comunicato stampa integrale - Università degli Studi di Milano

L’Annual Review of Astronomy & Astrophysics parla italiano Da oltre cinquant’anni, Annual Review of Astronomy & Astrophysics (ARAA) è una delle pubblicazioni più attese ed importanti nel settore dell’astrofisica. Rappresenta infatti una raccolta di articoli, realizzati solo su invito, dello stato dell'arte della ricerca astrofisica a livello mondiale. ARAA ha spesso ospitato contributi di docenti e ricercatori italiani, alcuni dei quali dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (vedi http://www.media.inaf.it/2013/12/13/lastronomia‐secondo‐araa/). E la prossima edizione vedrà una partecipazione ancor più massiccia: ben quattro degli articoli di review presenti saranno realizzate da autori italiani, tra cui Leo Girardi dell’INAF e Giuseppe Lodato, dell’Università di Milano e associato INAF. Giuseppe Lodato, Professore Associato alla Università degli Studi di Milano e associato INAF ha scritto, in collaborazione con Kaitlin Kratter (professoressa dell’Università dell’Arizona a Tucson) un articolo sulle instabilità gravitazionali nei dischi protostellari. «I dischi protostellari ‐ spiega il Prof. Lodato ‐ sono una componente essenziale nell’evoluzione delle stelle giovani. Gran parte della materia che poi formerà la stella, infatti, viene “processata” in questi dischi, che sono anche il luogo in cui avviene la formazione planetaria. Con le scoperte di centinaia di pianeti extra‐solari nell’ultimo decennio, le domande sui loro meccanismi di formazione sono diventate uno dei punti chiave dell’astronomia contemporanea. Lo sviluppo di telescopi ad altissima risoluzione, come l’Atacama Large Millimeter Array (ALMA) in Cile, permette adesso di osservare questi dischi con grande precisione, rivelandone la struttura interna. Lo sviluppo di instabilità gravitazionali, associate alla forza di gravità prodotta dal disco stesso, da una parte può produrre tali sottostrutture, che hanno un effetto essenziale nella dinamica del gas e della polvere nel disco, e dall’altra può, secondo alcuni modelli un po’ controversi, portare direttamente alla formazione dei pianeti. Nel nostro articolo abbiamo cercato di fare il punto sia sull’effetto di queste instabilità sull’evoluzione dei dischi su tempi scala lunghi, dei milioni di anni, sia sulla loro capacità, che in effetti ci appare scarsa, di portare direttamente alla formazione planetaria». L’articolo di Girardi, ricercatore dell’INAF presso l'Osservatorio Astronomico di Padova, riguarda le cosiddette "stelle di clump": «sono stelle giganti in fase di bruciamento di elio nel loro centro, che ci appaiono di colore rosso per via delle loro masse modeste e dell'alto contenuto di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio – spiega Girardi. E' quel che succederà al Sole dopo una prima fase di espansione, tra circa 4 miliardi di anni». Circa un terzo di tutte le stelle rosse che vediamo nelle galassie vicine sono stelle di clump. Nonostante siano stelle così comuni, alcune loro proprietà stanno catalizzando sempre più l’attenzione degli astronomi. «Innanzitutto, sono stelle considerate a luminosità quasi costante, quindi utilissime per stabilire le distanze di altre galassie, oppure le distanze all'interno della nostra Galassia. O, almeno, così si vorrebbe» aggiunge Girardi. «Ma sia i modelli teorici, sia una serie di osservazioni recenti, comprese quelle del satellite Kepler e delle grandi survey spettroscopiche quali APOGEE, indicano differenze notevoli tra le stelle di clump in diversi ambienti. Differenze che devono essere capite per bene per poter utilizzare questa classe di di stelle come affidabili candele standard». Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano Anna Cavagna ‐ Glenda Mereghetti tel. 02.5031.2983 – 2025 [email protected]
La partecipazione italiana nell’ultima edizione dell’ARAA vede anche i contributi di Elena D'Onghia (Università del Wisconsin, USA), e Michele Cappellari (Università di Oxford, Regno Unito). Elena D'Onghia, Professoressa all' Università del Wisconsin a Madison, in collaborazione con Andrew Fox, ricercatore dello Space Telescope Science Institute a Baltimora, fa il punto sull'e più recenti conoscenze riguardo l’evoluzione delle Nubi di Magellano e la formazione del Flusso Magellanico (Magellanic Stream), una enorme struttura composta principalmente da gas che estende maestosamente nel cielo galattico. «La Piccola e Grande Nube di Magellano sono una coppia di galassie nane satelliti ‐ spiega Elena D'Onghia ‐ che orbitano attorno alla nostra Galassia. La coppia di galassie è collegata con la Via Lattea da un lungo ponte di idrogeno neutro, noto come Flusso Magellanico, un flusso di gas che si ipotizza essersi formato a causa delle intense forze di marea presenti tra le due galassie satelliti e la nostra Galassia». «Le Nubi di Magellano sono note essere satelliti della nostra Galassia da molti miliardi di anni ‐ continua la ricercatrice ‐ ma solo le recenti osservazioni del Telescopio Spaziale Hubble hanno permesso di calcolare le velocità con cui si muovono le Nubi e rivelare che sono diventate galassie satelliti compagne della Via Lattea solo recentemente, parlando in termini astronomici. Inoltre, grazie a queste nuove misure è stato possibile capire l'origine del flusso di gas magellanico originatosi dalla collisione della Piccola Nube con la Grande Nube circa 300 milioni di anni fa. Questi recenti risultati cambiano la nostra visione dell'interazione fra le galassie nane e la nostra Galassia». Michele Cappellari ha studiato a Padova ma da tempo lavora al dipartimento di astrofisica dell'Università di Oxford. Il suo contributo all’ARAA riguarda la struttura delle galassie ellittiche tramite spettroscopia bi‐dimensionale. Le galassie ellittiche rappresentano lo stadio finale dell'evoluzione delle galassie. Per questo motivo costituiscono il riferimento per verificare la nostra conoscenza di come le galassie si formano ed evolvono. L’articolo di Cappellari descrive una nuova visione della struttura ed evoluzione delle galassie, rivelata dalle osservazioni di galassie ellittiche tramite la tecnica di spettroscopia bi‐dimensionale. E' un metodo relativamente nuovo che, visto il suo successo, è rapidamente diventato lo standard presso tutti i grandi telescopi nel mondo. Questo approccio osservativo aggiunge una terza dimensione alle immagini delle galassie, permettendo in particolare di osservare i movimenti delle stelle al loro interno. Questi moti forniscono una sorta di reperto fossile di come le galassie si sono formate. Permettono inoltre di studiare la distribuzione di materia oscura, che forma aloni massicci attorno ad ogni galassia, e di misurare le masse degli enormi buchi neri che si nascondono nei loro nuclei. L'elenco completo degli articolo previsti per la prossima edizione di ARAA è disponibile in http://www.annualreviews.org/toc/astro/54/1 Ufficio Stampa Università degli Studi di Milano Anna Cavagna ‐ Glenda Mereghetti tel. 02.5031.2983 – 2025 [email protected]