Stragi nell`Albenganese

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1. Considerazioni generali. I Reparti tedeschi e della R.S.I. e le formazioni
partigiane operanti in Liguria.
Prima di descrivere le vicende che sono al centro della nostra narrazione, e che concernono le
stragi avvenute nella zona dell’Albenganese, occorre cercare di inquadrarle in un contesto più
generale.
Siamo nel tragico inverno del 1944-1945, terribile non solo per le condizioni climatiche
estremamente avverse, a causa delle basse temperature, ma anche perché, dal punto di vista
psicologico, esso costituì un ultimo, durissimo banco di prova per la Resistenza italiana,
impegnata nella lotta contro il nazifascismo.
La popolazione civile, a sua volta, già stremata per la guerra, fu fatta oggetto di sempre più
frequenti azioni di “rappresaglia”, che condussero alla fucilazione di innumerevoli vittime
innocenti.
Le stagioni dell’autunno e dell’inverno di quell’anno furono parimenti gravide di perdite per le
formazioni partigiane, in quanto le truppe naziste si impegnarono durante tale arco di tempo in
operazioni di “pulizia” delle aree, mediante vasti rastrellamenti.
Del resto, il venir meno della protezione offerta dal fogliame e la facile individuazione di ogni
movimento, a causa delle tracce lasciate sul manto nevoso, non potevano non ostacolare
l’attività dei partigiani nascosti in montagna, molto più facilmente esposti, in tal modo, ai
tentativi di individuazione ed accerchiamento.
D’altra parte il proclama del 13 novembre diffuso dal generale Alexander, volto ad informare
dell’interruzione dei rifornimenti aviolanciati per il periodo invernale, a causa delle pessime
condizioni climatiche 1, aveva indubbiamente contribuito a deprimere il morale di molti
appartenenti alla Resistenza, i quali speravano, dopo lo sbarco alleato del 15 agosto fra Hyères
e Cannes, e più precisamente sulle spiagge tra Le Lavandou e Le Thèoule, e la successiva resa
delle truppe tedesche di stanza a Marsiglia e Tolone, il successivo 20 agosto, e soprattutto dopo
l’ingresso degli Alleati a Parigi il 24 agosto, che anche il nostro Paese avrebbe potuto essere
interamente liberato entro la fine del 1944.
Cerchiamo ora di vedere quali fossero le forze che si contrapponevano, in quell’arco di tempo,
nelle zone che furono al centro delle stragi.
Per quanto concerne le truppe tedesche, i dati di interesse appaiono ricavabili dai documenti
conservati presso il Bundesarchiv-Militärarchiv di Friburgo, ove sono custodite, tra l’altro, le
mappe della situazione dei reparti tedeschi della Wehrmacht di stanza in Liguria all’epoca in
esame 2.
Operava in detta area la 34 ª Infanterie-Division (Divisione di Fanteria), detta Rheinische in
quanto effettuava il reclutamento nel territorio di Wiesbaden.
1
Detto proclama così disponeva: << il generale Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:
1) Cessare le operazioni organizzate su vasta scala;
2) Conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
3) Attendere nuove istruzioni che verrano date o a mezzo Radio << Italia combatte >> o con mezzi speciali o
con manifestini. Sarà cosa saggia non esporsi in azioni troppo arrischiate: la parola d’ordine è: stare in
guardia, stare in difesa;
4) Approfittare però ugualmente delle occasioni favorevoli per attaccare i tedeschi e fascisti;
5) Continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiare le intenzioni, gli
spostamenti, e comunicare tutto a chi di dovere >>.
2
Gli altri archivi tedeschi nei quali possono essere rinvenuti elementi significativi per una ricerca di questo tipo sono,
come è noto per chi si occupa di simili tematiche, il Bundesarchiv di Aquisgrana, ove sono consultabili gli
organigrammi dei vari battaglioni, e la Deutsche Dienststelle (WASt), e cioè l’ “Ufficio tedesco per la comunicazione di
notizie ai familiari dei caduti delle ex forze Armate tedesche”, particolarmente importante per ricavare i fogli
matricolari degli ufficiali, sottufficiali e militari di truppa. Sono infatti ivi indicati i dati anagrafici dei deceduti, il
luogo, la data e la causa del loro decesso.
Sono molto scarsi i documenti ufficiali su questa Divisione, in quanto molto probabilmente
buona parte di essi venne distrutta durante la ritirata o poco prima della cessione delle armi, al
fine di non fornire in tal modo notizie che avrebbero potuto essere utilizzate negli eventuali
processi intentati contro gli ufficiali ed i sottufficiali che vi avevano militato e che si erano
macchiati di moltissimi crimini di guerra (tra cui non vanno dimenticati quelli posti in essere
durante la ritirata dall’Italia, quando ormai, dopo il 25 aprile, la popolazione italiana stava
festeggiando il ritorno alla democrazia; al riguardo vanno menzionati in particolare, per la loro
rilevanza, l’eccidio di Santhià, con 46 vittime, avvenuto tra il 29 aprile ed il 1° maggio del 1945,
e l’eccidio di Grugliasco, avvenuto il 30 aprile del 1945, con 67 persone massacrate) .
I carteggi relativi, contenuti al Bundesarchiv-Militärarchiv, arrivano per lo più fino all’estate del
1943, e non fanno dunque riferimento all’ultima parte della guerra ed in particolare alle
operazioni effettuate in Italia.
La 34 ª Divisione, pur essendo stata costituita il 1° aprile del 1936, divenne operativa solo il 26
agosto 1939, ed all’epoca era composta da tre Reggimenti di Fanteria ed uno di Artiglieria.
Operò in Lussemburgo, a partire dal gennaio del 1940, e poi in Francia, fino al maggio del
1941.
Combattè, dal giugno del 1941 fino al 2 aprile del 1944, sul fronte russo, ove venne quasi
completamente decimata, dovendo così essere rilevata dalla 46 ª Divisione.
Dopo alcune operazioni militari effettuate ancora in Romania, ricevette l’ordine di rientrare in
Germania per essere rinnovata nei suoi ranghi e per permettere ai sopravvissuti un periodo di
riposo.
Ricostituita in Slesia con nuovo personale combattente, fu inviata, nel giugno del 1944, sotto il
comando del generale Theobald Helmut Lieb 3
(nato a Freudenstadt nel Baden il 25
novembre 1889, e che in precedenza aveva comandato la 112 ª Divisione di Fanteria e il
Korpsabteilung B ), a presidiare l’area compresa tra il Piemonte meridionale e la Liguria
occidentale 4, col fine principale di porsi a baluardo di un’area ove si ipotizzava uno sbarco
alleato.
Tra l’altro avrebbe dovuto presidiare, con i suoi Kampfgruppen, o Corpi tattici, la Sperrstellung
Ligurischer Apennin, e cioè la linea di sbarramento dell’Appennino ligure.
A partire dal 28 giugno 1944 l’ambito del comando del generale Lieb divenne più ampio, in
quanto, oltrea alla 34 ª Divisione, egli venne messo a capo di tutte le forze tedesche e
repubblichine operanti sull’intera Riviera ligure (sia di levante che di ponente).
In questa data fu infatti costituito il Gruppo Lieb, con l’aggiunta della 42 ª Divisione e della
135 ª Brigata, col compito di assicurare la sicurezza dell’area costiera, dai confini francesi fino
a Portofino, ed in particolare di difendere i territori di Savona e di Genova e di proteggere la
base di Albenga.
Tale Gruppo venne peraltro sciolto il 7 luglio; venti giorni dopo tuttavia si pervenne alla
creazione del Korpsabteilung (Reparto di Corpo d’Armata) Lieb, comprendente la 34 ª
Divisione, la 3 ª Divisione italiana San Marco ed il 4 ° Battaglione Cacciatori di montagna.
Questo raggruppamento comprendeva dunque sia forze tedesche sia truppe italiane della R.S.I.
Era particolarmente significativa al riguardo la presenza della Divisione San Marco 5, formata
da personale addestratosi in Germania, a Grafenwohr, per volere dello stesso Mussolini.
La 34 ª Divisione avrebbe dovuto operare ad immediato ridosso della San Marco per
fronteggiare il temuto sbarco Alleato, che secondo gli esperti tedeschi di strategia militare
3
Aiutante del generale Lieb era un maggiore venticinquenne, Otfried Gerhardi, che finita la guerra studiò poi teologia e
divenne pastore protestante.
4
V. al riguardo P.E. KLINGBEIL, Le front oublié des Alpes Maritimes (15 août 1944 – 2 mai 1945), Nice, Serre
Editeur, 2005, pag. 53.
5
Per alcune osservazioni sui compiti svolti in quel periodo da tale Divisione v. F. BIGA, Capo Berta e Latte: due
stragi tedesche nella I Zona, in Storia e memoria, 2008, n. 2, pag. 161.
sarebbe presto avvenuto in Liguria (alcuni storici hanno parlato al riguardo di una sorta di
“psicosi dello sbarco” in tale comparto ) 6.
Per tale motivo erano state rafforzate le opere di fortificazione già predisposte
dall’organizzazione Todt 7, mediante l’allestimento di ulteriori bunkers e casematte e la
collocazione di mine lungo tutta la zona costiera, che viveva in quegli anni il suo periodo più
cupo e drammatico.
Nella realtà gli Anglo-Americani ancora una volta operarono in maniera diversa rispetto alle
previsioni delle forze tedesche.
Lo sbarco in Provenza da parte degli Alleati, il 15 agosto del 1944, a seguito dell’operazione
denominata in codice Dragoon, e la contestuale dislocazione, a circa 25 km. di distanza
nell’interno, presso Le Muy, di una Airborne Task Force, e cioè di una Divisione di
paracadutisti, impose una rivisitazione dei piani tattici formulati dagli Alti Comandi germanici.
I Reparti originariamente dislocati in funzione antisbarco avrebbero ora dovuto essere utilizzati
per mantenere l’ordine interno, e dunque in funzione antipartigiana, e per controllare le vie di
comunicazione che dal mare andavano verso la pianura Padana.
Il Comando della 34 ª Divisione venne trasferito ad Ormea, in provincia di Cuneo. Dei tre
Reggimenti che lo componevano il 107° fu posizionato tra Bordighera ed il Colle della
Maddalena, onde controllare, tra l’altro, anche la statale 29 e la statale 28 bis, ed il 253° fu
collocato tra Nava e Ceva, onde presidiare la statale 28 nel settore fra Imperia, Albenga, Nava,
Garessio e Ceva.
Ai fini della nostra indagine il Reparto sul quale occorre soffermare l’attenzione è l’80°
Grenadier Regiment, avente la sede del proprio Comando a Villa Grock ad Oneglia.
Esso era comandato, a partire dal 25 novembre del 1944, dal colonnello Klaus Stange (il
precedente comandante, il maggiore Ernst Bucholz, nato il 13 novembre 1894, promosso
tenente colonnello il 1° settembre 1944 e colonnello il 1° novembre 1944, infatti era stato
ucciso, insieme all’ufficiale del servizio informazioni Paul Brühl, nel corso di un attacco
operato dai partigiani a Bonvicino, il 19 novembre 1944), al quale era stato assegnato il compito
di controllare l’area fra Imperia ed Albenga.
A capo del 1° Battaglione dell’80° Reggimento troviamo, nell’inverno del 1944-1945, o meglio
tra il novembre del 1944 e l’aprile del 1945, il Capitano della riserva Gerhard Dosse .
Il 1° Battaglione nell’autunno del 1944 aveva combattuto in Francia, nella zona di Sospel, ove
aveva subito forti perdite, ed era poi stato inviato in Liguria, al fine di presidiare la zona
territoriale compresa fra Andora e Ceriale, anche mediante l’installazione di una serie di
distaccamenti ad Andora, Laigueglia, Borghetto, Ceriale, Alassio ed Albenga.
6
V. G. GIMELLI, La Resistenza in Liguria. Cronache militari e documenti, Roma, Carrocci, 2005, vol. I, pag. 329 ss.
L’ Organizzazione Todt venne costituita nel 1933 dall’ingegner Frtiz Todt, nato a Phorzheim nel 1891, iscrittosi al
parito nazionalsocialista già a partire dal 1926. Essa è stata definita da R. SPAZZALI, “Sotto la Todt”. Ricerca in
occasione del cinquantennale della Resistenza e della guerra di Liberazione, Gorizia, Editrice Goriziana, 1995, pag. 31,
come << il più grande cantiere edile del terzo Reich >>. I tecnici ed il personale esecutivo della Todt eseguirono
imponenti opere di protezione antiarea, di manurenzione stradale e ferroviaria, di difesa costiera dell’Europa occupata, e
fabbricarono anche dei cantieri sotterranei nella Ruhr. Sebbe Todt fosse morto in un incidente aereo a Rastenburg, l’8
febbraio 1942, l’organizzazione di edilizia bellica da lui creata continuò ad operare, sopravvivendogli, e fu anzi
potenziata dapprima da Albert Speer, e poi dal Plenipotenziario per la mano d’opera Fritz Sauckel. Facevano parte
dell’Organizzazione Todt sia lavoratori “coatti”, sia tecnici e manovali volontari. Come sottolineato da A. GIUDICI, 28
agosto 1944. Teresa Bracco. Storia di una ricerca, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2006, pag. 177 << il Governo
fascista non vedeva di buon occhio questa organizzazione, nei cui ranghi venivano spesso ad imboscarsi elementi che
magari intendevano evitare il servizio di leva. Un Notiziario G.N.R. ligure parla chiaro: “Forma tuttora oggetto di
critiche e di recriminazioni l’assenza dai reparti di numerosi giovani appartenenti a classi richiamate, i quali, essendo
addetti al lavoro presso ditte protette o lavoranti per conto del’Organizzazione Todt, hanno ottenuto l’esonero dal
servizio militare >>. Per quanto concerne l’articolazione dell’organizzazione Todt in Liguria, va ricordato che era stata
costituita una OBL Ponente, e cioè una Oberbauleitung, e dunque una Direzione Superiore lavori per il Ponente ligure,
ed una OBL Genova, da cui dipendevano le minori OB, e cioè le varie direzioni lavori a competenza locale.
7
Nel febbraio del 1945 l’intero 80 ° Granadier- Regiment risultava dislocato tra San Lorenzo al
Mare e Borghetto Santo Spirito; in particolare il 1° Battaglione era di stanza da Borghetto a
Capo Mele ed il 2 ° Battaglione operava da Capo Mele a San Lorenzo al Mare.
Per quanto riguarda le forze della Resistenza nella I Zona militare partigiana, tra Albenga ed il
confine francese, si era costituita la Divisione d’assalto “Felice Cascione”, che prese il nome dal
martire noto per essere l’autore del canto “Fischia il vento” 8.
Nelle valli di Diano, Andora ed Albenga era schierata la 1ª Brigata garibaldina “Silvano
Belgrano”. A nord di Ceriale si estendeva per il resto del Savonese la II Zona partigiana.
Tali formazioni erano costituite in larga parte da giovani che avevano inteso sottrarsi ai vari
bandi di chiamata alle armi della RSI.
Non si può non sottolineare come i vari “bandi” ebbero un riverbero estremamente significativo
sul movimento partigiano.
Mentre per la restante parte della popolazione maschile italiana le “scelte di campo” potevano
teoricamente essere rinviate nel tempo, i bandi posero invece tutta una generazione di giovani
vite, e cioè i soggetti delle classi del 1923, del 1924 e del 1925, di fronte ad un bivio immediato,
drammatico.
Per questi ragazzi non era sufficiente decidere di non aderire alla RSI (che rappresentava del
resto un Governo illegittimo, non riconosciuto dagli altri Stati della Comunità internazionale).
Infatti, poiché la pena prevista nei confronti di chi non rispondeva alla chiamata alle armi era la
fucilazione, la soluzione più naturale per chi aveva deciso di non far parte delle milizie
repubblichine era quella di intraprendere la strada del partigianato.
I vari rastrellamenti operati dalle forze nazifasciste, volti all’individuazione dei “renitenti”,
rendevano quasi necessitata una simile soluzione. Non bastava abbandonare le proprie case,
occorreva invece raggrupparsi ed entrare a far parte di solide strutture di lotta; se si doveva
morire, tanto valeva farlo combattendo.
D’altra parte, la durezza delle “ritorsioni” minacciate dalle Autorità nei confronti di coloro i
quali non avessero aderito ai bandi di chiamata e dei loro familitari appariva indicativa della
consapevolezza, da parte del Governo della RSI, della ridottissima adesione che tali bandi
avrebbero trovato presso i coscritti, in mancanza di simili minacce di natura draconiana 9 .
Il più significativo di questi bandi fu indubbiamente il cosiddetto “bando Graziani”. Esso fu
emanato in quanto un numero elevatissimo di soggetti che si erano presentati ai vari Centri di
Raccolta avevano poi disertato, e queste continue emorragie di uomini avevano del tutto
dissanguato l’esercito della RSI, compromettendone anche l’immagine di fronte all’Alleato
germanico; i tedeschi esigevano infatti che la RSI fosse in grado di fornire un quantitativo
sufficiente di soldati, onde provvedere almeno al controllo interno del territorio al fine di non
distogliere ulteriormente dalla linea del fronte le truppe tedesche.
Il relativo Decreto venne emesso il 18 febbraio 1944 e, dopo essere stato firmato da Mussolini e
Graziani, e vistato dal Guardasigilli Pietro Pisenti, fu pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 21
marzo 1944.
Il suo contenuto era il seguente << In data 18 febbraio 1944 – XXII il Duce della Repubblica
Sociale Italiana, Capo del Governo, sentito il Consiglio dei Ministri, ha emanato il seguente
decreto:
Art. 1) Gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra e senza
giustificato motivo non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso,
saranno considerati disertori di fronte al nemico ai sensi dell’art. 144 del Codice penale
militare di guerra e puniti con la pena di morte mediante fucilazione nel petto.
8
Sulla vita di questo partigiano v. da ultimo il lavoro di F. BIGA, Felice Cascione e la sua canzone immortale, Imperia,
Edizione ISRECIM, 2007.
9
D. GAGLIANI, Violenze di guerra e violenze politiche. Forme e culture della violenza nella Repubblica Sociale
Italiana, in Crimini e memorie di guerra, a cura di L. BALDISSARA – P. PEZZINO, Napoli, L’Ancora del
Mediterraneo, 2004, pag. 303.
Art. 2) La stessa pena verrà applicata anche ai militari delle classi 1923, 1924, 1925 che non
hanno risposto alla recente chiamata o che, dopo aver risposto, si sono allontanati
arbitrariamente dal reparto.
Art. 3) I militari di cui all’articolo precedente andranno tuttavia esenti da pena e non saranno
sottoposti a procedimento penale se regolarizzeranno la loro posizione presentandosi alle armi
entro il termine di 15 giorni decorrenti dalla data del presente decreto.
Art. 4) La stessa pena verrà applicata ai militari che, essendo in servizio alle armi, si
allontaneranno senza autorizzazione dal reparto, restando assenti per tre giorni, nonché ai
militari che essendo in servizio alle armi e trovandosi illegittimamente assenti non si
presenteranno senza giustificato motivo nei cinque giorni successivi a quello prefissato.
Art. 5) La pena di morte inflitta per i reati di cui agli articoli precedenti deve essere eseguita, se
possibile, nel luogo stesso di cattura del disertore o nella località della sua abituale dimora.
Art. 6) La competenza a conoscere dei reati di cui agli articoli 1 e 2 del presente decreto spetta
ai Tribunali militari.
Art. 7) E’ abrogata ogni altra disposizione in contrasto con il presente decreto >>.
Il bando Graziani ebbe esiti deludenti e valse semmai, come già accennato, a rendere più ampia
la fascia della popolazione volta a favorire la lotta Resistenziale.
2. Protagonisti e comprimari degli eccidi.
La popolazione di Albenga viveva in quei mesi sotto una cappa di terrore. Era vietato
avvicinarsi alla spiaggia, interamente minata e fortificata dai tedeschi, che per molti mesi
avevano temuto, come già abbiamo detto, un possibile sbarco nella zona.
Tutta la zona balneare, dunque, una delle parti più belle della città, era inaccessibile per la
popolazione; in quell’area, del resto, si erano formati ampi crateri, provocata dai numerosi
bombardamenti dell’aviazione Alleata.
Non deve dunque stupire che quanto avveniva alle foci del fiume Centa, nel punto ove esso si
immetteva nel mare (in quest’area, come vedremo, fu eseguito il numero più consistente di
eccidi) rimanesse del tutto ignoto agli abitanti del paese.
Si cercava di “stare lontani” dai tedeschi, a prescindere dal loro ruolo. Del resto, la popolazione
italiana non era in grado di conoscere i gradi dei vari militari nè sapeva quali fossero i reparti
incaricati di controllare la zona.
Solo le autorità locali sapevano che il compito di presidiare quel’area ricadeva, per quanto
riguardava le Forze germaniche, tra i compiti del 1° Battaglione dell’80 ° Grenadier Regiment
della 34 ª Divisione, comandato dal Capitano della riserva Gerhard Dosse (non era inusuale,
soprattutto in quell’ultimo periodo di guerra, che un Battaglione fosse comandato da un
semplice Capitano), nato a Fuerstenberg il 22 marzo 1909, uno dei protagonisti, o meglio “il
protagonista”, in negativo, dei tragici fatti che insanguinarono l’Albenganese.
Non si trattava di un militare di professione; Dosse prima della guerra era stato un insegnante (e
sarebbe ritornato a fare l’insegnante, senza particolari preoccupazioni o rimorsi, una volta finito
il conflitto, terminando la sua attività lavorativa come preside di un liceo).
Purtuttavia, la guerra l’aveva coinvolto pienamente; le testimonianze raccolte non lo descrivono
certo come un uomo di cultura che sente il peso degli orrori connessi ad una simile vicenda, ma
come un comandante spietato. Al contempo amava la vita lussuosa. Durante il periodo che
costituisce oggetto della nostra analisi, conviveva con una nobildonna italiana ad Alassio (del
resto lo stesso generale Lieb, comandante della 34 ª Divisione, aveva lasciato la sede di Ormea
per trasferirsi nel perido invernale nella località balneare), nella villa di costei a Parco Fuor del
Vento ( ella dopo la fine della guerra riferì ai rappresentanti del locale CLN che grazie
all’ascendente che poteva esercitare sul capitano Dosse convinse detto ufficiale a tenere
immune, nei limiti del possibile, tale cittadina dagli eccidi che venivano invece compiuti nelle
aree limitrofe).
Ad Albenga, come in quasi tutte le altre località sotto l’occupazione nazifascista, vigeva il
coprifuoco, dapprima dalle 18.00 e poi dalle 17.30 e fino alle 06.00. Solo per gli addetti agli
alberghi, ai ristoranti e per i lavoratori pendolari il coprifuoco iniziava alle 19.30.
Certo, le voci di violenze e di uccisioni erano largamente diffuse, così come lo erano quelle
concernenti le torture ad opera dei militari della Feldgendarmerie, che si erano insediati al
primo piano della palazzina INCIS (Istituto Nazionale Case impiegati dello Stato), costruita,
verso la fine del 1920, in via Trieste 14, angolo via Pola 10 (ad un altro piano della stessa
palazzina INCIS si trovava invece il comando militare territoriale, la Ortskommandatur della
Wehrmacht).
Essi vivevano in un clima di sostanziale isolamento, fatta salva la componente fascista locale; la
gente era terrorizzata al loro passaggio, anche in considerazione della terribile fama che li
circondava.
La brutalità delle violenze perpetrate all’interno della Feldgendarmerie venne duramente
stigmatizzzata dalle stesse autorità della R.S.I., le cui segnalazioni costrinsero, come vedremo
nel prosieguo della nostra trattazione, i reponsabili tedeschi all’effettuazione di una serie di
indagini al riguardo, quantomeno al fine di mostrare che questi rilievi avevano sortito qualche
risultato.
La Gendarmeria era comandato dal Maresciallo Capo Friedrich Strupp, nato a
Obergeutz/Diedenhofen il 5 marzo 1915, le cui responsabilità criminali, grazie anche alle
ammissioni in tal senso dei suoi stessi subalterni, apparvero immediatamente evidenti già
all’esito dei primi accertamenti compiuti, subito dopo la fine del conflitto, dai Reparti
investigativi delle Forze Alleate.
In una relazione del 23 agosto 1945 a firma di Walter C. Dolde, del “Comando della polizia
militare delle Forze Armate americane del teatro di guerra del Mediterraneo”, si evidenzia, sulla
base delle informazioni raccolte da Alfred Fuchs, un sottufficiale sottoposto al comando dello
Strupp, che << lo Strupp ha compiuto la maggior parte delle azioni terroristiche che sono state
effettuate ed ebbe in suo possesso un album fotografico con 285 o 286 ritratti di persone. Il
Fuchs afferma che lo Strupp ha personalmente ucciso la maggior parte di queste persone. Le
fotografie furono trovate durante una recente ispezione e furono identificate da un partigiano
disertore, di nome Alfredo Ghio. Costui indicava il nome e la posizione dei partigiani suoi ex
compagni, e, in base a questi nomi, lo Strupp compilava il suo album che gli serviva come
informazione. Il Fuchs vide lo Strupp lacerare le fotografie del suo album verso il 15-20 aprile
nell’intenzione di mettersi al sicuro e bruciare le fotografie, per non poter essere incriminato >>.
Facevano inoltre parte di questo nucleo della Gendarmeria il già citato sergente maggiore Alfred
Fuchss, nato a Memmingen il 16 dicembre 1922, il caporale Hans Nüsslein, nato a Nürnberg il
25 ottobre 1911, ed un’altra decina di graduati di truppa, tra cui il caporale Hugo Viel.
10
V., per una descrizione del luogo ove erano ubicate le palazzine INCIS, R. AICARDI – M. MOSCARDINI, Albenga
1944-45: i martiri della foce del Centa, in Storia e memoria, 2008, n. 2, pag. 187: << le case Incis in cui si è insediata
la Feldgendarmerie sono state costruite alla fine degli anni Venti per ospitare le famiglie degli impiegati statali, per lo
più ufficiali dell’Esercito, in forza nelle caserme di Albenga. Si trovano circa a metà della via Trieste e sono, all’epoca
del conflitto, una delle poche costruzioni della zona allora pressoché disabitata. A poche centinaia di metri la chiesa e
l’Opera del Sacro Cuore. La via su cui si affacciano porta alla stazione ferroviaria, mentre dall’altra parte campi e orti la
separano dal fiume Centa. Un sentiero in mezzo alle canne conduce, passando sotto il ponte ferroviario, alla foce del
fiume e al mare >>.
Al riguardo occorre fare una sia pur breve precisazione circa la struttura e l’organigramma della
Polizia tedesca in Italia, il cui comando supremo era stato affidato all’Obergruppenführer e
generale delle Waffen – SS Karl Wolff 11, con il titolo di Höchster SS – und Polizeiführer.
Dopo il 20 luglio 1944 Wolff aveva assunto anche la carica di BGDWI, e cioè di
Bevollmächtigte General der Deutschen Wehrmacht in Italien, carica in precedenza affidata a
Toussaint.
Da Wolff dipendevano tutte le sezioni e suddivisioni della SS (va osservato che, contrariamente
all’uso corrente << si dovrebbe sempre dire, e scrivere, la SS, e non pluralizzare. SS sta per
Schutzstaffel, che significa “Milizia di protezione”. Per indicare i singoli membri si dovrebbe
usare la dizione “militi della SS”, che corrisponde al tedesco “SS – Männer” >> 12), e dunque le
varie strutture di polizia propriamente dette, che peraltro fruivano non di rado di vasti poteri
decisionali, in larga autonomia rispetto al centro.
Tra esse vi erano in particolare l’ORPO, e cioè l’Ordnungspolizei, la “Polizia dell’Ordine”,
suddivisa in Schutzpolizei – Schupo, e dunque la “Polizia di protezione”, e la Gendarmerie.
A Wolff faceva inoltre capo, a livello di vertice, la SiPo/SD, e cioè la
Sichereitspolizei/Sicherheitsdienst, la Polizia di sicurezza / Servizio di sicurezza, avente quale
proprio diretto responsabile in Italia il tenente generale Wilhelm Harster, Comandante appunto
della Polizia di sicurezza e dello SD SS-Gruppenführer, con sede generale a Verona, a cui era
specificamente demandato, oltre a varie altre attività, il compito della persecuzione degli ebrei e
della repressione dell’opposizione politica, la lotta al mercato nero, l’attività di spionaggio e di
controspionaggio.
Per lo svolgimento di detti compiti la polizia tedesca poteva avvalersi a sua discrezione anche
del personale della polizia italiana 13.
11
Karl Woolf, nato a Darmstat nel 1900, partecipò, giovanissimo, come soldato alla prima guerra mondiale, ove fu
decorato con croce di prima e seconda classe. Al termine della guerra aderì ai Freikorps, formati da ex veterani con
l’asserito scopo di “mantenere l’ordine”, e che in realtà si caratterizzarono per una continua serie di violenze. Nel 1931
si iscrisse nel NSDAP, il Partito Nazionale dei Lavoratori tedeschi, e si arruolò poi nella SS, ove già nel 1931 divenne
l’aiutante personale di Himmler. Nel 1935 fu promosso SS – Brigadeführer, ricoprendo successivamente la direzione
della segreteria personale di Himmler e divenendo nel 1939 l’ufficiale di collegamento fra Himmler ed Hitler. Nel
gennaio del 1942 ottenne la promozione al grado di Obergruppenführer und General der Waffen SS (Generale di Corpo
d’Armata e Generale delle SS combattenti) e nel settembre del 1943 venne inviato in Italia. Alla fine del conflitto
condusse le trattative con i rappresentanti delle Forze Alleate per la resa delle truppe tedesche in Italia; fu poi arrestato
dagli americani che lo trattennero in custodia fino al 1949. Rientrato in Germania, fu sottoposto a processo nel 1963
per la sua partecipazione alla campagna di sterminio degli ebrei; condannato a quindici anni di rerclusione, ne scontò
peraltro solo sei, venendo quindi rilasciato per le sue cattive condizioni di salute. In realtà visse ancora una quindicina
di anni, in Germania, e decedette nel 1984.
12
C.MANGANELLI – B. MANTELLI, Antifascisti, partigiani, ebrei. I deportati alessandrini nei campi di sterminio
nazisti. 1943 – 1945, Milano, ANED. Franco Angeli, 1991, pag. 126.
13
V. in materia E. COLLOTTI, Documenti sull’attività del Sicherheitsdienst nell’Italia occupata, in Il movimento di
Liberazione in Italia, aprile-giugno 1966, n. 83, pag. 38 ss. Come sottolineato da detto A. (ivi, pag. 40) << la polizia
criminale tedesca si riservava la più ampia misura di iniziativa e di controllo anche nei confronti della polizia italiana.
Questa non era considerata nulla più che un potenziale strumento al servizio dei fini tedeschi; d’altronde ogni
limitazione di competenza finiva per diventare fluida e praticamente superflua dal momento che era ufficialmente
proclamato quale unico principio destinato a guidare l’azione della polizia criminale il criterio di adottare “tutte quelle
misure che siano utili alla vittoria e agli interessi tedeschi”. Data l’estensione e l’ambizione dell’obiettivo, la funzione
degli organi amministrativi, giudiziari e di polizia italiani diventava puramente subalterna e strumentale, d’altronde
sull’appoggio di questi organismi contavano, e non potevano non contare, gli uffici tedeschi proprio perché non erano in
grado – e per l’esiguità del tempo a disposizione e per la limitata entità delle loro forze – di sostituirsi integralmente
all’apparato di governo e amministrativo italiano. ... E’ interessante rilevare ... che la polizia tedesca si riservava la
facoltà di intervenire in qualsiasi momento indiscriminatamente contro cittadini italiani e tedeschi; ancora, mentre non
esisteva una facoltà esclusiva delle autorità di polizia italiane di intervenire nei confronti dei cittadini italiani, esisteva la
facoltà esclusiva della polizia tedesca di indagare su reati commessi da cittadini tedeschi o da elementi appartenenti al
gruppo etnico tedesco ... con una chiara sottrazione di costoro alla sovranità italiana >>.
Harster prima di giungere nel nostro Paese aveva svolto lo stesso incarico di Comandante della
Polizia di sicurezza in Olanda, ove si era reso corresponsabile della deportazione degli ebrei
olandesi 14.
Facevano parte della SiPo und SD, in Italia come nelle altre aree interessate dalla presenza delle
Forze germaniche, la Gestapo (Polizia segreta di Stato) e la Kripo (polizia criminale).
Sotto questo aspetto, va ricordato che nell’ordinamento delle forze della polizia nazista la
polizia ed il servizio di sicurezza (Sicherheitspolizei und Sicherheitsdienst) rappresentavano una
soltanto delle specialità nelle quali si articolava la polizia complessivamente intesa 15.
Come è stato del resto sottolineato da Collotti << la polizia di sicurezza era risultata dalla
fusione tra la vecchia polizia criminale e la polizia segreta di Stato (Gestapo); la polizia di
sicurezza era posta agli ordini di uno dei più stretti collaboratori di Himmler, R. Heydrich, il
quale era contemporaneamente capo del Servizio di sicurezza, ossia del servizio di informazione
e spionaggio delle SS. Il 27 settembre 1939, a un mese quindi dall’inizio della guerra, fu operata
anche la fusione organica e definitiva ( e non più soltanto l’unione personale sotto Heydrich) tra
la polizia di sicurezza e il Sicherheitsdienst. Il risultato di questa unione fu la creazione
dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt, RSHA), con la
quale si realizzava la fusione completa tra polizia di Stato ed elementi delle SS, ossia di
provenienza di partito. Capo del RSHA rimase Reinhard Heydrich sino al giugno del 1942,
epoca della sua uccisione, in seguito alla quale gli successe Ernst Kaltenbrunner >> 16.
Per quanto concerne l’organigramma dei vertici della polizia e del servizio di sicurezza
nell’Italia settentrionale a capo del Gruppo Italia nordoccidentale, con sede a Milano, ed avente
competenza sui Comandi della Liguria, della Lombardia e del Piemonte era stato posto lo SSStandartenführer Walther Rauff, che in precedenza aveva prestato servizio presso il RSHA
nell’Europa orientale ed in Polonia era stato tra i responsabili delle “camere a gas mobili”,
impiantate su appositi camion ed utilizzate per un certo arco di tempo, prima del ricorso ai
“forni crematori”, quale strumento per la realizzazione della “soluzione finale” nei confronti
degli ebrei 17.
Al vertice del Comando Genova (sottoposto quindi alla direzione di Rauff) vi era l’ SSObersturmbannführfer Friedrich Siegfried Engel, che aveva posto la sede del suo Comando
presso la “Casa dello Studente” di Genova 18.
Le vicende delle quali ci occupiamo sono invece ascribili a soggetti collocati assai più in basso
nella scala gerarchica; purtuttavia, in momenti in cui ogni regola sembrava saltata e solo le
ragioni della forza parevano prevalere, tali individui, come lo Strupp, un semplice Maresciallo
della Gendarmeria di Albenga, furono in grado di decidere della vita di decine di altri loro
simili.
Si può anzi rilevare come pure individui posti gerarchicamente alle posizioni più basse
dell’Amministrazione militare, assai inferiori allo stesso Strupp, che quantomeno era il
14
Proprio a causa della sua complicità nella deportazione degli ebrei dall’Olanda Harster venne condannato a l’Aja a
dodici anni di carcere. Egli peraltro scontò solo una parte della pena, venendo liberato già nel 1953. Tre anni dopo fu
addirittura assunto nel Servizio superiore dell’Amministrazione degli Interni della Baviera, come Consigliere
governativo. La vicenda divenne nota all’opinione pubblica nel 1963, a seguito del procedimento instaurato nei
confronti di un collaboratore di Eichmann, Erich Rajakovis, del quale l’Harster era stato superiore durante il suo
Comando in Olanda. In seguito alle polemiche derivanti da tale notizia, l’Harster fu collocato in pensione d’autorità.
Sottoposto ad un nuovo processo in Germania, e condannato nel 1967, venne graziato due anni dopo, nel 1969.
15
V. sul punto E. COLLOTTI, Documenti sull’attività del Sicherheitsdienst nell’Italia occupata, cit., pag. 39; ID., Dati
sulle forze di polizia fasciste e tedesche nell’Italia settentrionale nell’aprile 1945, ivi, 1963, n. 71, pag. 51 ss.
16
Cfr. E. COLLOTTI, Documenti sull’attività del Sicherheitsdienst nell’Italia occupata, cit., pag. 39.
17
Dopo la guerra Rauff riuscì per oltre un decennio a sottrarsi alle ricerche degli organi giudiziari; arrestato finalmente
in Cile nel dicembre del 1962 su richiesta della magistratura tedesca, venne successivamente liberato in quanto la
magistratura cilena respinse la domanda di estradizione.
18
Per quanto concerne il processo celebrato nei confronti di Engel innanzi al tribunale militare di Torino per gli eccidi
della Benedicta, del Turchino, di Portofino e di Cravasco v. P. RIVELLO, Il processo Engel, Recco, Le Mani, 2005.
Comandante della Feldgendarmerie di Albenga, avessero in quei mesi un potere del tutto
impensabile in situazioni di “normalità”.
Ciò è spiegabile in base al fatto che, in situazioni nelle quali la legalità non aveva più alcun
valore, chi mostrava di fare un uso costante della violenza finiva col non trovare alcun
organismo ufficiale che potesse impedire l’ulteriore compimento di tali atti, e ciò tanto più
quando i superiori ritenevano che, comunque, tale violenza risultava “utile” al fine dell’attività
repressiva nei confronti dei “ribelli”.
E’ questo il caso di Luciano Luberti, un italiano poi arruolatosi nelle Forze Armate tedesche,
che torturò decine di persone all’interno della Feldgendarmerie, e del quale ci occuperemo tra
breve descrivendo in dettaglio gli aspetti più significativi della sua attività criminale.
A fianco del Luberti operava un altro italiano non meno sadico e spietato, Romeo Zambianchi,
un brigatista nero definito dalla popolazione come il “vice boia di Albenga”, che fu
successivamente condannato alla fucilazione dalla Corte d’Assise straordinaria di Savona; a
differenza di quanto avvenne per il Luberti, in questo caso la condanna fu eseguita, e la
fucilazione avvenne a Forte Priamar, il 21 marzo 1946.
Ovviamente lo Zambianchi non era l’unico appartenente alle Brigate Nere di Albenga. Nella
città operava infatti una Compagnia della Brigata Nera savonese “Felice Briatore”, costituitasi
l’ 11 luglio 1944 con l’asserito scopo di controllare l’ordine pubblico e di lottare contro i
“ribelli”, composta da una trentina di uomini, comandata dapprima da Felice Uboldi, poi da
Pierluigi Russo e successivamente, fino al suo scioglimento, da Ennio Contini 19.
3. Il “boia di Albenga”.
Lavorava come interprete presso la Feldgendarmerie di Albenga anche un italiano che, già
militare del Regio Esercito, ove aveva raggiunto il grado di sergente (grado dal quale era stato
peraltro sospeso, a causa di una denuncia per furto), successivamente all’8 settembre 1943, dopo
un periodo di addestramento nella Wehrmacht, si era fatto assegnare alla Marina costiera
tedesca, presso il Capo Santa Croce ad Alassio, e cioè Luciano Luberti, nato a Roma il 25 aprile
1921 20, divenuto fanatico sostenitore delle ideologie naziste 21.
19
Ad Albenga eoperava anche uno dei tre Presidi della Guardia Nazionale repubblicana ubicati nel Savonese (gli
altri due si trovavano rispettivamente a Savona e a Cairo Montenotte).
20
Dal foglio matricolare del Luberti emergono i seguenti dati: soldato di leva della classe del 1921 ed ammesso al
ritardo del servizio militare per motivi di studio quale iscritto al II anno di Economia e Commercio, il 4 marzo 1941
viene chiamato alle armi in seguito a revoca dell’ammissione del rinvio. Il 5 marzo è incorporato nel 3° Reggimento
Artiglieria Celere motorizzata; il 15 marzo viene ammesso al periodo di addestramento preparatorio ai corsi A.U.C., e
il 16 aprile ottiene la carica di caporale. Il 16 giugno è nominato sergente; il 2 settembre risulta ammesso al corso
A.U.C.L di Spoleto; il 16 novembre del 1941, secondo quanto espressamente indicato nel foglio magricolare, viene <<
trasferito al Deposito 3° Reggimento Artiglieria Celere per completare i suoi obblighi di servizio militare perchè
dichiarato non idoneo ad allievo ufficiale di complemento per deficiente attitudine militare e cattiva condotta >>. Il 3
maggio 1942 è denunciato al tribunale civile di Spoleto per il reato di furto e conseguentemente viene sospeso dal
grado. L’ultima pagina del foglio matricolare (trattasi in verità, come precisato nel modello , di un “foglio aggiunto”), si
limita ad indicare che l’8 ottobre 1945 fu dichiarato estinto per amnistia il reato di furto; che il 24 luglio 1946 il Luberti
venne condannato a morte mediante fucilazione nella schiena e che successivamente la Corte di appello di Genova
dichiarò commutata la pena di morte in quella dell’ergastolo.
21
La scelta di vita del Luberti trova del resto dei significativi riscontri in personaggi che parimenti si caratterizzarono
per le brutalità poste in essere in quegli anni. Come rilevato da D. GAGLIANI, Violenze di guerra e violenze politiche.
Forme e culture della violenza nella Repubblica Sociale Italiana, cit., pag. 312 e 313, analizzando le azioni poste in
Tale soggetto (che già in precedenza aveva contribuito all’arresto di un ebreo, Umberto
Spizzichino – poi deportato e morto in un campo di concentramento – che ingenuamente si era
fidato di lui, pregandolo di farlo espatriare 22) non si limitò a svolgere l’incarico ufficialmente
affidatogli, ma fu uno dei più feroci torturatori dei soggetti interrogati nella palazzina INCIS.
essere dalla “banda Koch” (costituita dal questore Pietro Koch) e dalla Legione “Ettore Muti” di Milano, << non è
senza significato che i sostenitori di questa concezione accettassero di rendersi subalterni al Terzo Reich in cambio di
un ruolo di potere rispetto ai connazionali ... si trattava di una visione che indubbiamente prescindeva da interessi e
valori nazionali (oltre che da qualsiasi principio umanitario). E’ degno di nota che questa componente accettasse di
essere, e di continuare a essere, subalterna alla Germania nazista e cercasse di ottenere una posizione paritaria con essa
con ogni mezzo >>.
22
Su questa vicenda è possibile evidenziare quanto emerge da una serie di atti, in base ai quali sembrerebbe
effettivamente confermato che il Luberti abbia denunciato e consegnato ai tedeschi lo Spizzichino ( e probabilmente
anche altri ebrei), mentre si trovava a Roma. Una prima conferma in tal senso è fornita dal “rapporto giudiziario di
denuncia a carico di LUBERTI Luciano di Vincenzo e di CARDUCCI Ernesta, nato a Roma il 25-4-1921, irreperibile,
con domicilio in Roma via Mantova 44, presso la propria famiglia, per collaborazione a favore del tedesco invasore art.
5 D.L. 27-7-1944 n. 159”, inviato in data 18 gennaio 1946 dalla Legione territoriale dei carabinieri reali di Roma,
Gruppo interno, Squadra investigativa, alla Sezione speciale della Corte di Assise di Roma, ove, nel segnalare i vari
crimini addebitati al Luberti, si parla anche di questo episodio, e si riferisce che alcuni testimoni avevano dichiarato <<
di avere appreso dallo stesso Luberti che in Roma, fin dal 1943, fu al servizio della SS. tedessca con la quale partecipò
attivamente alla eliminazione degli ebrei. Il brigadiere .... , di questa Squadra, debitamente incaricato delle indagini, ha
accertato che il Luberti Luciano dopo i noti avvenimenti dell’ 8 settembre 1943, fece ritorno a Roma da Brescia dove si
trovava quale soldato presso il 30 ° Reggimento “Lupi di Toscana” ... Il predetto sottufficiale è venuto altresì a
conoscenza che il Luberti nel mese di novembre 1943 era in relazione con l’ebreo Spizzichino Umberto fu Settimio e di
Bondi Elena, nata a Roma nel 1918, convivente presso il fratello Leonardo in via Alessandria n. 88, il quale chiese al
Luberti se aveva un nascondiglio sicuro per potersi sottrarre alle ricerche dei tedeschi. Il Luberti gli fece sapere che se
lo desiderava poteva accompagnarlo in Svizzera dove, a suo dire, era in relazione con un ebreo dal quale aveva ricevuto
l’incarico di acquistare preziosi in Italia. Il 23 gennaio 1944 il Luberti avvertì lo Spizzichino di farsi trovare, nel
pomeriggio dello stesso giorno, al viale Manzoni dovendogli consegnare i documenti per l’espatrio in Svizzera.... da
quel giorno il fratello Leonardo non seppe più notizie. Solo il 22-2-1944, gli fu consegnata una lettera del fratello
Umberto dalla quale apprese che si trovava detenuto nelle carceri di Regina Coeli. In detta lettera lo Spizzichino
formulava dubbi che l’autore del suo arresto fosse stato il Luberti ... lo Spizzichino, poi, decedette in un campo di
concentramento in Germania, in seguito a sofferenze causate dalla prigionia. La versione che il Luberti fu un attivo
collaboratore del tedesco invasore per la cattura degli ebrei, è da ritenersi veritiera essendo il medesimo considerato in
pubblico individuo senza scrupoli, amorale e venale e pertanto capace di qualsiasi bassa azione pur di procacciarsi il
denaro per condurre vita spensierata e di piacere ... >>.
In precedenza, il 15 gennaio del 1946, un sottufficiale della predetta Squadra investigativa aveva raccolto le seguenti
dichiarazioni di Leonardo Spizzichino, fratello del defunto: << nel periodo clandestino e cioè dal novembre del 1943,
mio fratello Spizzichino Umberto, nato a Roma nel 1918, frequentava con assiduità certo Luberti Luciano, allora
abitante in Piazza Principe di Napoli ... un bel giorno mio fratello, siccome appartenente alla razza ebraica, chiese al
Luberti se aveva qualche nascondiglio sicuro, perchè era stanco di sfuggire alla caccia dei tedeschi. Il Luberti gli rispose
che se credeva poteva portarlo in Svizzera, dove a suo dire si recava spesso per ragioni di commercio, avendo una
relazione con un ebreo colà residente dal quale era stato incaricato di acquistaare oggetti preziosi in Italia. Il 23 gennaio
1944, il Luberti avvertì mio fratello Umberto che nel pomeriggio dello stesso giorno lo avrebbe atteso in Viale Manzoni
al quale avrebbe consegnato i documenti necessari per poter espatraire. Da quel giorno non seppi più notizie di mio
fratello. Solo il giorno 22 febbraio dello stesso anno, mio fratello mi fece pervenire una lettera che allego, dalla quale
rilevai che si trovava detenuto nelle carceri di Regina Coeli da dove nel febbraio del 1944 fu trasferito al campo di
concentramento di Fossoli di Carpi ( Modena). Poscia fu deportato in Germania. Nell’agosto del 1945 venni a
conoscenza che mio fratello era deceduto in seguito a sofferenze causate dalla prigionia. ... E’ convinzione che l’arresto
di mio fratello fu opera del Luberti Luciano >>. Nel corso di detta dichiarazione venne consegnata la lettera con cui il
fratello gli dava notizie del suo avvenuto arresto, con grande sopportazione e forza d’animo, pur certo presago della
sorte che l’attendeva: << 21.2.44. Caro Nardo, ti vuoi fare una risata, bene adesso ti faccio ridere! Sono partito per
Milano e .... sono arrivato a ... Regina Coeli, no? E’ proprio come ti dico, adesso ti spiego. Io e Luciano siamo andati al
Comando in Via Tasso per avere il permesso per partire, invece quando ci siamo trovati lì mi hanno separato da lui,
dopo un pò è ritornato quello che lo aveva chiamato, con i miei documenti in mano (li avevo fatti reggere a Luciano)
dicendo che avendolo perquisito perchè sospetto gli avevano trovato indosso quelle carte, così vedendo chi ero, mi
hanno mandato quasi in attesa di partenza. Quello che mi preoccupa però è questo. Che Luciano non l’hanno mandato
qui dove ci mandano tutti, perciò i casi sono due: o si trova ancora in V. Tasso, oppure è stato lui (sottolineatura nel
testo originale) a farmi prendere. Quindi stai attento e sappiti regolare. Anzi fai così: telefona a casa sua chiedendo
notizie e senti quello che ti dicono, se per caso credi cha sia stato lui, non fare niente di niente, aspetta il momento
opportuno, non farti prendere dalla collera, ci potresti rimettere ... >>.
Vedremo tra breve l’incredibile serie di efferatezze dallo stesso perpetrate, che gli valsero ben
presto il soprannome di “Boia d’Albenga”.
Egli inoltre in numerose occasioni partecipò ad operazioni di rastrellamento compiute nei
comuni vicini a quello di Albenga, indicando al personale della Feldgendarmerie i presunti
antifascisti ed i parenti dei partigiani.
Alcuni testimoni nel corso del processo celebrato nei suoi confronti a Savona riferirono che egli,
ogni qualvolta ritornava in Gendarmeria dopo le avvenute fucilazioni, si abbandonava a
manifestazioni di rumorosa, incredibile allegria per l’avvenuta morte di tante vittime.
Concluso questo bagno di sangue, ai limiti ed oltre i limiti della follia, dopo il 25 aprile 1945 il
Luberti si pose al seguito della 34 ª Infanterie-Division, che dopo aver lasciato la Liguria si
spostò in Piemonte per proseguire da lì la sua ritirata verso la Germania.
Il Luberti si fermò peraltro a Torino, ove, munitosi di documenti falsi, si fece ricoverare
all’ospedale di quella città, al fine di farsi estrarre la scheggia di una mina che gli si era
conficcata nel corpo.
Probabilmente venne poi catturato dagli Alleati (i quali pensavano peraltro che egli fosse un
milite tedesco, in base ai documenti che egli mostrò) e rimase detenuto per un certo tempo ad
Ivrea.
Diffusasi la notizia del suo arresto, un partigiano, e più precisamente Bruno Schivo, detto
“Cimitero” (al quale il Luberti aveva ucciso il padre, violentato ed uccisa la fidanzata e resa
invalida la madre) si recò allora ad Ivrea, per prenderlo in consegna.
Lo Schivo non aveva mai visto di persona il Luberti, ma aveva una sua fotografia. Lo riconobbe
fra un gruppo di soldati tedeschi, ma il comandante americano del Campo non glielo consegnò,
ritenendo appunto che si trattasse di un prigionero tedesco.
E’ certo comunque che il Luberti fuggì poi a Portici, presso un suo amico, ove decise (come
del resto fecero numerosi altri criminali) di arruolarsi nella Legione straniera, giacché in tal
modo si sarebbe potuto sottrarre per sempre alle ricerche della giustizia.
Si recò pertanto al Comando francese di stanza a Napoli. La sua domanda fu accolta e gli
venne detto di andare a Marsiglia, per il successivo imbarco. Per tale motivo si diresse in treno
verso la Francia, ove peraltro, il 14 luglio 1945, venne riconosciuto ed arrestato dal fratello di
una delle sue vittime.
Nel frattempo molti cittadini di Albenga e dintorni, che erano stati personalmente seviziati dal
Luberti od i cui parenti erano stati dallo stesso torturati od uccisi, facevano pervenire le loro
denunce nei suoi confronti.
Così, il 18 luglio 1946 venne inoltrata al Comando Stazione carabinieri di Albenga una
denuncia, da parte di Valentino Aschero, nei confronti di “Luciano Luberti, boia di Albenga”,
del seguente tenore: << ... data la presenza nelle formazioni partigiane del figlio maggiore
Giuseppe Eugenio (6 ª Div. S. Bonfante – II ª Brigata G. Berio) la gendarmeria locale, della
quale faceva parte il boia Luciano (sottolineatura nel testo orginale), per diretta rappresaglia la
notte tra il 27 ed il 28 gennaio 1945, procedeva all’arresto dell’intera mia famiglia, e cioè. del
sottoscritto, della di lui moglie, del figlio secondogenito Attilio (1926), e del figlio minore
Giorgio (1928), nonchè della figlia Maria di anni sette. Dopo l’opera di perquisizione e dopo
essersi impossessati di tutto quanto faceva loro piacere, legatici, ci traducevano nelle prigioni di
via Trieste, ove venimmo interrogati dal Luberti e dallo stesso il prefato Attilio, diciottenne,
veniva barbaramente picchiato con un grosso nerbo di bue e tanto da ridurlo quasi in fin di vita,
unitamente al sig. Sardo Santin di Angelo, nostro vicino di casa . A tale operazione era presente
il M.llo Strupp ... poco dopo l’arresto venivano lasciate in libertà mia moglie e mia figlia,
mentre io, mio figlio secondogenito Attilio ed il minore Giorgio venivamo, invece, trattenuti.
Durante il periodo di permanenza in carcere e specialmente all’atto degli interrrogatori, fummo
ripetutamente percossi, spesse volte a sangue, dal nominato Luberti, e così, come noi, gli altri
detenuti. Lo stesso veniva in cella ripetendo ancora, personalmente, le sevizie. Dopo una
quindicina di giorni, io e mio figlio Giorgio fummo scarcerati, avendo essi trattenuto l’altro mio
figlio, Attilio, il quale fu ancora seviziato, percosso dal prefato “boia” Luberti tanto da svenire
più volte, come possono testimoniare i sigg. Ferdinando Gasperini in Camoirano e Gino
Gagliolo, quest’ultimo suo compagno di cella. Nella notte tra il 17 ed il 18 febbraio 1945, il mio
Attilio ed altri quattro detenuti vennero condotti alla foce del Centa, laddove già
cinquantaquattro altri erano stati trucidati, e fu dallo stesso boia ucciso >>.
Il precedente 16 aprile 1946 era stato sentito dai carabinieri di Albenga l’ing. Panfilo
d’Ascenzo, che così affermava: << per mia sventura ho conosciuto il nominato Luberti Luciano,
criminale di guerra, boia presso la feld gendarmeria tedesca di Albenga nel periodo di
dominazione nazi-fascista ... la sera del 23 febbraio 1945 fui fermato nell’abitato di Albenga dal
... , tenente della locale brigata nera ..., fui accompagnato, prima, presso il comando della
brigata nera e successivamente alla sede della feld gendarmeria tedesca. Fui ricevuto dal
nominato Luberti Luciano il quale mi rinchiuse in una camera, successivamente venni
sottoposto ad un sommario interrogatorio da parte del Luberti ... fin da quella prima occasione
mi furono rivolte minacce ... il mattino successivo fui rilevato dalla camera ove stavo rinchiuso
dal Luberti Luciano il quale, di corsa, mi accompagnò nella camera adibita ad ufficio del
comandante la gendarmeria maresciallo Strupp. Nel corso dell’interrogatorio che verteva sul
fatto della mia appartenenza o meno al Comitato clandestino di liberazione e della mia
conoscenza di elementi che la costituivano ... siccome logicamente le mie risposte erano
negative o quanto meno molto evasive per stornare da me ogni sospetto, ad un certo punto il
Luberti Luciano iniziò a colpirmi ripetutamente con pugni al petto, ai fianchi ed al viso, non
senza prima avermi detto: “Vi strapperei gli occhi, il naso”. Il pugno che mi colpì al viso mi
provocò una abrasione allo zigomo destro che mi fece sanguinare per molto tempo. Il Luberti
Luciano si era trasfigurato, tanto da sembrare una vera e propria belva umana. Nelle violenze
sulla mia persona prese parte attiva anche il sergente Fuchs. Il medesimo, ad un certo punto, mi
afferrò alla gola, trascinandomi attaverso il corridoio in una camera attigua, mentre il Luberti
Luciano continuava a colpirmi con pugni in diverse parti del mio torace. Ad un certo punto,
sentendomi venir meno, diedi un urlo ed uno strattone per liberarmi dalla presa del tedesco,
quest’ultimo, allora, chiuse le imposte della finestra, mi venne incontro con la pistola in pugno,
seguito nello stesso gesto dal Luberti Luciano, ed entrambi, minacciandomi di morte, mi
ingiunsero di dire la verità. Al che io continuavo a mantenermi sulla negativa generica. Poco
dopo fui riaccompagnato nella prima camera che mi aveva servito da prigione, là mi fu ordinato
di spogliarmi, ciò che dovetti fare, rimasto così completamente nudo, mi furono legate le mani
al dorso e le estremità inferiori e colà lasciato rinchiuso. In tali condizioni rimasi fino verso le
ore 17 dello stesso giorno. Nel corso della mia detenzione di ben 62 giorni, fu un continuo
martirio morale e fisico da parte dei miei carcerieri, e più specialmente ad opera del già
nominato Luberti Luciano >>.
Sempre il 16 aprile 1946 i carabinieri di Albenga sentirono Ernesta Stalla in Viveri, che così
dichiarò: << verso le ore 21,30 del 31 gennaio 1945, si presentavano nella mia abitazione il
nominato Luberti Luciano, unitamente al maresciallo Strupp, quest’ultimo comandante la feld
gendarmeria tedesca di Albenga ed il primo assiduo collaboratore dei tedeschi tanto che era
nominato come “il boia di Albenga”. Ciò perché il medesimo aveva giustiziato numerosi ostaggi
della zona catturati e dai tedeschi e dalle brigate nere. I due predetti si erano presentati nella mia
abitazione col preciso scopo di arrestare mio marito, sospettato di attività clandestina ai loro
danni; era effettivamente membro del Comitato di Resistenza di Albenga. Avendo io loro
risposto che il marito non era presente e che neppure sapevo dove poteva trovarsi, il Luberti
Luciano mi minacciò col mitra e, ad un certo punto, siccome mio figlio (un piccolo di non
ancora due anni) piangeva e si attaccava a me disperatamente, uscì in questa esclamazione: “Se
non dici dov’è tuo marito ti butto il piccolo dalla finestra”. Mi presero successivamente con loro
e mi portarono alla sede della gendarmeria tedesca ove dovetti rimanere detenuta per sette
giorni. Giunti che fummo in fondo alle scale di casa mia, il Luberti mi afferrò alla gola e mi
disse ancora che se non avessi svelato dove trovavasi mio marito, mi avrebbe talmente
bastonato da ammazzarmi. Nei sette giorni della mia detenzione, di quando in quando il Luberti
entrava nella camera ove ero rinchiusa con altre donne e rivolgendosi all’una o all’altra
continuava a dire: “Vi fuciliamo”, era insomma il terrore della feld gendarmeria tedesca... Il
Luberti Luciano, insomma, era una vera e propria belva umana >>.
Il successivo diciotto aprile 1946 i carabinieri di Albenga raccolsero da Fernanda Gasperini una
serie di dichiarazioni; ella raccontò di essere stata fermata la sera del primo febbraio 1945 da
due componenti della brigata nera di Albenga e di essere stata poi condotta alla sede della
Feldgendarmerie , ove venne interrogata dal Luberti e dallo Zambianchi, affiché confessasse di
essere una spia dei partigiani << ... ad un certo punto, il Luberti Luciano, esasperato per i miei
continui dinieghi, cominciò a percuotermi con schiaffi e pugni, successivamente furono portati
nel predetto ufficio due partigiani, precedentemente arrestati in un rastrellamento fatto nella
zona; fu loro chiesto se mi conoscevano o se io conoscevo loro; ma anche a queste domande
rispondemmo tutti negativamente. Io invece ben conoscevo tali giovani, che erano nella stessa
zona dove operava la banda di appartenenza di mio marito e dei miei fratelli, loro ben
conoscevano la mia persona. Non sto a descrivere le pietose condizioni in cui i due giovani si
trovavano, uno di essi aveva il viso tutto insanguinato solcato da una profonda ferita alla
regione zigomatica destra; successivamente i due prigioneri sono stati trucidati. Ad un certo
momento, il Luberti Luciano, a cui era parso vedere uno sguardo di intesa tra me ed i due
partigiani su nominati, come una vera e propria belva mi si buttò addosso, mi strappò
letteralmente i vestiti di dosso facendomi rimanere nuda, mi legò le mani al dorso e, con un
ferro infuocato, del quale era munito, mi tracciò una forte scottatura sulle reni. Io svenni
cadendo a terra.; fui successivamente sollevata e trascinata con gli altri due prigionieri
....passarono così 15 giorni. La sera del 15 febbraio fui nuovamente sottoposta ad interrogatorio,
ancora insieme ai due partigiani di cui sopra (Ascheri e l’altro “Pirin” come nome di battaglia).
L’interrogatorio ebbe l’esito del primo. Assistevano il Luberti Luciano, Zambianchi Romeo, la
De Andreis Anna ed il sergente tedesco Fuchs; ad un certo punto la De Andreis, rivolta agli
astanti, disse: “da questi non si ottiene nulla, è meglio fucilarli”. La sera del 18 febbraio ho
saputo che i due partigiani di cui sopra sono stati portati alle foci del fiume Centa e là giustiziati.
La sera del 19, preciso verso le ore 2 del 20 successivo, udii avvicinarsi alla porta della camera
ove ero rinchiusa dei passi e vidi aprirsi la porta. Erano il Luberti Luciano e lo Zambianchi
Romeo; il Luberti disse allo Zambianchi di legarmi e di bendarmi, a questo punto lo Zambianchi
propose al Luberti di approfittare di me prima di condurmi a morire. Il Luberti aderì
cinicamente a tale invito, soggiungendo che lui avrebbe dovuto essere il primo a possedermi.
Preciso che all’epoca mi trovavo in istato interessante da circa tre mesi. Io per non subire tale
onta mi difesi con tutte le forze ed i predetti non riuscirono nel loro intento. In seguito alla lotta
che io fui costretta a sostenere con i due bruti, abortii con una conseguente fortissima emorragia.
In quel frattempo si trovava in gerdarmeria un dottore, chiamato per un’altra detenuta la quale
successivamente venne ricoverata all’ospedale, mi visitò sommariamente e disse al Luberti che
lo accompagnava che ero in fin di vita e che sarebbe stato per me necessario l’immediato
ricovero all’ospedale >>.
Il 26 luglio 1946 si presentò per rendere dichiarazioni ai Carabinieri di Albenga Natale Michero,
il quale narrò di essere stato arrestato il 22 gennaio 1945, davanti alla sua abitazione, dai
tedeschi, a seguito di una “spiata” fatta da Renato Navone, detto “Pipetta”.
A seguito dell’arresto i gendarmi si impossessarono di 35.000 lire dallo stesso possedute (che
all’epoca costituivano una somma molto ingente) e lo tradussero alla Feldgendarmerie di
Albenga, ove fu interrogato, essendo accusato di essere a conoscenza della vicenda che aveva
condotto all’uccisione del fratello del “boia” Luciano Luberti, ad opera di alcuni partigiani;
<< poichè io negavo insistentemente ciò che il BOIA asseriva fui condotto in cella e battuto a
sangue. Questo si ripetè per tutto il tempo che rimasi prigioniero. Una sera nonostante che fossi
già caduto a terra poichè non potevo più resistere alle percosse, il BOIA inferocito più del solito,
mi si avventò addosso e a furia di calci mi provocava la lesione di una costola >>.
Una sorta di sintesi degli orrori posti in essere dal Luberti era del resto già stata fornita, sempre
innanzi ai carabinieri della Stazione di Albenga, da Virginio Tesi, che il 20 dicembre 1945 così
descriveva il “boia di Albenga”: << ... sadico, brutale e dotato di un cinismo inconcepibile
percuoteva e seviziava le vittime, le cui grida specie nella notte risuonavano terribili e
spaventose nelle carceri di via Trieste. Lo abbiamo veduto infierire con pugni e calci contro un
disgraziato detenuto, fino a che egli stesso colle mani doloranti esclamava. “non ne posso più” e
allora incaricava il vice boia, brigata nera Zambianco .... di continuare lui l’infame opera. Lo
abbiamo veduto bruciare con i cerini accesi le mani di prigionieri e rompere sulla testa di uno di
essi un grosso bastone lungo metri 1,30 in pezzi; con gli ultimi spezzoni impugnati a guisa di
bacchetta da tamburo percuoteva ancora la testa del disgraziato giacente a terra ridendo e
esclamando: “ora suoniamo il tamburo” fino a che esausto di forze per le braccia doloranti dallo
sforzo, gettando via i pezzi di legno lamentava “non ne posso più” >>.
Processato innanzi alla Corte d’Assise straordinaria di Savona, per collaborazionismo ed
omicidio plurimo aggravato, il Luberti venne condannato alla fucilazione alla schiena con
sentenza emessa in data 24 luglio 1946.
Nella parte motiva di detta sentenza la figura del Luberti risulta così delineata: << arruolatosi
nel 1944 nella marina tedesca, fu addetto quale interprete alla feldgendarmerie di Albenga e vi
rimase fino alla Liberazione. In tale qualità collaborò attivamente col Maresciallo Strupp,
comandante della gendarmeria, nell’opera di repressione del movimento di liberazione
nazionale della zona di Albenga, condotta dallo stesso con inaudita ferocia che gli valse di
essere perseguito dalle autorità Alleate come criminale di guerra; e così il Luberti si meritò il
soprannome di “boia” col quale era conosciuto in tutta quella zona >>.
Furono descritte le sevizie delle quali egli si era reso reesponsabile; si sottolineò in particolare
che << la sessantenne Vignola Speranza fu dal Luberti e dal Ghio brutalmente e lungamente
percossa e trascinata per i capelli per terra, che al teste Revello fu dal Luberti puntata e spinta
una forchetta di legno contro la gola, tanto da farlo svenire tre volte. Inoltre i testi Tesi, Canepa,
Ravatta e Guastini riferirono sulle spietate sevizie cui fu sottoposto in loro presenza dal Luberti
certo Gerini, il quale fu percosso sulla testa con un bastone fin che questo si spezzò, caduto a
terra venne calpestato con scarpe chiodate, fu preso per i capelli e sbattuto contro il muro, e
infine fu costretto a tenere distesa una mano sulla quale ripetutamente vennero spenti dei cerini
>>.
Il Luberti non fu peraltro mai giustiziato. Infatti nel 1949 la condanna a morte venne commutata
in ergastolo; l’anno successivo, con provvedimento emesso dalla Corte di appello di Genova, la
condanna all’ergastolo fu a sua volta convertita in quella della reclusione ad anni diciannove;
nel 1954 sempre la Corte di appello di Genova ridusse ulteriormente la pena, giungendo così ad
una condanna ad anni dieci.
Dopo sette anni di carcerazione, scontata presso i reclusori di Savona, Porto Azzurro e
Civitavecchia, il Luberti venne definitivamente liberato il 23 dicembre 1953.
Ritornato libero (va ricordato che alcuni dei reati per cui era stato condannato furono poi
amnistiati nel 1967, ai sensi dell’art. 2, lett. b, del d.p.r. 4 giugno 1966, n. 332), il suo nome fu
nuovamente al centro dell’attenzione delle cronache giudiziarie negli anni Settanta.
Fu infatti coinvolto in numerose indagini concernenti la destra eversiva italiana; in particolare
venne sospettato di aver ospitato gli esecutori della strage di Piazza Fontana a Milano, avvenuta
il 12 dicembre 1969, nonchè di essere stato in diretto contatto con il principe Valerio Borghese,
animatore di un tentativo di golpe insurrezionale.
Il 18 gennaio 1970 si rese responsabile dell’omicidio della sua giovane amante Carla Gruber, il
cui cadavere egli tenne nascosto in casa per oltre tre mesi.
Resosi latitante, fu catturato nel 1972. Condannato per tale omicidio, all’esito dell’iter
processuale, a venti anni di reclusione, con una sentenza emessa dalla Corte di assise di appello
di Roma, venne peraltro poi internato nel manicomio giudiziario di Aversa a seguito del
successivo riconoscimento della sua infermità mentale, sulla base di una perizia psichiatrica che
lo riteneva incapace di intendere e di volere, redatta dal criminologo Aldo Temerari, nei cui
confronti furono effettuati una serie di accertamenti, espletati dopo la sua misteriosa morte per
decapitazione, che permisero di mettere in luce come egli avesse redatto una serie di perizie
psichiatriche “compiacenti” a favore di imputati appartenenti all’area neo-fascista e di alcuni
malavitosi della banda della Magliana.
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