Filosofia politica. Un`introduzione - seminario de filosofia del derecho

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Furio Cerutti
con la collaborazione di Elena Pulcini e Monica Toraldo di
Francia
Filosofia politica. Un'introduzione
DISPENSE DEL CORSO PROPEDEUTICO
DEL GRUPPO DI FILOSOFIA POLITICA
(BIOETICA, FILOSOFIA POLITICA, FILOSOFIA SOCIALE, TEORIE
DELLO STATO)
TENUTO ALLA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA,
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA,
UNIVERSITÀ DI FIRENZE
Quinta edizione, marzo 2005
Premessa
Le presenti dispense si basano sulle lezioni di Filosofia politica (come singola disciplina) tenute
nell'a.a. 1994-95, da me riviste ed aggiornate negli anni accademici successivi, ed ora integrate dalle
voci pertinenti alla Filosofia sociale e alla Bioetica, scritte rispettivamente dalle colleghe che tengono
questi insegnamenti, Elena Pulcini e Monica Toraldo di Francia. A loro va il mio ringraziamento per
questa importante integrazione che permette di adeguare le dispense alle esigenze del nuovo corso
propedeutico, riguardante tutte e quattro le discipline di cui si compone attualmente il Gruppo
pluridisciplinare di Filosofia politica (SPS-01 nell’ordinamento nazionale). I collegamenti fra le
discipline qui rappresentate non hanno bisogno di essere esplicitati, risultando dai nessi interni ai loro
concetti fondamentali – come i lettori avranno modo di percepire.
Questo testo nella sua prima versione venne letto da Norberto Bobbio, che ne apprezzò l’assetto
sistematico e mi sollecitò a proseguire nel suo miglioramento in vista della definitiva pubblicazione
come libro. Questa non è ancora avvenuta, ma la carissima memoria dell’amico e maestro rimane un
ulteriore stimolo a porvi mano non appena altri progetti scientifici saranno ultimati.
Grato rimango altresì alla compianta amica e collega Lucia Cesarini Martinelli, Preside della
Facoltà al momento della prima edizione delle dispense, che ne favorì la raccolta e pubblicazione. Nel
corso di questi dieci anni diversi colleghi mi hanno aiutato, con i loro commenti e critiche, a rivedere le
prime edizioni: soprattutto i colleghi dell’allora Seminario interuniversitario di Filosofia politica,
particolarmente Luca Baccelli e Brunella Canalini, il prof. Mario Telò dell'Université libre de
Bruxelles; ma pure l’allora studente Stefano Miniati, le cui note al testo da lui usato per la
preparazione all'esame mi sono state preziose. Autore e co-autrici saranno grati a chiunque vorrà
segnalarci errori o proposte d’integrazione.
Furio Cerutti, marzo 2005
Avvertenza: informazioni sull’insegnamento di Filosofia politica e sulle altre discipline del Gruppo di Filosofia
politica, sulle date e i programmi d’esame come pure sulle ricerche in corso si trovano sui siti del Dipartimento
di Filosofia e della Facoltà di Lettere e Filosofia, accessibili tramite www.unifi.it
© Furio Cerutti 2005
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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Indice
A. FILOSOFIA POLITICA.
Premessa.............................................................................................................................................5
1. Le categorie della filosofia politica ...............................................................................................6
2. Definizioni di `filosofia politica' ....................................................................................................7
3. Una tipologia della filosofia politica.............................................................................................9
4. Che cos'è la politica? ...................................................................................................................11
5. Potere e potere politico ................................................................................................................17
6. Il potere politico e gli altri: peculiarità e `neutralità'.................................................................19
7. Potere, forza, violenza, consenso, comandi/norme.………………………………………. 25
8. Due vedute diverse: Foucault e Schmitt......................................................................................28
9. I fini della politica .......................................................................................................................29
10. I concetti di ordine ed istituzione...............................................................................................31
11. Modelli di ordine politico...........................................................................................................35
12. Legittimità, identità, simbolismo e mito politico.......................................................................44
13. Legittimità e legalità ..................................................................................................................48
14. L'obbligo politico........................................................................................................................52
15. Lo Stato .......................................................................................................................................60
16. Gli Stati .......................................................................................................................................63
17. L'era nucleare.............................................................................................................................71
18. Aspetti politici e filosofici della situazione nucleare ................................................................76
19. Pace, pacifismo e governo mondiale.........................................................................................83
20. Modernizzazione, globalizzazione ed istituzioni politiche........................................................90
21. Etica e politica: una mappa delle etiche ...................................................................................95
22. Idealismo e realismo politico.....................................................................................................98
23. I diritti .......................................................................................................................................100
24. Libertà ed eguaglianza.............................................................................................................104
25. Giustizia ....................................................................................................................................107
26. Filosofie politiche normative di oggi.......................................................................................110
B. FILOSOFIA SOCIALE.
27. Comunità/società..............................................................................................................114
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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28. Individuo/soggetto…………………………………………………………………….122
29. Passioni/interessi……………………………………………………………………...127
C. BIOETICA
30. Vita/morte……………………………………………………………………………..133
31.Responsabilità/cura……….……………………………………….…….…………......139
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A. FILOSOFIA POLITICA
Premessa alla parte di Filosofia politica
Il presente testo non ha la pretesa, nonostante il suo procedere sistematico, di essere
un'introduzione completa ed esaustiva alla filosofia politica. Di essa vengono qui elaborate, in
chiave di terminologia filosofica, le categorie più astratte, e viene poi particolarmente
sviluppata la parte relativa ai problemi posti dalle relazioni internazionali e dai problemi
globali, nonché quella concernente i rapporti fra politica ed etica.
Per tutta una serie di nozioni si rimanda via via all'elaborazione svolta da altri autori,
soprattutto da Norberto Bobbio. Anche nelle categorie qui sviluppate sono spesso evidenti e
dichiarati i debiti. Ove il riconoscimento non fosse abbastanza chiaro, l'autore se ne scusa fin
d'ora con i colleghi dai quali è andato a prestito.
Dev'esser chiaro agli studenti che queste dispense non sostituiscono per nulla lo studio dei
testi indicati nel programma d'esame, né la frequenza alle lezioni: un obbligo, non un optional,
che - al di là di qualsiasi controllo - deriva loro dall'essere fruitori di un servizio offerto a costi
bassissimi dallo Stato, cioè dai contribuenti di ogni classe e gruppo. Ed anche un'opportunità
vantaggiosa: quella di apprendere direttamente dal docente nessi ed accentuazioni in un modo
che la parola scritta non può mai rimpiazzare.
I testi ai quali si fa più spesso riferimento sono:
Bobbio, Norberto, Stato, governo, società, Einaudi, Torino 1985, e precedenti (Enciclopedia
Einaudi) o successive edizioni.
Bobbio, Norberto - Matteucci, Nicola - Pasquino, Gianfranco, Dizionario di politica, TEA,
Torino 1990.
Assai utili sono poi:
Scruton, Roger, A Dictionary of Political Thought, Macmillan, London 1996
Evans, Graham and Newnham, Jeffrey, The Penguin dictionary of international relations,
Penguin, London 1998.
Come lettura introduttiva alla riflessione filosofica (ma non solo filosofica) sulle relazioni
internazionali si consiglia il volume:
Cerutti, Furio, a cura di, Gli occhi sul mondo. Le relazioni interdisciplinari in prospettiva
interdisciplinare, Carocci, Roma 2000.
Furio Cerutti
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1. Le categorie della filosofia politica
Per un approccio teoretico e non storiografico alla politica qual è quello proprio della
filosofia politica, il metodo più adeguato per introdurvisi appare quello di ricostruire la trama
dei suoi concetti-chiave, quelli che essa usa ai suoi massimi livelli d'astrazione ovvero non usa,
ma, laddove affronti questioni più concrete, sottintende. Cerco insomma di disegnare la mappa
delle categorie di questa disciplina, ovvero di esporne la terminologia filosofica - sullo spunto
fornitomi dalle lezioni di Philosophische Terminologie tenute quasi quarant’anni fa da Theodor
Wiesengrund-Adorno all'Università di Frankfurt am Main, le quali io ebbi l'occasione di
seguire.
Ora, entrando nel lessico, ovvero nelle categorie della filosofia politica, io mi servo di una
distinzione che non è una distinzione strettamente scientifica, ma piuttosto una distinzione
didascalica, che vuole solo fornire un filo ordinativo per l'esposizione: quella tra concetti
fondativi e concetti sostantivi.
I concetti fondativi sono quelli che indicano la trama concettuale elementare della filosofia
politica e sono peraltro puri concetti, voglio dire che ad essi non corrispondono in generale
entità politiche riconoscibili. Alcuni di questi concetti hanno uno status prevalentemente
analitico, sono neutrali dal punto di vista del valore: per esempio potere (sebbene vi siano
visioni peggiorative di esso), conflitto, istituzione (esistono le istituzioni, ma non l'istituzione),
sicurezza, paura, e ancora obbligo e legittimità, nonché identità politica. Altri di questi concetti
sono sì fondativi, avendo però inoltre una caratterizzazione assiologica, cioè, detto in termini
latini anziché greci, valutativa. Questi concetti non indicano solo uno strumento per analizzare
la materia che vogliamo comprendere, ma indicano anche un valore che noi ad essi attribuiamo
o che gli attori politici ad essi attribuiscono. Per esempio libertà, giustizia, eguaglianza,
solidarietà.
Sono tutti concetti di alta astrazione,
concetti che in parte non appartengono
esclusivamente alla filosofia politica, giacché quelli assiologici appartengono insieme alla
filosofia morale. Essi sono tali che indicano le trame dei rapporti fondamentali che intercorrono
tra gli uomini quando agiscono politicamente, ma non indicano anche un contenuto, una
materia determinata di queste relazioni.
Concetti sostantivi1 sono Stato, governo, amministrazione, guerra e pace (in quanto riferibili
ad accadimenti) e poi le grandi classiche definizioni delle forme di Stato e/o di governo. Noi
1
Occorre qui una digressione linguistica preliminare: il termine `sostantivo' usato come aggettivo
comincia solo adesso a far parte del linguaggio filosofico italiano; viene invero dal latino, ma a noi arriva
attraverso l'inglese `substantive'. Non vuol dire sostanziale, altrimenti non ci sarebbe nessuna buona
ragione per usare la nuova parola: è invece ciò che riguarda il contenuto, la materia di un rapporto, in
opposizione a ciò che riguarda solo la sua forma, le procedure che esso richiede oppure il metodo con cui
ad esso ci avviciniamo. Questa distinzione ha una cittadinanza precisa nella lingua italiana, ma fuori
della filosofia, e cioè nel diritto, dove esistono norme procedurali e norme sostantive: il codice penale
dice quali sono i reati e con quali pene vengono puniti e quindi è un codice sostantivo, mentre il codice
di procedura penale non ci dice quali sono i reati e quali pene meritano, ma ci dice come si deve
procedere quando si definiscono i reati e quando li si persegue o li si punisce. Sostantivo in genere si usa
in filosofia in opposizione a metodologico o epistemologico.
Furio Cerutti
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non le discuteremo in questo testo, ma faremo puntuali riferimenti alla categoria che più
attualmente ci interessa, quella di democrazia. Si noti che il presente testo non è sempre
ordinato secondo la partizione di categorie fondative e sostantive, bensì alcune di quelle
fondative (libertà, eguaglianza, giustizia) vengono tematizzate solo nella parte finale, relativa ai
nessi di etica e politica.
Non mi dilungo qui in riflessioni epistemologiche sullo statuto della filosofia politica
rispetto ad altre discipline. Supponendo che il lettore di un testo introduttivo non sappia nulla di
ciò di cui si parla, ed in cui vuole appunto introdursi, sarebbe come mettere il carro avanti ai
buoi, o - detto più elegantemente, alla Hegel - staccare il metodo dalla `cosa stessa' e mandare
avanti quello. Differenziazioni e comparazioni emergeranno via via, alcune già nel prossimo
paragrafo. Per ora bastino due rilievi: uno è il rinvio alla distinzione2 fra filosofia politica e
scienza politica che Bobbio traccia nel § 1 del suo articolo Stato, potere, governo, sebbene
quella distinzione richieda oggi qualche riformulazione, essendo ormai meno compatto lo status
epistemologico della scienza politica. Aggiungo poi che qui si tratterà in modo ricorrente della
questione dell'`ottima repubblica', ma che io non condivido l'identificazione, che per me è
riduttiva, della filosofia politica con una teoria tutta e solo normativa di che cosa deve stare (la
giustizia, la libertà, o quant'altro) alla base delle istituzioni politiche. Certamente condivido
altrettanto poco quel tipo di realismo, antiquato e/o rozzo, che esclude ogni risvolto normativo
dallo studio della politica. Ma resta per me futile il normativismo che si accontenti di se stesso,
senza cercare tematicamente di riconnettere il discorso su ciò che dev'essere al discorso su ciò
che è, che disegni costituzioni ideali, statuali o planetarie, senza fornire strumenti concettuali
per esaminare i rapporti di potere e per percepire in dimensione storiche le nuove sfide poste
alla politica e alla società.
Ferme restando queste mie posizioni, che certo influiscono sull'impostazione complessiva
del testo, la presente terminologia filosofica è scritta in modo il più possibile neutrale fra, ed
informativo su i diversi punti di vista.
2. Definizioni di `filosofia politica'
Cominciamo dal passo più banale e definiamo la filosofia politica, in base ai suoi oggetti,
come quella filosofia che si occupa della politica, cioè dello Stato, delle istituzioni e della
società civile, e che partendo da questo nucleo oggettuale suo proprio si irradia a parlare di
qualsiasi cosa c'entri con la politica, compresa la vita e la morte degli individui, dei gruppi e del
genere umano. Questa definizione è banale perché queste stesse materie sono - almeno in parte
- oggetto di altre attività scientifiche, come la scienza della politica, la sociologia politica,
l'antropologia. Quindi, come spesso le definizioni oggettuali, che non per questo però vanno
buttate via del tutto, non è sufficientemente specifica3.
2
La filosofia politica ricerca l’essenza del politico, ne discute i modelli normativi, ricercando quale
sia l’”ottima repubblica”, e non implica un rinvio metodico e verificabile all’empiria.
3
Dico oggettuali e non oggettive perché i due termini hanno una profonda differenza e non solo in
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Cerchiamo di restringere la prima definizione, modificandola nel senso di dire che nella
filosofia politica, se non di tutto, di molto si può parlare; ma di qualunque cosa si parli, cioè
quando si parli di problemi o di fini o di valori che non sono specifici della sfera politica (il
senso della vita, la verità, il bene, la felicità), questi sono sempre posti in rapporto con categorie
propriamente politiche come la libertà, la giustizia, la guerra e la pace, lo Stato e il potere.
Questa sarebbe una definizione oggettuale più raffinata, ma ancora non basta, pur essendo una
buona base di definizione. È necessario aggiungere qualcosa, è necessario insomma spostare lo
sguardo dall'oggetto al metodo di questa disciplina; ma è pure necessario tenere assieme la
definizione oggettuale modificata appena data con il riferimento al metodo della filosofia
politica. Questa si definisce meglio mettendola in rapporto ad altre discipline che si occupano
della politica, soprattutto la scienza della politica e la storia delle dottrine politiche. Se si
prende, come nel succitato scritto di Bobbio, la definizione corrente di scienza e in parte anche
di sociologia politica, si vede che queste discipline sono caratterizzate anzitutto da
un'intenzione prevalentemente descrittiva ed analitica di fenomeni e processi; e il loro piglio
analitico è fondato su di un riferimento sistematico all'empiria, all'insieme del mondo empirico
(nel caso della scienza politica esso si congiunge peraltro con l'intento di fornire interpretazioni
basate su di una teoria generale, per esempio - almeno a fino poco tempo fa - a quella intitolata
al sistema politico). Laddove la filosofia politica, quando è analitica, lo è nel senso che cerca di
capire le strutture profonde, nascoste, non immediatamente visibili allo sguardo fenomenico. Il
taglio analitico di scienza e sociologia politica è caratterizzato da un riferimento costante,
programmatico e metodologicamente regolato ai dati empirici, che possono essere di accesso
più o meno vicino alla teoria: la sociologia politica maneggia dati empirici molto più di quanto
faccia la scienza politica, ma la stessa scienza della politica tale non sarebbe se non avesse
sempre dentro di sé la regola di indicare le regole attraverso cui una sua proposizione può
essere empiricamente illustrata, verificata, confermata o falsificata.
Questo riferimento costante e metodico all'empiria non c'è nella filosofia della politica, la
quale parla certo di cose che hanno una consistenza empirica, altrimenti parlerebbe
dell'ippogrifo; ma può parlare anche dell'ippogrifo, qualora si pensi che ciò possa servire a
capire certi fenomeni, certi problemi, o certi significati della vita associata. Naturalmente, ciò
non scusa chi parla di ippogrifi in modo così astruso, oscuro e pretenzioso che non se ne ricava
alcuna illuminazione per capire la realtà o per dirigere il nostro agire
Mentre è giusto dire che la filosofia politica è una disciplina concettualizzante, sarebbe
sbagliato dire che è l'unica disciplina concettualizzante nei confronti della politica, perché lo è
anche la scienza politica: solo che la formazione dei concetti in filosofia politica e in scienza
politica segue- come si è accennato - strade diverse.
Ricapitolando, possiamo dire che la filosofia politica è anzitutto filosofia. Una filosofia che
politica, ma anche in filosofia in genere: mentre oggettivo si definisce in linea di massima per la sua
contrapposizione a soggettivo, oggettuale invece è ciò che riguarda l'oggetto, proviene dall'oggetto, si
riferisce agli oggetti, differentemente dal riferirsi ai principi o al metodo. Non c'è il senso di una realtà
indipendente da, od opposta a quella del soggetto che c'è invece in oggettivo.
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si rivolge alle cose della polis cercando di definirle ed interpretarle tramite concetti non
empirici; che, proprio in quanto filosofia, cerca sempre di problematizzare ciò che è o appare
evidente, usuale e pragmaticamente consigliabile; e che riconnette le sue interpretazioni,
valutazioni e prescrizioni a strutture, valori e scelte ultime, a processi e meccanismi non
apparenti.
3. Una tipologia della filosofia politica
Possiamo individuare tre o quattro tipi di filosofia politica: uno è quello normativo, cioè si
occupa dell'`ottima repubblica', di quale sia la forma migliore da dare all'associazione politica 4e
quali siano dunque i principi, le norme, le prescrizioni, i valori, i fini (si tratta di cose diverse,
che solamente per ora mettiamo insieme) a cui la politica e le sue forme debbano conformarsi.
Si può dire che tutti gli antichi siano filosofi politici normativi, che lo sia gran parte della
tradizione medievale e che questa tradizione si rompa con la filosofia politica moderna, dando
spazio ad altri tipi di filosofia politica. Dire che si rompe non vuol dire che muore, e nella
filosofia politica moderna abbiamo il ritorno di questo, che è uno dei grandi filoni della filosofia
politica. Hume, uno dei filosofi meno normativi che si possano immaginare, è un filosofo cui,
nella filosofia pratica complessiva, interessa come si forma e si realizza quel valore che si
chiama giustizia. Inoltre, una parte consistente delle filosofie politiche degli ultimi trentacinque
anni sono normative, sotto il nome di filosofie politiche dei diritti o della giustizia: basta fare il
nome illustre di John Rawls o quello meno illustre di Robert Nozick. In questo tipo di filosofia
politica metterei anche quella che dice quale sia il pessimo Stato, cioè quello da evitare, o che
dice addirittura che lo Stato, l'associazione politica in sé sono da evitare. Troviamo qui gli
anarchici, ma per un certo senso anche Marx, il quale spiega quale forma di associazione vada
bene e quale vada male, in base ad una sua esplicita filosofia della storia ed alla sua implicita
teoria della giustizia, che dice di non avere, ma in realtà ha. Marx sostiene che l'associazione
politica come tale sia da evitare, come pessimo stato della convivenza sociale umana. La società
civile deve invece riuscire a liberarsi della macchina burocratica che è lo Stato. Beninteso, la
filosofia politica di Marx e di Engels non va classificata soltanto come normativa, contenendo
anche altri approcci.
Poi ci sono le filosofie politiche di tipo diverso, in cui almeno programmaticamente l'aspetto
assiologico e normativo non è presente. Parlerei di filosofie politiche `analitiche', ma il termine
è da mettere tra virgolette perché altrimenti sembra che ci possano essere filosofie politiche a
base empirico-analitica, e abbiamo già spiegato che la filosofia politica per definizione non è
questo. Possiamo allora usare un altro termine contemporaneo, parlando di filosofia politica
ricostruttiva, il cui compito è di ricostruire concettualmente le condizioni di nascita e morte
delle associazioni politiche, nonché quelle di legittimità del potere politico e di contrazione
dell'obbligo politico. Non si dice programmaticamente quale sia la forma politica che meglio
4
O società o comunità politica, ma io preferisco, usando il termine weberiano di associazione
(Vergesellschaftung), evitare accenti comunitaristici.
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conviene all'umanità o alla società tale o alla nazione talaltra. Si dice semplicemente che, se si
vuole amministrare la cosa pubblica, fondare e, come diceva Machiavelli, “mantenere lo Stato”,
oppure ancora trasformarlo, bisogna soddisfare queste e quelle altre condizioni: se ne
ricostruisce insomma la logica interna. Di questo tipo analitico o ricostruttivo di filosofia
politica fanno parte in primo luogo i contrattualisti discendenti da Hobbes, da Locke, da
Rousseau, dal grande filone, rotto in tanti sottofiloni, della filosofia politica moderna del Sei e
Settecento. In fondo già Machiavelli e in qualche misura i trattatisti del Cinquecento possono
essere considerati appartenenti a questo filone. Questo è un filone che è diventato prevalente
nella filosofia politica moderna, proprio perché le sue caratteristiche sono tutte moderne - si
pensi al suo legame iniziale con la scienza della natura e la sua moderna epistemologia. Oggi
esso si divide il campo con il più classico filone normativo rinato.
Esiste anche un terzo possibile tipo di filosofia politica che non si occupa tematicamente né
delle norme cui le associazioni politiche devono conformarsi, né delle condizioni di loro
possibilità; si occupa di ciò che sta intorno, sotto o sopra, avendo dunque un taglio obliquo
rispetto all'approccio diretto dei due primi filoni. È la filosofia politica che consiste nello
svolgere riflessioni sul linguaggio politico, sulle tradizioni politiche, sulle idee politiche e via
discorrendo. Non si occupa in presa diretta delle forme politiche e delle normazioni o delle
condizioni di possibilità cui esse sottostanno, ma si occupa di ciò che sta al di là di queste
forme, di ciò in cui le forme politiche messe a fuoco nei due primi filoni sono collocate dal
punto di vista del contorno, dell'ambiente culturale, morale, linguistico, comunicativo. È quel
tipo di filosofia politica che si potrebbe quasi dire consista in un meta-discorso sulla politica.
Meta - dal greco, ciò che va al di là - è un termine prevalentemente epistemologico, e indica
quegli approcci che non si occupano direttamente di una cosa, ma se ne occupano investendo il
suo contesto, i suoi aspetti di contorno. Vedremo a questo proposito, fra le principali forme di
etica contemporanea, che l'etica generale si distingue in etica propriamente detta e metaetica,
cioè un discorso al di là dell'etica. In linguistica si parla non a caso di metalinguaggio.
Dopo aver fatto tante distinzioni bisogna attenuarne il peso per due ragioni: una ragione
fondamentale è che la buona e la grande filosofia politica contiene tutti e tre questi aspetti,
tuttavia non confusi, mescolati, indistinti. La buona o grande filosofia politica consiste di solito
nella prevalenza di uno di questi aspetti, che dà ordine e ispirazione a tutta la teoria; ma essa
contiene, proprio perché si tratta di buona filosofia, punti di vista, considerazioni, ed esigenze
relative anche agli altri aspetti. Allora non si può fare una filosofia politica normativa ignorando
completamente il fatto che, quali che siano le normazioni che noi cerchiamo di argomentare o
di predicare, gli Stati poi devono funzionare, e quindi occorre occuparsi delle condizioni di
possibilità, e che comunque questi discorsi sulle normazioni non si possono comprendere e
valutare appieno senza vederne la collocazione storica, gli aspetti linguistici e culturali. Fare
una filosofia politica normativa cieca agli altri aspetti è di solito fare una cattiva filosofia
politica, poco informata, poco attenta e poco autorevole. L'autorevolezza nella scienza sta nel
sostenere una determinata cosa, ma tenendo gli occhi aperti su tutte le altre; e chi pretende di
guadagnare attenzione dicendo una cosa sola e chiudendo gli occhi alla complessità sia della
realtà sia delle teorie, di solito fa delle opere che possono avere un buon successo temporaneo,
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di natura ideologica o agitatoria, ma non lasciano grandi lezioni.
L'altra cosa da chiarire è una questione di uso linguistico. Talvolta uso in questo testo il
termine di teoria politica. È un termine generico e un po' confuso rispetto alla decisa distinzione
tra filosofia politica e scienza politica che ho delineato sopra. In realtà per un verso certe
filosofie politiche si avvicinano molto - per la loro attenzione ai processi effettivi e agli
strumenti empirico-analitici che aiutano a comprenderli - alla scienza politica; e certa scienza
politica si allontana molto dalla sua base empirico-analitica, acquistando sensibilità agli aspetti
filosofici. Allora si determina una terra di nessuno, ovvero di tutti, una zona franca tra filosofia
e scienza politica intese nella loro rigida distinzione: quando si dice teoria politica si indica
proprio questa zona, ovvero l’insieme degli interessi teorici rivolti alla politica.
4. Che cos'è la politica?
Che cosa è la politica? Verso la fine del paragrafo ne daremo una prima definizione, ma
dobbiamo aprirci la strada verso di essa ricostruendone la genesi storica5.
Politica anticamente in Grecia e ancora nella tradizione medievale scolastica voleva dire
filosofia della politica, scienza della politica, insomma studio della polis, delle sue leggi, delle
sue regole, dei suoi valori. Si può dire che abbia mantenuto quel significato fin che si è usato il
latino, cioè fino al Sei-Settecento. Con l'età moderna acquista il significato della cosa stessa,
non dello studio di essa6.
Più importante della storia della parola è ciò che è avvenuto della cosa stessa, cioè della
polis. Mi riferisco anzitutto al processo di differenziazione all'interno della polis intesa
genericamente come vita associata, non come città-Stato, come polis fisica, ma nemmeno come
sfera propriamente e restrittivamente politica, bensì come sfera insieme politica, sociale,
economica, religiosa e culturale o ideologica. Non è un processo che cominci oggi né ieri.
Stiamo qui parlando di una grandiosa schematizzazione, figlia dell'immagine della polis che la
prima autocritica, settecentesca e rivoluzionaria, della modernità politica (assolutistica) ha a
lungo perseguito o vagheggiato, cioè l'immagine della polis greca come una sfera nella quale la
vita associata è pienamente integrata nei suoi vari aspetti e il cittadino come decisore, come
soggetto politico, è insieme sacerdote, guerriero, ovvero in termini moderni soggetto e nodo di
relazioni sociali. Quanto questa immagine sia deformata ed idealizzante mi è difficile dirlo; gli
studi sulla polis non si può dire che abbondino, e dopo quelli dei grandi filologi tedeschi dell'età
guglielmina e weimariana, soprattutto Werner Jaeger, le grandi sintesi sono state un po' messe
5
Nel far questo mi appoggio fortemente sul relativo lemma di Bobbio nel Dizionario di politica, tenendo
altresì presente l'articolo Politica di Salvatore Veca nell'Enciclopedia Einaudi. Sull’idea bobbiana di
politica, oltre al fondamentale lemma Stato.scritto originariamente per l’Enciclopedia Einaudi ed ora in
Stato, governo e società, si vedano anche i pertinenti capitoli in Teoria generale della politica, Einaudi,
Torino 1999.
6
Per questi problemi semasiologici il riferimento più accreditato è il Dictionary of the History of the
Ideas, oppure i Geschichtliche Grundbegriffe, il grande lessico prodotto negli ultimi decenni dalla scuola
tedesca della Begriffsgeschichte o storia dei concetti, un esempio tipico di metadiscorso sulla politica.
Furio Cerutti
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da parte. Certamente la polis reale non corrisponde ai vagheggiamenti di cui è essa stata fatta
oggetto dal Sette-Ottocento, nel periodo classico della filosofia e della letteratura tedesca,
ovvero in Rousseau e nella Rivoluzione francese, fino ad oggi, per esempio fino ad Hannah
Arendt7.
La prima sfera che si distacca da questa maggiore o minore unità integrata che si presume
fosse la vita pubblica nella polis greca, soprattutto ad Atene, è naturalmente la sfera religiosa.
Ciò avviene con il cristianesimo, con la creazione di una verità religiosa diversa e superiore alla
vicenda mondana e alla vita politica in terra. Certo, nel cristianesimo ci sono tanti atteggiamenti
diversi, dall'agostinianesimo più radicale, teso alla separazione radicale tra vita ecclesiale e vita
politica, con la assoluta sovraordinazione della vita ecclesiale, della civitas dei alla civitas
hominis, fino al costantinismo, cioè alla fusione reciprocamente strumentale di potere politico e
vita ecclesiale che accetta dentro di sé la dinamica del potere. Dovranno passare secoli perché,
all'uscita dal Medioevo (dal 1100 al 1200 in Italia e a partire dal 1300 nei paesi del nord
Europa) un'altra sfera si distingua dall'insieme della vita pubblica associata e si costituisca
sempre di più come un insieme di leggi, di procedure, di principi propri; sfera in cui gli attori
aspirano ad autoregolarsi senza essere subordinati, come invece lo saranno ancora per secoli,
alle leggi politiche o politico-religiose, del re, del signore o dell'imperatore. Si tratta ovviamente
della sfera economica, che nella modernità formerà con quella politica una bipolarità che ancor
oggi anima teorie e dibattiti: il mercato va subordinato allo Stato, venendo da esso regolato in
quanto, se lasciato a se stesso produce più squilibrio che ricchezza, oppure è il mercato il primo
principio di sviluppo ed autoregolazione delle relazioni sociali, restando allo Stato solo compiti
residuali?
È solo con la costituzione dello Stato moderno che la segmentazione della presunta
originaria unità della polis raggiunge la sua forma definitiva, cioè la distinzione tra Stato e
società civile. L'espressione entra nel lessico politico europeo con l'opera dello scozzese Adam
Ferguson, An Essay on the History of Civil Society (1767), e si ritrova pochi decenni più tardi,
in lingua tedesca, in uno dei concetti chiave della filosofia hegeliana del diritto e dello Stato,
quello di bürgerliche Gesellschaft, da cui poi il termine trapassa in Marx. Mentre in Hegel è
una forma autonoma, ma non perfetta di associazione degli uomini, e quindi deve cedere il
passo a quella struttura suprema che è in Hegel lo Stato, in cui si esprime la sostanza etica del
popolo, in Marx tutto è capovolto, e una delle chiavi di lettura della filosofia politica marxiana è
la liberazione della società civile o società tout court dall’ imposizione su di essa esercitata
dallo Stato come struttura burocratica oppressiva8. Della coppia Stato - società civile Bobbio
7
Filosofa tedesca, allieva di Heidegger, emigrata in America per la persecuzione antiebraica e morta nel
1975
8
Si ricordi che quel termine vuol dire nella lingua tedesca tanto società civile quanto società borghese.
Cittadino in tedesco si dice Bürger, ma ciò vuol dire anche borghese (i tedeschi importano per questo
anche il termine francese bourgeois). L'anfibolia (termine usato da Kant: uso equivoco) fra l'aspetto
neutro, società civile, e l'aspetto classista del termine, società borghese, crea un po' di problemi e
confusioni nella filosofia politica e sociale tedesca, tanto è vero che si è di recente introdotta l'espressione
Zivilgesellschaft.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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dice che è una delle grandi dicotomie. Bobbio ha l'idea che per capire certi pezzi della realtà il
metodo migliore sia quello di articolare la nostra visione in maniera dicotomica, o binomica9.
Non tutte le dicotomie sono grandi, ma alcune lo sono, e uno dei modi di studiare la filosofia
politica che Bobbio predilige è quello di vedere i collegamenti tra le grandi dicotomie, ciò che
evidentemente è un po' più complicato che non mettere tutte le grandi dicotomie su un girello,
con certi termini tutti sullo spiedo di destra e certi altri tutti quanti infilzati sullo spiedo di
sinistra. Pensando alla dicotomia fra la sfera pubblica e la sfera privata non cadiamo dunque
nello scolasticismo di pensare che Stato sia perfettamente corrispondente a pubblico e società
civile sia perfettamente corrispondente a privato. Talora pensare per dicotomie presenta rischi
di semplificazione eccessiva, di formalismo nel senso peggiorativo di questo termine, ma nel
complesso pensare per grandi dicotomie è un valido ed educativo metodo di pensare le cose.
Su questa distinzione Stato-società civile e su quella ad essa imparentata di sociale e
politico, va detto che, se occorre mantenere ferma la distinzione tra politico e sociale, occorre
pure stare attenti a non confondere il politico con lo statuale. Il politico si deve ritenere per un
verso che sia sfera più ampia, e secondo alcuni di maggiore spessore, dello statuale. Per un altro
verso nell'epoca moderna c'è una tendenziale, ma pur sempre parziale coincidenza tra il politico
e lo statuale. Si può dire allora che tutta la politica si svolge nello Stato, o con riferimento ad
esso. Ripeto che si tratta di un processo tendenziale e comunque parziale. Facciamo subito
qualche esempio in cui ciò non è vero: lo si può vedere nell’interpretazione di ciò che avviene o
è avvenuto, o nella politica come progettazione del futuro.
A livello storico esistono società cosiddette primitive, in cui alcuni studiosi ritengono con
buone ragioni che la politica, ovvero il sistema politico, sia esistito, ma nelle quali certamente
non è esistito lo Stato. Nel presente ci sono molti che ritengono che la sfera della politica, o del
politico, coinvolga fasce della nostra personalità, del nostro agire, della nostra convivenza più
spesse che non quelle che entrano e giocano nell'istituzione Stato. Si prenda uno slogan che ha
avuto grande fortuna, anzi una funzione quasi rivoluzionaria, nel movimento delle donne degli
anni Sessanta/Settanta: “il personale è politico”. Ovvero: i drammi, i problemi, le pulsioni che
noi abbiamo nella nostra vita personale non è affatto vero che non abbiano rilevanza politica,
possono anzi essere più rilevanti di altre funzioni quali andare a votare, osservare e fare le leggi.
Viceversa la sfera personale è attraversata da forze e strutture che provengono dal politico o in
esso si ritrovano, sicché una vera trasformazione della sfera politica non può andare disgiunta
da cambiamenti che devono prodursi nella sfera familiare e cosiddetta privata. Il politico a cui
faceva riferimento questo slogan non era certamente coincidente con lo statuale; questo slogan,
e la posizione intellettuale che in esso si esprimeva, è stato un modo per affermare la non
coincidenza dello statuale e del politico, o addirittura per condannare la restrizione del politico
allo statuale e per rivendicare una pratica della politica più ampia, più coinvolgente di quella
che avviene nelle forme dello Stato.
Infine, volgendoci alla politica come progettazione del futuro, la filosofia politica e le
ideologie politiche moderne abbondano di progetti di società senza Stato, non come ritorno allo
stato primitivo e prepolitico; anche se i critici di queste concezioni temono che davvero si
9
Si veda.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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vagheggi, inconsapevolmente, un ritorno ad una qualche condizione pristina. Queste concezioni
fanno la scommessa che uno sviluppo storico fatto di lotte e di emancipazione porti a far vivere
la società solo in base alle sue proprie leggi, equilibri ed esigenze interne, senza più la cappa
oppressiva dello Stato. Quindi configurano per il futuro una prospettiva di politica senza Stato,
ovvero di un'organizzazione non politica, ma puramente tecnica od interpersonale della società.
Soprattutto in certe versioni del marxismo, questa prefigurazione è stata letta in termini di morte
od estinzione non solo dello Stato, ma della politica.
Compiuti questi schiarimenti sull'evoluzione di polis e politica, possiamo affrontare la
questione chiave: che cos'è la polis come comunità politica? Non possiamo far niente di meglio
che andare a leggere le righe dell'autore che in un modo o nell'altro ha dominato nei secoli il
linguaggio del pensiero politico. La definizione di politica è svolta proprio all'inizio (Libro
primo, 1252-53) della Politica di Aristotele10 :
vediamo che ogni polis è una comunità e che ogni comunità si costituisce proponendosi per
scopo un qualche bene (perché tutti compiono ogni loro azione per raggiungere ciò che ad essi
sembra essere un bene). Ciò posto, possiamo dire che soprattutto vi tende, e tende al più
eccellente di tutti i beni, quella comunità che regge e comprende in sé tutte le altre: e questa è
quella che si chiama polis e comunità politica (politiké koinonìa). Ora, è un uso linguistico
inappropriato quello di quanti credono che l'uomo di Stato (politikòs), l'amministratore
(oikonomikòs), il re (basilikòs), il padrone (despotikòs) siano la stessa cosa, in quanto le loro
differenze si baserebbero solo sul maggiore o minore numero delle persone cui sono preposti e
non sulla specificazione delle loro funzioni [...] quasi non ci sia nessuna differenza tra una
grande casa privata e una piccola polis [...]
Se si studiassero come le cose si evolvono dall'origine anche qui come altrove se ne avrebbe
una visione quanto mai chiara. È necessario in primo luogo unire gli esseri che non sono in
grado di esistere separati l'uno dall'altro, per esempio la femmina e il maschio in quanto
strumenti di generazione [...] e chi per natura è disposto al comando e chi è naturalmente
disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono
sopravvivere, [...] sicché la stessa cosa è vantaggiosa al padrone e allo schiavo.
In questa definizione c'è l'indicazione di uno scopo (il bene comune) che è decisiva, perché
è quella su cui Aristotele fonda l'essenza della polis; c'è la dichiarazione di qual’ è l'origine
dell'associarsi, che viene posta nella differenza e quindi nel bisogno: esiste insomma una ratio
d'ordine della comunità che altro non è che la stessa natura. C'è l'idea, in termini moderni (ma la
divisione del lavoro nella modernità è andata ben oltre questi termini), che l'unicità della
funzione e quindi l'assoluta specificità di questa, il fatto che un ente faccia e sappia fare una
cosa ed una sola, sia il tipo di ordinamento che meglio prepara la perfezione dei risultati.
Fin qui abbiamo visto il finalismo della filosofia politica aristotelica, che altro non è se non
la specificazione del suo più generale teleologismo ontologico. Ora vediamone la caratteristica
più fondamentale, il naturalismo o evoluzionismo naturalistico: dalle comunità o cellule
elementari uomo-donna e padrone-schiavo nasce la casa come centro insieme familiare e
produttivo (oikos), e dall'intrecciarsi di più case il villaggio (kome). La comunità perfetta di più
villaggi è la polis,
che ha raggiunto l'autosufficienza (autarkeia) e sorge per rendere possibile la vita, ma sussiste
10
Cito, con qualche modifica, dalla traduzione di C.A. Viano, UTET, Torino 1966.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni polis è un'istituzione naturale,
essendolo già le comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine, e la natura di una cosa è
il suo fine [...] Ora, lo scopo e il fine sono ciò che vi è di meglio, e l'autosufficienza è un fine e
quanto vi è di meglio (A 1252b).
Viene infine il peculiare organicismo (cui appartiene anche l’idea di un reciproco vantaggio
fra padrone e servo) della Politica aristotelica:
nell'ordine naturale la polis precede l'oikos e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede
necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano [...] È dunque
chiaro che la polis è per natura ed è anteriore all'individuo, perché, se l'individuo, preso da sé,
non è autosufficiente, starà rispetto al tutto nella relazione in cui stanno le altre parti (1253a).
Si noti che l'organicismo non sta soltanto in questa priorità del tutto rispetto alle parti, ma
pure nel legame di reciproco vantaggio fra chi sta sopra e chi sta sotto, fra il governante ed i
governati (si pensi all'apologo, organicistico nel senso della fisiologia, di Menenio Agrippa), fra
il padrone ed il servo, di cui sopra. Nel modello aristotelico, che ha dominato fino al CinqueSeicento il pensiero europeo, la polis è dunque un'entità di origine naturale, ordinata ad un fine
e sovraordinata come tutto organico alle sue parti: sia alle aggregazioni inferiori, sia agli
individui11.
Per i moderni invece - s'intenda: per gli approcci contrattualistici e conflittualistici che più
esprimono l'innovazione creata dalla modernità - l'associarsi degli uomini non è un dato, ma un
problema (com'è possibile la società?); non un prodotto della natura, che per i moderni è
comunque costruita mentalmente dagli uomini, ma un artificio umano, che può anche
dissolversi; né risulta da un organico sviluppo di entità sovraindividuali, ma vien visto come
atto pattizio `libero' e volontario degli individui, ultima radice di ogni aggregazione. Pertanto,
dai caratteri e dalle regole del patto derivano i caratteri, le regole (ed i limiti) di Stato e politica.
Infine, fra la sfera politica e le altre, come quella morale o teologica, la differenziazione, o
perfino la separazione è definitiva, e non è detto che la politica continui ad essere considerata la
sfera più alta di attività pratica; anzi essa è stata da alcuni recentemente classificata come niente
più che un sub-sistema del più generale sistema sociale, ciò che poi richiama un'altra
differenziazione tipicamente moderna, quella fra il politico e il sociale, sconosciuta agli antichi.
Base individualistica e sviluppo artificiale della polis: a queste due posizioni-chiave della
modernità si accompagna quella che vede l’abbandono del finalismo sostantivo nella
concezione della politica. Con questo termine indico l'approccio che considera la politica
subordinata ad un fine rappresentato da un qualche valore definito in base ad una certa
concezione del mondo, della vita o della storia. Nella tradizione cristiana, e segnatamente
tomistica,dell'Occidente questo fine è stato a lungo visto nel `bene comune', attingibile dai
singoli solo in quanto parti della comunità e definito in base ad una qualche gerarchia fra Dio,
uomini e mondo. Caduta l'unità che l'ancoramento teologico dava al pensiero medioevale, e
caduti i poteri universali di riferimento, l'Impero ed il Papato, la prima modernità fece
esperienza sia del competere pluralistico di svariate concezioni del fine della politica ed in
genere dell'umanità, sia dei troppo alti costi (guerre di religione) da pagare tutti, vinti e
vincitori, quando come scopo della politica si vogliano perseguire per intero e senza rinuncia
11
Sul tema di individuo e modernità v.oltre la voce Individuo\società di.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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alcuna i propri fini sostantivi. Nel contempo, sul piano epistemologico, gli approcci rivolti a
comprendere il mondo e le sue parti in ragione dei meccanismi che li governano o delle
funzioni cui assolvono prendevano il sopravvento sugli approcci tesi ad individuare i loro fini.
Da queste esperienze politiche ed intellettuali nasceva così l'abbandono del finalismo
sostantivo, sostituito dall'idea che l'associazione politica non possa ritenersi ordinata che a fini
minimi ad essa intrinseci, e non provenienti da concezioni metafisiche, teologiche o morali, se
non in quanto possa rappresentare il minimo comun denominatore di tali concezioni. Ma
nasceva e si sviluppava soprattutto l'idea che una definizione di `politica' non possa farsi che in
base ai mezzi o le modalità o procedure che ne sono tipiche in ogni circostanza, anziché in base
ad uno o l'altro dei disparati fini che le sono stati o potranno esserle attribuiti12.
Politica può dunque dapprima definirsi come quell'attività che regola la lotta (o il
conflitto, v.oltre alla fine del capitolo 11) per la redistribuzione di risorse scarse e
disegualmente distribuite tramite i rapporti di potere; potere che a sua volta - in quanto potere
specificamente politico - è definito dall'essere in ultima istanza garantito dal possesso esclusivo
(monopolistico) della forza o violenza organizzata.
Questa definizione richiede una serie di approfondimenti e commenti. Anzitutto, essa lega
la politica alla più complessiva attività sociale degli uomini e delle donne, mirando insieme a
determinarne una peculiarità (cosicché politico e sociale non possono considerarsi equivalenti).
Si basa poi su due condizioni indipendenti: la scarsità delle risorse contese (che non vanno
intese solo come risorse materiali, ma pure sociali o relazionali, per es. il prestigio) e la loro
distribuzione ineguale. Se le risorse fossero illimitate, o se, pur scarse, fossero distribuite
egualitariamente, non vi sarebbe politica (infatti le utopie sociali dell'Ottocento che mirano ad
uno di questi due obiettivi prevedono l'eliminazione della politica). La definizione riconosce poi
non già, come pure alcuni fanno, l'identità di politica e guerra, bensì che non la convivenza
comunitaria, bensì la lotta (termine preferito in filosofia politica) ovvero il conflitto (termine più
sociologico, cfr. § 29) sono elementi essenziali della politica - s'intende come problemi da
affrontare e regolare, non come suoi dati immutabili o `eterne verità'. La politica è imparentata
con la guerra anche nel senso più preciso che del potere politico fa parte l'uso attuale o la
permanente e credibile minaccia della forza fisica o violenza, che è appunto la modalità
caratteristica del rapporto bellico. Del resto basta ricordarsi che, finora, molti assetti del potere
politico sono nati come risultati di guerre civili e di classe o di guerre fra popoli e Stati. La
conciliazione-ricomposizione dei diversi interessi che alcuni esibiscono come la natura della
politica (cfr. il lemma Politics nel Dictionary di Scruton) è soltanto uno dei possibili esiti
dell’attività politica, tanto quanto lo è la guerra esterna o civile, e la diversità di interessi, idee e
12
Sia chiaro, per inciso, che la distinzione di antico e moderno, o moderno e premoderno va presa cum
grano salis: la modernità non è qualcosa di monocolore e tanto meno di monolitico, anche se talora può
essersi illusa di esserlo. Le posizioni premoderne si ritrovano al suo interno, e non possono essere ridotte
a mera residualità o epigonalità, anche se qualche volta di questo pur si tratta. Il ripresentarsi aggiornato
ed agguerrito del `bene comune', del finalismo, della `comunità organica' e d'altro articola spesso un
conflitto interno alla modernità, indica una sua aporia o un dissidio con suoi risultati non attesi e non
intesi.
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volontà ne rimane il primum ontologico.
Tuttavia, questi primi schiarimenti, pur dicendoci di quali elementi si compone la politica,
non ci dicono ancora come essi vi si ordinino, ovvero quale sia la ratio o finalità interna (se ve
n'è una) di questa attività umana. Ma prima ancora dobbiamo approfondire due temi capitali di
questa definizione: il concetto di potere ed i suoi rapporti con quello di forza.
5. Potere e potere politico
Cerchiamo di definire prima di tutto che cosa è il potere tout court, non il potere politico,
dato che il termine potere si usa riferito a svariati tipi di relazioni, diverse da quelle politiche. In
questi sforzi di definizione e distinzione sono motivato dal fastidio per gli usi generici ed
onnivalenti del termine `potere' (ovvero di pouvoir o di Herrschaft, nelle rispettive tradizioni
nazionali), cui nella mia generazione di studiosi indulgevano gli epigoni di Foucault o della
Scuola di Francoforte, dalla quale peraltro io stesso provengo. Si può dire che la filosofia
politica come disciplina autonoma e produttiva stia in piedi solo se riesce a fare di `potere' un
uso analiticamente valido e maneggiabile, ma insieme filosoficamente consapevole.
Possiamo partire dalla tripartizione compiuta da Bobbio nella voce Stato: una prima
definizione è quella detta sostanzialistica, ma si può anche dire strumentalistica del potere;
quella che indica consistere il potere nei mezzi per conseguire un certo fine. Il possesso, l'uso, la
disposizione di/su quei mezzi è ciò che si chiama potere, pertanto il possesso della ricchezza è il
potere economico, il possesso della forza o del prestigio è il potere politico, mentre l'influenza
costituisce il potere, sociale o psicologico, di una persona sull'altra; e nel possesso dei mezzi di
elaborazione e comunicazione delle idee sta infine il potere culturale. La definizione si chiama
sostanzialistica perché indica consistere il potere nelle qualità di una cosa, di una sostanza.
Poi c'è una definizione soggettiva del potere, che è in realtà più giuridica che politica, e che
consiste nel dire che il potere è l'attribuzione ad un certo soggetto della facoltà di fare certe
cose; allora il Presidente della Repubblica nell'ordinamento italiano ha il potere di sciogliere le
camere, di indire le elezioni, di presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, il
Consiglio superiore della Difesa e di rappresentare l'unità della nazione. Ma questa definizione
potrà soddisfare i giuristi, mentre filosoficamente non regge all'accusa di circolarità: il potere è
ciò di cui dispone chi lo detiene. Del resto, in teoria politica ciò che interessa è la capacità de
facto di fare certe cose, non l'attribuzione de iure della possibilità di farle.
L'unica vera alternativa alla definizione sostanzialistica sembra a me quella più astratta e
quindi epistemologicamente vincente, perché definisce il potere con meno elementi possibili e
con meno riferimenti possibili a situazioni concrete o a contenuti particolari. Questa definizione
per esempio evita i difetti della definizione sostanzialistica, cioè di impantanarsi nella
discussione se il potere consista davvero in una cosa, oppure consista nelle facoltà di una
persona, e se consiste in una cosa, in quale cosa consista etc. Questa è la definizione cosiddetta
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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relazionale di cui le esposizioni sono due: una è quella classica di Max Weber13. Si tratta
sempre, in Weber, di definizioni probabilistiche, fondate sulla nozione di chance: il potere
(Herrschaft, in quanto distinta dal più generico concetto di Macht o potenza) è la chance di
trovare in un determinato gruppo sociale obbedienza per un determinato comando. Una
definizione più recente è quella che Bobbio riadatta dal concetto di influenza come è stato
definito da Robert Dahl, che è uno dei più rilevanti esponenti della political science americana
nella seconda metà del secolo XX. Il potere è una relazione fra attori, cioè fra soggetti d'azione
14
. Nella relazione di potere un attore induce gli altri ad agire in un modo in cui gli altri
altrimenti non agirebbero. È una definizione più raffinata di quella di Weber, perché Weber
dice “la chance di trovare obbedienza ad un determinato comando”, mentre Dahl e Bobbio
eliminano il ricorso a concetti formalizzati come obbedienza o comando e vedono il potere
come la possibilità di cambiare il corso delle azioni. Se non c'è relazione di potere, A, B, C e D
seguirebbero la linea d'azione x; arriva Z che ha il potere e lo esercita, e allora, invece della
linea d'azione x, viene seguita quella y.
È vero che questa definizione pone grandiosi problemi epistemologici: come si fa a capire
quando il mutamento di una linea, di un comportamento, si deve ascrivere all'influenza
dell'attore Z, e non ad altri fattori più o meno rilevabili? Bisogna trovare delle metodologie per
fare delle ascrizioni corrette e non incerte (a questo problema sono dedicati importanti lavori
epistemologici di Max Weber). Ma intanto abbiamo dato una definizione per i nostri fini
soddisfacente di potere e allora possiamo finalmente fare l'ultimo passo e dire in cosa consiste il
potere specificamente politico: qualunque definizione, delle tre o due che si è visto, si scelga (in
realtà il potere politico nella maggior parte dei casi è passibile di definizione in base a tutte e tre
le formule sopraddette), esso ha la caratteristica di essere garantito, quanto alla sua efficacia, e
di essere reso compatto dalla possibilità di ricorrere all'uso o alla minaccia della forza fisica o
costrizione fisica legittima (della legittimità si tratterà in apposito paragrafo più avanti). In
questo senso ogni potere politico è coattivo, ma non perché eserciti la coazione fisica in
continuazione; semplicemente, esso ha come ultima (non: unica) garanzia e peculiarità la
possibilità di usare di fatto o almeno di minacciare l'uso della forza fisica: s'intenda della forza
fisica in senso politico, cioè di un'organizzazione della forza fisica (forze di polizia, esercito,
milizie di partito o bande pretoriane; nella storia del mondo si sono trovate le forme più diverse
di organizzazione di questa forza). Due commenti sono subito necessari.
Va notato anzitutto che questa definizione vale appieno per i rapporti politici entro lo Stato:
le relazioni di potere fra gli Stati sovrani non implicano legittimità, ma piuttosto un adattamento
`realistico' (in senso colloquiale) ovvero prudenziale (per questo termine v. § 22) alla
superiorità conferita ad uno Stato dalle sue dimensioni e dalla sua potenza economica, ma
sempre sancita dalla capacità di esercitare questo potere con abilità politica e di garantirlo
13
Nel § 16 del Cap. 1 della parte I di Wirtschaft und Gesellschaft (Economia e Società, uscita nel1922
due anni dopo la scomparsa del suo autore.
14
Si dice attore per non dire soggetto, perché soggetto è un termine troppo carico filosoficamente e con
troppe implicazioni, mentre attore è un termine sociologico, non filosofico, e usarlo in filosofia permette
di non imbarcarsi in tutte le allusioni e gli ammiccamenti relativi al “soggetto” e alla “soggettività”.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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tramite l'organizzazione militare. È tuttavia vero che in questo secolo anche fra gli Stati si è
creato un potere legittimo (sebbene troppo raramente efficace): quello della Lega (poi Società)
delle Nazioni, creata nel 1919, in seguito (dal 1945) quello delle Nazioni Unite, per non parlare
delle organizzazioni regionali cui sono stati trasferiti alcuni poteri degli Stati nazionali, e di cui
l'Unione (prima: Comunità) europea è l'esempio principe. Come si intenderà più avanti nei §§
18 e 20, l'emergere recente di momenti di globalità nella vita politica, oltre che economica e
culturale, di tutti gli abitanti del pianeta potrebbe inoltre15 rendere sotto alcuni profili sempre
più simili i problemi di governo a livello interno16. Nel mondo globalizzato, fra esterno ed
interno non esiste più la divisione netta propria della politica moderna.
Ancora, va esplicitato il dubbio che la definizione sopra stabilita sia ottusa, e non permetta contro ogni evidenza - di riconoscere carattere politico al potere che non riguardi direttamente
la disposizione sulla forza fisica; come se il potere politico fosse cioè solo quello dello Stato. È
politico - sottolineiamo - ogni potere capace di ed intenzionato a mutare la distribuzione delle
chances di partecipazione al potere statuale (ivi compreso quello delle organizzazioni
internazionali politiche): per esempio il potere dei partiti, dei leaders, dei gruppi di pressione
nazionali e transnazionali, come Greenpeace o la Campagna per l'abolizione delle mine antiuomo. Riprendendo la terminologia weberiana, potremmo in questi casi parlare, anziché di
potere politico, di potere politicamente orientato.
6. Il potere politico e gli altri: peculiarità e ‘neutralità’
Il potere politico non può essere appiattito sull'uso o la minaccia della forza, anche se questa
è la sua caratteristica specifica. Abbiamo un problema di non oscurare questa specificità, senza
peraltro farla diventare totalità. Possiamo capire qualcosa di più riflettendo sulla differenza fra il
potere politico ed altre forme di potere che politiche non sono, come il potere economico e
quello cosiddetto ideologico.
Il potere economico, di cui possiamo dare una definizione di tipo sostanzialistico o
strumentalistico, consiste nella disposizione sui (non basta la proprietà dei) mezzi di
produzione. Il che vuol dire che se una persona od un gruppo ha il potere economico può, per
ottenere qualcosa, ridurti il tenore di vita, o perfino mandarti in rovina, bloccarti
l'approvvigionamento, farti patire la fame. È una forma di influenza che passa attraverso
l'esercizio di una costrizione, che però non è la costrizione attraverso la forza fisica, e se di
questa vuol fare impiego, occorre che il potere economico si rivolga al potere politico, che
manderà la forza pubblica a sequestrare i beni di un fallito, espellere un inquilino moroso,
ovvero impedirà con le sue forze armate ad un altro paese di accedere a risorse per questo
essenziali. (En passant, e a scanso di equivoci, l'embargo non è forma di potere economico,
bensì un atto di potere politico che impiega mezzi economici, peraltro sorretti politicamente,
15
Si tratta di processi in corso, il condizionale è buona norma intellettuale.
Domestic politics, si dice in inglese, ma il calco italiano “domestico” che comincia ad affiorare può
solo suscitare il riso.
16
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cioè militarmente o almeno diplomaticamente.)
Lo stesso vale per il potere ideologico o culturale, che consiste nella disposizione sui mezzi
di riproduzione culturale di una società, cioè consiste nel dominare la creazione, la diffusione e
la riproduzione delle idee, delle informazioni e del modo come queste vengono comunicate.
Definizione valida sia nel caso del potere televisivo, sia in quello del potere di uno sciamano di
una società primitiva, essendo una definizione abbastanza generica. Anche qui questo potere
può essere grandissimo: ci possono essere varie scuole di pensiero sul potere o strapotere del
mezzo televisivo, io per esempio evito di sopravvalutarlo, ma non si possono avere dubbi sul
potere di un predicatore medievale, magari eretico, o sul potere di uno sciamano. Eppure anche
questo potere non dispone della caratteristica specifica di quello politico, cioè della coazione
fisica.
Qui ci si potrebbe imbarcare nello sforzo di differenziare il potere in rapporto al suo essere
visibile (dichiarato come tale, e presumibilmente legittimo, oltre che provvisto della garanzia
della forza) o invisibile (comunicativo, psicologico, culturale); ciò che non va confuso con il
potere occulto, che è quel potere politico, ma anche economico, che si esercita fuori o contro
l'ordinamento riconosciuto legittimo. Però tale differenziazione può aprire la strada ad
un'espansione illimitata della nozione di potere (invisibile) che alla fine ci lascia senza
strumenti analitici per capire chi in una certa società ed in un determinato periodo il potere
davvero lo abbia e lo eserciti, e come si possa toglierglielo oppure limitarlo. Non è una via che
io chiuda come assolutamente impercorribile, ma a livello categoriale non mi sembra se ne
possa dire di più.
Per mettere ulteriormente a fuoco le specificità del potere politico vorrei invece soffermarmi
sui mezzi che esso adopera, nonché sul suo modus operandi. Va detto anzitutto che, in ognuna
delle sue forme sotto esaminate, il potere impiega o sanzioni punitive (o meglio attese di
queste) o allettamenti. Si può anche dire: sanzione negativa (un male inflitto come risposta ad
un comportamento contrario a quello desiderato da chi detiene il potere - questa è una
traslitterazione politica della nozione giuridica di sanzione) e sanzione positiva (un bene
attribuito come risposta ad un comportamento conforme a quello ecc.) Ovviamente le stesse
sanzioni negative consistono in cento oltre cose (sottrazione di prebende, di segni di prestigio
conferiti dal potere, e non solo nell'ancien régime, aumenti fiscali a carico precipuo di un
gruppo o ceto, cancellazione della clausola di nazione più favorita, mozione di condanna votata
nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) oltre alle sanzioni fisiche (la carcerazione,
l'attacco o contrattacco militare, l'occupazione). Ma, diversamente che negli altri tipi di potere
(compreso quello interpersonale e particolarmente erotico, per dirla con Max Weber) che pure
impiegano sanzioni ed allettamenti, il potere politico può sempre accompagnare le attese di
sanzioni positive o negative con l'ulteriore, credibile attesa che per eseguirle potrà essere
eventualmente adoprata la forza.
Quanto al modus operandi, esso si definisce, a partire dagli effetti che produce, come
costrizione o dissuasione. Nella costrizione A fa cessare B dal fare ciò che B fa, oppure gli fa
fare ciò che B altrimenti non farebbe (compulsive power). Nella dissuasione A fa sì che B
continui a fare ciò che fa (anche nel caso in cui B vorrebbe fare diversamente) ovvero a non
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Filosofia politica. Un’introduzione
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fare ciò che non fa (deterrent power). La dissuasione nucleare, in cui ogni superpotenza viene
indotta a continuare il suo non-uso bellico delle armi nucleari, è solo un caso particolare,
caratterizzato dalla reciprocità (più o meno paritaria e stabile) del potere che l'una esercita
sull'altra per scongiurarne eventuali mire avventurose. Ma potere di dissuasione è anche quello
di un partito o di un boss elettorale che riesce ad impedire che i suoi elettori cambino
preferenza, facendo loro temere che ne avranno altrimenti meno finanziamenti pubblici o meno
posti di lavoro.
Facciamo un passo ulteriore nell'osservare la complessità della categoria di potere politico e
rileviamo che esso usa presentarsi con caratteristiche di continuità, almeno tendenziale: non
basta fondare un principato o repubblica, od instaurare un nuovo regime con un atto di forza,
essendo problema politico altrettanto - se non più - fondamentale quello di “mantenere lo
Stato”, per dirla con Niccolò Machiavelli. Un potere che si continui nel tempo è
necessariamente un potere istituzionalizzato, che si deposita in e riproduce tramite delle
istituzioni (v.oltre il paragrafo pertinente). In questa sua dimensione il rapporto di potere non è
davvero più identificabile con il mero esercizio della forza da un lato e la mera subordinazione
ad essa dall'altro, emergendo invece in chi agisce conforme a quanto disposto dal detentore del
potere alcuni elementi di volontarietà: preferisco ubbidire o perché calcolo che a non farlo ci
rimetto di più, in termini di sanzioni fisiche o d'altro genere, o perché, al di là d'ogni calcolo,
sento, per ragioni psicologiche o morali o religiose o `mitiche', di dover agire come il potere si
attende (questi aspetti verranno riformulati più concettualmente sotto i titoli della legittimità e
dell'obbligo politico).
Fra chi il potere detiene e chi ad esso è sottoposto, fra governanti e governati, fra Stato
egemonico o leader e Stati alleati o dipendenti o satelliti si crea così un rapporto in cui agli
elementi di subordinazione od anche sfruttamento ed oppressione che vengono patiti si
accompagnano elementi di convergenza o perfino cooperazione. Gli uni accettano quella
struttura, quei titolari e quei comandi del potere faute de mieux, cioè in mancanza di meglio
(nell'ipotesi più semplice): a non accettarli ci si perde troppo, per rifiutarli o riformarli il tempo
non è ancora maturo, ovvero in sfere extra-politiche si possono trovare sufficienti
compensazioni agli svantaggi derivanti dai rapporti di potere politico. Si può anche vedere la
cosa in modo meno elementarmente `realistico' e più evolutivo: se come governato posso
concorrere a limitare in via di principio il potere (liberalismo, costituzionalismo) e a
codeterminarne strutture, titolari e comandi (l'idea originaria della democrazia) ho delle buone
ragioni normative, e non puramente prudenziali (v.oltre per questa terminologia), per rispettare
il potere ed interiorizzarne le norme. A questo punto la volontarietà dell'adesione ai disposti del
potere (le leggi emanate da un Parlamento democratico e le disposizioni emanate da un governo
che goda la fiducia della maggioranza di questo) diventa meno combattuta e più persuasa.
(Mancando inter nationes analoghi canali di formazione e legittimazione della volontà politica,
mancando - per fortuna, alcuni pensano - un governo mondiale, non è possibile fare esempi
omologhi nel campo internazionale.) Dalla parte dei governanti, imparare a “mantenere lo
Stato” significa imporsi certe limitazioni nell'esercizio del potere, non comandare o non
sfruttare più che tanto, ed evitare di farlo in modi troppo offensivi. Qui farò invece un esempio
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Filosofia politica. Un’introduzione
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internazionalistico: durante la guerra fredda, i due blocchi, Nato e Patto di Varsavia, erano
ciascuno subordinati alla volontà dei governi della rispettiva potenza egemone, ma ben diversi
erano fra URSS e USA lo `stile di comando' e le modalità di rapporto con gli alleati. Non è
questa la ragione principale per cui l'un potere si è dissolto e l'altro ha vinto la competizione, ma
non è nemmeno irrilevante.
Della struttura del potere politico (ma si potrebbe anche dire: della sua geometria) due
caratteristiche vanno evidenziate: l'esclusività piramidale e l'universalità. La prima è di gran
lunga la più importante, e si riferisce in ultima istanza al già nominato modo esclusivo o
monopolistico con cui questo potere (legittimamente) detiene, usandola o minacciandone l'uso,
la forza. Anche se si mantiene una visione pluralistica del potere (non esservi di esso un'unica
fonte né un'unica sede, distribuendosi esso invece fra centri diversi nella società e nello Stato),
mi pare di poter dire che, affinché associazione politica vi sia, questo monopolio della forza
dev'essere mantenuto, e nello Stato moderno di solito lo è. La garanzia ultima tramite la forza
ed il rapporto monopolistico con questa danno al potere politico, difformemente da quello
economico e da quello culturale, una configurazione (tendenzialmente) unitaria, compatta e
piramidale. Solo in politica chi l'ha raggiunto può dire - come il Boris Godunov dell'omonima
opera di Musorgskij (tratta da Puškin), che è una grande riflessione musicale sul potere - “ho il
potere supremo”. Naturalmente questo potere piramidale (assolutistica o liberal-democratica
che sia la sua base) è sempre o spesso limitato de iure e/o de facto, facendo talora acqua da tutte
le parti: ma esso resta il principio ispiratore dell'associazione politica. Ne deriva a questa una
trama (sempre relativamente) unitaria e coesa di rapporti, che fa di questa dimensione umana
una delle più adatte al perseguimento comune di fini e progetti, quali che essi siano. (Hannah
Arendt ha definito il potere come `agire in concerto'. Definizione inaccettabile perché non
riconosce l'asimmetria e verticalità propria della relazione di potere, ma che può forse essere
vista come riflesso di questo carattere tendenzialmente unitario che il potere dà all'associazione
politica.)
Una prima manifestazione di questa intima struttura del potere politico sta nella sua
universalità: i comandi emessi dal potere politico relativi alla distribuzione delle risorse hanno
valore verso tutti, erga omnes, cioè sono nel suo ambito universali. Efficace diventa questa
pretesa, sempre avanzata dal potere politico. solo con il faticoso e cruento instaurarsi dello Stato
assolutistico moderno.
In una compagine definita dall'esclusività della disposizione sulla forza e dall'universalità
dei comandi diviene possibile proporre/imporre e magari raggiungere fini collettivi: sia quelli
elementari e generali, intrinseci all'associazione politica, che vedremo più avanti parlando di
ordine e di pace, sia quelli particolari per il contenuto e la visione o ideologia che li informa (la
vita buona aristotelica, il rispetto delle leggi naturali e divine, il rischiaramento ed il progresso
civile, l'abolizione della società di classe). In tutti e due i casi il potere tende ad indirizzare le
azioni di governanti e governati ad un fine, attraverso interventi imperativi che ci dicono “per
vivere insieme, o per vivere meglio, dovete fare questo e quest'altro; dovete fare la
dichiarazione dei redditi entro il 30 giugno e pagare le tasse per permettere allo Stato di
funzionare, dovete andare a votare” (in alcuni paesi andare a votare è un imperativo, in altri non
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Filosofia politica. Un’introduzione
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lo è) per formare la `volontà politica', e così via. Questo finalismo (più esattamente:
finalizzabilità) dell'associazione politica organizzata dal potere mi pare corrispondere in
qualche modo a ciò che i giuristi, con un termine non perspicuo, chiamano inclusività del potere
(cfr. Bobbio, voce Politica nel Dizionario di politica, pp. 803-4).
C'è dunque un momento di neutralità nel potere politico: esso può essere usato per
opprimere od emancipare, per atterrare i superbi e sollevare i deboli o viceversa. Va aggiunto
subito, ma è quasi un'ovvietà, che il potere politico volto ad opprimere prende forme concrete
diverse da quello volto ad emancipare. Inoltre, c'è e ci sarà sempre chi pensa che esso, per la sua
struttura verticale, dall'alto verso il basso, è costituzionalmente inadatto a perseguire fini come
la pace, la liberazione e la cooperazione. Chi la pensa così o ritiene che questi fini vadano
perseguiti non per la via politica, bensì per quella culturale o religiosa, o suppone possibile che
la politica si svolga fra uomini che hanno cancellato ogni residuo egoismo, aspirino seriamente
alla completa eguaglianza e lo facciano in una crescente abbondanza di risorse. Il nesso fin qui
descritto di politica e potere riguarda invece una condizione in cui nessuna di queste tre
condizioni è realizzata o sta per realizzarsi - lasciando impregiudicato, perché irrilevante al fine
di incidere sul nostro destino, se mai esse possano, congiunte o parzialmente, avverarsi. Vale
dunque da questo punto di vista il detto di Max Weber “Wer Politik treibt, erstrebt Macht” (chi
fa politica ricerca il potere): quali che siano i fini, le intenzioni, le ideologie, se si fa politica di
lì si passa, ed è con il potere proprio ed altrui che ci si deve confrontare. Tenuto fermo questo,
la complessità e la concretezza della politica è data dall'intreccio fra la categoria di potere ed
altre fondamentali come ordine, legittimità, obbligo; è data dalla tematica dei limiti del potere e
dal mutarsi delle sue forme e dimensioni a seconda delle finalità, delle idee, dei gruppi e delle
persone cui esso di volta in volta si lega.
Tutto ciò ci permette di capire che è sbagliato ridurre la politica alla ricerca e all'esercizio
del potere: la politica è il perseguimento di fini attraverso l'elemento del potere, e si svolge
producendo decisioni, che sono (quasi) sempre fatte di elementi autoritativi e di cooperativi o
consociativi; ma questo non vuol dire che la politica consista nella pura e semplice ricerca di
risorse di potere. Questa può esistere, ma è una forma degenerativa della politica, “il potere per
il potere”. Beninteso, anche questa è politica (non ne stiamo dando una definizione selettiva o
prescrittiva), ma sappiamo storicamente che quando un regime o una classe dirigente non fa più
uso del suo potere per governare società e Stato con un disegno ed uno stile che contentino
molto i suoi sostenitori, ma non scontentino eccessivamente gli altri, ma lo usa solo per
riprodurre la sua posizione, già si trova nella sua fase discendente, preparando suo malgrado il
terreno per un cambiamento. Ma è vera anche la cosa opposta: una politica che venga presentata
come pura ricerca di un fine attraverso l'accordo solidale, la persuasione, la fiducia nelle buone
idee, senza cioè fare i conti con quella cosa complessa e storica che è il potere, o è una politica
di pura testimonianza, quindi apolitica, extramondana, come direbbe Max Weber; oppure chi la
propone è molto facile che tenti di confondere se stesso o di confonderci, nel senso che lui dice
che gli altri vogliono solo il potere, e solo per i loro egoistici fini, mentre lui vuole solo
raggiungere quei fini comuni e non vuole il potere. Allora si tratta di uno che non sa molto di
politica e scambia la predicazione o la testimonianza con la lotta politica; oppure è uno che
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tenta di imbrogliare, cioè che tenta di attrarre la vostra simpatia per una forma di cambiamento
della politica radicale e salvifica, cioè tale che alla fine non c'è più bisogno, scarsità,
disuguaglianza, e siamo tutti uguali, laddove in realtà ciò che poi resta è il potere, meno
contenuto perché non riconosciuto come tale, del leader rinnovatore.
Dopo esserci sforzati di neutralizzare, per quel che è giusto, la nozione di potere, ovvero di
non demonizzarla, dobbiamo metterne in evidenza almeno due aspetti problematici, entrambi
legati al momento della diseguaglianza. Uno è un problema assai generalmente filosofico, e
come tale non potremo approfondirlo qui: è la richiesta, rivolta anche al potere politico, come a
quello religioso, psicologico, economico, di giustificarsi rispetto ad un'idea di libertà e di
autonomia degli esseri umani. In quanto sia problema di libertà politica, vi ritorneremo sopra
nell'apposito paragrafo. L'altro aspetto deriva al potere politico dal suo essere incardinato nella
diseguaglianza e scarsità, condizioni che non possono non essere in perenne tensione con
l'ideale di un'eguaglianza di diritti e di poteri che ha animato concezioni e pratiche che vanno
dall'isonomia (essere la legge eguale) greca alla democrazia moderna. Non è solo che le
proclamazioni di quella eguaglianza hanno sempre, o quasi, contenuto un momento ideologico,
di falsa coscienza: Atene escludeva dalla vita della polis donne, schiavi e meteci, e Thomas
Jefferson, l'estensore della Declaration of Independence (all men are created equal), era
proprietario di schiavi. È che la verticalità stessa del potere (alto-basso) sta in contrasto, e per
alcuni in contraddizione, con l'idea di cittadinanza - tanto più nella modernità, in cui questa
verticalità da un lato si accentua (altro sono le relazioni quasi `faccia a faccia' nella polis, altro
quelle fra governanti e governati nella grande macchina degli Stati territoriali, cfr. G. Sartori,
La politica, Sugarco, Milano 1979, pp. 189-196), dall'altro diviene semplicemente più visibile e
più contestata. Questa tensione, questa necessità di giustificare il dislivello di potere
connaturato all'associazione politica è uno dei temi fondativi della teoria di Rousseau, che per
risolverla la estremizza: solo “l'alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a
tutta la comunità” garantisce la perfetta eguaglianza dei sudditi-cittadini, giacché se tutti hanno
alienato tutto senza riserve, a nessuno resta nulla da rivendicare. Il carattere totale del potere ne
garantisce paradossalmente l'eguaglianza e quindi massimamente lo legittima:
infine, chi si dà a tutti non si dà a nessuno; e siccome non vi è associato sul quale
ciascuno non acquisti un diritto pari a quello che egli cede su di sé, tutti guadagnano
l'equivalente di quello che perdono, e una maggiore forza per conservare quello che
hanno (Le Contrat social, libro I, cap. VI).
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7. Potere, forza, violenza, consenso, comandi/norme
Possiamo formulare a questo punto una seconda definizione di politica comprensiva degli
elementi fin qui illustrati: essa è quell'attività sociale che, in condizioni di scarsità e
diseguaglianza, redistribuisce risorse (o beni), materiali e relazionali, allocandole
autoritativamente, cioè tramite un potere legittimo, garantito in ultima istanza (quanto
all’efficacia, non alla legittimità) dal monopolio della forza. Tale allocazione, possiamo
aggiungere, avviene finalizzando gli interventi del potere secondo un disegno più generale o più
occasionale e particolare (del resto, anche il politico più ideologicamente pianificatore tiene
presenti le situazioni e le reazioni del momento). Valgono pure qui, s'intenda, le osservazioni
riguardanti la politica fra gli Stati e nel mondo fatte nel § 5.
A questa definizione dobbiamo aggiungere un commento ed alcune specificazioni. Il
commento è che essa, non giuocando su una finalità o senso o valore fondamentale della
politica, bensì sulle sue modalità, non implica tuttavia una scelta a favore di una concezione
`realistica', tutta basata sull'egoismo individuale o di gruppo come unica vera fonte dell'attività
politica. I fini particolari, che di per sé non ci sembrano in grado di definire la politica in modo
scientificamente comprensivo, non ne sono esclusi, tranne che essi tendano a negare (per
utopismo extramondano, o per negazione cinica di ogni interesse comune) lo spazio stesso
dell'agire politico; e se essi debbano essere compatibili con l'interesse di potenza o di
arricchimento dei singoli od invece con norme universali di giustizia o libertà la definizione non
dice. Dice solo che, quali che siano i fini, perseguirli politicamente significa in ogni caso
compiere le azioni descritte nella definizione stessa.
Una scelta è invece contenuta nella definizione a favore di una disidentificazione del potere
con la mera forza. Abbiamo già offerto argomenti in questo senso, ma altri vanno illustrati. Uno
proviene da un'ulteriore opzione preliminare: le motivazioni di chi agisce politicamente (e più
generalmente socialmente) non possono - nemmeno euristicamente - essere ricondotte al mero
calcolo d'utilità compiuto da attori razionali, o a questi per ipotesi assimilabili. La politica è un
impasto di calcolo lucido o furbo e di pregiudizi, idiosincrasie, motivazioni ideali tutte filtrate
attraverso simboli (tema sul quale si rinvia all'apposito paragrafo). In questo senso
l'atteggiamento di chi subisce una situazione di potere è un atteggiamento in cui c'è il
riconoscimento o di una qualche convenienza razionalmente calcolata nell'ubbidire, o di una
motivazione ad ubbidire che abbia radici diverse dal calcolo raziocinante della convenienza, per
esempio la suggestione; il potere, grazie al suo simbolismo, ai suoi meccanismi emozionali, ai
miti che riesce a mettere in moto, al fascino che esercita sui propri destinatari può indurli ad
agire come il titolare del potere desidera. Questo ha una conseguenza importante perché vuol
dire che il potere, proprio perché consiste anche di questi elementi, può causare azioni in
positivo, mentre la mera forza, che in quanto coercizione fisica possiamo altrettanto chiamare
violenza, può solo avere effetti omissivi, cioè solo costringere colui su cui si esercita a non fare
certe cose. Inoltre la specificità della violenza e del potere ridotto a mera forza consiste
nell'intervenire o sul corpo stesso dei dominati, mettendo loro le manette, mandandoli in
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prigione o dietro un filo spinato in un campo di concentramento, sparando loro addosso, oppure
agendo sempre in senso fisico sull'ambiente fisico verso il quale i dominati hanno un rapporto
vitale di dipendenza: per esempio è violenza anche l'impedire a una persona o ad una
popolazione di ricevere il cibo o l'acqua. Il potere è invece un'articolata relazione mentale e
motivazionale fra gli attori.
V'è tuttavia in politica un caso in cui il potere si riduce al mero esercizio della forza fisica
da parte di un'istituzione politica (Stato o partito, in questo secolo); si ha allora il fenomeno
detto del terrorismo di Stato o della violenza terroristica di Stato, che ha la caratteristica di
essere completamente extra legem, al di fuori della legge, avendo le caratteristiche dell'assoluta
imprevedibilità e smisuratezza, vale a dire dell'assoluta irrelazione con le cause, le occasioni e
anche le vittime su cui essa sia applica. È la violenza che proprio per il suo carattere extralegale, del tutto imprevedibile e smisurato, è propria nel mondo moderno solo degli Stati
totalitari. Non che questo esaurisca la definizione di totalitarismo, ma ne è uno degli aspetti. Per
quanto riguarda poi la scena internazionale, si vedrà nei §§ 16-18 che la guerra `clausewitziana',
quella intessuta di politica, non può propriamente equipararsi al mero esercizio della forza
fisica; questo si può dire piuttosto di un tipo di guerra, la guerra di sterminio compresa quella
nucleare. Nelle relazioni internazionali insomma la distinzione fra potere e forza può esser fatta
valere, ma non esattamente negli stessi termini qui delineati per la politica interna ad una
comunità. Del resto va oggi aggiunto che la separazione di politica interna ed internazionale si
va assottigliando, e sarà presto necessario ripensare tutte queste distinzioni e relazioni.
Quanto nella relazione di potere la parte dell'applicazione della forza sia grande rispetto alla
parte relativa al consenso, e quindi al riconoscimento sia di una situazione di inferiorità da parte
di chi il potere lo subisce, sia dell'opportunità di un suo volontario adeguamento ai comandi di
chi lo detiene, e quale sia (in termini rozzamente quantitativi) la percentuale che spetti alla forza
ovvero violenza da una parte, e al consenso dall'altra, questa non è una questione teorica, ma
empirica. Teorico è solamente l'assunto che se il potere si riduce a violenza ed elimina
completamente il consenso, si può dubitare che si tratti ancora di potere politico, venendo
tendenzialmente a cadere la possibilità di legittimarlo. Come diceva Sant'Agostino a questo
livello non c'è più differenza tra regnum e latrocinium, cioè il potere è come se fosse esercitato
da una banda di ladroni perché, aggiungeva Agostino, viene a mancare completamente
l'elemento della giustizia. Non occorre far nostro questo canone normativo (teologico) per
sostenere che, dove rimanga il solo elemento della forza, non c'è più nessuna ragione di
distinguere i regna dai latrocinia. Non a caso il regime nazionalsocialista è stato anche visto
come un Nicht-Staat, un non-Stato.
La questione forza/violenza è una questione in parte lessicale. L'uso corrente, da cui è
difficile ricavare una definizione canonica, è orientato verso l'affermazione che, usando `forza',
si sottolinea l'aspetto sia organizzato, sia legittimo della forza medesima, mentre quando si usa
`violenza', si vuole mettere l'accento sul suo aspetto di coazione fisica, non necessariamente
contro ogni norma giuridica, ma indipendentemente dalla presenza o meno di una normazione
giuridica sull'uso della forza fisica.
L'uso corrente ci indurrebbe a parlare di forza nei confronti della forza fisica usata da
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istituzioni politiche legittime, mentre dovremmo usare violenza quando la forza è usata da
istituzioni non legittime, che diventano latrocinia, oppure viene usata da istituzioni legittime,
ma in modo illegale. Se la polizia reprime un certo reato per il bene comune dei cittadini, si usa
dire che lo ha fatto usando la propria forza legittima statuale; se la polizia compie degli abusi o
in casi singoli nello Stato di diritto, o reprimendo sanguinosamente una manifestazione
popolare democratica in una dittatura, si dice che usa la violenza. Naturalmente tutto si
confonde quando questo linguaggio rientra nel gioco di chi vuol dimostrare certe tesi, ad
esempio che ogni potere statuale, ed in particolare ogni potere repressivo, al di là del manto di
legittimità o di legalità di cui si ammanta, altro non è in realtà che violenza. Questa è questione
di specifiche posizioni valutative e quindi la lasciamo da parte, trovandoci ora sul piano delle
definizioni che, per servire a qualcosa, devono tentare di essere avalutative, o mediamente
neutrali.
Un altro schiarimento lessicale: norme o comandi. La definizione corretta, perché più
comprensiva, è `comandi'; il potere emette comandi, che nello Stato moderno che noi
conosciamo, e la cui funzione è principalmente la produzione, l'esecuzione e l'accertamento del
diritto, assumono la veste giuridica di norme. Qui i comandi sono espressi attraverso norme
primarie, che ci dicono cosa dobbiamo fare o non fare, e norme secondarie, che ci dicono come
interpretare, gestire, eseguire le norme primarie. Le norme primarie e secondarie costituiscono
insieme l'ordinamento giuridico, concetto delicatissimo di cui non oso dare ulteriori definizioni.
Se vogliamo una definizione di ciò a cui si obbedisce nel potere, una definizione che sia
diacronicamente valida, cioè non limitata ad un periodo storico, dobbiamo dire `comandi'.
Prendiamo l'esempio famoso del libro V della Guerra del Peloponneso di Tucidide, quando la
città di Melo non vuole entrare nell'alleanza antispartana, e gli ateniesi dicono che se i meli non
entrano li mettono in pericolo, che se non entrano è peggio per loro: alla fine, visto che i meli
con le loro ragioni si rifiutano, gli ateniesi abbattono Melo stessa (è un luogo famoso per la
concezione del potere nella politica internazionale, e ancor più per discutere il rapporto tra
morale e politica). Quello che gli ateniesi danno ai melidi è un comando, di fronte al quale, se
non viene ubbidito, sono minacciate e poi imposte sanzioni; ma non è una norma giuridica,
anche se gli ateniesi offrono un'argomentazione per sostenere la loro richiesta, che rinvia, si
direbbe modernamente, alle ragioni della propria sicurezza nazionale. Insomma, se a proposito
del potere in generale, usiamo la nozione di norme anziché quella di comandi, ci precludiamo la
possibilità di includervi il potere non giuridicamente organizzato, come parte di quello
premoderno, e come quello interstatale - anche se di questo occorre dire che ormai tende
sempre più ad organizzarsi in forme giuridiche.
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8. Due vedute diverse: Foucault e Schmitt
Farò solo un accenno a due altri studiosi le cui vedute della politica e del potere non solo
divergono abbondantemente l'un dall'altra, ma sono diverse dalla linea concettuale seguita qui.
Michel Foucault (1926-1984, autore fra l'altro di Storia della follia nell'età classica,
Sorvegliare e punire, Le parole e le cose, Storia della sessualità), se avesse fatto un corso
sistematico di filosofia politica, avrebbe presentato il potere in maniera diversa da quella qui
adottata, o negli scritti di Norberto Bobbio; avrebbe messo in luce il lato nascosto, perverso, e
variegato del potere come lo abbiamo definito in queste lezioni. Il centro dell'interesse di
Foucault è quello, dirò con il Foscolo (che probabilmente nessuno più legge o cita), di far
vedere, del potere, “di che lacrime grondi e di che sangue”. Foucault non è interessato
all'aspetto giuridico, formale, strategico della definizione del potere, è interessato a far vedere i
meccanismi, le azioni, i dispositivi concreti ed appunto anche psichici e corporei (le pratiche
seguite negli ospedali, nelle carceri, nei manicomi), su cui il potere, soprattutto nelle società
moderne, si fonda. Quindi, mentre nella definizione del potere che noi abbiamo dato la violenza
è stata considerata elemento necessario ma non sufficiente, mentre noi abbiamo cercato di dare
una definizione complessa del potere ed abbiamo aperto la strada alla tematica della
legittimazione del potere, l'indirizzo foucaultiano è quello di mostrare che è la violenza
dell'uomo sull'uomo, e cioè sul corpo dell'uomo, la radice ultima del potere, messa in opera o
solo minacciata che essa sia. Foucault dice, rovesciando la frase di Clausewitz: “la politica altro
non è che la continuazione della guerra con altri mezzi”. Tutta l'immane opera di Foucault essa va al di là dei confini disciplinari, non è né strettamente filosofia politica, né antropologia,
né filosofia morale, né psicologia, né storia: è tutte queste cose come è proprio dei grandi
innovatori, nei quali i confini disciplinari si sfaldano - è indirizzata ad analizzare tutta la
convivenza sociale e politica come un meccanismo di compressione, distorsione,
regolamentazione di pulsioni, soprattutto della sessualità, dei bisogni e della corporeità. Questa
è una grande prospettiva, però non è la mia, e non percorrerla non vuol dire negarne ogni
validità o valore conoscitivo; semplicemente io non sono d'accordo con la visione di fondo,
appunto con il Clausewitz rovesciato; penso anzi che il motivo d'interesse fondamentale della
politica stia nel vedere che essa non si identifica con la guerra, o meglio che contiene la guerra,
ma a questa non si riduce. Penso poi che già in Foucault, ma ancora peggio nei suoi seguaci, il
potere venga percepito in maniera talmente onnipresente ed onnipervasiva che esso diventa un
processo diffuso, nel senso peggiorativo: qualcosa cioè che ha confini concettuali non
sufficientemente definiti e risulta quindi nozione analiticamente poco utilizzabile.
Carl Schmitt (1888-1986, giurista cattolico e poi temporaneamente nazista; qui ricordiamo
Der Begriff des Politischen, 1927, tr. it. Le categorie del politico, e Der Nomos der Erde, 1951,
tr. it. Il Nomos della terra) cerca di determinare ciò che fa della politica una sfera autonoma
dalle altre (`autonomia del politico', con l'insistenza sull'aggettivo sostantivato), e lo ritrova
nell'opposizione amico-nemico che giace a fondo di qualsiasi relazione politica ed è
caratteristica soltanto di queste (mentre in morale vale quella bene-male, in estetica bello-brutto
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ecc.). Il nemico politico (hostis) va tenuto separato da quello privato (inimicus). La guerra è la
realizzazione estrema di questa inimicizia, la reale possibilità di uccisione fisica. Questa visione
viene contrapposta da Schmitt a quella liberale, che secondo lui dissolve l'inimicizia in
discussione, eticizzando il rapporto, o in concorrenza, spostandolo sul piano dell'economico.
Riporto solo schematicamente il pensiero di Schmitt perché occorre darne conto, trattandosi
di un classico della filosofia politica del Novecento, pur se non raccogliamo l'impostazione.
Essa, pur sempre un antidoto a visioni troppo ireniche della politica, costituisce tuttavia o una
schematizzazione, impoverita sulla coppia base amico-nemico, del complesso mondo del potere
e della forza; ovvero lo focalizza unilateralmente sull'inimicizia e lo scontro, mentre di esso
fanno parte pure, ad altro titolo, l'ordine e la pace. Del resto, alla fine del secolo che ha creato la
dimensione planetaria e quelli che verranno più in là trattati come `problemi globali', una
visione della politica modellata sui rapporti tradizionalmente antagonistici degli Stati territoriali
appare comunque non in grado di coprire le nuove realtà.
9. I fini della politica
Il titolo di questo paragrafo sembra contraddire a quanto sopra si è detto a proposito del
carattere non finalistico della definizione di politica qui fornita. Non è così, o meglio dipende da
che cosa s'intende per fine. Noi non diciamo, per esempio, che fine della politica è di produrre il
bene degli uomini (e delle donne). E qui sembra opportuno schiarire il concetto di bene
comune, in cui ci si può imbattere in questo contesto.
Il concetto di bene comune è, come tutti sanno, un concetto aristotelico, poi scolastico e poi,
nell'età moderna, un concetto che implica una definizione sostantiva della politica, che indica
cioè come fine della politica il raggiungimento di questo o quel fine ovvero valore, in cui
risiederebbe il bene comune, e, secondo importantissimo aspetto, questo coincide con una
concezione che pone la comunità, di cui si vuole fare il bene, al di sopra degli individui; di
solito considerando il rapporto tra individui e comunità come il rapporto delle membra con
l'organismo intero. Quindi si tratta di un antindividualismo organicistico. Il bene della comunità
è superiore agli individui ed il bene degli individui si fa solo nella comunità come il bene delle
membra è solo possibile nell'insieme del corpo. Nell'età moderna, man mano che la politica
viene ad essere definita piuttosto per le sue modalità, i suoi codici, i suoi mezzi che non per i
suoi fini, perché diventa impossibile trovare un fine, un bene sulla cui delineazione ci sia un
accordo abbastanza largo da poterci fondare la comunità politica moderna, il concetto di bene
comune assume connotazioni sempre più tradizionalistiche, con volontà restauratrice di una
società armonicamente compatta, vergine di conflitti ed egoismi.
Tuttavia nel neocontrattualismo contemporaneo c'è una specie di recupero, in questa che è
la corrente più kantiana, e quindi più proceduralistica, del concetto di bene comune. Per
esempio la definizione che ne dà Rawls è quella che il bene comune consiste nel mantenere le
condizioni e nel conseguire gli obiettivi che è verosimile che concorrano al vantaggio di
ciascuno: l'esempio che fa Rawls è quello che in una nave è al capitano che è affidato il bene
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comune dell'equipaggio e dei passeggeri. Al di là dell'omonimia si tratta dell'opposto del bene
comune aristotelico, o almeno dell'opposto del bene comune come bene della comunità, perché
il common good rawlsiano è il bene comune complessivo dei membri e non della comunità: i
soggetti ultimi, i destinatari di questo bene sono i membri della comunità e non la comunità
stessa.
Cosa tutta diversa è poi il concetto di bene pubblico o bene collettivo, la cui caratteristica è
quella di essere indivisibile: il godimento e la distribuzione di questi beni, per la natura stessa di
essi, non sono asimmetrici e conflittuali (si può anche dire antagonistici): l'aria buona è una
cosa di cui tutti godono in maniera uguale; la sicurezza pubblica è una cosa di cui tutti godono,
ricchi e poveri, vecchi e giovani, uomini e donne. La distribuzione di beni siffatti non è un
problema perché, se ci sono, essi sono naturaliter distribuiti ugualmente per tutti. Il concetto di
bene pubblico o bene collettivo può rinviare ad un altro concetto che è quello di interesse
diffuso. L'interesse è l'approccio soggettivo ai beni. Gli interessi diffusi sono quelli che
riguardano tutti indistintamente, indipendentemente cioè dalle comuni suddivisioni sociali per
età, per sesso, per censo, per status, per etnia; e siccome hanno questo carattere, essi non
trovano nel moderno mercato politico democratico sostenitori e rischiano di essere trascurati e
sacrificati. Fino ad adesso l'interesse all'aria pulita è un interesse diffuso, che siccome è di tutti
ma di nessuno in particolare, e di nessuna di quelle lobby del cui gioco consiste il mercato
politico nelle democrazie, l'aria pulita fino ad adesso non ha avuto sostenitori e solo di recente
qualcosa sta cambiando.
Orbene, non è in un qualche bene comune o in qualche virtù che scorgiamo il fine della
politica. C'è chi lo fa anche oggi - i neoaristotelici come Alasdair MacIntyre (After Virtue,
1981) ed in genere i communitarians, coloro che rivendicano l'essenzialità e priorità della
comunità rispetto all'individualismo liberal di un Rawls - ma noi siamo qui alla ricerca di una
definizione la più generalmente accettabile e meno unilaterale possibile della politica. Non ci
poniamo per nulla in un atteggiamento prescrittivo: la politica dev'essere questo o quello.
Cerchiamo solo di capire se l'agire politico, qualunque sia l'obiettivo che esso si pone, è tale che
- guardandolo dal di fuori come osservatore, non ponendosi al suo interno in modo prescrittivo,
come partecipante (la distinzione osservatore-partecipante è della massima importanza nella
teoria sociale e politica) - si possa tuttavia dire che esso produce volens nolens un qualche esito
che sempre si presenta, e del quale si possa dunque dire che si tratta di una finalità interna della
politica; che insomma da qualunque processo che sia mediato dal potere politico ci si può
attendere che produca quel risultato, vi concorra o no la volontà consapevole degli attori.
Sosterrò nel paragrafo seguente la tesi che quel risultato, che si può considerare la finalità
interna della politica, è l'ordine.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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10. I concetti di ordine ed istituzione
Ordine è considerato un concetto proprio della destra e quindi aborrito dalla sinistra. Credo
che l'idiosincrasia, che purtroppo si trova ancora residuale perfino negli ambienti scientifici, a
discutere il problema dell'ordine sia una forma antiscientifica di ottusità dinanzi a ciò che il
problema dell'ordine è stato ed è. L'ordine è uno dei problemi fondamentali della filosofia
politica e possiamo dire che abbia due corni: in uno ci si chiede perché c'è e ci può essere un
ordine anziché il caos, l'isolamento degli attori del processo politico, la mancanza di regole e di
un potere che le faccia rispettare nelle loro interazioni. Ma dell'ordine si può avere anche una
nozione più forte, contrapponendolo non semplicemente al disordine, all'irregolarità nel seguirsi
degli avvenimenti, bensì all'anarchia, nel senso proprio di mancanza di governo, di un potere
comune - come anarchia c'era ed in parte c'è ancora fra gli Stati. Al di là di queste due facce
descrittive del concetto di ordine ve n'è una ulteriore, normativa ovvero qualitativa: l'ordine in
quanto giusto o equo o buono o superiore, cui si accennerà nella parte finale di questo testo,
quando ci occuperemo tematicamente di norme e valori. Notiamo infine esplicitamente che il
problema dell'ordine politico, più manifestamente degli altri, riguarda tanto le relazioni
politiche fra gli individui, quanto le relazioni fra gli enti politici supremi, cioè gli Stati.
L'altro problema è: c'è un ordine specificamente politico? La prima domanda - perché
l'ordine - non è in realtà assolutamente specifica della filosofia politica, riguardando altrettanto
la filosofia della società; anziché di ordine politico alcuni preferiscono parlare di ordine sociale,
perché gli uomini vivono in società e non vivono isolati o con rapporti occasionali, le cui regole
cioè sono stabilite occasionalmente e non con regolarità. Il secondo corno del problema
dell'ordine ha invece una formulazione esclusivamente interna al terreno politico: c'è un ordine
propriamente politico, oppure l'ordine politico deriva da altri ordini, è il prodotto, il fenomeno,
il deposito di altri ordini, come quello della natura, o l'ordine prescritto dal Signore, o l'ordine
dettato dalle leggi dell'economia o dell'evoluzione sociale.
Vedremo nel prossimo paragrafo i modelli di risposta a tutte queste domande: il modello
aristotelico, quello hobbesiano e generalmente contrattualistico, poi le variazioni di Hegel e di
Marx e di altri. Dapprima tuttavia cerchiamo di definire la nozione di ordine nel suo significato
più astratto, che valga, per quanto, può valere, tanto per l'ordine interno, quanto per quello
internazionale o mondiale.
L'ordine, nella sua nozione analitica generica, indica che vi è una qualche regolarità nella
convivenza degli attori politici. In realtà quando parliamo di ordine, specie politico, intendiamo
qualcosa di più di un pallido schema di regolarità; la nozione ha un significato più intensivo e
pregnante, contiene alcune qualità. Ovvero noi intendiamo con ordine una qualità delle entità
politiche specifica ad esse, e capace di autostabilizzarsi, cioè di riprodursi fin quando ci saranno
i problemi da cui l'ordine si genera. Riconoscere questa qualità di autostabilizzazione all'ordine
non vuol dire naturalmente implicare che l'ordine sia di per sé atemporale, eterno.
Qualità del concetto politico di ordine (anch'esso ha in verità status analitico, ma lo
chiameremo per brevità politico) sono quelle di consistere non in una regolarità qualsivoglia,
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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ma in uno schema di regolarità che promuove scopi, produce ed osserva regole e lo fa tramite
strumenti specifici che sono le istituzioni; scopi, regole, istituzioni. (In queste lezioni mi
appoggio molto ai teorici delle relazioni internazionali, in particolare al libro ormai classico di
Hedley Bull, The Anarchical Society, New York 1977, che non condivido del tutto, ma che è un
grande libro, pur non essendo stato mai tradotto per la miopia degli editori italiani e dei loro
consulenti. L'altro autore al quale mi appoggio è un collega prima di Harvard e ora di Duke
University, Robert Keohane, soprattutto per International Institutions and State Power, Boulder
1989.)
Gli scopi principali che un ordine politico promuove sono la preservazione della vita, il
contenimento della violenza, l'osservanza dei patti, e, ad un livello evolutivo superiore, la
garanzia della proprietà e la garanzia di un benessere minimo. Non si tratta di un coerente e
consapevole finalismo: è piuttosto come se gli individui umani, od anche - in misura e forme
diverse - gli Stati agissero sempre con piena coscienza di quello che fanno e di dove vogliono
arrivare, è come se per conseguire questi scopi gli individui si accordassero per instaurare un
ordine, come se l'ordine fosse funzionale, interno al complesso di scopi che sono, anche per una
concezione non teleologica della politica, gli scopi immanenti ad ogni consociazione politica.
Non c'interessa qui sapere quanto questa finzione del `come se' sia distante dalla realtà, e quanto
l'ordine non sia piuttosto il risultato cieco ed inconsapevole, o magari controintenzionale, di
azioni umane che non sono ad esso rivolte. Si può fare filosofia politica anche senza risolvere
questa questione di filosofia della storia; del resto è probabile trattarsi di un cospirare di azioni
finalizzate all'ordine con altre estranee a questa intenzione. È invece giusto sottolineare che,
essendo il finalismo proprio dell'agire umano, non c'è da meravigliarsi che esso si ritrovi anche
nell'agire politico e nei suoi prodotti, pur avendo noi escluso la finalità dalla nostra definizione
della politica. Questa esclusione riguardava ogni fine storicamente concreto, pertinente ad una
particolare concezione o pratica della politica, assumere il quale nella definizione avrebbe reso
questa non abbastanza estensiva. Gli scopi dei quali parliamo a proposito di ordine sono un
minimo comun denominatore, qualcosa che ogni politica, indipendentemente dai suoi contenuti
e visioni, non può in qualche modo(è una rilevazione fattuale, non una prescrizione) non
perseguire.
Qualcuno va più in là e dice che lo scopo fondamentale della politica è quello di produrre la
pace. Questa è la tesi - antischmittiana - di uno scienziato politico tedesco della generazione fra
Weimar e Bonn, Dolf Sternberger. È un rappresentante della teoria politica liberale tedesca nel
senso conservatore, non certo un uomo di sinistra. Non possiamo discutere qui la proposta di
Sternberger, ma possiamo reinterpretarla osservando che ogni potere, in quanto potenza
superiore che distribuisce a suo modo le risorse e in quanto monopolio della violenza, tende per
corollario a ridurre la frequenza dei conflitti e a renderli meno cruenti, imponendo una certa
regola che viene almeno per un certo tempo osservata.
Il concetto di ordine fin qui esposto esprime alcune caratteristiche di base dell'associazione
politica, quali risultano ad un osservatore che ne osservi le regolarità. Si parla a suo proposito
anche di ordine minimo. La sua importanza per la convivenza politica è che esso stabilizza le
attese degli attori, riducendo l'incertezza su vita e beni propri, della propria comunità ed anche
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Filosofia politica. Un’introduzione
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dei propri discendenti. Questo risultato può essere in qualche misura già conseguito con la mera
regolarità dell'accadere in quanto cospirante a quegli scopi. In questo senso ordine - si diceva non è dunque contrapposto ad anarchia, bensì ad irregolarità, caos. Più concretamente è vero
che, perché quegli scopi vengano consistentemente raggiunti, è necessaria per lo più la presenza
di un qualche potere comune riconosciuto. In ogni caso l'ordine (minimo) attinge, per
instaurarsi e consolidarsi, ad una potente risorsa soggettiva o motivazionale: esso contiene,
canalizza, regola quella grande radice antropologica della politica che è la paura sia per vita e
beni, sia per la generica, ma minacciosa, incertezza di un mondo presente e futuro troppo
variabile per ispirare fiducia in se stessi e negli altri. Per ridurre la paura, o distribuirla in modo
funzionale alla conservazione dell'associazione è necessario - dice la teoria sistemica della
società (Luhmann, in Italia Zolo) - ridurre la complessità dell'ambiente (sociale,
prevalentemente). Paura, fiducia e soprattutto - nel linguaggio proprio della filosofia politica sicurezza sono le categorie che definiscono la funzione ed il significato di quella di ordine.
(Notiamo a margine che il rapporto con l’antropologia, sia filosofica sia culturale, è uno dei
capitoli nel Novecento meno esplorati, eppure potenzialmente più produttivi della filosofia
politica.)
Riprendiamo ora l'analisi delle caratteristiche di quest'ultima. L'ordine politico - si diceva produce, osserva e fa osservare regole, che possono essere messe in una qualche sequenza
evolutiva nel senso che le une vengono prima, poi le altre derivano dalle prime; ma non bisogna
prendere questa cosa troppo rigidamente. Le prime regole che si possono riscontrare sono
quelle operative, che semplicemente configurano una regolarità dovuta a motivi pragmatici e
d'utilità nel comportamento politico degli attori; uno dei passi successivi delle regole operative
è la trasformazione in regole formalizzate, giuridiche. Non bisogna illudersi che questa sia
l'unica spiegazione della nascita delle regole giuridiche, essendovene delle altre; così come non
è vero che sempre le regole nascono prima come operative, poi divengono legali e poi, dicono
alcuni, alla fine morali. Questo schema può andar bene per certi periodi, mentre oggi non pare
che le regole morali che hanno qualche effetto sull'ordine politico nascano da questa sequenza
genetica (operative - legali - morali), che presa come l'abc della regolarità e dell'ordine è una
banalità fastidiosa. Inoltre, va ricordato che in ogni caso aver rintracciato la genesi di una regola
non equivale ad un giudizio sulla sua validità, per frequente che sia la confusione fra genesi e
validità
Infine abbiamo detto che l'ordine politico suole funzionare tramite istituzioni. Non si
equivochi: le istituzioni, parlandone a questo livello astratto, non sono lo Stato, la magistratura
o l'O.N.U. Le istituzioni politiche aventi forma giuridicamente definita sono solo un punto
d'arrivo. Io cerco di saldare una definizione di istituzione che gira nella scienza politica
americana con alcune integrazioni non secondarie riprese dalla tradizione continentale,
soprattutto tedesca.
L'istituzione si può considerare un insieme di regole di comportamento che è persistente nel
tempo (non dura una giornata, ma si protrae nel tempo). È un insieme interconnesso, le cui
regole configurano nel loro intreccio una trama di orientamento dell'agire che non sia
contraddittoria, che non lasci spazi vuoti, che provveda a regole per interi settori dell'agire
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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sociale e politico. E l'insieme dev'essere dotato di senso. Questa è la definizione,
necessariamente complessa, che io darei di `istituzione'. Ora vediamone qualche delucidazione
e corollario.
Le regole di comportamento configurano un'istituzione quando esse pongono limiti
all'attività dicendo: fino a qui sì e oltre no, vai da questa parte e non da quell'altra, prendi questa
linea d'azione e non un'altra, e quando definiscono le attese; questo è molto importante. Non
configurano solo il nostro agire immediato, ponendovi limiti, ma contribuiscono a definire
l'intero campo visivo del nostro agire come individui e soggetti collettivi. Ci permettono di
stabilizzare le nostre attese, perché sappiamo che, se un agire è istituzionalizzato, noi ci
comporteremo così, quegli altri si comporteranno in quel modo e faranno questo anche fra due
anni, oppure anche in quest'altra situazione, e se non si verificherà nessuna delle situazioni
previste, ci sarà comunque, nelle regole di cui si nutre un'istituzione, una meta-regola che dirà
come agire nel caso in cui le regole presenti non bastino.
È bene precisare il modo in cui le istituzioni definiscono le attese: non definiscono solo cosa
mi posso aspettare, ma mi dicono insieme in che modo intenderò io (e gli altri) i ruoli, cioè
definiscono il significato, mi fanno sapere in anticipo quali saranno le possibili motivazioni
dell'agire di questo o di quell'altro, e quindi come eventualmente, in base a quella motivazione,
quell'agire cambierà cambiando la situazione. Oltre a definirmi il significato dei ruoli e delle
motivazioni, le istituzioni definiscono il significato degli interessi in gioco, cioè l'intero campo
di significati entro cui si iscrive la specifica, concreta attesa di questo o di quest'altro
comportamento. Definendo in tal modo il nostro campo visivo sociale e politico, le istituzioni
influenzano gli incentivi a cui io come singolo e come Stato sono sottoposto; incentivi in senso
doppio: puoi aspettarti un premio se fai questo e un incentivo negativo, cioè una sanzione, se fai
quest'altro.
È corretto, prima di procedere oltre, ricordare che le definizioni fin qui date non sono
assolutamente specifiche della politica, adeguandosi anche ad altri campi dell'agire sociale. Per
`ridurle' alla specificità della politica, si può aggiungere: regole che influenzano o determinano
l'agire rivolto in modo diretto (per la sua conquista) o indiretto (l'agire che Weber chiama
`politicamente orientato') al potere politico. Dobbiamo inoltre riconoscere, pur non restringendo
le istituzioni a quelle legali, che quelle regole assumono sempre più estesamente il carattere di
regole giuridiche: ciò in forza delle crescente giuridicizzazione e statualizzazione della vita
politica moderna, perfino ormai di quella internazionale.
Veniamo ora al punto che è forse il più difficile: un insieme - si è detto nella definizione - di
regole dotato di senso. Perché le istituzioni facciano ciò che si è detto, non basta che come
insieme di regole persistano nel tempo e siano interconnesse, ma esse devono altrettanto
risultare comprensibili e significative agli attori. Per agire in un campo definito dalle istituzioni
non mi basta sapere che le istituzioni ci sono e ci saranno e che le loro regole più o meno sono
stabili; devo riconoscere ad esse un senso, una partecipazione al significato più complessivo che
come individuo o come comunità do al mio agire, alla mia vita futura in rapporto a quella
passata; senso che è definito dalla concezione del mondo, dai valori e dallenorme cui faccio
altrimenti riferimento. Questo va detto per capire perché le istituzioni non possano essere
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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inventate a tavolino con criteri meramente razionali (utilitaristici o deontologici o che altro) e
poi trasportate senz'altro in un contesto concreto. Per esempio una potenza occupante, coloniale
o no che sia, può inventare le migliori regole per riordinare un paese, ma essendo tali regole
estranee alla cultura sociale e politica di quella popolazione, non sarà facile che vengano
davvero condivise e divengano effettive. Oppure: nell’integrazione europea, occorre sempre
chiedersi come le regole “inventate” dalle elites nazionali e sovranazionali che a quel processo
danno forma possano entrare in risonanza con il mondo di significati (valori, tradizioni,
memorie) che le varie popolazioni hanno in mente.
La riconnessione delle istituzioni al tema del senso non si capisce se non tirando in ballo quello
che si vedrà meglio discorrendo della categoria di legittimità e di quanto attiene al ruolo del
linguaggio simbolico, specificamente in politica (v. § 12).
11. Modelli di ordine politico
Si considera tradizionalmente che vi siano nella storia della filosofia politica due grandi
modelli concreti di ordine politico; in realtà si potrebbe forse parlare di tre o quattro. I modelli
rispondono tutti a queste domande: perché c'è ordine nelle comunità politiche e non caos?
Perché dentro alle comunità politiche ci sono rapporti di convivenza e cooperazione e non di
isolamento e lotta di tutti contro tutti, come avviene (ma non è poi - si vedrà meglio oltre - del
tutto vero) tra quelle altre comunità politiche che sono gli Stati?
Il primo modello dell'ordine lo abbiamo in verità già esposto sopra ed è il modello
aristotelico. Ne ricordo alcune caratteristiche generali che sono il finalismo e l'organicismo, che
riguarda tanto la genesi che lo sviluppo di questo ordine, per cui le comunità di ordine superiore
nascono e si sviluppano naturaliter, organicamente dalle comunità di ordine inferiore (dalla
famiglia al villaggio, e di qui alla polis). Si tratta di un organicismo relativo all'ordine
gerarchico delle comunità, problema rispetto al quale il pensiero aristotelico è quello che il tutto
precede logicamente e assiologicamente le parti, e quindi il tutto polis sta sopra alle comunità
inferiori e a fortiori agli individui. Se un ordine è naturale e organico, la rottura di questo ordine
o le deviazioni da esso non possono essere considerate altro che patologie, malattie.
Queste sono caratteristiche generali e finali dell'ordine aristotelico. Una sua condizione a
monte è quella dell'ineguaglianza dei membri di quest'ordine, cioè degli uomini;
un'ineguaglianza economica ma soprattutto antropologica, per cui le donne per un verso,gli
schiavi ed i meteci (lo straniero libero residente) per un altro, sono esclusi dalla partecipazione
autonoma all'ordine della polis.
L'altro grande modello, che è quello che ancora adesso domina la scena, è il modello
hobbesiano o giusnaturalistico.17
17
Per chi fosse interessato ad approfondire queste cose, la lettura più adatta è Norberto Bobbio Michelangelo Bovero, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore. Il saggio di Bobbio
sul modello giusnaturalistico è assolutamente magistrale, ma non c'è un saggio sul modello aristotelico.
Per questo si può vedere la voce Politica scritta da S. Veca per l'Enciclopedia Einaudi.
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I presupposti del modello hobbesiano o giusnaturalistico (ma io preferisco dire:
contrattualistico) sono che gli individui sono separati fra di loro, non ci sono rapporti organici
che li mettano assieme; che sono irriducibili, cioè l'individuo è l'ultimo e ineliminabile membro
dell'ordine sociale; che tali membri sono antropologicamente uguali; e che essi sono liberi, cioè
non sono forzati da volontà divine o leggi naturali a mettersi in società, ma che, essendo gli
individui liberi, proprio questa caratteristica è quella che più li minaccia. Infatti la libertà, che fa
di ogni individuo un essere sovrano che ha diritto a tutto, è ciò che crea il conflitto radicale ed
ineliminabile fra gli individui stessi, quando i beni da dividere sono scarsi. Ciò che tiene
assieme gli individui hobbesiani non è la natura, ma è un atto di volontà e cioè la creazione
artificiale di un ente che imita la natura, ma che naturale non è. È il Leviatano, il mostro biblico
a cui Hobbes ha dedicato la sua più matura opera politica. Nell'illustrazione che si trova
nell'edizione originale (1651) esso è un uomo artificiale, è un sovrano con lo scettro e la corona,
fatto di tanti ometti.
Anche il modello hobbesiano è apparentemente naturalistico, o meglio è materialistico; ma
in realtà la natura di Hobbes non è la natura di Aristotele, è una natura già “astratta”, propria del
modello meccanicistico della filosofia e della scienza del Sei-Settecento. La natura è una
macchina, e quindi il paradigma dell'ordine hobbesiano, anche se i termini di riferimento sono
quelli del corpo umano, in realtà è più la meccanica che la medicina, come era invece per
Aristotele.
L'ordine politico di tipo hobbesiano è meglio detto contrattualistico, in quanto nato da un
contratto, da un atto che gli individui fanno fra di loro, consistente nel rinunciare alla pienezza
dei loro diritti e nel deferirli, soprattutto quello di usare la forza nella regolazione delle loro
controversie, ad un ente che si chiama il sovrano, che può essere un re o un'assemblea. Il
termine `giusnaturalistico' riguarda la premessa, cioè che gli uomini hanno dei diritti naturali a
cui devono parzialmente rinunciare per potersi associare volontariamente nell'ordine politico,
che viene creato per tutelarli; laddove per Locke alcuni di questi diritti sono indisponibili
rispetto all'ordine politico stesso.
L'idea di Hobbes è che l'ordine politico si costituisce ed è contrapposto o sovrapposto per
un verso allo stato di natura, per un altro verso alla stessa società civile, che per Hobbes è fuori
dallo Stato, ma è anche resa possibile dallo Stato: il fatto che la gente si associ e faccia i suoi
traffici non fa parte della vita dello Stato, visto che allo Stato non spetta di promuovere queste
cose e spetta piuttosto di non interferire in esse. Tuttavia la società civile è resa possibile dal
fatto che non vi sono più guerre fra gli individui, perché regna l'ordine garantito dal sovrano.
Come si vede, in Hobbes c'è un rapporto stretto fra ordine e conflitto, l'ordine nasce non
dall'organicismo della natura, ma dalla conflittualità, ed è una risposta alla conflittualità.
Il modello spaziale dell'ordine hobbesiano non è quello dei cerchi concentrici disposti su un
piano orizzontale, delle varie comunità aristoteliche, ma è un modello verticale, precisamente il
modello di alto-basso. Nella politica moderna, con l'emergere vigoroso e definitivo della
categoria di potere, cambia la struttura spaziale dell'ordine politico, come dice anche Giovanni
Sartori (La politica, Milano 1979, p.193). Se l'ordine hobbesiano è una risposta al conflitto, ciò
vuol dire che la politica è per sua definizione al riparo da questo conflitto, cioè al di sopra della
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disuguaglianza economica e delle sue possibili conseguenze conflittuali purché, e questo è un
ulteriore punto caratterizzante, si intenda che nel modello hobbesiano stretto la politica è
identica con lo statuale, cioè la sfera della politica coincide con la sfera della statualità.
La prestazione, la performance del politico (= statuale) è quella di produrre leggi di contro
alle fazioni e agli interessi, per mantenere l'ordine verso l'interno, e di produrre potenza e
vigilanza verso l'esterno, verso gli altri Stati. Nel modello hobbesiano non c'è un'eguale
funzione di ordine (come contrario di anarchia) nella politica interstatale, perché Hobbes non
vede ragioni sufficienti per ipotizzare, nei rapporti fra gli Stati, le stesse impellenti necessità di
porre termine al conflitto e di stabilire un ordine che si trovano nello stato di natura dei rapporti
individuali. La ragione è quella che si dice nel cap. 13 del II libro del Leviathan: è vero che i
sovrani, gli Stati fra di loro sono in inimicizia tanto quanto gli individui, e stanno fra di loro
nell'atteggiamento di gladiatori, ed in più si mandano spie per sorvegliarsi. Ma poiché ciascuno
Stato sostiene l'attività economica e produttiva dei suoi sudditi, la condizione di questi sudditi
non è tanto miserabile da richiedere una rinuncia al conflitto e quindi alla libertà di ciascun
singolo Stato. L'altra ragione, ipotizzata da Bobbio, è che mentre tra gli individui ciascuno,
anche il più debole, può privare della vita il più forte sorprendendolo nel sonno, così non è fra
gli Stati: lo Stato più debole non può distruggere il più forte e quindi non c'è fra gli Stati quella
generale e radicale paura della morte che c'è invece fra gli individui, paura che tra gli individui
tutti sentono, mentre gli Stati più grandi e più forti e vigilanti non hanno bisogno di sentirla. C'è
una terza ragione: mentre se un individuo muore nella guerra di tutti contro tutti, lì finisce la sua
storia, fra gli Stati se uno Stato muore, cioè se un sovrano viene radicalmente sconfitto, muore
lui come ente politico, muore lo Stato che egli rappresenta, ma non muoiono gli individui,
perché gli individui semplicemente vengono sciolti dall'obbligo di lealtà nei confronti di un
sovrano che non ha fatto il suo mestiere, quello di garantire la protezione. Dunque i sudditi di
un sovrano sconfitto non hanno altro da fare che sottomettersi al sovrano vincitore, il quale
garantirà loro più efficientemente l'ordine e sosterrà la loro attività economica.
Per anticipare un tema che svolgerò più avanti: si può pensare oggi che questa ragione
hobbesiana per la mancanza di un ordine internazionale esplicito e legittimo non valga più,
perché in un universo di Stati dotati di armamenti nucleari strategici, ciascuno di essi, non solo
le superpotenze, possono infliggere agli altri danni insopportabili. Ne deriva quella cosa che
tutti in teoria sanno, e cioè che non si possono più fare guerre, potendo queste prevedibilmente
portare ad un conflitto nucleare; oppure che bisogna addirittura istituire un ordine
internazionale nella forma di governo internazionale, prospettiva che cambia completamente la
veduta hobbesiana della politica fra gli Stati.
Veniamo adesso ad alcuni modelli diversi ed indipendenti da quelli che ho appena esposto,
pur non essendo tali da costituire altrettanti modelli complessivi dell'ordine (almeno così si
pensa oggi; trent'anni fa quello `dialettico', hegeliano o marxiano, sembrava esserlo). Una delle
varianti sta nel non considerare l'ordine politico come ordine supremo, ovvero nel non
considerare il politico come l'unico garante dell'ordine. Abbiamo qui il modello genericamente
illuminisico: la“storia naturale”, tanto della natura comedelle società, produce la ricchezza
delle nazioni e quindi un progresso che, attraverso lo sviluppo dell'industria e del commercio,
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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riesce in qualche misura a riequilibrare le diseguaglianze sociali, per esempio attraverso
l’oculata e provvidenziale divisione del lavoro fra gli individui e fra le società. In questo
modello, che è quello dell'illuminismo inglese e scozzese, e soprattutto di Adam Smith (Inquiry
into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776), le funzioni dell'ordine sociale sono
compiute soprattutto dalla `mano invisibile' che noi dobbiamo supporre regga i fili dei rapporti
commerciali, politici e quant'altro, in maniera che dallo scontro/incontro dei diversi interessi
singoli e particolari nasca il benessere collettivo. Ricordiamo ancora che l'eco dell’idea
illuministica di una storia naturale che avvia a soluzione non trascendente (religiosa) né politica
i problemi dell'umanità si ritrova in qualche misura nelle idee industrialistiche e positivistiche
(fino al socialdarwinismo) dell'Ottocento, le quali vedono nel progresso inarrestabile
dell'industria e della scienza (materialistica, antimetafisica) la garanzia della futura libertà dalla
miseria, dall'ignoranza e dall'inconcludenza della politica (la `riforma sociale'); mentre nella
cooperazione-competizione commerciale starebbe il sostituto progressivo della guerra, tanto più
dove i limiti liberali al potere statuale e la potenza della società civile sono capaci di imbrigliare
la disposizione degli Stati alla guerra (Montesquieu, Cobden).
Un'altra idea che diminuisce l'importanza del politico come unico ed incontestato
dispensatore di ordine è l'idea kantiana della pubblicità, della Öffentlichkeit: cioè l'idea che i
cittadini indipendenti, e soprattutto gli intellettuali, debbano e possano esercitare una funzione
di limite della politica, che consiste nel non accettare le mosse o le leggi che non possono essere
sostenute di fronte alla generalità del pubblico. Questo chiaramente non è un modello
indipendente, perché è una modificazione importante di quello giusnaturalistico e poi diventa grazie a quest'idea della limitazione della politica attraverso la funzione di critica e di controllo
del pubblico - un elemento essenziale dell'ordine liberal-democratico, il quale rinvia per le sue
radici al contrattualismo.
Invece l'idea del contratto viene toto coelo respinta in quanto artificiosa ed inutile da parte
di un'altra dottrina che mira a limitare l'importanza del politico: è l'utilitarismo,18. L'utilitarismo
considera che gli individui sono già di per sé, nella loro pluralità, trattabili come un unico
individuo, assumendo che l'utile, in base al quale orientare le azioni,consista nelle utilità
aggregate di tutti gli individui componenti una società. Nell’utilitarismo originario la radicale
primazia dell’utile aggregato esclude ogni presenza e rilievo dei diritti fondamentali.
È più difficile classificare Hegel: per un verso c'è in Hegel (Grundlinien der Philosophie
des Rechts, 1821, tr. it. Lineamenti di filosofia del diritto) un'idea di tipo aristotelico, cioè l'idea
che famiglia, società civile e Stato siano tutti svolgimenti organici dell'idea in quella sua fase di
sviluppo che Hegel chiama lo spirito oggettivo. Solo che il rapporto tra questi livelli di
associazione non è di continuismo organico, ma è di negazione della particolarità e
superamento di ciascun livello nel livello superiore e più comprensivo, per cui la famiglia e la
società sono sfere inferiori che sono assorbite e negate nello Stato.
Hegel ritiene, in maniera diametralmente opposta ai liberali britannici o americani, che la
18
Si trova in Bentham (An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789) ma già prima
in qualche misura in Hume (io non considero Hume il fondatore dell'utilitarismo, ma certamente in lui ci
sono elementi che creano l'ambiente mentale dell'utilitarismo).
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società civile non sia assolutamente in grado di governarsi da sola, e che anche quel tanto di
autogoverno che essa può esprimere, le funzioni che Hegel chiama di polizia e di ordinamento
della vita economica e sociale, che oggi noi siamo abituati a considerare funzioni dello Stato e
che Hegel attribuiva alla società civile, non siano per nulla sufficienti a garantire l'ordine, e
tanto meno a conferire senso ad un nesso politico che può richiedere ai cittadini il sacrificio
della vita. Egli pensa che l'atomismo e l'egoismo degli individui e delle loro comunità sono
irriducibili, e producono cascami inquinanti, per esempio il pauperismo; finché non compare il
supremo ordinatore che è lo Stato, l'unico garante della vita etica, o meglio l'unico garante
dell'ordine come elemento della vita etica degli individui stessi; pertanto anche l'unico a poter
chiedere loro il sacrificio della vita.
Lo Stato per Hegel è il supremo ordine, perché è la pienezza dell'ordine etico, perché è nella
sovranità dello Stato e specificamente del principe che questa pienezza si concreta; una
pienezza che non ha limiti, se non quelli interni alla sua stessa ratio, iscritti nel diritto. Più
precisamente il limite posto allo Stato è che si tratta pur sempre di un momento dello spirito
oggettivo, e al di sopra dello spirito oggettivo lo spirito corre un ulteriore percorso, quello dello
spirito assoluto e quindi vi sono forme della vita spirituale (la religione, l'arte, la filosofia) che
sono più piene, più ricche, più complete, più assolute che non lo spirito oggettivo, che non lo
Stato.
L'ordine fra gli Stati per Hegel è un ordine fra i popoli, che negli Stati si danno forma
istituzionale, ed è un ordine etico attraverso non la pace, ma la guerra: la guerra è ritenuta da
Hegel un momento di scontro tra le volontà degli Stati, non fra le passioni degli individui, tanto
che Hegel celebra come una conquista morale la scoperta dell'arma da fuoco perché è solo con
l'arma da fuoco, dice Hegel in un passo abbastanza noto, che il soldato combattente non uccide
il suo nemico in un corpo a corpo in cui si scatenano odi, ma lo uccide impersonalmente, senza
manifestazione di odio o senza la sanguinosità del corpo a corpo, cioè come mera incarnazione
della volontà politica e quindi della sostanza etica dello Stato di cui l'individuo è membro.
Un ordine che solo per gli aspetti filosofici complessivi deriva da quello hegeliano, ma che
per gli altri aspetti ne è del tutto diverso, per non dire contrario, è quello studiato e previsto dai
classici del marxismo, Karl Marx e Friedrich Engels19. In essi si trovano sia temi scientifici e
analitici a base empirica, sia previsioni ed auspici sul futuro corso delle cose. Qui ritroviamo in
certa misura la posizione, per quanto riguarda il rapporto tra politica e società, che era stata
propria della filosofia politica e sociale del Settecento: l'ordine politico non ha né autonomia né
superiorità rispetto all'ordine sociale, anzi ne è il riflesso, in quanto l'ordine politico è la
sovrastruttura dell'elemento di base, il modo in cui di volta in volta gli uomini e le società
regolano il `processo sociale di vita' (è un termine marxiano).
Marx è un po' diverso dal modo in cui i suoi detrattori per un verso e molti dei suoi seguaci
per un altro l'hanno presentato: l'ordine politico, sulle cui caratteristiche non c’è in Marx ed
Engels una riflessione sistematica ed approfondita, non è riflesso dell'`economia', ma dell'ordine
sociale, del modo in cui gli uomini regolano il complesso della loro esistenza in società, di cui
19
Oltre alla opere menzionate più avanti, si veda Il manifesto del partito comunista, 1848; Prefazione
(1859) a Sulla critica dell'economia politica; e de Il capitale soprattutto il primo volume, 1867)
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certo il modo di regolare la produzione e la riproduzione materiale è l'elemento chiave. Il punto
è che l'ordine sociale come lo vedono Marx ed Engels è quello di essere stato finora un ordine
cieco, non previsto né voluto dagli uomini, ma prodotto dalla storia, la storia delle società di
classe che è solo la preistoria di una storia veramente umana. La storia degli uomini fino adesso
ha le stesse caratteristiche della storia naturale, ovvero è una storia naturale della società: due
caratteristiche principali sono quella di essere sottoposta a sue leggi, e quella che queste sue
leggi sono cieche, si affermano al di sopra e al di là delle teste degli individui, anche se sono
ricostruibili ex post dallo scienziato sociale.
L'altro elemento di questo ordine sociale è quello che esso è un ordine autocontraddittorio e
quindi autonegantesi per la forza stessa delle sue intime contraddizioni: la contraddizione
fondamentale, sempre ripetuta e sempre in termini diversi, è quella fra le forze produttive, cioè
tutto ciò che di materiale e di intellettuale produce la ricchezza di una società, e i rapporti di
produzione, cioè l'ordinamento che di volta in volta viene dato alle relazioni fra gli uomini
dentro alla produzione, non solo dei beni, ma della vita sociale nel suo complesso. La
contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive ed i vecchi rapporti di produzione, gli
ordinamenti economico-sociali e politici, questa contraddizione è quella che in ogni società
provoca lotte, il dilaniarsi e alla fine lo sciogliersi dei vecchi rapporti di produzione in una
nuova forma.
Due sono dunque nel marxismo classico le caratteristiche dell'ordine sociale: quello di
essere cieco e naturale e quello di essere autocontraddittorio e autonegantesi. Per un verso
l'ordine politico non costituisce un problema a sé, è un riflesso `ideologico' dell'ordine sociale,
per un altro verso esso ha una sua specificità: in particolare c'è una specificità dello Stato. Per
Marx ed Engels la forma più elementare in cui si differenzia e organizza la società è quella della
divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale; non è una divisione puramente tecnica, ma
del più grande impatto ed effetto sociale, in quanto diventa in realtà la divisione tra chi pensa,
dirige, coordina, interpreta la nostra vita associata, insomma il ceto dirigente e intellettuale, e i
lavoratori manuali, che sono quelli che non solo lavorano manualmente, ma eseguono le
direttive di chi comanda e coordina.
La divisione tra lavoro manuale ed intellettuale è per Marx ed Engels la fonte: a)
dell'ideologia, b) della genesi dello Stato.
Ideologia in Marx ha un significato preciso, vuol dire la falsa coscienza che una società ha
di se stessa, mentre nell'uso corrente intendiamo per ideologia la dottrina che corrisponde agli
interessi e al potere di un certo gruppo sociale o politico, cioè le dottrine in quanto riferite alla
loro origine sociale o sociopolitica. Lo Stato nasce dal fatto che in società a lavoro diviso, che
per produrre ricchezza non possono altro che dividersi in maniera sempre più articolata il
lavoro, esiste il bisogno di ricomposizione delle divisioni, quella che Marx ed Engels
nell'Ideologia tedesca, chiamano bisogno di cooperazione in termini generalissimi. (L'Ideologia
tedesca è un testo scritto da Marx ed Engels nel 1845-46, ma non pubblicato fino al 1928.)
Col bisogno di ricomporre le loro attività divise si profila di fronte agli uomini ciò che viene
chiamato un interesse generale, per cui la necessità di un'istituzione, di un'autorità che lo
rappresenti. Lo Stato è e non è rappresentante e tutore dell'interesse generale: lo Stato è per
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Marx ed Engels quell'ente, quell'istituzione che di volta in volta la classe dominante ha costruito
e imposto ai dominati, qualcosa che è insieme risposta all'esigenza generale di ricomposizione e
soddisfazione dei suoi propri interessi particolari di classe dominante.
Lo Stato è la macchina organizzativa e repressiva della società divisa in classi che si
appropria dell'esigenza generale di una ricomposizione, di un coordinamento della società e lo
afferma nella versione di volta in volta pertinente agli interessi particolari della classe
dominante. Lo sottolineo, pur non potendo qui citare i testi, per far piazza pulita delle
definizioni volgarmarxiste dello Stato come una macchina nata esclusivamente a fini repressivi,
oppure dello Stato come imposto in base all'invenzione o alla finzione di un interesse generale.
Queste sono spiegazioni volgarmarxiste perché fanno dello Stato o dell'ordine politico una
specie di esito propagandistico inventato dai dominanti. Marx non era né rozzo né elementare, e
ci ha dato una spiegazione più complessa della nascita e dell'affermarsi dello Stato, giocata sulla
presenza di un effettiva esigenza di ricomposizione della società.
Al problema dei rapporti interstatali da questo punto di vista Marx ed Engels non dedicano
molta attenzione. Gli dedicano una attenzione analitica, perché erano tutti e due abbastanza
esperti di politica internazionale, ed Engels era per suo hobby intellettuale un esperto di politica
militare e di strategia; del resto aveva combattuto nelle armate rivoluzionarie del '48 ed era,
nella coppia dei fondatori del marxismo, il `generale', mentre Marx veniva chiamato il `moro'.
Per loro in realtà i rapporti fra gli Stati sono i rapporti tra le loro classi dominanti, e le lotte che
si compiono sono il riflesso o sottoprodotto delle borghesie nazionali.
La politica marxiana ed engelsiana non si ferma qui: ha una parte predittiva e non solo
analitica, una parte che altri chiamano profetica;ancorché Marx ed Engels non avrebbero
accettato di essere definiti profeti. La loro predizione è che quest'ultima società di classe, in cui
loro vivevano e cioè la società borghese capitalistica, abbia anch'essa le sue contraddizioni
all'interno; ma questa volta, quando le contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti di
produzione borghesi che essa vuole perpetuare scoppieranno, non si avrà la nascita di una
nuova società di classe - non avverrà come al passaggio dal feudalesimo al capitalismo, in cui la
borghesia capitalistica ha per un verso sostituito al potere il ceto feudale ed assolutistico, e per
altro verso, rivoluzionando lo Stato, lo ha però rafforzato e reso più repressivo, adeguando la
sua macchina al governo dei nuovi dominati,cioè del proletariato. L'idea di Marx e di Engels è
che la società borghese sia l'ultima società di classe, nel senso che dopo non ci sarà più una
società di classe, bensì una società in cui saranno i produttori stessi a regolare i propri rapporti,
associandosi liberamente gli uni con gli altri. Questo ordine sociale non avrà più bisogno di
ordine politico perché l'ordine politico, ed in particolare lo Stato, per Marx ed Engels è
concepibile solo come prodotto della divisione di classe. Se la divisione di classe non c'è più,
non c'è più l'ordine politico, lo Stato deperisce e si estingue.
Resta solo - Marx lo sottolinea 20ma non abbastanza, e i marxisti spesso se lo sono
dimenticato - l'esigenza che la distruzione che la rivoluzione anticapitalistica farà dello Stato
come macchina repressiva non cancelli le funzioni di centralizzazione, prevalentemente
tecniche, di una società complessa come è già ai tempi di Marx la società industriale, e ai nostri
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tempi quella postindustriale. Queste cose si possono fare benissimo con accordi e
regolamentazioni all'interno della società, senza bisogno di costruire una macchina
organizzativa sovrapposta e contrapposta alla società qual è stato finora lo Stato. Questo perché
nella società senza classi l'ordine sociale sarà contraddistinto da alcune cose fondamentali:
l'assenza di conflitti antagonistici, che è tanto quanto dire di conflitti fra classi contrapposte e, in
una fase suprema della società comunista, il pieno sviluppo della individualità, reso possibile
per un verso dalla costituzione antropologica (Gattungswesen, essere generico, di genere, nel
senso filosofico del genus, non in quello presente di gender) dell'uomo, per un altro verso dal
grado grandioso di ricchezza che gli uomini raggiungeranno, una volta che saranno liberati
dalle pastoie proprie delle società di classe. Nella prospettiva di un ordine sociale senz'ordine
politico, che anzi si regge ancora meglio grazie alla mancanza di un ordine politico, Marx
proietta un valore predominante della filosofia illuministica, e cioè il pieno sviluppo della
individualità umana (per la verità gli illuministi lo vedevano soprattutto come un problema di
regole, salvo quei pochi illuministi che lo vedevano in maniera utopica, per esempio Charles
Fourier). Per un altro verso Marx toglie da questa sua prospettiva uno dei presupposti necessari
per pensare un ordine politico, ed è la presupposta scarsità dei beni: un ordine politico si rende
necessario quando ci sia un conflitto distributivo al quale dare regole. Se non c'è questo, se c'è
l'assoluta pienezza e l'assoluta possibilità di attingere quasi indefinitamente a questa ricchezza
da parte degli individui, è facile capire come nella società comunista l'ordine politico si renda
superfluo.
* * *
Questo capitolo riguardante i modelli di ordine politico non può chiudersi senza che venga
tematicamente chiarito quel concetto di conflitto che abbiamo visto continuamente interagire
con quello di ordine, e che nel linguaggio scientifico ha ormai sostituito quello di lotta usato
ancora da Marx edda Max Weber.
Per conflitto si intende quella relazione sociale in cui si agisce con il consapevole proposito
di affermare le proprie scelte contro la resistenza di altri; i mezzipossono essere pacifici o no,
ciò che esclude la frequente equazione colloquiale conflitto = scontro violento, guerra, questo
essendo solo uno dei tipi possibili di conflitto. Questa definizione è molto simile a quella che di
lotta dà Weber nella Parte I, cap. I, § 8 di Wirtschaft und Gesellschaft; per la tipologia del
conflitto che segue mi appoggio invece agli scritti del maggior sociologo contemporaneo
italiano, Alessandro Pizzorno.
1. Il conflitto d'interessi è quello che si accende intorno a risorse contese perché scarse (è
ciò che in Weber viene denominato `concorrenza'). Tali risorse possono essere
sostantive (ricchezza, territorio, impieghi) o relazionali (alcuni dicono posizionali:
potere, prestigio). Nel conflitto d'interessi è possibile comportarsi da free rider (colui
che partecipa ad un'impresa collettiva, ma cerca di goderne i vantaggi senza
condividerne i costi), però il gruppo cerca di rendere difficile tale comportamento
tramite sanzioni.
2.
Il conflitto di riconoscimento riguarda la nostra identità, che spesso non preesiste,
20
Nel 18 Brumaio e ne La guerra civile in Francia, scritto a proposito della Comune di Parigi del 1871.
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ma si forma veramente solo nella lotta, e - diversamente dagli interessi - non è
negoziabile. È un conflitto non condotto strategicamente, cioè scegliendo razionalmente
i mezzi, ma che fa piuttosto appello a risorse di carattere morale, emotivo, religioso o
filosofico. Per la sua natura stessa questo conflitto, che viene detto brachilogicamente
conflitto d’identità, non ammette il free rider. La sua dinamica però s'intreccia con il
tipo 1: esso spiega come si costituisca una certa categoria (nazioni, gruppi etnici o
movimenti come quello femminista od omosessuale) degli attori che partecipano al
conflitto d'interessi.
3. Il conflitto ideologico contrappone concezioni globali della politica, della storia e
talora della stessa esistenza umana, che si pongono come vere e valide per tutti e mirano
a ridefinire i `veri interessi' dei gruppi, come si è visto negli scontri fra i totalitarismi del
nostro secolo, o la destinazione finale del nostro genere. Tale conflitto esclude non solo
il free rider, ma la stessa legittimità di un osservatore scientifico esterno al conflitto.
Chiarito così il termine, possiamo chiederci quali siano le relazioni fra ordine e conflitto. Si
può cominciare dicendo che ogni politica, ogni associazione politica ricerca, per la sua stessa
definizione, una qualche forma di ordine, cioè di rapporto regolare e regolato fra gli attori
politici. Altri (Kant, Sternberger, per rimanere agli autori già citati) è arrivato a dire che il
compito della politica è la pace. In termini negativi l'idea del caos è per definizione antipolitica,
il politico contenendo come suo telos interno sempre un'idea di ordine, e in questo senso
l'ordine non può essere posposto al conflitto, perché una conflittualità permanente e priva di
punti di appoggio, di coagulo, di assestamento, priva di un minimo grado di ordine, è
politicamente impensabile o è la negazione della politica, qualcosa in cui la distribuzione
(asimmetrica) dei beni e la loro stessa produzione sono impossibili. C'è però un altro senso in
cui ordine e conflitto sono contrapposti, ed è quello che riguarda il modo in cui si arriva alla
politica come ordine, a quella politica che contiene sempre un'idea di ordine. Che cosa è
prevalente nella vita politica degli uomini, l'ordine in quanto autoconservantesi o il conflitto
attraverso il quale si arriva di volta in volta ad un ordine che contiene in sé la possibilità del
cambiamento? Non si tratta neppure di una contrapposizione diametrale, ma di uno
spostamento di accenti; in ogni caso il punto è che la consistenza e stabilità delle istituzioni
politiche può essere secondo alcuni attinta attraverso quel tipo di ordine che neutralizza i
conflitti, li rende o superflui o marginali. Oppure essa può essere pensata come qualcosa che è
ordine, e quindi ha chances di essere sostenuta e riprodotta, solo in quanto è attraversata dal
conflitto, in quanto è di volta in volta risposta a nuovi e diversi tipi di conflitto.
Detto in termini sociologici, anziché di filosofia politica, nelle società prevale l'integrazione
o prevale il conflitto (un hegeliano direbbe la dialettica)? Una cosa è dire che di fatto le società
funzionano prevalentemente attraverso l'integrazione più o meno completa dei loro membri e
delle forze che li agitano, una cosa invece è dire che funzionano meglio quelle società che si
appoggiano prevalentemente sul conflitto. Questa è, per `bobbieggiare' un po', una della grandi
dicotomie del pensiero sociologico, ovvero della filosofia della società, che in termini di storia
del pensiero può riassumersi così:
a. Chi ha considerato prevalente l'ordine ovvero l'integrazione (Comte, Spencer, Durkheim,
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Pareto e lo struttural-funzionalismo di Talcott Parsons) ha ritenuto che lo stato normale del
sistema sociale sia quello dell'equilibrio stabile, con legami di funzionalità fra le sue parti ed i
suoi attori (centrale a questo riguardo il concetto di ruolo sociale) ed una prevalenza del
consenso; mentre il conflitto rappresenta un disturbo od una patologia del sistema, avente cause
esterne.
b. Chi ha sostenuto la prevalenza del conflitto (Marx, che però dopo la rivoluzione ne
ipotizza la scomparsa, Stuart Mill, Sorel, Simmel e nella sociologia il suo seguace Lewis Coser,
infine Dahrendorf) lo ha fatto per spiegare in questo modo il mutamento storico e la capacità
d'innovazione delle società. Nelle teorie che sostengono il conflitto come premessa di un ordine
aventi tale caratteristiche (soprattutto nelle società democraticamente governate), il conflitto
non viene soppresso come nelle vedute totalitarie, bensì avviato a soluzione grazie alla sua
regolamentazione, che può fra l'altro assumere le forme della proceduralizzazione (=indicare
regole da seguire quando sorge un conflitto) o della ritualizzazione (termine proveniente
dall'etologia); in ogni caso è decisivo ciò che fa il potere come capacità di allocazione
autoritativa. Qui l'interesse si sposta sulla questione: come organizzare questo potere?
Da questo punto di vista si può dire che la modernità politica sia consistita nell'inventare
forme di riduzione e soluzione del conflitto: lo Stato moderno, assolutista o no, ha stabilito che i
conflitti li dirime un'autorità centrale producendo leggi, e ha creato con la sovranità le
premesse, anche verso l'esterno, per una parziale regolazione del conflitto (diritto
internazionale, bellum iustum, cfr. § 16) fra gli Stati. Con il costituzionalismo ed il liberalismo
si è poi stabilito che nessun conflitto può ledere o distruggere i diritti fondamentali degli
individui stabiliti per legge, mentre con la democrazia si è convenuto che nella soluzione del
singolo conflitto tramite la regola di maggioranza (cfr. § 14) si riconoscono tutti, la
maggioranza che vince e la minoranza che perde.
12. Legittimità, identità, simbolismo e mito politico
È ormai il momento di chiarire quell'attributo di legittimità che è già ricorso molte volte in
questo testo, soprattutto a proposito del potere politico nella sua distinzione dalla mera forza.
Intendo per legittimità non (sociologisticamente) il consenso, né tanto meno (per
riduzionismo giuridico di un tema filosofico) la legalità, bensì quella risorsa che consiste nella
possibilità (la chance weberiana) di ricorrere ad un fondamento giustificativo del potere, aldilà
della fatticità di questo. Tale risorsa può non (aver bisogno di) venir attualizzata, ma essa segna
sempre uno scarto rispetto al potere esistente, e almeno potenzialmente lo mette sotto controllo
e perfino lo assilla con la richiesta di giustificarsi in base a ragioni extraquotidiane e
metaconvenzionali, che possono essere politiche (come una diversa concezione della salus
reipublicae) od anche metapolitiche (quando si rinvii a fondamenti ideali: Weltbilder, valori
religiosi o di civiltà).
Introduco poi una distinzione, quella fra le fonti e le condizioni sostantive (non: materiali)
della legittimità. Per fonti intendo quelli che Max Weber chiama i fondamenti, cioè le immagini
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o convinzioni ultime su cui si basa la credenza nella legittimità di un ordinamento politico: in
Weber la legalità delle statuizioni, nel caso del potere burocratico, la sacralità delle tradizioni,
nel caso del potere tradizionale, e la straordinarietà sacra od eroica di una persona, nel caso del
potere carismatico. Queste sono fonti insieme di giustificazione, argomentativa o emotiva,
dell'obbedienza e di sua motivazione. Si può variarne la tipologia, ma finora non ci si è molto
discostati da quella weberiana originaria. Per condizioni sostantive invece intendo quattro
condizioni cui un ordinamento deve soddisfare se vuole reclamare con successo la sua
legittimità, mobilitando processi di giustificazione e motivazione che attingeranno ad una o più
delle sue fonti. Introduco queste condizioni perché, diversamente da quanto pretende il puro
normativismo, non ritengo che il problema della legittimità sia esaurito quando si è delineata
un'`ottima repubblica', insomma una regola fondamentale di convivenza, come la giustizia o la
libertà. Legittimità in senso politico esiste quando il sistema o regime che la pretende,
richiamandosi a quella regola e attivando una di quelle fonti, si dimostra in ogni caso capace
delle prestazioni elementari che ora esporrò. Se un regime non è legittimo per il solo fatto di
esistere ed imporsi ai governati, non lo è neppure per il solo merito di richiamarsi ad una
coerente giustificazione etica. Per dirla con il politologo Fritz Scharpf, oltre all’input legitimacy
delle “fonti” condivise occorre che un regime funzioni producendo output legitimacy.
Quelle quattro condizioni - il numero può essere variato, ma senza rinunciare al concetto sono, in ordine gerarchico:
1. la sicurezza politica, nel senso hobbesiano della formula “the end of obedience is
protection”.
2. il benessere, inteso in senso sia assoluto (un minimo che ponga tutti in condizioni non
ferine) sia relativo, comparato cioè con le possibilità di produrre ricchezza attribuibili al sistema
produttivo in un certo suo grado di sviluppo; inoltre tale benessere non dev’essere distribuito in
modo insopportabilmente diseguale. Esso viene logicamente dopo la sicurezza, e non può
sostituirla, essendo questa la sua condizione d’esistenza.
3. la legalità, nel senso della conformità di un regime politico alle leggi, o `naturali' o divine
o (e soprattutto) positive che, in una certa civiltà, vengono sentite come giuste, e almeno tali da
permettere una convivenza civile e prosperosa, stabilizzando inoltre comportamenti ed attese.
La quarta condizione non è invece qualcosa che le istituzioni possano produrre in quanto
bene politico o politico-sociale come le prime tre, trattandosi piuttosto di una metacondizione:
l'identità per un verso preesiste alle istituzioni politiche, per altri versi ne viene definita e
riprodotta. Salvo situazioni di transizione o statu nascenti, nessuna associazione istituzionale in particolare, nessuno Stato - può pretendere legittimità se non può fare assegnamento
sull'identità del corpo politico cui si riferisce. Se, insomma, non vi è un soggetto per il cui
universo simbolico e normativo appaia dotato di senso lo stare dentro ad un ordine istituzionale
che chiede di riconoscere la sua autorità, mobilitando una o più di quelle fonti e producendo in
varie proporzioni quelle condizioni.
Nell'identità politica, una sottospecie dell'identità di gruppo, noi individuiamo quegli
elementi del nostro convivere che, condivisi con altri, ci permettono di dire `noi'. Non si tratta
dell'identità (insieme di tratti distintivi) riconosciuta da un osservatore esterno, bensì di quella
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che viene percepita (e costruita) come tale dai soggetti stessi: un'identità riflessiva. Essa non
consiste in primis, come molti (da ultimo Samuel Huntington, autore del fortunato The Clash of
Civilizations) spicciativamente ritengono, in ciò che ci divide da altri o ad essi ci contrappone,
bensì in ciò che noi riconosciamo esser nostro in quanto dà un senso al passato e al futuro della
nostra vita associata (identità-specchio). L'identità è certo sempre anche principium
individuationis, ciò che ci fa essere Noi e non questo e quell'Altro, altrimenti si tratterebbe di
un'identità diffusa (un'eccezione del tutto sui generis può vedersi solo nella germinante identità
del genere umano ormai posto sotto le minacce globali, cfr. § 18). È insomma anche identitàmuro, ma è diverso se prevale il muro portante o il muro di recinzione: fuor di metafora, vi sono
identità aperte all'incontro e allo scambio con gli altri, altre che ne rifuggono o addirittura
consistono solo - e patologicamente - dell'essere il contrario degli altri (si vedano le
recentemente risorte identità etno-nazionalistiche). Un ultimo aspetto da menzionare è che
l'identità politica, soprattutto nelle società ad ordinamento liberal-democratico, non è solo il
portato dello sviluppo storico del gruppo, ma contiene altresì un elemento normativo:
l'indicazione, codificata nelle Costituzioni, di ciò che come cittadini/cittadine di questa
comunità vogliamo essere e riteniamo che si debba essere21.
Si è fatto cenno all'universo simbolico. Ora, il tema del simbolismo politico è irto di
difficoltà e, come dirò, scientificamente immaturo; pur tuttavia non posso non fare un tentativo
per schiarirne gli aspetti elementari, non foss'altro che per mettere il nostro discorso al riparo da
equivoci che su questa materia non mancano al giorno d'oggi.
È ben vero che la produzione e riproduzione di senso ed il coagularsi di identità individuali
e di gruppo non possono che appoggiarsi a simboli, e ciò vale su due livelli del simbolico.
Primo, è quasi banale ricordare che, come ogni comunicazione umana, anche quella politica è
per sua natura mediata simbolicamente, cioè avviene tramite segni che rinviano a qualcos'altro
da se stessi, dando così corpo al carattere universalizzante del linguaggio. Beninteso, ogni
politica contiene anche sempre un messaggio simbolico, ma la politica in generale non si riduce
ad atti simbolici. Un esempio: la guerra come continuazione della politica consiste anche nel
comunicare con atti bellici ai nemici vivi le proprie volontà, intenzioni, minacce, ma a ciò
appunto arriva con atti di distruzione ed uccisione che per il nemico ammazzato non sono
simbolici. Parimenti una nuova politica fiscale ha certamente significati generali relativi alla
visione della società che essa racchiude, ma consiste pure in trasferimenti di quote di ricchezza
materiale da un ceto all’altro. Per tutte queste ragioni, chi pretende di scoprire il simbolismo
dell'identità politica o sociale contro pretese vedute astratte ed intellettualistiche di questa per
un verso sfonda porte aperte, per un altro cerca di vendere significati surrettizi. Il generale
simbolismo della comunicazione, specificamente di quella legata alla produzionestabilizzazione di identità politiche, non dice infatti niente sul carattere solidale o bellicoso,
tollerante o xenofobo del messaggio che viene messo in circolazione. Neppure è vero che i
simboli, per essere tali, debbano essere necessariamente alogici, sempre rinviando
allusivamente a figure ancestrali o significati arcani della nostra esistenza. Invero quel gruppo
21
Chi sull'identità politica voglia sapere di più veda: F.Cerutti, a cura di, Identità e politica, Laterza,
Roma-Bari 1996)
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può coltivare simboli runici o rosacroce, quest'altro riunirsi intorno alla falce del contadino e al
martello dell'operaio, quest'altro ancora intorno a simboli meno scenici, ma non meno espressivi
di valori ed aspirazioni: la Costituzione recentemente conquistata di un paese democratico, il
globo simbolo dell'ONU, disegnato sul casco blu di un soldato che soccorre civili vittime di un
massacro. Qual è allora il rilievo da darsi al simbolismo politico?
Rispetto all'identità politica - eccoci al suo secondo, più specifico livello - esso ci dice che
la politica, lo stare insieme in forme politiche, non sarebbe comprensibile, ovvero non
sussisterebbe, se lo si pensasse soltanto in termini di perseguimento calcolatorio (l'agire
cosidetto strategico) di interessi nell'ambito della competizione per la distribuzione delle risorse
(si veda il precedente § a proposito del conflitto). Valori comuni di carattere nonovvero postmaterialistico, memorie e tradizioni condivise nonché i sentimenti di reciproca appartenenza
che ne scaturiscono sono, in misure e proporzioni diversissime, pur sempre necessari per creare
e consolidare un'identità di gruppo. (Ricordiamo che l'appartenenza può essere ascrittiva,
perchè cioè la natura o la storia o la convenzione ci ascrive al tale gruppo, oppure elettiva, se la
scelta è nostra.) Riconoscerlo non dice peraltro nulla su come si conformerà la concreta identità
tale o tal'altra, né prescrive che ognuna di esse contenga sempre - si fa per dire - almeno il 51%
di irrazionalismo e di simboli ed allegorie ad esso confacenti.
È, per corollario, falso che identità e associazioni politiche non possano reggersi se non si
alimentano di un qualche `mito d'origine'. Una cosa è il mito, che può essere o meno presente,
un'altra la narrazione, che è invece impensabile di poter eliminare; lo si è già accennato sopra a
riguardo dell'individuo, quando si è evidenziata la concreta dimensione autobiografica della sua
identità, che a sua volta sta in un circuito di reciproca alimentazione con la dimensione storica
della comunità cui si appartiene. Il mito politico contiene una più o meno consapevolmente
deformata e polarizzata (in senso manicheo) versione dei fatti originari, effettivi o fittizi, di una
nazione, Stato o movimento che sia - si tratti della Dolchstoßlegende (la pugnalata nella schiena
che avrebbe condotto alla sconfitta del 1918) nella Germania weimariana o della `vittoria
mutilata' nell'Italia fascista (miti reattivi, verrebbe di dire) o ancora dell'Ottobre rosso
nell'autocelebrazione dell'URSS. Per narrazione fondativa invece intendo la memoria,
pubblicamente esposta e dibattuta, dei processi, delle lotte, dei valori e vincoli ivi maturati, e da
cui è scaturita una comunità politica, ovvero una sua nuova fase. La diasporà e poi la Shoah
sono in questo senso la narrazione fondativa di Israele, come lo sono antifascismo e Resistenza
per la Repubblica italiana. Non vedo quale verità o utilità conoscitiva vi sia nel rifiutare questa
distinzione, mettendo queste narrazioni nell'unico minestrone dei `miti d'origine'. Si tratta di una
differenza qualitativa: diverso è il loro rapporto con la realtà storica, e soprattutto è diverso il
tipo d'individuo - per esempio il naziskin ed il cittadino che contribuisce non solo con il voto
alla vita democratica - alla cui identità politica essi sono correlabili. Una narrazione fondativa per quante deformazioni e strumentalizzazioni possa subire, magari sfiorando la mutazione in
mito - è sempre criticabile e rivedibile tramite l'uso pubblico della ragione nel dibattito politico
o intellettuale; così è avvenuto anche con la Resistenza. I miti non sono invece sottoponibili ad
alcun vaglio pubblico o critico: o li si beve come sono, o crolla la legittimità del corpo politico
alla cui compatta ed esclusiva identità essi dovrebbero condurre.
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Queste poche note segnano alcuni confini, ma non possono sostituire un'approfondita
trattazione dei nessi di identità, simbolo e mito, tre termini di grande rilievo filosofico prima
ancora che politico. Vorrei solo, rifiutati i mitologismi, aggiungere che la restante letteratura
poco ci aiuta. Da Harold Lasswell a Edelman, per nominare due testi-chiave22, prevale
l'approccio che vede in qualsivoglia simbolismo politico un instrumentum regni o comunque
una deviazione dalla politica realistica e razionale. Più recentemente, i lavori sulle symbolic
policies (il far efficacemente politica tramite puri atti simbolici, anziché incidendo sui termini
effettivi del problema) hanno arricchito l'aspetto analitico, ma non soppiantato quell'approccio.
Ad esso, forse per miopia realista verso una teoria generale dell'agire, manca la comprensione
della mediazione simbolica, e quindi fatta di narrazioni ed elementi alogici, propria di ogni
politica; mediazione che va differenziata al suo interno meglio di quanto non si sia potuto far
qui, ma che alla politica (certo non solo ad essa) è connaturata, lungi dall'essere un optional da
impiegare, quando occorre, strumentalmente. La presa di distanza dalla presunta onnipresenza
postmoderna del mito e dalla confusione fra esso ed il simbolo non può oscurare questo punto
fondamentale.
13. Legittimità e legalità
Prima di procedere oltre mi pare opportuno raccordare quanto ho esposto sopra con una
versione più classica della questione, per la quale riprendo largamente i termini della voce
Legittimità scritta da Bobbio per il Dizionario di politica.
In questo senso classico, il problema della legalità o legittimità (per ora ne parlo in modo
indifferenziato) rientra nella sfera sulla quale potremmo mettere l'etichetta `limiti del potere'.
Parlare di legalità, di leggi a cui il potere è sottoposto, oppure parlare di criteri di legittimità,
attraverso cui esaminarlo, vuol dire essere convinti che il potere non debba essere assoluto,
sciolto da ogni regola, ma debba invece avere delle limitazioni nelle quali tutti possiamo ovvero
dobbiamo riconoscerci.
Nel linguaggio normale o colloquiale, ed anche in base al linguaggio giuridico, legalità e
legittimità si equivalgono ampiamente, e i giuristi spesso si arrampicano sugli specchi per fare
una distinzione. In ogni caso per la teoria giuridica la legalità riguarda il modo in cui viene
esercitato il potere, sicché il potere legale è quello che viene esercitato secondo le leggi, mentre
opposto ad esso è il potere esercitato arbitrariamente cioè extra legem o contra legem. Si badi
che questo non vuol dire che ogni potere che viene esercitato come piace al `principe' (può
anche essere un principe collettivo) è di per sé potere arbitrario, perché può anche essere
stabilito nella legge che il titolare del potere abbia, nell'ambito di un esercizio conforme a legge
del suo potere, margini di discrezionalità. Il potere si dice invece legittimo quando noi
consideriamo che chi lo detiene abbia una giustificazione nel farlo, cioè non lo faccia as a
matter of fact, ma agisca in base ad un principio che giustifica il fatto che egli detenga il potere.
22
H. Lasswell, World Politics and Personal Insecurity, New York 1935, e M. Edelman, The Symbolic
Uses of Politics, Champaign 1976.
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Dunque legalità: esercizio; legittimità: titolarità. Potere legale versus potere arbitrario; potere
legittimo versus potere di fatto. Così li classifica Bobbio.
Per dire ora del potere legittimo, ma non legale, l'esempio più nitido è quello del potere
rivoluzionario: il potere rivoluzionario nasce per lo più in maniera che è chiaramente contraria
alle leggi vigenti e produce peraltro subito una propria legalità, anzi non c'è rivoluzione che non
faccia al più presto così. Quando i rivoluzionari russi assaltavano nel febbraio 1917 i palazzi del
potere zarista erano fuori della legalità, pur essendo perfettamente legittimo, in nome della
libertà, fare questo, tanto è vero che tutto il mondo applaudì; e perfino quando qualche mese
dopo i bolscevichi presero il potere sottraendolo, con l'assalto d'ottobre al Palazzo d'inverno,
agli altri rivoluzionari, non c'è dubbio che attuarono più d'una illegalità, compresa quella di
chiudere l'assemblea costituente, ma non c'è nemmeno dubbio che da una parte notevole della
popolazione russa questo fatto fu riconosciuto come legittimo, perché giustificato con ideali di
eguaglianza e di pace.
Più interessanti forse, e certamente storicamente più rilevanti, sono gli episodi di potere non
legittimo, eppure legale, giacché questo secolo ne ha visti due clamorosi, cominciati con un
episodio istituzionale, ma tali che poi hanno provocato quasi la fine d'Europa. L'incarico di
formare un nuovo governo che Vittorio Emanuele III il 28 ottobre del 1922 conferì
all'onorevole Benito Mussolini era un atto legale compiuto dall'autorità suprema dello Stato
italiano secondo la legge vigente che era lo Statuto albertino; ma non c'è dubbio che per il modo
in cui questo incarico venne preparato, cioè l'atto insurrezionale della marcia su Roma, e per le
vie che il governo fascista poi percorse, si trattava e si trattò sempre più di un potere non
legittimo, in quanto distrusse lo stesso tessuto democratico (anche se non troppo) e
costituzionale dell'Italia liberale. Ancor più eclatante fu il cancellierato di Adolf Hitler, che il 31
gennaio 1933 gli fu conferito da chi aveva il potere di darglielo, cioè dal Presidente del Reich, il
maresciallo von Hindenburg, e fu poi confermato dal Reichstag e dalle elezioni del marzo del
1933. Cosa c'era di più legale del potere del cancelliere Hitler? Ed è sempre per via di leggi
debitamente approvate che egli si trasformò poi da cancelliere in Führer, cioè nel capo di un
regime, e poi (per qualche anno) di un impero continentale, che oppresse e sterminò diecine di
milioni di uomini.
Questo secolo insomma ci ha insegnato che la legalità di un regime non garantisce il
rispetto delle minime regole di convivenza in base alle quali gli individui lo vivono come
legittimo od esecrabile. Gli episodi cui si è accennato si possono peraltro iscrivere in un'antica
diatriba, che è quella se il potere, una volta conferito legalmente, autorizzi chi lo detiene a farne
un uso che sia contrario non alle leggi vigenti, al diritto positivo vigente, bensì ai fondamenti
giuridici, politici, morali e culturali di una certa comunità. Gli antichi usavano porre questo
tema nell'ambito più generale del dilemma: “è meglio il governo degli uomini o il governo delle
leggi?”.
La soluzione proposta dai maggiori autori dell'antichità - dall'isonomia (eguaglianza dinanzi
alla legge) dei Greci a Cicerone - è quella della superiorità del governo delle leggi, a cui gli
uomini sono sottoposti. La formula canonica di questa superiorità è lex facit regem, per un
verso, e per un altro verso che il principe non è al di sopra delle leggi, cioè non è legibus
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Filosofia politica. Un’introduzione
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solutus. Contro la superiorità del governo delle leggi sul governo degli uomini si è levata la
voce di chi dice che se gli uomini non sono giusti, buoni e non vogliono il bene comune, non c'è
legge che tenga, qualsiasi legge può essere evasa, distorta, cosicché l'elemento definitivo è la
qualità degli uomini che governano. Questa è un'antica tradizione che arriva fino a oggi; in
qualche misura le contemporanee teorie delle élite potrebbero essere considerate una versione
modernissima di questo antico problema. Esse ci dicono che un governo non è buono quando
non funziona bene, e non sono le leggi che contano, ma la qualità della formazione e selezione
dei governanti, in quanto classe decisamente ristretta o di cui sono decisivi i criteri di
riproduzione. Contro la teoria del sovrano che non è mai legibus solutus si leva tutta la teoria
della sovranità propria dell'assolutismo, di cui la giustificazione più grandiosa pare ancora oggi
quella data da T. Hobbes.
Un altro aspetto della problematica di legge e potere, e più specificamente della soluzione
che indica la superiorità delle leggi rispetto agli uomini, e quindi considera il governo in primis
come governo delle leggi, è la determinazione del tipo di legge a cui le leggi particolari devono
conformarsi, perché siano leggi sotto il cui governo si possa vivere in comunità. Questo
riguarda sia la legge nella sua struttura, sia la legge nella sua applicazione o esecuzione. Nella
sua struttura la concezione della legge come quella che è supremamente capace di governare gli
uomini è l'idea della legge come disposizione astratta e generale che riguarda indifferentemente
tutti coloro che appartengono al corpo politico, alla comunità.
A questa legge che riguarda tutti e che è formulata in modo astratto non si può derogare
altro che per giustificazioni che vengono esposte nella stessa legge derogatoria, e per motivi che
rientrano in quelli fondativi della stessa legge generale. Si può derogare solo per rendere più
efficace e più universale la legge generale.
Questa è una problematica giuridico-politica, ma anche filosofica; la si ritrova fra l'altro in
Rawls, allorché egli si chiede quale tipo di diseguaglianza sia ammissibile in base ad una teoria
della giustizia che ha come canone fra i più importanti quello dell'uguaglianza. Un esempio più
comune: tutti i cittadini hanno diritto ad uno sgravio fiscale in base a quanti sono i membri della
famiglia; legge di cui si lederebbe la legittimità se vi si derogasse con una legge che dicesse ad
esempio che tutti i cittadini che hanno il naso aquilino hanno uno sgravio del 10% e tutti i
cittadini che hanno il naso camuso hanno uno sgravio del 5%. Questa sarebbe una legge
discriminatoria. Tanto meno si possono fare leggi di carattere concretistico e cioè non astratto,
che dicano ad esempio che tutte le persone che hanno la pelle bianca e il naso aquilino e il cui
nome comincia per F e il cognome per N hanno diritto a maggiori sgravi fiscali, perché questo
vorrebbe dire che attraverso una forma pseudouniversalistica, pseudogenerale noi vogliamo
favorire il signor Ferdinando Neri, che è non solo di pelle bianca, ma ha anche il naso aquilino.
Però si può fare una legge in cui si dice che tutti i cittadini di questa o quella provincia
alluvionata che hanno subito danni per l'alluvione hanno diritto a sgravi fiscali di tot fino alla
data tale. Questa legge non è discriminatoria perché soddisfa le finalità di eguaglianza e
perequazione cui aspira la legge astratta e generale che dice che tutti i cittadini devono pagare le
tasse e prima di pagarle hanno diritto ad uno sgravio fiscale di tot rispetto a questi criteri
generali e astratti. Se non facessimo la legge che riguarda i cittadini alluvionati
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commetteremmo un'ingiustizia e creeremmo una disuguaglianza a loro carico.
L'altro aspetto è che la legge va applicata secondo giustizia e non secondo equità o, detto in
altri termini, va applicata secondo giustizia formale e non giustizia materiale. Decisive non sono
ancora una volta le sole norme primarie, quelle che dicono che chi non paga le tasse è soggetto
prima ad un'ammenda, poi ad una multa, poi ad una pena carceraria, ma lo è anche il modo in
cui si dice come individuare chi non paga le tasse, come intimargli di pagarle, come perseguirlo
se non le ha pagate, rispettando eventualmente situazioni particolari. Anche questo deve essere
dettato da norme astratte che si chiamano norme secondarie o procedurali. Qui sta il carattere
indispensabile ed egualitario del formalismo giuridico.
La giustizia materiale è invece è quella che procede secondo criteri (intuitivi e `situazionali')
di equità (da non confondersi con l'equità come fairness delle teorie della giustizia). Essa nasce
in sistemi giuridici sottosviluppati o in realtà antigiuridiche: in una banda di ladri sarà il
capobandito a fare le parti, non ci saranno norme, codici impersonali di distribuzione. In
formazioni rivoluzionarie sono i capi che all'inizio, prima che si formi un sistema giuridico,
esercitano la giustizia. Non è dunque un'alternativa complessiva, ma nasce come risposta ai
difetti e alle insoddisfazioni che ci provoca il formalismo giuridico. L'esempio famoso è quello
del Re Salomone, ripreso modernamente da B. Brecht nel dramma Il cerchio di gesso del
Caucaso nella figura del popolare e avvinazzato giudice Azdak. La diatriba nasce fra la madre
ricca che aveva abbandonato il bambino, e che però secondo la legge normale aveva diritto a
riaverlo, e la nutrice che lo aveva cresciuto, aveva creato legami affettivi, ma in base alla legge
avrebbe dovuto renderlo su richiesta alla madre. Il giudice fa la prova della spada (metà
bambino a ciascuna) e la nutrice,che ha il legame affettivo autentico, rinuncia, cosicché si
capisce chi merita di essere madre di questo bambino, che viene dato alla nutrice. Da secoli in
Europa la giustizia è formale; il processo di trapasso dalla giustizia materiale, che spesso è
correlato con le forme tradizionalistiche di potere, alla giustizia formale, che correla pienamente
con il governo burocratico, legale, o razionale, per usare termini weberiani, è stato un processo
enorme. Chi legge Economia e società di Max Weber vede la grande importanza storica, ma
anche teorica, che Weber dà al processo di passaggio da quella che lui chiama la giustizia del
Kadì, il giudice di quartiere o di città musulmano, alla giustizia formale (caso limite ideale) di
quello che lui chiama il Paragraphenautomat, una macchina in cui si infila la causa e da cui si
può raccogliere poi la sentenza. Oggi che si è ampiamente informatizzata la giustizia, rimane il
problema dell'interpretazione, dell'ermeneutica della legge, che non ha ancora trovato una
soluzione tecnica o meccanica, né forse mai la troverà.
Non insisto sulla distinzione tra legalità e legittimità, ma voglio far notare che non tutte le
forme e i nomi della legalità, cioè della conformità di un regime politico a leggi, sono la stessa
cosa: nel mondo anglosassone c'è il concetto della rule of law, che tra noi viene tradotto con
Stato di diritto. Non abbiamo altra traduzione idiomatica e possiamo accettare di adoperare
questa, ma non possiamo dimenticare che, diversamente dalla tradizione concettuale dello
`Stato di diritto', la rule of law della tradizione britannica, ed ancor più nella tradizione
americana, non indica la semplice conformità alle leggi ed alle procedure in quanto
positivamente date, ma in quanto in esse sono racchiusi e si perpetuano certi valori predicati dal
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giusnaturalismo, ovvero riconosciuti nel patto costituzionale: i valori fondamentali della libertà
e della dignità dell'uomo.
Lo Stato di diritto, che altro non è che la traduzione dell'espressione tedesca Rechtsstaat, è
un concetto che dal positivismo giuridico è stato in molti casi piegato fino a trovare nella pura
effettività e positività del diritto statuale, quale che sia, un sufficiente motivo di legittimazione
di questo diritto e dello Stato o del regime politico su di esso costituito. Molto diversamente
dalla rule of law, una parte della tradizione che si richiama al concetto di Stato di diritto è di
tradizione fortemente positivistica e le basta la conformità di un regime, cioè dei suoi
ordinamenti supremi alle leggi positive per dichiarare la presenza di uno Stato di diritto e la
intangibilità di esso. Per esempio il concetto di Stato di diritto, di Rechtsstaat è stato assai
vigorosamente e polemicamente usato dai teorici conservatori dello Stato liberale contro la
trasformazione sociale e democratica dello Stato stesso - soprattutto nella dottrina politicogiuridica tedesca degli anni Venti, durante la repubblica di Weimar, ed anche negli anni
Cinquanta e Sessanta nella repubblica di Bonn (per la verità questo è avvenuto, nei primi anni
Trenta, anche nella giurisprudenza della U.S. Supreme Court). Lo Stato di diritto è stato
invocato come barriera proibitiva verso la legislazione solidaristica, perché sociale in questa
accezione vuol dire sostanzialmente solidaristica, cioè che lo Stato prende, se non direttamente
ai ricchi, ma comunque pescando dal gran calderone fiscale per trattare un po' meglio sul piano
delle esigenze sociali (salute, istruzione, vecchiaia) coloro che sono maltrattati dalle `libere'
leggi di mercato.
14. L'obbligo politico
L'obbligo non è una categoria universalmentestudiata. È fortemente legata alla tradizione
della political philosophy britannico-americana, col termine di political obligation. Ma in buona
parte della teoria politica tedesca, per esempio, questa categoria non è studiata, anzi neppure
esiste un termine tedesco pregnante. Anche in Italia è stato studiato abbastanza poco: l'unico
che l'ha un poco trattato è un gran signore un po' pigro che più di tanto non ha scritto,
Alessandro Passerin d'Entrèves, di cui si può trovare qualcosa sull'obbligo nel libro principale
che si intitola La dottrina dello Stato (Torino 1967), o in un altro libro intitolato Il palchetto
assegnato agli statisti (Milano 1979), ancora più introvabile ormai.
Che cos'è l'obbligo politico? (Qui bisogna sempre mettere l'aggettivo, perché può anche
esserci un altro obbligo che non sia quello politico). È l'obbligo a cui è sottoposto l'uomo in
quanto suddito o cittadino, in quanto membro di una comunità socialmente coesiva e
giuridicamente organizzata.
Giuridicamente organizzata vuol dire che c'è un ordinamento giuridico che non solo ha la
sua validità, ma che ha anche la sua efficacia, cioè che le sue leggi in qualche modo vengono
osservate. Socialmente coesiva vuol dire una comunità in cui la gente non vive col timore di
star sola o di essere sbranata dai lupi, ma in cui c'è un certo grado di solidarietà o cooperazione
sociale. In comunità di questo genere le leggi si ubbidiscono non solo perché si ha paura della
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sanzione e della forza che generalmente le impongono, ma perché se ne condividono in qualche
misura, magari un po' obtorto collo, i fini ed i principi, o perché si riconosce, nel peggiore dei
casi, che nell'obbedirvi vi è una qualche ragionevolezza.
L'obbligo politico è un tema propriamente filosofico perché è la filosofia politica che si
interessa, da sempre, delle ragioni per cui gli uomini obbediscono alle leggi; anzi, più
generalmente, ai comandi dell'autorità. La fondazione dell'obbligo politico è un tema classico, e
forse eterno della filosofia politica. Alla filosofia politica non importa di per sé niente che qua o
là gli uomini obbediscano o no alle leggi, cioè il fatto positivo, empiricamente rilevabile, non
interessa in prima istanza questa disciplina. In altre parole: quello che interessa è perché si
obbedisce; se sì o se no, quanti sì e quanti no, non interessa. È come tale una categoria che non
ha una grande notorietà, ma a livello concettuale ha molta importanza, perché è una categoriaperno, nel senso che ci ruotano attorno diverse cose. Per un verso l'obbligo politico è l'altra
faccia del potere in quanto legittimo, e ci fa vedere il potere dalla parte di chi non ce l'ha, di chi
lo patisce, anziché dalla parte di chi lo esercita. Pertanto essa rinvia immediatamente alla
legittimità. Queste categorie, legittimità ed obbligo, hanno rilievo non in ogni e qualsiasi
filosofia politica, ma solo se ci mettiamo nell'ottica di considerare l'associazione politica non
una mera questione di forza, di manipolazione o di baionetta. Se noi pensiamo che la politica
sia solo o inganno ed artificio o terrore ed oppressione e violenza, queste categorie ci
interessano poco, non hanno rilievo. Se invece, senza escludere gli estremi in cui esistono e si
possono osservare regimi politici che si fondano prevalentemente sull'inganno o sulla mera
violenza, e senza negare il fatto che quasi nessun regime politico può fare a meno di un po' di
inganno, manipolazione e violenza (non so se per sua natura non può, ma di fatto finora è stato
così), noi incliniamo a credere che il potere politico sia una cosa più complessa ed anche più
sottile che non un potere consistente in mera forza e/o manipolazione. Inoltre l'obbligo politico
implica anche e sempre la questione della libertà politica, pur senza essere questa una coppia
opposizionale, ciò che sarebbe un abbaglio. Infine, insieme ad altre, l'obbligo politico si può
considerare una delle fonti, delle condizioni soggettive per il formarsi dell'ordine politico.
Dell'obbligo politico bisogna dire che è politico, quindi non morale e non giuridico,
sebbene a questi possa venir in vario modo raccordato. È diverso ed anche più vasto rispetto
all'obbligo giuridico, perché quest'ultimo contempla sempre la possibilità della sanzione
coercitiva: io devo fare questo perché se non lo faccio mi danno l'ammenda, la multa, mi
infliggono la prigione, mentre nell'obbligo politico l'adesione a ciò per cui ci si sente obbligati è
anche e sempre una questione di scelta. Appunto non esiste un obbligo politico che sia solo
coercizione: chi osserva l'obbligo politico si sente anche sempre obbligato. Qui "si sente"
segnala che c'è una compartecipazione soggettiva, e che si tratta di un ordine interiorizzato.
Anche se per tutto il resto la cosa può non andarci affatto a genio, però troviamo sempre dentro
di noi qualche ragione per soddisfare a quest'obbligo. Viceversa l'obbligo politico ha una
estensione minore dell'obbligo morale, perché riguarda il comportamento, non le ragioni e non
le convinzioni libere e dirette di chi agisce. È rilevante sapere che la gente osserva queste e
quest’ altre leggi in queste e queste altre condizioni in questi e questi tempi: se vedo questo e
capisco perché questo avviene, posso parlare di obbligo politico. Mentre se io vedo che uno si
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comporta conformemente alla legge morale, io non posso mai essere sicuro che lo faccia per
ragioni morali, perché ne ha l'obbligo morale, giacché di fatto lo può fare per mera convenienza
o per bizzarria, o per gusto estetico o perché altrimenti teme chissà quali sanzioni. L'obbligo
morale non è questione di comportamento. E c'è di più.
L'obbligo politico è relativamente stabile, cioè una volta che un regime politico ne abbia
costruite le condizioni - finché non le distrugge o esso stesso, o perché viene meno o perché le
cose si sviluppano in maniera nuova ed il regime non è più in grado di farvi fronte l'osservanza dell'obbligo politico è assicurata. Noi non ci chiediamo ogni giorno perché
dobbiamo obbedire alle leggi, se dobbiamo e in che modo: ogni tanto facciamo delle riflessioni,
il giorno delle elezioni ci chiediamo chi creerà le condizioni migliori per cambiare le leggi o per
farci obbedire meglio ad esse, ma di solito non ci chiediamo se vogliamo rifiutare ogni `obbligo
politico' e diventare anarchici, antisociali o terroristi o quant'altro. Tanto meno ce lo chiediamo
quotidianamente. L'obbligo morale è diverso, non ha questa relativa staticità o questa ripetitività
dell'obbligo politico, ed ogni volta, di fronte ad ogni singola situazione, noi ci chiediamo o
almeno siamo tenuti e abilitati a chiederci come dobbiamo agire. L'obbligo politico non
riguarda le convinzioni intime, le condizioni libere, l'intenzione retta, come indicavano gli
scolastici, ma investe solo il comportamento esterno. Lo dimostra il fatto che ci può essere
soddisfazione dell'obbligo politico anche in una situazione in cui abbia qualche parte quella
categoria tradizionale, ma mai del tutto abbandonata dalla politica, che è la menzogna, mentre
non è possibile pensare che ci sia una morale in cui la menzogna alberga o è accettata come una
delle possibili regole o dei fattori del gioco.
* * *
Dopo aver chiarito in termini definitori che cos'è l'obbligo politico e fatto cenno, anche con
il rinvio al tema della legittimità, alla tematica della sua giustificazione, vorrei adesso illustrare
con un esempio eminente l'altro problema ad esso connesso, quello della sua attuazione e
gestione: ammesso che l'obbligo verso un determinato regime o istituzione possa venir
inizialmente fondato, per capire perché esso venga adempiuto nella vita quotidiana e
continuativa del regime o dell'istituzione è necessario individuare le regole (esplicite e
codificate o meno che siano) in base alle quali l'obbligo, che i cittadini si assumono, di ubbidire
alle leggi si concili, o meglio si ingrani con i loro diversi e mutevoli motivi ed interessi. Pur
nella diversità da quello morale, anche l'obbligo politico è sottoposto a tensioni e deve in
momenti critici potersi rigiustificare: allora le regole, il modo in cui esso viene gestito non sono
estranei alla sua stessa sussistenza.
Il regime di cui ora parlerò è la democrazia e l'esempio è quello della regola di
maggioranza.23 Prima bisogna sgombrare il terreno da equivoci e false credenze; una falsa
23
Faccio stretto riferimento ad un testo di Bobbio, La regola di maggioranza: limiti ed aporie,
contenuto nel volume di Bobbio et al., (et alii non è la dicitura usata nella bibliografia italiana, la usano
piuttosto gli americani e gli inglesi; ma non si vede perché non la dovremmo usare noi, dato che è latina,
e soprattutto che è cento volte meglio della dicitura orribile `autori vari' (AA.VV.), che io invito a non
usare mai essendo del tutto insensata, perché nessun signor AA.VV. ha mai preso in mano una penna o
battuto su di una tastiera, e tanto meno partorito idee da mettere per iscritto), Democrazia, maggioranza
e minoranze, Bologna, Il Mulino, 1981.
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credenza potrebbe essere che la regola di maggioranza è identica alla democrazia o le è
coestensiva (dove c'è democrazia c'è regola di maggioranza e viceversa). È vero che dove c'è
democrazia c'è regola di maggioranza, ma non è vero l'inverso.
Il Gran Consiglio del Fascismo, come si vide la notte del 24 luglio del 1943, quando fu
approvata la mozione presentata da Dino Grandi e altri che chiedeva il ritiro del Duce e
l'armistizio, funzionava in base alla regola di maggioranza. Eppure niente vi era di più lontano
dalla democrazia del regime fascista e del suo Gran Consiglio. Inoltre in un'assemblea di
condominio si vota a maggioranza, ma nulla è più lontano dalla democrazia di un assemblea di
condominio perché, non solo per ragioni culturali, vi manca l'uguaglianza, un carattere
essenziale della democrazia in cui vige `one man one vote', mentre invece nelle assemblee di
condominio si vota in base ai millesimi, cioè il caseggiato viene diviso in millesimi ed ognuno
ha tanto potere elettorale quanti millesimi egli detiene in quanto proprietario.
La regola di maggioranza ha dunque un'estensione diversa e più larga della democrazia,
tanto è vero che si adotta in consessi tutt'altro che democratici o perché sono a-democratici, tipo
l'assemblea di condominio, o perché sono anti-democratici. Peraltro la stessa affermazione
“dovunque c'è democrazia c'è regola di maggioranza” è vera e non è vera, a seconda dei livelli
di discorso: è vera nel senso della nostra convinzione basilare che un'assemblea politica
democratica, o costituente o legislativa, così come un corpo elettorale sovrano, se vogliono
mantenersi democratici, devono votare secondo la regola di maggioranza. Qui si assume, ai fini
della giustificazione e del funzionamento del sistema democratico, che in ogni momento ogni
cittadino o cittadina sia eguale a tutti gli altri/altre, e che questa sia la base migliore per la
distribuzione del potere.
Ma ci sono negli Stati Uniti teorie minoritarie, formulate soprattutto da teoriche femministe,
che affermano che, per assicurare una vera e autentica giustizia, bisogna riequilibrare la società
ed anche le istituzioni, in cui l'eguaglianza è solo assunta, ma non è reale. Allora bisognerebbe,
almeno per un tempo limitato, cambiare le regole del gioco, mettendo in sonno un presupposto
essenziale della regola di maggioranza, l'eguaglianza di tutti gli individui, e dando per un certo
periodo doppio voto alle donne e agli afroamericani. Si vede qui che una cosa è il sapere
fondativo o manualistico, il quale ci dice che la regola di maggioranza è sempre la regola dei
processi elettorali delle assemblee democratiche; una cosa è fare un'indagine a livello più critico
e dinamico, in cui bisogna renderci conto che le cose non sono mai definitivamente formulate,
almeno concettualmente, e che possono presentarsi mutamenti anche di quelle che
consideravamo le più solide costanti (in re) e le più diffuse convinzioni soggettive.
Non è vero inoltre che in una democrazia ci debba essere un estendersi continuo ed
illimitato della regola di maggioranza: questo io lo ritengo uno sciagurato abbaglio concettuale
ed anche politico. Io ritengo che molte democrazie contemporanee, certamente quella italiana,
si siano fatte molto danno estendendo la regola di maggioranza dalle assemblee propriamente
politiche ad ambiti deliberativi di tipo esecutivo-gestionale, oppure legati a saperi specialistici,
dove la regola di maggioranza non c'entra niente, e soprattutto non si deve nominare invano la
democrazia, perché si tratta al più di collegialità. Ritengo che, una volta presa la decisione
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politica d'indirizzo, la sua esecuzione (e soprattutto le sue conseguenze) debba essere sottoposta
ai maggiori controlli democratici, ma debba avvenire non in base ai criteri della
rappresentatività partitica degli esecutori, ma in base ai criteri dell'efficienza; per efficienza
intendendosi che il pubblico dei cittadini titolari di interessi legittimi abbia anzitutto diritto
all'esecuzione rapida, professionale e non inutilmente costosa di quanto è stato deliberato, si
tratti di una nuova regola del processo penale o di una nuova legge sull'Università. Questa è la
prima ragione per cui non è vero che la regola di maggioranza e la democrazia siano
coestensive.
La seconda ragione deriva da un cambiamento abbastanza recente del sistema politico e
sociale, che più che escludere mette da parte, quasi rende superflua la regola di maggioranza.
Cominciamo osservando che nella formazione delle deliberazioni con cui si allocano risorse
esistono in realtà due procedure fondamentali: una è quella della legge, che configura tutti i
rapporti politici come rapporti di diritto pubblico, in cui il legislatore e il suo prodotto, la legge,
hanno una posizione super partes. La legge viene formata attraverso la regola di maggioranza,
il che presuppone che vi sia chi in una deliberazione e nel suo effetto legislativo perde e chi
guadagna: una minoranza che perde, una maggioranza che guadagna. Ma ovviamente alla legge
tutti, maggioranza e minoranza, si piegano. L'obbligo politico viene qui gestito attraverso una
procedura giuspubblicistica; essa è ricavata dal modello di tipo inglese, detto quindi
`westminsteriano', di democrazia, e rinvia più di ogni altro a due presupposti della democrazia
liberale: i limiti del potere e l'effettivo alternarsi dei partiti al governo. In realtà sappiamo già da
tempo che esiste una seconda procedura, teoricamente concorrenziale, ma in realtà
concomitante con la prima, di tipo pattizio o contrattuale, in cui non c'è una lex super partes,
bensì un pactum inter partes, cioè una figura di diritto privato in cui dal compromesso tutti
guadagnano qualcosa e nessuno ha soltanto perdite da sopportare. Dal punto di vista della teoria
dei giuochi banalizzata, la procedura giuspubblicistica è un gioco a somma zero (in una
operazione algebrica uno guadagna dieci, l'altro perde dieci e la somma del gioco è zero). La
procedura giusprivatistica, compromissoria o pattizia, è un gioco a somma positiva, in cui
ognuno guadagna qualcosa e quindi la somma algebrica complessiva è superiore a zero. Questa
seconda procedura, che ha portato modelli privatistici nel campo eminentemente (almeno una
volta) pubblico della politica ha preso largo campo, non soppiantando la regolazione via leggi,
via maggioranza-minoranza, ma erodendo lo spazio riservato a questi processi. Negli Stati del
benessere contemporanei si assiste così ad un processo sociale e politico risoltosi in ciò che gli
studiosi chiamano neocorporatismo: un tipo di gestione dei conflitti sociali e politici in cui non
c'è il pubblico, la legge, il parlamento, il governo che sta fuori dal gioco e lascia che sindacati e
patronato si mettano d'accordo o si scontrino quanto vogliano, a meno che non diano fuoco alle
fabbriche o a i municipi. La posizione tradizionale sarebbe quella di tenersi fuori, garantendo il
rispetto dell'ordine pubblico o al massimo intervenendo con la legge per fissare super partes le
condizioni generali in base alle quali accordarsi. La funzione del governo in situazione
neocorporatista è invece quella di essere insieme mediatore, (non arbitro che dice alle altre due
parti sociali in conflitto “tu perdi, tu vinci”, ma uno che li mette d'accordo) e parte in causa,
perché lo Stato stesso è datore di lavoro nell'enorme settore dell'impiego pubblico, e perché lo
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Stato provvede con provvedimenti di tipo finanziario (sgravi fiscali, fiscalizzazione degli oneri
sociali) a distribuire sull'intera comunità i costi del compromesso fra le due grandi corporazioni
dei datori di lavoro e dei lavoratori.
Questo è il neocorporatismo: un gioco a tre in cui il potere pubblico non riveste più una
funzione super partes tradizionale, ma è esso stesso parte in gioco e mediatore, anche disposto a
pagare in parte i costi della mediazione. Una parentesi problematica: questo tipo di regime,
ovvero di costituzione materiale a cui ci siamo abituati dal dopoguerra, è in parte eroso dalla
crisi fiscale dello Stato del benessere, dal dislocarsi del conflitto sociale dallo scenario
tradizionale (fra classe operaia o lavoratori dipendenti e padronato o datori di lavoro) a quello
sempre più definito da un largo settore della società che non entra neppure nel gioco
neocorporatista: i disoccupati, i poveri, gli immigrati, gli emarginati, quelli che sono in
posizione debole sul mercato del lavoro o che ne sono stati espulsi. Uno dei problemi attuali,
oltre quelli di crisi fiscale, che rende dall'esterno non più resistentissimo il neocorporatismo
come costituzione materiale, è ciò che è stato figurativamente chiamato il costituirsi della
società dei due terzi. Alla società bipolare di capitalisti e operai, lavoratori dipendenti e
possessori dei mezzi di produzione, come forma centrale dello scontro sociale, si è sostituita la
società divisa sì in due, ma non più fra il 50% e l'altro 50%, o meglio fra il 70% e il 20%. Nel
66% della società dei due terzi ci stanno i lavoratori dipendenti con posizione più o meno
consolidata tanto quanto gli imprenditori piccoli e grandi, i membri della varie burocrazie
pubbliche e semi-pubbliche, e così via. L'altro terzo della società, fra cui i giovani senza lavoro
o con lavoro totalmente precario, è completamente fuori da queste coordinate e l'esserne fuori
completamente rende socialmente, e in prospettiva politicamente, più precaria la società
postindustriale contemporanea. È un problema di crisi e precarietà della democrazia
contemporanea nella sua costituzione materiale.
Veniamo ora ad un terzo momento - per importanza è il primo - in cui democrazia e regola
di maggioranza non sono coestensive. Occorre chiedersi quali sono le condizioni preliminari
senza le quali non è pensabile che la regola di maggioranza esista. Ci sono due condizioni
fondamentali: (a.) che vi sia un accordo unanime sull'accettazione della regola. Ma alle spalle
dell'uso della regola di maggioranza ci deve essere (b.) qualcosa che sia un patto sociale, che
non consista solo nell'accettazione della regola, ma anche nell'esclusione della sua possibile
abolizione una volta conquistato il potere in base ad essa (più esattamente non sarebbe la regola
a venir abolita, bensì la sua applicazione permanente e garantita). Perché sia una regola
accettata e condivisa non solo una volta, ma una volta per tutte, la devo accettare sia che perda
(essendo oggi in minoranza, ma con la possibilità effettiva di non esserlo più domani) sia che
guadagni (essendo oggi in maggioranza, ma dovendo agire nel rischio di non esserlo più
domani). Addirittura potremmo porre delle sanzioni su chi vuole abolirla per rendere più forte
questa condivisione della regola come condizione essenziale del suo funzionamento; delle
sanzioni su chi promettesse e propagandasse con le parole o con i fatti di abolire la regola di
maggioranza, una volta che abbia conquistato il potere. Questo è il problema di come e quanto
la democrazia, come quel regime che fondamentalmente non può fare a meno della regola di
maggioranza, debba difendersi da chi la vuole abolire. Ma qui di problemi se ne apre un altro:
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se debba valere di più la costanza ed intangibilità delle regole, oppure un'altra cosa, che non è
una regola, ma un principio fondamentale della democrazia, in quanto democrazia liberale: il
principio del free speech, cioè della libertà di opinione e di manifestazione del pensiero. Da
questo punto di vista può essere considerato ammissibile che io dica in democrazia che se
vincerò abolirò la regola; se poi lo faccio mi tiro addosso la sanzione, ma se soltanto lo dico, se
dico che è bene abolire la democrazia una volta che io abbia vinto in base alla regola di
maggioranza, potrei anche uscirne senza sanzioni, se ci si mette d'accordo di far prevalere il
principio della libertà di opinione. Su questa cosa si è molto discusso soprattutto negli anni
Cinquanta-Settanta, per armare la rinnovata democrazia contro coloro che dicevano o parevano
dire di volerla abolire; questo ha portato per esempio all'esclusione (meramente nominale nel
primo caso) del partito fascista dalla politica italiana, di quello comunista dalla politica tedesca.
Il problema è cruciale: se metto i diritti fondamentali e inalienabili sotto la regola di
maggioranza è come se accettassi che un domani la regola di maggioranza venga abolita,
insieme a cose ancor più importanti di essa. La libertà di non essere ucciso dall'autorità statale o
carcerato senza processo, la libertà di opinione, di produrre e leggere la stampa che voglio, e
infine di poter deliberare politicamente senza paura per i miei beni più essenziali: tutte queste
cose non possono essere subordinate alla maggioranza che di volta in volta governa un paese.
Dobbiamo tutti quanti riconoscere che essi sono diritti inviolabili di ciascuno sia come uomo o
donna, cioè come essere umano, sia come membro della comunità politica e cioè cittadino: ecco
- per riprendere il linguaggio della Rivoluzione francese - i diritti inalienabili dell'uomo e del
cittadino. Tutelarli non è propriamente - come si dice nel linguaggio comune - il mestiere della
democrazia, la democrazia riguardando piuttosto i rapporti di potere e quindi la partecipazione
di tutti al potere, alla sua suddivisione e gestione. La dottrina dei diritti inalienabili e
fondamentali è piuttosto il prodotto, il centro focale del liberalismo. Noi siamo abituati a veder
andare il liberalismo e la democrazia abbastanza di conserva, almeno in Occidente. In verità per
molto tempo di conserva non ci sono andati: ci sono stati decenni di polemica da parte dei
democratici contro la ristrettezza della concezione meramente liberale dei rapporti civili, che si
contentava di stabilire quelle astratte norme sui diritti fondamentali, ma non si occupava della
distribuzione del potere e quindi della effettiva produzione di questi diritti. Così come c'è stata
per decenni una polemica intensa dei liberali contro il carattere tendenzialmente autoritario
della democrazia, proprio perché la democrazia, e quindi la maggioranza che di volta in volta si
forma, si pensava che potesse mettere a rischio libertà e diritti fondamentali.24 Occorrono
certe condizioni perché si arrivi allo sposalizio di liberalismo e democrazia. Esso può avvenire
al meglio dove ci sia:
a) una cultura individualistica, cioè l'individuo sia ritenuto il portatore ultimo e supremo di
valori, diritti e interessi.
b) un regime di tolleranza, nato se non altro dalla stanchezza, dopo che per alcuni decenni o
secoli ci si è scannati fra vicini di casa, o fra una città e l'altra in nome di questa o quella
24
La storia dei rapporti non facili tra liberalismo e democrazia si può leggere utilmente in un libro di
Bobbio, Liberalismo e democrazia, pubblicato da Franco Angeli.
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versione di un passo del Vangelo o delle Lettere degli Apostoli o del Corano; ciò non è
pensabile se non vi è stato un certo processo di laicizzazione.
c) una qualche omogeneità culturale, nel senso che, almeno fino ad adesso, si osserva che
fuori dei paesi toccati, o per sviluppo autonomo o per lunga dominazione coloniale, dalla civiltà
giudaico-cristiana non si verifica un impiantarsi in profondità della democrazia e del
liberalismo.
Cultura individualistica, tolleranza, omogeneità culturale sono in gran parte tre aspetti
diversi di una stessa Koiné culturale, o - si dica pure - antropologica. Queste sono condizioni di
carattere prevalentemente culturale; ma devo ricordare che ogni lotta politica regolata nelle
maniere rispettose di ciascuno, come è quella che avviene in regimi liberali e democratici, ha
una premessa materiale, e cioè
d) che la scarsità dei beni sia moderata. Tra la gente che muore di fame, anche se educata
cristianamente, è difficile che prolifichi e si impianti il seme delle libertà democratiche. Scarsità
moderata è a sua volta premessa del fatto che vi sia una certa eguaglianza o non eccessiva
disuguaglianza di benessere, che il rapporto fra chi sta molto bene e chi sta molto male non
superi un tot, perché evidentemente, se io penso soltanto alla mia fame, non accetterò di
rispettare la regola di maggioranza, e probabilmente non mi interesserà nulla della democrazia e
della vita politica. Ora, a rendere più moderata la scarsità ha provveduto finora meglio di altre
l'economica di tipo capitalistico; ed in effetti la democrazia liberale si è meglio impiantata nei
paesi ad economia capitalistica matura, imponendo tuttavia alla dinamica economica
capitalistica certe regole volte anche ad evitare le minacce che da tale dinamica possono
derivare alla vita democratica.
Dove esistono queste premesse è probabile che si produca una meta-premessa, una
premessa di livello logico superiore:
e) la permanente prevalenza di un interesse generale a mantenere quelle regole e a tutelare
quei valori-base della democrazia. La prevalenza deve essere permanente, l'interesse deve
essere generale e questo vuol dire che nell'interesse dei più non deve prevalere la scelta che è
meglio scannarsi piuttosto che sottoporsi al giuoco di maggioranza e minoranza e di rispetto
reciproco tra maggioranza e minoranza. Né deve prevalere l'attitudine di dire: finché sono
minoranza sto buono, cerco di sbarcare il lunario, appena prendo la maggioranza abolisco il
rispetto della regola stessa. `Interesse generale' vuol dire che, se non tutti, la stragrande
maggioranza dei partecipanti al gioco politico deve avere interesse materiale, morale e culturale
al mantenimento delle regole del gioco così come stanno. In altre parole bisogna essere convinti
che continuando a stare assieme, pur con una distribuzione di potere fra maggioranza e
minoranza, pur avendo alcuni che stanno meglio e altri che stanno peggio, restando tutti
assieme con quelle regole si cresce ciascuno di più che non dividendosi e sbranandosi.
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15. Lo Stato
Questo tema capitale verrà qui trattato in modo assai succinto per due ragioni. La prima è
che,tranne la sovranità, tutte le categorie-chiave del politico, che spesso si espongono a partire
dallo Stato, sono già state esposte sopra ad un maggiore livello d'astrazione, e basterà - quando
occorra - richiamarle. La seconda ragione è che per una serie di temi classici (il termine Stato;
continuità o meno fra Stati antichi e moderni; forme di Stato e forme di governo) si preferisce
rinviare alla trattazione, ormai altrettanto classica, che Bobbio ne dà nel capitolo Stato, potere e
governo del suo libro Stato, governo, società. Verrà invece svolta qui ampiamente la tematica
dello Stato al plurale, che trova insufficiente trattazione ed attenzione concettuale nei testi
sistematici di filosofia politica.
Ma cominciamo con la definizione. Lo Stato (s'intenda sempre lo Stato moderno - questa ed
altre definizioni contengono molti elementi validi anche per gli Stati dell'antichità, ma valgono
pienamente solo per lo Stato moderno) è quell'istituzione che detiene il monopolio della forza
legittima su di un determinato territorio e nei confronti di una determinata popolazione. Esso
non ha al di sopra di sé nessun altro ente o istituzione (è dunque superiorem non recognoscens)
e quindi gode di piena sovranità, la quale ha limiti solo materiali, cioè vi sono materie sulle
quali la sovranità non si esercita o per limiti naturali (limite mobile, non essendo più
necessariamente vero che il Parlamento inglese tutto può decidere nella sua legislazione, salvo
che un uomo divenga donna) oppure limiti imposti alla sovranità dall'ordinamento stesso, limiti
che lo Stato si impone da solo (per es. il Parlamento, inglese od altro, potrebbe domani decidere
una legge costituzionale che neghi a se stesso il potere di deliberare interventi biogenetici).
Insieme ai limiti interni allo Stato vi sono i limiti imposti dall'essere la sua sovranità relativa ad
un territorio e ad una popolazione. Questo elemento sembra puramente aggiuntivo, geografico,
ed invece è un elemento concettuale importante: il limite della sovranità dello Stato è dato dagli
altri Stati, dal fatto che, come qualcuno ha detto, essendo la terra sferica e non un piano
illimitato, non vi possono essere - se si esclude una monarchia o dittatura planetaria - altro che
molti Stati, il potere dell'uno essendo sempre delimitato da quello degli altri, e dovendosi
confrontare l'uno con gli altri.
Ricordiamo altre caratteristiche proprie dello Stato all'interno. Anzitutto, gli attori della vita
statuale, secondo la teoria moderna contrattualistica, sono gli individui, mentre gli enti, i
cosiddetti corpi intermedi, e secondo alcuni anche la società civile, sono secondari rispetto agli
individui umani. Secondo, lo Stato è una unità politica relativamente stabile nel tempo e nello
spazio: dico relativamente perché gli Stati possono consensualmente dividersi, essere sottoposti
a secessione e possono essere inglobati in un altro, o disciogliersi in una federazione. Gli Stati
moderni (in verità, ciò vale di tutti gli Stati che abbiano una qualche Costituzione, come Atene
e Sparta, ed una configurazione giuridica, come Roma; non vale per regimi personali, satrapieet
similia.) consistono di istituzioni impersonali e permanenti. Ogni Stato ha delle funzioni, non
tutti hanno dei fini, nel senso che possono o no darsi obiettivi indicati da una particolare
concezione politica, ideologica, religiosa o quant'altro. Le funzioni dello Stato moderno sono la
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produzione, l'accertamento e l'attuazione del diritto: lo Stato funziona prevalentemente
attraverso la legge, non nel senso di essere un `robot di commi di legge' (Paragraphenautomat,
Max Weber), bensì perché gli interessi, le volontà, i rapporti di potere di cui esso si sostanzia
debbono sempre e comunque, per divenire atto dello Stato, potersi presentare in forma di legge
o riconducibile ad una legge.
Si suppone insomma che il diritto di volta in volta prodotto dallo Stato sia valido e
vincolante per tutti. Certo, in condizioni eccezionali esso può essere non valido perché fondato
su autorità cui manca qualcosa, per esempio il titolo per fare la legislazione oppure perché un
attore (un gruppo sociale o nazionale o dottrinale) rivoluzionario si rifiuta di sottostare a quel
diritto della cui produzione lo Stato precipuamente si occupa. Sono casi eccezionali che non
mutano la regola, perché prima o dopo (certo, nel frattempo possono avvenire terremoti) quel
gruppo o viene riassorbito o fa davvero la rivoluzione e crea un nuovo diritto.
Torniamo al tema della sovranità, per trattarlo in modo più diretto. Con esso si indica il
potere statuale in quanto sommo all'interno e indipendente con riguardo a quanto è fuori dello
Stato. La sovranità in quanto summa potestas è pensabile solo nella società politica, perché
soltanto in essa - come sappiamo da quanto si è detto sul potere politico - esiste questo
ordinamento verticale e piramidale del potere. Nella sua versione classica, si usano anche
aggettivazioni più specifiche: essa è assoluta, non sottoposta cioè a leggi (almeno a leggi
positive) d'altra fonte che quelle fatte dal sovrano medesimo. È una, non essendo suddivisa fra
un potere centrale, i ceti, i corpi intermedi, ma risedendo tutta nello Stato in quanto fonte unica,
al che non fa contrasto che i poteri dello Stato possano essere delegati (ma non ceduti) a questa
o quella istanza. È perpetua ed inalienabile, non essendo lo Stato proprietà personale del
principe, e si può perdere - come scrisse Leibnitz - solo “par la force des armes”. In quanto
sovrano, lo Stato ha la plenitudo potestatis che una volta toccava solo al sacro romano
imperatore.
Detto che cos'è la sovranità, ci resta da dire in che cosa si manifesta e dove risiede. Sono
due domande capitali della teoria politica classica, ma ne abbiamo già trattato sotto altro titolo e
qui ci limiteremo a richiamare alcune cose. A riguardo della prima domanda, si usa suddividere
le risposte in due tipi basilari: quella data da Jean Bodin, il primo teorizzatore della sovranità
come tale (Six livres de la République, 1562) e poi più pienamente formulata da Rousseau,
secondo i quali la sovranità consiste nel fare e disfare le leggi, e si incarna dunque
primariamente nel potere legislativo. L'altra risposta è quella dei teorici della forza, che vedono
la sovranità soprattutto come monopolio della forza, risedendo essa dunque eminentemente nel
potere esecutivo. Si va da Thomas Hobbes a Carl Schmitt (“sovrano è colui che decide dello
stato di emergenza”).
All'altra domanda si sono date tante risposte quante sono le epoche e le dottrine dello Stato
moderno. La sovranità risiede nel re dell'assolutismo, o nel `King in Parliament' della tradizione
costituzionale inglese, o nel popolo, come recita da ultimo la nostra Costituzione (art 1, comma
2), ma già duecento anni fa enunciavano quelle degli Stati uniti d'America (“We, the people of
the United States”, sebbene il potere legislativo vi sia tutto deferito al Congresso) e della
Francia rivoluzionarie.
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Che la sovranità risieda nel popolo o ad esso appartenga è risultato del maggior
cambiamento storico in questo campo dopo la nascita dello Stato sovrano dalle ceneri
dell'universale Sacro Romano Impero e prima dell'attuale crisi della sovranità. Tale
cambiamento prese la forma di una congiunzione fra statualità e nazionalità: quest'ultima
divenne la formula politica in cui il popolo sostituì il principe come titolare della suprema
potestà e legittimità. Non che le nazioni, come vogliono le dottrine nazionalistiche,
preesistessero allo Stato e reclamassero forma statuale (indipendenza, unità, potenza). C'è stato
invece un nation-building parallelo o successivo allo state-building, e questo intreccio è
risultato vincente perché ha fuso insieme il nuovo principio di sovranità e legittimità, il popolo
come demos, con un'entità in cui preesistenti elementi etnici e culturali (lingua, tradizioni, talora
religione) venivano fusi ed esaltati nella nuova figura della nazione, del popolo come ethnos. È
stato in questo alveo che si sono potute vincere le lotte per l'indipendenza da poteri estranei o
assoluti, e per la creazione di una cittadinanza in termini di diritti civili, politici ed infine
sociali. Ancora cinquant'anni fa, molti hanno potuto intendere la Resistenza italiana come
`secondo Risorgimento'.
In questa luce, la nazione non è un'entità etnica (biologica), o mitico-spirituale (una
`comunità di destini') o un'organico ed ineludibile frutto di storia e tradizioni che preesista od
esista indipendentemente dallo Stato. Essa è piuttosto un atto di volontà comune, un “plebiscito
di tutti i giorni” (Ernest Renan, 1881) o una “comunità immaginata” (Benedict Anderson,
1983), prodotto di un'operazione, di una costruzione culturale e politica svolta dalle élites
intellettuali, che prende realtà in uno Stato preesistente (Francia, Spagna) o in uno Stato in
costruzione o ricostruzione (Germania, Italia, Polonia nell'Ottocento). Storicamente, il `popolo'
cui la nazione ha voluto dar forma è stato concepito privilegiando nel modello tedesco i legami
di sangue e tradizione (ius sanguinis) ed in quello francese i valori e le leggi (“liberté, égalité,
fraternité”) in cui chi sta in Francia (ius soli) o chi parla francese (nelle élites dell'Africa
francofona, per esempio) si riconosce.
L'idea di nazione ha rifondato la sovranità, trasferendola dal principe al popolo, così
fornendo un cemento unitario di rilegittimazione agli Stati esistenti od in via di creazione. Che
in Europa gli Stati in gran parte esistessero non si doveva allo spirito nazionale, bensì allo
sviluppo del sistema politico europeo fra Medioevo e prima modernità. Esso vide il definitivo
smembrarsi dell'unità politica universale, il Sacro Romano Impero, aggravata dallo smembrarsi
della cristianità con la Riforma protestante; fattori politico-dinastici, religiosi, economici e
geopolitici (l'essere l'Europa relativamente protetta dalle invasioni, una volta esauritasi quella
tartara) condussero alla creazione di Stati indipendenti (in quello che chiameremo più in là il
`sistema vestfaliano'), che sopravvissero poi alla fine dell'antico regime con cui erano
concresciuti.
Tutto questo s'intenderà meglio una volta trattate le relazioni internazionali e le categorie
che ne derivano. Un cenno va fatto al nazionalismo, di cui la prima metà di del ventesimo
secolo ha visto i trionfi e gli orrori in Europa occidentale, mentre ad altri abbiamo poi assistito
nella parte orientale del continente (ex-Jugoslavia). Per un verso esso si spiega come ideologia
compensatoria - con la fornitura di un'identità tanto forte quanto mitico-emotiva ed escludente -
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della frammentazione sociale e psicologica creata, in società sempre più di massa,
dall'economia di mercato (mondiale) e dal regime industriale. Per altro verso esso ha coinciso
con, anzi ha stimolato l'implosione del sistema vestfaliano, rivelatosi nelle due guerre mondiali
ormai del tutto incapace di regolare i rapporti internazionali con un ordine pur minimo. Non a
caso queste esperienze hanno dato vita sul nostro continente alla svolta politica e culturale verso
l'unificazione europea.
16. Gli Stati
Considero questa parte come fondamentale e ritengo un errore della filosofia e della scienza
politica la separazione tra l'aspetto interno e quello internazionale della politica; considero una
povertà della scienza politica quello di ignorare quasi l'aspetto della scienza politica che
riguarda le relazioni internazionali e che si chiama teoria delle relazioni internazionali. Finché
sia possibile rispetto allo stato degli studi, e finché non risulti forzato rispetto ai dati di fatto, mi
sforzo di definire le categorie politiche con pari riguardo all'aspetto interno ed a quello
internazionale, convinto che le loro differenze strutturali non giustifichino di ignorare i
problemi di una possibile teoria generale della politica.
Fatta questa premessa epistemologica, comincio con alcuni dati di fatto.
Gli Stati alla fine del congresso di Vienna nel 1816 erano 23, nel 1980 erano diventati 155 e oggi (2005)sono
circa 192, tutti membri dell'O.N.U., tranne il Vietnam, le due Coree e, finora, la Svizzera che per costituzione non
Tra gli Stati non
c'è il monopolio effettivo della forza, tanto meno il monopolio legittimo. Quello può esistere per
un certo tempo in una certa zona, ma non c'è mai nell'intero orbe terracqueo, e comunque si
tratta sempre di un monopolio effettivo, ma non legittimo. Se non sono riconducibili al modello
infrastatuale, se non si vuole cioè scivolare in un’ingenua domestic analogy, con quali concetti
osserviamo le relazioni interstatali?
Ora, di siffatte relazioni si può parlare soltanto laddove esista un sistema internazionale,
cioè un quadro entro il quale certi Stati si conoscono ed interagiscono fra di loro
(eventualmente anche guerreggiando) in una misura che sia per essi rilevante. Diverso è il caso
in cui il sistema si sia sviluppato in direzione di (almeno un rudimento di) società
internazionale, entro la quale gli Stati anzitutto si riconoscono - e fanno pure altre cose che
vedremo. Riconoscersi è diverso dal conoscersi, che significa sapere che l'altro Stato esiste e
tenerne conto come elemento su cui basare i propri calcoli politici; riconoscere significa dare a
quello Stato un certo attributo di legittima esistenza, ammettendone dunque la sovranità.
Dopo la pace di Vestfalia, che nel 1648 pose fine alla Guerra dei trent'anni, ognuno degli
Stati moderni europei era considerato sovrano. Gli imperatori di Cina e Giappone
consideravano invece le potenze esterne o come possibili sudditi, oppure come estranei alla
propria sfera di interesse e interazione; mentre da un certo punto in avanti gli europei si misero
a proiettare le loro categorie su tutto il mondo, facendole precedere o seguire da galere ed
poteva farne parte, anche se di fatto vi collabora (Ginevra è la seconda sede dell'O.N.U.).
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armate; quindi si posero il problema se considerare o meno gli Stati extraeuropei nel modo
stesso in cui consideravano gli Stati europei, cioè ognuno come perfecta communitas
superiorem non recognoscens. Tra questi attori non esiste un diritto che li leghi assieme: lo
stesso elemento essenziale del patto giuridico e cioè la clausola “pacta sunt servanda” non vale,
perché dentro ciascuno di essi, guardando verso l'esterno, vi è un principio superiore a quello
“pacta sunt servanda” che è il principio “salus rei publicae suprema lex”, e quindi la sicurezza
esterna dello Stato impedisce di riconoscere come norma suprema la fedeltà ai patti, che
possono essere rotti quando si presume che la sicurezza dello Stato lo richieda perché sono
cambiate le condizioni di quadro entro cui vennero stipulati: pertanto pacta sunt servanda rebus
sic stantibus. Quando gli Stati entrano in conflitto tra di loro vi possono essere negoziati,
compromessi, vi possono anche essere richiami a dottrine giuridiche o a norme giuridiche, nel
senso di esistenti patti e trattati; ma se l'interesse dei contendenti lo richiede, tutto questo viene
spazzato via e la risoluzione del conflitto viene affidata allo scontro violento, cioè alla guerra.
Se fallisce la negoziazione e la moderazione bilaterale o multilaterale, non c'è nessuno che
imponga ai due o agli n contendenti una norma, un principio o anche solo un compromesso: nei
rapporti internazionali c'è l'assenza del Terzo. Ci sono tante figure di Terzo nella filosofia
politica; ciò che ci interessa è che manca la figura del tertius super partes, cioè di colui che ha
autorità e insieme forza sufficiente per imporre una soluzione e farla rispettare imponendo
sanzioni a chi non la osserva. Così stavano ed in parte stanno ancora le cose nel mondo
moderno.
Quello che già ho detto si può ridire in altri termini propri della teoria politica: si può dire
che tra gli Stati esista quello Stato di natura, quel bellum omnium contra omnes (non come
actual fighting, dice Hobbes, ma come known disposition thereto), che nella raffigurazione
contrattualistica descrive la condizione degli individui umani prima del patto societario. Si
accetti o no la metafora dello stato di natura per descrivere questa situazione, si può certamente
dire che i rapporti internazionali sono connotati dalla mancanza di un governo comune, di un
potere comune. Vi può persino essere un qualche principio giuridico che la teoria sostenga
essere capace di regolarli, ma non c'è nessun potere che lo faccia rispettare. Vuol dire che in
linea di principio fra gli Stati regna l'anarchia. Anarchia ha qui il significato tecnico della teoria
politica, non vuol dire anarchia in senso colloquiale, o la confusione e il caos. Vi possono essere
tanti rapporti relativamente regolati tra gli Stati, ma fra questi non c'è l'archia o l'archòs, cioè
non c'è un potere, un governo comune che faccia rispettare leggi e imponga soluzioni. In questo
schema elementare dei rapporti fra gli Stati, è sempre possibile il ricorso alla forza organizzata,
non alla forza tout court, ma alla forza statualmente organizzata, usata per piegare la volontà
dell'altro, per fargli fare le cose che altrimenti non farebbe. Si vede qui che la guerra è un altro
esempio della relazione di potere, perché, se riprendiamo la definizione relazionale del potere,
vediamo che esso è ciò che usando qualsivoglia strumenti, anche bellici o comunque violenti,
permette ad a di far fare a b ciò che b senza quell'intervento di a non avrebbe mai fatto. Vale
qui a maggior ragione la distinzione tra costrizione e deterrenza.
Quando si parla di guerra in filosofia politica è indispensabile ricorrere al filosofo della
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guerra per eccellenza e cioè a Carl von Clausewitz che ha scritto Vom Kriege.25. La guerra, dice
Clausewitz nel primo libro di Della guerra, è “un atto di violenza volto a piegare l'avversario al
soddisfacimento del nostro volere”. Già in questa definizione si dice che la violenza è il mezzo
per realizzare un fine, che è quello di piegare il nemico, allo scopo evidentemente di
raggiungere il nostro fine politico. La guerra è e non è pura violenza, ovvero non si attua
sempre e solo in quella che Clausewitz chiama la sua forma astratta di “guerra assoluta”. Non
essendo atto isolato nel tempo e nella vita dello Stato, la politica la attraversa mediandosi con la
natura del mezzo-violenza; la “guerra effettiva” è dunque “la continuazione della politica con
altri mezzi”. Questa è la celebre formula del pensiero clausewitziano, la Formule così
battezzata da Raymond Aron nel suo monumentale Penser la guerre. Clausewitz (1976).
Quanto sia complesso il fenomeno della guerra Clausewitz lo dice in un'altra nota
formulazione: essa è una `trinità' di violenza e odio (la parte del popolo), di giuoco di
probabilità e caso (la parte del condottiero e dell'armata), infine di mezzo della politica
sottoposto all'intelletto (la parte del governo).
Sono dunque le relazioni fra gli Stati compiutamente descritte da categorie quali l'anarchia e
la possibilità di guerra? Non v'è in esse ordine alcuno, né in senso analitico né in senso
valutativo? La risposta non può essere che ambivalente, avrebbe dovuto esserlo già da tempo, lo
deve essere tanto più ora che siamo in un'epoca nuova, l'era nucleare, che è forse un'epoca di
transizione. La struttura elementare delle relazioni fra gli Stati resta l'anarchia, la mancanza di
un potere comune legittimo ed efficace, ma ad essa si sono sovrapposti, modificandola
profondamente, elementi di altro genere, dall'`addomesticamento' della guerra al crearsi di una
società internazionale fino al ruolo presente delle istituzioni internazionali. Elementi che
dapprima seguiremo nella loro evoluzione moderna, per discuterne poi la sorte paradossale
nell'epoca contemporanea o nucleare.
Mentre la Guerra dei trent'anni aveva devastato l'Europa, soprattutto quella centrale,
coinvolgendo ampiamente le popolazioni negli scontri militari (invasioni, saccheggi, massacri e
persecuzioni religiose), dopo Vestfalia il sistema europeo tende ad assestarsi su di uno schema
regolare di azione e reazione (l'`equilibrio di potenza'), la cui conservazione è interesse di tutti,
insieme con nuove regole, fattuali o codificate, di contenimento della violenza, i temperamenta
belli. Che non vi sia più semplice interazione fra gli Stati, ma che fra di essi si stabiliscano
alcuni, seppur ristretti, fini comuni significa che al di là del sistema si sta formando una società
internazionale (prendo questa terminologia dal libro-chiave di Hedley Bull, The Anarchical
Society, 1977). Il contenimento della violenza quando c'è la guerra ed il mantenimento della
pace finché non sono toccati gli interessi di sicurezza degli Stati, la preservazione della loro
sovranità (della tua, della sua e per reciprocità della mia) e della stessa società (contro suoi
sovvertitori come Napoleone o Hitler), quindi il rispetto dei patti rebus sic stantibus: ecco i fini
della società internazionale che si sono venuti formando nella storia moderna, dando corpo a
quella che Bull chiama - raffigurandone efficacemente l'ambivalenza - “società anarchica”.
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Clausewitz era un generale prussiano del tempo delle guerre napoleoniche, morto nel 1831, anche lui
di colera come Hegel; la vedova, Marie von Clausewitz, pubblicò un anno dopo, nel 1832, questo
trattato incompiuto
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Tutti insieme essi configurano l'ordine internazionale.
Veniamo ora ad illustrare e schiarire alcune cose appena richiamate. Il contenimento della
violenza rispetto alla Guerra dei trent'anni e alle precedenti guerre di religione,
l'“addomesticamento della guerra” (Carl Schmitt in Der Nomos der Erde, 1951) avvenne dentro
e grazie alla figura del sistema internazionale più nota nel suo nome inglese di balance of
power. Che cosa significa esattamente questo equilibrio?
Fra Stati di potenza diversa, ma in equilibrio fra di loro, la nozione a cui equilibrio fa
opposizione è supremazia. L'equilibrio di potenza vuol dire un sistema in cui non si afferma la
supremazia di uno Stato. Non si afferma attraverso quel meccanismo che, qualora uno o un
gruppo dei membri del sistema cerchi di conseguire una supremazia, porta gli altri ad allearsi
pro tempore e ad hoc, cioè per contrastare con tutti i mezzi politici e anche militari l'ascesa alla
supremazia di quell'altro attore o gruppo di attori. Questo è un equilibrio che da un lato nasce
dai rapporti effettivi, nasce dalle cose, ma ad un certo punto diventa anche dottrina e concetto,
diventa addirittura principio giuridico con il Trattato di Utrecht del 1713 che pone termine alla
guerra di successione spagnola, dove si presenta proprio il termine `iustum potentiae
equilibrium'. Del resto il primo episodio evidente di equilibrio di potenza era stato il sistema
politico degli Stati italiani fra il 1454, la pace di Lodi, e l'invasione in Italia nel 1494 da parte di
Carlo VIII di Francia. L'equilibrio di potenza è correlato in qualche modo con altre dottrine e
fenomeni politici, primariamente con la ragion di Stato, cioè con la dottrina che ritiene che la
salus rei publicae giustifichi (pur nel quadro complessivo della sottomissione della politica alla
morale, quale viene idealmente mantenuta nella cultura del Cinque-Seicento) comportamenti
opportunistici, cioè giustifichi l'abbandono di un'alleanza, la non osservanza di un patto e il
voltafaccia, la mobilità delle alleanze, perché di volta in volta è diverso lo Stato che sembra che
puntare alla supremazia, cosicché di volta in volta diverse devono essere le alleanze. Ancora
una notazione storica: il concetto di equilibrio di potenza è grosso modo attuato nel sistema
politico europeo tra il 1648, pace di Vestfalia, e, a voler essere radicali nella veduta, il 1914.
Alcuni limitano la validità di questo concetto al Sei-Settecento; nella sua accezione più astratta
è ovviamente vero che l'equilibrio di potenza si rompe con Napoleone, ma si può altrettanto
sostenere che quella di Napoleone fu un'avventura alla fine della quale si ristabilì con il
congresso di Vienna l'equilibrio di potenza. Si può sostenere peraltro che ciò che si ristabilisce a
Vienna nel 1815 non è più l'equilibrio di potenza, ed in effetti il nuovo assetto verrà poi
chiamato in maniera diversa: il Concerto delle Nazioni. Questo fu il primo atto rilevante in cui i
partecipanti, i membri del sistema politico europeo, che poi vuol dire in quel periodo il sistema
politico mondiale, si mettono assieme per sancire ufficialmente che non sono solo membri di un
sistema, ma membri di una società, e che l'equilibrio non si reggerà più su di un meccanismo di
riequilibrio cieco, ma cercando di determinare in maniera preventiva, e non post factum, cosa si
può fare e cosa non si può fare, quali cambiamenti ci possono essere e quali no - pur meglio
restando che non vi sia nessun cambiamento. A questo una parte dei partecipanti al Congresso
di Vienna pone anche un sigillo ideologico, la Santa Alleanza, che naturalmente non coincide
con il Concerto delle Nazioni, che comprende tutti. La Santa Alleanza riguarda le potenze
arciconservatrici: l'Impero asburgico, la Prussia e la Russia, ma è a sua volta una forma di
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società internazionale che, diversamente dalle alleanze del Sei/Settecento che avevano un fine
prevalentemente e dichiaratamente programmatico (cioè impedivano la troppa potenza dell'uno,
quali che fossero le affinità o disparità di fede fra amici ed avversari del momento), ha anche un
fine e un'ispirazione ideologica.
Il Concerto delle Nazioni - nuova e più matura versione delle politiche di ordine
internazionale, in quanto introduce il tentativo di prevenire e pianificare lo sviluppo
internazionale, ma il cui fine rimane quello del mantenimento dell'equilibrio di potenza - dura
fino al 1914, data-limite evidente. La prima guerra mondiale non può che spezzare l'equilibrio,
anche se si assume la versione più continuistica, guardando a quelle che gli storici francesi
chiamano tendenze di lunga durata. Oltre il 1914 mi pare proprio impossibile allungare la vita
dell'equilibrio di potenza come principio regolativo. Si tenta infatti di sostituirlo con la Società
delle Nazioni, che è un primo sistema di sicurezza collettiva. La nuova etichetta del sistema
internazionale è la sicurezza collettiva: facciamo tutti parte di una stessa società internazionale e
invece di guardare ciascuno alla sicurezza di sé e solo di sé e al massimo dei suoi alleati,
garantiamo la sicurezza di tutti. Ognuno è impegnato a intervenire per garantire questa
sicurezza, dovunque sia minacciata. Noi siamo ancora in regime di sicurezza collettiva; almeno
nel senso che la nozione, la mentalità politica, giuridica, strategica che dà forma e legittimità
all'agire della stragrande maggioranza degli Stati e soprattutto delle organizzazioni
internazionali, ancora adesso è la sicurezza collettiva, con aggiunta oggi della sicurezza
comune. L'organizzazione più efficace nel garantire collettivamente sicurezza ai suoi membri è
stata la NATO (North Atlantic Treaty Organization). Alla sicurezza collettiva si ispira
ovviamente la stessa ONU, ma il suo tasso di efficienza è purtroppo assai minore di quello delle
organizzazioni parziali o regionali.
Veniamo ora all'altra faccia di questa limitazione della guerra, di questo temperamento
dell'anarchia internazionale. Si tratta della dottrina della guerra giusta o bellum iustum che non
va confusa, come molti hanno fatto per loro comodo polemico, con l'apologia della guerra. Nel
suo sviluppo la dottrina della guerra giusta può anche essere stata soggetta a questa torsione, ma
nella sua genesi è una dottrina della limitazione della guerra, di restrizione delle occasioni in cui
si può fare la guerra e del modo in cui è ammesso farla. La nozione di guerra giusta comincia
con Agostino e poi con Tommaso e si consolida in una tradizione che attraversa il Medioevo e
poi il Rinascimento con i grandi trattatisti del Cinquecento, come lo spagnolo Vitoria, e del
Seicento, come l'olandese Groot (Grozio). È giusta la guerra che ha le seguenti caratteristiche
(riepilogate in una standard version a fini didattici): è dichiarata da un'autorità legittima; è
motivata da una giusta causa; è condotta dai belligeranti con retta intenzione, cioè per
raggiungere quel fine dichiarato e non uno subdolamente nascosto; è necessaria perché non vi è
altro modo di risolvere le controversie, è l'ultima ratio; ed è condotta con mezzi proporzionali,
anche se questo non è sullo stesso piano logico, ai fini che si vogliono raggiungere, giustificati
dalle condizioni precedenti. Questa è grosso modo la nozione che dà forma e giustificazione, e
in qualche misura anche restrizione, alla guerra nei primi secoli della modernità. È una dottrina
che riguarda la guerra tra gli Stati cristiani, cattolici o protestanti, non riguarda i rapporti con
Stati, popoli, potenze extra-europei, né riguarda gli scontri fra gli Stati cristiani nelle colonie.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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Gli scontri nei territori coloniali sono al di là della amity-line, della linea di amicizia che
dovrebbe reggere fondamentalmente i rapporti tra gli Stati cristiani (qui seguo C. Schmitt, Der
Nomos der Erde). Questa dottrina, così come l'ho sommariamente esposta, è una dottrina che
prevalentemente, salvo cioè che nell'aspetto che decreta la proporzionalità dei mezzi, determina
quando e a quali condizioni è giusto fare la guerra. È quindi una dottrina dello ius ad bellum.
Fra gli Stati cristiani essa viene in realtà generalizzata e formalizzata tanto da perdere
significato, perché in realtà essa viene così piegata alle esigenze di attori ciascuno sovrano e
ciascuno cristiano, ciascuno cioè dotato di titoli per far guerra, che non c'è alla fine più nessuno
tra questi attori che non trovi modo di muover guerra trovando comunque una giustificazione
dottrinale.
Pertanto la dottrina dello ius ad bellum perde interesse, anche se è interessante notare che
alcuni dei suoi concetti vengono recuperati nel sistema di sicurezza collettiva, venendo però
sottoposti ad altri principi (tale sistema, introdotto dapprima dalla Lega delle Nazioni, vuole
fare della sicurezza legittima di ogni singolo qualcosa che viene gestito e difeso da tutti). Il
principio della giusta causa si ritrova nel capo VII dello Statuto della Nazioni Unite art. 51, che
è quello che prevede che se uno Stato è aggredito ha il diritto di rispondere, di far guerra
all'aggressore, e gli altri Stati suoi alleati hanno il diritto di appoggiare l'aggredito contro
l'aggressore, ma con il limite, dovuto al regime di sicurezza collettiva, che questo è lecito finché
non intervengano i mezzi militari provvisti dall'organizzazione internazionale stessa; in quel
momento le iniziative dei singoli Stati dovrebbero cessare. L'art. 51 è quello che ha permesso
l'intervento degli occidentali in Corea nel 1950 e poi, più recentemente, per cacciare
l'aggressore iracheno dal Kuwait nel 1991. Così come l'art. 43 attribuisce all'organizzazione
delle Nazioni Unite il potere di utilizzare mezzi militari per ristabilire il diritto internazionale
infranto e ristabilire il rispetto dei fini dell'organizzazione, anche se gli strumenti (come il
Comitato dei capi di stato maggiore) che sono pure previsti dal capo VII non sono stati mai
creati, né tanto meno messi a disposizione dai singoli Stati aggrediti o minacciati.
Il concetto di autorità legittima subisce un primo peculiare allargamento del periodo postcoloniale, cioè da quando alla fine degli anni Sessanta - inizio degli anni Settanta
l'organizzazione delle Nazioni Unite riconosce una quasi personalità giuridica, e quindi un
quasi diritto di fare guerra, ai movimenti di liberazione nazionale, che pure non sono attori
statali o membri dell'O.N.U. Segnalate queste tendenze di segno cambiato nello ius ad bellum,
va detto poi che l'aspetto del bellum iustum che più si sviluppa effettivamente nel Settecento ed
Ottocento, e poi nel nostro secolo, è lo ius in bello, cioè l'idea di fare la guerra secondo principi
giuridici. Il che ad alcuni può sembrare una contraddizione in termini, ed in effetti lo è perché
nulla vi è di più antigiuridico del conflitto bellico: silent inter arma leges, si diceva una volta,
oppure all is fair in love and war. Si tratta di regole consuetudinarie di comportamento che alla
fine diventano norme, addirittura trattati o convenzioni internazionali. Esse definiscono molte e
diverse materie. Definiscono il titolo e i diritti-doveri del neutrale, principalmente il diritto di
non essere aggredito purché non faccia certe cose che configurerebbero appoggio ai
belligeranti. Determinano altre norme che la guerra sia posta in forma, cioè non che uno la
mattina si alza e invade l'altro, bensì la guerra va dichiarata e terminata con un atto giuridico: la
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dichiarazione di guerra e il trattato di pace. Ancora le potenze naziste e fasciste hanno fatto
guerra osservando queste forme: Mussolini il 10 giugno del 1940 concluse il suo celebre (e
famigerato) discorso da Palazzo Venezia annunciando che “la dichiarazione di guerra è stata
presentata agli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna”. Hitler con la Polonia fu meno
formale, iniziando semplicemente a sparare, ma dicendo che erano stati i polacchi a sparare per
primi, e facendo un comunicato su cui era scritto che dalle 5.45 del 1 settembre 1939 si
rispondeva al fuoco. Non parliamo dei giapponesi che presentarono a Washington una
dichiarazione di guerra quando i loro aerei erano già in volo per l'attacco a Pearl Harbor (7
dicembre 1941). Oggi, dato anche il carattere etnico o civile della maggior parte dei conflitti
armati, la dichiarazione di guerra non si usa quasi più. Delle regole dello ius in bello fa poi
parte, ed è forse la più rilevante dal punto di vista morale, la definizione di chi è combattente
legittimo e chi non lo è, originando quindi uno statuto giuridico che mira a definire addosso a
chi si può sparare e addosso a chi non si può sparare. Ciò tutela la sfera delle popolazioni civili,
e mira anche alla tutela dei combattenti che non siano truppe regolari, ma partigiani e
guerriglieri, che possono essere messi semplicemente al muro se non gli si riconosce lo status di
combattenti. Questo si ritrova anche nell'età nucleare perché definisce giuridicamente la
nozione di innocenti, cioè dei non combattenti che andrebbero preservati dall'effetto delle
esplosioni nucleari. Lo ius in bello definisce quali sono i mezzi di condotta leciti e quali non,
quindi esclude un certo tipo di armi, o un certo comportamento nei confronti del nemico,
proibisce le sofferenze non necessarie, soprattutto se ne possono restare vittima i civili; regola
una serie di altre materie quali il rispetto dei feriti e dei prigionieri, il rispetto dell'uniforme,
delle bandiere, dei luoghi d'arte e di cura, delle località non difese, le cosiddette città aperte.
Il problema dello ius in bello è duplice: uno è che esso è sempre sottoposto alla clausola si
omnes, cioè esso è valido se alla validità e alla osservanza di questo diritto aderiscono tutti,
tanto che se uno non vi aderisce, l'altro ha diritto di infrangere anch'esso le regole: se tu mi
bombardi le popolazioni civili io bombardo le tue, se tu attacchi i miei prigionieri, io fucilo i
tuoi prigionieri e così via (diritto di rappresaglia). L'altro punto debole è che non esiste un
giudice, un'istanza autonoma che indaghi le infrazioni ed imponga le sanzioni. Il giudizio e la
punizione espressi da un tertius super partes che non c'è sono sostituiti dalla rappresaglia, che
naturalmente colpisce più efficacemente i vinti, ma non necessariamente i colpevoli. Oppure la
tutela delle norme giuridiche non viene affidata ad un tribunale internazionale, ma alla giustizia
nazionale che di solito non è molto efficace ed equanime; qualche volta funziona, ma tardi ed in
maniera quindi poco incisiva. Ce ne sono pochi esempi, uno è la Corte marziale dell'esercito
degli Stati Uniti, che con molto ritardo e blandamente punì gli ufficiali responsabili del
massacro di My Lai, uno dei peggiori massacri di popolazioni civili durante la guerra del
Vietnam, perpetrato da truppe degli Stati Uniti.
Il rispetto dello ius in bello ha una sua storia che è quella di regole effettivamente osservate,
ma senza, dapprima, una normazione precisa e senza un apparato sanzionatorio, senza essere
dunque ius cogens. È un sistema di regole che prima vengono osservate di fatto, poi diventano
convenzioni più o meno tacite, poi ad un certo punto vengono codificate come norme, ma per
arrivare ad una loro codificazione nel senso non bilaterale, ma plurilaterale, bisogna arrivare al
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Congresso di Bruxelles del 1874 e soprattutto alle Conferenze dell'Aia del 1899 e del 1907,
peraltro del tutto inefficaci, perché sanciscono il divieto di usare gas ed armi aeree, cosa che
invece viene ben presto fatta nella Grande Guerra; e via proseguendo con la Convenzione di
Ginevra del 1925 sulle armi chimiche, ora soppiantata dal recente Trattato che è molto più
incisivo. Un processo in corso, dal quale si potranno imparare diverse cose se si hanno in testa
le giuste categorie, è la campagna internazionale volta a proibire le mine antiuomo. Un punto
d'approdo importante sono state le quattro convenzioni di Ginevra del 1949 riguardanti il
`diritto umanitario', e occorre dire che sono per un verso codificazioni dello ius in bello, per un
altro verso sono qualcosa di più, cioè sono codificazioni non solo di diritto internazionale, ma di
diritto cosmopolitico, cioè di quello che riguarda gli esseri umani come tali, indipendentemente
dallo Stato cui essi appartengono o nel quale si trovano.
Quanto sopra avvalora le affermazioni che, insieme e contro all'anarchia, esiste nel mondo
moderno un ordine internazionale ed una società internazionale. Dobbiamo qui aggiungere che,
fin dagli albori della modernità (Erasmo da Rotterdam), esiste fra filosofi e uomini di religione,
fra artisti ed uomini comuni, ma talora anche fra i politici, l'aspirazione a qualcosa che vada al
di là dell'ordine internazionale, il quale continua ad andare a braccetto con la sovranità e con
l'anarchia, e crei invece un ordine mondiale (si dice mondiale per intendere che esso, in quanto
fondato su principi normativi, ha pretese di universalità) che è ispirato non ai rapporti reali di
potenza tra gli Stati, ma a principi morali e giuridici universalistici: la pace permanente, la
giustizia, la libertà, la solidarietà, la difesa del debole e quant'altro. I grandi episodi di questo
profilarsi di un filone di `ordine mondiale', che comprende anche la tematica del diritto
cosmopolitico, sono lo scritto kantiano del 1795 Sulla pace perpetua e i 14 punti programmatici
proclamati da Woodrow Wilson, presidente degli USA, alla fine della prima guerra mondiale,
come pure la Carta delle Nazioni Unite (1945), là dove essa proclama la volontà dei firmatari di
tenere lontano dai popoli `il flagello della guerra'. Anche l’intenzione del quarantatreesimo
presidente degli USA di produrre un ”mutamento di regime” in senso democratico negli Stati
non-democratici per diminuire il pericolo che essi possono rappresentare per gli Stati uniti e
l’Occidente rientra nella tipologia dell’ordine mondiale.
* * *
Due schiarimenti terminologici sono a questo punto necessari.
Primo, conformemente all’inequivoco uso inglese, io adopero “realistico” quale aggettivo di
“realismo” in senso generico e colloquiale, e “realista” quale aggettivo di “realismo politico”.
Secondo, internazionale viene qui usato sia nel senso generico di “ciò che va al di là dei
meri confini della nazione” sia in quello stretto di “ciò che riguarda i rapporti fra nazioni
sovrane che tali rimangono”. Per questo caso la locuzione più precisa è “intergovernativo”.
“Sopranazionale” viene rigorosamente usato solo per entità che superino almeno parzialmente
la sovranità nazionale: per esempio nell’Unione europea vi sono elementi intergovernativi
accanto ad elementi sopranazionali o comunitari. Nel suo uso generico, “internazionale”
comprende sia “intergovernativo” sia “sopranazionale” sia “globale”, che più precisamente è
ciò che riguarda gli affari planetari ovvero dell’umanità indipendentemente dalle sovranità
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nazionali, per esempio il global warming.
17. L'era nucleare
Quanto segue è un riepilogo storico, necessaria premessa - data la diffusa carenza di
conoscenze precise al riguardo - alle considerazioni teoriche che seguiranno.
L'età nucleare si può far cominciare il 6 agosto del 1945, quando l'aviazione degli USA
sgancia la prima bomba da 20 Kiloton su Hiroshima, seguita da quella di Nagasaki due giorni
dopo. Le bombe erano state inventate e costruite (e sperimentate a metà luglio nel deserto del
New Mexico) nei laboratori di Los Alamos, nel New Mexico, da un team di scienziati civili, in
buona parte europei (fra questi Enrico Fermi), nell'ambito del progetto chiamato in codice
Manhattan. Esso era entrato in funzione nel 1942, a seguito di una serie di sollecitazioni, la
prima rivolta da Albert Einstein al Presidente Roosevelt nel 1939. Qui Einstein, non di sua
iniziativa, ma spinto da due suoi colleghi, segnalava a Roosevelt che i recenti progressi della
fisica nucleare potevano portare alla costruzione di un ordigno di straordinaria potenza,
ovviamente da parte dei possibili avversari degli USA, che in quel momento non erano in
guerra con nessuno, mentre in Europa stava iniziando la guerra mondiale. Ci vogliono tre anni
perché la macchina politico-burocratica americana si muova. L'iniziativa di Einstein fu dovuta
al timore che gli scienziati tedeschi costruissero una bomba nucleare per Hitler, cosa che fu
anche tentata, ma con poca convinzione e con scarso successo, forse anche perché i fisici
nucleari tedeschi sabotarono le ricerche, o almeno non vollero darsi da fare abbastanza - la
questione è ancora aperta, soprattutto per quanto riguarda Werner Heisenberg.
Quando esplode la bomba su Hiroshima la guerra con la Germania è già finita (8 maggio
1945) e ci sono addirittura un paio di scienziati (fra questi Jozsef Rotblat, premio Nobel per la
pace nel 1995) che si ritirano dal progetto Manhattan perché con la sconfitta di Hitler hanno
ultimato il loro compito e non vogliono che la bomba venga usata contro altri nemici. Perché la
bomba sia stata usata contro il Giappone è uno dei grandi problemi storici dell'età nucleare. Le
due versioni sono: è stata usata per vincere la resistenza del Giappone che stava per essere
invaso con previsione di una guerra di occupazione lunga e sanguinosissima, come era stata
lunga la guerra per scacciare il Giappone dai paesi asiatici e dalla sua stessa isola di Okinawa
nei mesi precedenti. Si prevedeva un macello sia per l'esercito e la popolazione giapponese sia
per l'esercito e la marina degli Stati Uniti. Di qui il calcolo tragico: meglio 150-200 mila morti
giapponesi per le due bombe nucleari che queste centinaia di migliaia o milioni di morti
americani e giapponesi. Uno dei migliori `storici della mentalità'. Paul Fussell, che è molto noto
anche in Italia, era un giovane ufficiale della fanteria americana e il suo reparto, terminata la
guerra in Europa, attendeva di essere trasferito in Giappone. Fussell ha scritto non molti anni fa
un articolo poi pubblicato in libro, “Grazie a Dio per la bomba atomica”, perché come
combattente in Francia, dove venne ferito, ritiene che la sua vita e quella dei suoi commilitoni
sia stata salvata dalla conclusione rapida della guerra. Altre ragioni sono interne alla strategia:
la proposta di un gruppo di fisici era stata quella di farla esplodere in un sito deserto, invitando i
giapponesi a vederne l'effetto, in modo da fare impressione su di loro in questo modo e
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convincerli alla resa. La proposta fu scartata perché, se la bomba poi non fosse scoppiata, la
dimostrazione non avrebbe avuto effetto, anzi sarebbe stata considerata un bluff, e il Giappone
avrebbe ripreso baldanza. L'altra versione è che la bomba sia stata usata per fare impressione
all'Unione Sovietica, la quale era entrata molto tardivamente in guerra con il Giappone, e solo
per pressione degli alleati, mentre era in procinto di imporre il suo dominio ai paesi europei con
un espansionismo di cui già si profilavano i caratteri, soprattutto sulla questione polacca. Era in
corso durante i giorni dell'esperimento di Alamogordo la Conferenza di Potsdam, la città
tedesca sede storica dello Stato prussiano dove gli alleati, a Germania vinta e occupata, si
riunirono. C'erano Truman, Stalin e Churchill che in quei giorni fu bocciato alle elezioni e
sostituito dal labourista Attlee. La strategia americana durante la Conferenza fu più marcata e
più decisa grazie al fatto che Roosevelt aveva avuto notizia segreta del favorevole successo
della prima esplosione di una bomba atomica. La versione estremizzata è che il massacro di
Hiroshima e Nagasaki avvenne per interesse di potenza degli Stati Uniti, già proiettati nella
imminente guerra fredda (anche se ancora non si sapeva che si sarebbe chiamata così).
Il 1946-47 vide il fallimento dei piani di mettere l'energia atomica, di cui si era dimostrata la
distruttività, sotto controllo internazionale, soprattutto vide il fallimento del piano Baruch, che
era un grande banchiere e statista americano. Il suo intento era quello di mettere l'energia
nucleare tutta sotto controllo dell'O.N.U., e fu rifiutato dall'Unione Sovietica con l'argomento
che l'unico paese ad avere l'energia nucleare e a sapere come si faceva la bomba rimanevano gli
Stati Uniti. Questo capitolo di nuclear history è interessantissimo, in esso si vedono i problemi
di una gestione mondiale di una nuova tecnologia, problemi che non hanno smesso di
ripresentarsi da allora ad oggi, si pensi oggi alla bioingegneria. La storia prende un'altra strada e
nel 1949 l'Unione Sovietica fa esplodere la sua prima bomba atomica e nel 1952-53 tutte e due
le superpotenze si dotano della bomba termonucleare all'idrogeno.
Alla fine degli anni Cinquanta abbiamo il cambiamento di vettore, dalle sole `fortezze
volanti' si passa ai missili tattici e intercontinentali o strategici, sia lanciati da terra, dove i
lanciatori sono individuabili e possono essere distrutti, sia lanciati dal mare, dove è pressoché
impossibile individuare i sommergibili, che diventano a loro volta a propulsione nucleare.
L'unico altro grande fatto tecnologico si ha verso la fine degli anni Sessanta-primi anni Settanta:
per un verso si affina parecchio la gestione dell'intelligence, della sorveglianza e del controllo di
una possibile guerra nucleare, affidandola ad una rete satellitare, e inoltre si crea il cosiddetto
MIRV (le testate nucleari portate dai missili non hanno più un'ogiva ogni missile, ma ogni
missile porta cinque, dieci ogive indipendenti). Aumenta enormemente la potenza distruttiva e
si rende enormemente più difficile il conteggio e quindi il controllo degli armamenti, sul quale
si delineano accordi basati sul numero dei vettori.
Questa è la storia tecnologica delle armi nucleari, che non è d'interesse meramente
tecnologico, perché senza conoscerla non possiamo capire quali sfide lo sviluppo tecnicoscientifico ha posto ad ogni sua tappa all'intelligenza e alla volontà politica. Volgiamoci ora alla
storia politico-strategica: fino alla metà degli anni Cinquanta, ancora durante la guerra di Corea,
l'uso della bomba nucleare per risolvere i conflitti convenzionali è considerato possibile nelle
dottrine politiche e militari, anche se poi non viene adottato. Fino ad allora l'arma nucleare ha
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ancora l'aspetto della più grande bomba o del più bel cannone che esista. I francesi nel 1954,
quando stanno per essere espulsi dall'Indocina, dal paese di Ho Chi Minh, chiedono appoggio
agli americani, e si legano al dito per molti anni avvenire il fatto che gli americani non vogliano
usare le armi nucleari contro il governo comunista del Vietnam; da questa esperienza trarranno
motivi per dotarsi di un loro proprio arsenale nucleare. Chi ha le armi nucleari, oltre le due
superpotenze, è prima di tutto la Gran Bretagna, molto dipendente dalla tecnologia americana, e
poi la Francia, del tutto indipendente dalla tecnologia americana, che si dota di armi nella prima
metà degli anni Sessanta, durante gli anni più trionfanti del governo di De Gaulle, tornato al
potere nel 1958; viene infine, sempre negli anni Sessanta, la Cina. Queste sono le cinque
potenze ufficialmente nucleari, che sono anche i membri permanenti e con diritto di veto delle
Nazioni Unite, perché sono le cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Molti
negli anni Cinquanta cercano di entrare nella tecnologia nucleare, anche l'Argentina e il Brasile:
chi ci arriva effettivamente sono Israele, come è noto, il Sud Africa, che però di recente vi ha
rinunciato, l'India e il Pakistan.
Per riprendere dagli anni Cinquanta: una volta che si diffondono le bombe termonucleari e
la differenziazione dei vettori (bombardieri, missili intercontinentali lanciati da terra e dal mare)
si crea, prima di fatto e poi come dottrina, quella cosa che viene chiamata MAD, Mutually
Assured Destruction, distruzione reciproca assicurata, ma l'acronimo significa altresì `folle';
mentre la dottrina precedente era stata quella che in caso di grave lesione degli interessi di una
superpotenza o di un attacco diretto ad essa sarebbe intervenuta la rappresaglia massiccia.
Questa è la dottrina della metà degli anni Cinquanta; alla fine di questi, svanisce la possibilità di
usare l'arma nucleare per colpire e trarne vantaggi, e cresce la sicurezza che usando l'arma
nucleare si distrugge l'avversario, ma si viene anche distrutti, perché l'avversario, se è
superpotenza, è dotato della cosiddetta capacità di secondo colpo, cioè si è dotato in precedenza
della possibilità, pur avendo ricevuto un attacco nucleare di vasta portata che lo lasci in pezzi,
di una rappresaglia che distrugga a sua volta chi lo ha colpito in maniera insopportabile - il che
vuol dire più del 50% della popolazione e più del 30% del potenziale economico-industriale. Di
fronte al fatto che diventa sempre più preclusa la possibilità di vincere una guerra nucleare, si
passa dall'idea di un uso militare dell'arsenale, nel senso di una rappresaglia massiccia, all'idea
di un uso politico, che vuol dire che l'arma nucleare non è più destinata ad essere usata in
guerra, ma è destinata a sconsigliare, dissuadere l'avversario possibile dall'usarla contro di noi,
sia de facto, con un attacco effettivo, sia politicamente, cioè aumentando il nostro potenziale,
facendoglielo vedere e dicendogli “anche se io non ti attacco sono molto più forte di te e quindi
ti devi piegare al mio volere politico”. Sulla base tecnica della MAD si crea l'equilibrio del
terrore e la dottrina dell'uso politico per fini di deterrenza dell'arma nucleare. Il che vuol dire
che l'arma nucleare viene costruita, sviluppata e migliorata non per essere usata, ma per
deterrere, per dissuadere l'altro.
Una volta che si instaura questo regime di deterrenza portato agli estremi termini di un
equilibrio del terrore, si apre anche la strada al cosiddetto controllo delle armi, cioè all'idea che,
pur mantenendosi l'avversità politica e ideologica tra i grandi blocchi politici, militari, nucleari,
è possibile, sulla base della comune consapevolezza della insopportabile distruttività dell'arma
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Filosofia politica. Un’introduzione
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nucleare, cercare di trovare degli accordi per limitarne la diffusione; insomma una via
tecnologica al contenimento della distruttività dell'arma nucleare, pur restando eguali le
condizioni politiche. Oggi noi a posteriori, con l'occhio di storici, vediamo che l'arms control ha
deluso la comunità dei suoi sostenitori, degli strateghi, dei tecnici e degli scienziati perché sono
mancate le condizioni politiche. La verità storica è che l'arms control è stato inventato e
sviluppato non senza alcuni successi, in un periodo in cui sembrava che esistessero anche
alcune condizioni politiche, come il disgelo dell'Unione sovietica con Kruš_ëv, dal 1953 al
1964, la distensione e la dottrina sovietica della coesistenza pacifica. Invero la limitazione degli
armamenti è avvenuta in maniera spesso ambigua e inefficace: le limitazioni venivano
sostanzialmente vanificate dalla nascita di nuove possibilità tecnologiche, non contemplate
negli accordi di limitazione degli armamenti, ad esempio la pluralizzazione (MIRV) delle
testate che rese vano l'accordo SALT 1 del 1972 (Strategic Arms Limitation Talks). I veri
accordi non più solo di limitazione degli armamenti futuri, ma anche di diminuzione degli
armamenti esistenti avvengono solo dopo il 1985, cioè con Gorbacëv e la perestroika da una
parte e dall'altra parte con Reagan e Bush, cioè con il cambiamento delle condizioni politiche
complessive. Questo getta una luce limitativa sulla strategia dell'arms control e quindi
sull'illusione che i pacifisti da un lato, e la comunità dei fisici dall'altro hanno covato per
decenni, che si potesse cioè arrivare ad un mondo non nucleare in cui le armi nucleari fossero
non troppo minacciose grazie alla limitazione.
Da un lato quel tanto di paura reciproca creato dal MAD, dall'altro qualche minimo
elemento di distensione, ma soprattutto quel sovrappiù di paura creato dalla crisi di Cuba
dell'ottobre del 1962, aprono negli anni Sessanta prospettive un po' diverse. La crisi di Cuba si
ebbe quando i sovietici si allearono con il nuovo regime rivoluzionario cubano: Fidel Castro e i
suoi avevano cacciato il dittatore Batista nel 1959, ma erano entrati in uno scontro duro con gli
Stati Uniti, e si rivolsero quindi all'Unione sovietica. Krušcëv tentò allora con una mossa
avventata di istallare a Cuba missili nucleari sovietici, cioè di portare la minaccia nucleare sotto
le porte di casa degli Stati Uniti, così come peraltro negli anni Cinquanta gli americani e la Nato
avevano istallato in Turchia e in Italia missili nucleari di media gittata. Nella crisi che seguì, la
più minacciosa dal 1945 a tutt'oggi, si sfiorò lo scontro nucleare totale. In questa esperienza
venne evitato il peggio in quanto i due fratelli Kennedy si dimostrarono due persone con la testa
sul collo e riuscirono a tenere fermi i politici e i militari, e perché Kruščëv, vista la mala parata,
decise di ritirarsi. Questo creò l'atmosfera in cui nel 1963 venne concluso il Trattato che
proibisce gli esperimenti nucleari atmosferici: TBT (Test Ban Treaty) e pochi anni più tardi, nel
1967, il trattato di non proliferazione NPT (Non-Proliferation Treaty), che è stato rinnovato ed
esteso nel 1996.
In questo periodo, negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta pare aprirsi la strada della
limitazione; tuttavia la sviluppo della tecnologia nucleare prosegue ininterrotto e quindi la
distensione, la limitazione degli armamenti, è sempre sottoposta a docce fredde, a passi indietro.
Queste hanno poi il loro culmine nella seconda metà degli anni Settanta, quando i sovietici
decidono di modernizzare i loro missili a media gittata e la Nato risponde con la decisione di
proporre all'Unione Sovietica di eliminare i missili a media gittata, ovvero di provvedersi a sua
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volta di missili di media gittata che in Europa non esistevano, perché i missili di corta gittata
collocati nella fine degli anni Cinquanta in Turchia ed in Italia erano stati in realtà ritirati
tacitamente dall'amministrazione Kennedy dopo la crisi di Cuba (fu una delle clausole non
dette, ma non sappiamo quanto esplicite, fra l'amministrazione Kennedy e Kruš_ëv). Siccome i
sovietici non ci stanno e procedono all'installazione degli euromissili, ciò porta nel 1983
all'installazione anche in Italia di missili balistici di media gittata o di missili da crociera, che
volano seguendo una certa tecnologia paralleli al terreno e alla superficie delle acque. Questa è
l'ultima corsa agli armamenti che porta di nuovo la temperatura a livelli pericolosi, anche
perché falliscono i tentativi di arms control e le trattative a Ginevra si spezzano. Tutto cambia
con l'avvento di Gorbačëv, di Ševarnadze al ministero degli esteri dell'URSS e con i trattati del
1987 siglati a Washington da Reagan e Gorbačëv che ci liberano dagli euromissili, fino ai più
recenti trattati non di limitazione dello sviluppo, ma per la prima volta di riduzione degli
armamenti strategici fra Stati Uniti e Russia. Si è in qualche modo ridotta la mostruosa
proliferazione di testate nucleari che aveva portato ad una mostruosa capacità, come si dice, di
overkill, di sterminare cioè molta più gente di quanta sia `necessaria' per distruggere
l'avversario. Nonostante questo, quello in cui ci troviamo attualmente è sempre un regime di
deterrenza nucleare, sorretto dalla capacità di secondo colpo, affidata prevalentemente, se non
esclusivamente, ai missili che partono dai sottomarini: quindi chi non ha sottomarini non ha
capacità di secondo colpo e viceversa chi riuscisse a scoprire tecniche di individuazione
tempestiva e affondamento dei sottomarini nucleari, toglierebbe all'altro la capacità di secondo
colpo e sarebbe il padrone del mondo. La capacità di secondo colpo ce l'hanno solo le cinque
potenze nucleari “ufficiali”.
Il regime di deterrenza, seppure in termini più razionali, rimane il regime dominante la
politica mondiale per quanto riguarda le armi, la possibilità di guerra. Il regime di deterrenza
vuol dire capacità di distruzione completa dell'avversario, non solo politica, e di distruzione
mia, perché l'avversario ha capacità di secondo colpo. Regime di deterrenza nucleare significa,
se non capacità di distruzione del genere umano nella sua consistenza biologica, certamente
della civiltà umana affidata agli Stati sovrani.
L'età nucleare che cambiamento porta prima di tutto nella teoria e nella filosofia politica?
Cominciamo dai cambiamenti particolari: emerge dal breve schizzo storico fatto sopra dello
sviluppo dell'età nucleare che esiste nelle armi nucleari un perenne, e fino ad adesso irrisolto,
contrasto fra la loro duplice natura: quella politica e quella militare. La loro natura militare
sarebbe quella di essere, come qualsiasi arma, uno strumento di distruzione dell'avversario e
quindi di coercizione della sua volontà. Ma abbiamo visto che essendo per un verso il
potenziale distruttivo difficilmente limitabile, e peraltro essendo il potenziale nucleare
distribuito su due o più soggetti politico-strategici, quello che ha cambiato completamente la
situazione è la retroazione delle armi nucleari su chi le usa per primo, cercando di trarre
vantaggi dal loro uso bellico. Le conseguenze sono che esse, invece di far vincere una guerra,
infliggono orribili distruzioni alla stessa parte che ne detenga di più o le detenga da più lungo
tempo e possa infliggere eventualmente distruzioni maggiori all'altra parte. Anche in questo
caso le distruzioni subite dalla parte che ha proporzionalmente meno danno sono distruzioni
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intollerabili perché aggrediscono alla radice il potenziale economico, civile ed umano di un
paese. Tuttavia dagli anni Cinquanta in avanti si è sviluppata, e poi per fortuna stabilizzata, la
natura politica delle armi nucleari, cioè quella di essere armi di deterrenza, di dissuasione,
capaci non di vincere la guerra, ma di impedire che una guerra avvenga.
Ora, fra uso politico e uso militare delle armi nucleari esistono nessi complessi:
a) c'è stata un'alternanza, nella storia dell'età nucleare, fra il prevalere (nelle dottrine
politiche e militari degli attori) dell'uno e dell'altro uso. Se da tempo prevale l'uso politico, ciò
non è garantito per sempre: è la loro natura stessa di armi (cioè di strumenti che promettono un
vantaggio di potenza) che contiene la possibilità di quella alternanza (che durante la guerra
fredda è stata un'alternanza quasi ciclica).
b) al fondo della dottrina dell'uso politico c'è pur sempre l'idea che, se la deterrenza fallisse,
subentrerebbe l'uso bellico `punitivo' di quelle armi. E la deterrenza poteva fallire e, in un futuro
riacutizzarsi del contrasto fra i vecchi (o fra i nuovi) Leviatani nucleari, potrebbe fallire. Ed è
ben improbabile che possa allora verificarsi l'ipotesi, solo mentale, ma normalmente
giustificabile, del bluff: che la parte attaccata dica “abbiamo bluffato e ci è andata male, a
questo punto anziché rispondervi con il nostro `secondo colpo' e finire in un `omnicidio'
preferiamo arrenderci, fate di noi quel che volete pur di non scatenare una guerra nucleare”.
Io condivido dunque con molti l'idea che la deterrenza non ha risolto in maniera
soddisfacente i problemi politici e morali che l'età nucleare ci pone. Altri la pensano
diversamente, pensano che la deterrenza sia definitivamente stabile, che ci garantisca per
sempre; oppure pensano che se la deterrenza fallisse sarebbe una bruttissima cosa ma non così
spaventosa perché ci si potrebbe risollevare da uno scontro nucleare. Si ricordi che, se è finito il
bipolarismo politico, non lo è quello nucleare: alla fine del processo START (Strategic Arms
Reduction Talks;) USA e Russia resteranno pur sempre con 3500 testate ciascuno. Alcuni
pensano infine che tutti i paesi con una certa potenza economica debbano avere armi nucleari.
Dopo il 1989 uno studioso, John Mearsheimer, scrisse un articolo per suggerire, quasi per
imporre alla Germania di dotarsi di armamenti nucleari per aumentare la stabilità dell'Europa e
del mondo. Io ritengo al contrario che le armi nucleari e la deterrenza rimangano un problema
vitale, anzi letale, anche dopo la fine della guerra fredda, anche dopo la fine del bipolarismo
politico.
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18. Aspetti politici e filosofici della situazione nucleare
Con le armi nucleari sono cambiate alcune categorie importanti dell'assetto politico della
modernità, cioè della razionalità politica moderna: prima di tutto la guerra, cioè un istituto
attraverso cui con lo scontro fisico si decidono i contrasti politici, in una situazione di
distribuzione asimmetrica e quindi conflittuale del potere. La guerra, per rovesciare Clausewitz,
non è più la continuazione della politica con altri mezzi, perché anzi rischia di far fuori la
politica nel senso che se la guerra nucleare, invece di risistemare i rapporti politici fra gli Stati,
cancella i soggetti, questo istituto regolatore non funziona più a livello di guerra totale,
strategica, scontro tra le grandi potenze. Le guerre ci sono, ma hanno cambiato natura.
Cambiando l'istituto della guerra cambia anche quello della vittoria: si può anche vincere
una guerra nucleare, ma è una vittoria che uno non fa a tempo a constatare perché è già morto di
leucemia lui stesso e, se non lui in persona, i suoi parenti ed i suoi concittadini. Cade anche la
categoria, assai rilevante, di neutralità: tutto l'assetto politico moderno nei rapporti interstatali è
governato, insieme alla possibilità di scontrarsi fisicamente e quindi di vedere chi è il più forte e
quindi avrà più potere politico, dalla possibilità di non partecipare allo scontro. Osserviamo poi
la sorte delle regole elaborate dal diritto internazionale: la neutralità non esiste più perché
nell'età nucleare gli effetti fisici sono tali da superare ogni confine, anche i mari e gli oceani, e
sconvolgere non solo i paesi vicini ma - oltre un certo livello di scontro - l'intero globo
attraverso l'effetto cosiddetto di inverno nucleare. Già alla fine del Cretaceo la scomparsa dei
dinosauri fu dovuta probabilmente ad un fenomeno di `inverno' dovuto ad un asteroide caduto
vicino ad un'isola dello Yucatán, in Messico, che produsse effetti di nuvole di polvere e di vento
così enormi da cambiare la temperatura di vaste zone del pianeta e da creare condizioni
invivibili per i dinosauri. Qualcuno ha fatto l'ipotesi che la specie umana abbia potuto evolversi
grazie al fatto che questo tipo di grandi rettili sia stato eliminato per caso dall'asteroide.
Altre categorie ancora più generali: sovranità, sicurezza e paura, sono anch'esse messe in
forse. Sono le categorie che nella teoria delle istituzioni sono chiavi di volta dell'ordinamento
politico moderno. Gli Stati sovrani - con l'eccezione delle superpotenze nucleari - non sono in
realtà più in grado di prendere decisioni autonome intorno alla loro più elementare (e
legittimante) prestazione: provvedere alla sicurezza dei cittadini. L'alternativa fra neutralità ed
adesione all'alleanza con una superpotenza non è una vera alternativa: in entrambi i casi le
decisioni sovrane sulla sicurezza e sopravvivenza vengono di fatto prese altrove: il paese leader
in un'alleanza ha, rispetto ai paesi alleati, un sovrappiù di sovranità che rende la sovranità
statale degli altri paesi fortemente limitata su un punto così essenziale come la difesa fisica
stessa dei propri cittadini.
Anche il particolare nesso di sicurezza e paura che abbiamo visto essere alla radice della
giustificazione moderna dello Stato viene, se non a crollare, ad indebolirsi fortemente perché
per un verso la sicurezza, che anche il più forte Stato può procurare ai suoi cittadini, è una
sicurezza assai modesta: una sicurezza relativa nel senso che non li può garantire dagli effetti
distruttivi di uno scontro nucleare da cui anche quello Stato esca vincitore o comunque
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Filosofia politica. Un’introduzione
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(nell'ipotesi più favorevole) non totalmente malconcio. Per un altro verso quella funzione
statuale per cui l'unica paura che dovrebbe rimanere dopo il patto sarebbe quella dei cittadini di
fronte alla legge si incrina, perché attraverso questo tipo di sistema di sicurezza, la deterrenza
nucleare, lo Stato rischia di aumentare la paura anziché diminuirla. Gli effetti possibili di questo
sistema di sicurezza, dove esso debba concretamente venir messo in atto, crea molta più paura
che non quella che lo Stato riesca ad assorbire e neutralizzare, che non la paura derivante dalla
situazione di possibile guerra civile, di possibile disordine sociale. È una paura più astratta,
infinitamente più impersonale, ma non per questo meno pesante e terribile.
Queste sono, rapidamente, le conseguenze politiche delle armi nucleari e ci potremmo
fermare qui se facessimo pura teoria politica; ma siccome facciamo un discorso di filosofia
politica, dobbiamo ancora parlare degli aspetti più universali e filosofici di questa situazione.
‘Situazione nucleare’ è la formula che uso per sintetizzare uno stato di cose avente il suo
nucleo filosofico nel fatto che non questo o quello Stato, ma tutti gli Stati, cioè il genere umano,
è arrivato ad un punto che, per garantire al massimo grado la sicurezza dei singoli Stati nei
rapporti interstatali, si mette credibilmente in pericolo la sopravvivenza del genere umano
stesso. Per sopravvivenza del genere umano non si intende, né esclusivamente né
principalmente, la sopravvivenza biologica che rischia di essere cancellata dagli effetti di una
guerra nucleare totale; un evento che non è sicuramente prevedibile che si verifichi, così come
non si può scientificamente escluderlo. In ogni caso da questa previsione scientifica degli
effetti, si accetti o no la specifica dottrina dell'inverno nucleare, si può ricavare la certezza della
distruzione pressoché totale della civiltà umana. Gli inglesi usano l'espressione “riportare a
forza di bombe il genere umano nell'età della pietra” (to bomb humankind back into the stone
age).
Della situazione nucleare si danno diverse spiegazioni: o che derivi dagli imperialismi di
questa o quella potenza, oppure da una logica economico-sociale interna al processo di
industrializzazione, oppure ancora l'idea non legata ad un'ipotesi storica, ma antropologica, che
essa derivi dall'esaltazione di una cosa che c'è sempre stata, cioè l'aggressività umana.
L'ultima di queste spiegazioni è ideologica, nel senso che deriva da una
sovrainterpretazione in termini di filosofia della civiltà, di aspetti o categorie che sono
importanti nello studio della natura (biologia dell'aggressività); ma una categoria che viene
estrapolata dal suo terreno specifico e resa categoria filosofica generale è vittima di un processo
di ideologizzazione.
Le spiegazioni risalenti all'imperialismo e all'industrializzazione sono insufficienti nel senso
che si tengono al di sotto del livello di approfondimento che una cosa così drammatica come la
situazione nucleare richiede. A me sembrano appiattimenti economicistici o sociologistici: sono
processi storici e sociali specifici di un'epoca, che non spiegano come non questo o quel paese,
non questa o quella regione, non questa o quella classe sociale, ma l'intera umanità arrivi al
punto di mettere in forse con le sue proprie mani la propria esistenza e sopravvivenza. Per
capire questo ci vuole qualcosa di più che l'estrapolazione di processi sociologici ed economici
che riguardano il periodo di duecento o trecento anni della modernità.
Dobbiamo ricorrere a spiegazioni di tipo filosofico. Ci troviamo di fronte un panorama non
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uniforme: alcuni recepiscono la drammaticità intrinseca alla situazione nucleare così come
viene definita e dicono che questo dipende o dal materialismo o dal nichilismo o dalla
modernità che si autodistrugge. Credo che queste interpretazioni abbiano il difetto opposto agli
appiattimenti di cui abbiamo appena parlato, avendo un effetto di vanificazione olistica. Di un
fenomeno, di un processo che è specifico della nostra epoca, a cui l'umanità è arrivata nella
nostra epoca, e che si deve cercare di capire nella sua logica specifica, esse danno una
spiegazione attraverso megacategorie, ovvero megadefinizioni della situazione umana, che in
realtà vanificano la specificità del processo che ha prodotto la situazione nucleare, e con alcuni
filosofemi sulla sorte dell'umanità e della civiltà vanificano anche il contributo specifico che
può venire dalla filosofia politica. Dall'altro lato tali interpretazioni falliscono il bersaglio,
perché per esempio tutta la tematica, di cui alcuni filosofi più o meno post-moderni si dilettano,
del nichilismo, non ha pressoché niente a che fare con la annichilazione di cui la situazione
nucleare ci offre la possibilità: non c'è nessun nesso riconoscibile scientificamente fra il
cosiddetto nichilismo, cioè in una parola il sovvertimento e la ridefinizione di tutti i valori, la
Umwertung aller Werte di Nietzsche, e la dinamica che ha portato alla situazione nucleare. Una
battuta cattiva: per studiare i problemi gravi dell'epoca moderna e la sua crisi e la sua
conclusione, anche i filosofi avrebbero fatto bene a studiare le dinamiche e le possibilità di
annichilazione e un po' meno il nichilismo: guardando insomma in faccia il nihil che
effettivamente esiste come potenzialità dei nostri prodotti, e non pensando che esso derivi per
qualche magico influsso dalla crisi d'identità dei ceti intellettuali che hanno compiuto o che si
dibattono nella Umwertung aller Werte. Ma di solito i filosofi preferiscono parlare dei filosofi
ad altri filosofi e non parlare filosoficamente delle sorti del genere umano e dei singoli
individui.
Finita la parte polemica, vorrei dire che io ritengo che le radici della situazione nucleare
siano nella `dialettica' ovvero nel paradosso della sicurezza, nel security dilemma, cioè nel
produrre massima insicurezza come risultato delle nostre misure prese pergarantire la sicurezza.
Ma queste sono solo le radici: occorre aggiungere la circostanza evolutiva che questa sicurezza
è stata largamente delegata alla tecnica e precisamente alla tecnica senza regolazioni, senza
istituzioni adeguate per controllare il nesso contemporaneo di tecnica e sicurezza. Da questa
prospettiva si vede che la situazione nucleare pone quattro questioni che non sono solo di
filosofia politica, e la cui definizione ha le radici nella filosofia politica, ma che poi mobilita la
filosofia tout court e non solo la filosofia. Le questioni sono quelle della tecnica, del genere
umano, della pace perpetua e quella del rapporto tra idealismo e realismo.
Si tratta anzitutto del problema eminentemente filosofico di che cosa la tecnica rivela
dell'uomo e del suo rapporto con il cosmo: da un lato con la realtà fisica e dall'altro con gli altri
uomini. Detto in maniera storiografica si va dal poiein aristotelico alla riflessione heideggeriana
sulla tecnica (fine degli anni Quaranta). Oggi sono due gli elementi principali. Primo, gli
uomini sono arrivati a penetrare e sovvertire quelli che almeno adesso a noi, al nostro stato
attuale della conoscenza, risultano i livelli ultimi della materia. Non solo il nucleo dell'atomo,
ma ciò che sta sotto, la struttura della materia, sono nozioni in continua evoluzione. Io detesto il
continuo rinvio alle eterne verità e figure della filosofia e della letteratura e mitologia, perché
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penso che il mondo sia realmente cambiato e che il filosofare non sia il filosofare sull'eterno, su
autori eterni o categorie eterne. Ritengo che pensare questo sia un vizio idealistico e mi schiero
decisamente con la tradizione materialistica moderna che pensa che la realtà sia qualcosa che
viene fuori dall'impatto con la natura e con gli altri e che, pur essendoci dei problemi costanti in
questo impatto, le configurazioni e le categorie che ne vengono fuori, e che servono per capire
questo impatto, cambino nel tempo. Ciononostante, nel rapporto dell'uomo con la natura non si
può eliminare il richiamo al mito: è tema filosofico di Prometeo.
Secondo tema della filosofia della tecnica: a che cosa porta l'essere penetrati così a fondo
nella struttura della materia e, ciò che più conta, esserci impadroniti in maniera così grandiosa e
nello stesso tempo suicida delle forze della natura? Che cosa ciò riveli e che cosa tutto ciò abbia
di effetto sulla formazione del sé, ovvero dell'identità individuale e poi anche dell'identità di
gruppo. È il grande tema della dialettica dell'illuminismo - Dialektik der Aufklärung - che
Horkheimer e Adorno hanno scritto nel 1944 e che rimane uno dei grandi libri filosofici
dell’ultimo secolo, anche se di una stagione filosofica che non è più la nostra.
Terzo aspetto di questo primo tema evocato dalla situazione nucleare, la tecnica: il
problema della responsabilità, cioè il problema che i livelli di potenza e di distruttività raggiunti
dalla nostra tecnica, indipendentemente da come si interpreti metafisicamente il nostro
atteggiamento tecnico verso il mondo, ci esortano a cambiare il nostro approccio morale alla
tecnica, che non è più moralmente e politicamente neutra come nella prima modernità.
Il problema è dunque se non dobbiamo inventarci un'etica del tutto nuova nei confronti
della manipolazione della realtà fisica, e quindi degli altri come realtà fisica, un'etica della
responsabilità. Hans Jonas, di cui io non condivido l'impostazione ontologica aristotelica, ha
avuto il merito di mettere sul tavolo in forma compatta questo tema, la responsabilità,
implicante aspetti trasversali che attraversano anche i punti successivi. Responsabilità rispetto a
chi? Rispetto ai singoli, al genere umano? Chi è il genere umano? Solo quelli che vivono
adesso, o anche quelli che sono vissuti prima e/o quelli che vivranno dopo?
L'ultimo aspetto della tecnica è un aspetto meno filosofico, ma di scienza politica con
implicazioni filosofiche o almeno etiche. Dato e non concesso (questo è un problema etico che
lasciamo aperto) che vogliamo, dobbiamo moralmente controllare scienza e tecnologia, siamo
in grado di farlo, e come si fa? Quali sono gli istituti politici che dobbiamo inventarci, e che non
sono mai esistiti nella storia del mondo?
Per venire ora al tema del genere umano, è opportuno che io riprenda ed approfondisca la
nozione di sopravvivenza. È chiaro di cosa tratta la sopravvivenza: la possibilità di una
riproduzione della nostra specie attraverso i normali meccanismi di riproduzione. `Normali'
perché i meccanismi stanno già cambiando e diventando non anormali, ma artificiali. La
riproduzione della vita umana sotto questo riguardo è il contrario dell'estinzione.
Gli zoologi e gli etologi dicono che l'estinzione è il normale destino delle specie viventi e in
effetti ogni giorno si estinguono migliaia di specie vegetali e animali, e non c'è dubbio che la
antropizzazione del paesaggio terrestre ha accelerato il tasso di estinzione. Alcuni dicono perciò
che l'estinzione della specie umana è in questo senso sicura, perché è il normale destino delle
specie viventi e quindi che non c'è da preoccuparsi né da stupirsi. Ma in verità lo stupirsi, il
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meravigliarsi è, come dice Platone, l'origine della filosofia, del pensiero, ascrivendo questa
meraviglia ad una ninfa o dea, Iride. Ora, se noi consideriamo zoologicamente l'umanità non c'è
da meravigliarsi, né da far grandi pensate filosofiche sull'estinzione possibile della specie
umana.
Questa è un'opinione rispettabile, non falsa in zoologia. Ma è falsa nel contesto di filosofia
politica e filosofia morale in cui non ci interessa il destino biologico o zoologico dell'umanità,
ma guardiamo l'umanità dal punto di vista morale, metafisico e politico. Metafisico per il
significato che tale destino ha; morale per quanto esso dipenda dalle nostre scelte di fare o non
fare, di omettere; politico in quanto il destino degli uomini possa essere fatto oggetto di nuovi
progetti ed istituzioni politiche: intendo non il destino dei singoli uomini, ma della specie.
In questa sede morale e politica, che è la sede per ogni discorso culturale, non ci interessa la
sopravvivenza meramente biologica. Ma poi credo, senza invadere più di tanto il terreno delle
scienze naturali, che si possa sostenere con buone ragioni dal punto di vista di zoologia ed
etologia, che non è possibile rappresentare la vita umana e la sua riproduzione se non entro
condizioni culturali, cioè non è possibile rappresentarla come qualcosa che si riproduce per
mero risultato di pulsioni istintuali, quando qualsiasi filosofo, antropologo culturale, etologo,
primatologo sa che, se vogliamo veramente definire la vita umana, non possiamo definirla altro
che ascrivendo costituzionalmente alle sue condizioni e alla sua riproduzione i fattori culturali,
cioè cose che noi creiamo e trasformiamo.
Dal punto di vista ‘zoologico’, si è detto, non c'è da meravigliarsi dell'estinzione possibile;
per un verso l'estinzione è sicura perché è il destino biologicamente naturale della specie e
quindi statisticamente sicura, e poi è sicura per ragioni più specificamente fisiche,
cosmologiche, cioè perché ad un certo punto il sistema solare si raffredderà e in poco tempo,
nel senso cosmico, scompariranno le condizioni di temperatura necessarie alla riproduzione
della vita umana e della vita tout court, non solo sul nostro pianeta, ma nel sistema solare
intero.
Quanto all'estinzione della vita umana per via di uno scontro termonucleare, è certamente
vero che le previsioni scientifiche implicano riserve fallibilistiche. Si tratta però qui di un
fallibilismo un po' sui generis perché, mentre il fallibilismo scientifico ‘normale’ affida la
contestazione della tesi ad un esperimento, in questo caso nessuna esperienza è possibile, né
auspicabile, o può essere messa in conto, come se si trattasse di una normale procedura
scientifica; provare a fare una guerra termonucleare per vedere come va a finire, se poi ci
estinguiamo veramente o no, è una cosa priva di ogni senso comune. Gli studiosi dicono che, si
accetti o no la teoria dell'inverno nucleare, gli effetti sono tali e l'incertezza degli effetti è tale,
che non si può escludere l'estinzione nello stesso puro senso biologico e zoologico.
A questo punto come filosofi possiamo dire che, anche se dovessimo ritenere bassa la
probabilità sia che avvenga un conflitto termonucleare e ne nasca l'estinzione della specie
umana, oppure se dovessimo ritenere bassissima la possibilità che scoppi un qualsiasi conflitto
termonucleare, indipendentemente dalle sue conseguenze, dal punto di vista filosofico il fatto
che esso possa scoppiare, e che possa avere queste conseguenze, è filosoficamente
rilevantissimo, perché l'estinzione della vita umana ha dei significati filosofici che non sono mai
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esplicitati fino in fondo. Tutta la filosofia, quando si è occupata della morte, si è occupata della
morte dell'individuo, compreso l'esistenzialismo (si pensi al Sein-zum-Tode di Heidegger), non
della morte della specie. È rilevante filosoficamente e antropologicamente che la specie umana
debba vivere con questa possibilità al suo fianco. Questo la specie umana lo fa già, perché
alcuni pensano che il Creatore possa ripetere Sodoma e Gomorra o il Diluvio e perché altri
pensano, con qualche fondamento, che, se non nel novero dei nostri 60, 70, 80 anni di vita,
almeno negli anni di vita di altre generazioni, possa comparire un'asteroide che si schiacci sulla
terra e ci faccia fare la stessa fine dei dinosauri. Questo è un tema filosofico abbastanza
corrente, la precarietà dell'esistenza umana nelle sue condizioni cosmiche. Quella che non è
corrente è la riflessione filosofica sul significato di una precarietà fatta in casa, che ci siamo noi
stessi procurati, che fino a pochi decenni fa non esisteva. Per alcuni migliaia di anni gli uomini
hanno vissuto, e i filosofi hanno pensato, che il pericolo massimo fosse lo scontro con un
asteroide, adesso è possibile, oltre lo scontro con un asteroide, la catastrofe nucleare, cioè
prodotta da cose che noi stessi abbiamo creato, usato, messo in circolazione.
Questo è il significato di sopravvivenza o di minaccia alla specie, quello di dover vivere con
la possibilità che, seppur non scompaia la specie nel senso della mera vita vegetativa,
scompaiano tutte o la maggior parte delle condizioni lato sensu culturali di vita della nostra
specie, e che questo avvenga per opera di nostri artefatti.
La tematica kantiana degli esseri finiti acquista nel nostro secolo una connotazione diversa,
perché è una finitudine che può riguardarci anche in altri significati che non quelli kantiani. Se
ancora Kant poteva pensare come prolungamento del nostro agire morale al regno dei fini, che a
quell'agire dava senso, è un po' più difficile pensare ad un senso del nostro agire morale se
dobbiamo pensare che fra le possibilità in esso insite vi sia la fine culturale, e magari anche
biologica, della specie, per effetto del nostro stesso operato.
Quindi il secondo gruppo di problemi che nascono dalla situazione nucleare sono quelli che
possiamo intitolare al genere umano. Perché il genere umano? Perché esso viene minacciato
nella sua sopravvivenza e proprio perché viene minacciato si può pensare che esso esista per la
prima volta realiter e non semplicemente come ens rationis, che esista un nesso tanto materiale
quanto invincibile, quello della minaccia e della paura dell'estinzione, che ci tiene per la prima
volta assieme come mai hanno potuto fare tutti i nessi morali, religiosi, civili che ci siamo potuti
immaginare. Allora, se il genere umano esiste ben più realmente di una volta, proprio perché la
sua sopravvivenza non è più né sicura né di per sé evidente, nascono alcuni problemi più
particolari. Da chi è costituito il genere umano? Solo dai presenti sulla terra, dai nostri
contemporanei, oppure dobbiamo ammettere che esso sia costituito in quanto attore morale,
soggetto di diritti e doveri, anche dalle generazioni future? Qui c'è molta letteratura filosofica,
molta contemporanea ma anche non contemporanea, che ormai sta diventando anche
politicamente rilevante, perché le generazioni future sono un importante punto di discussione,
un coprotagonista, un attor giovane che dà un po' fastidio al capocomico. Questo si vede anche
nelle grandi discussioni etico politiche sulla distribuzione della ricchezza, che ha molti aspetti,
dei quali uno è se la distribuzione attuale debba essere giudicata ed eventualmente cambiata non
solo e non tanto rispetto ai contemporanei, ma in vista di come essa impatterà sulle generazioni
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Filosofia politica. Un’introduzione
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future. Questo per ciò che riguarda la distribuzione della ricchezza, dell'energia,
dell'alimentazione. Un altro punto importante è sorto anche in un paese che arriva sempre
ultimo a nuove formulazioni, cioè l'Italia: nella discussione sul sistema pensionistico, uno dei
punti di vista più avanzati è che il sistema è iniquo nei confronti delle generazioni future, perché
erode in anticipo la ricchezza a cui tali generazioni dovrebbero potere aver parte. La cosa
curiosa è che negli altri paesi l'argomento delle generazioni future è stato un argomento
progressista, in Italia nel campo della questione pensionistica viene - meno come argomento e
più come slogan - portato in campo da forze di destra. L'altro aspetto se le generazioni future
facciano parte o no del genere umano è relativo ai danni che con la nostra tecnologia stiamo
infliggendo al pianeta: rischiamo di consegnare alle generazioni future una terra ridotta ad una
discarica o ad una stufa, a seconda del problema che si mette in rilievo (rifiuti o global
warming).
Altro subtema del tema ‘genere umano’ è se valga la pena di assicurarne la sopravvivenza, e
se sì a quali costi. L'assunzione della sopravvivenza del genere umano come valore può essere
contestata, il mestiere dei filosofi è quello di prendere sul serio ogni domanda e nessuna
soluzione.
La terza serie di problemi che derivano dalla situazione nucleare è quello della pace
nucleare perpetua e qui devo fare un'ampia digressione su pace e pacifismo.
19. Pace, pacifismo e governo mondiale
Sulla definizione di pace ci si può rompere il capo senza cavarneuna risposta affidabile: esiste
una definizione negativa di pace, come assenza di conflitto armato o di guerra, ed una positiva,
come assenza di conflitto, ed esistenza o promozione di una situazione in cui sono sradicate le
cause del conflitto, in primis la cosiddetta violenza strutturale che l'ineguaglianza economica,
civile, razziale e quant'altro fa a chi ne è vittima. È un tema messo in circolazione dallo studioso
norvegese Johan Galtung, uno dei fondatori della peace research. In teoria politica è
conveniente attenersi in primis alla definizione negativa, con cui si pone un problema preciso:
come evitare la trasformazione di conflitti incruenti in guerre, e si afferma che evitare la perdita
di vite umane è il primo e fondamentale compito della politica, dell’ordine politico. Senza che
ciò impedisca di esplorare le presunte cause profonde dei conflitti cruenti e no. Da questo punto
di vista è utile ricordare la sistemazione data al realismo politico negli anni Cinquanta da
Kenneth Waltz, lo studioso americano che venne poi ed è tuttora considerato il padre del
cosiddetto neorealismo: la causa permissiva, che cioè permette le guerre, sta nell’anarchia del
sistema internazionale, le loro cause immediate o efficienti stanno nell’antropologia umana e
nel regime interno degli Stati26
Invece azzardo la definizione di pacifismo, dicendo che è un termine ambivalente e di cui
bisogna sciogliere l'ambivalenza. Il pacifismo può essere inteso come perseguimento attivo
della pace come scopo della politica, nell'ambito di un disegno complessivo di questo scopo e
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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dei mezzi per arrivarci. Il pacifismo in questo primo senso presuppone che come scopo della
politica sia considerata la regolazione ed il contenimento dei conflitti. Ma se assumiamo
interpretativamente, come si è fatto sopra, che la politica abbia per telos intrinseco la pace,
basta far politica e dovremmo essere considerati pacifisti? No, perché il pacifismo è
perseguimento attivo, significa cioè mettere al centro della propria azione politica la ricerca
della pace e mettercela però nell'ambito di un disegno complessivo: alla pace si arriva non
ripetendone il nome come slogan salvifico, ma come prodotto di una strategia che tenga
presente la situazione politica, economica, sociale nella sua intera complessità e difficoltà. Ciò
include la possibilità dell'uso della forza, per esempio per impedire ad un paese di attaccarne o
ricattarne altri dotandosi di armi nucleari, o per proteggere popolazioni vittime di massacri o
genocidio. La pace è in questo senso una categoria politica, per fare la pace occorre un potere
ad essa ordinato. L'altra definizione di pacifismo è quella che considera la pace nel senso nel
non-ricorso alla violenza armata come unico ed indefettibile principio: se vuoi la pace sii
sempre pacifico. Questo pacifismo ammette come unico mezzo il comportamento pacifico, la
non-violenza. Esso si presenta in due versioni molto differenti: una extra-mondana, per dirla
con Weber, che rifiuta le logiche del mondo ed esprime solo una testimonianza morale o
religiosa di fratellanza e solidarietà. L’altra versione, il pacifismo radicale come strategia
politica, si risolve spesso e necessariamente (la politica contenendo necessariamente la
violenza) nel condannare le guerre degli uni ma non degli altri, o nell’ignorare che proclamando
che non si useranno mai gli strumenti militari si rafforzano i regimi che tolgono vita e libertà ai
cittadini loro o di altri paesi. Il cedimento (in verità l’ultimo di una serie) a Hitler e Mussolini,
attuato in nome del mantenimento della pace dai governi britannico e francese negli accordi di
Monaco del 1938, contribuì direttamente alle ulteriori aggressioni che portarono alla seconda
guerra mondiale.
Con l'avvento prima della guerra totale, poi della guerra termonucleare e quindi della
possibilità di distruzione della civiltà, il fattore tempo è diventato un elemento decisivo nel
valutare la bontà di questa o di quella politica, soprattutto di un progetto di pace, che si deve
misurare anche dai tempi in cui esso è in grado di raggiungere il proprio scopo, cioè di
consolidare in senso pacifico le relazioni tra gli uomini e le loro comunità. La pace perpetua nel
senso dominante, cioè non assoluta assenza di conflitti, ma pace in cui il conflitto bellico non è
più la soluzione principale, ed è solo l'ultima ratio per la risoluzione dei conflitti, è nell'età
nucleare divenuto una questione di tempo, perché vi sono buone ragioni per ritenere che più
dura un regime basato sul possesso delle armi nucleari in mano agli Stati nazionali e sulla stessa
deterrenza, più aumentano le chances di un uso bellico di queste armi. Una politica di pace oggi
va scelta o respinta anche in base alle attese credibili che essa può suscitare intorno alla rapidità
con cui porta alla pace perpetua, in primis come pace nucleare.
Un altro argomento contro il pacifismo radicale come atteggiamento politico è che esso
è una dottrina che, per usare un termine di Bobbio, si avvicina molto al pacifismo strumentale,
cioè a quello che si propone di raggiungere e consolidare la pace tramite la manipolazione di
uno degli strumenti di guerra: per esempio la pace via disarmo o per mezzo del controllo delle
26
K.Waltz, Man, the State and War,1959, tr.it.Giuffré, Milano 1998.
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armi. È pacifismo strumentale perché si pensa che dal controllo o dall'abolizione dello
strumento, disarmo parziale o totale, si possa conseguire la pace. Ma anche il pacifismo che si
propone più generalmente di arrivare alla pace tramite la non-violenza ha alcuni caratteri del
pacifismo strumentale, nel senso che considera la violenza, che è uno strumento della politica,
un disvalore. Quindi da questo punto di vista partecipa dei vantaggi e/o svantaggi del pacifismo
strumentale.
Questa critica dei tempi può essere usata anche nei confronti di un'altra forma di pacifismo
che è il cosiddetto pacifismo culturale: l'idea che la via maestra alla pace sia l'educazione alla
pace, la crescita della cultura della pace, posizione che spesso è imparentata con il pacifismo
radicale ed extra-politico, ma non lo è necessariamente: si può pensare che la cultura della pace
sia un aspetto, un capitolo importante di un pacifismo politico o meno. Se uno non pensa al
pacifismo culturale come un valore, una via maestra, può comunque pensare che sia una via
secondaria o uno svincolo importante della via maestra, si può pensare che è meglio avere un
pacifismo politico, ma che tuttavia questo non basta, che il pacifismo politico è necessario, ma
non sufficiente e il pacifismo culturale è complemento necessario e non sufficiente del primo. Il
pacifista culturale più illustre forse è Sigmund Freud,27. L'unica via, dice Freud, che possiamo
vedere tra tutte le vie politiche e strumentali è il cambiamento di un atteggiamento culturale e
un aumento ed ispessimento di legami tra individui e fra grandi individui, cioè fra gli Stati. È
uno scritto sconsolato; Freud non si è mai fatto illusioni su niente e su nessuno. Egli scrive che
l'unica via che può portare a una sostanziale diminuzione della guerra rischia di essere la
macina di un mulino che va troppo piano, e che quindi quando ha macinato tutta la farina
necessaria per sfamare la gente, la gente è già morta di fame. Nello stesso momento in cui vede
il pacifismo culturale come unico momento che effettivamente garantisca la pace, Freud stesso
denuncia che i tempi dei processi di trasformazione culturale e antropologica sono difformi da
quelli della politica, perché questi possono arrivare prima e fare piazza pulita degli attori. Nel
1932 non c'erano le armi nucleari, ma era tale l'eco delle distruzioni grandiose della prima
guerra mondiale in termini di vite umane di soldati, non tanto di potenziale economico e di
civili, nelle battaglie di logoramento sui fronti orientali, occidentale, e su quello italiano del
Carso, che Freud stesso in quel contesto fa l'ipotesi non di estinzione del genere, ma di una
distruttività inarrestabile e totale delle future guerre: quasi un presentimento. Il pacifismo che
ho chiamato politico possiamo chiamarlo anche pacifismo istituzionale, con un termine più
preciso, usato anche da Bobbio28 Pacifismo istituzionale significa che la pace perpetua, il
contenimento della guerra vengono pensati principalmente in termini di nuove istituzioni sociali
e/o politiche che mutino i processi di aggregazione e di conflitto.
Pacifismo politico e pacifismo istituzionale non sono sinonimi e appartengono a due diversi
27
Freud ha scritto due volte sulla guerra, una volta nel 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e di
nuovo nel 1932 Perché la guerra? in un volume curato per conto della Lega delle Nazioni da Albert
Einstein.
28
Nel volume Il problema della guerra e le vie della pace (Bologna 1979) che raccoglie una serie di
scritti di Bobbio nella prima fase (anni Sessanta) della stupefazione e dell'indignazione del mondo, e
della paura del mondo e degli intellettuali, di fronte al pericolo nucleare e al MAD che si stava
edificando in quegli anni.
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ordini di definizioni: quello politico è tale in contrapposizione a quello extra politico, il
pacifismo istituzionale è invece distinto dal pacifismo strumentale e culturale. In realtà non
sono sinonimi perché uno può anche inventarsi un pacifismo istituzionale extra politico, se uno
pensa che la pace perpetua possa derivare da un governo mondiale fedele al Signore retto dal
Papa o dal Sommo Sacerdote buddista e ordinato teocraticamente: questo sarebbe un pacifismo
istituzionale ma extra-politico. La stessa cosa sarebbe l'idea di una istituzione che sia una
fratellanza universale con un Grande Fratello a capo, il consiglio dei Grandi Fratelli come
organo legislativo (sto inventando fantasie a scopo euristico), e fondato sull'amore e la
fratellanza degli uomini.
Si può poi distinguere un pacifismo istituzionale in senso giuridico da uno in senso sociale;
è quello che vede la condizione sufficiente per la pace perpetua in una trasformazione sociale,
putacaso in una rivoluzione.
La pace non nasce né dalla fratellanza né dallo Stato, che Marx pensava si sarebbe ridotto e
poi dissolto: il marxismo riteneva che, essendo la lotta di classe la vera ultima radice del
conflitto, la sua eliminazione passasse attraverso una rivoluzione sociale che eliminasse
l'antagonismo di classe per un verso e la macchina statuale per l'altro. Anche se, come ha detto
Marx nel 1852 in uno scritto di riflessione dopo la rivoluzione del 1848, alla sconfitta della
borghesia produttrice di guerra si può arrivare solo dopo decenni “di guerre di classe e di
popoli”. L'altro pacifismo più propriamente istituzionale è quello giuridico, che vede la pace
perpetua frutto o di un governo mondiale o di un ispessimento delle organizzazioni
internazionali.
A metà fra pacifismo sociale e giuridico c'è l'idea dell'eliminazione del conflitto attraverso il
commercio. Oggi questa non si sente più propagandare, perché si è visto nel terribile secolo
ventesimo non ha funzionato; ma essa ha avuto grande peso nella storia delle dottrine politiche
da Montesquieu ai liberali. Per quasi due secoli l'umanità ha creduto che la sostituzione delle
relazioni commerciali a quelle politico-diplomatico-militari come guida delle relazioni
internazionali fosse la via maestra;l'opinione liberale classica ha visto nella politica, nella
diplomazia e ovviamente nei militari, le radici e i riproduttori principali della guerra, insomma i
principali agenti belligeni, individuando invece nel commercio un forte e determinante agente
di pace.
Adesso che questa dottrina non c'è più si può invece dire che abbia avuto qualche successo.
Lintegrazione europea ha eliminato tendenze belligene tra i paesi dell'Europa Occidentale e
,negli anni Novanta, anche di quella centrale e orientale. È un processo che non avrebbe avuto
lo sviluppo e il consolidamento politico che ha avuto (con i trattati di Roma del 1957 e con le
riforme degli anni Sessanta, lo stabilizzarsi della Commissione europea, l'andare a regime del
Consiglio europeo, cioè della riunione dei capi di Stato e di governo, più tardi con l'Atto unico e
da ultimo con i Trattati di Maastricht, Amsterdam e Nizza e con il Trattato costituzionale del
2004), se non ci fosse stata l'unione commerciale, doganale ed economica a sostenerla: i
politici, gli intellettuali, i retori, si sarebbero messi a litigare e avrebbero rotto questo processo o
lo avrebbero bloccato. Il processo invece è andato avanti, pur se in modo incompleto ed
insufficiente. Di questo processo noi talora vediamo soprattutto gli aspetti spiacevoli, di
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regolazione commerciale e industriale, che sembrano predominavare sull'aspetto politico ed
ideale del processo d’integrazione. È la manifestazione di un grosso deficit di politica, ma darne
la colpa alle forze economiche, è un po' ingeneroso: la cosa deriva invece più da carenze
politiche e culturali dei singoli paesi europei e dall'Unione europea tutta assieme che non dalla
cattiva genia dei ‘bottegai’ o dei “burocrati di Bruxelles”. Secondo, molte volte se non ci
fossero stati i ‘bottegai’ e i “burocrati”, che per i loro interessi hanno fatto sì che l'Europa
andasse avanti e soprattutto non si spezzasse, i politici forse l'avrebbero spezzata. Detto in
termini meno colloquiali e più teorici: le spinte di carattere commerciale, doganale, economico
che hanno portato all'unificazione europea sono spinte, per usare un linguaggio di politologia
contemporanea, di carattere sistemico o funzionale, cioè di un sistema che funziona
indipendentemente dalla volontà politica. Gli imperativi sistemici - si veda la Scuola di
Francoforte - vengono spesso accreditati di tutti i mali possibili, ed il sovrastare delle spinte
sistemiche in terreni che non possono essere assoggettati alla razionalizzazione di questo tipo è
un serio e grave problema. Ma, pur tenendo presente questo problema centrale degli effetti
degenerativi delle spinte sistemiche sul tessuto umano e culturale, dobbiamo anche non
dimenticarci che le spinte e gli imperativi sistemici possono avere una ricaduta fortemente
positiva sul terreno che sistemico non è, cioè quello della politica, della società, della cultura e
così via. Da questo punto di vista tali imperativi funzionali o sistemici, che nell'Unione si sono
affermati, e a cui la cultura politica, filosofica, e storica ha dato una adeguata veste politica, dai
trattati di Roma (1957) a quelli di Maastricht (1991), Amsterdam (1997) e Nizza (2000), hanno
evitato che si potesse ripetere qualcosa di simile al 1914-18 o al 1939-45.
Più fortunata di quella che si richiama al commercio appare la dottrina che ritiene essere la
trasformazione democratica dei regimi interni degli Stati la base più sicura per garantirne un
comportamento non bellicoso; non perché gli Stati democratici non facciano guerre, anzi ne
hanno fatto di molto accanite contro Stati dittatoriali, ma perché essi non usano farsi guerra fra
di loro. Lo dimostra l’esperienza storica tanto quanto la dimostrazione teorica di questa tesi,
che va sotto il nome di dottrina della “pace democratica”. La sua prima origine è nel progetto di
trattato Sulla pace perpetua scritto da Kant nel 1795, laddove Kant affida la pacificazione
permanente dei conflitti interstatali alla trasformazione “repubblicana” dei egimi, al federalismo
e all’affermarsi del diritto cosmopolitico, riguardante il rapporto fra gli Stati e gli abitanti del
globo.
Per concludere sulla pace in epoca nucleare, si può pensare che essa non derivi né da una
moralizzazione in senso kantiano della politica (che forse non arriverà mai, ma che, anche se
arrivasse, potrebbe essere - s'è visto - troppo tardi) né dal prevalere di una superpotenza,
vittoriosa nella guerra fredda e capace di fare da Terzo o da gendarme nucleare; non si sa se gli
USA abbiano le forze per fare questo, o se ne abbiano la volontà, e soprattutto non si sa per
quanto tempo le possano o la possano avere. E la pace nucleare o è perpetua o non è.
Si può pensare invece che a fungere da Terzo sia il nocciolo medesimo dell'età nucleare e
cioè il terrore come base dell'equilibrio. In verità noi stiamo assistendo dal 1945, dal punto di
vista nucleare, alla pace perpetua, che sarà un po' tetra, ma è stata pace. Non voglio dire che la
deterrenza nucleare sia la garanzia della pace, perché anzi io la penso in maniera opposta, ma
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voglio dire che stiamo assistendo ad un primo periodo fattuale di pace perpetua. Naturalmente
tutto questo può essere affermato solo se si differenzia fortemente fra guerra nucleare e guerra
convenzionale, e quindi anche fra pace convenzionale e pace nucleare. La pace nucleare non ha
impedito che guerre sanguinose (Indocina, Afghanistan, Iran-Iraq o Prima guerra del Golfo)
avvenissero durante la Guerra fredda, né tanto meno dopo il suo termine. Dal 1989 inoltre le
guerre classiche, interstatali o civili, che pure non mancano (Etiopia-Eritrea, per non dirne che
una) sembrano avere minore frequenza e importanza rispetto alle guerre di nuovo tipo, a sfondo
etnico o religioso o di “scontro fra civiltà”, e spesso condotte da attori non-statali (Osama bin
Laden contro gli USA) e con largo impiego di metodi terroristici.
Ora, io ritengo che la pace nucleare sia un valore in sé, il quale si è nei passati cinquant'anni
di fatto affermato, per effetto di un fattore impersonale, il terrore nucleare, fonte di equilibrio: il
terrore della distruzione non solo del nemico ma anche propria, e di tutti. Io non ritengo invece
che la pace convenzionale sia un valore assoluto in sé, ma un valore strumentale, che deve poter
essere accordato con altri beni come il mantenimento di un minimo di ordine internazionale
legittimo e quindi, come prevede lo stesso Statuto delle Nazioni Unite, la violenza militare deve
poter essere impiegata per reprimere le grossolane violazioni dell'ordinamento legittimo: atti di
aggressione, invasioni, occupazioni. Inoltre deve poter essere impiegata per preservare l'altro
valore che ritengo assoluto, cioè la pace nucleare: contro uno o più Stati che volessero crearsi
un potenziale nucleare per usarlo poi a fini o di attacco o di ricatto, la comunità internazionale
ha tutto il diritto di usare mezzi militari convenzionali. Se abbia anche il diritto di usare mezzi
nucleari è cosa di cui si deve discutere; ma per dissuadere una potenza che vorrebbe diventare
nucleare dal procacciarsi armi nucleari, basta un forte armamento convenzionale da parte di chi
lo vuole impedire.
Un ultimo cenno va dedicato al tema del governo mondiale. Rammentiamo anzitutto che,
oltre a quella di un ordine internazionale che garantisca puramente la sopravvivenza, esistono
altre idee dell'ordine internazionale, ordinate avalori come la giustizia o la solidarietà tra i
popoli o la libertà. Di questo occorre parlare fra le questioni di etica pubblica Nella
sua
versione classica la questione del governo mondiale è vecchia quasi quanto la filosofia politica
moderna e comprende tre temi fondamentali: se esso sia possibile, cioè se vi siano forze, attori e
tendenze di cui si possa pensare che si verranno a congiungere e a sintetizzare dando vita a un
governo mondiale; se esso sia funzionante, che è una cosa diversa, perché può essere possibile
la sua genesi e poi quando esso va a regime ci si rende conto che non funziona, che si
autoparalizza o provoca effetti contro-intenzionali, ad esempio più conflitti di quanti non riesca
a prevenire; infine una terza questione, che è quella più nota di cui fa cenno anche Kant, cioè
che esso, ammesso che sia possibile e funzionante, non sia gravido del pericolo di diventare una
tirannide su scala planetaria. Alcune di queste domande e di risposte negative: che è
impossibile, che non funzionerebbe, che sarebbe tirannico, vengono rivolte non solo nei
confronti dell'idea vera e propria del governo mondiale, cioè di una sovraistituzione con poteri
complessivi di governo, ma anche nei confronti dell'altra idea, di istituzioni singole di tipo
federativo. C'è chi pensa che qualsiasi globalizzazione politica sia, tanto nella forma di un
governo complessivo, organico e unitario, tanto nella forma di singole istituzioni a scopi
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limitati, una forma che va verso la servitù29. Un corollario importante della situazione
nucleare è il capitolo, scritto assai poco dai filosofi politici, che riguarda gli effetti della
situazione nucleare su democrazia e sovranità popolare, cioè due cardini dell'ordinamento
politico contemporaneo. Si può pensare, ma andrebbe studiato meglio, che la deterrenza
nucleare vi incida seriamente, anche se non sempre esplicitamente e visibilmente, perché essa
tende a sottrarre alla sovranità popolare e alla decisione democratica intere sfere vitali, a
cominciare da quella della vita e della morte, nonché del benessere di intere popolazioni. Tende
a sottrarre alla vita comune quel senso dello stare assieme, del rispettare limiti, della solidarietà
e del cercare di progredire assieme che è la risorsa indispensabile della vita politica
democratica.
Infine, un capitolo importante della filosofia politica contemporanea che prende spunto
dalle relazioni internazionali, ma che poi ha un raggio più vasto, è quello del rapporto fra ordine
e giustizia. Consiste sostanzialmente nell'intendere come legittimo non qualsiasi ordine, ma
solo un ordine che abbia questa caratterizzazione della giustizia: un ordine giusto. Questo vuol
dire assumere esplicitamente un punto di vista normativo nei confronti della politica
internazionale e quindi collide con la tradizione realistica secondo cui ogni punto di vista
normativo è estraneo alla politica e a quella internazionale più che mai. Però le cose cambiano e
oggi questo approccio ha una sua consistenza e legittimità nelle discussioni filosofiche sulla
politica internazionale, pur non essendo né l'unico né il prevalente. Il porre il problema del
rapporto tra ordine e giustizia dà origine a quella letteratura, largamente sconosciuta sul vecchio
continente e diffusa negli Stati Uniti e in genere nel mondo anglofono, che si chiama etica
internazionale. Si può parlare di approcci normativi che riguardano tre aree sostantive: uno è
quello delle sanzioni economiche e/o militari per il mantenimento dell'ordine internazionale e
dell'intervento umanitario, detto anche ingerenza umanitaria, negli affari sovrani di un altro
Stato. Questa è in parte una ripresa, sotto segni abbastanza nuovi, perché è cambiato lo scenario
(sono cambiate le armi, ma in parte è cambiata anche la cultura) della tradizione del bellum
iustum.
Un altro capitolo importante è quello dei diritti umani nei loro tre o più livelli: diritti civili,
politici, sociali e ormai si parla di una quarta categoria o quarta generazione di diritti, quelli
ambientali, e anche di una quinta cioè quella dei diritti riproduttivi. I diritti civili sono quelli che
riguardano che cosa lo Stato non ha diritto di fare, i diritti politici riguardano che cosa il
cittadino ha il diritto di fare, quanto potere gli spetta, qual è la sua giusta parte nella spartizione
del potere. Infine i diritti sociali: alcuni dicono che i diritti sociali alla tutela della famiglia,
all'educazione, al lavoro, alla casa, all'assistenza, alla previdenza, devono essere considerati alla
pari degli altri e che quindi l'associazione politica deve essere ordinata a produrli, ed essa non è
perfetta se, oltre a produrre la libertà del cittadino, il potere democratico nel prendere decisioni,
non produce anche la sua effettiva possibilità di essere un cittadino responsabile, educato ecc.
Altri pensano che questi non siano diritti nel senso proprio, ma siano condizioni importanti o
necessarie per il godimento degli altri diritti civili e politici. In ogni caso sul piano
29
Si veda D. Zolo, Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995.
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internazionale la tutela di diritti umani, non solo dei propri cittadini, ma dei cittadini di tutto il
mondo30, sta diventando un punto di vista importante nell'orientamento sugli affari
internazionali. Volendo parlare con unalessico diverso, che sta assumendo anche in Italia una
qualche diffusione, si può dire che si tratta di questioni di cittadinanza: della questione di
definire a livello universale che cosa faccia parte della cittadinanza (se per essere cittadino uno
debba essere solo fruitore di diritti politici e civili o anche dei diritti sociali), di quando è che
l'essere cittadino sia veramente tale. Ma la cittadinanza è anche un problema di appartenenza,
perché io posso avere uno Stato liberale e per molti aspetti democratico come quello
configurato nella Costituzione degli Stati Uniti, e poi avere gli schiavi in casa, oppure posso
avere una bellissima polis in cui tutti sono cittadini e poi tenere le donne chiuse in casa e gli
schiavi nel cortile. La questione non è solo della dimensione verticale della cittadinanza, ma
anche della sua dimensione orizzontale, cioè della delimitazione del gruppo di popolazione a
cui si riconoscono i diritti di cittadinanza, che può andare da quelli che fanno parte del mio
gruppo o addirittura di alcune classi o ceti particolarmente designati del mio gruppo; l'altro
estremo è che tutti gli abitanti della terra abbiano pari diritti di cittadinanza: esistono solo
cittadini del mondo.
Il terzo capitolo delle etiche internazionali, che poi è uno sviluppo della questione dei diritti
sociali a livello planetario, contiene le etiche della giustizia internazionale, più esattamente
della giusta distribuzione di beni, di risorse alimentari, energetiche. Qui c'è un sotto-capitolo
riguardante le etiche demografiche, un punto di vista etico sul problema della popolazione. Ne
fa parte anche l'argomento della scialuppa di salvataggio (lifeboat ethics) inventato da uno
studioso americano, G. Hardin, che dice che è sbagliato aiutare i paesi poveri, gli affamati a
sopravvivere, perché questo non fa altro che incrementare la loro riproduzione e la
irresponsabilità nei confronti della riproduzione, e quindi non fa altro che peggiorare nel futuro
sia le condizioni dei loro posteri, sia degli eventuali donatori. La logica è quella che in una
scialuppa di salvataggio (la Terra) che tiene 100 persone, quando ce ne sono già 100 o 110 non
se ne fanno salire altre. Ma prevalgono gli approcci che argomentano invece il dovere o degli
individui o degli Stati di provvedere ad una più equa redistribuzione delle risorse.
30
Cioè un problema, per dirla con Kant, di diritto cosmopolitico, che non riguarda le relazioni fra gli
Stati né le relazioni fra i cittadini e i singoli Stati, ma le relazioni fra i cittadini del mondo con tutti gli
Stati.
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20. Modernizzazione, globalizzazione ed istituzioni politiche
Abbiamo visto la rivoluzione introdotta nelle condizioni-base della politica dalle minacce
globali, primariamente quella rappresentata dalle armi nucleari. Resta ora da chiarire come
giuochi tutto questo con la tematica nota sotto il titolo di globalizzazione, ciò che verrà fatto in
questo paragrafo. Resta inoltre da approfondire il nuovo rapporto fra politica e morale segnalato
dall'acuirsi del problema di un giusto ordine mondiale. Questo tuttavia non potremo farlo senza
aver prima schiarito in generale questo rapporto, e sarà qui passo preliminare quello di chiarire
il quadro complessivo delle teorie etiche contemporanee; lo faremo a partire dal § 21.
Veniamo dunque alla globalizzazione, ma premettiamovi - per evitare confusioni non
improbabili - uno sguardo ad un termine che ha con essa qualche rapporto: modernizzazione.
Nei passati decenni questo termine è stato proposto, come termine scientificamente neutrale, in
alternativa a quello di capitalismo. A sua volta chi preferiva `capitalismo' vedeva in
`modernizzazione' qualcosa come un velo ideologico steso sui veri rapporti di classe - oggi mi
pare che questa contrapposizione sia svanita. Ed in verità io penso che si possano usare
entrambi i concetti non come opposti, bensì integrandoli. Il concetto di modernizzazione è nato
nella sociologia degli ultimi cinquant'anni e vi ricorre continuamente: le teorie del capitalismo
possono ritenersi essere particolari teorie della modernizzazione, particolari perché hanno una
concrezione storica maggiore della teoria della modernizzazione tout court, spiegando i
processi di modernizzazione con una più alta densità storica ed una più intensa connessione fra
economia e società.
Il concetto sociologico di modernizzazione (si veda il relativo lemma nel Dizionario di
politica) consiste di due nozioni principali: l'aumento della capacità e velocità di innovazione
da parte di un sistema sociale, politico e tecnologico, ossia si fanno più innovazioni e si fanno
innovazioni che si susseguono più rapidamente. L'altro aspetto importante è l'aumento della
differenziazione funzionale. In società premoderne, o in luoghi ancora premoderni di una
società pur modernizzata, nell'ambito di un organismo sociale, politico, civile e culturale le
diverse funzioni non sono né divise né distinte, ma tendenzialmente tutti fanno tutto, o almeno
tutti i governanti facevano tutte le funzioni di governo, oppure, in un certo processo produttivo,
tutti gli artigiani od operai manifatturieri facevano quasi l'intera sequenza delle operazioni
necessarie per conseguire un certo obiettivo tecnico-produttivo. Rispetto a questo,
differenziazione funzionale vuol dire che le diverse funzioni implicite in quella che era un'unità
più o meno indistinta si presentano distinte, si differenziano, si dotano di procedure standard,
specifiche ad esse; nell'ambito di quel sistema o di quel processo, si compie così la
differenziazione degli operatori dalle funzioni. Nella fabbrica manifatturiera - come ha illustrato
più nitidamente Marx - già esiste una differenziazione di funzioni rispetto all'artigiano, per cui
un operaio manifatturiero fa prevalentemente solo quel gruppo di funzioni, e non tutte quelle
che faceva l'artigiano di una volta; nella fabbrica meccanica capitalistica è tutto un unico
processo di differenziazione fino alla segmentazione del processo produttivo in tante
piccolissime funzioni e in tanti gruppi o individui che fanno solo quella operazione. Da questo
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punto di vista la modernizzazione significa prevalentemente la rottura dell'assetto tradizionale e
si svolge in maniera non graduale, ma ogni volta che emerge un nuovo problema, una nuova
sfida che provoca prima o dopo un salto, cioè una crisi. In una parola, la modernizzazione pone
sfide e procede per crisi. La modernizzazione dell'Italia è proceduta per crisi, perché la fine
della guerra e la rottura dell'assetto fascista e monarchico e l'immissione nel circuito europeo e
mondiale hanno provocato di colpo sfide al sistema produttivo, fino ad allora agrarioindustriale, e al sistema scolastico e culturale italiano: l'espulsione dei contadini dalle terre,
l'emigrazione di massa degli anni Cinquanta e Sessanta, l'avvento della TV hanno scatenato
crisi non solo economiche, ma anche di modelli culturali, nonché una crisi della famiglia, crisi
le quali hanno poi portato a nuovi e diversi livelli di integrazione sociale.
Questo è il concetto generale, transdisciplinare di modernizzazione. Si parla poi di tre
versioni disciplinari, più contenutistiche, della modernizzazione. La modernizzazione
economica consiste sostanzialmente nell'aumento della razionalità e dell'efficienza, cioè nel
raggiungimento di migliori risultati con le stesse risorse. Marx lo definisce come aumento di
produttività. La modernizzazione politica è l'aumento del livello di interazione cooperativa (non
semplicemente di coesistenza) fra cittadini che sono più eguali di quanto non fossero negli
assetti tradizionali, almeno formaliter, e le cui relazioni sono regolate da leggi, cioè da norme
valide erga omnes; queste leggi sono poi amministrate e fatte eseguire da autorità che hanno
aumentato la loro capacità di direzione della società e della macchina statale. Il passaggio dai
curiales del Medioevo alle grandi organizzazioni burocratiche degli Stati contemporanei
significa che le funzioni sono meglio differenziate perché appunto il curialis faceva tutto,
mentre l'alto dirigente di uno Stato contemporaneo sa fare solo quella cosa: o amministrare il
debito pubblico o provvedere agli acquisti per la difesa militare o gestire i fondi agricoli. La
modernizzazione culturale è un processo contraddistinto dall'alfabetizzazione, dalla diffusione
dei mezzi di comunicazione di massa e dalla distruzione, o come alcuni più elegantemente
dicono, destrutturazione delle credenze e degli schemi mentali tradizionali: quello che Weber
chiama il disincanto del mondo. Uno dei grandi problemi è il rapporto tra modernizzazione
economica, modernizzazione politica e modernizzazione culturale perché questi tre processi
non è detto che procedano di pari passo e che dove ci sia l'una ci siano anche le altre. Ci può
essere la modernizzazione economica che funziona benissimo, almeno per un certo tempo,
senza modernizzazione politica; ci può essere una modernizzazione culturale che non si traduce
in modernizzazione economica, perlomeno entro tempi prevedibili e previsti. Queste discrasie
temporali provocano disarmonie sociali e scontri politici e dottrinari (su quale sia la `vera'
modernizzazione su cui puntare).
Le teorie del capitalismo - sostenevo prima - si possono anche intendere come teorie della
modernizzazione. A me sembra in particolare che si possa leggere la grandiosa teoria marxiana
della genesi storica e della struttura logica del modo di produzione capitalistico come una
grande teoria della modernizzazione, e mi sembra sciocco contrapporre le teorie sociologiche
della modernizzazione al `vecchio e antiquato' Marx, perché uno dei primi che ha fornito una
grande ricostruzione della modernizzazione è appunto Karl Marx - non nella sua filosofia
giovanile, che va bene per i filosofi o per gli storici della filosofia, ma nella teoria racchiusa nel
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Filosofia politica. Un’introduzione
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Capitale e nelle Teorie sul plusvalore31. Ne farò ora un brevissimo riassunto.
Per Marx il modo di produzione capitalistico è un’epoca, la più recente, ma non l'ultima,
della formazione economica della società, insomma del processo continuo attraverso cui la
società prende le sue diverse forme storiche. Marx ha l'idea che il processo sociale di vita,
quello attraverso cui la vita degli individui e delle società si produce, si sostenta e si riproduce,
consista di due aspetti. Uno è l'aspetto materiale che sostanzialmente è l'interazione con la
natura: strappare alla natura materie o direttamente, oppure materie già usate, residui di
precedenti processi lavorativi, e tras-formarle ai fini pertinenti alla riproduzione umana. Questo
è quello che Marx chiama il ricambio organico fra uomo e natura, il processo attraverso cui
avviene la copertura dei bisogni umani ed è un processo eterno, che c'è sempre, perché se non ci
fosse il genere umano sparirebbe, anche se la sua scala e le sue forme tecniche cambiano
perché, dice Marx, è diverso mangiare la carne cruda con le mani o cuocerla e mangiarla con la
forchetta e il coltello. Questo è l'aspetto contenutistico; poi c'è l'aspetto che lui chiama formale
del processo produttivo, in genere del ‘processo sociale di vita’, il fatto cioè che esso prenda
forma economica (la ‘formazione economica della società’), una forma che ovviamente non è
sempre la stessa, trasformandosi nei secoli. In questo cambiamento si possono ravvisare alcune
grandi epoche: c'è il modo di produzione orientale, quello antico, quello feudale, poi quello
capitalistico, ma da come sono andate le cose si può prevedere che ce ne sarà un altro, quello
comunista. Il modo specifico capitalistico coincide con un grande fenomeno, una grande
trasformazione formale, cioè il fatto che tutti gli elementi del processo produttivo prendono la
forma di merce, sulla quale Marx compie la sua famosa analisi ispirata alla logica hegeliana (si
veda il pezzo forte del Capitale, la prima sezione del primo libro, Merce e denaro). Ma quello
che è più importante, e che veramente definisce il capitalismo come capitalismo, è che a
prendere la forma di merce è la stesso forza lavoro, che diventa la merce forza lavoro, che può
essere venduta dal lavoratore e comprata dal capitalista. È con questo mutamento strutturale,
alle radici stesse dei rapporti fra gli uomini, che il capitalismo si costituisce come epoca nuova,
è qui - diremmo noi - la radice o almeno una delle radici della modernizzazione.
Prima di procedere, occorre ricordare che oltre al concetto di modernizzazione, di origine
sociologica, in filosofia politica impieghiamo altresì quello filosofico di modernità. Esso
riguarda principalmente l'assetto che da alcuni secoli ad oggi (o ad ieri, secondo i pensatori
postmoderni) abbiamo dato al nostro mondo mentale, dopo la scomparsa o l'allontanarsi del Dio
medioevale e l'allargarsi infinito del cosmo; vi emerge soprattutto la questione del soggetto o
della soggettività, nata dalla crescente centralità ed autonomia dell'essere umano, ma anche dal
suo `spaesamento' in un mondo non più ordinato da presenze trascendenti e da poteri assoluti.
Tale questione si è poi appuntata, già nel pensiero del Seicento e Settecento, sul rapporto di
interessi e passioni e sul loro disciplinamento e ha avuto un altro punto saliente nella crisi del
senso della vita individuale ed associata indotta dal `disincanto' weberiano. Nel suo complesso,
una teoria della modernità (o meglio una rassegna delle teorie, comprese quelle postmoderne
sulla sua fine) non può essere trattata in questo testo, nel quale si è invece più volte fatto
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Marx pubblicò soltanto il vol. I del Capitale nel 1867, gli altri due volumi e le Teorie, che
dovevano essere il quarto, uscirono postumi
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riferimento alla modernità specificamente politica, e alla crisi dei suoi assetti. Lo stesso
ragionamento svolto sull'era nucleare riguarda la questione se la modernità sia giunta a termine,
e che cosa, degli elementi della modernità stessa, abbia a questo termine condotto; ovvero se la
crisi del progetto moderno di un riordinamento razionale e benefico del mondo possa essere
superata attraverso una riflessione critica su tale progetto.
Tornando ora a termini più analitici di discorso, la modernizzazione tecnica, economica, ma
anche culturale e politica è una delle premesse logiche e storiche della globalizzazione, e
quest'ultima per converso ha, quando impatta con aree arretrate, effetti modernizzanti. Ma i
legami fra i due fenomeni non sono di causa ed effetto, o comunque strettissimi.
Per globalizzazione si intende che una serie di processi e relazioni hanno assunto
dimensione mondiale, e che così facendo hanno realizzato un mutamento qualitativo oltre che
dimensionale. Sarebbe meglio parlare di mondializzazione anziché di globalizzazione, per non
confondere questa (nel mio modo di vedere le cose - v. oltre in questo paragrafo) con le sfide
globali; ma ormai quel termine si è imposto. Si possono distinguere tre gruppi di fenomeni di
globalizzazione.
1. Globalizzazione economico-finanziaria:
• liberalizzazione dei mercati finanziari e loro forte interdipendenza (es. valute), nonché
crescente peso del capitale finanziario nel finanziamento delle imprese.
• forte interdipendenza tecnologica a dimensione mondiale nei settori avanzati.
• omogeneizzazione della logica organizzativa nella produzione e nella distribuzione,
ormai con una prevalenza di quella propria del capitalismo anglosassone piuttosto che
giapponese o renano.
• aumento del circa 4% annuo degli scambi mondiali, con una decisiva caduta dei costi di
trasporto e di comunicazione.
• relativa liberalizzazione ed interdipendenza del mercato del lavoro a livello mondiale.
• integrazione di attività economiche localizzate sotto il comando finanziario e gestionale
di imprese, multinazionali o no, operanti nell'intero mondo.
2. Globalizzazione culturale:
• la creazione del global village (TV, Internet).
• la diffusione mondiale degli stessi modelli culturali e di consumo, dallo star system alla
Coca Cola.
• la circolazione mondiale degli stessi `dogmi' o parole-chiave, comunque interpretati: per
es. `democrazia', `lotta all'inflazione'.
3. Globalizzazione sociale o politica:
• l'infittirsi ed estendersi di organizzazioni informali o "reti" transnazionali: per prendere
solo esempi estremi, mafie, scacchisti, terroristi ideologici di varia osservanza, pedofili.
• lo stesso per quanto riguarda organizzazioni intergovernative ed anche sovranazionali
(nel più recente uso terminologico queste sono le due specie del genere
"internazionale").
Ho scelto un approccio descrittivo alla globalizzazione perché filosoficamente di essa diversamente dalla coppia modernizzazione-capitalismo - è difficile poter già dire qualcosa di
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sensato o addirittura definitivo. Per dirla sbrigativamente, essa può portare ad una Cosmopolis
democratica ovvero ad una dispotica, così come può invece scatenare reazioni di tipo
tribalistico, giacché la globalizzazione culturale non significa necessariamente
omogeneizzazione su scala mondiale, provocando anche un rifiuto oppure una trasformazione
localistica delle immagini culturali globalizzanti (nel contesto di Brazzaville o di Wu Han la
Coca Cola può avere un senso diverso che in quello newyorkese). La modernizzazione indotta
dalla globalizzazione, insomma, non vuol dire necessariamente occidentalizzazione.
In ogni caso, è frettoloso, sul piano delle previsioni, ma anche degli auspici, dedurre dalla
globalizzazione lo sviluppo di una cittadinanza o di un governo mondiale. Sono comunque
questioni troppo problematiche e complesse per trattarne in un'introduzione alla filosofia
politica.
Diversa previsione si può fare invece per le sfide globali che ho sopra indicato - rebus sic
stantibus - risiedere nelle armi nucleari e nelle minacce all'ecosfera nel suo complesso. Se è
vero che queste minacce riguardano, più o meno indistintamente, tutti gli abitanti della terra, e
che solo sulla base della cooperazione di tutti possono essere affrontate con qualche speranza di
successo, vi è in esse una possibilità di configurare il genere umano come una comunità nonvolontaristica, e quindi potenzialmente politica. Non è il caso qui di sviluppare questa tesi, ma
era necessario enunciarla per illuminare la questione delle istituzioni che a questa nuova
situazione (globalizzazione come mondializzazione + sfide globali) possono far fronte.
Il mio punto di vista qui non è prescrittivo, cioè del tipo: se si vogliono risolvere questi
nuovi problemi come vuole la ragione o la legge morale occorrono istituzioni di tale o tal'altra
fatta. Neppure è del tipo che chiamerei esigenzialistico: siccome la sovranità statuale è
indebolita, siccome i processi hanno assunto scala mondiale, siccome gli uomini starebbero
meglio se governati in quest'altro modo, allora oggi auspichiamo e domani otterremo istituzioni
nuove ed adeguate. Adottando il punto di vista che all'inizio di questo testo ho chiamato
analitico o ricostruttivo, cerco soltanto di dire - ma con lo sguardo rivolto al futuro, dunque di
prevedere - qual tipo di istituzioni possa essere richiesto ed alla fine imposto dai nuovi problemi
in ragione della loro struttura e della loro cogenza. Orbene, credo si possa dire che i problemi
posti dalla mondializzazione-globalizzazione verranno più o meno bene gestiti da istituzioni
internazionali o interstatali o intergovernative (qui li uso come sinonimi). Istituzioni (formalilegali o informali come i `regimi internazionali', per es. quello di non-proliferazione nucleare)
che cioè nascono da un accordo fra gli Stati e non richiedono una formale e totale rinuncia alla
propria sovranità; esse sono in grado di deliberare solo all'unanimità, ed uno Stato membro può
sempre, sebbene non facilmente, ritirarsi in fase di approvazione od esecuzione di una decisione
(in gergo si chiama opting out). Sulla gestione delle sfide globali la previsione è molto più
incerta: poiché una sola rilevante defezione da - poniamo - un accordo di disarmo nucleare o di
riduzione di emissioni gassose a tutela dell'ecosfera può far saltare l'intero accordo e
riacutizzare conflitti deleteri, sembra perciò che le sfide globali possano essere affrontate con
sufficiente garanzia di successo solo da istituzioni sovranazionali, aventi un potere di decisione
e di esecuzione autonomo rispetto agli Stati, o meglio rispetto a veti o comportamenti defettivi
ed opportunistici da parte di singoli Stati. A livello mondiale queste istituzioni non esistono, né
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in tempi politici le si può pensare in gestazione seguita da un parto; l'ONU è ben distante dalla
sovranazionalità, di cui vi sono in essa solo alcuni pallidi elementi. A livello continentale
(regionale, come si usa dire) elementi di sovranazionalità si trovano solo nell'Unione europea, o
più esattamente nella parte comunitaria (l'acquis communautaire), nella quale si decide a
maggioranza. Essi non riguardano la parte di high politics della costruzione europea, non
essendovi alcun elemento di sovranazionalità (e talora neppure di un'unitaria cooperazione
intergovernativa) nella politica estera e di sicurezza, in quella finanziaria e in quella fiscale
dell'UE. Queste aree sono sottratte alla competenza dell’Unione oppure vi rientrano solo se c’è
l’unanimità.
Per la filosofia politica un aspetto può tuttavia diventare interessante nei prossimi anni: lo
svilupparsi delle esistenti o imminenti istituzioni internazionali in un senso che - per forza di
cose, indipendentemente dalle ripetute proteste di intangibile sovranità da parte dei membri - va
aldilà dei descritti limiti di tali istituzioni e rende meno netta e cognitivamente meno produttiva
la divisione internazionale-sovranazionale. Se le cose vanno avanti così, per concettualizzarle
occorrerà rivedere profondamente la moderna teoria dello Stato. A questa esigenza del resto
cospirano altresì altri fattori come l'attenuazione od obsolescenza della separazione fra politica
e morale, soprattutto in prospettiva mondiale.
21. Etica e politica: una mappa delle etiche
Per occuparsi del rapporto di etica e politica oggi occorre essere orientati nel panorama
dell'etica contemporanea, che è diverso da quello del tempo di Machiavelli o di Kant. Prima
ancora, per occuparsi di questo rapporto è necessario preliminarmente riconoscere autonomia e
consistenza al polo `etica'. Per fare questo occorre soddisfare a due condizioni.
Occorre - primo - presupporre che la morale non sia vanificata o sostituita da una filosofia
della storia che pretenda di contenerla come suo momento meno maturo (tale è il rapporto di
moralità ed eticità come filosofia della società e dello Stato in Hegel) o addirittura falso - le
morali sono altrettante ideologie funzionali della lotta di classe in Marx, anche se poi in lui
come, in misura forse minore, in Engels c'è parecchio normativismo latente, ed anche se è poi
potuto esistere fra Ottocento e Novecento un `marxismo etico'.
Occorre poi riconoscere che il punto di vista morale ha un senso, cioè che ha un senso semplifico la definizione del moral point of view data da Kurt Baier - agire per ragioni di
principio, non essere egoisti, considerare il bene altrui di eguale dignità del proprio ed essere
disposti ad universalizzare le proprie massime dell'agire. Viceversa, occorre respingere l'idea
(normativa) che dobbiamo sempre e solo cercare il nostro piacere o felicità individuale
(egoismo edonistico, egoismo dell'atto nelle definizioni tecniche). Le ragioni per far questo
possono essere a. che di fatto non è vero che sia così (abbiamo sentimenti morali), b. che non
può essere così per le aporie che si aprirebbero: da un lato renderemmo impossibile la
cooperazione o la stessa convivenza con gli altri, danneggiando anche noi stessi, dall'altro (sono
due argomenti connessi, ma non identici) per raggiungere la nostra felicità dobbiamosapere che
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essa è legata anche a quella altrui.
Fatte salve queste scelte preliminari, osserviamo che di morale possiamo discorrere per
sapere come dobbiamo scegliere di agire (etica), oppure per giustificare tale scelta, per
studiarne i significati e per vederne i rapporti con altre sfere dell'agire od altri approcci ad esso
(meta-etica). In generale, la morale ci dice che cosa è giusto, oppure che cosa è bene, oppure
ancora che cosa è virtuoso fare. Possiamo infatti distinguere fra etiche del giusto o del bene e
della virtù.
Le etiche che rispondono alla domanda “che cosa è giusto fare?” pronunciano norme capaci
di regolare i nostri atti in base ad un principio o a più principi interconnessi, indipendentemente
dai fini che gli attori possono proporsi in rapporto ad una qualche concezione del mondo, della
vita terrena od ultraterrena, della storia ecc. Queste etiche normative si distinguono in
deontologiche e consequenzialistiche.
Le etiche deontologiche ci dicono che un atto è giusto o ingiusto, lecito od illecito in base
alla sua qualità intrinseca, rapportata ad un principio o regola generale dell'agire: un'idea della
ragione in morale ovvero ragion pratica, un'idea della dignità umana o altro. Il tipo-base di
queste etiche è quella kantiana. Ad esso si richiamano oggi sia la teoria della giustizia di John
Rawls sia l'etica del discorso di Karl-Otto Apel e Jürgen Habermas.
Le etiche consequenzialistiche chiamano giusto quell'atto che produce il miglior esito
complessivo, visto da un punto di vista impersonale che dà egual peso all'interesse di ognuno.
Di queste etiche il tipo fondamentale è l'utilitarismo, che identifica quel miglior esito
complessivo con il saldo netto più alto di piacere umano aggregato (piaceri meno dolori, e
riguardante la totalità degli individui).
L'utilitarismo ha subito in seguito una grande quantità di mutamenti, più ancora delle teorie
deontologiche. Per un certo aspetto si può dire che esso oggi sopravviva in due cose largamente
separate: un utilitarismo filosofico e prevalentemente metaetico da un lato, ed è questo un esito
molto sbiadito rispetto all'utilitarismo sensista dei fondatori (Bentham, Stuart Mill). Per altro
verso l'utilitarismo è uscito dalla filosofia ed è diventato una pura e semplice teoria della scelta
razionale: theory of rational choice, che è una trattatistica relativa a come prendere le migliori
decisioni, sviluppata nei terreni specifici dell'economia, in parte anche delle politiche pubbliche,
o in sotto settori come quello militare.
L'approccio utilitaristico si può anche definire una teoria che giudica le azioni in base al
bene che producono, e non c'è dubbio che esso contiene un elemento di correlazione dei mezzi
al fine, fine che uno sceglie come definizione dell'utilità.
Facciamo le seguenti osservazioni: 1) l'utilitarismo parla di bene,ma quando parla di bene
questo è esclusivamente un bene non morale, scelto cioè in base al gusto, in base alle
sensazioni, in base ai valori di una civiltà, ma non è compito di una teoria morale stessa
sceglierlo. Inoltre esso è un bene aggregato, cioè - si diceva una volta - derivante da piaceri, più
avanti si disse scelte e oggi si dice preferenze individuali.
Occorre tenere a mente queste cose perché impediscono di confondere l'utilitarismo con il
teleologismo. Le teorie teleologiche, o etiche del bene, dicono che c'è un bene comune, ovvero
un bene supremo, che viene definito in base ad una qualche teoria o religiosa o metafisica o di
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filosofia della storia e che è considerato al di sopra e al di fuori delle preferenze individuali, sia
come bene supremo di ciascun singolo individuo, sia come bene proprio della comunità. L'agire
morale di queste teorie consiste dunque nell'ordinare finalisticamente, non solo tutti i nostri atti,
ma tutta la nostra vita al conseguimento di quel bene, cioè al conseguimento, all'avvicinamento
della nostra vita personale al modello di vita buona o - nel greco di Aristotele - `eu zen'.
Aristotele resta la base delle etiche teleologiche, di cui abbiamo di recente visto una
riproposizione negli autori detti appunto neoaristotelici (Alasdair MacIntyre, Charles Taylor).
Dovrebbero
risultare
evidenti
ed
incolmabili
le
differenze
fra
consequenzialismo/utilitarismo e teorie teleologiche, ma ne dico ancora una: mentre il
consequenzialismo resta una teoria normativa che giudica ogni singolo atto, il punto di vista
delle teorie teleologiche è l'intero arco della nostra vita, del nostro agire morale, cioè non il
singolo atto, ma l'habitus; in una parola le teorie teleologiche sono, non sempre ma spesso,
teorie della virtù o, come meglio si dice, prendendo il termine aretè dal greco, che significa
virtù, teorie aretaiche.
Questo quadro d'assieme ci permette ora di riconsiderare meglio ciò che sta al di fuori di
esso ed è però rilevante per i comportamenti politici, cioè per i rapporti tra morale e politica. Ne
stanno al di fuori le dottrine che non ci chiedono di conformare il nostro comportamento né al
giusto né al bene, ma a ciò che è opportuno dal punto di vista del nostro benessere egoistico
quanto all'obiettivo e delle regole di saggezza ed astuzia ricavate dall'esperienza quanto al
metodo. Per una serie di rigiri della storia delle idee e delle parole, ad una certo punto il
concetto e soprattutto il termine greco per saggezza pratica, non astratta, ma che consiste nel
bene muoversi nelle cose della vita, cioè phronesis (una virtù intellettuale per Aristotele), si è
staccato dalla matrice originaria ed è venuto ad indicare questa saggezza pratica nel senso di
una saggezza diversa ed addirittura opposta al punto di vista morale; siccome poi phronesis è
stata tradotta dal tardo medioevo in avanti con prudentia, allora nella filosofia politica il punto
di vista prudenziale è venuto ad indicare precisamente il punto di vista dell'opportunità, in
quanto altro rispetto al bene e al giusto. L'approccio prudenziale è caratteristico del realismo
politico.
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22. Idealismo e realismo politico
Questa è una delle grandi dicotomie della filosofia politica: se il nostro approccio
intellettuale e pratico alla politica debba fondarsi sulla possibilità e desiderabilità di farvi
direttamente valere valori e norme proprie di una nostra visione di come essa dovrebbe essere
in base a principi civili e morali, oppure no. Poiché tali norme e valori possono essere morali,
ma anche giuridici (di un diritto che si pretende razionale o giusto, non del diritto dei
giuspositivisti), si parla più generalmente di normativismo. Si noti che idealismo e
normativismo trattano della nostra azione come azione politica, perché se noi diciamo che della
politica non ci importa niente, e che siamo uomini religiosi che vogliono puramente rendere
testimonianza della propria fede, allora questo non riguarda il rapporto tra morale e politica, che
ci interessa se si presenta come qualcosa che vuole influenzare la politica, agendo all'interno di
essa. Ancora una volta, il tipo-base dell'idealismo o normativismo politico è rappresentato da
Immanuel Kant, che - si veda fra l'altro lo scritto del 1795 Sulla pace perpetua - si pone non
solo il problema di cosa dev'essere la politica in ordine a ragione, morale e diritto, ma altresì
quello di come essa possa diventare conforme alle norme ed ai valori della ragione.
Dalla parte opposta di idealismo e normativismo sta il realismo politico. È quella teoria che
pensa che la politica proceda secondo principi propri quali che essi siano, ma essendo essi
comunque diversi da quelli morali: la prudenza degli individui, l'interesse o degli individui o
delle nazioni o delle classi, il rapporto amico-nemico. Ci sono varie sfumature del realismo: una
che ritiene che siccome il principio della politica, il suo telos è il potere in sé e non in vista di
qualcosa d'altro, ogni moralità è non solo estranea e impotente, ma non vera: poiché la politica è
quella cosa e solo quella cosa, ciò che in essa si presenta come moralità, in realtà non è che
ideologia (falsa coscienza) ed instrumentum regni. Esiste poi una forma più moderata di
realismo che ritiene che il potere sia la sostanza ed il principio procedurale della politica, ma
non come fine a se stesso, bensì in vista di un bene collettivo terreno, come la sicurezza, la
gloria, l'onore o comunque che il potere sia un remedium mali: pensano così i teorici della
ragion di Stato che sono da ascriversi alla tradizione del realismo politico. Questa versione più
equilibrata del realismo ritiene che, in un mondo in cui originariamente non v'è altro che
insicurezza e paura, si possono bensì aver in mente le idee più generose, ma prioritario resta
assicurare a sé ed al proprio gruppo la sopravvivenza, nonché condizioni migliorabili
d'esistenza. Per far questo occorrono il potere e la forza, raccolti nell'istituzione Stato, la cui
esistenza e difesa costi quel che costi (inganni, delitti e massacri compresi) è condizione
irrinunciabile per ogni perseguimento del bene comune ed individuale. Questo tipo standard di
realismo può essere più finemente sottodistinto in realismo a base antropologica e realismo a
base strutturale. Il primo si giustifica considerando che negli attori politici, gli individui umani
anzitutto, la tendenza all'egoismo o alla supremazia-sopraffazione-arricchimento prevalga sulla
solidarietà e benevolenza, e dunque sia necessaria la regolazione tramite il potere coattivo, di
cui la forza diventa elemento fortemente caratterizzante o perfino dominante, per evitare il
peggio. L'altro sotto-tipo prescinde da assunzioni pertinenti all'antropologia filosofica e vede la
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ragione del prevalere della Machtpolitik (politica di potenza) nel permanere di condizione di
anarchia fra gli attori - il riferimento principale qui è alla politica fra gli Stati. Ciò permette di
pensare che, se mai l'anarchia venisse superata o attenuata (come abbiamo visto che sta in
effetti accadendo), anche la primazia `realistica' della potenza, del self-interest, della logica
prudenziale dovrebbe essere ridiscussa.
Queste ultime considerazioni aprono la strada ad una terza versione del realismo politico,
quella che dice che i valori morali possono farsi strada nella politica ed avere forte influenza su
di essa, solo se si tengono fuori dal quotidiano e comune accadere politico, se non pretendono
di guidare precettisticamente e moralisticamente il nostro agire politico, ma solo di ispirarne i
principi. Questo è il punto di vista di chi non vede un'alternativa assoluta ed eterna tra realismo
politico e normativismo, sia perché molte delle condizioni sotto cui lo Stato moderno ha tutelato
la salus reipublicae si sono sostanzialmente (si pensi solo alle sfide globali, o alla più generale
perdita di neutralità etica per quanto riguarda la tecnica) modificate; sia perché quella
contrapposizione non tiene conto del maggior articolarsi delle dottrine morali disponibili. Si
noti per esempio che i realisti politici, quando parlano di una morale che non ha niente a che
fare con la politica, hanno della morale una visione assai semplificata e mal informata: per loro
la morale è quella deontologica e quella soltanto, né hanno essi nozione delle recenti tendenze
al pluralismo morale (diversi approcci morali a diverse sfere di azione e di relazioni; da non
confondersi con l'eclettismo).
Comunque si sviluppi in avvenire la controversia fra normativismo e realismo, non si può
chiudere la trattazione dei rapporti di etica e politica senza ricordarne un celebre, ed ancor
significativo (comunque lo si rielabori oggi) episodio teorico, affidato allo scritto Politik als
Beruf (Politica come professione/vocazione - questa sarebbe la traduzione esatta) che Max
Weber compose nel 1918, alla fine della Grande Guerra. Si tratta dell'ammissione da parte di
Weber (che i realisti considerano un loro padre spirituale) che il vero uomo politico, lungi dal
poter fare a meno di qualsiasi considerazione etica, di qualsiasi riflessione sull'orientamento del
proprio agire, deve nutrirsi di due etiche concorrenti, eppure indissolubilmente legate; è il
mezzo specificamente politico della violenza a dare risalto al problema etico nella politica. La
Gesinnungsethik (etica della convinzione intima) ha dalla sua che anche la politica non si fa
solo con il cervello, come dice Weber, cioè con il mero calcolo strategico, e che una fede
sincera nella propria causa impedisce alla politica, che per Weber è questione di grandi scelte
(siamo in anni di guerre e rivoluzioni), di ridursi ad opportunismo prudenziale tutto dedito al
culto del potere. Ma tale etica sconfina facilmente nell'utopia millenaristica, e soprattutto nella
copertura offerta sia a mezzi altrimenti ingiustificabili, sia a vantaggi incontrollati di cui il
Gesinnungspolitiker ed i suoi seguaci vanno a godere, se riescono ad affermarsi, sotto il manto
delle loro alte convinzioni. Perciò si possono far valere in politica le proprie convinzioni,
sostiene Weber, solo se si considerano quali saranno o sono state le conseguenze del proprio
agire e ci se ne assume la responsabilità, anziché scaricarla sulla nequizia od immaturità del
genere umano o dei propri concittadini. Con il nostro linguaggio, potremmo dire che un
approccio normativo, e specialmente deontologico, ai problemi etici, alle grandi e talora
tragiche scelte che si pongono in politica, è giustificabile solo se si è in grado di sostenerne le
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conseguenze, commisurando mezzi e fini, intenzioni ed effetti controintenzionali o - come si
dice - perversi (non si tratta di consequenzialismo morale, che è una delle etiche normative e
per il quale pure si porrebbero problemi di `etica della convinzione').
Il nesso fra le due etiche diventa questione drammatica quando i convincimenti intimi non
verificati dall’intelligenza politica e dalla sapienza storica si pongono in contrasto irrefrenabile
con la realtà e cercano di spezzare l’impasse ricorrendo al disprezzo per la realtà e per i suoi
abitatori, gli altri uomini, amici o avversari che siano ed usando senza freni della violenza per
dimostrare a se stessi e al proprio gruppo di esistere e di contare. Si produce allora quel
terrorismo di matrice ideologica, tanto intellettualmente grossolano quanto politicamente
allucinato, che non ha mai smesso di uccidere da trent’anni a questa parte soprattutto in Italia.
In esso è difficile marcare il confine fra motivi politici, per quanto abnormi, e mera patologia
criminale.
23. I diritti
Nel venire conclusivamente a parlare di tre grandi categorie come libertà, eguaglianza e
giustizia, preferisco non partire da una definizione filosofica, bensì dal modo come la prima di
esse si presenta nella vita politica moderna. In essa non ci imbattiamo invero ne `la' libertà,
salvo che in momenti in cui essa è totalmente negata e la sua riconquista diviene un fine ed una
lotta unica e complessiva. In tempi normali ci imbattiamo ne `le' libertà, quelle fondamentali ed
inviolabili, non solo nel senso che non devono venir lese, ma che non sono neppure passibili di
revisione. Si usa distinguerle in base alla loro sfera di allocazione:
- libertà personali, anzitutto l'habeas corpus, cioè la libertà rispetto al potere (alla
detenzione od uccisione illegali) e alle sue intrusioni nella nostra vita personale e privata.
- libertà politiche: si riassumono nella libertà di non obbedire ad autorità se non legittime,
intrecciandosi dunque con il tema dell'obbligo politico.
- libertà economiche, quelle più discusse: quella di comprare e vendere quel che ci
appartiene, compresa la nostra forza-lavoro, commerciando con tutti, e quella di produrre senza
monopoli statali o privati che ce lo impediscano di diritto o di fatto.
- si parla inoltre di libertà strumentali, per indicare quelle riguardanti gli strumenti
indispensabili attraverso i quali si esplicano alcune delle libertà precedenti: anzitutto quella
della stampa e dei media.
Le libertà fondamentali che abbiamo fino ad adesso catalogato prendendole dalla realtà
politica e costituzionale, in quanto vengano riconosciute dagli altri e dalle istituzioni entro le
quali viviamo, diventano diritti di libertà o come oggi più generalmente si dice, diritti umani
(ma se si intendono i diritti in senso proprio, cioè giuridicamente validi e vincolanti, occorre
dire “diritti fondamentali”). Prima di tutti ci sono i diritti civili che sono tutti negativi, cioè che
derivano dalla astensione di altri soggetti dal fare certe cose che possono limitare questi diritti
di libertà: particolarmente derivano dalla astensione dello Stato a fare atti aventi effetti
limitativi. A questi diritti di libertà negativi corrisponde, da parte di chi si deve astenere, un
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Filosofia politica. Un’introduzione
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dovere: ed è una corrispondenza piena, cioè si tratta di doveri perfetti e assoluti, non occasionali
e non discrezionali.
I diritti civili sono i diritti personali già detti, i diritti riguardanti l'inviolabilità del domicilio,
della corrispondenza, la libertà di movimento, di riunione, di associazione, di religione, di
pensiero e della sua espressione, quindi quello che si chiamava diritto alla libera stampa e che
adesso deve trovare un altro nome, non essendo più la stampa in senso tecnico ad essere l'unico
strumento di espressione del pensiero. C'è poi il diritto ad essere giudicato, cioè il diritto al
giudizio come parte lesa; questo è un diritto fondamentale che è integrato dal diritto ad essere
giudicato solo dal giudice naturale e quindi non da un giudice inventato lì per lì, né tale che
proceda fuori dalle regole dello Stato di diritto, per esempio il cadì: tanto meno un giudice fatto
apposta per colpire gli oppositori di un certo partito, come era il Tribunale speciale fascista per
la difesa dello Stato, o analoghe corti in analoghe dittature. I diritti civili si potrebbero ancora
suddividere in base alla loro genesi non storica ma logica. O sono diritti che preesistono allo
Stato; o derivano da un'autolimitazione dello Stato, come il diritto all'inviolabilità della
corrispondenza; o sono diritti nati per contratto.
L'altra specie del genere `diritti di libertà' sono i diritti politici, fondamentalmente quelli alla
cittadinanza, derivanti dal fatto che uno è nato in un certo posto: ius soli. Però certi Stati, come
quelli medievali in genere, ma anche alcuni Stati moderni come la Germania, mantengono lo
ius sanguinis, cioè si è cittadini non perché si è nati lì, ma perché si discende da genitori o
progenitori di quel ceppo32; il che porta poi, se preso sul serio, a problemi mostruosi di fronte a
popolazioni di lontanissima origine tedesca, come quelle dell'Asia centrale, che volevano e in
parte sono riuscite a “rientrare” in Germania.
Altri diritti politici sono il diritto di voto e di organizzarsi politicamente, cioè di riunirsi in
partiti. Questi diritti riguardano tanto la libertà quanto il potere, cioè riguardano il diritto dei
cittadini ad agire in maniera tale da influenzare la suddivisione del potere. Quindi sono diritti
già molto diversi da quelli civili e non sono diritti negativi; anzi, alcune cose occorre che lo
Stato le faccia, ad esempio che organizzi le elezioni. Questi sono i diritti che alcuni, come
Bobbio, chiamano di prima generazione.
Poi vengono i diritti di seconda generazione, alludendo al fatto che l'emergenza dei diritti è
un fatto storico, evolutivo. I diritti sui quali si è costituita la moderna idea di stato sono i diritti
di prima generazione. Questo non ci deve impedire di riconoscere che con l'evoluzione altre
cose, che prima nessuno pensava che potessero essere considerati diritti, lo sono, oppure sono
sub iudice, cioè tutti ritengono che siano cose importanti, ma non tutti ritengono che siano
diritti: si tratta dei diritti sociali al lavoro, all'istruzione, all'assistenza di vecchi e di invalidi.
C'è chi vede ancora due generazioni di diritti, quindi si arriva alla terza e alla quarta
generazione. La terza sarebbe quella dei diritti di solidarietà, allo sviluppo che è qualcosa di più
che l'istruzione; alla preservazione dell'ambiente; alla preservazione dell'identità di gruppo
attraverso la libera comunicazione e alla pace. La quarta generazione sarebbe di nuovo fatta di
diritti negativi, di preservazione dagli interventi di bioingegneria. Non mi diffondo sulla terza e
quarta generazione perché sono sub iudice e lo resteranno ancora per decenni.
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Qual è il problema relativamente alla questione dei diritti sociali? Se solo si trattasse di
riconoscerli come diritti, tutti gli uomini di buona volontà, dotati di spirito di solidarietà e di
simpatia verso i propri simili, li riconoscerebbero come diritti. Il problema è che questi diritti
sociali sono molto difformi dagli altri e possono avere effetti perversi. I diritti di libertà
abbiamo detto che sono garantiti dal non intervento dello Stato: lo Stato interviene solo per
organizzare la fruizione di questi diritti, per organizzare le elezioni, oppure lo Stato interviene
per reprimere gli abusi. Vorrei sottolineare che i diritti di prima generazione si hanno verso lo
Stato, ma prima verso i propri concittadini, gli altri individui che diventano concittadini nel
momento in cui fanno il patto con noi e ci riconosciamo reciprocamente come titolari di questi
diritti. Da questo momento io ammetto che tu sei cittadino al pari mio e quindi non devo
invadere la tua libertà, tu non devi invadere la mia, però fermo questo ciascuno di noi può avere
possibilità di fare quello che meglio crede per potersi sviluppare. Per fare tutto questo ci
costruiamo un uomo artificiale, come dice Hobbes nel Leviatano, che ci garantirà la gestione di
questo patto, e se domani o a te o ai tuoi figli verrà in mente di ledere quei diritti che ora stai
rispettando, lo Stato interverrà.
I diritti sociali invece, per non parlare di quelli di terza generazione (solidarietà, sviluppo)
richiedono non l'astensione, ma l'intervento diretto e attivissimo dello Stato che deve darsi
molto da fare per dare lavoro a tutti, per dare istruzione a tutti, per garantire a tutti pensioni di
invalidità e di vecchiaia. Una cosa è riconoscere il rilievo, l'importanza di queste pretese, per
esempio delle rivendicazioni del lavoro e della pensione in quanto condizioni per la piena
fruizione dei diritti di libertà. Questo crea per lo Stato, e ancora prima per la società civile, un
dovere, ma non perfetto e assoluto, a fare il possibile per dare a ciascuno lavoro, istruzione,
pensione in maniera da permettergli di essere lui un cittadino optimo iure, e ai suoi figli di
godere pienamente delle possibilità di sviluppo. Questa è una cosa su cui più o meno siamo tutti
d'accordo. Un'altra cosa è attribuire a quelle rivendicazioni di condizioni, riconosciute
importanti per la fruizione stessa dei diritti di libertà, il carattere di diritti. Questa è un'altra
cosa, perché, se si tratta di un diritto, configura da parte dello Stato un dovere perfetto e
assoluto quanto quello di non mandarmi la polizia alle tre di notte per arrestarmi senza un
mandato di un giudice, di non aprire la mia corrispondenza, di non venire a bruciare le mie
Chiese o Sinagoghe. Riconoscerli come diritti significa obbligare lo Stato a garantire quelle
prestazioni a tutti, perché altrimenti ciascun cittadino può andare di fronte ad una corte e
reclamare con successo di avere comunque un lavoro, una pensione, un'istruzione per i suoi
figli. Questo richiede che lo Stato si carichi, non come libera scelta discrezionale, ma come
dovere politico-giuridico di compiti che prima di tutto lo espandono enormemente dal punto di
vista sia della sua amministrazione sia, soprattutto, della fiscalità: uno Stato che deve fare tutte
queste cose diventa uno Stato fiscalmente esosissimo, che ha bisogno di una grande e costosa
amministrazione finanziaria e pubblica. In Italia abbiamo l'esempio di una situazione
particolarmente insoddisfacente nei confronti dei cittadini, ma anche negli altri paesi le
amministrazioni sono simili, seppur talora più efficienti. È possibile che lo Stato debba, per
adempiere a questi compiti, portare delle limitazioni di tipo burocratico ai diritti di libertà, per
32
Lo ius sanguinis è stato attenuato nella recente legislazione tedesca degli anni Duemila.
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esempio tutte le limitazioni che spogliano il cittadino della sua individualità e lo rendono, per
dirla in maniera grossolana ma efficace, un numero e niente più che un numero, come fruitore
della macchina assistenziale dello Stato. L'altra cosa distinta è che i compiti sociali di cui lo
Stato si carica, contengono un notevole rischio di inefficienza nel senso tecnico, cioè di un
rapporto mezzi/fini inadeguato; dati quei mezzi non si raggiungono i fini che con quei mezzi si
dovrebbero poter raggiungere, oppure dati quei fini si sono scelti mezzi, per sottostima oppure
qualitativamente, inadatti a raggiungere quei fini: questa è inefficienza, da distinguere
dall'inefficacia, che riguarda il raggiungimento o meno di un obiettivo indipendentemente dai
costi. Inefficienza vuol dire che può verificarsi che le risorse dei cittadini, non solo quelle
fiscali, ma certo queste prevalentemente, vengano per un verso sottoposte ad un'enorme
pressione, per un altro vengano allocate autoritativamente, cioè da un'autorità centrale, nella
fattispecie lo Stato, che certo ha il titolo per farlo, ma che non ha l'obbligo di sottoporsi ad un
vaglio di efficienza; non v'è cioè un'istanza neutrale ed esperta che verifichi se le risorse usate
per fini sociali siano state usate in maniera tale da soddisfare almeno gli obiettivi minimi per i
quali sono state estratte dai singoli cittadini e gestite dallo Stato.
Inoltre riconoscere le rivendicazioni sociali come diritti può peggiorare la cosiddetta crisi
fiscale dello Stato, cioè una situazione per cui, indipendentemente dalla volontà, per sole
questioni di proporzioni tra chi paga le tasse, quanto le paga, la potenzialità produttiva di
un'economia e le prestazioni di uno Stato, ci sia una sproporzione tale per cui lo Stato, anche
mettendo il massimo delle imposte, non riesca mai o a coprire le prestazioni sociali che
vengono richieste, e allora è possibile che si abbia una crisi di legittimità perché la gente dirà:
noi vogliamo questo, ti abbiamo eletto per questo, paghiamo le tasse per questo e tu, Stato, non
dai ciò che noi vediamo altri Stati sono in grado di dare? Oppure, per dare questo a tutti e
quindi evitare la crisi di legittimità, lo Stato può indebitarsi in maniera tale che il debito non sia
più coperto dal gettito fiscale e quindi sia inarrestabile, arrivando a livelli economicamente
insopportabili, come quello di superare l'intero prodotto interno lordo, cose che sono pur
successe.
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24. Libertà ed eguaglianza
Un problema classico del pensiero politico riguarda il rapporto fra libertà ed eguaglianza e
precisamente, visto che molto spesso libertà ed eguaglianza sul piano empirico sono in
contrasto, c'è da stare attenti a non trarre affrettate conclusioni dal piano empirico al piano
teorico, e da chiedersi se esse siano necessariamente in conflitto. Che esse possano essere in
conflitto dobbiamo darlo per scontato, ciò che non dobbiamo dare per scontato è che esse
debbano essere in conflitto e siano insomma irreconciliabili. Dico questo perché ogni seria
teoria politica deve avere forte il senso dell'ostacolo; soprattutto se si tratta di teoria normativa,
deve avere il senso che le cose non sono così semplici e che non scorrono così lisce come
sembra ai teorici, come sembra agli utopisti e come sembra a coloro che, come direbbe Hegel,
vorrebbero mettere la brache al mondo. Questo lo dico perché le teorie che non hanno il senso
dell'ostacolo, sono teorie di bassa qualità, non solo sono utopistiche o cervellotiche. Una seria
teoria politica o sociale, anche se ha una forte ispirazione normativa, un forte ideale da far
avanzare o dimostrare, è come teoria robusta e convincente nella misura in cui abbia pieno il
senso degli ostacoli che sul piano teorico e sul piano fattuale si oppongono alla realizzazione
dei propri ideali, dei propri valori e delle proprie norme.
Detto questo, cerco ora di chiarire in tre punti i termini teorici che ho appena enunciato:
prima di tutto evocherò la distinzione più grossa nel campo della teoria politica; tra i concetti di
libertà la più nota definizione è quella formulata da Isaiah Berlin. Si tratta della distinzione tra
libertà negativa e libertà positiva, detto in modo più banale le libertà ‘da’, cioè dai vincoli non
naturali ma umani, dalle regole interattive che sono imposte dagli ordinamenti, oppure le libertà
che rispondono alla domanda: che cosa sono libero di fare? Queste sono le libertà derivanti
tipicamente dal pensiero liberale, dalla concezione liberale della politica e della società, e sono
sostanzialmente le libertà dei cittadini dai vincoli, dai poteri di chi governa. Ad ogni libertà dei
cittadini ‘da’ corrisponde un limite del governo.
Le altre libertà sono le libertà positive, le libertà ‘di’ o ‘per’, le libertà di essere questa o
quest'altra cosa, di diventare questa o quest'altra cosa, di realizzare la propria personalità, di
conquistare una posizione nella società, di raggiungere un certo livello di educazione. Si tratta
insomma delle libertà di autodeterminarsi secondo un piano o progetto, delle libertà che
consistono nell'autorealizzazione dell'individuo, ovvero degli individui associati in un gruppo,
attraverso un'obbligazione assunta verso se stessi: sono libero di fare questa cosa perché la
voglio fare, perché mi impongo di farla e solo io la impongo a me stesso, ovvero noi la
imponiamo a noi stessi. Qui stanno le risposte alla domanda: chi governa e per che cosa? Sono
queste le libertà tipiche del pensiero democratico e socialista, sia che le si ascriva a Rousseau,
in cui l'idea dell'autorealizzazione riceve la sua versione più radicale, sia che non la si persegua
dentro la tradizione rousseauiana. Il problema è che tra queste due libertà esistono quantomeno
delle tensioni: esse non si accordano così facilmente e secondo alcuni addirittura non possono
che scontrarsi. Infatti lo sforzo di realizzare le libertà `di', che ci permettono la
autorealizzazione, può implicare, e spesso implica, l'aumento del government, dell'autorità
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pubblica, e quindi limita le libertà ‘da’, che massimamente fioriscono quanto più piccolo è il
governo, sia come quantità di vincoli e di proibizioni o imposizioni, sia anche come piccola
dimensione dell'apparato governativo.
Io ritengo, in larga compagnia, che il tipo di rapporto tra queste libertà, cioè fra le forme
politiche che le incarnano oggi, sia quello di un nesso interno reciprocante, nel senso che tuttora
non si può pensare ad un pieno sviluppo delle libertà ‘da’, delle libertà liberali, se non
nell'ambito della democrazia, della partecipazione universale alle scelte di chi governa.
Viceversa la democrazia non è democrazia se non è costruita non solo rispettando, ma
arricchendo il terreno delle libertà ‘da’, delle libertà negative. Dalla critica marxiana in avanti, e
soprattutto nella sua vulgata socialista e comunista, si è creduto che la democrazia potesse fare
largamente a meno, superandole in una libertà più alta, delle libertà ‘da’, e che l'unica vera
libertà fosse quella, democratica, di essere cittadini di uno Stato pienamente democratico,
proletario ed operaio. Uno Stato in cui tutti, grazie alla diffusione universale del cibo, della
salute e dell'istruzione, potessero più pienamente realizzarsi che non nei vecchi regimi in cui
alcuni erano, vuoi materialmente, vuoi culturalmente pienamente sviluppati, mentre gran parte
della popolazione restava nel sottosviluppo sociale ed intellettuale.
Si è così contrapposta una democrazia sostanziale o sociale ad una democrazia formale.
Questa è stata una vera disgrazia per lo sviluppo della democrazia e del pensiero socialista, nel
senso che è un'operazione fallita nel corso di decenni e decenni, in cui sono state vanamente
buttate energie e sparso sangue. Da questo punto di vista il crollo dei regimi comunisti ha
dimostrato che le pretese ‘democrazie popolari’ ovvero sostanziali non erano solo regimi di
illibertà, che negavano le libertà ‘da’, le libertà negative, liberali; anzi la scoperta storica più
rivelatrice per chi non lo sapeva o non lo voleva sapere è che esse erano insieme quelle che
meno permettevano lo sviluppo pieno dei cittadini.
Si è visto cioè che la stessa base dell'eguaglianza, insomma la creazione delle migliori
condizioni sociali e culturali per la partecipazione di tutti al potere, non è possibile se non
facendo partecipare tutti, e non solo retoricamente, ma effettivamente, al potere stesso,
lasciandoli liberi dalle oppressioni di un governo dispotico e burocratico e lasciando che tutti si
esprimano come vogliono. Ciò vuol dire che bisogna riconoscere che tutti i cittadini non si
potranno mai esprimere come ‘tutti’, ma si esprimeranno come questi e quegli altri, cioè si
esprimeranno divisi in partiti, in opinioni che devono avere la possibilità di partecipare, divisi
fra chi si occupa di politica e chi vive nella società e si occupa di questa o quella funzione
sociale. Tutti devono poter partecipare in piena libertà alla spartizione del potere, quindi alla
vita politico-istituzionale, alle elezioni, perché si è visto che senza la piena garanzia delle libertà
liberali, non si hanno due cose che sono essenziali allo stesso sviluppo economico e sociale e
quindi alla piena realizzazione dei cittadini e, s'intende, delle cittadine. Non si ha sufficiente
informazione sullo stato del paese dei cittadini, di quello che essi vogliono o non vogliono. La
vita politica liberale è prima di tutto un grande fenomeno di osmosi e comunicazione fra chi
governa e chi è governato: se si tolgono e si riducono le libertà, l'osmosi si ferma, le
informazioni non vengono più passate e i governanti fanno di testa loro e spesso se la rompono.
L'imbrigliamento delle libertà `da' impedisce la cosa più elementare di un regime politico che
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implementi i principi del liberalismo e cioè il controllo sul governo; se non ci fossero sindacati
liberi che possono fare sciopero quando vogliono, se non si avessero partiti che possono fare
l'opposizione in Parlamento, se non si avesse anzitutto una libera stampa, non si avrebbe un
controllo sul governo.
Per illuminare pienamente la relazione di libertà ed eguaglianza conviene ora approfondire
concettualmente il secondo termine. Si possono fare tante distinzioni fra i vari concetti di
eguaglianza, si può fare una distinzione tra un'eguaglianza sostantiva e un'eguaglianza
procedurale: l'eguaglianza sostantiva è quella che consiste nell'attribuire a ciascuno una certa
quantità di beni, secondo criteri diversi di eguagliamento o, come si dice in un italiano un po'
sindacale, di perequazione o, in maniera più teorica, di redistribuzione. Per fare l'eguaglianza
sostantiva ci sono criteri diversi (numerica, proporzionale) che sono esposti nella voce
Uguaglianza del Dizionario di politica. L'eguaglianza procedurale consiste invece non nel dire:
“ti do tot in base al criterio y per portarti alla situazione tendenzialmente egualitaria o meno
diseguale z”, ma consiste nel dire semplicemente: “qualunque cosa ti dia o non ti dia, vi tratterò
tutti in modo eguale, finché non vi siano ragioni che giustifichino di trattarvi in maniera
diseguale”. Oggi però la coppia concettuale più nota e più utile in filosofia politica è la coppia
eguaglianza di posizioni o di benessere - eguaglianza di opportunità: l'eguaglianza di posizioni
è quella che Ronald Dworkin, uno dei massimi filosofi del diritto dei nostri giorni, chiama
trattamento eguale, cioè l'eguaglianza che consiste nel fare in modo che tutti abbiano
tendenzialmente la stessa quantità di beni, anche redistribuendo il prodotto in maniera
necessariamente diseguale a fini perequativi. Sulla base di questo concetto di eguaglianza si
costruisce un forte apparato redistributivo e quindi uno Stato fortemente dirigistico, come si
dice in maniera polemica, e soprattutto un grande apparato burocratico che deve prendersi cura
di tutti e fare in modo che tutti stiano tendenzialmente allo stesso modo.
L'altra eguaglianza è quella di opportunità o di risorse, che certamente include sempre
l'eguaglianza di diritti fondamentali, ma non si riduce a questa. Essa non vuol dire trattare tutti
in modo eguale, ma vuol dire trattare tutti con eguale rispetto e considerazione, considerare
legittime e degne di tutela le aspirazioni e le preferenze di tutti e di ciascuno, e provvedere tutti
e ciascuno dei mezzi basilari per poter sviluppare queste preferenze, talenti, aspirazioni. En
passant, se lo Stato sociale, che in altre versioni si chiama welfare state o anche Stato
assistenziale, che è già una forma degenerativa di Stato sociale, è stato la grande figura, l'idea
dominante gli anni Quaranta-Settanta di questo secolo, avendo beninteso radici nei decenni
precedenti, oggi sia per sviluppi interni al pensiero democratico, sia per la critica durissima dei
neoliberali, siamo piuttosto in una fase in cui l'idea dell'eguaglianza abbandona l'idea
`egualitaristica' di eguaglianza redistributiva di posizioni, e si riavvicina a questa versione, che
chiamerei liberale, dell'eguaglianza di opportunità, di risorse, di punti di partenza per tutti.
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25. Giustizia
Con questa categoria di massimo impegno teorico abbiamo ancor più problemi che con
libertà ed eguaglianza, con le quali essa viene spesso posta in una triade. La complessità del
tema è tale che, in un testo introduttivo come questo, conviene limitarsi ad elencarne ed
illustrarne brevemente un certo numero di significati, senza nemmeno tentarne un'esposizione
sistematicamente unitaria. Basti infatti pensare che - prescindendo dalla possibilità od
opportunità di tematizzare la distinzione fra giustizia come sostantivo e come aggettivazione
(giusto-ingiusto) - questa categoria è rilevante tanto per la politica quanto per la morale e il
diritto, e non sarà nemmeno possibile districare sempre questi tre piani. Cominciamo dunque
l'elencazione.
1. Giustizia, libertà ed eguaglianza sono tre valori, ma mentre questi ultimi due possono
anche venir semplicemente descritti (il tale regime è libero, nella tale società v'è eguaglianza) in
base a certi criteri che definiscono cosa è libertà e che cosa eguaglianza, la giustizia implica
sempre anche un aspetto normativo: “il tale regime è ingiusto, la tale società giusta” significano
un obbligo a condannare o combattere il primo e a riconoscere o promuovere la seconda.
È opportuno porre attenzione a non confondere i tre termini, soprattutto giusto ed eguale:
una distribuzione eguale di beni non significa eo ipso trattarsi di una distribuzione giusta, se a)
questi beni vengono distribuiti egualmente a soggetti di ineguale condizione, oppure b) la
distribuzione eguale, o anche quella perequativa (dare di più a chi ha di meno), lede altri valori,
come la libertà, che uno può considerare pari o superiore all'eguaglianza.
2. Il punto di vista di ciò che è giusto o ingiusto caratterizza ogni filosofia politica
normativa, quale che ne sia la concreta configurazione - questo vale per Platone come per
Agostino, per Aristotele come per Rawls, per restare a pensatori di cui proposizioni riguardanti
la giustizia sono citate in questo testo. Assumere quel punto di vista implica una presa di
distanza critica rispetto all'assetto di fatto del potere e la richiesta che esso si legittimi in base ad
un criterio metafattuale o perfino metapolitico (morale, teologico, giusnaturalistico). Questa
giustificazione in base a criteri di giustizia è fondamentale fra i criteri di legittimità (v. opra nei
§§ 12-13)in base ai quali esaminare un regime politico
Ripeto peraltro qui la duplice valutazione che una filosofia politica che escluda
radicalmente, come fa il realismo politico tradizionale, questo punto di vista risulta ottusa, sia
rispetto alla complessità della politica moderna, per capire ed orientarci nella quale abbiamo
bisogno, in prima istanza, tanto di Machiavelli quanto di Kant, sia rispetto alla politica
contemporanea, che sta andando comunque al di là di Kant e di Machiavelli. Ma ritengo
altrettanto essere futile una filosofia politica che si ritenga filosofica solo perché esalta il
momento normativo e di esso, cioè di una qualche teoria della giustizia o della democrazia
come dovrebbe essere, si appaga, quasi che le questioni di paura/sicurezza, potere e
conflitto/guerra non riguardassero lo sforzo di pensare filosoficamente la politica.
3. In ragione di quanto detto sotto (1), si deve distinguere fra a. concezioni sostantive della
giustizia, che la identificano con la conformità di atti, norme, leggi, regimi ecc. con certi valori
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sostantivi come l'eguaglianza (in una delle sue diverse versioni), od un certo ordine cosmico,
come nel pensiero greco, od un ordine naturale fondamentale, come quello ipotizzato nel
giusnaturalismo; e b. concezioni procedurali, che la identificano con una massima formale,
adattabile a qualsiasi situazione - l'interpretazione della situazione e il modo di
quell'adattamento sono, come ormai sappiamo, così problematici che rendono altamente
fungibili, e dunque soggetti alle più varie torsioni, quelle massime.
Fra queste ricordiamo quelle del diritto romano, che individuano il comportamento giusto in
quello che dà a ciascuno il suo (unicuique suum) o che non reca offesa ad alcuno (neminem
laedere) - come illustrazione dell'adattabilità di queste massime si ricordi che la prima (Jedem
das Seine) poté venire scritta dai nazisti sul cancello d'entrata dei campi di sterminio. Nella
tradizione giudaico-cristiana, la suprema norma di giustizia è la Regola aurea, enunciata da
Gesù Cristo nel Discorso della montagna: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi,
anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (Matteo 7, 12), ovvero “con la
misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio” (Luca 6, 38). Nell'imperativo
categorico kantiano “agisci in modo che la massima della tua azione possa divenire fondamento
di una legislazione universale” (i filosofi morali odierni lo chiamano test di universalizzabilità)
può vedersi una rielaborazione di quella norma.
4. In filosofia politica, ma non solo qui, rimane fondamentale la distinzione aristotelica fra
giustizia commutativa e distributiva.
La giustizia commutativa o retributiva riguarda il modo di trattare un singolo (individuo o
gruppo) in una data situazione secondo un criterio che possa essere adottato per tutti i singoli
che si trovino in pari situazione. È una giustizia di scambio o fra beni o fra mali,33. Nei classici
del pensiero politico e sociale rimane celebre la critica all'apparente `giusto scambio' di capitale
e forza-lavoro nel Libro primo del Capitale di Marx.
La giustizia distributiva riguarda invece la distribuzione di beni, materiali od immateriali,
fra più attori (individui o gruppi) nell'ambito di un insieme: la società per la giustizia fra classi o
ceti, il globo per la giustizia fra Stati e/o popolazioni34. Criteri classici nelle dottrine relative alla
giustizia distributiva sono “ad ognuno secondo il suo merito” (se ne trova eco ovunque, anche
nell'art. 33, comma 3 della nostra Costituzione, che attribuisce gli aiuti statali per raggiungere i
gradi più alti dell'istruzione ai “capaci e ai meritevoli”); oppure, per restare a Marx, “ad ognuno
secondo il suo lavoro” (nella prima fase della società comunista) e “ad ognuno secondo i suoi
bisogni” (fase più avanzata di questa società; si veda Critica del programma di Gotha, del
1875).
Nel nostro secolo, fallite ed ancor prima rifiutate - anche dal movimento operaio
occidentale - le rivoluzioni che avrebbero dovuto portare al comunismo, l'idea della giustizia
distributiva congiunta a quella dell'eguaglianza è venuta a presentarsi come compito assegnato
33
Come spiega Bobbio in La grande dicotomia: pubblico/privato, in idem, Stato, governo, società,
Torino 1985.
34
Si parla allora di giustizia internazionale, un'area di studi e di proposte che si è venuta sviluppando
solo recentemente in ordine ai cosiddetti rapporti Nord-Sud del mondo: cfr. L. Bonanate, Etica e politica
internazionale, Torino 1992.
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allo Stato (Stato, appunto, sociale) per compensare le ineguaglianze prodotte dall'economia
capitalistica di mercato, cui anche la sinistra veniva riservando la funzione di produrre
efficienza economica, cioè sempre più ricchezza con sempre minor impiego di risorse.
Efficienza-mercato e giustizia sociale-Stato sono stati per decenni la formula vincente (si pensi
all'`economia sociale di mercato' tedesca) nei paesi occidentali, soprattutto europei, almeno fino
alla correzione o capovolgimento di questa linea imposti a partire dal 1979 in Gran Bretagna
dal governo conservatore di Margaret Thatcher (poi John Major) e dal 1981 negli USA dalla
cosiddetta reaganomics (Reagan's economics) del presidente repubblicano eletto nel 1980.
Ritorneremo nel paragrafo seguente sulla giustizia distributiva sotto il profilo teorico.
5. Ritengo opportuno segnalare un'ulteriore distinzione emergente nell'uso linguistico, di cui
non svolgo però qui le possibili implicazioni filosofiche; si tratta di una distinzione trasversale
rispetto ad altre qui ricordate.
C'è un senso di `giusto' che implica semplicemente un agire corretto rispetto ad una legge o
a criteri comunque formalizzati. Abbiamo visto nel § 16 la `guerra giusta', cioè giustificata in
ordine a certi criteri restrittivi. Abbiamo menzionato il `giusto salario' nello scambio fra capitale
e lavoro nonché la critica marxiana all'ingiustizia-ineguaglianza ivi contenuta. È d'uso comune
la nozione di `giusta sanzione penale'. Giusto significa qui soltanto un obbligo, determinatasi
una certa situazione, ad agire nel suo ambito rispettando certi criteri; non un obbligo e tanto
meno una motivazione a fare qualcosa. Ci si muove qui prevalentemente sul piano della
giustizia commutativa/retributiva, anche se non parlerei di un'identità con siffatto piano.
C'è poi un senso più enfatico di `giusto' in cui la giustizia è associata, più o meno
tacitamente o surrettiziamente, con altri valori, come l'eguaglianza nel caso della giustizia
sociale, o con ideali evolutivi come il progresso o la rivoluzione. Qui `giusto' implica una
doverosità a fare qualcosa, prendendo l'iniziativa e avanzando fino al compimento. “Fiat
iustitia, pereat mundus” è il motto del deontologismo morale radicale; “ribellarsi è giusto” era
una massima centrale nel pensiero politico di Mao Zedong; “creare una società giusta” è stato
ed è l'ideale del socialismo democratico; `Giustizia e libertà' è stato il binomio che ha dato
nome ad una delle forze principali dell'antifascismo e poi della Resistenza in Italia.
Sempre sul piano linguistico, ulteriori lumi verrebbero dalle riflessioni che si possono fare
sui diversi corrispondenti di `giusto' nelle lingue germaniche (right/just, recht/gerecht), nonché
sulla coppia, ancora da menzionare, equity/fairness.
6. Anche sul piano giuridico la giustizia si presenta come un metalivello normativo rispetto
al diritto. Per soddisfarla non basta che il diritto sia la legge, anziché la volontà di un capo o di
un popolo o di una rivoluzione. Occorre altresì che il diritto non si limiti alla legge positiva, a
ciò che è comandato dall'autorità politica pur legittima, ma incarni qualche principio civile,
morale o religioso di giustizia (ius non iussum, sed iustum).
Altra cosa è la giustizia intesa come realizzazione-amministrazione del principale valore
intrinseco ad ogni ordinamento giuridico. Qui si presenta l'alternativa fra la giustizia identificata
con la corretta applicazione di una legge in quanto norma generale (propria di rule of law Rechtsstaat - Stato di diritto, cfr. sopra § 13) e l'equità (equity), cioè una gestione del diritto
affidata alla flessibilità, senso della concretezza dei casi e discrezionalità di giudici e corti (si
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Filosofia politica. Un’introduzione
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ricordi, per un caso estremo di equità, il brechtiano giudice Azdak citato nel § 1335 7. Si dice
nel linguaggio comune che agire secondo giustizia è l'opposto dell'agire secondo criteri d'utilità.
Ciò è vero se s'intende l'utilità, il tornaconto momentaneo di un individuo. L'utilitarismo come
filosofia morale invece conosce come suo criterio essenziale la giustizia, o meglio la giustezza
(rightness) delle azioni che più contribuiscono ad ottimizzare il piacere o la felicità aggregate
degli individui.
26. Filosofie politiche normative di oggi
Fra le filosofie politiche normative contemporanee quella di maggior influenza, per le
adesioni e le critiche che ha suscitato, è certamente la teoria della giustizia, intesa come perno
del liberalismo politico, dell'americano John Rawls 36 Qui ci limitiamo a tratteggiare
brevemente l'aspetto più propriamente politico del pensiero di Rawls e di pochi altri.
Il neocontrattualismo di Rawls intende la giustizia come l'attributo essenziale dell'ipotetico
contratto sociale che ci lega, e le cui condizioni ideali (normative) di validità possono essere
meglio studiate ponendoci nella `posizione originaria': quella in cui ci poniamo come cittadini
(astratti) puramente razionali dietro un `velo d'ignoranza' che ci impedisce di conoscere tutte le
informazioni su quello che potrebbe essere di nostro vantaggio egoistico (di che paese siamo, di
che razza, di che condizione sociale ecc.). Solo in questa posizione possiamo stabilire come
giuste regole del contratto quelle che siano eque (nel senso di imparziali) verso tutti (justice as
fairness). Due principi risultano allora essere fondamentali: 1) ogni persona ha un eguale diritto
alla più larga libertà che sia compatibile con quella di ciascun altro; 2) trattamenti ineguali sono
ammessi solo se il principio 1 è soddisfatto, e se ci si può ragionevolmente attendere che essi
servano a migliorare la posizione dei meno avvantaggiati (ecco un caso di equità
dell'ineguaglianza!). Rawls tenta dunque di riconciliare nella teoria il liberalismo classico con
un principio di giustizia sociale redistributiva.
Alla teoria della giustizia di Rawls non si oppongono solo coloro che - come Robert Nozick
- ritengono che il principio redistributivo leda il rispetto delle libertà basilari, tutelabili solo in
uno `Stato minimo', e che giuste possano essere considerate solo certe regole che disciplinano il
passaggio della proprietà da una mano all'altra, non quelle che impongono una stato finale di
eguaglianza o minor diseguaglianza (Anarchy, State and Utopia, 1974). I principali avversari
del razionalismo normativo (deontologico, ma con elementi pur tratti dalla sua critica
dell'utilitarismo) del liberal Rawls sono i communitarians come (con molte differenze fra di
loro) Michael Walzer, Michael Sandel, il canadese Charles Taylor ed il già menzionato
35
Per approfondire questa differenza, ma anche la sua evoluzione, cfr. la voce Giustizia scritta da M.
Cappelletti per l'Enciclopedia delle Scienze Sociali della Fondazione Treccani, vol. IV, Roma 1996.
36
A Theory of Justice, 1971; Political Liberalism, 1993, entrambi tradotti, e più tardi i Collected Papers.
Gli aspetti etici del pensiero di Rawls, come degli altri autori sotto menzionati, possono esser visti in E.
Lecaldano, Etica, Utet 1995; ed una rassegna critica (dal punto di vista normativistico) di quelle filosofie
si trova in W. Kymlicka, Contemporary Political Philosophy. An Introduction, Oxford 1990, trad.
it. Feltrinelli, Milano 1996.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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Alasdair MacIntyre. Essi ritengono che le astratte regole del contratto sociale siano insufficienti
a tenere insieme gli individui, di cui verrebbero anzi aumentati l'atomizzazione e l'orientamento
all'utile individuale. Non lo Stato liberal-democratico (che non viene rifiutato, ma giudicato
insufficiente e burocraticamente impersonale), bensì l'identità organica (non mera sommatoria
degli individui) della comunità etnica e/o locale e/o religiosa, con la forza delle sue tradizioni e
la concretezza personale delle sue relazioni, può rimediare alla disgregazione sociale. Il
comunitarismo - come viene ora chiamato in italiano - è un fenomeno culturale tipico della
storia e della sociologia degli Stati uniti, mentre per l'aspetto teorico gli argomenti contro
l'astrattezza normativa si trovano già svolti, ad alto livello filosofico, nella critica hegeliana
della morale kantiana; inoltre alcuni di questi autori ignorano che le loro posizioni ripetono
topoi del pensiero romantico, anticapitalistico e antimoderno, o peggio dell'organicismo sociale
che in Europa ha preceduto le ideologie fasciste. Ciononostante la disputa liberalscommunitarians è diventata un passaggio obbligato della filosofia politica, anche fuori del suo
terreno originario americano. 37 Fuori dal terreno appena descritto, la principale filosofia
politica normativa, ben nota in Europa come in America e nel resto del mondo, è quella di
Jürgen Habermas, la cui opera principale è Teoria dell'agire comunicativo del 198138.
Habermas è considerato il punto d'arrivo della cosiddetta scuola di Francoforte, cioè di quel
gruppo di studiosi, quasi tutti ebrei e quasi tutti francofortesi, originari o assimilati, e comunque
membri dell'Istituto per la ricerca sociale,39 fondato a Francoforte sul Meno nel 1923, che sotto
il nazismo si trasferì a New York. Quello americano fu il periodo più ricco e più vitale
dell'istituto, il cui nome ufficiale è `teoria critica della società', che più o meno voleva dire
marxismo critico e non-ufficiale, ma poi assunse il significato di un punto di vista autonomo. La
figura leaderera quella di Max Horkheimer, la cui principale attività si svolse negli anni TrentaQuaranta.. Poi c'erano Friedrich Pollock, l'economista, l'ex-allievo di Heidegger, Herbert
Marcuse, e Theodor Wiesengrund-Adorno, che era il più giovane e versatile o geniale
(musicologo, sociologo, critico letterario, ma prima di tutto filosofo). L'opera principale della
teoria critica, che è la Dialettica dell'illuminismo (Dialektik der Aufklärung), scritta nel 1944,
pubblicata nel 1947 e venuta alla notorietà negli anni '60, non è scritta, come molti banalmente
dicono in ordine alfabetico, da Adorno e Horkheimer, è scritta invece - come si vede dal
frontespizio - da Horkheimer e Adorno: quest'ordine ha un senso preciso nella genesi della
teoria critica. Altri membri sono, per la teoria politica, Otto Kirchheimer e Frank Neumann, che
ha scritto un grande libro sul nazismo (Behemoth, 1942) ed un importante articolo su paura (o
angoscia) e politica nel 1954, anno in cui Neumann morì prematuramente in un incidente
d'auto.
Il problema della teoria critica è di dare conto, di riformulare alcuni grandi temi sulla sorte
della modernità, quei grandi temi che Marx aveva espresso in termini di reificazione, cioè
37
Per riassumere le posizioni esposte fin qui nel presente paragrafo mi sono in parte servito dei
corrispondenti lemmi in R. Scruton, A Dictionary of Political Thought, MacMillan, London 1996.
38
Habermas ha scritto tante altre cose che sono tutte tradotte in italiano, anche l'ultima opera sistematica,
che riguarda la teoria della democrazia e del diritto: Fatti e norme, il cui titolo originale è un po' diverso
(Faktizität und Geltung, 1993)
39
Institut für Sozialforschung\Institute for Social Research.
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sostituzione ai rapporti umani ed interpersonali dei rapporti cosali che si istituiscono tra i
prodotti del nostro lavoro appena questi prendono la forma di merce. Reificazione fa coppia con
feticismo, fenomeno che si ha quando le cose, i rapporti di merce e di denaro si presentano
come fossero essi stessi rapporti sociali. Un altro grande tema è quello che Max Weber, l'altro
grande interprete della modernità e del capitalismo in alternativa a Marx, aveva espresso in
termini di razionalizzazione, prima di tutto della nostra condotta di vita (L'etica protestante e lo
spirito del capitalismo, 1905), o come disincanto, razionalizzazione e burocratizzazione del
mondo, figlie di una razionalità incapace di interrogarsi sui propri fini e rivolta solo alla scelta
dei mezzi. Questo è lo sfondo principale su cui nasce la teoria critica, di cui il documento
principale, la già citata Dialettica dell'illuminismo, sostiene la tesi che la razionale scienza
moderna, che si pretende diversa da e superiore al mito, ricade invece nella mitologia (fra
l'altro, con l'esaltazione positivistica dei `fatti'), non essendo capace di riconoscere i limiti della
ragione ed il nesso fra il dominio dell'uomo sull'altro uomo, quello dell'uomo sulla natura e
quello dell'uomo su se stesso. Si aggiunge poi, in successivi scritti di Horkheimer, la critica
della ragione strumentale, la critica alle irrazionalità e agli orrori prodotte dalla ragione quando
essa si chiuda nella scelta dei mezzi, ai soli fini del potere sulla natura e del potere sugli altri
uomini, e non sia più rischiarata da un ideale illuministico pieno. Quello che poi Habermas
risusciterà chiamandolo il progetto della modernità, il progetto di dare alla modernità, al
capitalismo, allo Stato moderno un'anima razionale nella sostanza, che non si esaurisca in
quella razionalità strumentale o tecnica che secondo la vecchia teoria critica ha portato - fra
l'altro - ad Auschwitz.
Habermas a partire dai tardi anni Sessanta la pensa diversamente: per spiegare la società
non si può ricorrere ad un unico principio o schema, nemmeno a quello che la ragione
illuministica incapace di autocritica produce disumanità. La società va invece ormai intesa in
base a quello che Habermas chiama uno schema binario, composto di sistema e Lebenswelt, il
mondo della vita, che è un concetto husserliano che arriva ad Habermas attraverso la sociologia
fenomenologica di Alfred Schütz (o Schutz, come scrivono in USA, dove questo ebreo
viennese emigrò). La Lebenswelt è l'insieme di linguaggio, conoscenze, concezioni tramite cui
noi capiamo il mondo, e da cui noi, attivandole come motivazioni e forme comunicative,
caviamo gli orientamenti per la nostra vita di tutti i giorni. La modernità consiste nel portare
dentro il mondo della vita, e soprattutto entro alcuni suoi settori, un forte impulso alla
razionalizzazione, che Habermas ritiene processo irreversibile per quanto riguarda i due
subsistemi di cui è formato il sistema sociale: quello economico e quello politico, in cui non
contano le personalità, gli intendimenti o le norme, ma quelli che Luhmann e i pensatori
sistemici come lui (da cui qui Habermas alla fine attinge, pur essendone un critico sostanziale)
chiamano i due codici, che sono per il sistema politico il potere, e per il sistema economico il
denaro. Si tratta di subsistemi che sono dominati dall'agire strategico, cioè dall'agire volto a
disporre le nostre relazioni con le cose e con gli altri uomini in conformità al fine che ci siamo
noi stessi, per nostra esclusiva scelta od interesse, proposti. Al di fuori dei subsistemi
rimangono gli ambiti della riproduzione sociale: la cultura, l'educazione e le relazioni personali,
che sono regolate dall'agire comunicativo, cioè da quello che è volto all'intesa con gli altri
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Filosofia politica. Un’introduzione
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attraverso procedure argomentative libere da istanze di dominio, e quindi non manipolative o
persuasive, quelle in cui ho già deciso cosa voglio che l'altro faccia o ciò di cui voglio che l'altro
si convinca.
Questo è un agire in cui l'istanza ultima non è l'istanza dell'utilità, dell'egoismo e neppure
della scelta razionale dei mezzi, ma è la ricerca dell'intesa fra i molti soggetti partecipi. È questa
una teoria critica che è passata attraverso la svolta linguistica della filosofia e che pertanto si
vanta di avere sostituito come schema fondamentale lo schema intersoggettivo e comunicativo a
più soggetti a quello tradizionale e monologico di soggetto-oggetto, proprio della filosofia della
coscienza, come la chiama Habermas. Comunicazione e intesa si sviluppano non in base agli
interessi fra cui cercare un compromesso, ma in base alle pretese argomentabili di verità tra i
soggetti. Il punto è che questa binarietà di sistema e Lebenswelt non è così pacifica: dai due
subsistemi, politico-burocratico ed economico, partono quelli che Habermas chiama imperativi
sistemici, che cercano di sottomettere alla logica di potere e di denaro le stesse sfere intoccabili
della riproduzione: la cultura, l'educazione, e la riproduzione personale, rischiando di
impoverirne e disseccarne la linfa e il senso. Queste sono tematiche che Habermas ha chiamato
il pericolo della colonizzazione della Lebenswelt.
L'ultimo sforzo di Habermas è quello di riprendere la teoria dell'agire comunicativo per
svilupparne una teoria della democrazia e della sovranità popolare. La filosofia politica di
Habermas si accompagna ad una teoria morale che egli ha sviluppato insieme con Karl-Otto
Apel e che si chiama `etica del discorso': si tratta di una teoria costruttivistica, universalistica,
quindi kantiana, ma strettamente proceduralistica, e qui sta l'innovazione rispetto al kantismo.
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B. FILOSOFIA SOCIALE di Elena Pulcini
27. Comunità/società
1.
Attraverso la coppia concettuale comunità/società è possibile riassumere quelle che sono
state, nel corso dello sviluppo storico, le fondamentali forme di socializzazione.
In generale il termine “comunità” designa un insieme di individui legati dal possesso
di una o più caratteristiche comuni, come territorio, lingua, etnia, religione, cultura.
Ma c’è un più preciso significato di comunità che si afferma a partire dal
romanticismo tedesco e che verrà ratificato dal classico libro di F.Tönnies, Comunità e
società (1887)40: una forma di socializzazione nella quale gli individui, sulla base di una
stessa appartenenza etnica, della prossimità locale o di valori comuni, condividono una forma
di coesione solidale, affettivamente fondata.
Al contrario, “società” indica una forma di socializzazione in cui gli individui si
rapportano gli uni agli altri con atteggiamento strumentale, mirando al fine della reciproca
massimizzazione degli interessi e dell’utile individuale41.
Questa distinzione, su cui torneremo, trova eco nella distinzione tematizzata da Max
Weber tra la comunità, nella quale “la disposizione dell’agire sociale poggia (…) su una
comune appartenenza soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) degli individui che ad
essa partecipano”, e l’associazione, nella quale “la disposizione all’agire sociale poggia su
una identità di interessi, oppure su un legame di interessi motivato razionalmente (rispetto al
valore o rispetto allo scopo)”42.
Possiamo dunque dire che comunità implica un legame profondo e affettivo tra
l’individuo e la collettività; è condivisione, compartecipazione, senso di appartenenza ad una
comune realtà43 .
2.
Ma fino all’inizio del XX sec. non si trova nella filosofia politica una distinzione tra “comunità”
e “società”.
In Aristotele comunità, koinonia, indica tutte le forme di socializzazione dell’uomo44:
l’uomo è per natura un “animale sociale”, un essere politico, e agisce nell’orizzonte dato
della polis, dove in base al ceto e alla professione realizza diverse modalità di associazione.
A partire di qui, koinonia indica tanto i differenti tipi di associazione umana legati a un patto
40
Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 1912; trad.it.Comunità e società, Ed. di
Comunità, Milano 1979.
41
Axel Honneth (filosofo tedesco), Comunità, in “Filosofia politica”, aprile 1999.
42
Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 1922; trad.it. Economia e società, ed. di Comunità,
Milano 1980, 5 voll., vol. I, Parte prima, cap.I, § 9.
43
Pietro Costa (storico del pensiero politico), Cittadinanza e comunità, in “Filosofia politica”, aprile
1999.
44
Aristotele, Etica nicomachea, in Id.,Opere, Laterza, Roma-Bari 1983, vol.7.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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(promessa, contratto), quanto le forme spontanee di convivenza nella casa, nel villaggio, nella
tribù.
Non c’è dunque alcuna distinzione tra un legame fondato sugli “interessi” e un
legame fondato sui “sentimenti” .
Questo concetto ampio di koinonia domina anche il pensiero della tarda antichità e del
medioevo. Nella città medievale la dimensione della comunità è inscindibile da quella della
“società”. La città viene rappresentata, secondo una visione diffusa, attraverso il simbolo del
“corpo”, in cui l’idea dell’unità e della condivisione che unisce la parte al tutto implica anche
l’idea di una disposizione ordinata a gerarchica delle parti stesse. La civitas è sostenuta da
un’etica che esalta il valore dell’unità, della concordia dei cittadini, della loro comune
appartenenza, ma impegna anche il corpo politico a proteggere e difendere i propri membri. Il
soggetto, i suoi doveri e diritti sono rappresentati attraverso il filtro dell’appartenenza, e
questa a sua volta si realizza in un’incorporazione dalla quale dipende la rappresentazione
politico-giuridica del soggetto.
La koinonia (tradotto sia con “societas” sia con “communitas”) resta la quintessenza
di tutte le forme di unione sociale in cui gli uomini stanno insieme sia in vista del
perseguimento dei loro interessi, sia sulla base di un vincolo affettivo.
Con la modernità, e la nascita del diritto naturale moderno, c’è un mutamento radicale. Si
delinea infatti un concetto sempre più chiaro di “società”, intesa come ciò che si istituisce
tramite un contratto al fine di garantire i diritti fondamentali, come la vita (Hobbes45), la
proprietà (Locke46), l’uguaglianza (Rousseau47).
La comunità entra in una zona di indefinibilità che o la sovrappone semanticamente a
“società”; o la esclude (in quanto stato naturale) a favore dell’istituzione statale.
Nel giusnaturalismo - che segna una frattura con la visione medievale del “corpo”– la
relazione fondativa della società civile è data dal rapporto tra gli individui, con i loro diritti e
doveri, con la sovranità politica dello Stato, che garantisce ordine e sicurezza.
Con Hobbes scompare ogni forma di legame sociale che non sia quello tra individui e
società civile o politica (Stato), uniti dalla relazione protezione-obbedienza. Anzi in Hobbes,
come vedremo, la società politica, istituita da un contratto, pone fine ai pericoli intrinseci alla
comunità “naturale” (stato di natura) degli individui.
In Rousseau la società civile e politica si costituisce mediante un contratto sociale che
gli individui/cittadini stipulano per dar vita ad una convivenza giuridicamente ordinata48.
45
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The Elements
of Law, natural and Politic (1640); trad.it. Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia,
Firenze 1985.
46
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
47
Jean Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, 1755; trad. it.
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970.
48
Jean Jacques Rousseau, Du contrat social, 1762; trad.it. Il contratto sociale, in Id., Scritti
politici, cit.
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In Kant lo Stato di diritto moderno si spiega a partire dall’idea di una costituzione che
è il nucleo fondamentale di tutte le leggi prodotte da un’autorità politica sovrana, le quali
consentono alla libertà di ognuno di coesistere con quella di ogni altro49.
Insomma la socialità è data dalla istituzione della società politica, che vede
l’individuo detentore di diritti e doveri di fronte al potere politico-statuale; e ciò richiama
semmai il concetto di “cittadinanza”, inteso come la relazione giuridica e politica che collega
il soggetto alla società politica come tale e il regime di diritti e doveri che ne scaturiscono. I
vincoli comunitari diventano in generale secondari e subordinati.
Bisogna però precisare due aspetti. In primo luogo la comunità pre-politica (per es. la
famiglia) gioca in alcuni autori un ruolo di coesione sociale e politica: sia in Rousseau che in
Locke si configura nettamente l’idea di “famiglia” come comunità affettiva, in cui gli
individui trovano forme di solidarietà, fiducia, costruzione morale del soggetto indirettamente
funzionali all’equilibrio della società.
Ma soprattutto, restano tracce del modello comunitario nella stessa costituzione
dell’idea di società civile e politica. Permane cioè l’esigenza di rappresentare la forza coesiva
e inclusiva di una collettività che trova espressione nella metafora del “corpo”; o, in altre
parole, resta imporante la dimensione della appartenenza del soggetto ad una comunità.
Persino in Hobbes, che pure rappresenta la teorizzazione più radicale del ruolo
decisisvo dello Stato, permangono tracce dell’idea di comunità: la stessa creazione della
sovranità dello Stato implica la sussunzione “di molte volontà in una”50, un processo di
unificazione della volontà dei molti nella volontà del sovrano, la realizzazione di un “corpo
politico o società civile” che “i greci chiamano polis, vale a dire città”51, cioè di un’entità
politica che proprio a causa della sua volontà unificante può dirsi propriamente una “persona
civile”52. Si tratta dunque della costituzione artificiale di un “corpo” politico operata dal
sovrano; né si può qui parlare di vincoli affettivi perché ciò che lega gli individui al sovrano è
solo un rapporto reciprocamente funzionale di potere-obbedienza. Tuttavia restano tracce,
anche in Hobbes, dell’esigenza di valorizzare il momento ‘inclusivo’ nella rappresentazione
della collettività politica.
Ancora più forte quest’esigenza appare nella linea Spinoza-Rousseau53.
Il contratto, che fonda la sovranità dello Stato e con essa l’identità giuridico-politica
dei soggetti, istituisce allo stesso tempo una solidarietà tra i soggetti e il corpo sociale e
politico. Dice Rousseau che con il contratto “ciascuno di noi mette in comune la sua persona
e tutto il suo potere sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi, come corpo,
riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto”54. Il contratto sociale provoca
un passaggio istantaneo dalla condizione ‘privata’ alla condizione ‘pubblica’ e dà luogo alla
49
Cfr. Immanuel Kant, Scritti politici, Utet , Torino1965.
Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, cit. , p.99.
51
Ibidem, p. 160.
52
Ibidem, p.180.
53
Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad.it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991;
Rousseau, Il contratto sociale, cit.
50
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nascita di un “Io comune”, di una “persona pubblica” che, aggiunge Rousseau, “prendeva un
tempo il nome di città e prende oggi quello di repubblica o di corpo politico”55. Popolo,
sovrano, Stato, repubblica sono nomi per qualcosa che nasce ed esiste grazie al movimento
che include i soggetti nel corpo politico e li rende obbedienti alla sua volontà.
In altri termini, nonostante l’idea da tutti condivisa che la coesione sociale sia affidata
al patto razionale e all’istituzione giuridica e politica dello Stato, tesa a garantire il rispetto
dei diritti individuali e la realizzazione di un equilibrio tra interesse individuale e interesse
comune, l’esigenza comunitaria permane; senza tuttavia che si espliciti in forma sistematica
una qualche opposizione tra comunità e società.
Un importante momento di differenziazione lo troviamo in Hegel, che cerca di fondere in
un unico approccio i diversi elementi tradizionali56. Per Hegel ogni forma di unione sociale, che
Locke, Rousseau e Kant avevano inteso contrattualisticamente come società di liberi e uguali
cittadini, rappresenta soltanto una delle sfere costitutive della società moderna: accanto al
“sistema dei bisogni” (sfera economica) compaiono la sfera privata della famiglia e la sfera
sovraordinata dello Stato. Hegel concepisce la “società civile” secondo il modello contrattuale
moderno, la “famiglia” secondo il modello romantico dell’unione, e lo “Stato” secondo la
concezione aristotelica della koinonia. La società moderna comprende dunque tre forme di
socializzazione: nella famiglia gli individui sono tenuti insieme dall’amore, nella sfera
economica sono uniti solo dalla “libertà negativa” dei rapporti contrattuali, nello Stato dal
comune legame ad un fine sovraordinato.
Ma una sistematica distinzione tra comunità e società non compare fino a Tönnies,
che raccoglie le istanze critiche – anti-individualistiche - già presenti nel preromanticismo
tedesco (da Müller a Stein, Savigny). Qui si affermava infatti (sebbene ancora senza una
precisa distinzione concettuale) la differenza tra società e comunità: mentre nel contesto
giuridico della società gli individui si rapportano l’uno all’altro perseguendo
vicendevolmente i loro fini o interessi, nelle unioni “naturali” (come famiglia, tribù, popolo)
essi sono reciprocamente legati da vincoli pre-razionali, come quelli prodotti dai sentimenti,
dai costumi e dalle tradizioni.
E’ importante sottolineare che il tema della comunità (diversamente declinato a
seconda dei contesti teorici) interviene all’altezza della crisi e della critica del paradigma
individualistico e meccanicistico sul quale, a partire dal giusnaturalismo classico (a livello
teorico) e dalla rivoluzione francese (a livello storico-politico), si era andata delineando la
concettualizzazione della moderna razionalità politica.
Tönnies, valendosi di numerose innovazioni concettuali e prospettive teoriche
prodotte dallo sviluppo della teoria sociale dopo Hegel, tematizza dunque l’opposizione
comunità/società. “Comunità” indica l’insieme delle relazioni organiche tra gli individui, che
hanno il loro paradigma nei rapporti familiari; allude cioè all’unità delle volontà umane come
54
Rousseau, Il contratto sociale, cit., libro I. cap.VI.
Ibidem.
56
G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts,1821; trad. it. Lineamenti di filosofia del
diritto, Laterza, Roma-Bari 1994.
55
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presupposto naturale, solo in riferimento alla quale le parti (le singole volontà) possono avere
una collocazione. La “società” invece, indica l’insieme delle relazioni meccaniche tra gli
individui, il cui paradigma è fornito dalle relazioni commerciali e contrattuali che poggiano
sullo scambio di prestazioni.
Tönnies propone la tesi seguente: che nel corso dell’affermazione del capitalismo le
sfere d’azione “della società” (gesellschaftlich) avrebbero minacciato o dissolto
progressivamente quelle delle relazioni sociali (sozial). Egli non voleva né affermare
l’inevitabilità di un determinato sviluppo, né esprimere nostalgie per le comunità rurali, ma
esplorare le possibilità sociali (sozial) della creazione di comunità (come corporazioni e
sindacati) adeguate all’epoca industriale.
In questa direzione va anche alcuni anni dopo Emile Durkheim, attento alla crisi
morale della società industriale. Durkheim non parla propriamente di comunità/società, ma i
suoi concetti di solidarietà “meccanica” e “organica” riflettono questa distinzione: mentre
nelle condizioni della solidarietà meccanica regna tra i soggetti una concordia emotiva e
cognitiva così alta che l’integrazione sociale può compiersi sulla base stabile di una
coscienza collettiva, nelle condizioni della solidarietà organica le differenze individuali tra i
soggetti sono tanto grandi che l’integrazione sociale viene garantita solo dalla costrizione
cooperativa della divisione del lavoro57.
Ma mentre Tönnies auspica un equilibrio tra le due forme, Durkheim le vede in
successione storica. E si pone quindi il problema di introdurre correttivi ad un’integrazione
sociale fondata solo sulla divisione del lavoro, e quindi carente di convinzioni morali comuni.
Di qui, prima la sua proposta di una divisione del lavoro più “giusta”, poi la necessità di
ricorrere ad una sorta di fusione collettiva58 .
A questo si ispirerà l’anticapitalismo romantico (Francia e Germania), identificando
sempre più la comunità con qualsiasi forma di unione sociale nella quale i soggetti, attraverso
legami dati biologicamente o consolidati storicamente, sviluppano reciprocamente vincoli
affettivi più forti che nei meri rapporti giuridici (famiglia, comune rurale medievale, setta
religiosa): ciò sfocia, a sinistra nella creazione di una classe lavoratrice politicizzata; a destra,
nella realizzazione politica di una “comunità popolare”, non più legata allo Stato di diritto.
L’idea di comunità viene ad assumere così una connotazione ideologica, con l’unica
eccezione di Helmuth Plessner, che propone una riflessione, in prospettiva liberale, sui
“limiti della comunità”59. La comunità viene ad essere identificata con specifiche realtà
nazionali e razziali; come testimoniano i miti del “sangue e suolo” (Blut und Boden) che
faranno da sfondo al tentativo di costruzione di una “comunità di popolo”
(Volksgemeinschaft) negli anni Trenta. Sarà questa la deriva mitica e totalitaria della
57
Emile Durkheim (sociologo francese), De la division du travail social, 1893; trad.it. La divisione
del lavoro sociale, ed.di Comunità, Milano 1962.
58
Emile Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912; trad.it. Le forme elementari
della vita religiosa, Comunità, Milano 1977.
59
Helmuth Plessner (filosofo tedesco, 1892-1985), Grenzen der Gemeinschaft, 1924; trad.it. I limiti
della comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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comunità, la cui ossessiva evocazione sarà soltanto indice del suo compiuto esaurimento
come categoria esplicativa dei moderni fenomeni politici, almeno in ambito continentale.
Contemporaneamente, però, negli Stati Uniti si sviluppa un diverso concetto di
comunità: la questione centrale è qui fino a che punto una società democratica potesse
perdere ogni vincolo con le communities locali o religiose, senza perdere anche i presupposti
della sua stessa esistenza. Emerge un uso più libero del concetto di comunità, privo di
implicazioni nostalgiche e ideologiche, che consente di concepire la stessa società
democratica come un progetto “comunitario”, al quale cioè partecipano attivamente le
diverse communities. Momento importante di sintesi di questa tradizione è la riflessione di
J.Dewey60 e la sua visione della democrazia come community of communities, fondata
dunque su un concetto di comunità reinterpretato in senso liberale. Per communities si
devono intendere infatti quelle forme di unione sociale nelle quali i soggetti producono,
attraverso la partecipazione democratica, valori e fini che li fanno sentire uguali e legati da
vincoli comuni.
Dopo la IIa Guerra mondiale il concetto di comunità subisce una eclissi teorica
pressoché completa, salvo che nel pensiero cattolico, per non dire di quello islamico (la
Umma dei credenti).
Esso è riemerso solo di recente nel contesto di quell’insieme di autori di area
anglosassone, definiti appunto “communitarians”61, che si contrappongono al modello
individualistico della tradizione liberale.
Qui ritorna il contrasto comunità/società: mentre con “società” (a partire da Locke,
Kant o Hegel) viene intesa una forma di unione sociale in cui i soggetti si rispettano
reciprocamente come portatori di diritti, “comunità” indica una sorta di unità nella quale i
soggetti in un modo o nell’altro sviluppano vincoli positivi.
Partendo dal presupposto che la comunità favorisce la fioritura delle capacità
personali, che essa è l’espressione di quella funzione psicologica che consente agli individui
di adempiere al loro sviluppo più pieno, la critica comunitarista al liberalismo (soprattutto
nella riproposta fattane da J.Rawls in Teoria della giustizia62) si incentra dunque su due punti
fondamentali: in primo luogo, il rifiuto del modello liberale, individualistico ed egoistico, che
enfatizza unicamente l’autonomia della persona configurando un individuo svincolato ed
astratto, sradicato dai contesti di appartenenza. Al “disengaged (o “unencumbered”) Self“
60
John Dewey (filosofo statunitense, 1859-1952), The Public and its Problems, 1946; trad. it.
Comunità e potere, la Nuova Italia, Firenze 1971.
61
Alasdair MacIntyre (filosofo scozzese), After Virtue, Univ. of Notre Dame Press 1981; trad. it.
Dopo la virtù, Feltrinelli, Milano 1988; Michael Sandel (filosofo americano), Liberalism and the
Limits of Justice, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1982; trad.it. Il liberalismo e i limiti della
giustizia, Feltrinelli, Milano 1994; Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), Sources of the Self,
Cambridge Univ. Press, 1989; trad.it. Radici dell’Io, Feltrinelli, Milano 1993; Michael Walzer
(filosofo statunitense), Spheres of Justice: a Defence of Pluralism and Equality, Basic Books, New
York 1983; trad.it. Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987.
62
John Rawls (filosofo statunitense, 1921-2004), A Theory of Justice, The Belknap Press of Harvard
Univ. Press, Cambridge 1971; trad.it. Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1997.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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liberale, i communitaristi oppongono un “sé contestuale”, radicato nei concreti luoghi di
appartenenza. In secondo luogo, la critica della priorità del “giusto” sul bene”, vale a dire di
una prospettiva che privilegi il tema della giustizia e il problema della distribuzione delle
risorse sul problema del bene comune e della “vita buona”. “Comunità” indica dunque un
gruppo di persone aggregate da un fine comune che non è coincidente con i loro interessi
egoistici, ma è condiviso dagli altri membri della comunità al punto che tale fine diviene il
loro fine. Perseguire il fine comune rappresenta una pratica che impegna i membri della
comunità non perché genera un guadagno individuale, ma perché produce un vantaggio
condiviso e indivisibile per i membri della comunità, uniti appunto da vincoli positivi.
Ma, in primo luogo, non è chiaro in che cosa consistano questi vincoli, se derivino da
sentimenti condivisi, da convinzioni comuni o dalla memoria storica. Inoltre, sebbene alcuni
aspetti della critica al liberalismo da parte dei communitarians, tra cui soprattutto la critica
del “disengaged Self”, siano condivisibili e apprezzabili, è importante segnalare i rischi
intrinseci a questa prospettiva normativa: tra cui il pericolo di una coercizione da parte della
tradizione e della riduzione della libera scelta, l’assenza di pluralismo, la tendenza alla
legittimazione tout court di ogni comunità, indipendentemente dai valori di cui è portarice, e
l’assenza di giudizio critico su principi e tradizioni della comunità di appartenenza.
3.
Si tratta dunque di recepire l’invito dei communitarians a ripensare la comunità e il suo ruolo
all’interno della società contemporanea, tenendo fermi i presupposti liberali dell’autonomia e
della libertà di scelta; coniugando cioè, si potrebbe dire, “cittadinanza” e “appartenenza”,
acquisizione e difesa dei diritti da un lato, e coesione sociale e solidale dall’altro.
La necessità di fare chiarezza sul concetto di comunità, sottraendolo sia alla
rimozione in cui spesso incorre il pensiero liberale, sia ai rischi del comunitarismo, si pone
tanto più oggi, nella società globale, nella quale ci troviamo di fronte a fenomeni diffusi di un
“ritorno della comunità”.
Si assiste infatti al riemergere di un “bisogno di comunità”63 che assume forme
molteplici, e che in generale si può interpretare come risposta alle patologie prodotte dai
processi di globalizzazione.
Queste patologie, per sintetizzare brevemente, sono riconducibili essenzialmente a
due: l’erosione dell’identità, del legame sociale e del senso generata dall’omologazione e
dall’indifferenzazione globale; e le nuove forme di esclusione prodotte dalla dinamica della
globalizzazione.
In entrambi i casi il bisogno di comunità diviene il sintomo più evidente della
rinascita del “locale” dentro il configurarsi di una dimensione “globale”; il sintomo cioè di
una “resistenza” , come dice Manuel Castells64, di un bisogno di appartenenza e solidarietà
63
Zygmunt Bauman (sociologo inglese di origine polacca), Missing Community, 2001; trad.it. Voglia
di comunità, Laterza, Roma-Bari 2001.
64
Manuel Castells (sociologo di origine catalana), The Power of Identity, II vol. di The Information
Age, Blackwell, Oxford 1997, 3 voll.; trad.it. Il potere dell’identità, Univ.Bocconi, Milano 2003.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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da un lato, di inclusione e di riconoscimento dall’altro, che rispondono entrambi ad un forte
bisogno identitario, disatteso dalla società globale.
E’ indubbio che questo bisogno assume oggi forme per lo più regressive e distruttive.
Esso genera infatti, dentro e fuori dall’Occidente, “comunità della paura”65, vale a dire forme
di coesione prodotte dalla condivisione dell’ansia e dalla costruzione di “capri espiatori”;
oppure dà origine, come nel caso delle comunità etniche, religiose, nazionalistiche, al ritorno
a “lealtà primordiali” 66 e a forme di alleanza entropiche e fusionali produttrici di conflitti e
violenza.
E ciò vuol dire che il revival comunitario si configura come l’origine principale
dell’esplosione dei “conflitti identitari” (etnici, religiosi, nazionalistici) che attraversano il
pianeta dando origine a forme radicali di violenza.
Allo stesso tempo però il “bisogno di comunità” non può essere liquidato come un
illiberale residuo arcaico; ma va assunto in tutta la sua problematicità in una prospettiva
normativa che sappia ripensare la comunità non più come Gemeinschaft, residuo premoderno
e naturalmente ascritto, ma come oggetto di una libera scelta, come risposta al desiderio
ineludibile di riconoscimento e di appartenenza…
In questo senso la comunità si configura come momento costitutivo e permanente del
sociale che coesiste, quale luogo di coesione e di solidarietà tra gli individui, con la società, quale
luogo dei rapporti giuridici e contrattuali; in quanto, al di là di ogni logica oppositiva, esse sono
entrambe, come aveva già intuito John Dewey, dimensioni indispensabili per il buon
funzionamento delle democrazie moderne.
65
Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, cit., ed anche Id., In Search of Politics, Polity Press,
Cambridge 1999; trad.it.La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000; Ulrich Beck
(sociologo tedesco), Risikogesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986; trad.it. La società del
rischio, Carocci, Roma 2000.
66
Clifford Geertz (antropologo inglese), Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna,
1999.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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28. Individuo/Soggetto
1.
Genericamente il termine individuo sta ad indicare un essere vivente, indivisibile, irriducibile
l’uno all’altro, singolo nel sentire, pensare, agire.
In questo senso, potremmo dire, sono sempre esistiti “individui”, mentre il
riconoscimento dell’individuo come valore sociale è un evento relativamente tardo, connesso
all’origine stessa della modernità. Possiamo anzi dire che l’ “individuo”, inteso come entità
autonoma e indipendente, è forse la maggiore conquista della modernità che ne fa il punto di
partenza ineludibile di ogni prospettiva etica, sociale o politica.
L’emergere del valore dell’individuo, a partire dal XVII secolo, genera la rottura della
visione olistica del mondo, fortemente ancorata (dalla polis greca alle società feudali) alla
struttura olistica della società. Secondo questa visione, l’individuo è parte di un tutto; è
subordinato al “tutto” organico della comunità che è rigidamente gerarchizzata; è vincolato
agli altri contro la propria volontà, sottomesso a tradizioni, leggi e valori che non ha egli
stesso prodotto. In questo contesto, premoderno appunto, il “noi” prevale sull”Io” e lo
precede, determinandone scelte, orientamenti, condotta.
Ciò non vuol dire che non ci siano tracce premoderne del valore dell’individuo67: si
pensi al “conosci te stesso” socratico; allo stoicismo e alla figura del saggio; al cristianesimo
e alla valorizzazione dell’interiorità. E ancora all’assunzione, nei sec. XIII-XIV,
dell’individuo come categoria fondamentale del diritto (cfr. il nominalismo di Guglielmo da
Ockam, secondo il quale esistono solo esseri singoli ciascuno dei quali è assolutamente uno,
individuum). Infine, soprattutto, si pensi alla Riforma protestante e alla genesi del sé
ascetico68 .
Ma è solo con la modernità che l’individuo si afferma pienamente, divenendo un
valore sociale in corrispondenza dei tre grandi processi che segnano l’origine e il
dispiegamento dell’età moderna: nascita della scienza, sviluppo del mercato, origine dello
Stato.
L’emergere dell’individuo, quale entità autonoma e indipendente, o per meglio dire,
come entità sovrana, trova a questo punto un’immediata connessione con l’affermarsi
dell’idea di “soggetto”: questo viene inteso cartesianamente come coscienza razionale e
pensante (cogito ergo sum), separata dal corpo e dal mondo, dotata di libero arbitrio e capace
di costruire autonomamente le proprie certezze e verità.
Non a caso nella riflessione filosofica i due termini vengono spesso usati in modo
intercambiabile. Ma sebbene ciò sia generalmente legittimo, dal punto di vista della filosofia
sociale, la nozione di individuo è distinta da quella di soggetto ed è, soprattutto, più
67
Cfr. Louis Dumont (antropologo e filosofo francese, 1911-1998), Essais sur l’individualisme,
Seuil, Paris 1983; trad.it. Saggi sull’individualismo. Una prospettiva antropologica sull’ideologia
moderna (1983), Adelphi, Milano 1993.
68
cfr. Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, 1922; trad.it. L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1977 (Ia ed.1945).
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Filosofia politica. Un’introduzione
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pertinente; in quanto “soggetto” evoca la dimensione epistemologica e cognitiva (si pensi alla
coppia oppositiva soggetto/oggetto), mentre “individuo” evoca la dimensione sociale (si
pensi alla coppia individuo/società).
L’individuo moderno è in prima istanza colui che è dotato di una duplice forma di
libertà: la libertà “da” (norme, valori, codici precostituiti e tessuti comunitari), e la libertà
“di” (di decidere, scegliere, programmare la propria vita).
La libertà è dunque il diritto naturale per eccellenza, ma non è il solo. Attraverso la
metafora dello “stato di natura” il pensiero moderno, contrattualistico e liberale, costruisce
l’immagine di un individuo dotato di diritti naturali fondamentali (libertà, vita, uguaglianza,
proprietà) che diventano imprenscindibili per la costruzione dell’ordine sociale e politico. Il
riconoscimento dei diritti è il primo presupposto che, tra il XVII e XVIII secolo, accomuna
autori come Hobbes e Locke, Rousseau e Kant.
Il secondo presupposto riguarda la legittimità del perseguimento degli interessi:
l’individuo moderno viene qui a coincidere con la figura dell’homo oeconomicus, utilitarista
e calcolatore, razionalmente capace di realizzare la soddisfazione dei propri interessi.
L’attenzione prevalente a questi due attributi (diritti e interessi) da parte della
tradizione liberale, ha finito per codificare l’immagine di un individuo autonomo, razionale e
previdente; un individuo dotato di quella “razionalità rispetto allo scopo”
(Zweckrationalität), per dirla con Max Weber, che lo rende strumentalmente capace di
aderire ad un contratto sociale e di costruire le istituzioni necessarie (lo Stato) a garantire la
salvaguardia dei propri diritti e a permettere la soddisfazione dei propri interessi.
Questa immagine, riassumibile appunto nel modello dell’homo oeconomicus, ha finito
per oscurare quella che vorrei definire la costitutiva e originaria ambivalenza dell’individuo
moderno: per il quale la conquista della libertà è anche, come ci dice Hans Blumenberg69,
“perdita di ordine”, scoperta del proprio sradicamento, smarrimento delle proprie certezze di
fronte al crollo di un ordine cosmico che lo pone di fronte all’onere delle proprie scelte.
Fin dalle origini della modernità insomma, l’individuo si presenta sovrano a carente
ad un tempo, autoaffermativo e debole, progettuale e bisognoso.
La “perdita di ordine” va intesa in senso duplice: l’individuo è esposto non solo
all’ignoto del mondo, data la possibilità, come dice ancora Blumenberg, di spingersi “al di là
delle colonne d’Erole”, ma anche al caos delle proprie passioni.
Questa ambivalenza era già stata tematizzata da Montaigne nella seconda metà del
XVI secolo70: il “Moi” descritto negli Essais appare orgoglioso, autoaffermativo, libero di
agire e di pensare in piena autonomia, ma allo stesso tempo posto “fuori asse”, disorientato,
sradicato, carente, in preda al disordine provocato dalle proprie passioni.
In virtù di quello stesso processo che gli conferisce la propria inedita libertà, dignità,
sovranità, l’individuo scopre il proprio vuoto, la propria vulnerabilità e mancanza. E
soprattutto egli scopre la difficoltà di controllare e gestire le proprie passioni, che, a partire
69
Hans Blumenberg (filosofo tedesco, 1920-1996), Die Legitimität der Neuzeit, Suhrkamp, Frankfurt
am Main 1966; trad.it. La legittimità dell’età moderna, Marietti, Genova 1992.
70
Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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dalla modernità diventano legittime (si veda lo stesso trattato di Descartes sulle Passions de
l’ame71), ma portatrici di pericoli sia per la costruzione dell’identità individuale sia per la
convivenza sociale.
Possiamo allora dire, riassumendo, che l’individuo moderno è colui che è dotato di
diritti, interessi e passioni; e che dall’intreccio tra questi tre aspetti, legittimi e irrinunciabili,
si delinea un’immagine molto più complessa di quella dell’homo oeconomicus, progettuale e
razionale.
Il diritto infatti contiene in sé un elemento conflittuale e di dominio (cfr. lo jus in
omnia di Thomas Hobbes72); gli interessi sono “contaminati” dalle passioni (in particolare da
quella passione peculiare della modernità che è l’”amore di sé” nelle sue molteplici
manifestazioni), che spingono gli uomini a condotte irrazionali e distruttive (Hobbes: nella
difesa della vita gli uomini tendono alla ricerca del potere; Locke: la ricerca dei beni
materiali diventa oggetto di un desiderio illimitato di acquisizione e appropriazione73;
Rousseau: il desiderio di eccellere spinge l’Io alla costruzione di una falsa identità74).
Ne emerge l’immagine di un individuo conflittuale, che tenta di colmare la propria
carenza attraverso l’acquisizione e il dominio, e che vede nell’altro essenzialmente il nemico
(Hobbes) o il rivale (Locke, Rousseau, Smith).
La stessa soluzione a questa situazione conflittuale (l’uscita dallo stato di natura) non
è, in prima istanza, l’esito di una decisione razionale, ma è mediata dalle passioni: si pensi al
ruolo della paura in Hobbes, “passione ragionevole”, è stato detto75, senza la quale gli
individui non sarebbero indotti al patto che edifica lo Stato; o al ruolo dell’amore di sé in
Rousseau che consente all’individuo di combattere la distruttività dell’amor proprio.
Ciò vuol dire, correggendo in parte la tesi di Hirschman secondo la quale nella
modernità si combattono le passioni con gli interessi76, che le passioni si combattono con le
passioni. E che questa dinamica emotiva di “controbilanciamento” prelude al patto razionale.
E’ vero comunque che, nella prima modernità, gli individui sono capaci, se non altro
in ultima istanza, di porre in atto una decisione razionale e consapevole che, attraverso la
negoziazione con l’altro e la costruzione dell’ordine politico, garantisca la soddisfazione dei
loro interessi.
71
René Descartes, Passions de l’ame (1649); trad.it. Le passioni dell’anima, in Id., Opere filosofiche,
Utet, Torino 1981.
72
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987.
73
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
74
Jean Jacques Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, 1750; trad.it. Discorso sulle scienze e
sulle arti, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e Discours sur l’origine et les fondements de
l’inégalité, 1755; trad. it. Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti
politici, cit.
75
Raymon Polin, Politique et philosophie chez Thomas Hobbes, Vrin, Paris 1977 (Ia ed. 1953).
76
Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977;
trad.it.Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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2.
Questo modello entra in crisi nella seconda modernità (o post-modernità), ed ha a suo
fondamento la crisi stessa dell’individuo.
L’individuo post-moderno viene descritto da gran parte della sociologia
contemporanea (da David Riesman a Richard Sennett, da Christopher Lasch a Robert Bellah,
da Gilles Lipovetski a Charles Taylor) come un individuo edonista e narcisista, teso alla
ricerca di un’autorealizzazione senza limiti, slegato dal sociale e estraneo all’altro,
indifferente alla sfera pubblica, incapace di progettualità e di decisione politica. Si parla
addirittura di “fine dell’individuo”, con accenti spesso nostalgici dell’individuo (hobbesiano
e prometeico) della prima modernità.
Ma più che di “fine dell’individuo”, siamo in presenza di quelle che vorrei definire
patologie dell’individualismo: vale a dire di sviluppi “degenerativi” 77 di aspetti della
modernità che sono da sempre potenzialmente iscritti al loro interno.
Alcuni autori – come Sennett e Lasch78 - tendono a ricondurre l’origine della crisi
dell’individuo alla comparsa (verso la fine del XVIII sec.) dell’ideale dell’autenticità, visto
come eccessiva enfasi sull’Io.
Ma così si finisce per condannare quella che è una legittima aspirazione
dell’individuo: un’aspirazione che emerge, a partire già da Rousseau, in una fase più matura
della modernità; quando la ricerca dell’autenticità esprime appunto un bisogno singolare di
autorealizzazione, e testimonia la presenza di un individuo – come ha ben notato Georg
Simmel79- consapevole della propria unicità e originalità.
Il problema non sta nella ricerca dell’autenticità in quanto tale che appare, a partire
dalla riflessione rousseauiana, come un legittimo bisogno di “fedeltà a se stessi”, ma – come
sostiene Charles Taylor80 - nella sua degenerazione verso patologie narcisistiche.
Alle cause di questa degenerazione si può qui solo accennare: dal processo di
burocratizzazione della società alla crisi della famiglia, dal dilagare di una società dei
consumi all’incapacità delle istituzioni (soprattutto politiche) di garantire sicurezza,
dall’emergere di fenomeni di spettacolarizzazione alle chances illimitate offerte dallo
sviluppo tecnologico.
Tutto questo provoca quella trasformazione patologica dell’amore di sé in senso
77
Sul concetto di “patologie del sociale”, cfr. Axel Honneth (filosofo tedesco), Patologie del
sociale.Tradizione e attualità della filosofia sociale, in “Iride”, Il Mulino, ag. 1996, n.18.
78
Richard Sennett (sociologo statunitense), The Fall of Public Man, Norton New York 1976;
trad.it.Il declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano 1982; Christopher Lasch (sociologo
statunitense), The Culture of Narcissism, Norton New York 1979; trad.it. La cultura del narcisismo,
Bompiani, Milano 1981.
79
Georg Simmel, (filosofo e sociologo tedesco, 1858-1918), Die beiden Formen des Individualismus,
1901-1902; trad. it. Le due forme dell’individualismo, in Id., La legge individuale e altri saggi, a cura
di F.Andolfi, Pratiche ed., Parma 1995.
80
Charles Taylor (filosofo anglo-canadese), The Malaise of Modernity, Canadian Broadcasting Corp.,
1991; trad.it. Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 1994.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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sempre più autoreferenziale che è stata definita “processo di personalizzazione”81 e che
genera un individuo narcisistico, preoccupato unicamente della propria autorealizzazione,
onnipotente e vuoto allo stesso tempo.
Non si tratta tuttavia né di un tradimento della modernità e di una sua
“irrazionalistica” inversione di rotta, come affermano alcuni sociologi82, né di un liberatorio
superamento dei suoi presupposti disciplinari e razionalistici, come vorrebbe il pensiero
postmoderno83; bensì, appunto, di un processo “degenerativo” degli stessi presupposti della
modernità.
L’origine di questo processo era già stata individuata da Alexis de Tocqueville84 che
ne vede l’intrinseca connessione con lo sviluppo della società democratica e lo tematizza
efficacemente come passaggio dall’”egoismo” all’”individualismo”.
Assumendo la distinzione tocquevilliana, possiamo dire che all’individuo “egoista”
della prima modernità, acquisitivo e strumentale, progettuale e conflittuale, e capace di
costruire un ordine sociale e politico che sappia conciliare interesse individuale e bene
comune, subentra un soggetto “individualista”, edonistico e narcisista, indifferente all’altro e
alla sfera pubblica, atomistico e privo di progettualità; un individuo apatico e delegante che
diviene inconsapevolmente vittima dei poteri “morbidi” che attraversano le società
democratiche (economico, massmediale, tecnologico, informatico), quale moltiplicazione e
proliferazione del “dispotismo mite” di cui parlava Tocqueville85 .
Le patologie dell’individualismo contemporaneo si potrebbero ricondurre
essenzialmente a due figure-chiave: quella dell’ individuo consumatore, che intrattiene col
mondo, ridotto ad immensa raccolta di merci, una relazione essenzialmente parassitaria; e
quella dell’individuo spettatore, che si estranea dal mondo e assiste agli eventi senza poterli
dominare né guidare, sempre più pervaso dall’angoscia di fronte alla perdita della sua
capacità di decisione e di condivisione.
Si arriva così al paradosso che l’individuo sovrano, capace di autodeterminazione,
diventa un individuo che si lascia facilmente assoggettare, che anzi esprime un bisogno
d’ordine e di tutela, in quanto incapace sia di esercitare la propria volontà e la propria
capacità di scelta, sia di azione e progetto comune. L’individuo della tarda modernità vede
allo stesso tempo l’indebolimento della propria identità e la perdita del legame sociale: la
perdita cioè di quella dimensione dell’infra, dell’essere-con e della relazione pubblica in cui
Hannah Arendt ha riconosciuto la più preoccupante patologia della modernità 86 .
81
Gilles Lipovetski (sociologo francese), L’ère du vide, Gallimard, Paris 1983-93; trad.it.
L’era del vuoto. Saggi sull’individualismo contemporaneo, Luni, Milano 1995.
82
Tra cui i già citati Sennett e Lasch.
83
Cfr. Michel Maffesoli (sociologo francese), Le temps des tribus, Librairie générale française, Paris
1991; trad.it. Il tempo delle tribù. Il declino dell’individuo, Armando, Roma 1988.
84
Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835-40; trad. it.La democrazia in America,
in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.
85
Cfr. Elena Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame
sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001
86
Hannah Arendt (filosofa tedesca di origine ebraica, 1906-1975), The Human Condition, Univ.of
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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3.
Può dunque apparire paradossale che, proprio nel momento di massima corrosione della
propria sovranità e autonomia, l’individuo venga assunto dalla riflessione contemporanea
come l’irrinunciabile depositario di nuove istanze etiche e politiche.
Si pensi in particolare alle etiche della responsabilità - Hans Jonas, Emmanuel
Lévinas, Zygmunt Bauman 87 - che indicano nella figura dell’individuo responsabile il
modello adeguato a far fronte alle sfide generate dalle patologie della modernità.
Il concetto di “responsabilità” è particolarmente interessante laddove si ricordi che
esso contiene una duplice valenza: esso implica infatti la massima attribuzione di valore
all’individualità (l’imputabilità all’Io dei suoi atti e delle sue omissioni: nessuno può essere
responsabile al mio posto) e l’apertura all’alterità (responsabilità come cura dell’altro,
“risposta” all’altro). Nel primo caso si tratta di una riassunzione della propria autonomia
intesa anche come capacità di “rendere conto” del proprio agire; nel secondo caso si tratta di
una rottura dell’entropia e dell’indifferenza attraverso la presa in cura dell’altro, la capacità
di rispondere, potremmo dire con Lévinas, alla “chiamata” dell’altro.
Inoltre, in quanto implica la capacità di tener conto degli effetti e delle conseguenze
delle proprie azioni, la responsabilità contiene un elemento di progettualità e di previsione
che sembra specularmente opporsi alla patologie dell’individuo consumatore e spettatore: tra
cui quella che potremmo definire una perdita di futuro.
Non a caso sull’idea di responsabilità Hans Jonas ha costruito un’etica per le
“generazioni future” che possa essere all’altezza dei problemi generati dallo sviluppo della
tecnica e dall’emergere dei rischi globali.
Tuttavia, proprio a causa delle patologie dell’individualismo, qualsiasi proposta o
modello di etica della responsabilità non può fondarsi su un astratto dover essere e su
premesse deontologiche, ma deve fare i conti con le trasformazioni antropologiche in atto,
per riuscire a pensare una responsabilità che sia, in primo luogo, emotivamente fondata; come
in parte fa lo stesso Jonas quando vede nella riattivazione della paura, di fronte ai rischi che
l’umanità deve affrontare nella società tecnologica, la fonte emotiva della cura e della
responsabilità.
Un individuo responsabile si configura dunque non tanto come un individuo capace di
aderire ad una norma, ma come un individuo capace di correggere le patologie
dell’indifferenza e dell’atomismo, riattivando in primo luogo la dinamica delle passioni.
Chicago Press, Chicago 1958; trad.it. Vita activa, Bompiani, Milano 1991 (3° ediz.).
87
Hans Jonas (filosofo tedesco di origine ebraica, 1903-1993); Das Prinzip Verantwortung, Insel,
Frankfurt am Main 1979; trad.it.Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990; Emmanuel
Lévinas (filosofo francese di origine ebraico-lituana, 1906-1995), Totalité et infini, Nijhoff, La Haye
1961; trad.it. Totalità e infinito, Jaka Book, Milano 1977; Zygmunt Bauman (sociologo inglese di
origine polacca), Postmodern Ethics, Blackwell Publishers, Oxford (UK)-Cambridge (USA), 1993;
trad.it. Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1996.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
129
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29. Passioni/Interessi.
1.
L’intreccio passioni/interessi è di grande rilevanza per la filosofia sociale in quanto consente
di tematizzare il problema delle motivazioni che stanno a fondamento dell’agire sociale e
politico: aspetto per lo più trascurato dalla riflessione contemporanea.
Ma se il problema della passione è al centro del pensiero filosofico fin dalle origini,
il tema dell’interesse diventa centrale solo a partire dalla modernità, quando esso viene ad
assumere il significato definitivo di “utile”, o “vantaggio materiale”.
A partire da Hobbes88, il perseguimento dell’interesse diventa il corollario stesso di
quella figura paradigmatica della modernità che è l’homo oeconomicus: vale a dire
dell’individuo calcolatore e razionale, previdente e progettuale, legittimamente teso alla
realizzazione del proprio utile, in funzione del quale egli si rende disponibile al patto e alla
costruzione di un ordine sociale e politico (cfr. Individuo/soggetto).
Il problema però consiste nel fatto che il pensiero liberale moderno, fino ai nostri giorni,
ha finito per identificare il modello dell’homo oeconomicus con questa peculiare motivazione,
oscurando di fatto il ruolo delle passioni. La tradizione liberale ha posto l’accento essenzialmente
sul problema della conciliazione tra interesse individuale e interesse collettivo, proponendo il
concetto di “interesse ben inteso”; ma ha fortemente sottovalutato l’aspetto emotivo delle
motivazioni individuali - che pure è centrale nel pensiero moderno a partire dal modello
hobbesiano -, codificando l’immagine di un individuo essenzialmente razionale.
Perfino nella più sofisticata proposta di Hirschman89 , che tiene evidentemente conto
delle passioni, viene però ribadita l’idea che nella modernità le passioni vengono
“controbilanciate” e sostituite dagli interessi, che si delineano sempre più, con lo sviluppo del
capitalismo, in senso prettamente economico.
E’ opportuno allora soffermarsi sul concetto di “passione”, ricostruendo il ruolo
centrale che esso ha nel pensiero sociale e politico.
2.
Dal greco pathos, la passione è un moto di attrazione o repulsione con cui un soggetto
reagisce a situazioni di piacere o di dolore causate da un oggetto. Si tratta dunque di
un’energia affettiva che, in quanto involontaria e subìta dal soggetto, provoca disordine,
alterando gravemente l’esercizio della ragione, offuscando il giudizio, paralizzando la
volontà.
In questo senso le passioni costituiscono, fin dalle origini, un problema per il
pensiero filosofico, che sull’opposizione passione/ragione fonda sia la formazione del
soggetto morale sia la costruzione dell’ordine politico. In Platone e in Aristotele le passioni,
88
Thomas Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it. Leviatano, la Nuova Italia, Firenze 1987; e The Elements
of Law, Natural and Politic (1640); trad.it. Elementi di legge naturale e politica, La Nuova Italia,
Firenze 1985.
89
Albert O.Hirschman, The Passions and the Interests, Princeton Univ. Press, Princeton 1977; trad.it.
Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano 1979.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
130
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pericolose per l’equilibrio della polis, sono tuttavia fenomeni naturali, energie (cfr.l’eros e
l’ira) che non vanno amputate, ma sottoposte ad un controllo razionale che ne corregga gli
eccessi; consentendo così la formazione del cittadino ben integrato nella polis90 .
Con lo stoicismo, il problema delle passioni viene sottratto alla prospettiva sociale e
politica e riportato ad una dimensione soggettiva. Alla crisi della polis e della libertà politica,
si risponde con la ricerca di una sfera individuale di libertà che implica un interrogarsi in
termini radicalmente nuovi sull’Io e sulle passioni Queste perdono ogni attributo di naturalità
per diventare pure “distorsioni della ragione”, “malattie dell’anima” da estirpare per poter
vivere in conformità con la natura, che è perfettamente razionale. Alla figura del “cittadino”
subentra quella del “saggio”, che diventa padrone di se stesso solo attraverso una severa
repressione delle passioni 91.
La costruzione del soggetto morale resta al centro del pensiero cristiano sulle
passioni che, a partire da Agostino fino alla grande sintesi di Tommaso in epoca medievale,
attenua il rigorismo stoico; e affida non al potere repressivo della ragione ma alla qualità
della volontà (guidata, secondo la formula agostiniana, dall’amor Dei e non dall’amor sui) la
soluzione al problema delle passioni .92
Ed è ancora in una prospettiva morale, del tutto separata da ogni dimensione
politica, che le passioni vengono trattate agli inizi dell’età moderna: prima in Montaigne93
poi in Cartesio94, solo in parte influenzati dallo stoicismo, il riconoscimento della naturalità e
dell’utilità delle passioni è parallelo alla condanna di ogni eccesso. E sfocia nella
elaborazione di strategie di perfezionamento morale, fondate sul loro buon uso, cui
corrisponde tuttavia un sostanziale conservatorismo politico.
E’ solo con Hobbes, come si è già accennato, che il problema delle passioni investe
immediatamente la sfera sociale e politica. La metafora dello “stato di natura” descrive una
situazione caotica e conflittuale nella quale le passioni (gloria, desiderio di potere) sono
legittime in virtù dei diritti naturali dell’individuo, ma sono anche ciò che minaccia l’ordine
sociale. La risposta al problema delle passioni e allo stato di guerra che ne deriva, non più
affidabile all’esercizio soggettivo della volontà o della ragione, è lo Stato, istituzione
artificiale fondata su un patto razionale tra gli individui, stimolato dalla passione della paura.
La sua funzione è quella di garantire l’ordine proteggendo gli individui da se stessi.
L’opposizione
90
passioni/ragione
si
traduce
in
quella
disordine/ordine,
o
Platone, Simposio, in Id., Opere complete, 8 voll., Laterza, Bari, 1971, vol. 3; e Id., La Repubblica,
in Id., Opere complete, cit., vol.6; Aristotele, Etica Nicomachea, in Id., Opere, Laterza, Roma-Bari
1983, vol.7.
91
Questa concezione delle passioni è presente, con evidenti differenze, sia nello stoicismo greco
antico (Zenone, Crisippo, III e II sec.a.C.), sia nello stoicismo romano (Epitteto, Marco Aurelio, I-III
esc. d.C.). Cfr. per tutti Marco Aurelio, Ricordi, Rizzoli (BUR), Milano 1984 (Ia ed. 1953).
92
Agostino, De Civitate Dei, 413-426; trad.it. La città di Dio, Einaudi, Torino 1992; Tommaso
d’Aquino, Summa theologiae, iniziata nel 1269 e incompiuta; trad. it. La Somma teologica, Bologna
ESD, 1985, 35 voll., vol III, capassioni “Le passioni”.
93
Michel de Montaigne, Essais, 1588; trad.it. Saggi, Adelphi, Milano 1992.
94
René Descartes, Passions de l’ame (1649); trad.it. Le passioni dell’anima, in Id., Opere filosofiche,
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Filosofia politica. Un’introduzione
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natura/artificio che ritroviamo alla base del contrattualismo di Locke95 o Spinoza96, sebbene
con toni meno pessimistici che in Hobbes. Si può allora dire che il politico moderno nasce
come risposta al problema delle passioni
L’interesse agisce in questo contesto, come momento normativo: è ciò che induce in
ultima istanza gli individui a rinunciare o controllare le proprie passioni affidandosi
all’istituzione artificiale dello Stato.
Il modello contrattualistico non esaurisce tuttavia il quadro della modernità sociale e
politica. L’altro grande modello, spesso ignorato dalla riflessione contemporanea, è quello
elaborato dalla Political Economy; nel quale il ruolo del politico si ridimensiona fortemente e
le passioni sono oggetto non solo di una realistica legittimazione, ma di una inedita
valorizzazione.
Prima in Mandeville97, poi in Smith98, le passioni (self-love) diventano stimoli
indispensabili del progresso e della “ricchezza delle nazioni”. La soluzione delle loro
manifestazioni distruttive non richiede un patto razionale, ma scaturisce da una spontanea
selezione che presuppone però la capacità di gestire le proprie emozioni, adeguandole a
quella “middle conformation” che consente una equilibrata convivenza sociale. La “mano
invisibile”, in virtù della quale gli interessi individuali lavorano inintenzionalmente al bene
comune, ben lungi dall’essere un meccanismo automatico, esige la capacità individuale di
convertire il self-love in una passione “societaria”, empiricamente adattata alle aspettative e
alle esigenze dell’altro.
Questa visione positiva delle passioni subisce un radicale momento di crisi in
Rousseau99 il quale mostra come le passioni competitive esaltate dalla Political Economy
(amor proprio) producano un falso sé, un’identità inautentica; e propone un ritorno alla
passioni naturale dell’”amore di sé” quale radice emotiva di quella soggettività virtuosa su
cui si fonda la società giusta del Contratto sociale.
Rousseau inaugura un modello più complesso in quanto suggerisce l’idea che le
passioni (desiderio di eccellenza e di riconoscimento) possano essere più forti degli interessi;
o meglio che le passioni identitarie possano prevalere sugli interessi materiali: intuizione che
può rivelarsi quanto mai feconda nell’analisi dei conflitti che attraversano la società
contemporanea.
Utet, Torino 1981.
95
John Locke, Two Treatises of Government, 1690; trad. it. (del I Trattato) Trattato sul governo,
Studio tesi, Pordenone 1991.
96
Baruch Spinoza, Tractatus politicus, 1677; trad.it. Trattato politico, Laterza, Roma-Bari 1991.
97
Bernard Mandeville, The Fable of the Bees, 1723; trad.it. La favola delle api, Laterza, Roma-Bari
1987.
98
Adam Smith, The Theory of Moral Sentiments, 1759; trad.it. Teoria dei sentimenti morali, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1991.
99
Jean Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité, 1755; trad. it.
Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, in Id., Scritti politici, Utet, Torino 1970; e
Id., Emile, 1762; trad.it. Emilio, Armando, Roma 1981.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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La vera e propria condanna delle passioni in età moderna si deve a Kant che, in linea
con lo stoicismo, riporta la riflessione sulle passioni su di un piano morale; e le vede come
malattia e follia, come “cancro” della ragion pratica, capaci di ledere il principio stesso della
moralità che è la libertà umana100. Con Kant ha inizio quel processo di patologizzazione delle
passioni che le rende oggetto privilegiato prima del discorso medico e, successivamente,
della psichiatria.
Nel pensiero filosofico non mancano tuttavia, dopo Kant, momenti di riabilitazione
delle passioni, come in Hegel, Fourier o Nietzsche; fino ad Ernst Bloch101, il quale coglie il
ruolo emancipativo ed utopico delle passioni (“affetti d’attesa”), in quanto espressioni della
“coscienza anticipante” e della sua tensione verso il meglio.
Ma di particolare interesse, in una prospettiva filosofico-sociale, è la riflessione di
A.de Tocqueville102, che riflette criticamente sull’indebolimento delle passioni in una società
democratica e vi riconosce una delle principali cause delle patologie della democrazia. La
scomparsa di passioni forti (soprattutto pubbliche) è all’origine di quel ripiegamento
“individualistico” peculiare delle società democratiche che produce sia la crisi dell’individuo
(apatia, passività) sia la crisi del legame sociale (solitudine, atomismo), consentendo
l’emergere di forme di “dispotismo mite”, esercitato dal potere politico, a cui l’individuo si
assoggetta inconsapevolmente.
L’indebolimento delle passioni equivale in altri termini alla incapacità, da parte
degli individui, di riconoscere il loro stesso interesse, privandoli di fatto della loro sovrana
capacità di decisione e partecipazione.
Tocqueville intuisce così “profeticamente” un fenomeno che assumerà consistenza
nelle società democratiche postmoderne: vale a dire la messa in atto di comportamenti
individuali irrazionali (contrari al proprio interesse) originati non dalla forza delle passioni,
ma dalla loro debolezza; come possiamo vedere dall’espandersi delle patologie narcisistiche.
3.
Che le passioni possano avere un ruolo positivo sia per la formazione dell’identità sia per la
costruzione del legame sociale è un assunto che, di recente, sembra essere sempre più
condiviso dalle scienze sociali. Si assiste ad una grande riscoperta da parte di varie discipline
del ruolo cognitivo e comunicativo delle passioni e quindi al superamento della tradizionale
dicotomia p/ragione. Da Niklas Luhmann103 alla Sociology of Emotions statunitense104, la
100
Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it. Antropologia
pragmatica, Laterza, Bari 1985.
101
Ernst Bloch (filosofo tedesco di origine ebraica, 1885-1977), Das Prinzip Hoffnung, Suhrkamp,
Frankfurt am Main 1959; trad.it. Il principio speranza, Garzanti, Milano 1994, vol. I
102
Alexis de Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835-40; trad. it.La democrazia in America,
in Id., Scritti politici, vol. II, Utet, Torino 1968.
103
Niklas Luhmann, Liebe als Passion, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982; trad.it. Amore come
passione, Laterza, Bari 1984.
104
Sulla Sociology of emotions, cfr. Gabriella Turnaturi (a cura di), La sociologia delle emozioni,
Anabasi, Milano 1995.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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rivalutazione del ruolo tutt’altro che residuale delle passioni nell’agire sociale tende a
prefigurare un diverso e più complesso paradigma di razionalità.
Interessante dal punto di vista della filosofia sociale e politica è la proposta di
Martha Nussbaum nel suo recente L’intelligenza delle emozioni105. Il riconoscimento del
valore conoscitivo e valutativo delle passioni consente di pensare un’idea di ragione non
disincarnata, sensibile alla vulnerablità dell’individuo, in quanto dipendente dal mondo, dagli
altri individui e dalla contingenza della storia. Il rispetto delle inclinazioni emotive
individuali diviene componente essenziale per la fondazione di una teoria normativa liberale,
che si basi sulla comprensione della “bisognosità” (neediness) dell’uomo, e che assuma a suo
fondamento non solo il concetto di “diritto” ma anche quello di “capacità” (cfr. il
Capabilities Approach condiviso con Amartya Sen).
105
Martha C. Nussbaum (filosofa statunitense), The Upheavals of Thought. The Intelligence of
Emotions, Cambridge Univ.Press, Cambridge 2001; trad.it. L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino,
Bologna 2004.
Furio Cerutti
Filosofia politica. Un’introduzione
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C. BIOETICA di Monica Toraldo di Francia
30. Vita e morte
La dicotomia concettuale vita/ morte, da sempre oggetto della riflessione filosofica, riveste
una particolare rilevanza nell’ambito di quel nuovo settore del pensiero filosofico che va sotto il
nome di bioetica. La bioetica viene definita dall' Encyclopaedia of Bioethics come “lo studio
sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della cura della salute
quando tale condotta è esaminata alla luce di valori e di principi morali”. Essa è un’area
disciplinare, o meglio interdisciplinare, che si confronta in modo sistematico con i problemi
filosofici, etico-politici e giuridici sollevati dalla rivoluzione medico-biologica degli ultimi
cinquant’anni e dai più recenti sviluppi di quella disciplina di frontiera che è ormai diventata la
genetica (la scienza che studia i caratteri ereditari e le loro modalità di trasmissione). Si parla a
questo proposito di una seconda rivoluzione scientifica, i cui tratti salienti sono individuabili:
1. nelle trasformazioni avvenute negli ambiti della procreazione, del curarsi e del morire
degli esseri umani: tecniche di crioconservazione di gameti e di ovuli fecondati, tecniche di
fecondazione assistita, in vivo e in vitro, macchine vicarianti, temporaneamente o definitivamente,
funzioni vitali dell’organismo, trapianti di vario tipo, nuove e sempre più sofisticate tecnologie
diagnostiche applicabili sia in fase prenatale che postnatale;
2. nel salto qualitativo rappresentato dall’estensione del potere di intervento tecnico dalla
natura esterna alla natura interna, che ha aperto inedite possibilità di controllo e di modificazione
della struttura genetica degli esseri viventi, uomo incluso, e reso più cogente il tema di una
ridefinizione delle nostre responsabilità nei confronti della natura (mantenimento della biodiversità)
e della qualità della vita, se non della sopravvivenza, delle generazioni future.
Tutti gli ambiti della bioetica ruotano pertanto intorno a questioni relative ai processi della
vita: per quanto riguarda la vita umana, centrali sono le questioni relative al suo inzio e alla sua
fine, alla sua creazione extracorporea, al suo prolungamento artificiale, alla sua interruzione o
prevenzione, alla sua modificazione genetica; ma di rilevanza bioetica sono anche i problemi che
riguardano altri piani di vita come quello degli interventi sulla vita vegetale, sugli animali non
umani, sulla brevettabilità degli organismi viventi; anche se, si deve aggiungere, le questioni
ambientali e quelle del trattamento degli animali non umani sono ormai oggetto di una vasta
letteratura specifica tanto da costituire dei veri e propri settori a sé (rispettivamente, etica
ambientale ed etica degli animali).
Il termine vita, decontestualizzato e non ulteriormente qualificato, si presenta tuttavia come
un termine tanto carico di connotazioni da non definire più nulla di preciso, ‘un termine di gomma’
che si presta a un uso fortemente retorico e persuasivo, carico di valore emotivo: ‘la vita’, ‘una
vita’ sono espressioni spesso impiegate nel dibattito ideologico e politico sulle nuove biotecnologie
(ma anche sull’interruzione volontaria di gravidanza) per evocare l’immagine di qualcosa di
sostantivato da proteggere e tutelare, qualcosa dotato di valore intrinseco a cui riconoscere la
titolarità di un diritto soggettivo senza che sia necessario addurre motivazioni adeguate.
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Filosofia politica. Un’introduzione
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Anche limitandosi al solo ambito delle scienze biologiche sembra difficile dare una
definzione oggettiva del termine-concetto vita ed è più corretto considerare tale nozione come una
nozione artificiale, o convenzionale, cui facciamo riferimento per distinguere fenomeni di diversa
natura (E. Lecaldano, a cura di, Enciclopedia di bioetica).
In questi termini i criteri di distinzione fra esseri viventi e non viventi non potranno essere
considerati oggettivi e la lista degli esseri viventi potrà essere più o meno ampia a seconda della
definizione di vita che si assume e delle caratteristiche che vengono incluse come rilevanti per
qualificarla: una determinata essenza, riducibile al codice genetico, cioè all’informazione biologica
racchiusa nella macromolecola del DNA, che costituisce il materiale responsabile della trasmissione
e dell’espressione dei caratteri ereditari; o invece determinate qualità e capacità come quelle di
riproduzione, evoluzione, crescita e sviluppo, metabolismo, autoregolazione, reattività agli stimoli
esterni.
Se poi si passa dall’ambito delle scienze biologiche a quello della riflessione etica, in cui si
pongono domande relative ai nostri obblighi e alle nostre responsabilità come agenti morali, la
questione si complica ulteriormente; non solo dobbiamo impegnarci a distinguere analiticamente i
diversi contesti e ambiti problematici in cui ci poniamo interrogativi riguardo ai nostri
comportamenti nei confronti della ‘vita’, qualificando in modo preciso l’ ambito di riferimento
semantico del termine, ma dobbiamo anche essere disposti a giustificare con argomentazioni e
ragioni la rilevanza morale di determinate caratteristiche, qualità, capacità che, in quel determinato
contesto, poniamo alla base della pretesa di più specifiche forme di trattamento e di considerazione
morale e/o giuridica (es. la condivisione come specie di un determinato patrimonio genetico, o la
capacità di provare piacere e dolore, di avere emozioni, di relazionarsi, o ancora la capacità, ai
livelli superiori, di avere preferenze riflessive, di autodeterminazione).
Sono molti i filosofi morali che oggi concordano nel considerare come nucleo essenziale
della bioetica la riflessione sulla novità irriducibile delle odierne opzioni etiche che si presentano
nelle società occidentali, per quanto riguarda le condizioni del nascere, curarsi e morire degli esseri
umani. Sono infatti proprio le situazioni di frontiera, con i difficili quesiti decisionali che pongono,
a mettere alla prova la validità dell’ etica teorica tradizionale, nelle sue versioni normative sia
consequenzialiste che deontologiche: a mettere, cioè, alla prova la sua capacità di fornire delle
linee-guida soddisfacenti per orientare il nostro giudizio morale e i nostri comportamenti,
individuali e collettivi, quando ci troviamo di fronte alle nuove possibilità di scelta e ai dilemmi che
sollevano. Ci si chiede se essa ci possa essere ancora di aiuto, oppure se i principi, le norme, i
valori che abbiamo ereditato debbano essere integrati, abbandonati o rivisti alla luce dei nuovi
poteri di cui ci troviamo ormai depositari e dei casi esemplari della riflessione bioetica.
Lo sviluppo delle biotecnologie umane, che con il loro potere di ridisegnare continuamente
la linea di confine fra caso e scelta, fra ciò che è naturalmente dato e ciò che viene a ricadere
nell’ambito dell’agire intenzionale e del controllo umano, stanno cambiando in profondità le nostre
esistenze, costituisce una sfida non solo per l’etica strettamente intesa. Quest’ accelerato sviluppo
pone sotto una diversa prospettiva anche la questione dei vincoli che lo Stato, o altre istituzioni
sovranazionali o internazionali, possono legittimamente imporre alla libertà di scelta dei cittadini,
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Filosofia politica. Un’introduzione
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come pure alla libertà, costituzionalmente protetta, della scienza. Si aprono riaprono così
interrogativi di fondo del tipo:
1. qual è il ruolo del diritto nelle società liberal-democratiche e ‘multietiche’? deve solo
ratificare i mutamenti che si registrano nella società, lasciando alla libertà-responsabilità individuale
il più ampio spazio possibile per le decisioni che riguardano il nascere, il curarsi (o non curarsi) e il
morire, o deve invece cercare di influenzarli esprimendo e imponendo scelte di valore anche se non
condivise da tutti, o condivise solo dalla maggioranza (es. le questioni che riguardano i requisiti per
l’accesso alle tecniche di riproduzione medicalmente assistita e le modalità della loro applicazione,
o quelle che concernono le c.d. decisioni di ‘fine vita’)?
2. le nuove situazioni rese possibili dalla ricerca medica e biologica, che, proprio per la loro
novità, non possono essere risolte col solo riferimento al dettato costituzionale, in che senso
correggono, o spingono a rivedere il modo di impostare la questione dei limiti fissati dai diritti di
libertà dei cittadini all’intervento dello Stato? o meglio, fino a che punto arrivano i diritti di
autonomia di ciascuno degli esseri umani coinvolti nelle nuove stuazioni e dove comincia l’ambito
in cui l’intervento dello Stato, con divieti, obblighi, regolamenti, è necessario?
3. alla luce di possibili futuri scenari di rischio per le condizioni di vita, la sicurezza e la
libertà delle generazioni a venire, si deve far valere un principio politico di precauzione che censuri
in anticipo, in modo autoritativo, indirizzi e obbiettivi della ricerca e della sperimentazione in
campo biomedico? e, in caso affermativo, secondo quali criteri, con quali procedure?
Non casualmente il contrasto più radicale nell’ambito bioetico si è esplicitato intorno al
tema cruciale della disponibilità/indisponibilità della vita umana, che ha messo in luce una
contrapposizione decisiva: quella fra una prospettiva etica, propria della filosofia della vita di
matrice cattolica, che considera la vita umana come un bene indisponibile in ogni suo stadio, dal
momento della fecondazione fino alla morte naturale dell’'organismo biologico', e teorie etiche
‘laiche’ che ritengono invece, almeno in linea di principio, che l’uomo ne possa disporre, ma che si
trovano poi a differenziarsi sulla questione dei limiti, più o meno ampi, da porre a questo potere di
disposizione e sulla loro possibile giustificazione.
Per far capire la portata di questa divisione si può far riferimento alla discussione che si è
sviluppata, a livello etico prima e poi istituzionale, intorno agli inizi della vita umana individuale e
alla questione della liceità o meno di sperimentare su ‘embrioni’ umani, in particolare su quelli
creati in eccesso con la fecondazione in vitro e crioconservati, che sono comunque destinati a
perire (per alcuni protagonisti del dibattito in materia si dovrebbe comunque parlare di ‘preembrione’ e non di ‘embrione’ per i primi stadi di moltiplicazione cellulare).
Ritornata alla ribalta con la scissione fra procreazione e sessualità ed il perfezionamento
delle tecniche di fecondazione extracorporea, la questione dello statuto ontologico e/o morale e
giuridico dell’embrione costituisce uno dei temi più controversi della discussione bioetica per le sue
molteplici implicazioni pratiche: da quelle relative al futuro della ricerca in uno dei settori
d’avanguardia nella lotta contro le malattie e il loro carico di sofferenza, compresa la ricerca sulla
c.d. ‘clonazione terapeutica’, a quelle più direttamente attinenti al disciplinamento del corpo
femminile e del processo procreativo. In modo schematico e semplificatorio, su un versante si
schierano quanti tendono, in definitiva, a porre l'accento, sulla rilevanza morale della presenza di un
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Filosofia politica. Un’introduzione
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patrimonio genetico individualizzante: lo zigote, la cellula uovo fecondata, è già ‘identità
biologica’, da rispettare come 'persona', o trattare come tale sotto il profilo etico e giuridico,
riconoscendogli la titolarità di diritti soggettivi, in primo luogo di un inviolabile diritto alla vita che
la legge civile avrebbe l’obbligo di recepire e proteggere. Sull'altro versante si collocano quanti
invece hanno sottolineato, seppure da prospettive filosofiche anche molto diverse, l’importanza
dell'aspetto biografico e relazionale della vita umana individuale, che ha la sua matrice nella
gestazione; o quanti hanno quantomeno sostenuto, anche sulla base dei più recenti studi sullo
sviluppo fisico e mentale del feto nella fase prenatale, la rilevanza della presenza di stati neurologici
e psicologici. I sostenitori di questa seconda prospettiva, pur riconoscendo in genere la necessità di
una tutela dell'embrione fin dal concepimento, postulano sempre una qualche teoria della gradualità
del valore della vita umana, variamente argomentata sul piano filosofico, da cui far discendere la
liceità di una tutela differenziata dei diversi stadi di sviluppo dell'essere umano in formazione e
quindi la possibilità di bilanciare, in alcune situazioni, la tutela dell’ embrione ai primissimi stadi
con altri beni e diritti in gioco (ad es., la libertà procreativa della donna, o il diritto alla salute).
Di fronte ai possibili scenari futuri che l’incontro fra biologia della riproduzione e
ingegneria genetica rende ipotizzabili (di embrioni selezionati secondo certi standard di perfezione
biologica, o di bambini programmati con un determinato corredo genetico in base alle preferenze e
aspirazioni dei genitori, o generati con le tecniche di clonazione) si può tuttavia arrivare ad
argomentare la necessità di una limitazione preventiva, da parte della morale e del diritto, tanto
della libertà di ricerca e di sperimentazione della comunità scientifica quanto della libertà
procreativa dei singoli, facendo ricorso a una strategia concettuale più complessa, che prescinde
dalla questione, indecidibile, dello statuto dell’embrione; ed è questa la via seguita da Jürgen
Habermas. Nell’argomentazione habermasiana la contingenza delle origini della vita biologica
individuale, cioè la ‘naturalità’ del processo procreativo, dovrebbe, in via di principio, essere
tutelata e resa indisponibile alla sua oggettivazione tecnica, in quanto condizione di possibilità dei
nostri ordinamenti morali, della nostra libertà etica e della nostra coscienza di quel che siamo come
esseri-di-genere, ovvero della nostra identità propriamente umana di esseri responsabili e
comunicativi. Tale tutela andrebbe poi garantita con l’inclusione fra i diritti fondamentali,
universalmente riconosciuti e protetti, del diritto a ereditare un patrimonio genetico non modificato
artificialmente (diritti di quarta generazione).
Lo sviluppo di sempre nuove e più efficaci tecnologie nell’ambito delle scienze della vita e
della cura della salute ha imposto non solo un ripensamento del significato e delle implicazioni
filosofiche dell’inizio della vita umana individuale, ma ha anche indotto a ridefinire le basi stesse su
cui fondare la definizione di morte degli esseri umani.
Le nuove tecnologie di ‘rianimazione’ e il perfezionamento di strumenti di supporto o di
sostituzione di funzioni vitali dell’organismo irreversibilmente compromesse, ma anche i progressi
nell’ambito dei trapianti, hanno condotto, nel corso della seconda metà del XX secolo, ad una
revisione del modo tradizionale di caratterizzare, in ambito medico, la fine della vita e alla ricerca
di nuovi criteri per la definizione di morte dell’individuo umano, considerato come un organismo
fornito di una sua unità, specificità e di una sua vicenda biologica con un inizio e un termine. E’ del
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1968 la proposta della Commissione della Harvard Medical School di adottare una nuova
definizione che identifica la morte dell’essere umano con la cessazione dell’attività cerebrale nel
suo complesso e non più con l’arresto irreversibile e definitivo delle grandi funzioni cardiorespiratorie. Sebbene questa nuova definizione sia stata poi acquisita, sul piano legislativo, dalla
maggior parte dei paesi occidentali (Italia compresa), essa lascia spazio a non poche obbiezioni ed è
bene pertanto tenere distinto il problema filosofico della definizione di morte da quello della sua
definizione clinica e del suo accertamento tecnico. Lo testimonia l’ampio dibattito in corso in cui si
confrontano differenti concezioni riguardo alla natura della morte degli esseri umani: la morte come
processo, piuttosto che come singolo evento, come ‘fatto’ o come ‘decisione etica’, come
collegabile alla cessazione irreversibile dell’attività cardiaca, o invece dell’attività cerebrale nel suo
complesso, o, ancora, alla cessazione permanente della sola attività corticale, considerata da alcuni
decisiva perché, col suo venire meno, viene meno la possibilità stessa di una vita propriamente
umana, ossia cosciente; rimane, cioè, una vita solo vegetativa che può essere prolungata per
moltissimi anni .
Il problema etico centrale relativo alla morte degli esseri umani non è tuttavia, come rileva
Eugenio Lecaldano (filosofo morale, di impostazione analitica, da tempo impegnato nel dibattito
bioetico), quello di decidere se essi siano vivi o morti, ma piuttosto di chiederci se siamo legittimati
a fare azioni che comportino, direttamente o indirettamente, la morte di qualcuno (noi stessi o altri),
o la sua agevolazione e, segnatamente, quali sono i casi di morte che chiamano in causa giudizi di
illiceità morale. Ed è proprio il progressivo avanzare della medicina tecnico-scientifica sul terreno
della fine della vita a rendere urgente e lacerante la discussione pubblica sulla possibilità o meno di
riconoscere un diritto morale a morire, che la morale tradizionale non ha mai ammesso e che, se
riconosciuto, dovrebbe portare a una revisione delle nostre leggi (come in alcuni paesi europei è già
avvenuto; emblematico è il caso dell’Olanda che ha modificato il suo codice penale per rendere
legale, in determinate situazioni, sia l’eutanasia che il suicidio medicalmente assistito).
In discussione, nel nuovo orizzonte aperto dall’età della tecnica, non è più solo se uno Stato
possa imporre la morte per un fine altro da sé, ma se possa imporre autoritativamente la vita.
Intorno a questo interrogativo centrale si articolano poi una serie di interrogativi più
specifici: sulla liceità o meno di interrompere i trattamenti che tengono in vita pazienti in coma
vegetativo permanente, di considerare come vincolanti per la pratica medica le c.d. direttive
anticipate (o testamento biologico), di ammettere in alcuni casi il suicidio assistito (l’aiuto dato
intenzionalmente dal medico al paziente attraverso il rifornimento di farmaci, da autoamministrarsi,
a seguito della richiesta volontaria e competente della persona che vuol porre fine alla propria vita),
o anche l’eutanasia (per eutanasia in senso proprio si intende l’ “uccisione intenzionale da parte del
medico di una persona attraverso la somministrazione di farmaci a seguito di una richiesta
volontaria e competente della persona stessa” in specifiche circostanze cliniche).
Il confronto con questi temi così controversi e coinvolgenti, in cui si scontrano differenti
concezioni sostantive di cosa si intende per ‘vita degna di essere vissuta’, ha avuto anche l’effetto di
costringere a ripensare il senso stesso dell’impresa bio-medica contemporanea; ogni presa di
posizione filosoficamente meditata sui drammatici dilemmi etici suscitati dalle nuove situazioni di
‘fine vita’ non può più prescindere da una riflessione critica sugli stessi obbiettivi e valori perseguiti
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dalla medicina scientifico-tecnologica occidentale, nella sua interazione con le aspettative crescenti
della società in cui si trova a operare, sulla sua ‘sostenibilità’ a lungo termine (tema che si collega
con quello della crisi dello Stato sociale) ed anche sui suoi paradossi.Numerosissimi sono gli studi
che oggi si confrontano col mutamento in atto, nelle società industriali avanzate, tanto delle
condizioni empiriche del processo del morire, dovuto a grandi trasformazioni di ordine economicosociale e agli straordinari successi della medicina occidentale, quanto delle rappresentazioni
culturali della morte e degli atteggiamenti, individuali e sociali, che vi corrispondono e che, a loro
volta, alimentano la corsa verso sempre nuovi e più problematici traguardi della ricerca biomedica
sul terreno delle situazioni di confine fra vita/morte.
Al di là della diversità degli approcci disciplinari due tratti significativi emergono da questi
studi:
i. da un lato, al dato di un generale allungamento delle aspettative di vita si affiancano altri
dati meno positivi; dati che mettono in luce come le nuove possibilità di curare, o almeno di tenere
sotto controllo, malattie prima incurabili, e di sostituire con macchine funzioni organiche
irreversibilmente compromesse, non sempre consentano un accettabile livello di qualità della vita
dei pazienti di cui si riesce a procrastinare la morte;
i.i. dall’altro lato si evidenzia la crescente difficoltà per l’uomo occidentale, che non si
perita a mettere a repentaglio con le sue azioni la possibilità della sopravvivenza della propria e
delle altre specie, di accettare, e non solo di combattere, l’inevitabile precarietà e limitatezza
temporale della sua esistenza. Tale difficoltà spinge a coltivare l’illusione di un progresso medico
virtualmente infinito, capace di sconfiggere sofferenza e malattia, e, al limite, di ridisegnare la
nostra stessa natura di esseri mortali, destinati ad ammalarsi, ad invecchiare e a morire. Ma la
ricerca dell’autoconservazione ad oltranza può rovesciarsi, alla fine, nella negazione di ciò che ad
un’esistenza individuale dà ancora un senso e un valore rendendoci, anche in senso non metaforico,
delle semplici appendici delle nostre nuove tecnologie.
La crescente specializzazione e tecnologizzazione della medicina contemporanea, che la
rende sempre più efficace, se ha prodotto indubbi benefici, almeno per una parte dei cittadini delle
società occidentali, ha comportato anche un prezzo molto alto in termini di disumanizzazione della
stessa pratica medica; essa ha, cioè, condotto, come effetto controintenzionale, ad un progressivo
allentamento dell’attenzione per il malato in quanto persona, per i suoi bisogni, paure, sofferenze, e,
in alcuni casi, all’ abbandono di questi al rapporto impersonale ed estraniante con le macchine,
utilizzate a fini diagnostici e/o di sostituzione di funzioni vitali. Come ha sottolineato Hans Jonas,
uno dei filosofi più attenti agli effetti perversi delle nuove tecniche di differimento della morte,
non è solo al malato sofferente e ‘senza speranza’ che può capitare di trovarsi, a causa della sua
impotenza fisica di paziente sottoposto alle norme e controlli dell’istituzione ospedaliera, nella
condizione di prigioniero: prigioniero di “una terapia di sopravvivenza che gli fa dono di una vita
che egli non ritiene più degna di essere vissuta”. Prigioniero delle nuove tecnologie diviene, infatti,
il medico stesso che, in alcuni casi, può sentirsi trasformato in “tirannico e a sua volta tirannizzato
padrone del paziente”.
Si può allora concludere dicendo che la riflessione filosofica sull’ambivalenza dei successi
della tecnica moderna e dei suoi più recenti prodotti nell’ambito delle biotecnoscienze ha messo in
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evidenza come il problema dell’eutanasia (letteralmente ‘buona morte’) acquisti un valore
paradigmatico per quello che rivela dell’uomo contemporaneo e del suo rapporto col mondo: esso
rappresenta il modo in cui la nostra stessa epoca è stata costretta, suo malgrado, a confrontarsi col
problema della morte e con le difficoltà derivanti dal compito che abbiamo affidato alla medicina,
quello di non farci morire mai. Un compito di cui ormai abbiamo cominciato a dubitare.
31. Responsabilità e cura
Nel dibattito odierno sulle problematiche sollevate dalle biotecnologie e sulle modalità del
passaggio dalla ‘bioetica’ al ‘biodiritto’ una categoria morale ha assunto un ruolo centrale: quella di
responsabilità. Ma anche in questo caso ci troviamo davanti a un concetto polivalente, che si presta
a essere usato con significati molto diversi per dar corpo a prospettive normative sostantive -sia
sotto il profilo etico che politico-giuridico, che risultano dissimili o divergenti.
Quando si parla di responsabilità dal punto di vista morale, e non giuridico, si fa riferimento
a una nozione che, sotto il profilo dei suoi caratteri formali, tiene insieme più elementi:
l’attribuzione di responsabilità a qualcuno non equivale a limitarsi solo alla considerazione della
relazione causale che connette l’agente alle conseguenze delle sue azioni, ma “coinvolge anche le
intenzioni e i motivi di quella persona e la risposta che suscita nell’agente lo stato di cose che si è
prodotto” (E. Lecaldano, a cura di, Dizionario di bioetica).
L’assunzione di responsabilità viene ad indicare, più generalmente, un atteggiamento
dell’agente morale che include non solo l’impegno a farsi carico di qualcosa e a rispondere
interamente dei propri atti, ma anche la disponibilità a fornire ragioni per le proprie credenze e per
le proprie azioni.
Per molti rappresentanti della c.d. ‘bioetica laica’, le cui teorie convergono su un paradigma
comune che valorizza la nozione di autonomia del soggetto morale, l’implicazione sul piano
pubblico del concetto di responsabilità comporta che alle persone venga riconosciuto “lo status di
persone capaci di una vita riflessiva e critica”, sulla base di ben ponderate convinzioni. Fermo
restando che le scelte che procurano danno agli altri debbono essere oggetto di regolamentazione e
sanzione giuridica, a tutti i cittadini andrebbe garantita, pertanto, la più ampia possibilità di
sviluppare e esercitare la propria responsabilità morale anche nei nuovi contesti della bioetica,
evitando, cioè, il ricorso a norme severe, invasive della sfera personale e privata di chi è coinvolto
in prima persona. Sarebbe l’obiettivo stesso dello sviluppo della personalità e dell’autostima,
considerato come obiettivo irrinuciabile delle liberaldemocrazie contemporanee, a postulare
l’esercizio dell’autodeterminazione e la correlata assunzione di responsabilità, specie per le
questioni che segnano il profilo complessivo di un’esistenza e che si rivelano, nei singoli casi
concreti, caratterizzate dal conflitto reale fra più istanze e fra lealtà diverse. Una posizione
esemplare di quest’impostazione è quella difesa da Ronald Dworkin in Life’s Dominion, un testo
che si confronta con la questione del ‘giusto’ modo di gestire il conflitto sociale fra concezioni
confliggenti in materia di aborto e di eutanasia. Alla domanda se una comunità politica debba o
meno rendere i valori intrinseci una questione di decisione collettiva anziché di decisione
individuale, Dworkin risponde che compito di uno Stato liberaldemocratico non è quello di imporre
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ai cittadini cosa dovrebbero pensare sui valori etici e spirituali, bensì quello di incoraggiare gli
individui a diventare responsabili delle loro scelte nelle decisioni cruciali per la loro vita personale,
quali le decisioni sul se, come e quando procreare e sul come e quando morire.
Se vi è una convergenza di massima nell’argomentazione a favore di una politica che
rispetti il pluralismo morale e culturale, garantendo a ciascuno la possibilità di vivere (e di morire)
in accordo con i propri valori e credenze, diverse sono invece, anche nell’ambito ‘laico’, le
configurazioni sostantive dell’individuo responsabile a seconda che l’accento venga a cadere sulla
sovranità dell’agente, intesa come autosufficienza, o sulla natura intrinsecamente relazionale del
soggetto morale, un soggetto che è sempre parte di una rete di relazioni, variamente articolate. In
questa seconda prospettiva il concetto di responsabilità si presenta, nei suoi contenuti, complesso e
pluridimensionale: include in sé non solo la dimensione della reciprocità, che comporta il rispetto
della libertà dell’altro e la disponibilità al dialogo, al confronto delle ragioni, ma anche quella
dell’asimmetria delle posizioni, dei rapporti in cui l’ altro, chiunque egli sia, è un soggetto debole,
vulnerabile, dipendente dal nostro potere, e della cui sussistenza, benessere e crescita ci
impegniamo a farci carico. Così inteso il concetto in esame mostra in modo più diretto la sua
connessione con un' altra nozione, quella di limite: il comportamento responsabile richiede anche la
capacità di autolimitazione, nelle proprie scelte e nell’esercizio del proprio potere, comunque
questo si configuri.
Pensare la responsabilità come correlata ai concetti di relazionalità e di limite ci consente il
passaggio a un diverso piano della riflessione sulle nuove tecnologie, che sposta il centro
d’attenzione dalla dimensione individuale a quella sociale-collettiva della responsabilità nell’età
della tecnica e dell’interdipendenza planetaria: responsabilità nei confronti di chi pur lontano nello
spazio esiste già ed è influenzato dalle nostre azioni, ma anche nei confronti di chi non esiste
ancora.
In quest’orizzonte di più ampio raggio si colloca la proposta di Hans Jonas di una
riformulazione dell’etica che sia all’altezza vuoi dei rischi globali con cui oggi ci dobbiamo
confrontare, vuoi delle nuove minacce alla continuazione di una vita autenticamente umana sul
pianeta, come quelle che possono derivare da uno sviluppo incontrollato delle biotecnologie e delle
neuroscienze.
La riflessione critica di Jonas sui nuovi e inquietanti poteri di cui ci siamo dotati, sul
cambiamento qualitativo dell’agire umano e sull’enormità degli effetti cumulativi delle azioni
dell’uomo occidentale, effetti che per la prima volta nella storia dell’umanità appaiono irreversibili,
consente di mettere a fuoco il novum etico di cui lo sviluppo tecnico-scientifico ci ha fatto carico:
l’irrompere di dimensioni lontane, future, globali nelle nostre decisioni quotidiane pratico-terrene.
E’ questo novum etico a rendere necessaria, per Jonas, una ridefinizioni dei nostri valori e obblighi
sulla base di un principio cruciale, quello di responsabilità nei confronti delle generazione future,
che supera la visione antropocentrica per collegare il bene umano alla protezione dell’intera
biosfera, con tutta la ricchezza e vulnerabilità delle sue specie.
La mutata ottica, che pone al centro della scena etica il precetto di non lasciare ai
discendenti un’eredità devastata, eleva a valore di importanza decisiva per il mondo di domani
l’esercizio odierno, come singoli e come collettività, dell’autolimitazione, che deve poter progredire
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da una moderazione nell’uso del potere a una moderazione nella sua acquisizione. In altri termini, è
questo l’appello di Jonas, se si vuole riportare la corsa tecnologica sotto controllo extratecnologico,
come esige il principio di responsabilità verso le generazioni future, ma anche l’amore della dignità
e dell’ autonomia umana, la quale richiede che noi possediamo noi stessi e non ci facciamo
possedere dalle nostre opere. si deve riuscire a concordare, a livello mondiale, una politica di
ricerca più restrittiva e l’imposizione di freni all’applicazione di una serie di risultati scientifici,
riconoscendo, quale nuovo criterio guida, la regola ferrea ‘in dubio pro malo’ (nel dubbio si deve
dare ascolto alla prognosi peggiore).
Molte sono le critiche che sono state mosse al criterio di precauzione formulato da Jonas
per trattare l’incertezza in ambito tecnico-scientifico, come pure alla sua fondazione ontologicometafisica del dovere umano, ma quello che qui interessa evidenziare è il peculiare carattere del
principio posto a cardine della nuova etica della responsabilità e la sua connessione con un altro
concetto: quello di cura. Questo principio, sulla cui base si ridefinisce l’estensione dei nostri
doveri, lega infatti l’idea di responsabilità a una relazione asimmetrica, che esclude la possibilità
della reciprocità: il mio obbligo non trova un corrispondente nel dovere dell’altro. E’ l’umanità
futura, che non farà niente in nostro favore, a essere rimessa integralmente alla nostra custodia,
ovvero alle nostre cure. Non a caso Jonas individua nella responsabilità genitoriale il modello
originario di ogni altra forma di responsabilità, identificando in tal modo l’agire responsabile con
l’agire che si assume la ‘cura’ del debole e del vulnerabile (i bambini, le generazione future, la vita
extraumana del pianeta).
Il tema della cura e del ‘prendersi cura’ è un tema che atttraversa, con percorsi non lineari e
diverse declinazioni, molti ambiti della riflessione filosofica del XX secolo. Se in un primo periodo
la sua presenza rimane circoscritta all’esperienza teorica di alcuni settori del pensiero europeo
continentale –sotto l’influenza di quegli indirizzi che hanno posto l’accento sugli aspetti di fragilità,
vulnerabilità, dipendenza e insicurezza dell’ ‘essere umano’- negli ultimi decenni ha acquistato
visibilità e rilevanza anche nel dibattito etico-politico e bioetico dell’area angloamericana. In questo
passaggio di sponda un ruolo di rilievo è giocato dalla svolta che si verifica all’interno della
filosofia analitica che segna una ripresa di interesse per i temi della filosofia pratica e per le
questioni di etica applicata a casi concreti (come ad es. quelli al centro della riflessione bioetica).
Pur nella diversità dei percorsi filosofici e delle proposte teoriche e normative, l’ attenzione
per il tema della ‘cura’ -cura di sé, cura dell’Altro, cura del mondo - si articola sempre in una
prospettiva di problematizzazione critica delle strutture e dei presupposti dell’etica ‘moderna’,
nelle sue versioni utilitariste e deontologiche, e della visione del soggetto egemonico e unitario che
ne sta al centro. Il modello del soggetto autonomo e capace di legislazione universale, perché
capace di trascendere il suo radicamento in un corpo e la sua collocazione storica e relazionale, è
messo in discussione e contestato in quanto espressione di una visione troppo atomistica e astratta
della figura dell’agente morale. E a questa critica spesso si coniuga non solo un recupero del valore,
morale e cognitivo, delle emozioni e dei sentimenti, ma anche una maggiore consapevolezza
filosofica della complessità dell’esperienza morale, ossia della natura ‘poliedrica’ dell’etica, e della
varietà delle risposte possibili, eticamente rilevanti, al riconoscimento da parte di ciascuno del
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legame con gli altri: altri come noi e insieme necessariamente diversi da noi; da considerare, cioè,
tanto nelle loro caratteristiche astratte di agenti capaci di linguaggio, di azione, di
autoprogettazione, quanto nella loro concreta differenza e unicità biografica.
Ma anche per la ‘cura’, come sigla della condizione umana, vi è un mito originario, che si presta a
essere letto secondo un duplice registro interpretativo, dando luogo a una diversità di sviluppi
teorici e a peculiari intersezioni.
Il racconto sulle origini della cura, tratto da un testo latino e ripreso nel tempo da più autori,
narra che:
“ la cura stava attraversando un fiume quando scorse del fango cretoso. Pensierosa, ne raccolse un
po’ e cominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo su cosa avesse fatto, ecco che interviene
Giove. A questo punto, la cura prega Giove di infondere lo spirito a ciò che essa ha fatto senza però
sapere cosa sia. Giove acconsente volentieri, però poi la cura pretende di imporre il nome a ciò che
ha fatto e Giove non è d’accordo. Mentre Giove e la cura litigano interviene la Terra che reclama il
battesimo di ciò che è stato fatto in quanto parte del suo corpo, il corpo della Terra. I disputanti
eleggono Saturno, il Tempo, come giudice. La decisione di Saturno, incontestabile, è la seguente:
Tu, Giove, hai dato lo spirito e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato il
corpo e riceverai il corpo; poiché per prima fu la cura che diede forma a quest’essere, finchè esso
vive, lo possieda la cura. Per tutta la vita l’uomo è l’essere della cura e visto che proviene dalla
Terra, dall’humus, il suo nome è homo”
Il primo registro interpretativo del racconto rimanda alla lettura heideggeriana del mito:
l’uomo, in quanto essere per la morte, è al mondo come uomo della cura, dell’ angoscia per la
morte a venire. Il concetto di ‘cura’ intesa come angoscia, ansia, affanno, traccia un primo percorso
di sviluppo di questo tema.
Il racconto dell’origine può tuttavia esser letto anche in altra chiave, come mito ‘pre’ o
‘anti-cartesiano’, come una ‘parabola che sottolinea l’inscindibilità di psiche e soma, di spirito e
passione, secondo una visione olistica del soggetto-oggetto della cura. Ed è soprattutto quest’ultima
interpretazione a trovare spazio nella discussione filosofico-scientifica degli ultimi decenni, volta a
(ri)costruire, nel non facile dialogo fra varie competenze disciplinari, una visione più integrata
dell’individualità umana, o meglio una visione globale dell’uomo, quale necessario preludio per una
trasformazion, teorica e pratica, anche delle discipline biomediche e dei loro modelli
epistemologici.
In questa seconda prospettiva l’attenzione per il il tema della ‘cura’ si sviluppa allora nella
direzione di una specificazione più dettagliata del senso e delle componenti - cognitive, etiche ed
empatiche- del ‘prendersi cura’ come pratica relazionale, di scambio comunicativo, i cui fini sono
plurimi e mutevoli, dipendentemente dal diverso status dei soggetti della relazione e dalle situazioni
particolari: ripristinare uno stato precedente, lenire le sofferenze e non lasciare che il dolore del
corpo e della mente restringa i confini del ‘sé’ fino a rendere impossibile ogni rapporto col
‘mondo’, sostenere e rispettare, nella relazione terapeutica, la capacità di autodeterminazione dei
c.d. ‘pazienti’, ma anche agevolare una trasformazione evolutiva, una crescita (l’analogia più diretta
, in questo senso, è con le cure materne e con la relazione madre-bambina/o).
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L’ esigenza di ricomposizione dei vari aspetti dell’individualità del soggetto-oggetto delle
cure mediche in un sapere e una pratica che sia in grado di ricongiungere competenza tecnica e
interesse umano per l’aspetto biografico della malattia (nella lingua inglese illness è la malattia
vissuta, mentre disease è la malattia in senso organico), insomma di ricomporre cure e care, è tratto
distintivo anche di quel filone della bioetica nordamericana che più ha contribuito a riaprire una
riflessione critica sui caratteri della medicina scientifico-tecnologica occidentale, sui suoi valori e
scopi prioritari come sui suoi modelli formativi. Ed è anche grazie a questi orientamenti e alla loro
convergenza con istanze ed elaborazioni teoriche del pensiero femminista che il tema della cura,
nella sua accezione di ‘prendersi cura’, acquista una crescente rilevanza nell’ambito della filosofia
morale e etico-politica dell’area angloamericana.
Una tappa importanta di questo processo è segnata dall’uscita, negli anni ottanta, dell’ opera
di Carol Gilligan, In a Different Voice. Psychological Theory and Women’s Development, e dal
dibattito che ne è seguito, che ha funzionato da volano per una più vasta e articolata riflessione su
lacune e insufficienze delle teorie etiche egemoni e per l’esplorazione di nuove prospettive capaci
di coniugare un’ etica delle virtù, o del carattere, con un’etica del rispetto dei diritti e delle libertà
fondamentali.
Schematicamente, due sono i principali obiettivi del testo di Gilligan :
i. il primo è quello di svelare la parzialità delle teorie evolutive dell’identità e del senso
morale che hanno considerato il comportamento maschile come la norma e il comportamento
femminile come una sorta di devianza da tale norma; questi modelli della crescita umana, che dai
tempi di Freud hanno dominato nel panorama della psicologia dello sviluppo, sono criticati per la
loro visione squilibrata dell’ essere umano adulto, che fa coincidere la maturità con l’acquisizione
della consapevolezza della propria indipendenza e autonomia morale, mentre scarsa attenzione
viene prestata invece alla sensibilità per i sentimenti altrui e al riconoscimento dell’importanza dei
legami e del nostro essere-in-connessione.
In particolare, nel lavoro di Gilligan viene messa in discussione la ‘scientificità’ delle teorie
dello psicologo Lawrence Kohlberg e la pretesa neutralità del suo modello standard di maturità
psicologica e morale, identificata con la capacità di assumere un punto di vista imparziale da cui
riflettere sui valori societari e pervenire, seguendo una procedura formale, all’identificazione di
principi di giustizia universalmente applicabili. Modello che costituisce il corrispondente, sul piano
della teoria psicologico-evolutiva, della concezione della ‘persona morale’ di John Rawls e del
normativismo astratto dei filosofi liberal;
ii. l’ulteriore e più ambizioso scopo è quello di delineare gli aspetti rilevanti di una
prospettiva morale contestuale e relazionale: una care ethics fondata sul valore della responsabilità
verso l’altro, pur nel rispetto e fedeltà verso di sé, che si propone non come alternativa all’etica
astratta dei diritti e delle regole, ma come di essa integrativa, nel suo riconoscimento
dell’universalità del bisogno di compassione e cura.
Due ideali di rapporto umano sottendono questa più complessa concettualizzazione
dell’impegno morale: se il primo prevede che il sé e l’altro saranno considerati ugualmente degni e
trattati con equità, nonostante le possibili differenze di potere, il secondo prefigura che ciascuno
riceverà risposta e verrà incluso, nessuno sarà lasciato solo e fatto soffrire. Due visioni in tensione
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reciproca che, per Gilligan, riflettono la verità paradossale dell’esperienza umana: il fatto che ci
possiamo conoscere come individui separati solo nella misura in cui viviamo in connessione con
altri e che possiamo avere esperienza del rapporto soltanto nella misura in cui impariamo a
differenziare l’altro da noi.
In questo senso la proposta di Gilligan trova significativi riscontri in quel filone della
riflessione bioetica di cui Daniel Callahan è forse l’esponente più noto, quello che più si è
impegnato a promuovere un progetto di ‘riumanizzazione’ dell’istituzione medica fondato proprio
sulla valorizzazione del concetto di ‘care’.
I termini care e caring conoscono oggi una grande fortuna, tanto da esser entrati nel
lessico quotidiano ma, come accade per tutti i termini non facilmente definibili e oltremodo
suggestivi, corrono anche il pericolo di esser impiegati, nei più diversi contesti, con una valenza
fortemente retorica che finisce per svuotarli, ancora una volta, di ogni contenuto significativo. Può
essere utile pertanto mettere in evidenza come nel concetto di care, nel senso di caring, di prendersi
cura, ciò che rileva è soprattutto il riferimento a un insieme di disposizioni umane e morali (virtù)
quali: il senso di responsabilità e l’impegno nei confronti del benessere altrui, la disponibilità a
identificarsi con la sofferenza degli altri, la solidarietà nella condivisione
In questo senso l’agire morale, sia nella sfera personale-privata sia in quella sociale e
pubblica, viene a configurarsi come questione non solo di ragioni ‘appropriate’, ma anche di
emozioni e di sentimenti ‘appropriati’, all’interno di contesti relazionali di diversa natura, che
possono sempre facilitarne o inibirne lo sviluppo nel tempo.
Se forte è la somiglianza fra le disposizioni qualificanti la ‘relazione di cura’ nell’uno e
nell’altro indirizzo, tanto da aver dato luogo a una loro crescente e proficua interazione, diverse
sono invece le matrici a cui si fa riferimento.
Per il pensiero femminista l’attitudine al caring è ricondotta a un insieme di qualità
intellettuali e affettive specificamente femminili, anche se poi vi è sull’origine ultima di tali
disposizioni una divisione, che riflette una più profonda divergenza circa la natura della differenza
di genere sessuale: da una parte le esponenti del filone del maternal thinking radicano tali qualità e
competenze nel corredo psichico e corporeo di ogni donna perché le collegano all’esperienza della
maternità, dall’altra le correnti ‘antiessenzialistiche’ tendono piuttosto a evidenziare i
condizionamenti storico-sociali e culturali dell’ ‘identità femminile’ e delle attitudini ad essa
ascritte.
Per gli orientamenti interni al pensiero ‘bioetico’ che si sono impegnati a ridefinire il
modello epistemologico e operativo della professione medica l’intento è stato invece, quello di
promuovere un modello di medicina ancora capace di articolare al suo interno conoscenza tecnica e
sapere pratico, scienza e ‘arte’ della salute, rivalutandone, in questa direzione, l’ originaria
disposizione al ‘prendersi cura’ e alla costruzione di una relazione terapeutica fondata sul dialogo e
sulla solidarietà interpersonale; perché è proprio questa disposizione, considerata fondativa del
senso stesso della professione medica in tutta la fase della medicina classica, che poco aveva da
offrire in termini di terapie efficaci, ad essere compromessa dagli sviluppi e successi della medicina
scientifico-tecnologica odierna, che tendono a trasformare il medico in un tecnico della patologia.
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Furio Cerutti
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