La psicologia e la crisi del positivismo

La psicologia e la crisi del positivismo
Cerchiamo di chiarire in quale modo il positivismo sia entrato in crisi dall'interno
a partire dall'anello più debole dello spettro delle scienze positive, costituito abbastanza ovviamente - dalla psicologia e in generale dalle scienze dell'uomo, di
cui la psicologia si può considerare quella più "semplice". Importanti studiosi, che
avevano iniziato le loro ricerche nell'ambito della psicologia naturale, finirono poi
per abbandonare decisamente lo stesso quadro teorico del positivismo in seguito
alla scoperta della totale inadeguatezza, per l'indagine psicologica, dei presupposti
dell’epistemologia positivista.
Fin dall'inizio i problemi legati alla psicologia sperimentale apparvero seri.
Innanzitutto, guardando le cose dall'esterno, malgrado la nascita ufficiale della
psicologia come scienza empirica, i tanto auspicati risultati, che avevano legittimato
le scienze naturali, non venivano; e questo già di per sé contribuiva ad indebolire la
fiducia che sarebbero mai venuti.
Analizzando il problema dall'interno della ricerca scientifica, si poteva però vedere
che la questione del metodo era per la psicologia alquanto spinosa, considerate le
difficoltà dell'osservazione. Il metodo di una psicologia sperimentale e naturale
non poteva che essere induttivo, come quello di qualsiasi altra scienza naturale.
Ciò significa che deve partire dall'osservazione di fatti particolari e procedere
per successive generalizzazioni. Ma che cosa si deve intendere per "esperienza"
e "osservazione" in ambito psicologico? Il problema è grave dato che i dati psichici,
ad esempio le sensazioni di cui si parlava, non sono osservabili direttamente dallo
psicologo; e non è che non lo siano per caso o comunque solo di fatto, ma per
principio: se io, psicologo, potessi percepire la sensazione della persona che sto
studiando, essa cesserebbe di essere solo la sua sensazione ma diverrebbe per
ciò stesso anche la mia. L'osservazione non può avvenire perciò, come nelle altre
scienze naturali, dall'esterno, cioè ponendosi al di fuori del fenomeno da osservare,
allontanando per così dire l'oggetto da sé sia fisicamente che emotivamente.
L'osservazione di un fenomeno psichico non può che avvenire dall'interno, prestando
attenzione ai proprie stati di coscienza. Wundt, di cui si è detto, faceva infatti ricorso
al metodo della introspezione: i soggetti della ricerca erano invitati a descrivere i
propri dati di coscienza puri e, siccome voleva rendere l'introspezione un metodo
scientifico rigoroso, Wundt elaborò persino uno specifico vocabolario psicologico
allo scopo di eliminare la possibilità di confusione.
Nonostante questi sforzi, però, è evidente che la mediazione linguistica è un
problema non facilmente superabile; ma non si tratta solo di un fatto di linguaggio:
la mediazione è prima di tutto un fatto di giudizio: come si può essere sicuri che
i soggetti di studio ci abbiano descritto esattamente i loro dati puri? Ammesso
che fossero in assoluta buona fede possono avervi introdotto involontariamente
delle "correzioni" o possono non essere in grado di dare una risposta chiara: vi è mai
capitato, ad esempio, quando siete dall'oculista, di non saper dire con certezza quale
fra due tipi di lente vi faccia vedere meglio, pur potendo percepire una differenza di
visione? Tutti questi problemi sono legati comunque al fatto della mediazione che
il soggetto sotto studio deve compiere fra lo psicologo e i dati da osservare, ragione
per cui sembra assai arduo raggiungere quella oggettività che una scienza esige per
potersi dire tale.
Ma l'introspezione presenta un difetto anche più grave, che aveva già indotto
A. Comte - il "padre" del positivismo - ad escludere la possibilità della psicologia
come scienza autonoma ed a proporne la riduzione alla fisiologia. Si tratta di questo:
l'introspezione in se stessa sarebbe impossibile, poiché per cogliere un proprio stato
d'animo interno sarebbe necessario uno sdoppiamento dell'io, che è impossibile.
E' vero che J. S. Mill aveva replicato sottolineando la possibilità di osservare
un proprio stato interiore in un momento successivo all'evento, con l'aiuto della
memoria ma, che sia possibile o meno questa osservazione memorativa, il problema
dell'osservazione interiore è quello a partire dal quale si creano le prime incrinature
dell'ideale positivista di una psicologia naturale.
Qui mi rifaccio ad un illuminante testo di A. Civita, La filosofia del vissuto1, in
cui autori diversissimi fra loro vengono però considerati come altrettanti esponenti
di una "fase specifica della storia del pensiero"2, caratterizzata dalla reazione contro
la psicologia positivista che mirava a considerare gli stati di coscienza alla stessa
stregua dei fatti naturali. A dire il vero, "la filosofia del vissuto nasce nell'ambito
della cultura positivista….Proprio in nome dei valori scientifici e antispeculativi
del positivismo, l'istanza che qui si fa valere è quella di realizzare una 'fondazione'
rigorosa"3 della psicologia e delle scienze dell'uomo, e per fare ciò è necessario
comprendere che il loro oggetto è di tipo particolare: non è costituito da fatti ma da
vissuti. Il termine "vissuto", inteso come sostantivo, sinonimo di "esperienza vissuta"
1 Ed. Unicopli, Milano, 1982.
2 Ivi, p. 6.
3 Ivi.
o "esperienza interiore" è la traduzione del tedesco "Erlebnis", usato da W. Dilthey
e da E. Husserl; ma lo stesso concetto è espresso da F. Brentano con "fenomeno
psichico", da W. James con "pensiero" e da H. Bergson con "stato di coscienza".
Per cogliere il senso della nozione di "vissuto" possiamo rifarci alla distinzione
che il più naturalista di questi autori, F. Brentano, nella sua Psicologia dal punto
di vista empirico fa tra "introspezione" e "percezione interiore": essa non solo non
è impossibile, ma è anzi necessaria, spontanea ed accompagna ogni nostro atto
psichico. E' un'evidente ovvietà che quando vediamo sappiamo di vedere. In questa
autoevidenza del sapere, di sapore cartesiano, possiamo dire che ci sia il "nucleo
teorico" di tutta la filosofia del vissuto. Nella percezione interiore, a differenza che in
quella esteriore, l'essere coincide con l'apparire, con ciò che si vive, non c'è scarto fra
vissuto e percezione del vissuto.
Ecco quindi che si realizza un rovesciamento rispetto all'atteggiamento precedente:
la coincidenza fra osservatore e fenomeno osservato non è più visto come un
difetto della psicologia, ma anzi come la possibilità in essa di una conoscenza più
autentica. Così i vissuti sembrano "assolvere la stessa funzione svolta dai "fatti"
- intesi in senso positivistico - nell'ambito delle scienze naturali. Sicchè quasi si
stabilisce questa proporzione: la conoscenza fattuale sta alle scienze fisiche , come
la conoscenza dei vissuti sta alle scienze dell'uomo"4. W. Dilthey, in particolare,
prova a sviluppare in termini epistemologici rigorosi la distinzione fra le scienze
della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito (Geisteswissenshaften).
Ma la filosofia del vissuto, malgrado le intenzioni dichiarate, "fin dall'inizio, non
delinea una correzione, ma una tendenziale dissoluzione del positivismo. Psicologia
e scienze umane si configurano come il luogo di crisi e di rottura del positivismo,
non come quello di una sua riforma; e la ricerca cui si dà avvio all'interno di queste
discipline va ben presto al di là di esse, assumendo sempre più i caratteri e le finalità
di un'indagine filosofica"5.
L'autore, fra quelli citati, in cui meglio si manifesta questa duplicità di
atteggiamento, a cavallo tra psicologia naturale e filosofia "vitalistica", è W. James.
Egli da un lato si presenta come pioniere del funzionalismo, una corrente che
considera la psicologia per il suo fondamento biologico, utilizzando la categoria
darwiniana dell'adattamento, ma che pone le basi della psicologia scientifica
contemporanea; dall'altro apre una falla nell'impianto della psicologia naturalistica,
criticandone l'impostazione empiristico-associazionistica di cui si diceva: essa risulta
artificiosa in quanto considera gli stati psichici come cose, reificando così il flusso di
4 Ivi.
5 Ivi, pp. 6-7.
coscienza, sostituendovi uno schema morto.
Nel suo libro più famoso, i Principles of Psychology (1890), James manifesta
un'incredibile "doppiezza": nonostante esordisca con una "professione di fede"
naturalista, e definisca uno schema dei presupposti fondamentali di ogni scienza
naturale, egli opera in seguito una rielaborazione di quello schema, necessaria
alle esigenze specifiche della ricerca psicologica: ma non si tratta in realtà di una
semplice rielaborazione, poiché il nuovo schema mette in dubbio in realtà la validità
stessa di quei presupposti.
E' opportuno soffermarsi sulla sua teoria del flusso di coscienza (Stream of
consciousness), contenuta nel IX cap. del libro, poiché unisce al rigore teorico
uno stile letterario assai convincente e riveste perciò un significato culturale molto
ampio: si tratta di un modo nuovo di concepire la vita, ed il suo senso, che rispecchia
tutta la sensibilità culturale di fine ‘800. Si può riassumere questa concezione con
il termine "vitalismo", che indica un irrazionalismo ottimistico, una concezione
affermativa della vita, l'esaltazione dell'interiorità, il rifiuto di ogni catalogazione del
soggetto, della pretesa della scienza di dar conto anche del fluire dell'Io.
Delle cinque fondamentali caratteristiche che per James caratterizzano la corrente
di coscienza, le prime tre sintetizzano bene questo atteggiamento:
1. Ogni pensiero tende a far parte di una coscienza personale. Ciò è legato alla
critica dell'associazionismo di cui si diceva: secondo quello la realtà primaria
sono gli elementi semplici da cui poi si costruiscono le formazioni psichiche
più complesse: lo stesso io si riduce ad un "fascio di percezioni" secondo la ben
nota espressione di D. Hume. Vi è qui un procedimento dall'astratto al concreto,
che James ribalta, muovendo dal fenomeno psichico nella sua concretezza e
considerando la "sensazione pura" come una semplice astrazione metafisica.
2. Il pensiero è in costante mutamento. E' questo il tema della unicità e irripetibilità
degli stati psichici, che ricorda il fiume eracliteo. Il fondamento teorico
di ciò sta nella percezione ripetuta dello stesso oggetto: dal punto di vista
fisiologico e associazionistico che considera la sensazione come cosa, si
rilevano semplicemente due sensazioni identiche; ma questa immagine della
vita mentale è secondo James scorretta, anche se ci è suggerita dal nostro stesso
linguaggio, in cui gli eventi mentali trovano posto come sostantivi, al pari degli
oggetti fisici: si pensi ad esempio che "avere una casa" e "avere un dolore" sono
grammaticalmente equivalenti6. Possiamo facilmente trovare riscontro a quanto
James afferma se consideriamo che le stesse cose, viste in momenti diversi
6 Questa considerazione ci richiama le analisi del linguaggio comune del secondo Wittgenstain: anche lui osserva, fra
l'altro: "Un'immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e
questo sembrava ripetercela inesorabilmente" (Ricerche filosofiche, § 115, tr. it. Einaudi, Torino, 1980, p.67)
con stati d'animo diversi, non sono per noi affatto le stesse. In ogni caso, due
percezioni sono per principio diverse, se non altro perché appartenenti a due
momenti diversi del tempo, inteso come tempo vissuto.
3. Il pensiero è sensibilmente continuo. E' da qui che nasce il termine "corrente"
(stream). Per comprendere questa continuità vissuta si può fare un esempio
opposto a quello precedente: quello di un tuono improvviso che rompe il silenzio:
non si tratta solo della successione di due stati psichici diversi ed irrelati, come
sarebbe in una prospettiva associazionistica. Se il tuono spaventa è proprio
per lo sfondo del silenzio precedente; e, viceversa, è il tuono a mettere in
evidenza il silenzio. Il prima e il poi, insomma si influenzano e si conferiscono
senso reciprocamente. James scrive che la corrente di coscienza è attraversata
continuamente dal senso del da dove e del verso dove: è proprio questo orizzonte
temporale pieno a far sì che ogni pensiero sia irripetibile, in quanto ogni istante è
inseparabile dal proprio orizzonte.