DIPINTI E SCULTURE NEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ
MONTANA VALTELLINA DI
SONDRIO TRA IL XV E IL XVIII SECOLO
Giovanna Virgilio
Una delle finalità principali dell’attività di catalogazione, precocemente
avviata in questo territorio con la pubblicazione di un volume appositamente dedicato alla provincia di Sondrio nella collana Inventario degli oggetti
d’arte d’Italia (1938), consiste nella classificazione di edifici e manufatti per
consentire un’analisi progressivamente dettagliata in ordine ad alcuni aspetti
fondamentali, tra i quali la materia del supporto, la tecnica di esecuzione,
il soggetto iconografico e così via. Questa operazione che “sminuzza” il più
possibile le informazioni, risponde anche alla finalità di poter recuperare i dati
attraverso ricerche effettuate con l’uso di parole-chiave, mediante l’utilizzazione del mezzo informatico. D’altra parte, è opportuno che la fase analitica
sia seguita da una sintesi del materiale raccolto. La classificazione, infatti, è
un’operazione mentale che non trova riscontro nel carattere assolutamente
unitario della produzione artistica. Ciò emerge anche dalle numerose ricerche e dagli approfondimenti che negli ultimi decenni hanno configurato un
panorama estremamente ricco e, nel contempo, unitario dell’architettura e
delle arti figurative fiorite nel territorio in cui sono inseriti, dal punto di vista
geografico e culturale, i paesi della Comunità Montana Valtellina di Sondrio,
nonostante l’inevitabile perdita di una parte del patrimonio artistico, soprattutto per il periodo medievale.
La prima metà del Quattrocento fu caratterizzata da un ambiente agGiacomo del Maino,
Ancona
giornato sulla cultura viscontea, mentre, nella seconda metà del secolo, un
significativo influsso di motivi rinascimentali di ascendenza ferrarese fu eser-
127
citato da scultori e disegnatori di vetrate attivi nei grandi cantieri di Milano
e di Pavia. Un’opera di particolare importanza, in questa fase di transizione,
è rappresentata dall’ancona con la Madonna della Misericordia di Gottardo
Scotti, attualmente conservata presso il Museo Poldi Pezzoli di Milano. Le ricerche hanno dimostrato la provenienza di quest’opera da Mazzo in Valtellina,
dove lo Scotti - come più tardi Andrea De Passeri - contribuì ad aggiornare la
situazione artistica locale sulle innovazioni in atto nella capitale sforzesca.
Tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento si assiste
all’intensificazione della produzione artistica, grazie, anche, alla mobilità di
botteghe specializzate nella realizzazione di affreschi e ancone che, essendo
frutto di una stretta collaborazione tra pittori e intagliatori, favorirono la circolazione di formule stilistiche e di categorie estetiche da un settore artistico
all’altro. Così, per esempio, la Madonna in trono col Bambino e santi, dipinta
da Battista Malacrida nel 1501 sulla parete sinistra della chiesa parrocchiale di
San Maurizio a Ponte in Valtellina, può essere considerata, al pari di analoghe
raffigurazioni, una sorta di polittico ad affresco nel quale si avverte l’aggiornamento su Bergognone e Bramante. Uno dei referenti di quest’opera è stato
rintracciato nella Madonna del tappeto dipinta dal celebre pittore di Fossano
nel transetto della Certosa di Pavia, il cui cantiere continuava a rappresentare
un importante punto di riferimento, anche in virtù della presenza di Giacomo
del Maino a Ponte, nel 1491, per la realizzazione dell’ancona lignea nella cappella della Vergine della citata chiesa di San Maurizio. L’opera dell’intagliatore
milanese - del quale sono note le frequentazioni pavesi - è composta da due
registri, coronati dalla lunetta con il Cristo in pietà: quello inferiore ospita,
nella nicchia centrale, la statua della Madonna, a sua volta fiancheggiata, ai
lati, da sei episodi della Vita di san Gioacchino e sant’Anna; l’ordine superiore,
invece, è scandito da quattro nicchie che accolgono le statue di San Rocco,
San Bernardino da Siena, San Pietro Martire e San Sebastiano.
L’elevata
qualità del manufatto, come spesso accade, è direttamente proporzionale al
livello della committenza, qui rappresentata dalla confraternita della Beata
Vergine, che, dopo aver ingaggiato il Del Maino, commissionò nel 1498 il rifacimento del presbiterio della medesima chiesa a Tommaso Rodari, uno dei
più importanti protagonisti del rinnovamento rinascimentale del duomo di
Como. Questi intervenne, insieme al fratello Giacomo, presumibilmente su
un progetto preesistente impostato dall’Amadeo. Importante contributo della
bottega rodariana è poi costituito dai portali lapidei delle chiesa di Santo Stefano a Mazzo e della prepositurale di Sant’Eufemia a Teglio, che favorirono la
diffusione di repertori antiquari, ancora presenti nell’elegante portale di San
Pietro a Berbenno (1563).
Tornando all’attività di Giacomo del Maino in Valtellina, ne ricordiamo il
trittico datato tra il 1490 e il 1500 nell’oratorio di San Pietro Martire a Caiolo,
con le statue della Madonna al centro, San Pietro Martire a destra e San
Domenico
128
a sinistra, la prima delle quali è caratterizzata dall’inserimento
Andrea da
Saronno, Ancona
della Vergine tra le rocce. Questa formula iconografica, immortalata da Leonardo nella celeberrima opera del Louvre, è stata da alcuni studiosi messa in
relazione con il mistero dell’Immacolata Concezione, sostenuto inizialmente
dall’ordine francescano, ma non dai domenicani che, invece, compaiono nelle
nicchie laterali dell’opera valtellinese.
Sempre a Ponte nel 1505 è presente, con il pittore Felice Scotti, lo scultore Giovan Angelo del Maino - figlio del citato Giacomo - che, con la sua im-
129
portante produzione lombarda, esercitò un’influenza determinante sull’evoluzione in senso prospettico e illusionistico della rappresentazione figurativa,
tanto in scultura quanto in pittura. Le stesse modalità lavorative adottate nell’ambito delle botteghe facilitarono il proficuo rapporto di scambio di idee e di
competenze tecniche tra gli artisti. Da questo punto di visto, il trittico con la
Madonna col Bambino tra due santi, conservato presso il Museo Valtellinese
di Storia e Arte di Sondrio, rappresenta un caso significativo di collaborazione
famigliare; infatti, nonostante l’opera sia firmata dal pittore Alvise De Donati
(1512) la parte scultorea è dovuta a Giovanni Pietro e Giovanni Ambrogio,
suoi fratelli, specializzati nell’arte lignaria. La tavola, di impostazione bramantesca e zenaliana, arricchita da elementi leonardeschi, proviene dall’altare
maggiore della chiesa di San Benigno del monastero di Berbenno e faceva
probabilmente parte di una struttura a più registri successivamente smembrata. Sorte analoga toccò a due statue dei suddetti De Donati raffiguranti,
rispettivamente, San Lorenzo e San Rocco (1500-1510), pure custodite nel
Museo di Sondrio, ma provenienti dalla parrocchiale di San Lorenzo a Fusine.
Il recente restauro ha permesso di evidenziarne la tecnica esecutiva basata
sulla modellazione di un unico tronco di pioppo avvenuta “per piani sottolineando spigoli e angolosità” (CASCIARO, 2002, 313) che costituiscono una nota
caratteristica dello stile degli intagliatori milanesi.
Ad anni inoltrati del Cinquecento risale, invece, l’ancona lignea nella
parrocchiale di San Vittore a Caiolo, intagliata tra il 1537 e il 1538 da Andrea
da Saronno e dipinta da Vincenzo De Barberis nel 1539. L’opera è formata
da uno scomparto centrale centinato con il gruppo della Natività, a sua volta
affiancato da due nicchie per parte, dove restano, inferiormente, le statue di
San Pietro e di San Paolo, mentre nella cimasa è collocato Cristo in pietà (le
statue delle nicchie superiori sono state, purtroppo, trafugate). Le sculture
sono caratterizzate da compostezza classica e dolcezza espressiva tipiche del
linguaggio figurativo valtellinese del terzo e quarto decennio del Cinquecento.
Questo orientamento, che in pittura fu portato ai massimi livelli dalla Madonna col Bambino affrescata da Bernardino Luini nella lunetta del portale della
parrocchiale di San Maurizio a Ponte, si rintraccia anche nelle quattro tempere con le Storie della Vergine che chiudevano la citata ancona della Madonna
in San Maurizio, oggi conservate nel Museo parrocchiale del paese. I dipinti
sono caratterizzati da influssi bramantiniani, luineschi e gaudenziani, che ne
hanno suggerito la datazione all’inizio del terzo decennio e l’attribuzione al
milanese Bernardino De Donati. Costui fu profondamente toccato dall’arrivo
a Morbegno di Gaudenzio Ferrari che, tra il 1520 e il 1526, fu pagato con il
caravaggino Fermo Stella per la decorazione pittorica dell’ancona dell’Assunta, nell’omonimo santuario, intagliata alcuni anni prima da Giovan Angelo del
Maino. Il linguaggio del maestro piemontese, carico di coinvolgente senso
affettivo, fu largamente diffuso grazie all’operato di vari artisti, tra i quali lo
stesso Stella, il comasco Sigismondo De Magistris, al quale è stata assegnata
130
la tavola con la Natività del Museo di Sondrio, proveniente dalla parrocchiale
di Santa Caterina di Albosaggia, e il bresciano Vincenzo De Barberis, nel cui
ambito è stata recentemente ricondotta - per quanto riguarda l’area di nostro
interesse - l’ancona con l’Adorazione del Bambino e santi della parrocchiale
di Torre Santa Maria (1530). A questo pittore, dopo la morte di Bernardino
De Donati (1530), spettò la riorganizzazione della bottega e la divulgazione
di questo linguaggio carico di riferimenti alla cultura figurativa milanese e
bresciana, che si rintraccia anche nei dipinti che compongono l’Annunciazione
nella chiesa arcipretale di Santa Maria Assunta a Berbenno, dominati da un
gusto accentuato per la caratterizzazione prospettica.
Dopo l’ultima fase della ricca stagione rinascimentale si assiste, nella
seconda metà del secolo, a una sorta di stasi, giustificata dalla difficile con-
Bernardino de
Donati e bottega,
Sposalizio della
Vergine
132
giuntura politica e religiosa della Valtellina. La ripetizione di formule stereotipate è esemplificata dall’abbondante produzione del grosino Cipriano Valorsa,
direttamente presente con la sua bottega, nel territorio in questione, a Chiuro
(1563), Piateda (1592), Sazzo (1596) e, probabilmente sul finire del secolo,
a Tresivio, nella chiesa di Sant’Abbondio, dove si trova l’inedita tela con Sant’Abbondio tra sant’Antonio da Padova e san Bernardo (?). Il pittore, indifferente alle sollecitazioni del tardo-Manierismo, fu probabilmente condizionato
da esigenze di carattere didascalico finalizzate alla necessità di contrastare la
divulgazione delle idee protestanti.
A cavallo tra il XVI e il XVII secolo un generale incremento della produzione artistica fu favorito dalla ripresa delle committenze religiose, anche su
sollecitazione dello zelo pastorale di Feliciano Ninguarda, vescovo di Como,
sotto la cui giurisdizione ecclesiastica ricadeva il territorio valtellinese.
Il convergere delle ricerche archivistiche con gli esiti più aggiornati degli
studi specialistici, relativi tanto alla pittura quanto alla decorazione plastica
e alla produzione lignea della Valtellina e della Valchiavenna, ha delineato un
quadro molto chiaro sulle vicende figurative del Sei e del Settecento, mettendone in luce la stretta connessione con il fenomeno dell’emigrazione, non
solo di artisti. I valtellinesi, che espatriavano in Veneto, nei grandi porti del
sud e oltre le Alpi, si riunivano in confraternite che perseguivano scopi caritativi e di mutuo soccorso. Il legame con il paese d’origine era rinforzato con
l’invio di opere d’arte - quadri, paramenti e suppellettili destinati alle chiese
- che, indirettamente, fungevano da stimolo per il rinnovamento della cultura
figurativa locale.
Per quanto riguarda la pittura è stata rilevata la presenza dominante dei
seguaci di area comasca e ticinese del varesino Pier Francesco Mazzucchelli,
detto il Morazzone. Tra questi, Giovan Battista Recchi è attestato, per l’area
in esame, ad Albosaggia e a Ponte, mentre Cristoforo Caresana da Cureglia
partecipò alla ricca decorazione della cappella del Rosario nella parrocchiale
di San Lorenzo a Fusine (1628-1629). Numerosi sono i dipinti anonimi ispirati
al linguaggio efficace e comunicativo del Morazzone, tra i quali la misconosciuta Annunciazione nella casa arcipretale di Berbenno, vicina alle opere dei
citati Recchi e del campionesse Isidoro Bianchi, databile al quinto decennio
del Seicento. La scuola milanese del Cerano è, invece, rappresentata dal Martirio di san Giorgio di Melchiorre Gherardini (1643), nell’omonima arcipretale
di Montagna e dal meno noto San Francesco in preghiera, assegnabile a Ortensio Crespi, nella locale chiesa dei Cappuccini a Colda, ma di provenienza
milanese. Per le presenze non lombarde ricordiamo: il toscano Luigi Reali,
che eseguì per la chiesa di San Carlo a Chiuro una tela con lo Sposalizio della
Cipriano Valorsa,
Sant’Abbondio tra
sant’Antonio da
Padova e un santo
cistercense
Vergine (1650 circa) e il veneto Pietro Damini, autore della pala con l’Assunta
della parrocchiale di San Martino a Castione Andevenno, pervasa da intense
suggestioni tizianesche e veronesiane (fine del terzo decennio del Seicento).
Tra le botteghe locali si segnala, invece, quella del chiavennasco Giovan Bat-
133
tista Macolino, al quale appartengono il dipinto con la Madonna del Rosario
tra santa Caterina da Siena e san Domenico (1654) nella chiesa parrocchiale
di San Luigi a Sazzo di Ponte e la tela con Sant’Orsola (1659), giunta dalla
Valchiavenna nell’oratorio della Madonna del Carmine.
Oltre ai pittori, anche gli stuccatori e gli intagliatori “contribuivano a
rendere l’ambiente capace di suggestionare l’osservatore per la spettacolarità
e per il virtuosismo, anche al di là del messaggio simbolico e religioso” (LANGÉ-PACCIAROTTI,
1994, 120). I plasticatori erano per lo più di origine comasca e
ticinese, come Alessandro Casella da Carona e Francesco Silva da Morbio.
Il primo fu attivo tra il terzo e il quarto decennio del Seicento ad Albosaggia
(parrocchiale di Santa Caterina), a Fusine (parrocchiale di San Lorenzo),a
Castione Andevenno (parrocchiale di San Martino), a Caiolo (parrocchiale di
San Vittore) e a Chiuro (chiesa di San Carlo), mentre il secondo eseguì, nel
1629, la decorazione dell’arco trionfale, del presbiterio e dell’altar maggiore
dell’arcipretale di San Giorgio a Montagna . In questi artisti gli influssi morazzoniani e le suggestioni di Cerano e di Giulio Cesare Procaccini approdano
ad “esiti personali di bellezza decorativa e di introspezione psicologica, che fa
affiorare, soprattutto nell’espressionismo teso e dolente del Casella, il travaglio religioso e morale del periodo” (COPPA, 2002, 74). Gli intagliatori, oltre che
dall’area comasca (i Pino e gli Albiolo), giungevano dalla zona bresciana (Giovan Pietro Ramus) e trentina (Michele Cogoli) o tirolese. Queste diverse provenienze si spiegano, da un lato, con le secolari consuetudini itineranti degli
artisti provenienti dal territorio dei laghi lombardi, e, dall’altro, con la specializzazione in settori particolari della lavorazione dei materiali che richiedevano
specifiche competenze tecniche tramandate nell’ambito delle botteghe famigliari. Una maggiore predisposizione agli spostamenti era comunque richiesta
ai plasticatori, in virtù del fatto che lo stucco poteva essere modellato se era
fresco e, dunque, richiedeva la presenza diretta dello scultore all’interno del
cantiere. Diversamente, per l’intagliatore era possibile operare nel proprio
laboratorio e, a lavoro ultimato, inviare il prodotto a destinazione.
Spesso gli artisti si ispiravano alle opere più famose e apprezzate nel
clima rigoristico post-tridentino, eseguendone numerose copie. A titolo
esemplificativo si può citare il caso della tela di Giovan Battista Recchi con
il Martirio di san Sebastiano nella chiesa parrocchiale di Santa Caterina ad
Albosaggia, derivata da un dipinto di Domenico Carpinoni nella chiesa di San
Bartolomeo a Como. Ma il primato, in questo settore, è detenuto dai prototipi
del Morazzone, la cui conoscenza era garantita dalla fitta circolazione dei cartoni delle sue opere. Così, la tela con la Natività della Vergine nel presbiterio
della parrocchiale di Santa Maria a Berbenno rappresenta l’ennesima duplicazione del dipinto di soggetto analogo del maestro varesino, conservato nella
Alessandro Casella,
decorazione
plastica (1627)
cappella della Madonna della Cintura nella chiesa di Sant’ Agostino a Como.
D’altra parte dobbiamo rilevare che, a differenza del valore dispregiativo attualmente riservato alle copie, in passato era proprio la committenza - non
135
A sinistra,
Giovan Battista
Recchi, Martirio di
san Sebastiano
Francesco Silva,
San Sebastiano
(1629)
137
Albosaggia, chiesa
parrocchiale di Santa
Caterina. Giovan
Battista Recchi,
Martirio di san
Sebastiano
Michele Cogoli,
ciborio d’altare
(1692)
necessariamente sprovvista di mezzi economici - a richiederne l’esecuzione,
restandone peraltro soddisfatta. Non a caso il cardinale milanese Federico
Borromeo, aveva “assoldato” copisti specializzati che, con la loro prestazione,
assolvevano all’importante compito di tramandare la memoria della tradizione artistica - soprattutto cristiana - riposta in alcuni capolavori della pittura e
della scultura delle epoche precedenti. Inoltre l’esecuzione di copie costituì in
passato un’importante occasione di lavoro per gli artisti, soprattutto quando i
mezzi di riproduzione seriale delle immagini erano limitati.
Nel Settecento si verificò la fioritura di una vera e propria scuola artistica
locale, grazie all’operato di pittori come Gianolo Parravicino e Pietro Ligari,
ai quali si affiancarono i forestieri come Giuseppe Brina. Mentre proseguiva
con intensità l’invio da fuori di manufatti tessili e di suppellettile ecclesiastica,
diminuiva quello dei dipinti, tra i quali ricordiamo la mutila Assunzione della
Vergine di Gaetano Gandolfi, giunta da Bologna nel 1773 nella chiesa della
Madonna di Campagna a Ponte, ora conservata nel Museo parrocchiale del
paese.
Il prevalente orientamento della pittura valtellinese verso Milano si allargò a comprendere stimoli della cultura artistica veneziana e del rococò internazionale, anche su sollecitazione degli artisti attivi prevalentemente come
frescanti (il valtellinese Giovan Pietro Romegialli, Pietro Bianchi da Como,
l’intelvese Carlo Innocenzo Carloni) e quadraturisti (il comasco Giuseppe Coduri e i luganesi Giuseppe Antonio e Giovanni Antonio Torricelli). L’interesse
classicista di Pietro Ligari, titolare di una fiorente bottega locale, si aprì verso
il quinto decennio ad accogliere influssi della pittura lagunare, anche su incoraggiamento del figlio Cesare, del quale ricordiamo la piazzettesca Morte
di san Giuseppe nella parrocchiale di Santa Caterina ad Albosaggia (1739).
Vittoria - l’altra figlia di Pietro dedita alla pittura - è conosciuta principalmente
per l’esecuzione di copie dei dipinti della bottega ligariana, come è esemplificato dalla Madonna Addolorata con i santi Francesco di Paola, Maria Maddalena e Vincenzo Ferreri di Lanzada. D’altra parte è noto che, ad eccezione
di alcuni casi ragguardevoli, fino a tempi relativamente recenti la dedizione
delle donne all’arte pittorica, inserita nel corredo di attività manuali previste
per l’educazione femminile nei ceti più abbienti, seguì quasi necessariamente
una pratica dilettantesca.
Influssi del tardo barocco genovese sono stati rinvenuti nelle prime tele
del ticinese Giuseppe Antonio Petrini, particolarmente apprezzate non solo
per le qualità estetiche di cromia luminosa e di eleganza stilistica, ma anche
per il profondo rigore morale di cui sono intrise. Non a caso, le grandi pale
d’altare eseguite dall’artista tra il quinto e il sesto decennio del Settecento,
tra cui il San Vincenzo Ferreri, già nella chiesa di San Carlo a Chiuro, sono
Pagine seguenti,
Pietro Ligari,
Nascita della
Vergine
state messe in relazione con il clima riformistico muratoriano.
Alla fine del secolo, una timida ricezione locale degli influssi neoclassici
si avverte nell’opera dell’intelvese Carlo Scotti di Laino, conosciuto in Valtel-
139
Giuseppe Antonio
Petrini, San
Vincenzo Ferreri
lina prevalentemente come quadraturista, ma operoso anche come pittore
di figura, al quale è stata assegnata la tela con San Lorenzo in Gloria (1780)
della parrocchiale di San Lorenzo a Fusine.
Questo saggio, che prende in considerazione soltanto le opere presenti
nei comuni della Comunità Montana Valtellina di Sondrio, è stato elaborato
sulla base della seguente bibliografia essenziale: M. GNOLI LENZI, Provincia di
Sondrio, Roma, 1938; S. COPPA, Il Seicento in Valtellina. Pittura e decorazione in stucco, “Arte Lombarda”, 88/89 (1989); Civiltà artistica in Valtellina
e Valchiavenna. Il Settecento, a cura di S. Coppa, Milano 1994; S. LANGÉ-G.
PACCIAROTTI, Barocco alpino. Arte e architettura religiosa del Seicento. Spazio
e figurativita, Milano 1994; Pittura in Alto Lario e in Valtellina dall’Alto medioevo al Settecento, a cura di M. Gregori, Milano 1995; Civiltà artistica in
Valtellina e Valchiavenna. Il secondo Cinquecento e il Seicento, a cura di S.
Coppa, Bergamo 1998; G. SCARAMELLINI-S COPPA, I Macolino, pittori chiavennaschi del Seicento, Chiavenna 1996; Pietro Ligari o la professione dell’artista, a
cura di L. Giordano, Sondrio 1998; Civiltà artistica in Valtellina e Valchiavenna. Il Medioevo e il primo Cinquecento, a cura di S. Coppa, Milano 2000; R.
CASCIARO,La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Ginevra-Milano 2000;
F. BIANCHI-E. AGUSTONI, I Casella di Carona, Lugano 2002; Il Seicento e Settecento in Valtellina e Valchiavenna. Contributi di storia su società, economia,
religione e arte, Sondrio 2002; I tesori degli emigranti. I doni degli emigranti
della provincia di Sondrio alle chiese di origine nei secoli XVI-XIX,catalogo
della mostra a cura di G. Scaramellini e coordinamento generale a cura di M.
Sassella, Milano 2002.
Colgo l’occasione per ringraziare la dottoressa Simonetta Coppa (Soprintendenza per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico di
Milano), per la consueta disponibilità nel fornirmi consigli e suggerimenti, e
il personale del Museo Valtellinese di Storia e di Arte di Sondrio per la gentilezza nel mostrarmi le opere del museo citate in questo saggio e i relativi
materiali di studio.
143