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L’identità
umana
Livia Profeti
L’identità
umana
Nati uguali
per diventare diversi
In copertina:
Il pensatore e la donna seduta
Coppia di statuette neolitiche, cultura di Hamangia
(Cernavoda, Romania), 5000 a.C. circa
© 2010 L’Asino d’oro edizioni s.r.l.
Via del Boschetto 110, 00184 Roma
www.lasinodoroedizioni.it
email: [email protected]
ISBN 978-88-6443-036-2
L’editore si dichiara disponibile
a regolare eventuali spettanze per le immagini
di cui non sia stato possibile reperire la fonte.
A Martina, Matteo, Elena
Indice
Premessa
Introduzione
1. In principio non era l’anima, né il verbo
1.1 Nati artisti: uomini e donne del Paleolitico superiore
1.2 Matrilinearità e magia della terra: gli agricoltori neolitici
1.2.1 La sessualità ‘razionale’ dei riti magici agricoli
1.2.2 Caccia e agricoltura nel verde Sahara del desiderio
1.3 Patriarcato e proto-religione del cielo: i pastori nomadi
2. Verso l’identità religiosa: in Mesopotamia
2.1 Le cosmogonie e la disuguaglianza ‘originaria’ tra esseri umani
2.2 Dalla demiurga Nammu al demone Lilith
2.2.1 Gli eventi: dai Sumeri all’egemonia della cultura patriarcale
2.3 Il linguaggio non è la casa dell’essere: la questione dell’indoeuropeo
3. Verso l’identità razionale: in Grecia
3.1 Creta irrazionale e femminile: la talassocrazia minoica
3.2 Dalla casta militare micenea alle póleis tribali
3.3 Il fallimento di Teseo e il sacrificio di Ifigenia
3.4 La pederastia ‘pedagogica’
3.5 L’incapacità della filosofia di pensare l’invisibile
3.5.1 Divenire o essere, molti o uno? Dall’oralità alla scrittura
3.5.2 Prima della scissione: la psyché omerica
3.5.3 Dal tentativo dei presocratici al fallimento
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4. L’identità umana irrazionale
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4.2 Unità dell’essere nel divenire: la trasformazione
163
4.3 Nati uguali per diventare diversi
171
4.4 Inconoscibile o sconosciuto? Scegliere tra rassegnazione e speranza 179
4.1 La nascita umana: capacità di immaginare e uguaglianza
Indice dei nomi
185
Bibliografia
187
Premessa
Nelle intenzioni della vigilia questo libro doveva essere molto diverso
da come ora si presenta ai lettori. L’identità umana è nato da una riflessione
sullo statuto moderno della soggettività, e avrebbe dovuto ripercorrere le
varie forme che il concetto di identità ha assunto nella storia del pensiero
occidentale. A partire dalle sue basi nella filosofia greca sino ai giorni nostri,
nei quali esso si è, per così dire, frantumato in una somma di appartenenze:
l’identità del soggetto sarebbe in realtà multipla in quanto è data dal fatto
di appartenere a una religione, a uno stato nazionale, a una professione, eccetera.
Durante la ricerca si insinuava però sempre di più in me la curiosità per
il prima della filosofia, per l’humus culturale che l’aveva prodotta1. In altre
parole, visto che la cultura greca è considerata la culla di quella occidentale,
ero sempre più spinta a cercare di comprendere quale poteva essere stata
la culla della culla. Ipotizzai quindi un primo capitolo che esplorava le
epoche precedenti e ripresi un testo studiato molti anni prima, che aveva
sempre mantenuto un suo posto nella mia mente: L’uomo a due anime del
filosofo italiano Antonio Capizzi2. In questa opera, frutto di ricerche ultradecennali, l’autore articola una tesi per la quale la civiltà occidentale si fonderebbe su un’antichissima e negata contraddizione che risale alla fine dell’epoca neolitica (circa 4000 a.C.), tra una mentalità ‘femminile’ legata alla
1
Penso ora che una sorta di inconscia sinossi del presente lavoro sia contenuta in un articolo scritto alcuni mesi fa; cfr. L. Profeti, Il pathos della ribellione, in “left”, 5 giugno 2009.
2
Cfr. A. Capizzi, L’uomo a due anime. Dall’infanzia mimica, dalla comicità adolescenziale,
al tragico come scelta adulta, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1988, e anche Il tragico in filosofia, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988.
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L’IDENTITÀ UMANA
cultura agricola matrilineare, e una ‘maschile’ legata alla cultura patriarcale
dei pastori nomadi che la invasero. Nei primi capitoli l’autore mostra le
condizioni della nascita di questo scontro, secondo un metodo che rifiuta
la concezione metafisica di un’unica ed eterna forma di pensiero, e si serve
dei grandi studi tipici della prima metà del secolo scorso (Childe, Frazer,
Lévy-Bruhl, Pigorini e molti altri). Tutti precedenti l’egemonia dei metodi
strutturalisti degli anni Sessanta (Lévi-Strauss, Lacan, Althusser) e di quelli
post-strutturalisti degli anni Settanta-Ottanta (Derrida, Gadamer, Deleuze,
Guattari, Foucault)3.
Pur essendo affascinante, non tutto il lavoro di Capizzi era per me convincente. In particolare le sue conclusioni, secondo le quali questo antico
scontro rappresenta un fondamento tragico irrisolvibile per la nostra civiltà.
Rileggendolo a distanza di molto tempo, ho di nuovo apprezzato l’approfondita ricerca, ma ho scoperto che quella lontana divergenza di opinioni
si era accresciuta, sino a diventare una sorta di irritazione epidermica che
mi ha spinto, inizialmente senza rendermene molto conto, a cercare di
vedere se e come era possibile dimostrare che le sue conclusioni (nelle cui
pieghe, alla fin fine si riflette la convinzione, anch’essa ‘eterna’, dell’impossibilità di una realizzazione nel rapporto uomo-donna4) erano sbagliate.
E così è accaduto che invece di guidare una ricerca è stata la ricerca a
guidare me. Nell’approfondimento del tema e nell’incrocio con altri studi
si sono dischiusi davanti ai miei occhi scenari pieni di immagini di popoli
antichi e antichissimi, alcune talmente mobili e cariche di colore da sentirne
quasi l’odore, altre così statiche e violente da raggelare il sangue nelle vene.
Il ripercorrere, sotto questo punto di vista, alcuni passaggi cruciali dei trentamila anni di storia precedenti la nascita della filosofia greca, mostra che
uno scontro tra culture per così dire ‘al femminile’ e culture ‘al maschile’ in
3
Per inciso, Capizzi non aveva torto a rifiutare l’ubriacatura della cultura per i metodi
strutturalisti, ora completamente caduti in disuso tra gli specialisti dell’antichità perché
considerati troppo statici ed astratti per le scienze umane; cfr. P. Brunasco, La Mesopotamia
prima dell’Islam. Società e cultura tra Mesopotamia, Islam e Occidente, Bruno Mondadori,
Milano 2008, pp. XII-XVI.
4
«L’essenza del tragico non sta tanto nel dilemma tra i due diversi beni, quanto nel fatto
che il reciproco escludersi di essi rende necessaria la violazione di uno dei due, e di conseguenza presenta il male come ineliminabile, qualunque sia la scelta»; A. Capizzi, L’uomo a
due anime cit., p. 271.
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Premessa
effetti c’è stato, ma non è originario, e non ha avuto solo gli esiti infelici che
ha assunto poi nella ‘culla’ della nostra civiltà (che poi, come spero di
riuscire a mostrare, è molto più ampia di come appare).
Non è originario perché prima di quello scontro ci sono state civiltà di
altissimo livello che sono riuscite a vivere meglio l’incontro tra uomini e
donne. Le ricerche del femminismo, a partire dagli anni Settanta dello
scorso secolo, hanno evidenziato la misoginia della filosofia greca, ma
l’hanno declinata solo per rivendicare un antico e mai dimostrato matriarcato
e, ponendosi come semplice alternativa al patriarcato, hanno sostenuto che
il potere femminile sarebbe per definizione non violento. Come se la sola
biologia potesse dire della ‘bontà’ o ‘cattiveria’ degli esseri umani, la cultura
femminista si è proposta come madre sicuramente buona, mentre le madri
non sono poi così sicuramente buone, né più né meno dei padri. Nascondendo in grembo un riduzionismo biologico onnipotente, il femminismo si
è precluso la possibilità di comprendere che, prima che la differenza sessuale
abbia il suo senso nello sviluppo psichico individuale, tutti gli esseri umani
che vengono alla luce, sia maschi che femmine, ricevono in dono dalla loro
biologia un pensiero per immagini che da quella biologia differisce, perché
è originariamente sessualmente indifferenziato: siamo tutti esseri umani
uguali, perché la mente umana che nasce dal corpo, a differenza di questo,
non nasce maschile o femminile, bensì lo diventa.
Paradossalmente, la stessa negazione del pensiero non cosciente dei
primi mesi di vita ha condotto la cultura post-sessantottina, cosiddetta di
genere, su una sponda opposta: a scindere il corpo dalla mente. Idolatrando
la sola libertà essa è pervenuta alla sparizione della ricerca di un concetto
di identità umana ateo fondato sulla biologia specie-specifica, per arrivare
a sostenere che il rapporto sessuale non avrebbe nulla a che vedere con il
proprio corpo, ma sarebbe solo una questione di scelta culturale.
Quel femminismo non si è accorto che, autocondannare le donne a una
differenza di genere originaria, avrebbe portato acqua al mulino di una
corrente intellettuale che tendeva invece all’annullamento dell’identità femminile, che in quegli anni poteva emergere. Poteva emergere perché la
scienza − vituperata oggi negli ambienti che da quel plesso di culture residuano − aveva regalato alle donne una libertà vera: quella di potersi lasciare
andare al rapporto sessuale senza temere di rimanere incinte, e aveva anche
scoperto i farmaci che potevano curare le malattie veneree. Da questa
11
L’IDENTITÀ UMANA
libertà (che deriva da un’identità, quella medico-scientifica) e nel rapporto
con gli uomini, le donne possono ora ripartire per realizzare completamente
la loro identità umana sessuata, che non è quella delle mucche che partoriscono, né quella delle scimmie che giocano con i loro genitali, sensazione
‘piacevole’, ma non molto dissimile dal grattarsi quando hanno prurito.
Vista con il senno di poi, quella cultura della seconda metà del Novecento
acquista oggi per noi la falsa figura dell’impossibilità di ribellarsi alla mentalità patriarcale, l’ennesima ripetizione tragica.
Non è vero che patriarcato e matriarcato siano l’unica possibilità offerta
agli esseri umani, perché nel mondo primitivo non ci sono tracce né dell’uno
né dell’altro, e anche quello antico ha vissuto momenti di rapporto, e non
solo di scontro, fra identità culturali maschili e femminili, quanto meno
nelle civiltà sumera e minoica prese in considerazione in questo lavoro5.
Momenti che ho potuto intravedere perché, come ho capito solo molto
dopo, la strada mi era stata aperta da un’intuizione non mia, bensì dello
psichiatra Massimo Fagioli, ovvero quella della possibilità rappresentata
nella favola di Amore e Psiche rispetto alla condanna sancita dal mito di
Edipo6.
Non più quindi sulle tracce della filosofia, ma su quelle di una parte
dell’umanità che l’aveva preceduta, mi è parso di riuscire a intravedere
quello che potrebbe essere accaduto, e che ha condotto poi a sancire quell’idea di identità umana che, declinata nelle due accezioni di religiosa e razionale, avrebbe marchiato a fuoco la nostra civiltà; inizio che ora mi pare
Per ragioni di spazio, tra le altre civiltà contemporanee a queste e che meriterebbero
un’indagine, ho dovuto trascurare anche quella egizia, il cui studio ha invece rappresentato
un momento importante di questa ricerca. Gli Egizi presentano caratteristiche peculiari interessanti rispetto alle civiltà sia sumera che cretese, e ne riporterò alcune nel corso delle
questioni trattate, evidenziando parallelismi e differenze.
5
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A partire dal 1981 Massimo Fagioli ha scelto di adottare per le copertine dei propri
libri l’immagine della coppia Amore e Psiche rappresentata nelle statue di Canova. La favola
di Amore e Psiche è contenuta nell’opera Le Metamorfosi, anche detta L’Asino d’oro, scritta
dall’autore latino Apuleio di Madaura nel II secolo d.C. La genesi del racconto è però
molto dibattuta tra i filologi, tra i quali non pochi ritengono che essa fu scritta in prima
battuta in lingua greca. Anche le origini della leggenda sono molto discusse (Asia orientale,
Egitto, Grecia arcaica), e comunque è dato per scontato che siano molto più antiche dell’età
di Apuleio. Per l’interpretazione del senso ancora attuale della favola cfr. M. Fagioli, Diversa
da me, in “left”, 11 settembre 2009.
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Premessa
illuminare tutta la lunga parabola della filosofia sino ai giorni nostri. Ho
usato le espressioni intravedere e non comprendere, come anche mi pare e
non io penso, perché sono consapevole che si tratta di una ricerca immensa
e che questo lavoro non può che esserne un piccolo inizio, che però non
posso fare a meno di esporre perché ritengo che almeno la direzione sia
quella giusta.
Questa dunque è la storia di questo libro, che per l’ennesima volta non
dà ragione a Heidegger, il quale pensava che il linguaggio fosse la casa dell’essere e che era quindi necessario tornare a indagare quello della prima
filosofia greca per comprendere l’essere e il tempo. Heidegger non aveva
ragione perché la casa dell’essere non è il linguaggio, ma l’immagine. E
quindi, ancor prima di indagare quel linguaggio, è necessario fare lo sforzo
di comprendere su quali immagini (o annullamento di immagini) esso si
sia formato.
Concludo questa premessa ringraziando in primis Gaetano Bonetta, per
avermi sollecitato a scrivere questo libro, per la sua fiducia, e per il sostegno
che mi ha generosamente accordato; poi la casa editrice L’Asino d’oro, che
coraggiosamente non ha tentennato nemmeno un attimo nell’accettare di
pubblicarlo; a seguire Francesca Arra, Eva Gebhardt, Blume Gra, Annachiara Mantovani, Elena Musumeci, Rossella Napolano, Laura Profeti, Nuccio Russo, Maria Sneider, per la pazienza nell’ascoltarmi, l’incoraggiamento
e i preziosi consigli; poi Marco Cattani, Elvira Zanardi e ancora Laura e Roberta Profeti, per avermi sollevato dalle incombenze del momento delicato
che stavamo vivendo, e avermi così consentito di dedicare tutto il tempo
alla mia ricerca; per ultima l’idea dolce di un uomo che silenziosa ha fatto
compagnia alle mie mani, per tutto il tempo che scrivevano.
Ringraziare Massimo Fagioli e quella realtà originale detta Analisi collettiva, per le scoperte e la ricerca che costituiscono il fondamento de
L’identità umana non sarebbe esatto, perché non di aiuto in questo caso si
è trattato. È piuttosto che senza di loro questo libro, per quanto da ‘antichissimo’ tempo desiderato, semplicemente non sarebbe esistito mai.
Roma, ottobre 2009
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Introduzione
Comprendere l’umano, una questione non più eludibile
L’antisemitismo (non il semplice odio contro gli ebrei),
l’imperialismo (non la semplice conquista),
il totalitarismo (non la semplice dittatura)
hanno dimostrato, uno dopo l’altro,
uno più brutalmente dell’altro,
che la dignità umana ha bisogno di una nuova garanzia.
Non possiamo più permetterci il lusso
di prendere quel che andava bene in passato
e chiamarlo semplicemente retaggio.
Hannah Arendt1
È con la filosofia greca che il pensiero occidentale cerca per la prima
volta di definire concettualmente la realtà umana, a cavallo tra il V e il IV
secolo a.C. con i noti Platone e Aristotele. Ma prima di loro già i filosofi
presocratici si erano posti il problema dell’unicità dell’essere nel divenire, e
Socrate esplicitamente quello della conoscenza di se stessi. Che l’uomo
cambiasse in continuazione nell’arco della propria vita era un fatto manifesto,
e quindi come comprendere nella riflessione quel qualcosa che ognuno
sente spontaneamente come propria prima certezza, ovvero quella di essere
sempre io nonostante tutti i mutamenti in cui incorro? A partire da Parmenide, il problema della stabilità nel continuo cambiamento fu posto nei ter-
1
H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999, pp. LXXXILXXXII, dalla prefazione del 1950 alla prima edizione.
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L’IDENTITÀ UMANA
mini di un essere identico a se stesso, e quella concezione ancora perdura.
Se consultiamo il vocabolario troviamo infatti che il termine identità è sinonimo di «perfetta uguaglianza»2.
Da un punto di vista formale potremmo quindi anche scrivere che la
nostra identità umana consiste nell’essere perfettamente uguali a noi stessi.
Potremmo, ma avrebbe senso? Ovviamente no. Possiamo certo apprezzare
la coerenza di una persona, ma un uomo o una donna uguali a loro stessi
per tutta la loro vita non esistono, perché la caratteristica umana è quella
del divenire costante, fisicamente e mentalmente. Il nostro aspetto fisico
alla nascita è molto diverso da quello con il quale moriremo, così come i
nostri pensieri e le immagini nella nostra mente adulta sono molto diversi
da quelli che avemmo da neonati, da bambini, da adolescenti. Poi per noi,
cittadini del XXI secolo cresciuti dopo la Rivoluzione francese, c’è anche
un altro motivo per il quale non potremmo usare quell’espressione, perché
per noi l’uguaglianza ha ormai il senso immediato della relazione: è uguaglianza con gli altri, non autorispecchiamento.
Eppure, nonostante le ovvie caratteristiche del divenire nel tempo e del
necessario rapporto interumano, all’inizio delle scienze occidentali l’identità
umana è stata confusa con quella delle cose del mondo naturale inanimato,
e da lì è stata sancita come elemento eterno, immutabile e senza relazioni,
sia stato esso una sostanza come l’anima, o una facoltà come la ragione-linguaggio verbale. Stupefacente contraddizione di cercare l’umano in quanto
di meno umano c’è, essa vive ancora ai giorni nostri, introiettata nelle
pieghe dei nostri pensieri più comuni, bevuta insieme al latte materno.
Come avremo modo di valutare, duemilacinquecento anni sono ben
pochi nella storia dell’umanità. Sono però abbastanza per noi, che insieme
ai nostri figli e nipoti in questa civiltà siamo nati e vivremo. Nell’epoca in
cui l’uomo tecnologico è in grado di fare cose strabilianti, guarire malattie
fino a poco tempo fa mortali, vivere mediamente un numero di anni insperabile solo un secolo fa, ma nella quale continua a non riuscire a innestare
la retromarcia rispetto alla violenza. Dalle guerre ‘di civiltà’ a quelle religiose,
passando attraverso i continui rigurgiti di razzismo e xenofobia, pare che
gli esseri umani non riescano a liberarsi dell’odio per il diverso. Lungi dall’essere − come ci è stato sempre detto − colpa del peccato originale o di
2
Vocabolario della lingua italiana, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Milano
1987, vol. II, p. 733.
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