BREVI NOTE SUL PLEBISCITO DEL 1866 Di seguito si riporta un breve sunto del volume di Ettore Beggiato “1866: la grande truffa” ad opera dell’autore: Il plebiscito che sancì l'annessione del Veneto all'Italia (*) viene liquidato dai nostri libri di storia in poche battute visto che la storiografia ufficiale sostiene che "tutto si svolse con mirabile ordine e fra universali manifestazioni di gioia" (1). Pochi sanno che in realtà fu una colossale truffa, la prima di una serie infinita di truffe perpetrate dall'Italia ai danni dei Veneti. Il nostro Veneto in realtà era già stato "passato" dalla Francia all'Italia in una stanza dell'Hotel Europa lungo il Canal Grande, il 19 ottobre. (2) Il generale francese Leboeuf consegnò il Veneto a tre notabili: il conte Luigi Michiel, veneziano, Edoardo De Betta, veronese, Achille Emi-Kelder, mantovano. Questi, a loro volta, lo "deposero" nelle mani del commissario del Re conte Genova Thaon di Revel e il giorno dopo sulla "Gazzetta di Venezia" apparve un anonimo trafiletto: "Questa mattina in una camera dell'albergo d'Europa si è fatta la cessione del Veneto" (3) Riepilogando: un trattato internazionale (fra Austria e Prussia, 23 agosto a Praga) prevede il passaggio del Veneto alla Francia che poi lo consegnerà ai Savoja; nel trattato di pace di Vienna fra l'Italia e l'Austria del 3 ottobre si parla testualmente di "sotto riserva del consenso delle popolazioni debitamente consultate":un riconoscimento internazionale al diritto all'autodeterminazione del popolo veneto che in quel momento ha la sovranità sul suo territorio. Teniamo anche presente che c'è stata l'ipotesi, come scrisse l'ambasciatore asburgico a Parigi Metternich al suo ministro degli esteri Mensdorff-Pouilly il 3.8.1866, di arrivare a "l'indipendenza della Venezia sotto un governo autonomo com'era la vecchia Repubblica" Il plebiscito avrebbe dovuto svolgersi sotto il controllo di una commissione di tre membri che "determinerà, in accordo con le autorità municipali, il modo e l'epoca del plebiscito, che avrà luogo liberamente, col suffragio universale e nel più breve tempo possibile". Così era stato concertato dall'ambasciatore d'Italia a Parigi Costantino Nigra con il governo francese (4), che sembrava determinato a svolgere fino in fondo il proprio ruolo di garante internazionale sancito anche dal trattato di pace fra Prussia e Austria.. Il governo italiano invece, e in particolare il presidente Bettino Ricasoli interpretava pro domo sua i trattati: "Quando si tratta del plebiscito si tratta di casa nostra; non è già che si faccia il plebiscito per obbedienza o per ottemperare al desiderio di qualche autorità straniera..... La pazienza ha il suo limite. Perbacco! La cessione del Veneto fu nel Parlamento inglese chiamata un insulto all'Italia. Concedendo la presenza del generale francese all'effetto delle fortezze, mi pare di concedere molto" così sosteneva il Barone Ricasoli.(5) E così uno sconsolato generale Le Boeuf scrive a La Valette il 15 settembre: "Nutre inquietudini per l'ordine pubblico: le municipalità fanno entrare le truppe italiane o si intendono col re, che governa una gran parte: egli deve lasciar fare. Il plebiscito non si potrà fare che col re e col governo"(6) Altro che controlli, altro che garanzie internazionali! Lo stesso generale Le Boeuf annunciava il 18 ottobre a Napoleone III che ha protestato contro il plebiscito decretato dal re d'Italia: Napoleone gli dice di lasciar perdere. (7) La Francia praticamente rinuncia al proprio ruolo di garante internazionale e consegna il Veneto ai Savoja. Una quasi unanimità che venne poi rispettata al momento del voto; già, ma anche i numeri non quadrano. Il 27 ottobre la Corte d'Appello proclama l'esito della consultazione: "SI 641.758", "NO 69". Nella lapide del Palazzo Ducale si parla di "Pel SI voti 641.758", "Pel NO voti 69", "Nulli 273"; Alvise Zorzi in "Venezia austriaca" (pag. 151) parla di "SI 647.246", "NO 69", Denis Mack Smith "Storia d'Italia 1861-69" parla di "SI 641.000", "NO 69". E su questi numeri si impongono almeno due considerazioni: i voti favorevoli sono attorno al 99,99 %: una percentuale che non fu ottenuta neppure dai regimi più feroci, da Stalin a Hitler. Di sicuro il plebiscito venne "preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l'influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il "Giornale di Vicenza", -i campagnoli furono lasciati nell'ignoranza o nell'apatia d'ogni civile concetto, educati all'indifferenza per ogni sorta di governo" (9) Si scriveva ad esempio "ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l'onore delle Venezie e dell'Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l'offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione. (10) Questa politica intimidatoria tuttavia non ebbe grossi effetti sulla partecipazione popolare: "A Valdagno, ad esempio nonostante il plebiscito venisse decantato non come semplice formalità e cerimonia, ma una festa, una gara, solo circa il 30% sulla complessiva popolazione del Comune si recò a votare, mentre un buon 70%, per chissà quale motivo, preferì continuare ad occuparsi dei fatti propri, indifferente all'avvenimento. Analogamente in tutti i distretti....." (11) E' la conferma del fatto che il cosiddetto risorgimento fu nel Veneto un momento al quale la stragrande maggioranza del nostro popolo partecipò con grande indifferenza, passiva . E questo ce lo conferma Mack Smith che scrive "Garibaldi si infuriò perchè i Veneti non si erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato facile farlo". Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci illumina la lettura di "Malo 1866" di Silvio Eupani: "Le autorità comunali avevano preparato e distribuito dei biglietti col si e col no di colore diverso; inoltre, ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell'urna". E Federico Bozzini così descrive nel suo "L'arciprete e il cavaliere" quanto avvene a Cerea: "Come già si disse -continua il commissario- vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l'altra sopra l'altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarta od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il SI, sopra l'altra il NO". E più avanti: "I protocolli sono due, -uno pei votanti che presentano il viglietto del SI, l'altro dei votanti che presentano il viglietto del NO, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all'ultimo numero progressivo del protocollo. Nel protocollo pei viglietti del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale." E alla fine: "La commissione quindi conclude il presente Protocollo gridando: Viva l'Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja". Di particolare interesse, sempre sul volume del Bozzini, la citazione della Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866: "Si, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell'Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia". Una sottolineatura di straordinaria importanza: già allora qualcuno aveva capito che una cosa erano i veneti e un'altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente coincidevano con gli interessi degli altri. Cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a Venezia un po' più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare "degli italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia" (12) (*) Il plebiscito riguardò il Veneto, il Friuli (le attuali province di Pordenone e Udine) e la provincia di Mantova (1) A. Saitta - Storia illustrata 06/1966 Mondadori (2) G. Distefano - G. Paladini - Storia di Venezia 1797-1997 - II Supernova pag. 274 (3) Thaon di Revel Genova - La cessione del Veneto - Firenze 1906 (4) M.A.E., Corr. pol., ConsultsAutrische, vol 27, pagg. 225-229 (5) Lettere e documenti del Barone Bettino Ricasoli, a cura di Tabarrini e Gotti, Firenze 1893 (6) LesOrigines, Xii, 297 ss, n. 2596-2597 (7) M.A.E. Corr. pol., ConsultsAutrische, vol 27, pag. 284 (8) Antonio Roldo Dolomiti O8/93 (9) E. Franzina - Vicenza storia di una città- Neri Pozza editore p. 700 (10) A. Navarotto - Ottocento vicentino Padova 1937 (11) A. Kozlovic - Immagini del risorgimento vicentino - Pasqualotto 1982 (12) A. Zorzi - Venezia Austriaca pag.32 – Laterza Altre osservazioni sul Plebiscito del 1866: Memore dell’esperienza maturata negli Stati di Napoli e Sicilia, occupati nel 1860, il Regno d’Italia subito trasferiva in Veneto, anzi già ancor prima della consultazione plebiscitaria, ingenti forze militari e di polizia al fine di reprimere con forza le già serpeggianti rivolte. E’ stato stimato che La presenza militare poliziesca del Regno d’Italia era almeno tripla rispetto alla analoga forza posta in campo dagli Austriaci precedentemente. La burocrazia era totalmente straniera. Sul tale punto, di enorme importanza, si offrono di seguito una serie di dati ricavati innanzitutto dai lavori di FEDERICO BOZZINI (L’Arciprete e il Cavaliere, Verona ….), IVONE CACCIAVILLANI (Il Veneto in Italia. Dalla rivoluzione del '48 all'unificazione legislativa del '71, Venezia 2010), GIOVANNI DISTEFANO (Atlante Storico di Venezia, Venezia 2007), DAVID LAVEN ed Elsa Damien, Empire, city, nation: Venice's imperial past and the 'making of Italians' from unification to fascism. In: Regional integration as a function of empire. Central European University Press, Budapest, 2013, GIOVANNI DISTEFANO e GIANNANTONIO PALADINI (Storia di Venezia 1797-1997, 3 voll., Venezia 1997), ANDREAS GOTTSMANN (Venetien 1859-1866. Österraischische Verwaltung und nationale Opposition, Wien 2005). 1. Nell’estate del 1866 tale era la forza del Gran Protettore del Regno d’Italia Napoleone III – che non appena l’Impero Asburgico fu sconfitto dai Prussiani (alleati del Regno d’Italia, e collegati alla Francia) nella battaglia di Sadowa o battaglia di Königgrätz-Hradec Královédel 3 luglio 1866, gli Imperiali, cioè gli Austriaci iniziarono a ritirarsi dal doppio Stato Lombardo-Veneto : le truppe italiane erano così – senza combattere – presso il medio corso della Piave già alla metà di luglio. 2. Il 23 di Agosto l’Impero e la Prussia firmano un trattato di pace a Praga: si finge che il Veneto sarà consegnato alla Francia, (e ciò ad una decina di giorni dalla vittoria austroveneta sugli italiani a Custoza) 3. Dieci giorni dopo il trattato di Praga, un nuovo trattato di pace tra Regno d’Italia ed Impero prevede una consultazione popolare tale da garantire al popolo veneto una libera scelta circa il proprio futuro. 4. Così non sarà. 5. “Preceduto da una vera campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per l'influenza che il clero manteneva nelle zone rurali dove, aveva scritto in settembre il Giornale di Vicenza, i campagnoli furono lasciati nell'ignoranza o nell'apatia d'ogni civile concetto, educati all'indifferenza per ogni sorta di governo" [EMILIO FRANZINA, Vicenza storia di una città, Vicenza 1980]. Si scriveva, ad esempio, “ricordino essi (i Parroci e i Cooperatori dei ns. villaggi) che ove in alcuna parrocchia questo voto non fosse sì aperto, sì pieno quale lo esige l'onore delle Venezie e dell'Italia, sarebbe assai difficile non farne mallevadrice la suddetta influenza clericale, e contenere l'offeso sentimento nazionale dal prendere contro i preti di quelle parrocchie qualche pubblica e dolorosa soddisfazione” [ADRIANO NAVAROTTO, Ottocento vicentino, Padova 1937]. Come si svolse il voto, con quali garanzie di libertà di scelta e di privacy e segretezza ? Innanzitutto al voto parteciparono anche centinaia di migliaia di non iscritti alle liste elettorali : le torme di “rimpatriati” (gli agenti piemontesi classificati quali “esuli veneti”, gli agenti famelici che per anni avevano bivaccato a Torino come un flagello), e soprattutto i militari, piemontesi e da ogni altra parte del Regno, [GIOVANNI DISTEFANO e GIANNANTONIO PALADINI (Storia di Venezia 1797-1997, 3 voll., Venezia 1997]. Quella dei militari fu una massa immensa, il cui peso fu determinante e per l’espressione del loro voto e per l’enorme impatto condizionante che la loro mera presenza determinò sui votanti indigeni. Per di più il loro peso risultò sistematicamente moltiplicato più e più volte : dopo aver votato in un paese si spostavano nei paesi vicini, e poi via via in altri ancora, e dovunque ripetevano il loro voto. In uno stesso paese potevano votare così più battaglioni, che poi sciamavano, ciascuno dovendo seguire un circuito prestabilito, verso altri seggi. L’eclatante manifestarsi di queste violente armate peregrinanti del voto fu tanto impressionante ed angosciantemente grandioso al punto da imprimersi nelle menti dei veneti per almeno cinque o sei generazioni. “Su un totale di 2.500.000 veneti [e germanofoni e sloveni, e ladini e friulani, oltre ai mantovani] ha diritto al voto meno di un terzo della popolazione. Le schede per le votazioni del sì e del no sono a voto palese, di colore diverso. Inoltre, su manifesti, volantini e giornali si può leggere che ‘chi vota no commette un delitto, colla coscienza che grida: traditore della patria’. Le autorità comunali avevano dunque previsto e distribuito dei biglietti col sì e col no di colore diverso. Ogni elettore, presentandosi ai componenti del seggio, dove c’erano due urne con con sopra scritto ben chiaro SI (in una) e NO (nell’altra), pronunciava il proprio nome e consegnava la scheda al presidente, che la depositava nell’urna. In seguito gli autonomist veneti diranno che è stata una colossale truffa. In ogni caso, il 27 ottobre, la Corte d’Appello proclama l’esito della consultazione: sì 641.758, no 69, nulli 273”, [GIOVANNI DISTEFANO, Atlante Storico di Venezia, Venezia 2007]. “La commissione quindi conclude il presente Protocollo gridando: Viva l'Italia unita sotto lo scettro della Casa di Savoja” [FEDERICO BOZZINI, L'arciprete e il cavaliere, Roma 1985]. L’elettore era sempre accompagnato e seguito da militari e gendarmi, armati fino ai denti, spesso anche con coltelli e bastoni. La voce popolare ha sempre indicato un numero assai alto di malmenati, di feriti, e di deceduti tra i votanti. “Come già si disse - continua il commissario - vi devono essere due urne separate, una sopra un tavolo, l'altra sopra l'altro. Se per caso non avesse urne apposite, potrà adoperare due misure di capacità pei grani, cioè una quarta od un quartarolo. Sopra una sarà scritto ben chiaro il SÌ, sopra l'altra il NO” [FEDERICO BOZZINI, L'arciprete e il cavaliere, Roma 1985]. “I protocolli sono due, - uno pei votanti che presentano il viglietto del SI, l'altro dei votanti che presentano il viglietto del NO, per modo che il numero complessivo dei viglietti che, finita la votazione, si troveranno in ciascheduna urna, dovrà corrispondere all'ultimo numero progressivo del protocollo. Nel protocollo pei viglietti del NO si dirà: votarono negativamente i seguenti cittadini. La piena pubblicità del voto rende inutile lo spoglio finale.” “Sì, vuol dire essere italiano ed adempire al voto dell'Italia. No, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia” [da la Gazzetta di Verona del 17 ottobre 1866, citata da F. Bozzini]. Allora il nome e il concetto di Italia erano sconosciuti pressocché all’intera popolazione veneta. E se dei ricordi in qualcuno questo nome evocava, si trattava di ricordi sgradevoli assai, risalenti al biennio 1848-1849 : quando la Repubblica Veneta, impegnata sul campo in una lotta eroica (ma dissanguante) contro l’Impero Asburgico, si trovava a dover fronteggiare l’esercito turbolento ed instancabilmente aggressivo di spie fameliche, di agenti segreti, di infiltrati a tutti i livelli di ogni risma, che tentavano di pugnalarla alle spalle per farla assorbire ed occupare dallo Stato piemontese. “Solo ora, dacché se ne fa un certo parlare anche fra il popolo, il nome Italia comincia ad assumere le forme popolari, e se un ministro scrisse Itaglia, nel Veneto i contadini parlano dell’Italgia, e dei Talgiani capitativi dal sessantasei” scrive una dozzina di anni dopo il Canello [UGO ANGELO CANELLO, in Giornale di Filologia Romanza, I, Roma 1878].