. Quelle che l’arte trasmette non sono immagini che
rappresentano casi clinici ma storie umane: frequenti sono ad es. i ritratti di nani o
gobbi o disabili colti nella vita quotidiana il cui sguardo spesso esprime l’amara
consapevolezza di chi è abituato alla sofferenza. E’ proprio questo sguardo che deve
rappresentare una sfida per tutti coloro che a vario titolo si interessano della salute
dell’uomo. Da un lato, dunque, lo sguardo tecnico – fondamentale per conoscere e
trattare le malattie – dall’altro quello umano – indispensabile per comprendere i
malati. Non solo. Anche le storie personali degli artisti colpiti da patologie (e ce lo
dimostra Petrucciani quando dice che il “dominio dello strumento” che riuscì a
conseguire dipese dalla sua malattia che gli precluse ogni distrazione) possono
rappresentare uno stimolo per una ricerca che tenga conto della variabilità tra gli
individui che non possono essere ricondotti a rigide classificazioni. E proprio la
genetica molecolare, che permette oggi di visualizzare le singole basi azotate come
base biologica di una parte di questa variabilità ci aiuta a ricordare che ogni malato ha
la sua storia, unica e irripetibile.
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