Collana Memorie Paolo Pagnini I ragazzi della via Bovio La guerra e gli anni quaranta nei ricordi di un bambino Collana Memorie Paolo Pagnini I ragazzi della via Bovio La guerra e gli anni quaranta nei ricordi di un bambino Illustrazioni di Francesco Morosini 2 Presentazione Con la pubblicazione del libro “I ragazzi della via Bovio”, la Banca di Credito Cooperativo di Gradara vuole dimostrare ancora una volta, la sua vicinanza al territorio e la sua sensibilità nel valorizzare quelle che sono le espressioni vere e tradizionali della sua gente. Abbiamo accettato la proposta di pubblicare questo libro, perché Paolo Pagnini è espressione delle nostre tradizioni, della nostra storia; è un cittadino di Cattolica che ha raccolto storie e memorie da trasmettere alle future generazioni; è uno di noi, che ha voluto raccontare alla nostra comunità, le sue memorie, i suoi ricordi, le sue esperienze giovanili; ha voluto riviverle con tutti noi e con i suoi coetanei. Ne viene fuori uno spaccato della sua fanciullezza, e quella di un gruppo di bambini, classe 1934-1937, ( quelli di via Bovio), che hanno vissuto nel clima drammatico nel secondo conflitto mondiale e nel periodo immediatamente successivo. Attraverso queste pagine emergono gli antichi giochi, lo sfollamento per sfuggire ai bombardamenti, la loro paura nei confronti dei soldati tedeschi, le bombe, l’arrivo degli alleati, la rivalità delle bande rivali, le tradizioni del lunedì di Pasqua, i veglioni, i balli, i personaggi. Seguendo l’evolversi degli eventi, così come vengono riportati, pur calati nella realtà attuale, ci ritroviamo facilmente in quei ricordi, riusciamo ad individuare quei luoghi, ad immedesimarci in quei giochi, in quegli atteggiamenti e soprattutto in quei personaggi, dai contorni e dai volti ben definiti. Riscopriamo una Cattolica che non è più quella di 3 allora, ma che è molto simile, e Pagnini ne è un testimone importante. La valorizzazione delle memorie locali è una peculiarità della BCC di Gradara; vogliamo conservarle, perché determinanti a spiegare le caratteristiche di un luogo, di una località, a raccontare il pensiero della gente, a conoscere meglio una comunità in un periodo storico ben determinato, da confrontare con il presente. Credo che in questa direzione, il nostro Istituto si sia impegnato moltissimo, e diverse sono le pubblicazioni di successo. Dopo i tre importanti volumi: “C’era una volta Cattolica. Ricordi e immagini”, “Gradara, Gabicce, Cattolica. Luoghi e vicende del tempo passato fra battaglie finte e guerra vera” e “C’era una volta un’altra Cattolica” del Prof. Guido Paolucci, che abbiamo esaurito, ma che ancora ci richiedono anche i turisti che amano Cattolica; dopo il libro di Peter Tonti: “Da la Vantena in giù”, anch’esso esaurito; dopo i volumi di Vincenzo Cecchini sulle poesie dialettali; dopo le splendide pubblicazioni di storia locale della Prof.ssa Maria Lucia de Nicolò e quelle sulla marineria, che hanno sensibilizzato i lettori e gli appassionati oltre i confini nazionali, per l’importanza e la rigorosa valenza scientifica degli argomenti. Siamo lieti di presentare questo lavoro di Paolo Pagnini “I ragazzi della via Bovio” perchè cattura l’attenzione e ci accompagna in un piacevole giro alla riscoperta di Cattolica: la Cattolica degli anni 40, prima bella e spensierata e già stazione turistica conosciuta, poi sofferente, ma ricca di entusiasmi e di iniziative che le fanno ritrovare, nel breve giro di pochi anni, quel dinamismo e quella volontà che la riportano ai giorni d’oggi. Paolo Pagnini risveglia i nostri ricordi, ci porta indietro negli anni e con i suoi racconti ci rende ancor più consapevoli del tempo che è passato, che ha cambiato i nostri pensieri, le nostre convinzioni, ed i nostri volti, ma che ha sostanzial- 4 mente lasciato invariato la nostra città, con qualche cosa in più, di cui siamo orgogliosi, con qualche cosa in meno, di cui abbiamo il rimpianto. Attraverso questi appunti, l’autore si sofferma sulla sua vita da bambino e di quella di altri coetanei, e cerca di fissare, in maniera quasi distaccata, quei ricordi, ma soprattutto quelle sensazioni e stati d’animo che lo hanno accompagnato, cercando, in questo modo, di tramandare degli insegnamenti, alle nuove generazioni. Rispetto a quegli anni forse Cattolica porta alcune cicatrici ed alcune rughe in più; conta una popolazione diversa e più numerosa, ma è sempre bella e affascinante, in attesa di essere riscoperta e raccontata, lusingata dai complimenti, dalle manifestazioni di affetto che i suoi cittadini ed i numerosi turisti continuano a darle. Fausto Caldari presidente della BCC di Gradara 5 Nell’ambito delle produzioni editoriali promosse in questi ultimi anni dalla Banca di Credito Cooperativo di Gradara, dopo le memorie autobiografiche del prof. Guido Paolucci, la ‘cronaca in vernacolo’ di Giuseppe Tonti (Peter), i quadri di quotidianità in poesia di Vincenzo Cecchini, si aggiunge con gli scritti di Paolo Pagnini un altro squarcio sul passato più recente, messo in luce attraverso le avventure di un gruppo di bambini, cresciuti a Cattolica nel clima drammatico dell’ultimo conflitto mondiale e i primi anni del dopoguerra. La trama, autobiografica, pone in un ruolo protagonista la “banda dal Viel”, composta da un manipolo di coetanei (classe 1934-1937), tutti residenti lungo la via Bovio, al Viel, appunto, che rivive nel diario dell’autore, immerso in un paesaggio familiare e in un insieme di divertimenti, anche pericolosi, e di birichinate dove spiccano l’esuberanza, il desiderio di scoperta, lo spirito di avventura e la solidarietà propri dell’infanzia, inseriti in uno scenario di vita quotidiana minuziosamente descritta, che accoglie anche altri personaggi, azioni e aneddoti. Al ricordo dei giochi antichi (il cariol, i pallini di terracotta, i figurini, la lippa, le spade, le cerbottane, la costruzione della ‘tana’ di canne, quale punto di ritrovo della compagnia, le sfide fra i ragazzi), si lega una serie di racconti, sull’esperimento dell’ “Idrolitina alcolica”, sulle presenze militari, su azioni di guerra e ripercussioni nella vita della gente; su fatti tragici, sull’abbandono di Cattolica per sfuggire ai bombardamenti; sul rifugio nel casolare di campagna e conseguenti disagi; 6 sull’arrivo degli alleati e sui loro alloggiamenti; sui giochi pericolosi quando Cattolica risultava un “deposito a cielo aperto di armi e munizioni”. La penna dell’autore si cimenta nel ricostruire sulla carta una sequenza di visioni, con la partecipazione di figure che gli furono care e che rivivono in uno spazio temporale ripensato, quello di una fanciullezza che vive, negli anni dell’ultimo conflitto mondiale, una sorta di crocevia di vita e di morte in cui si intrecciano anche vicende private, di conoscenti e di stranieri. Questi ultimi, soldati nemici e alleati, lasciano i bambini in uno stato di confusione, rendendoli incapaci a distinguere ‘buoni’ e/o ‘cattivi’ fra i militari di diversa appartenenza che si succedono in quel lasso di tempo. Assai significativa, a questo riguardo, risulta la descrizione dei pantagruelici rinfreschi assicurati ai militari inglesi, che si servivano “potendo scegliere tra ogni ben di Dio” nel giardino di Villa Fulgida, mentre “tutti noi stavamo con il viso schiacciato contro la cancellata a goderci con gli occhi ciò che gli altri mangiavano”, per vedere poi che “le rimanenze erano buttate” senza tener conto che “molte famiglie … soffrivano la fame”. Prima la paura dei soldati tedeschi, le bombe, lo sfollamento, poi l’arrivo degli alleati con “l’enorme quantità di derrate alimentari al seguito”, ma sempre stenti per la popolazione civile, a dimostrazione che, indipendentemente dagli schieramenti, “la guerra mette in evidenza il lato peggiore della nostra personalità”. Un efficace ammaestramento per il bambino spettatore! Il passaggio della guerra aveva istruito anche su altro, essendo diventata Cattolica un ‘campo minato’ dove la curiosità dei bimbi poteva causare tragedie: “sapevamo distinguere una cartuccia incendiaria da una perforante o da una tracciante; sapevamo ciò che potevamo trattare e ciò da cui potevamo stare alla larga come i proiettili con la spoletta”. Nel dopoguerra l’atmosfera 7 cambia, si rientra nella normalità e gli scontri ‘armati’ ritornano ad essere solo quelli fra le bande rivali dei bambini che si fronteggiano, incuranti delle ‘guardie’ comunali: “i ragazzi dal Viel, allora Principe di Piemonte”, contro quelli “dal Guazz, via Dante e dintorni” o gli altri “d’la Piàza” e “d’la Catòlga vecia”, a suon di “spade” costruite con ramoscelli e sughero, fionde e “toc dal barbet”, come sfida e atto di derisione per l’avversario. Il ‘museo’ dei ricordi fa scorrere le sfide, i nascondigli, fabbricati antichi come area di conquista. È il caso della Torre abbandonata, già osservatorio meteorologico del dott. Angelo Ferri, dietro la casa dell’ing. Giuseppe Attilio Balducci situata in via Umberto I, ora via Cattaneo. Riaffiorano riti stagionali come la gita a Castel di mezzo del lunedì di Pasqua con l’immancabile scorpacciata di lupini “i luven”, i cortei “rossi” e “bianchi” per la ricorrenza del 2 novembre in ricordo dei morti; la descrizione di villa Rudi e della scimmietta, il macac d’la Rudi, la moglie del dottore, donna generosa, anticonvenzionale e tanto amante degli animali. E ancora i veglioni, i balli e i primi incontri con le ragazze, i personaggi “speciali… diversamente svegli”. Paolo Pagnini insomma, suggerisce in queste pagine una riflessione su un passato che coincide con lo svolgersi della sua vita di bambino e adolescente insieme alle persone che lo hanno cresciuto, accompagnato, formato e, al contempo, ricompone un’immagine di quella fanciullezza che, attraverso i luoghi di percorrenza, offre il ritmo a tutta la scrittura e ai ricordi che risalgono in superficie. La riflessione è determinata dal desiderio di fermare su carta “esperienze di vita vera e reali” come pungolo anche per altri “testimoni di storie passate” di raccontare “un sistema di vita” inimmaginabile ai giovani di oggi e che possa servire da monito. L’immagine invece è quella di Paolo bambino e della 8 ‘banda’ spensierata di viale Bovio alla scoperta del piccolo mondo che li circondava, quello di “una Cattolica che non esiste più”, ammaestrati, loro malgrado, anche dagli eventi drammatici della guerra, vista e sofferta. Il diario inizia con pensieri sugli svaghi ed emergono poi vari soggetti, un paese, una comunità semplice, schietta e collaborativa che Pagnini osserva in casa e in strada, in riva al mare e nella campagna, senza esprimere giudizi, ma con lucida attenzione. Fuoriesce una cronaca, presentata con ironia e con garbo dall’autore che rivede distaccato se stesso bambino, portandosi a riflettere sui comportamenti di allora suoi, degli amici e degli adulti, ma anche su gente, ambiente, abitudini e atmosfere oggi perduti, magistralmente tradotti per il nostro godimento, in piccoli quadri pittorici dall’abile pennello di Francesco Morosini. Maria Lucia De Nicolò 9 Prefazione Alla mia famiglia: l’unica, vera, grande ricchezza che ho su questa terra. Cattolica, negli anni ’30 era un piccolo paese di mare, ma per me che ci sono nato era ed è la più bella cittadina del mondo. Al momento della notifica in Comune del mio ingresso ufficiale nella comunità di Cattolica, di fronte a mio padre ed a due testimoni, l’impiegato dell’anagrafe annotò: alle ore tredici e trenta del giorno ventitre febbraio millenovecentotrentacinque, anno tredicesimo dell’era fascista, è nato in Via del Porto in Cattolica, provincia di Forlì, Paolo, Walter, Giorgio Pagnini, di Mario e Filippucci Gina. Ero ufficialmente “arrivato”. Poco tempo dopo i miei genitori rileveranno dalla famiglia Prioli (i Matiin), almeno così credo, l’osteria situata nella piazzetta in fondo a Via Giordano Bruno. Il locale prese il nome di “Gina” che insieme a quello della “Pepa” in Piazza Mercato e quello della “Norina” in Via Pascoli angolo Via Saffi, formavano il triangolo storico più gradito di molta povera gente. Con il passare del tempo dopo varie vicissitudini e difficoltà, dopo la guerra e il dopoguerra, finalmente arrivò negli anni ’50-‘60 il cosiddetto miracolo economico. Il locale piano piano si trasformò da vendita quasi esclusiva di vino in una tradizionale trattoria romagnola. Mia madre ne era l’anima vitale. Sue erano tutte le iniziative e le prelibatezze tipiche 11 accompagnate da una gentilezza, spontaneità ed un carattere estroverso che la portarono in breve tempo a diventare un personaggio conosciuto anche all’estero, specialmente fra i turisti svizzeri e tedeschi. Il sindaco Micucci, dopo la sua morte, ritenne opportuno intitolare la Piazzetta a suo nome: “Piazzetta della Gina”. Nei miei racconti e nei miei ricordi tuttavia sentirete nominare sempre gli “zii”. Questo è dovuto al fatto che sono stato cresciuto fin dalla tenera età di dieci mesi dal dott. Rudi e da sua moglie, che si presero cura di me con amore per sottrarmi ad una situazione, a quei tempi, di grosse difficoltà per chi nasceva gravemente cagionevole di salute. Il primo motivo che mi ha spinto a mettere per iscritto i miei ricordi è dovuto al fatto che non volevo che esperienze di vita vera e reali, anche se di poco conto, potessero essere dimenticate. Il secondo motivo o meglio “aspirazione” forse un po’ presuntuosa, è che possa stimolare altri testimoni di storie passate a raccontare le proprie vicende, per contribuire ognuno nella propria individualità, a tramandare alle nuove generazioni la conoscenza di un sistema di vita non facilmente concepibile dai giovani d’oggi. Nelle scelte del titolo, ho volutamente parafrasato quello del celebre romanzo di Molnar: “I Ragazzi della via Pal”, in quanto ho ravvisato delle affinità tra il romanzo ed i miei racconti. Nel suo libro, infatti, l’autore racconta le disavventure di un gruppo di ragazzi, impegnati in dure battaglie con una fazione avversaria per la conquista di un terreno alla periferia di Budapest; una storia commovente con un finale drammatico: la morte del soldatino Nemecsek, nel vano tentativo di dar manforte ai compagni nell’ultima battaglia. Ne “I ragazzi della via Bovio” facendo naturalmente la dovuta tara, racconto, con un po’ di ironia,storie di bambini, le loro scorribande i loro scontri con le bande rivali e l’ambiente in cui si sono svolte. 12 Sarei uno sciocco se volessi fare un confronto con lo scrittore magiaro, ma penso che un piccolo riconoscimento il mio racconto lo meriti comunque: mi sono sempre attenuto scrupolosamente alla verità nel racco tare le avventure di un gruppo di ragazzi in una Cattolica che non esiste più. Colgo l’occasione per esternare la mia gratitudine ai cari amici: Magda Gaetani, l’impareggiabile prof. che ha corretto tutti i miei errori. Giuseppe Tirincanti, Ferdinando Montanari e mio figlio Mario che hanno trasferito i miei brogliacci manoscritti su supporti informatici. In fatto di scrittura sono rimasto affezionato al cartaceo ed alla vecchia penna biro servendomi al massimo, sporadicamente, di una vecchia macchina per scrivere. Un ringraziamento speciale va a Francesco Morosini che con i suoi disegni è riuscito a cogliere con bravura e ironia lo spirito e l’anima dei miei racconti scritti. Una particolare considerazione merita la cara amica Lucia De Nicolò, che nonostante i tanti gravosi e gratificanti impegni, ha trovato il tempo anche per presentare questi miei semplici racconti. Un grande onore per me, a lei un commosso grazie. Infine un grazie di cuore alla Banca di Credito Cooperativo di Gradara, al suo Presidente ed a tutta la dirigenza, sensibili come sempre a tramandare ricordi e tradizioni del nostro territorio. Grazie perché hanno permesso di concretizzare la mia aspirazione più grande: quella di veder pubblicate in un libro le mie avventure di bambino. A tutti costoro va la mia riconoscenza. Paolo Pagnini 13 Gli anni della guerra Solo l’affettuosa insistenza e l’incoraggiamento di famigliari e amici carissimi mi hanno indotto, vincendo la mia ritrosia, ma con una punta di presunzione, a scrivere queste righe che non hanno la pretesa di essere un saggio storico. Esse sono solo una semplice testimonianza, vista con gli occhi di bambino, di una vita modesta e frammentaria; testimonianza di come si viveva in un periodo particolare lontano anni luce dalla nostra opulenta società. Lungi da me il pensiero di “mettere le mani avanti” ma mi corre l’obbligo di scusarmi con il lettore se il racconto non avrà una trama ma appena un filo logico. Questo è dovuto al fatto che esso è il frutto di ricordi che vengono da un lontano passato in cui la memoria fa fatica a dissipare la polvere dell’oblio che si è sedimentata in ben più di 65 anni. Nella speranza di non annoiarvi mi affido alla vostra comprensione e benevolenza se non sarò stato all’altezza delle vostre aspettative. A mia difesa il fatto che non sono nemmeno uno scrittore dilettante ma solo un vecchio, brontolone, ragioniere in pensione. 15 La compagnia “dal Viel” Era la tarda primavera del 1943 e per noi bambini una come altre; non potevamo capire cosa ci capitava intorno data la nostra età, la nostra spensieratezza e perché no, la nostra incoscienza. Il pericolo faceva parte della quotidianità e noi lo accettavamo come fosse una cosa normale. Parlando di noi intendo gli amici inseparabili: Enzo (Enzo Benvenuti classe 1936), Fabio (Fabio Casicci classe 1936), Manen ad Ciavarol (Mariano Semprucci classe 1936), Sandren ad Macaron (Alessandro Ercoles classe 1937) ed io, Paolo Pagnini, al fiol dla Rudi classe 1935. I fratelli Cecchini, Tonino e Vincenzo, si uniranno a noi dopo il passaggio del fronte. Abitavamo tutti a pochi metri l’uno dall’altro nel “Viale”, allora Viale Principe di Piemonte ora Viale Bovio. Alla mattina, quando si poteva si andava a scuola e il pomeriggio lo si passava giocando in strada. A seconda della stagione si giocava con i pallini di terracotta, ai figurini, alla lippa, con le spade, le cerbottane e così via. Sul far della sera ci ritrovavamo in Piazza della Fontana dove gli appassionati di tamburello si davano appuntamento per partite memorabili e tra quelli che ricordo c’erano Mario Tombari, Nullo Rondini e Rico Galluzzi. Un giorno, avendo visto alcuni bambini di una “banda” rivale girare per la strada 17 18 pavoneggiandosi con un “cariol” (carrettino) costruito da loro, abbiamo deciso di farne uno anche noi in un modo molto artigianale. Abbiamo inchiodato alle estremità di una cassetta per il pesce fornita da Manen che apparteneva ad una famiglia di pescatori due manici di scopa in modo che sporgessero dai bordi per la lunghezza di circa 10 centimetri. Per le ruote, Bonci il falegname, ce ne fece quattro con un bel buco al centro per la cifra di 5 lire. Tutto sembrava andare per il meglio a parte la difficile governabilità del mezzo! Per la prova andammo in “cima dla costa dal cumun” (la salita di Via Mancini) . Avendo pagato io le 5 lire salii per primo; una bella spinta dagli amici e via a tutta forza! A metà strada incominciai a sentire puzza di bruciato ma non ci feci caso perché ero tutto preso dal “ demone della velocità”. All’altezza dell’allora Teatro Zacconi (ora complesso Ariston) alcune poco rassicuranti fiammelle e un gran fumo mi fecero capire che la nostra opera d’arte stava andando a fuoco. Puntai i piedi contro l’asfalto ma riuscii a fermarmi solo dopo la Piazza Nettuno. I nostri sogni si infransero contro il principio fisico dell’attrito, aiutato anche dal fatto che avevamo lubrificato le ruote con un po’ di petrolio. 19 Idrolitina ‘alcolica’ Era uno di quei pomeriggi di inizio estate del 1943 che sembrava non avere nulla di particolare ma….un certo qualcosa nell’aria, non saprei dire cosa, non faceva presagire niente di buono. Gli amici non li avevo trovati, lo zio era uscito per le visite ai pazienti (allora usava così) e la zia era andata a trovare delle amiche. Ero rimasto solo in casa con le due donne di servizio, la Maria e l’Anna, intente a svolgere le loro faccende. Nel tinello-veranda che divideva la cucina dal garage, vicino al caminetto, era posto uno strano mobile. Nella parte superiore racchiudeva un grammofono con relativo spazio per enormi dischi. Nella parte centrale, dietro due ante di vetro bombato, si potevano intravvedere diverse bottiglie di liquore che andavano in quegli anni per la maggiore: Strega, Triple-sec, Maraschino, Anisette ed il cognac Stock che allora si poteva chiamare così, ma dal 1947, con il trattato di pace, i francesi ci imposero di non usare più quella parola tipica della loro originale zona di produzione. Scartato il termine “Arzente” che sapeva troppo del passato regime, si optò per “Brandy” di origine anglo-sassone entrato poi nell’uso comune. Non volevo divagare ma mi vedo costretto ad una breve dissertazione sull’”Idrolitina”. Questa era un prodotto che 20 21 serviva a trasformare la comune acqua in “acqua minerale gassata”.A quei tempi quella addizionata di anidride carbonica non era in uso, esisteva solo il “Seltz” ma era appannaggio esclusivo dei bar, pardon delle “mescite” ( allora le parole straniere erano bandite per ordine del governo)! Si presentava in una piccola scatola gialla contenente venti bustine, dieci di un colore e dieci di un altro, sufficienti per dieci litri di acqua. Dopo averle versate una dopo l’altra, in una bottiglia d’acqua subito chiusa ermeticamente, si aveva “magicamente” dell’”acqua minerale frizzante”. Se non si era veloci nella chiusura succedeva la fine del mondo con conseguente fuoriuscita del tutto. Perché tutto questo preambolo? Perché è sempre stata mia intenzione raccontare alla buona le mie storie, darvi notizia delle abitudini e del contesto in cui, noi bambini, anche se tra mille difficoltà, abbiamo avuto il privilegio di vivere. Quindi…. In quel pomeriggio pieno di noia, per dare una ventata di novità ebbi una bella pensata! Perché non fare un po’ di bollicine con tutti quei liquori? Detto-fatto. Con l’aiuto della fida Maria, mia complice di tante birichinate, riempii una bottiglia e aggiunsi le famose due bustine. Risultato? Una montagna di schiuma! Di quell’intruglio ne bevvi purtroppo un bicchiere intero. La prima sensazione fu di euforia, con il passare dei minuti si trasformò in nausea, poi in vertigini. Mi avviai barcollando , verso l’orto. Le nostre due oche diventarono ai miei occhi, tre o quattro. Capii che qualcosa nel mio cervello non funzionava bene. Mi diressi allora, non so perché, verso la strada canticchiando la celebre canzone molto in voga in quegli anni “Lili Marlene”: “tutte le sere sotto quel fanal …” sedendomi alla base di un lampione. Intervennero le mie badanti che con molta fatica cercarono di portarmi a casa, ma io, malcerto sulle gambe, imperterrito continuavo a straziare i timpani con “anche stasera aspetterò e tutto 22 il mondo scorderò con te Lilì Marlene …”.A questo punto credo di avere perso i sensi. Arrivato lo zio, non sapendo nulla e vedendomi in quello stato, ebbe il sospetto che mi avessero fatto del male. Mentre mi portava in braccio sul letto dell’ambulatorio, continuava a ripetere con voce disperata:”me l’hanno avvelenato, me l’hanno avvelenato!” Ad un più attento esame capì subito che, grazie a Dio, anche se era una cosa seria non ero in pericolo di vita. Naturalmente non ricordo nulla di tutto quel che accadde. Mi dissero che avevo perso conoscenza per ben due giorni. Quando mi svegliai le prime parole che dissi furono.”zia non ti preoccupare, sto bene”! Nel mio lettino di degenza ebbi praticamente l’affettuosa compagnia di tutto il viale: dalle Gagie (sorelle Benvenuti) alla Rusnen (Rosina Tomassini), da Enzo a Manen, tutti cercavano a loro modo di rincuorarmi e di essermi vicini. Quando mi alzai mi affacciai alla finestra, attratto da delle voci conosciute. Vidi nel giardinetto che separava le due proprietà la Vanna Ballotta abbandonata su uno sdraio; a quei tempi l’omonima farmacia era ubicata proprio lì, dove ora si trova il negozio “la Brandina”. Chiesi alle persone che le facevano corona cosa era successo; mi rispose suo zio Ennio (forse) che per sbaglio la ragazzina aveva bevuto un sorso di vino! Poi continuò in dialetto:”Te cum stè, ho savù che t’è fat una bela gata!” “Non c’è male” risposi, pensando tra me e me, ma guarda un po’ cosa non farebbero le femmine per mettersi in mostra! Per concludere anche quella volta mi andò bene. Certo l’avevo fatta grossa! Posso assicurarvi che fu la prima e ultima volta che feci la “gatta”! 23 I tedeschi in casa Una notte, a casa, sentiamo dei grossi colpi contro il portone; mia zia intuisce il pericolo, prende la valigetta, che è sempre a portata di mano con tutti i valori di famiglia, la appende ad un gancio del muro esterno che serviva a tenere ferma la persiana. Lo zio, il dottor Rudi, va ad aprire e quattro o cinque tedeschi, visibilmente stanchi e sporchi, con gli occhi fuori della testa e le armi spianate ci intimarono di uscire subito facendosi capire in uno stentato italiano, che erano di ritorno dal fronte e che volevano dormire in un letto. Così ci ritrovammo, in men che non si dica, in mezzo alla strada con il solo pigiama addosso. Mia zia, la signora Rudi non si perdette d’animo: chi l’ha conosciuta sa che era una donna molto energica e dalle mille risorse. Il caso volle che nello stabile accanto a casa nostra, oggi Residence Suisse ed allora, se ben ricordo, era la Pensione Augusta, ci fosse un comando tedesco. Lei andò a bussare in vestaglia e camicia da notte. Allo sbigottito piantone cominciò ad urlare, metà in veneto e metà in italiano, di andare a chiamare subito un ufficiale. Nel giro di pochi secondi ne arrivarono tre e il più alto in grado, forse un colonnello, capito cos’era successo, si diresse subito verso casa nostra seguito dai suoi colleghi. Aprì la porta, 24 vide i soldati e urlò come solo i tedeschi sanno fare qualche ordine a quei malcapitati che, raccolte le loro cose in un battibaleno, si precipitarono fuori sparendo nella notte. L’ufficiale ci salutò sbattendo i tacchi e anche lui uscì con il suo seguito. Un giorno di mattina suona l’allarme (una sirena ubicata nella torre del Comune con un lungo ululato comunicava alla cittadinanza un pericolo imminente e con 25 due brevi il cessato allarme). Io ed Enzo, che giocavamo in strada, ci precipitiamo a spiaggia; ci sdraiamo e volto lo sguardo al cielo vediamo una dozzina di B27 (le famose fortezze volanti americane) sganciare il loro carico di morte. Le bombe sembravano piccoli coriandoli luccicanti che scendevano verso terra ad una velocità spaventosa. Il bersaglio era il ponte ferroviario sul fiume Conca. Il risultato per gli aviatori era sempre sconfortante un po’ per l’eccessiva altezza di volo degli aerei, dovuta al fatto che sul monte Vici, in postazioni scavate nel tufo, c’erano diversi cannoni antiaerei tedeschi e un po’, credo, per la scarsa precisione dei puntatori americani. Sta di fatto che il ponte non lo “beccarono” mai nonostante le quasi quotidiane incursioni. Cessato l’allarme tornammo nelle nostre care per tranquillizzare i nostri famigliari. Verso sera, passo per caso di fronte al Caffè Commercio ( ubicato nell’angolo tra l’odierno Viale Bovio e Via Matteotti dove attualmente c’e la filiale della Cassa di Risparmio. Allora era di proprietà della famiglia Cavallucci: Angiulen ‘d Caplena, la moglie Erminia, la madre Emilia Baldassari (Milia ‘d Caplena), i figli Tonino, Agostina ed Amedeo).Vedo Angiulen che seduto ad un tavolo ascoltava il racconto concitato di due amici dei quali non ricordo il nome e mi avvicino per ascoltare. “A simie tla Conca quand d’un trat a santin dal Mont Vici a sparè a tota forza e po’ l’inferne; li bombie li scupieva dimpartot, tal mer, tal fiom, sora li colonie, nun an savimie andò ch’endè e l’oniche punt quert l’era al pont…..avin fat una gran cursa e finalment ac sin pudù arparè sota un’archeda”. A questo punto Angiulen non li fece continuare, si alzò e gli disse: “A sì do pataca!” E se ne andò. Un altro giorno, nella tarda mattinata, era appena suonato il cessato allarme e noi eravamo a spiaggia per scavare una grande buca che nelle nostre intenzioni doveva servire come rifugio durante i 26 bombardamenti. Alcuni battelli pescavano a poche centinaia di metri dalla riva e dal porto stava uscendo una chiatta armata tedesca. All’improvviso vediamo sbucare dalle nubi due caccia inglesi (forse Spitfire) di ritorno da uni dei tanti bombardamenti su Rimini; avvistata la preda si avventarono su di essa come falchi e facendo zig-zag tra le vele dei pescatori, tra varie cabrate e picchiate scaricavano le loro mitragliatrici sull’imbarcazione nemica provocando centinaia di fontanelle nell’acqua così come avremmo potuto vedere negli anni successivi nei film di guerra. I tedeschi rispondevano come potevano al fuoco nemico. Il terribile spettacolo durò non più di una manciata di secondi e poi gli aerei sparirono così come erano venuti. Per me fu una incredibile emozione non priva di un suo fascino crudele: era la guerra ed io non avevo che nove anni. Sapemmo poi che ci furono tra i militari tedeschi alcuni feriti ed un morto, falciato da una raffica di mitraglia. 27 I disagi e le paure della guerra In quei giorni era praticamente impossibile trovare qualcosa di decente da mangiare. Ci si doveva accontentare delle scarse e pessime razioni che il tesseramento concedeva. Quel poco che si poteva trovare al mercato nero aveva dei prezzi esorbitanti. Così mia zia, per racimolare qualcosa di commestibile, si mise d’accordo con un amico di famiglia, Gino Tirincanti che aveva una “Topolino”, non so come, funzionante e cosa ancora più incredibile, ancora con un po’ di benzina. Si partì in tre: Gino, mia zia ed io. Il viaggio in cerca di cose da mangiare, tra i casolari delle campagne dell’entroterra, durò tutto il pomeriggio. Il risultato fu abbastanza buono: una bottiglia d’olio, qualche chilo di patate ed un sacchetto di farina; c’era da esserne soddisfatti. Sulla via del ritorno tra San Giovanni e Cattolica, seduto sul sedile posteriore mi godevo l’aria fresca avendo la macchina la capotina abbassata. Ad un tratto “zia, zia” urlai “un aereo!” Un caccia inglese stava puntando su di noi. Facemmo appena in tempo a fermare la macchina ed a buttarci nel fosso che una sventagliata di mitraglia ci sfiorò di pochi centimetri. L’aereo compì una virata e sparì tra le nuvole. Riprendemmo la strada per casa ringraziando in cuor nostro tutti i santi del paradiso per lo scampato pericolo. 28 29 All’inizio dell’estate le cose incominciarono a peggiorare. Il comando tedesco, nella previsione (poi risultata errata) che gli inglesi avrebbero fatto uno sbarco a Cattolica per aggirare la linea gotica che resisteva tenacemente agli attacchi degli alleati, ordinò a tutti gli abitanti dalla ferrovia al mare di abbandonare le loro case e cominciò lo sfollamento. Nel giro di pochi giorni i miei zii riuscirono a pendere in affitto una casa a Saludecio e vi si trasferirono in tutta fretta. Trasportarono tutto ciò che poterono: mobili di valore, vestiario invernale, materassi, coperte e quant’altro. Un baule intero di argenteria venne sotterrato nell’orto di casa. Precauzione inutile perché alcuni mesi dopo verrà trovato, con il “metal-detector”, da un soldato canadese in cerca di mine. Non voglio certamente generalizzare ma, per quello che ricordo, i canadesi erano i più buoni di cuore verso la popolazione ma altrettanto “spensierati” per ciò che riguardava la proprietà altrui. Infatti, dell’argenteria, nonostante le nostre ricerche, non ne sapemmo più nulla. Il mattino seguente io, la mia dada (ora si direbbe baby-sitter) e la donna di servizio avremmo dovuto precedere gli zii e raggiungere la nuova abitazione ma un contrattempo, la mancanza di un mezzo di locomozione, ce lo impedì. Fu una grande fortuna per noi perché nella stessa giornata, un bombardiere alleato colpito dalla contraerea, prima di precipitare sganciò il suo carico di bombe senza curarsi troppo di dove sarebbero cadute. Una finì a Saludecio proprio sulla casa che avevamo preso in affitto. Tutto andò perduto; quel poco che si salvò fu “raccolto” dai vicini, ma noi non potemmo recuperare niente! Le conseguenze le avremmo patite nel freddo inverno che sarebbe seguito. A questo punto i miei famigliari decisero che sarei stato il primo mese con i miei genitori che si erano trasferiti a Sant’Ansovino nella casa dei nonni materni, poi con gli zii 30 che nel frattempo avrebbero cercato un’altra sistemazione. Mio padre Mario passò a prendermi in bicicletta; salii sulla canna e ci avviammo verso la nuova dimora a circa 14 Km di distanza. Alla prima salita dopo Morciano ci dovemmo fermare in un’aia di contadini: un carro armato “tigre” ci stava raggiungendo: era meglio cedergli il passo! Verso sera arrivammo a destinazione e ci vennero tutti incontro: i nonni Augusto e Maria, due degli zii, Stella e Pino che aveva solo quattro mesi più di me, mia madre Gina e mio fratello Nereo. La casa faceva parte di un ghetto di 5-6 abitazioni con in mezzo una piazzetta. Entrai. Al piano terra c’era una stanza con il focolare, una madia, una credenza, un tavolo con qualche sedia e in un angolo un secchiaio con un orcio pieno d’acqua e al centro pendeva un lume a petrolio. Al piano superiore si accedeva mediante una scala di legno; c’erano due stanze: una per i nonni e gli zii e una per noi. Dal soffitto pendeva un asse di legno trattenuto da quattro cordicelle con sopra alcuni formaggi pecorini messi a stagionare. Chiesi a mia madre dov’era il bagno e lei mi prese per mano e mi condusse nell’orto. Dietro ad una pozza d’acqua che serviva per lavare i panni c’era un piccolo recinto di canne alto più o meno un metro, con in mezzo una buca semicoperta da una tavola di legno. “E’ questo” mi disse. “E la carta igienica?” replicai nella mia ingenuità. “Quella lì” mi rispose indicandomi una piccola pianta dalle grandi foglie verdi. Quella sera, nel mio lettino di fortuna, piansi. L’avvilimento, data l’età, durò poco. L’indomani mi portarono a spigolare (termine che indicava la possibilità, per le famiglia meno abbienti, di poter raccogliere le spighe di grano rimaste nei campi dopo la mietitura). Anch’io ne racimolai un bel mazzetto che portai a casa tutto orgoglioso. Le giornate passavano apparentemente tranquille, almeno per noi bambini, tra corse nei campi e giochi nuovi. 31 Di questi, quello che mi affascinava di più era “LA BOTA”, nel senso di scoppio, esplosione, segno precursore del “bombarolo” che sarei diventato da lì a qualche mese. Sotto la guida esperta dello zio Pinen, di cui ero a pieno titolo allievo e complice, diventò il mio passatempo preferito. Tra i modesti strumenti di illuminazione di quei tempi c’era la lanterna all’acetilene: una macchinetta dalla forma e grandezza di una caffettiera napoletana. Come combustibile si usava il carburo, elemento usato allora anche per saldare i metalli, elemento che aveva la peculiarità di sprigionare un gas infiammabile al contatto con l’acqua, appunto l’acetilene. Il nostro arnese , miscelando opportunamente i due elementi emetteva quel gas da un apposito beccuccio. Una volta acceso, emanava una vivida e brillante fiammella. Quando il materiale era esausto veniva gettato ma subito recuperato da noi bambini per i nostri giochi: si modellava una ciotola con della creta, lasciando un buco nel centro, con la quale poi coprivamo accuratamente una piccola buca., riempita precedentemente con il carburo e dell’acqua. Da debita distanza poi, servendoci di una lunga canna e di un fiammifero, facevamo saltare la piccola mina; il risultato era veramente appagante per noi: un sordo boato ed una miriade di innocue schegge di fango sparse tutto intorno. Mi stavo adattando bene al nuovo tipo di vita! Qualche volta accompagnavo la zia Stella che con il solito orcio andava alla fonte a prendere l’acqua, bene prezioso e scarso da usare sempre con parsimonia. I nonni possedevano due pecore che i figli a turno portavano a pascolare. Ogni tanto mi univo a loro, un po’ per fare compagnia e un po’ perché mi piaceva camminare in quei luoghi immersi nella natura e sempre nuovi per me. Al calar del sole, dopo una cena sempre frugale, ci si riuniva con i vicini nella piazzetta. I grandi mi affascinavano sempre con i loro racconti, le loro 32 storielle ed aneddoti. Specialmente mio nonno catturava la mia attenzione quando parlava della sua gioventù e delle sue peripezie di emigrante in Svizzera. Tutto era così sommesso, pacato. Quando si rientrava andavamo subito a letto sia per la stanchezza, sia perché non c’era la luce ed il petrolio per la lampada non si poteva sciupare perché era caro ed era difficile da reperire. 33 Il tempo passato in campagna Giorno dopo giorno arrivò il tempo di tornare dagli zii. Questi nel frattempo avevano trovato una buona sistemazione nella casa colonica dei Giuvanton, che ancora oggi si può vedere semi-diroccata di fronte al casello autostradale di Cattolica. I Giuvanton erano una bella famiglia patriarcale composta da Matteo con la moglie Caterina, il figlio Giulio sposato con Maria, la figlia Bruna appena più piccola di me, Luigi detto Bigion il più estroverso e simpatico, la Pali una bellissima donna purtroppo sfortunata ed Enrico. Mi sistemarono in un lettino, trasformando opportunamente un’ottomana, nel corridoio del primo piano. Così divenni membro a tutti gli effetti della nuova comunità che comprendeva anche le famiglie Merli e Rifelli; queste, meno fortunate di noi, avevano trovato una sistemazione alquanto precaria in due cabine da spiaggia montate sotto una tettoia del deposito degli attrezzi agricoli. Queste cabine (i capan) erano state requisite dal Comune e distribuite a chi ne faceva domanda. Al’’indomani mattina notai che ferveva una certa attività proprio in mezzo ad un campo di granturco e incuriosito mi avvicinai. Giulio e Bigion avevano appena finito di scavare una grande fossa e la stavano coprendo con delle tavole. Qualcuno mi 34 spiegò che lo scopo di quella fatica era di nascondere il maiale che altrimenti sarebbe stato requisito dai soldati in ritirata. Quella stessa sera udimmo due enormi esplosioni: i tedeschi avevano fatto saltare i bastioni ovest e nord del porto, per renderlo inagibile al naviglio alleato. I tempi stavano cambiando rapidamente e i pericoli aumentavano. Nessuno me lo diceva ma lo percepivo dagli atteggiamenti degli adulti che erano sempre più preoccupati, nervosi e cupi in volto. Quel giorno che tutti aspettavano, il giorno della liberazione, stava per arrivare. La Linea Gotica aveva ceduto dopo scontri violentissimi e i tedeschi seppur lentamente si ritiravano. Era questione di ore. La notte seguente non andammo nel rifugio che gli uomini avevano appron- 35 tato nel greto del Ventena ma restammo in casa in attesa degli eventi. Si udivano rumori di cingoli, ordini secchi in tedesco, spari isolati, qualche raffica di mitragliatrice, un correre di soldati e poi la calma. Alle prime luci dell’alba si sentì una voce gridare: “Sono arrivati, sono arrivati!” Mia zia, presa dalla curiosità, si alzò da sotto il grande tavolo in cui ci eravamo rifugiati, aprì un poco le persiane e vide, a 50 metri di distanza un carro armato sulla strada. Fece appena in tempo a chiudere la finestra e venire accanto a noi che quattro colpi fortissimi, quattro cannonate colpirono la nostra casa. Fu il finimondo: vetri, calcinacci, stoviglie, tutto ci crollava addosso. La paura, le urla delle donne, poi, un silenzio assurdo, irreale. Ci alzammo quasi contemporaneamente chiamandoci per nome. Eravamo delle maschere di sudore, polvere e sangue ma miracolosamente, salvo qualche escoriazione, illesi. Erano arrivati gli alleati ed era il 2 settembre del 1944. Gli Inglesi montarono un accampamento nelle vicinanze con annessa cucina e così avemmo modo di notare l’enorme quantità di derrate alimentari di cui disponevano. Le cannonate a noi procurarono, grazie a Dio, solo qualche graffio ma nella stalla le cose andarono diversamente perché un bue fu ferito gravemente e dovette essere ucciso. Nulla fu sprecato. Il giorno dopo, un poco probabile banco da macelleria sorse al centro dell’aia. I primi avventori furono i soldati alleati ma come si sparse la voce ed anche amici, conoscenti e gente del vicinato venivano a fare gli acquisti. Bigion, improvvisatosi macellaio, serviva tagli molto approssimativi ma nessuno ci faceva caso. Una cosa però attirò la mia attenzione: ogni qualvolta una sposa si avvicinava al banco, Bigion puntualmente con un gran sorriso offriva in vendita due specie di “limoni” appesi con una cordicella ad un paletto, aggiungendo scherzosamente: 36 37 “Toh! Compra anche quest’i chè; ma te a nal so mo mal tu marid i farà ben ad sigur!” E tutto finiva in una risata. Nella mia innocenza non capivo di cosa si trattasse ma pensando di fare bella figura, all’avvicinarsi di una cliente, mi feci avanti e le ripetei in italiano la frase di Bigion:”Compri anche questi signora, non so a lei ma a suo marito faranno bene di certo!” Non finii l’ultima parola che mia zia, celando malamente un sorriso, mi diede uno scappellotto dicendo:”Chiedi subito scusa alla signora!” Ubbidii senza capire perché ciò che era permesso a Bigion non lo fosse per me. L’ingiustizia dei grandi! Durante quel periodo l’amico carissimo Enzo Benvenuti mi veniva a fare compagnia tutti i giorni, avendo le zie e la nonna (le Gagie) trovato casa nelle vicinanze e la mamma aveva trovato lavoro a Roma. Si andava molto d’accordo, eravamo veramente affiatati e le marachelle effettuate poi dalla nostra “banda” erano quasi sempre imputate alle nostre iniziative. Un giorno, Enzo, la Bruna (figlia di Maria e Giulio Fronzoni) ed io, stavamo girando per i campi in cerca di uova. Qualche volta le galline avevano l’abitudine di non farle nel pollaio ma in giro nei pressi dell’aia. Non trovando niente avemmo una bella pensata! Ci dicemmo: invece di perdere tempo a cercare a caso prendiamo una gallina, le facciamo una casetta e così le uova le depone lì! Presto detto, presto fatto. Rimediati un po’ di paglia, canne, sterpi e qualche mattone, riuscimmo a costruire un piccolo recinto coperto. Il difficile fu però prendere il pollo. I Giuanton avevano anche un certo numero di galline nane, meno veloci delle altre, così ci buttammo su di loro riuscendo a prenderne una, quella che a noi sembrava più bella. La mettemmo in quella specie di capanna con una ciotola d’acqua e un po’ di granaglie, sperando nella sua buona volontà! Aspettammo: il giorno dopo, niente! Sul far della sera la Maria, tutta preoccupata, 38 girava per i campi a cercare Chicco, il più bel gallo di razza nana che era sparito. “Im l’ha rubè, im l’ha magnè” pensava ad alta voce. Sentii e capii subito che avevamo fatto un “tragico” errore. Andai di corsa verso quella specie di piccola prigione, prima che la scoprissero e liberai l’animale che tutto giulivo si mise a correre verso il vero pollaio. Credo che i “grandi” avessero capito i nostri intenti, molto probabilmente la Bruna si era fatta scappare qualche parola. Per me non ci furono sgridate, almeno così mi ricordo, ma solo qualche occhiata che mal celava un certo sorriso di comprensione per la nostra marachella. L’iniziativa di noi tre bambini, anche se i propositi erano buoni, non ebbe successo. La nostra pretesa si scontrò inesorabilmente, anche questa volta, con una delle più importanti leggi della natura: i galli non fanno le uova. 39 Ritorno a casa. Mesi pericolosi A questo punto per andare avanti devo fare una premessa: tutte le notti un aereo leggero tedesco veniva a ridosso del fronte per sganciare qualche spezzone incendiario o qualche piccola bomba. La sua presenza era diventata tanto abituale che la gente lo chiamava scherzosamente “Pippo”. Una sera mentre eravamo a tavola per la cena, Pippo arrivò, silenzioso come sempre, sulla verticale della nostra casa e lasciò andare uno spezzone. Uno schianto! L’ordigno aveva colpito in pieno una sentinella inglese straziandone il corpo. Una scheggia trapassò la porta e colpì la Maria; la paura fu tanta ma le conseguenze insignificanti: un buco nella sottana ed una leggera bruciatura all’altezza del ginocchio. Poteva andare peggio! Alcuni giorni dopo gli zii decisero di tornare a Cattolica. Salutarono tutti calorosamente, caricarono le poche cose su un carro trainato da due buoi e partimmo. Arrivati in paese ci si presentò uno spettacolo desolante; la città era deserta, piena di reticolati, il nostro bel viale ridotto in uno stato pietoso. I maestosi pini, tagliati alla base e incrociati l’uno con il suo dirimpettaio, ostruivano il passaggio. La nostra casa era stata colpita da una cannonata e non era abitabile. Anche per queste ragioni lo zio accettò l’incarico di dirigere l’Ospedale Civile che si sta- 40 va predisponendo nell’albergo Gambrinus nell’attuale Viale Mancini (nel fabbricato ove attualmente si trovano il caffe’ Gambrinus, negozi ed uffici). I mesi che seguirono furono senz’altro difficili e pericolosi ma sicuramente indimenticabili, e lasciarono in me tanti ricordi che, se avrete la bontà e la pazienza di seguirmi in queste note, dividerò con voi i più interessanti. Nel frattempo gli amici di sempre erano 41 tornati nelle rispettive case e così la vecchia compagnia si ricompose. Le strade erano state liberate dagli ostacoli ma il paese non era stato ancora completamente bonificato dalle mine. Conoscevamo le zone più pericolose avendo fatto una certa esperienza e sapevamo dove mettere i piedi: comunque ce ne stavamo sempre ad una certa distanza! Meno fortunato fu il nostro ex giardiniere Natale Facondini che, alle dipendenze del Comune, nella sistemazione di Via Fiume saltò in aria su una di esse perdendo la vita. Lasciò la moglie e tre figli in tenera età. Cattolica era diventata un deposito a cielo aperto di armi e munizioni; le si trovava dappertutto ma in modo particolare nella “casa degli spiriti”, l’ultima villa di Via Carducci, lato mare, verso le colonie all’altezza dell’odierno Hotel Luxor. Non ho mai saputo il perché di questo nomignolo: forse perché era una casa isolata o forse perché qualcuno vi aveva visto aggirarsi qualche “entità”. La terza ipotesi era quella che se saltava in aria avrebbe reso tutto “puri spiriti”: a voi la scelta. C’erano tonnellate di cartucce, bombe fumogene e di mortaio, proiettili d’artiglieria e bombe a mano. Quelle che andavano per la maggiore fra di noi erano le bombe a mano incendiarie che chiamavamo “a liquido” perché una volta tolta la sicura e lanciate, dopo pochi secondi esplodevano provocando una fontana, appunto di liquido, che al contatto con l’aria si incendiava bruciando tutto ciò con cui veniva in contatto. Oggi può sembrare una cosa assurda ma a quei tempi, tutto quell’arsenale era per noi bambini fonte di giochi e di divertimento quotidiano. Tutto il tempo libero lo passavamo a disinnescare, neutralizzare, sparare, far scoppiare tutto, ma proprio tutto. Avevamo acquisito un’esperienza da fare invidia ad un artificiere dell’esercito. Sapevamo distinguere una cartuccia incendiaria da una perforante o da una tracciante; sapevamo ciò che potevamo trattare e ciò da cui dovevamo 42 stare alla larga come i proiettili con la spoletta. La nostra simpatia andava ai proiettili inglesi perché a differenza di quelli americani, la polvere da sparo in essi contenuta aveva la forma di sottili spaghetti che noi, con un procedimento particolare riuscivamo ad estrarre per poi adoperarli per fare fuochi, mine o “zaganelle”,una specie di piccolissimi missili che oggi potremmo chiamare “razzi stupidi a propellente solido”: Per fabbricarli usavamo solo i nostri spaghetti, cannelli di canna o di qualsiasi tubo che riuscivamo a trovare. Potevamo fare concorrenza a Von Braun! Un giorno, avendo finito le scorte, andammo alla “casa degli spiriti” per fare rifornimento. Eravamo Enzo, Tonino Fabio, Manen ed io. Riempite le tasche e le mani, scendevamo le scale per uscire quando ci si parò davanti un soldato americano che con la pistola spianata ci fece alzare le mani e consegnare tutto il nostro bottino. In quel mentre vidi scendere per le scale un rivoletto di liquido…. Era Fabio che se l’era fatta addosso! In quella scomoda posizione rimanemmo per una manciata di secondi, che a noi parvero secoli.. Come vedemmo, però, rimettere nel fodero quell’arma, intuimmo che ci avrebbe lasciati andare e, prima che riuscisse a proferire una parola, con un salto acrobatico ci gettammo dalle finestre (sotto, per fortuna, c’erano grandi mucchi di sabbia) correndo con tutte le nostre forze lontano da quel luogo “tristo e maledetto”. Quell’avventura finì senza conseguenze, grazie a Dio, ma solo con un po’ di paura. 43 Il materiale bellico con cui “giocavamo” (per gentile concessione del Museo della Linea dei Goti di Montegridolfo 44 45 Gli Alleati e i nuovi giochi dei ragazzi In quel periodo gli alleati avevano predisposto, presso l’hotel Kursaal, un ospedale da campo. Era sempre un viavai di autoambulanze militari che venivano a depositare il loro carico di dolore. Una volta sentimmo uno strano odore, dolciastro e nauseante, venire dalla piazzetta a destra dell’odierno Mc Donald’s. Ci avvicinammo e vedemmo ciò che non avremmo mai voluto vedere: in un grosso bidone, il famoso barile di petrolio, dei resti umani, frutto di diverse amputazioni, bruciavano lentamente tra garze, stracci e benzina. Riuscimmo a scorgere nettamente una gamba ed un braccio con la mano rattrappita che cedendo al calore stavano carbonizzandosi. Scappammo via perché era troppo anche per noi. Meglio cambiare discorso e parlare di cose meno lugubri. Una banda che si rispetti come la nostra, aveva bisogno di un covo. Lo trovammo adatto alle nostre necessità: il mio pollaio! Era tanto grande che poteva ospitarci tutti; dotato di una porta e di una finestra faceva proprio al nostro caso. Da un recipiente di lamiera ricavammo, con un po’ di ingegno, una stufetta che funzionava benissimo. Si andava verso l’inverno e un po’ di calore 46 47 ci avrebbe fatto bene. Inoltre potevamo cucinare qualche vivanda, non ultime le patate americane, quelle dolci, per noi una novità. Nel nostro vagabondare, in una casa ancora non abitata dai proprietari, il nome dei quali non farò mai neanche sotto tortura, trovammo sotto alcune mattonelle sconnesse un vero tesoro per l’epoca: un bottiglione pieno di chicchi di caffè che al mercato nero sarebbe costato una fortuna! Invece di dividerci il bottino e far felici i nostri familiari decidemmo di goderci noi quella manna inaspettata. Fabio rimediò un macinino tra i giocattoli della sorella e trovare un pentolino fu un gioco da ragazzi. In men che non si dica, seduti intorno alla stufa, con un certo orgoglio bevemmo quel nettare prelibato precluso ormai da anni alla stragrande maggioranza degli italiani. Fu la prima ed ultima volta perché, vuoi per il profumo che si era sparso nell’aria,vuoi perché qualcuno di noi aveva fatto la spia, quando tornammo il giorno dopo nel nostro covo del caffè nessuna traccia. Era sparito! Anche in questo caso il famoso detto “la farina del diavolo finisce sempre in crusca” faceva al nostro caso. Gli alleati, per meglio rifornire il loro enorme parco di automezzi, avevano costruito un oleodotto. Non so da dove venisse ma attraversava tutta la spiaggia da Est ad Ovest per arrivare, molto probabilmente, fino a Rimini. Era composto da tubi con un diametro di una quindicina di centimetri, imbullonati l’uno con l’altro. Gli inglesi non avevano fatto il conto però con il tipico spirito di iniziativa, chiamiamolo così, della gente italica. Dopo un po’ di tempo, non si sa come, all’altezza della Villa Fulgida, alcuni bulloni si allentarono. Il risultato fu che una grande quantità di benzina era stata assorbita dalla sabbia, senza contare quella asportata nelle ore notturne. Appena gli alleati se ne accorsero successe il finimondo: minacce, inchieste, interrogazioni, ma i colpevoli non furono mai trovati. 48 Dopo pochi giorni tutto si insabbiò e tornò come prima. Solo il mercato nero dette segni di ripresa: circolava anche la benzina! Noi ragazzi avevamo escogitato un mezzo molto semplice per recuperare “l’oro rosso” intrappolato nella sabbia: facevamo una buca profonda quel tanto da far affiorare l’acqua, prendevamo una bottiglia che riempivamo con quel liquido, poi la capovolgevamo tenendola chiusa con il pollice e appena la benzina che era più leggera saliva in alto, spostando leggermente il dito si faceva uscire l’acqua ed il gioco era fatto! Il tempo passava, la guerra era finita e si tornava lentamente alla normalità. Sarà per queste ragioni che il comando inglese fece approntare un Luna Park sulla spiaggia di fronte all’ex cinema Arena Mare aperto a tutti. Era delimitato da un telone alto circa due metri ed all’interno c’erano vari giochi ed intrattenimenti per grandi e piccoli. Un gioco in particolare attrasse la nostra attenzione: si doveva, calciando un pallone, colpire una figura e chi ci riuscita vinceva un premio. La nostra immaginazione non aveva limiti ed escogitammo un piano per entrare in possesso del pallone che per noi, abituati a giocare con una palla fatta di caucciù e stracci, sarebbe stato il massimo. La sera stessa lo mettemmo in azione. Entrai al Luna Park, pagai il biglietto, l’inserviente mi consegnò la sfera di cuoio che sistemata calciai con forza cercando di far fare al pallone la traiettoria più alta possibile. Così avvenne, il telone era stato sorvolato. Mentre io fingevo con il soldato addetto tutta la mia costernazione per il mio calcio maldestro, i miei complici l’avevano già recuperato e stavano fuggendo a gambe levate. 49 Nuove disavventure Era sicuramente la primavera del 1945: i miei amici andavano quasi tutti scalzi. I primi tepori allontanavano definitivamente i rigori di un inverno rigidissimo, affrontato da tutti noi malamente, non avendo la possibilità di difenderci dal freddo pungente con indumenti adeguati. Alcune famiglie più fortunate di noi, venute in possesso, non indaghiamo come, di qualche coperta militare, erano riuscite a confezionarsi qualche capo di lana, materiale veramente “pregiato” e introvabile a quei tempi. Ricordo che io indossavo un maglione di “lanital”, tessuto derivato da un trattamento speciale della caseina del latte, ed un paio di calzoni la cui stoffa derivava dalle fibre delle ginestre. Residui questi dell’autarchia (l’essere autosufficienti in tutti i campi) voluta dal fascismo alla fine degli anni trenta, in risposta alle “inique sanzioni” decretateci dalla Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. I tempi erano quelli di “faccetta nera” . Quei tessuti, oltre a non proteggere dal freddo, avevano l’inconveniente che ogni qualvolta si lavavano si allungavano vistosamente, tanto che mia zia, per non farmi fare la figura di Pulcinella, doveva accorciarmeli di una decina di centimetri! Ai piedi portavo un paio di stivali militari, cedutimi da mio padre, che avevano però 50 un difetto, quello di essere un quarantatre ed io a dieci anni calzavo a malapena un trentotto! Tutto questo era la conseguenza della caduta di quella bomba sulla casa presa in affitto a Saludecio e della conseguente perdita di tutti i nostri indumenti invernali. A questo punto credo di aver divagato un po’ troppo e chiedo scusa cercando di entrare subito nel merito di quello che avevo in mente di raccontare. Casa mia era ancora disabitata e a volte, come in questa occasione, diventava la sede di qualche nostra birichinata. Un giorno in compagnia di Enzo, Fabio, Manen, Sandren e forse anche uno dei fratelli Cecchini eravamo al primo piano intenti a giocare con qualche cartuccia, quando arriva Mario Lorenzi, di qualche anno più grande di noi, con in mano una specie di “spaghetto” enorme: almeno un 51 centimetro di diametro e circa 40 centimetri di lunghezza. “L’ho preso da un bossolo di cannone” ci disse mentre noi lo ammiravamo estasiati. Affacciandoci sul cortile notammo 4 o 5 galline che razzolavano pigramente. Ci guardammo negli occhi: la medesima idea ci balenò nella mente! Mario scagliò lo “spaghetto” violentemente verso il suolo…..e un boato assordante ci investì e vedemmo quei poveri animali che, starnazzando a più non posso, erano stati scagliati verso l’alto in una nuvola di polvere e penne! Allibiti dallo scompiglio che avevamo combinato, non aspettammo di vedere come sarebbe finita quell’avventura, in pochi secondi scendemmo le scale e appena fuori, dandoci un contegno di assoluta innocenza, con tutta la calma possibile ci allontanammo dal luogo del misfatto. Non abbiamo mai saputo che razza di esplosivo avevamo lanciato. Molto probabilmente si doveva trattare del detonatore di un proiettile di artiglieria. All’Hotel Fulgida gli Inglesi avevano aperto una cucina per la truppa. Credo che fosse sempre in funzione perché, bontà loro, servivano la colazione, lo spuntino, il pranzo, il famoso the delle cinque e la cena. Per noi bambini era un avvenimento per cui, se avevamo tempo, valeva la pena andare a curiosare, ma non era così per altri che mossi soprattutto dalla fame speravano di racimolare qualcosa da mangiare. I cuochi, con i loro pentoloni, si disponevano nel giardino davanti all’entrata. I soldati in fila indiana passavano davanti con i loro vassoi potendo scegliere tra ogni ben di Dio: carne, verdure, insaccati, formaggi ed il famoso pasticcio dolce di riso per non parlare delle enormi e bianchissime fette di pane. Tutti noi stavamo con il viso schiacciato contro la cancellata a goderci con gli occhi ciò che gli altri mangiavano! Quando tutto era finito le rimanenze erano buttate in enormi bidoni. Se qualcuno, spinto a ragionare più con lo stomaco che 52 con la testa, attraversava il cancello per recuperare qualche cosa rovistando tra i rifiuti, spesso veniva preso a calci nel sedere, strattonato e buttato fuori. Bisogna sempre tenere presente che quelli erano tempi duri e molte famiglie vivevano nell’indigenza più assoluta e soffrivano spesso la fame. Questa mia testimonianza non vuole essere un atto di accusa contro nessuno né voglio generalizzare il comportamento di qualche singolo soldato. Resta il fatto però che il trattamento subito da quei bambini non era dei più umani! L’unica attenuante è che la guerra mette in evidenza il lato peggiore della nostra personalità. Nell’estate del 1945, mia zia Venerina e la signora Rosina Francolini Binda con le due figlie Gigina (Luisa) e Carla, coadiuvate da alcuni volonterosi dei quali purtroppo non ricordo il nome, organizzarono nei locali dell’Arena Sole una sala da ballo. L’iniziativa era a scopo benefico per cercare di aiutare, con il ricavato, alcune famiglie veramente bisognose. Ci volle tutta la loro buona volontà e tanto spirito di sacrificio ma alla fine riuscirono nell’intento, Rimediarono un’orchestrina di 3 o 4 elementi; per il “buffet” riuscirono a racimolare un po’ di vino, aranciata e qualche liquore. Con l’aiuto del Sindaco (nominato dagli alleati) Gino Morbiducci, riuscirono a reperire le materie prime per cucinare in casa un po’ di biscotti e pasticcini. L’iniziativa ebbe successo nonostante i tempi bui, ma una sera, forse perché qualcuno aveva esagerato con l’alcool, per futili motivi vennero alle mani alcuni cattolichini e soldati inglesi. Spuntò un coltello ed un militare cadde a terra ferito ad un fianco. Il colpevole, noto ai presenti , riuscì a dileguarsi. La polizia militare non riuscì mai a sapere chi era stato. Le conseguenze però furono gravi perché il locale fu dichiarato “off limits” e praticamente fu chiuso. Gli alleati oltre alla cucina, la cantina e il luna park avevano pensato, tanto per non farsi mancare 53 niente, ad un campo da calcio. Il posto ideale era la zona dietro al Municipio dove a quei tempi c’erano solo terreni da semina. In men che non si dica, con i loro bulldozer riuscirono a trasformarli in un campo da gioco, ma c’era il problema che potevano usarlo solo loro. Qualche volta la squadra inglese sfidava quella del Cattolica. Qui cominciavano i guai perché sia per il poco addestramento dei nostri, sia per le assenze dovute alla guerra e alla prigionia la nostra compagine aveva pochi titolari. Tra questi mi piace ricordare Gaudenzi (Mandulena) l’ala e Mazzocchi il portiere. Tutti cercavano di supplire alla superiorità degli avversari con tanta buona volontà. Se poi aggiungiamo il fatto che gli Inglesi volevano vincere a tutti i costi, in questo aiutati spudoratamente dall’arbitro che era uno di loro, c’erano tutti gli elementi perché gli animi si scaldassero e la situazione diventasse ingovernabile. Si cominciava con i soliti insulti, si continuava con qualche spintone e si finiva a botte e con l’invasione del campo. A questo punto, precedute dal suono delle sirene, arrivavano le jeep della polizia militare che con maniere un po’ spicce, con molte manganellate e qualche colpo di pistola sparato in aria, riuscivano a riportare la calma al prezzo di un fuggi-fuggi generale. La domenica dopo, alla solita ora, si ricominciava tutto da capo. 54 Immagini di morte e pericoli In quel periodo si stabilì nel viale anche la famiglia Cecchini e così i figli Vincenzo e Tonino vennero a far parte della nostra “banda”; Piero era appena nato. Nel frattempo, nella parte nuova del Kursaal, gli alleati aprirono una “cantina” cioè un ritrovo, una specie di bar per soli militari. La pasticceria, sempre sotto controllo inglese, che la riforniva era ubicata in quello che diventò il Caffè Nettuno. Tutti i giorni alla stessa ora, un carretto pieno di ogni ben di Dio faceva la spola tra l’una e l’altra. L’omino addetto al trasporto, arrivato ai piedi della scalinata, prendeva una cassetta di dolciumi, saliva pigramente le scale, entrava ed esattamente dopo 40-45 secondi riappariva per scaricarne un’altra. Il tempo era sufficiente e non potevamo perdere questa occasione! Ci appostammo dietro l’angolo e quando il garzone della pasticceria, oltrepassò la porta noi scattammo come molle e in pochi secondi …..via, in una corsa sfrenata con il veicolo ed il suo prezioso carico verso il luogo più lontano possibile da occhi indiscreti, dove, in pochi minuti facemmo sparire ogni traccia del “corpo del reato”! Ancora oggi fantastico sull’espressione che avrà avuto il malcapitato,all’uscita, nel non ritrovare più né il veicolo né il suo pregiato contenuto. Anche questa volta scoppiò una grana. La polizia militare non si dava pace; interrogava, chie- 55 56 deva, minacciava … tutto inutile. I responsabili non furono mai trovati. Forse solo il buon don Giocondo sapeva la verità! Un pomeriggio di non so quale giorno, eravamo nella spiaggia antistante l’Hotel Fulgida intenti a disinnescare alcuni proiettili, vedo un po’ appartato Tonino che giocherellava con una bomba a “liquido”. Mi accorsi subito che non aveva più la sicura e allora urlai: “buttala, buttala” ma non mi capì, mi precipitai verso di lui, gli strappai l’ordigno dalle mani e lo scagliai in mare. Fece appena in tempo a toccare l’acqua che con un tonfo sordo scoppiò. Ci era andata bene! Tonino si ricorderà certamente di questo episodio! Verso le ore dodici di una giornata, per quanto mi ricordo, d’inizio estate, ero con gli zii seduto a tavola davanti ad un piatto di maccheroni quando ad un tratto entra Enzo di corsa. “Paolo” dice tutto trafelato, “è arrivato a terra un soldato morto!” Prima che i miei avessero il tempo di fermarmi eravamo già in strada e correvamo verso il mare. Arrivati, lo spettacolo che ci si presentò fu davvero pietoso ed impressionante: gonfio come un pallone, un aviatore americano aveva spiaggiato, probabilmente precipitato con il suo bombardiere molto tempo prima. Lo abbiamo riconosciuto dalla sua uniforme, una spessa tuta di montone imbottito che doveva ripararlo dal freddo polare delle alte quote, dalla quale spuntavano solo il viso e le mani ma più che sufficienti per capire lo stato di deterioramento di quel povero corpo. Era rimasto solo lo scheletro con qualche brandello di carne putrefatta che fluttuava nello sciabordio dell’acqua. Non vi dico del fetore che lascio immaginare a voi. Stava arrivando gente e credemmo opportuno tornare a casa. Sapemmo poi che quei miseri resti ebbero cristiana sepoltura nel cimitero di guerra inglese a Gradara. Enzo non so, ma io mi rimisi a tavola a finire quel piatto di pasta. Con queste righe si chiude la fase bellica. Poi venne il periodo del dopoguerra non altrettanto interessante ma ugualmente denso di avvenimenti ed aneddoti. 57 Il dopo guerra 59 Lentamente la vita riprende Dopo la fine dei miei racconti sul periodo bellico, mi accingo a continuare la narrazione dei miei ricordi d’infanzia: le vicissitudini di ragazzi come me, tutti poco più che bambini, nei mesi successivi al periodo bellico. La guerra era finita. Le truppe alleate vincitrici avevano lasciato l’Italia. La vita pur tra mille difficoltà, cercava di riprendere il suo cammino verso la normalità. La popolazione, umiliata e offesa per una guerra che non era stata sua, aveva cominciato a rialzare la testa. La resistenza, in questo contesto, aveva fatto scuola e gli italiani, dando il meglio di sé, presero a ricostruire quello che era stato distrutto. Nacque così il “miracolo italiano” degli anni cinquanta e sessanta. Con la guerra, per noi monelli era anche finita la possibilità di continuare a giocare con quegli ordigni bellici che tanto avevamo apprezzato nei mesi precedenti. La città era stata completamente bonificata. Così noi riprendemmo a divertirci e a trascorrere le ore libere con i nostri vecchi, cari, tradizionali giochi. Le nostre piccole marachelle erano però sempre a rischio, perché su di noi incombeva la figura bonaria ma inflessibile di Bellini, la guardia municipale. A dire il vero le guardie erano due, Bellini e Casadei, meglio conosciuto con il soprannome di “Pezzolina”. Ognuno controllava un determinato territorio. 61 62 Bellini era responsabile della nostra zona: il viale. Aveva una figura alta e magra, i capelli brizzolati e l’eterna divisa nera con scarponi e gambali di cuoio. Non si parlava di multe per divieto di sosta o per eccesso di velocità perché non c’erano automobili. I nostri vigili avevano anche lo sgradito compito di controllare le lattaie. Esse infatti, al mattino presto, scendevano dalle campagne per via Macanno e superato il passaggio a livello, per via Cavour. Ad attenderle c’era sovente un vigile che, con un apposito strumento, misurava la densità del latte contenuto nei recipienti. Se risultava troppo acquoso i contenitori venivano svuotati sulla strada tra le comprensibili e vive proteste delle interessate. All’inizio dell’autunno, dopo la pausa estiva, le “bande” si ricompattavano. Le nostre più dirette rivali erano “al Guaz” cioè via Dante e dintorni, “la Piaza” cioè piazza Mercato più le zone circostanti la “Catolga Vecia” (la Cattolica vecchia, via Pascoli e vie adiacenti). Noi eravamo la banda “dal Viel” l’allora viale Principe di Piemonte oggi Viale Bovio. La domenica pomeriggio, qualche volta si andava in parrocchia dove il professor Bellini ci intratteneva con uno spettacolo di burattini. Noi bambini partecipavamo volentieri perché era veramente bravo. C’era però il rovescio della medaglia: alla fine dovevamo andare alla benedizione! La qual cosa alla nostra banda non andava proprio a genio! Allora, quando le scuse che con infinita immaginazione cercavamo di rifilare al cappellano non sortivano nessun effetto, non ci rimaneva altro che tentare una precipitosa fuga. La via di uscita era tra il cortile della parrocchia e la proprietà dei De Nicolò, dove uno squarcio nella rete divisoria poteva rendere possibile la nostra fuga. Ma il sagrestano “Pinen”, ammaestrato dalle passate esperienze, era lì a braccia e gambe aperte ad impedircela. La nostra destrezza e velocità ci consentiva nove volte su dieci di farla franca, inseguiti però dalle 63 minacce verbali di Pinen: “a vò arcnusù, al degh ma li vost mà!” E rivolto a me:”am maravei ad tè che t’z’è al fiol dla Rudi!” Ma noi ce ne infischiavamo delle minacce e, a gambe levate, continuavamo la nostra corsa verso la … libertà! Con i primi freddi cominciava anche la stagione dei giochi con le spade. Non erano altro che semplici bastoni, del diametro di circa un centimetro e mezzo e lunghi un’ottantina di centimetri. Venivano sbucciati con cura, tranne l’impugnatura dove veniva inserito un paracolpi. Di solito era un dischetto di sughero sempre gentilmente “offerto” dalla marineria di Cattolica. Quegli stessi sugheri i pescatori usavano applicarli nella parte alta delle reti: ”ma la lima da sur” in contrapposizione ai piombi applicati alla parte inferiore delle reti “la lima da piomb” per tenerle sempre tese durante la pesca. Questi semplici bastoni dovevano avere però delle caratteristiche particolari: essere dritti, duri, flessibili e non avere nodi. Gli alberi che più si addicevano a questo scopo secondo noi, si trovavano in Via Cesare Battisti, lato mare. Queste piante poi, ci fornivano anche le “munizioni” per le nostre cerbottane. Infatti quando era stagione, producevano dei grappoli di pallini verdi che opportunamente staccati, messi in bocca a decine, spinti con un forte soffio nel “cannello” a mo’ di mitragliatrice, si trasformavano in un nugolo di piccoli, inoffensivi “proiettili”. Dovevamo però fare i conti con due pericoli: gli abitanti della zona e…..Bellini! I primi potevamo evitarli andando a raccoglierli verso mezzogiorno quando tutti erano a tavola ma per il secondo facevamo affidamento….sulle nostre gambe! Nel malaugurato caso che uno di noi venisse preso erano dolori: era sottoposto alla umiliante “tasta” (perquisizione) atta a trovare la “sfrombla” (fionda) che tutti avevamo e tenevamo nascosta all’altezza della cintola dentro la maglia. Se veniva trovata era naturalmente requisita dopo una bella tirata d’orecchie e la solita 64 65 ramanzina tipo: “la prossima volta ti porto dai carabinieri!” Poi il malcapitato veniva rilasciato. Tra le “bande” che imperversavano a Cattolica in quegli anni, vigeva un codice d’onore da tutti rispettato: se nasceva una disputa, anche di poco conto, tra le gang diverse e le parole non erano più sufficienti a far prevalere le proprie idee e se uno nella foga della discussione pretendeva di avere ragione a tutti i costi e l’avversario non si ritraeva, come ultima ratio si ricorreva alla sfida diretta alla quale l’antagonista doveva per forza reagire: si trattava del “toc dal barbet”. Una specie di rito pagano che ci tramandavamo di generazione in generazione e aveva lo scopo di far emergere una specie di vittoria morale anche se si aveva la peggio. Consisteva nel bagnarsi con la saliva i polpastrelli di una mano e cercare di toccare con questa il mento dello sfidato. Se la cosa riusciva, era l’umiliazione più grande che poteva subire uno di noi. Qui non valeva l’età, la stazza, la robustezza, si doveva reagire comunque anche se si era in evidente inferiorità! Reagire voleva dire venire alle mani. Se i due sfidanti erano dello stesso peso, li si lasciava fare (sempre che non eccedessero) ma se uno era vistosamente inferiore i compagni potevano correre in suo aiuto in due modi: a parole con le consuete frasi del tipo “ant vargogn, ant ved chl’è un burgel, tfarè mel”! Ma se questi discorsi non sortivano nessun effetto si passava alle maniere forti e quasi sempre finiva in una lite generale! Finché sopraggiungeva Bellini, la guardia, o qualche altro adulto che gridando “smitila burdel che ormai a si grand e se av ciap av fac un cul com una panera” poneva fine alla lotta furiosa. Poche parole e tanto bastavano a farci smettere e a sparire di corsa nelle strade adiacenti. Ma una cosa era certa: l’onore dello sfidato era salvo e con esso la considerazione dei compagni. 66 Il campo giochi Il nostro campo di giochi andava dal porto al Conca ma frequentavamo in modo particolare: “la piattaforma” (il pontile sulla spiaggia) che allora era molto più lungo di oggi; seguiva l’edificio “dell’Avviamento” (Istituto per l’Avviamento Professionale) che era ubicato nei giardini davanti al Kursaal, a circa 10 metri dall’Hotel San Marco; poi la “torre”; era una torre di avvistamento in disuso da tempo, ubicata dietro mura fatte con sassi a vista (tipo di quelle di Majani). Nelle sue vicinanze, se non ricordo male, faceva bella mostra di sé anche un vespasiano. Se la nostra torre fosse ancora in piedi si troverebbe nel parcheggio dietro la farmacia di piazza Mercato. Era alta 7/8 metri, a pianta quadrata. Tramite 4 gradini ed una porticina, si accedeva all’interno dove una scala diroccata portava alla sommità. Quando in competizione con quelli della “Piaza” (era il loro territorio) a suon di spade, cerbottane e fionde ne contendevamo il possesso, solo la nostra incoscienza ed il nostro scarso peso ci permettevano di arrivare indenni, da vincitori, alla sommità. Fino ai primi anni del Novecento era stata il punto di riferimento per le barche senza motore. Quando gli agenti atmosferici lo permettevano gli equipaggi, per non perdere tempo prezioso, stavano in mare decine 67 68 di giorni e non entravano in porto ma si fermavano al largo in attesa che natanti più piccoli andassero a trasbordare il pescato e portare nuove provviste. A questo punto entrava in scena la nostra torre, che permetteva a quelli di terra, di scorgere le sagome delle barche, il colore delle vele e capire di quale battello si trattasse. Con l’avvento del motore, tutto questo mondo irto di difficoltà e di sacrifici finì e il nostro manufatto perse d’importanza e divenne col tempo solo un luogo “a rischio” per giochi di bambini. Ultima, ma non ultima per importanza, zona di giochi era “la fontana delle sirene”. Punta di ritrovo prima di iniziare qualsiasi sarabanda. Da lì partivano tutte le nostre iniziative. Ricordo che, se si riusciva a rimediare un po’ di “malta” (creta) per noi era una fortuna, infatti con questa preziosa materia prima , battuta e ribattuta sul carapace delle tartarughe, riuscivamo a plasmare aerei, navi, cannoni e carri armati. e… con la solita inventiva, ci cimentavamo in fantastiche battaglie. Con la corteccia dei pini, sempre a proposito di fantasia, modellavamo piccole barchette alle quali applicavamo, quale motore, alcune gocce di pece nella poppa. Non ci crederete ma messe in acqua si muovevano lasciando, dietro di sé, un piccolo alone iridescente! Con un misto di piacere e nostalgia, ricordo anche alcune fredde serate d’inverno, quando si poteva facilmente prevedere che nella notte “l’avrìa giacè” (avrebbe ghiacciato): con della polvere reperita alla base dei “righin” (cordoli stradali) e della sabbia, improvvisavamo dei piccoli argini a circa un metro dal gradino della fontana, che riempivamo poi, con molta cautela, d’acqua. A questo punto, come in un rito pagano, tutti in circolo “maledicevamo” quelli che avrebbero potuto rovinare il nostro lavoro e ci davamo appuntamento per il giorno dopo. Il mattino seguente ci si alzava una mezz’ora prima tra lo stupore de familiari e… via alla fontana. Se le 69 previsioni erano state esatte la nostra pista di pattinaggio era pronta per la “lescia”, divertenti scivolate sul ghiaccio. Fare un raffronto con gli iper-protetti bambini di oggi potrebbe essere istruttivo ma inutile….quindi “tirem innanz”! Se non ricordo male il più veloce era Manen solo perché portava i “zuclun”, gli zoccoloni: un tipo di scarponi molto spartano, con il fondo di legno ed il legno si sa, scivola meglio sul ghiaccio. A proposito di battaglie con le spade il ricordo corre subito agli scontri che avevamo con la “Catolga vecia”. Un ragazzino, con la destrezza di un folletto, ci metteva spesso in difficoltà; era Mario Ercoles soprannominato “Bado”, diminutivo di Badoglio, l’allora capo del governo, per la sua spiccata propensione a voler a tutti i costi essere riconosciuto capo di quella banda. Per chi non lo sapesse si riusciva a mettere fuori combattimento l’avversario solo se lo si colpiva con la punta della spada nel corpo. Un colpo alle braccia o alle gambe feriva solamente. Con tre ferite si era spacciati, mentre la testa era severamente proibito toccarla. Non posso dimenticare il curioso episodio in cui, in un freddo pomeriggio d’inverno, sono stato oltre che testimone anche parte attiva. Eravamo impegnati in un’aspra battaglia per la conquista della piattaforma, tenuta saldamente dalla banda del “Guazz”. Ci accorgemmo subito però, che avevano rinforzato le loro file con un “oriundo”(abitava infatti in via Giordano Bruno): Sante Prioli detto “il contadino”, un ragazzo di due o tre anni più anziano di noi. Il perché del soprannome mi è sempre sfuggito visto che proveniva da un’antica famiglia di pescatori. Al prezzo di qualche “morto” riuscimmo ugualmente a scalare e successivamente a conquistare la maggior parte del pontile. Noi eravamo rimasti in quattro e loro in due. Messo fuori combattimento uno, l’ultimo, appunto “il contadino”, costretto in un angolo,sentendosi 70 perduto ma non vinto, al grido di “non mi avrete vivo, marrani” si gettò in acqua, raggiunse la riva e fuggì. Quale ispirazione teatrale o cinematografica l’avrà guidato? A quei tempi furoreggiavano i film di cappa e spada. In quei giorni era in programmazione al teatro Zacconi “Il corsaro nero” tratto da un romanzo di Salgari, in cui il protagonista, in una simile circostanza, si comportava nello stesso modo. Parafrasando il Manzoni “fu vera gloria?”: a voi l’ardua sentenza. Ora vi potreste giustamente chiedere: “Ma voi vincevate sempre?” Penso proprio di no anche se avevamo nelle nostre file un mancino formidabile, che….. per la modestia che mi contraddistingue, non dirò mai chi era! Inoltre è più facile raccontare le vittorie che le sconfitte! 71 Il ‘covo’ della banda, feste di paese e nuovi amici Dopo lo sfratto dal pollaio, quando con gli zii ritornammo nella nostra villa, la banda restò, per così dire, “senza sede”. Per noi avere un rifugio era indispensabile. Ottenemmo il permesso dalle sorelle Benvenuti, zie di Enzo, di costruire una capanna di canne nel loro cortile ai confini con l’allora orto Gennari ora Residence Undulna. Visto che con l’aiuto dei soliti amici ero riuscito a costruire un “cariol” questa volta governabile (i progressi della meccanica!) con ben tre cuscinetti a sfera forniti graziosamente a suo tempo da un deposito inglese, per realizzare il nostro favoloso “covo” ci mettemmo subito all’opera. La fatica fu molta: dovevamo andare alla foce del Conca, tagliare un fascio di lunghe canne, caricarle sul “cariol e portarle fino in Via Bovio dietro all’odierno negozio “King”. Dopo alcuni giorni e una decina di viaggi avevamo il materiale necessario. Con solo l’ausilio di qualche rotolo di spago, alcuni stracci e tanta buona volontà, in poche ore riuscimmo nell’impresa. Di fronte a noi si stagliava finalmente la nostra nuova tana. Arredo spartano: una panca ed una stufa traslocata dal vecchio pollaio. La sera stessa facemmo l’inaugurazione. 72 73 Menù:patate dolci lessate! Purtroppo una decina di giorni dopo, un ritorno di fiamma della stufa mentre cucinavamo non so cosa, si propagò al soffitto e in pochi secondi tutto andò bruciato e della nostra bella capanna rimase solo il ricordo e un po’ di cenere. “Sic transit gloria mundi!”. Il lunedì di Pasqua, come da tradizione, noi ragazzi organizzavamo la solita gita a Castel di Mezzo, naturalmente a piedi. Si partiva subito dopo pranzo portandoci la merenda: chi una mela, chi un pezzo di pane; i più fortunati una fetta di pagnotta debitamente avvolta in un foglio di carta gialla. La Via “Panoramica” ancora non esisteva. Si attraversava il Tavollo al Ponte; a valle c’era anche il traghetto, la barca di “Macaron”, ma costava cinque lire e non tutti erano disposti a spendere quella cifra. Si prendeva di petto la collina, si costeggiava il cimitero, si aggirava l’abitato di Gabicce Monte e si proseguiva lasciando sulla sinistra la Vallugola., dopo circa un chilometro si arrivava finalmente alla meta. Durante il tragitto era quasi un obbligo fermarsi nei campi coltivati “a luvèn”, contadini permettendo, a raccogliere una vera ghiottoneria: i lupini. Per spiegare cosa sono alle nuove generazioni passo la parola al Vocabolario: “pianta erbacea commestibile, con fiori in grappoli, dal biancastro al violaceo, utile come foraggio”. Era cibo per animali ma molto apprezzato anche dal …genere umano! Erano soprattutto le ragazze che si adoperavano a raccoglierne a mazzi; ne facevano poi gentile omaggio a conoscenti, parenti ed a certi amici “particolari”. Era una delle poche occasioni che avevano per dimostrare che la simpatia era reciproca. Bisognava però fare attenzione a non mangiarne troppi altrimenti un bel mal di pancia era assicurato. Nello spazio di poche decine di metri si svolgeva la classica festa paesana: bancarelle, rivendite di dolciumi, palloncini, bibite. Due cose erano quasi obbligatorie da 74 comprare: la pallina di panno e il fischietto rosso. La pallina di panno piena di segatura, legata ad un lungo filo elastico, si tirava, colpiva e ritornava indietro e dava la possibilità di fare piccole battaglie tra di noi, ma soprattutto di colpire quei gruppetti di ragazzine che, a mo’ di invito, fuggivano ancor prima che noi facessimo trapelare le nostre intenzioni. Facevano finta di irritarsi se noi le centravamo: ah! le femmine! Il fischietto rosso era di zucchero filato e già dopo due o tre fischi veniva inesorabilmente schiacciato con i denti e mangiato. Nella festa di Castel di Mezzo va ricordata la sala da ballo. Era una stanza di circa 20 metri quadrati, aperta per l’occasione e attrezzata con un grammofono e 3 o 4 dischi. Il biglietto costava, se non vado errato, sulle 10 lire e dava il diritto di ballare per un’ora. Come si faceva alla scadenza dell’ora a fare uscire il cliente? Semplice! All’entrata si legava al passa-cinta dei pantaloni (le donne non pagavano) un nastrino che cambiava colore a seconda dell’ora di ingresso. Ogni 60 minuti due uomini con un filo in mano steso da parete a parete, partivano dal fondo verso l’uscita; chi aveva finito il tempo veniva invitato a uscire e gli altri, passando sotto la cordicella, potevano continuare a ballare. Altri tempi! Si scendeva poi alla “Bassa”, poche case all’incrocio con la via Flaminia e per la stessa strada si tornava a casa. I più spavaldi cercavano un passaggio sull’asse posteriore delle carrozze che facevano servizio per Cattolica. Quasi sempre però il vetturino se ne accorgeva e con due schiocchi di frusta faceva capire al “clandestino” che non era il caso. Alla sera, stanchi morti ma felici, avevamo qualcosa di nuovo da raccontare. Se la frase “è ladro chi ruba come chi tiene il sacco” è vera, penso però sia giusto concedere al secondo almeno le attenuanti generiche. Non è stato così nel mio caso. Anzi, condannato senza processo, ho dovuto 75 pagare i danni che non avevo arrecato: la giustizia umana! Ma veniamo ai fatti. Era il 2 novembre del 1947 e la maggior parte dei cattolichini si era recata al cimitero in due schieramenti ben distinti. La politica imperava su tutto anche sulla commemorazione dei defunti. Il corteo della sinistra, comunisti, socialisti e anticlericali partiva dal Comune con la banda musicale in testa, sventolio di bandiere e giunto al cimitero, Salvatore Galluzzi, presidente della Cooperativa dei pescatori, teneva con la sua prosa efficace un breve discorso. L’altro gruppo formato da clericali e da persone che oggi definiremmo di centro-destra, partiva circa un’ora dopo dalla Chiesa di S. Pio V con un crocifisso, l’arciprete e due chierichetti. Giunto alla meta, nella chiesetta del cimitero veniva celebrata la S. Messa. Nel primo gruppo il corteo era composto, salvo rari casi, tutto da uomini. Nel secondo il gentil sesso era la maggioranza. Era come detto il pomeriggio del 2 novembre: grigio, uggioso, malinconico. Vincenzo Cecchini ed io vagavamo per le strade deserte in cerca di qualche avvenimento che potesse ravvivare quella giornata. Arrivati in Piazza della Fontana notiamo subito la nuova insegna al neon, tra i due leoni, alla cancellata dell’Hotel Fulgida. L’amico mi dice mentre cercava tra la ghiaia alcuni sassolini adatti allo scopo: “Quanto vuoi scommettere che con due tiri ‘tiro giù’ quella scritta?” Prima che potessi in qualche modo dissuaderlo, tese la fionda e lasciò partire un colpo. Il caso o la sfortuna volle che fece centro! Il rumore dei vetri rotti ci fece fuggire a gambe levate. All’ora di cena, la signorina Sormani, proprietaria dell’Hotel Fulgida, bussò alla porta di casa mia. La cameriera andò ad aprire. Lo zio, grazie a Dio, non era ancora rientrato. Successe quel che voi certamente immaginerete: io che professavo la mia innocenza, la signorina Sormani che accusava, qualche parola di troppo e la zia, 76 pur credendomi, per tacitare la cosa reputò opportuno pagare il danno richiesto: ventimila lire! Un’enormità per l’epoca. In quel periodo la famiglia Ponti, originaria di Alfonsine, si trasferì a Cattolica. Prese casa in via Bovio al numero 64 presso la famiglia Ferretti, stimati falegnami. Il padre Otello, impiegato alla Montecatini di Ferrara, per motivi di lavoro era sempre in viaggio. La madre, della quale non ricordo il nome, era una piccola donna debole ed inoffensiva, sempre alla ricerca del suo Davide, un ragazzo nostro coetaneo, troppo buono e docile per quei tempi, ma soprattutto per la nostra banda. Capimmo subito che sarebbe stato un ottimo pollo da… spennare, venne quindi coartato nella compagnia: aveva un aspetto gradevole ma la testa risultava un po’ troppo coriacea…usando un eufemismo: un giorno riuscì ad abbattere persino un muro nella cancellata di cinta dell’Hotel Fulgida. Eravamo intenti a giocare nel giardino di quell’albergo, avendo fatto amicizia con il figlio del custode dal curioso nomignolo di “spinaci”, quando ad un tratto apparve la sig.na Sormani: fu un fuggi fuggi generale… il nostro Davide nel tentativo di sottrarsi alla cattura, caricò a testa bassa un buco nel muro pensando di riuscire a passare ma il risultato fu ben diverso: il manufatto gli crollò addosso. La fortuna venne in suo aiuto e ne uscì malconcio ma illeso. Le sue prime parole furono: “meno male che ho usato la testa!”. La proprietaria non volle sentire ragione e pretese che fosse ricostruito ciò che era andato distrutto, la madre, data la non felice situazione finanziaria, credette opportuno fare da sola. Il giorno dopo, sotto la supervisione della Sormani, si mise all’opera armata di cazzuola e calcina. Riuscì, non senza fatica, nell’intento: il danno era stato riparato! A dire il vero avemmo tante volte la possibilità di testare “in corpore vili” la durezza di quel cranio, ma per carità di patria 77 78 preferisco passare oltre. Vincenzo Cecchini, prodromo di quello che sarebbe stato capace di fare in seguito, scrisse in suo onore un componimento poetico, che recitava così: Mato Popone aveva la testa dura, più grossa di una angura più forte ancor del ferro ha rotto anche un cancello… e qui la memoria non mi conforta oltre! Nell’estate i fratelli Cecchini ed io avemmo una bella idea, che se fosse andata a buon fine, avrebbe rimpinguato le nostre scarse finanze: mandare Davide sulla spiaggia a vendere i nostri giornalini usati. A quei tempi andavano per la maggiore Topolino, Mandrake, Cino e Franco, Gordon e L’Uomo Mascherato, di quest’ultimo Vincenzo ne era un accanito lettore. Alla nostra vittima avremmo riconosciuto poi, un bonus dell’1 % sulle vendite, ma non avendo raggiunto le 100 lire dategli come obbiettivo (ne raggranellò solo 80), non gli venne riconosciuto alcun benefit, in me circolava già sangue “bancario”! Per racimolare comunque qualche soldo passammo ad un’altra iniziativa , per noi molto più impegnativa:era da poco passato a Cattolica un “carro di Tespi” con i suoi spettacoli teatrali ambulanti. Ne cogliemmo lo spunto culturale e, mettendo in pratica un estro creativo senza uguali, riuscimmo a predisporre tutto il necessario per il buon esito di una nostra rappresentazione. Nel giardinetto di casa Cecchini con quattro pali ed un grande panno rosso montammo un qualcosa che assomigliava ad un palcoscenico, aggiungendo poi 8 sedie a disposizione degli spettatori paganti. Dopo poche prove di un raffazzonato canovaccio, mettemmo in scena la prima in una domenica pomeriggio. I personaggi principali 79 erano: Topolino (Fabio), Pippo (Tonino), Gambadilegno (Sante Bondi “l’oriundo”) e Davide nei panni di Paperino, con la regia di Vincenzo. Il copione prevedeva che, dopo poche battute, Gambadilegno prendesse a bastonate Paperino (che era sempre la nostra vittima). Il cattivo si immedesimò talmente nella parte che nella foga fece crollare le impalcature sugli attori. Ne sorse un gran trambusto e la “direzione” credette opportuno sospendere lo spettacolo. L’unico spettatore pagante, se non sbaglio 5£, era Marzotto, al secolo Alessandro Silvagni, si alzò sconsolato dicendo:”Burdel, avì fat schiv,l’era mej se andeva a cumpré un zled da Anto!”. Anche questa iniziativa a scopo di lucro fu un insuccesso ma… mancò la fortuna non il valore. Col senno di poi devo ammettere con rammarico che abbiamo troppo spesso abusato della bontà e della mitezza di quel ragazzo. A distanza di tanti anni, ricordando quegli avvenimenti, provo ancora un certo disagio non disgiunto da un senso di colpa. Dopo pochi mesi la famiglia Ponti si trasferì e di Davide non sapemmo più nulla. 80 Tragica burrasca Era il giorno di ferragosto del 1947, mi sentivo ormai grande, avevo 12 anni e frequentavo le scuole medie dalle suore a San Giovanni in Marignano. Prendevo l’autobus per il ritorno nella via principale di quel grazioso paese. Una diceria, non provata da testimoni, racconta che nei tempi andati avessero mangiato un tedesco! Da cui “sangianes magna tedesch”, ma non tergiversiamo! Quell’automezzo alquanto sgangherato, (la guerra era finita da appena due anni) fermava proprio davanti al negozio di Nicola il cui cognome non ricordo; era una di quelle botteghe molto in voga fino alla fine degli anni sessanta, dove si poteva comprare un po’ di tutto: dai casalinghi ai generi alimentari e merci varie. A me e agli amici della banda interessavano in modo particolare, visto il nostro passato da “bombaroli”, le bombette: piccoli fagottini di carta gialla legati strettamente con uno spago, con dentro un po’ di polvere pirica ed alcune scagliette di pietra. Gettate a terra violentemente scoppiavano con un gran frastuono. Noi avevamo imparato a lanciarle con la fionda ed il risultato era entusiasmante! Non altrettanto contenti, credo, dovevano essere gli abitanti di quelle case i cui portoni erano, di notte, bersaglio dei nostri tiri. Dunque….era il giorno di ferragosto, un pome- 81 82 riggio molto afoso ; Manen, Sandren, Fabio, Tonino ed io decidemmo di andare a piedi fino a S. Giovanni per rimpinguare le scorte di bombette che si erano azzerate nelle “incursioni” del giorno prima. Ci incamminammo di buon passo ma giunti sotto il ponte di ferro si scatenò il finimondo: un vento violentissimo misto a polvere, stracci, sedie, cartelloni e tutto quello che non era solidamente fissato ci investì in pieno. Appena ripresi dalla sorpresa, riparandoci, per quello che potevamo, la testa con le braccia, ci mettemmo a correre verso la Via Fiume. I miei amici presero poi per Via Matteotti e andarono verso casa. Io continuai verso la spiaggia perché, lì al pontile, era attraccato il cutter di Savio Maestri che faceva servizio per i turisti. Enzo era a bordo come mozzo e per questa ragione non era potuto venire con noi. Purtroppo quello che avevo sospettato si era avverato: Savio non aveva fatto in tempo ad ammainare la vela stando per partire per una escursione. La barca si era rovesciata di lato, i gitanti caddero in acqua, purtroppo quella tempesta volle il suo tragico tributo: un bambino non ce la fece ed annegò miseramente! Il mio amico se l’era vista proprio brutta, aveva rischiato la vita! Ma si salvò aggrappandosi al pennone ed aspettando i soccorsi. Alla sera mia zia, per cercare di sollevargli un po’ il morale e fargli dimenticare quel triste episodio lo invitò a cena e poi ci pagò l’entrata ad uno spettacolo di burattini che si svolgeva nell’allora terreno retrostante all’odierno complesso “Nettuno” che poi divenne una sala cinematografica all’aperto (p.s. Le bombette costavano 2 lire l’una). Con queste ultime righe si chiude la stagione della banda di Via Bovio. Altre “CURIOSITÀ” e altri “PERSONAGGI” calcheranno ancora la scena del teatrino dei miei ricordi. 83 Curiosità 85 Ciccio, “al macàc dla Rudi” Volevo iniziare queste mie brevi note che mi fanno tornare, con grande nostalgia e tenerezza, ai tempi della giovinezza, tempi, per molti, difficili, duri e di miseria quando calzare perfino un paio di zoccoli d’estate era considerato un lusso .Volevo iniziare con la frase “In quel tempo…” ma qualcuno avrebbe potuto pensare che fossi un megalomane, allora ripiego su “C’era una volta….”ma anche in questo caso avrei potuto porgere il fianco a delle critiche tipo “non sarà tutto inventato?” A questo punto ho deciso: inizierò nel modo più semplice. Era l’estate del 1942 in piena seconda guerra mondiale. Avevo sette anni e già le prime avvisaglie della catastrofe che si sarebbe abbattuta su di noi si incominciava ad intravvedere. Abitavo da diversi anni con gli zii, il dottor Nereo Rudi e la signora Venerina Brancia Rudi nella loro villa di Via Bovio che allora si chiamava Via Principe di Piemonte. Una villa più che signorile, dotata di tutti i comfort che l’epoca poteva permettere, dal riscaldamento centrale al giardino anteriore tenuto a regola d’arte ornato tra l’altro da due bellissime palme, al vasto cortile posteriore con garage per due macchine, lavanderia ed un ampio spazio scoperto dedicato ad un piccolo frutteto, ad un orto coltivato con professionalità dal nostro giardiniere il buon 87 88 Natale Facondini. Mia zia era conosciuta come una persona che portava un affetto particolare per tutti gli animali al punto che i vicini, se ne trovavano uno, di qualsiasi razza o taglia abbandonato in strada, glielo portavano sapendo che sarebbe stato curato e custodito. Le conseguenze furono che in questo periodo il nostro “zoo” comprendeva: 5 cani, 23 gatti, una voliera con decine di uccelli anche rari ed esotici, galline, oche , anatre, un camaleonte, sì, proprio quell’animale decisamente poco bello che può cambiare colore a seconda di dove si trova, ed una scimmia….e qui comincia la nostra storia. Il figlio dei marchesi Campanelli, nostri amici di famiglia, ufficiale pilota della Regia Aeronautica, in licenza dal fronte libico, ci portò, conoscendo il debole di mia zia, una giovane scimmietta, un maschio di razza “cercopiteco grigioverde”, una cosina di appena 40 cm. di lunghezza, tutta simpatia, intelligenza, furbizia, ma soprattutto dispettosa. Si ambientò subito e per dimostrare la sua amicizia, quando le era possibile si sedeva sulle nostre ginocchia e con quelle manine che sembravano umane ci frugava tra i capelli cercando improbabili piccoli insetti. Per dormire, Bonci il falegname, le aveva costruito una piccola casetta in legno con un oblò ed una porticina che si poteva chiudere dall’esterno. Le prime uscite della zia con la scimmia al guinzaglio, che a differenza di quello dei cani veniva messo sotto l’ombelico appena sopra l’attaccatura delle zampe al corpo, destava in tutto il viale una curiosità quasi morbosa, un misto di sorpresa, meraviglia e stupore:” Ven ven a veda, che i’è la sgnora Rudi che la porta a spass al macac!”(Vieni a vedere che c’è la signora Rudi che porta a spasso la scimmia) In casa, perché non facesse troppi danni, qualche volta la legavamo con una leggera catenella alla gamba di un tavolo o al filo dei panni 89 in cortile; ma spesso riusciva a liberarsi e allora erano guai ….per i vicini. Noi ce ne accorgevamo subito dalle grida delle donne e dal tono della voce mia zia riusciva a capire quale casa aveva “visitato” e allora mi chiamava e diceva: “Va a prendere Ciccio, il nome che gli avevamo dato, che è dalle Gagie (sorelle Benvenuti) oppure è dalle Baiuchinie (signore Mecchi-madre e figlia ). I dispetti che faceva erano all’ordine del giorno. Una volta seduto al caldo vicino alla stufa, dove bolliva un cappone per il brodo, riuscì a prenderlo per una zampa che usciva dalla pentola, lo trascinò alla finestra e con tutte le sue forze lo gettò in strada. Mia zia lo venne a sapere solo quando suonò il campanello e andata ad aprire la porta, apparve un uomo che disse: “Signora, è suo questo pollo? L’ho visto volare dalla finestra!” Ciccio aveva una particolare antipatia per i biondi e quando ne incontrava uno qualche dispetto ci scappava. A mio fratello gli saltava addosso e con le sue piccole dita, l’indice e il pollice, gli strappava ad una ad una le ciglia degli occhi; lui, impietrito, non osava ribellarsi e solo quando arrivavo io il supplizio aveva termine con la fuga della bestiola che, sapendo di avere fatto una marachella, si andava a rifugiare nella sua casetta. Circa due anni dopo, nell’inverno del 1944/45, appena passato il Fronte, gli inglesi allestirono un ospedale per la popolazione civile, ubicandolo nell’albergo Gambrinus in Viale Mancini dove attualmente c’è l’omonimo bar e altri negozi, che era di proprietà della famiglia Pini Domenico (Manghin). Mio zio era stato nominato primario e la prima cosa che fece fu di disporre l’ambulatorio e la sala per brevi degenze al piano terra ed ai piani superiori gli ammalati che abbisognavano di cure più particolari. La mia famiglia, gli zii, io e la scimmia, prese come abitazione una camera al primo piano con balcone, che ancora esiste, proprio 90 sull’angolo dello stabile. Naturalmente Ciccio era sempre al centro dell’attenzione. Una volta riuscì ad intrufolarsi tra gli ammalati non certo avvezzi a veder saltare una scimmia tra un letto e l’altro; alcune grida attirarono l’attenzione dell’infermiere, il bravo Mario Furiassi, che con la sua andatura un po’ claudicante cercava inutilmente di prenderla. Arrivò mia zia che la prese e dopo due sculacciate la rinchiuse nella sua casetta che in quel periodo era nel corridoio del primo piano. All’ora di cena eravamo tutti in cucina ad aspettare che si scaldasse la solita scatoletta di carne fornita da un soldato irlandese con cui avevamo fatto amicizia. Ad un tratto un urlo!!!! Poi:” Manghin, Manghin,dutor, dutor….”(Domenico,Domenico, dottore, dottore)Ci precipitiamo tutti su per le scale e vediamo un paziente con una gambe ingessata e i capelli dritti per la paura che cercando di scendere urlava:”i’è un fantasma, i’è un fantasma, andè a ciamè al pret!”(C’è un fantasma, andate a chiamare il prete) Manghin e lo zio si fecero coraggio, salirono in fretta i pochi scalini rimasti e….si trovarono davanti Ciccio, che, dentro la sua casetta, aggrappandosi con le mani all’oblò e scuotendosi con tutte le forze, la faceva saltellare. Il malcapitato non sapeva cosa vi fosse dentro! Quella volta finì tutto in una risata generale. Di fatti curiosi e simpatici ce ne sarebbero tanti altri ma la paura di annoiare il mio gentile lettore mi dice di fermarmi qui. Di quegli episodi qualcosa è arrivato fino a noi, almeno per le persone di una certa età e che parlano ancora il dialetto ed è la frase “tfè piò att tè ca ne al macac dla Rudi (fai più smorfie tu che la scimmia della Rudi)” . Per finire lasciatemi dire che di quella scimmietta mi è rimasto un gradito e nostalgico ricordo anche perché legato alla più bella delle età della vita: la giovinezza. 91 Lo scherzo Spesso andavo a trovare i miei genitori, come ebbi già modo di accennare gestivano dalla metà degli anni ‘30 l’osteria “dalla Gina” ubicata nella piazzetta ora intitolata proprio a lei, mia madre. Il piccolo locale era frequentato da una clientela modesta principalmente di marinai e operai, gente umile con poca cultura, ma di sani principi e tanta umanità. Questo però non impediva a qualcuno di fare degli scherzi agli amici anche un po’…..macabri! Ricordo un giorno appena dopo pranzo, all’appuntamento per bere “un quarten o un mez” e giocare, con rara maestria, una partita a briscola e tresette. Capitato lì per caso, fui spettatore di uno scherzo che Parelo, al secolo Angelo Cerri, stava per fare a Battistini (il nome non lo ricordo) detto Svezzera. Doveva il suo soprannome al fatto che aveva lavorato duramente per tanti anni nel paese elvetico. Tutto iniziò con poche battute: “Svezzera, l’è riv al circle Togni!” “Embè?”rispose il malcapitato.”Coh! An tal sé? I cerca i vec invurnid da dè da magnè ma i liun; i pega ben: i dà diesmela french mai fiol e i dà anche i pan indrè!” A questo punto intervenne un complice, Chelotti (al zop ad Chicac): “L’è vera! Anche al mi bà al va so dmena matena, v’è, i m’ha dè mille lire di caparra!” Disse la cifra in italiano per dare maggiore enfasi alle parole, mentre tirava fuori dalle tasche un po’ di soldi e aggiunse: “i pan ai vag 92 a tò dmena sera!” “Na, me an vag!” disse il poveretto. Parelo ripetè pronto:” Ant capes gnint! Intent t’avrè se e na qualche mes da campè e po sa chi sold i tu fiol i magna per un mes. E i pan indrè? It dà anche i pan indrè tla vo capì?” “Naaaaa! Me an vag. An voi savè gnint!” rispose sempre più confuso il vecchio. “Tzè propie na bamboza” replicò Parelo. A questo punto intervenne mia madre:”Burdel, ades basta! Fela fnida!” disse, malcelando un sorriso e facendo l’occhiolino al “gatto e la volpe”. “Se an vò andè l’è afar sua. Smitila i chè!” Una sonora risata scoppiò tra gli avventori che nel frattempo si erano avvicinati alla vittima che non avendo capito lo scherzo, a testa bassa continuava a ripetere “Intent me an vag, na an vag!”. 93 Il tritolo Il tritolo, per chi non lo sapesse, era il più potente esplosivo di quei tempi. Non era adatto per i proiettili, ma indicato soprattutto per fabbricare bombe, mine, sia terrestri che marittime e far saltare in aria tutto quello che c’era bisogno in ambito militare. Nel 1945/46 veniva usato anche a Cattolica, in piccoli panetti rivestiti di carta catramata del peso di circa duecento grammi, dagli artificieri delle forze armate italiane per far esplodere le mine che spiaggiavano nel nostro territorio. Il procedimento era abbastanza semplice, innanzitutto si suonava la sirena situata nel palazzo comunale (un lungo ululato) in modo che i cittadini che abitavano nei dintorni si potessero allontanare, non prima però di avere aperto tutte le imposte delle loro case, così i vetri delle finestre non si rompevano per lo spostamento dell’aria. A questo punto l’artificiere applicava all’involucro esterno (ricordate quelle sfere d’acciaio di circa un metro di diametro con tutti quegli speroni, i detonatori, viste in tanti film di guerra? beh, erano quelle!) una carica di tritolo, poi con un comando a distanza, faceva esplodere tutto causando un immane boato udibile a parecchi chilometri di distanza! In una di queste occasioni, la mia villa, situata nell’allora Via Principe di Piemonte 19, fu completamente 94 bagnata dall’acqua di mare scaraventata lì dallo scoppio di uno di quegli ordigni ed una scheggia della grandezza di un piatto si fermò davanti al portone di casa! Tutto questo preambolo per raccontare che un giorno, Enzo ed io, al porto, non dico né come né dove, riuscimmo a “rimediare” una dozzina di panetti. Il tritolo aveva una peculiarità: esplodeva solo se era innescato con uno speciale detonatore. Noi non lo avevamo, provammo però in tutti i modi, naturalmente con le dovute cautele, ma niente da fare. Lo grattugiammo, lo riducemmo in scagliette, provammo con la polvere da sparo, gli abbiamo dato anche fuoco, bruciava lentamente facendo un fumo denso ed acre ma niente da fare, non voleva esplodere! Finché ci siamo stancati e decidemmo di disfarcene. Lo avremmo venduto. Il tritolo aveva a quei tempi un certo valore ed al mercato nero spuntava un buon prezzo, veniva usato per la pesca di frodo. Trovammo subito un acquirente: un bagnino appartenente ad una vecchia famiglia di pescatori. Per la cifra di 500 lire, quella piccola santabarbara passò di mano. Enzo ed io ci dividemmo poi in parti uguali il ricavato. 95 I capodogli Il ricordo che più si addentra nei segreti meandri della mia memoria, è senz’altro lo spiaggiamento di sette capodogli ancora vivi , avvenuto il 12 Aprile 1938, a Senigallia. Allora fu veramente un avvenimento, tutti ne parlavano e naturalmente ad ogni passaparola le gigantesche dimensioni di quei cetacei crescevano a dismisura, perfino l’EIAR (la RAI di allora) ne diede notizia nei suoi radiogiornali. Mia zia, dato il suo amore per gli animali di qualunque genere, non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione. Mi prese in braccio, mi sistemò sul sedile posteriore della Topolino e partimmo. All’arrivo sul litorale di quella bella cittadina marchigiana, lo spettacolo che ci si presentò fu veramente affascinante: sette enormi bestioni giacevano ormai inermi sulla spiaggia. Uno, il più grosso, aveva la grande bocca spalancata, dalla quale spuntavano massicci denti minacciosi. Data la mia tenera età (avevo appena tre anni), ricordo solo quella bocca e quei denti. Il resto è il frutto dei racconti della zia negli anni che seguirono. Quei miseri resti, almeno così mi dissero, finirono in una fabbrica di sapone. Come curiosità posso aggiungere che vi furono diversi spiaggiamenti di questi animali nell’Adriatico. I primi di cui si abbia memoria risalgono al XVI secolo in Ancona, 96 gli ultimi nel dicembre del 2009 in Puglia. In definitiva un sorprendente spaccato sul rapporto tra una delle specie di cetacei più enigmatiche ed affascinanti (anche la celeberrima Moby Dick era in realtà un capodoglio) ed un piccolo mare che sa sempre stupirci. 97 I veglioni Nella nostra vecchia Cattolica avvenimenti speciali erano anche i “veglioni”. Ho sempre creduto utile ed opportuno, oltre a narrare le avventure di un gruppo di bambini, anche raccontare le abitudini, il comportamento ed il modo di vivere della gente in un contesto particolare come quello della nostra cittadina in quei tempi. Allora quasi tutto era vissuto in un’ottica politica. Il lavoro, il divertimento. Lo svago erano spesso prerogative dei partiti politici. Questo ovviamente per cercare consenso, fare presenza sul territorio ed al limite dimostrare la propria “forza”. Gli animi erano inaspriti ed ogni occasione era buona per rimarcare, anche rumorosamente, il dissenso nei riguardi di chi la pensava diversamente. Questo accadeva anche nelle sale cinematografiche. Al teatro Zacconi prima dello spettacolo veniva proiettata “la settimana Incom”, il notiziario che precedeva sempre il film. Bene! Se appariva la figura di Papa Pio xii o del Presidente del Consiglio Alcide de Gasperi, iniziava una sarabanda di urla, fischi, invettive innominabili all’indirizzo di quei personaggi obbligando, qualche volta, il proprietario Adriano Binda ad accendere le luci e sospendere lo spettacolo finchè gli animi non si fossero placati. Con questo non voglio certamente demonizzare tutta una 98 certa parte politica, che tra l’altro rappresentava allora ben oltre il 60% dell’elettorato cattolichino . Era il frutto dei tempi! Io ho solo l’immodestia di voler attestare, spero da testimone super partes, certi avvenimenti. In questo clima sociale spesso erano gestiti anche i veglioni. Erano serate danzanti, la quintessanza del divertimento. Si svolgevano solitamente dalla fine dell’anno alla Quaresima (in questo periodo era oltremodo disdicevole partecipare a certi svaghi!) Anche i partiti partecipavano ben volentieri a questo tipo di “business” per farsi notare, ma soprattutto per rimpinguare le loro sempre esauste casse. I più noti erano: “il veglione dell’Edera” organizzato dal Partito Repubblicano di cui Francesco Cermaria era l’anima. “Il veglione del Garofano Rosso” coordinato da Giovanni Gentilini, segretario politico del Partito Socialista. “Il Veglione dello Sport” organizzato dalla locale Polisportiva. Quest’ultimo si svolgeva o nella sala della parte nuova dell’Hotel Kursaal o, debitamente attrezzato allo scopo, al Cinema Cielo. Negli anni cinquanta, a queste serate ho partecipato anche io con alcuni amici, eravamo infatti all’epoca le speranze del calcio cittadino (gratis naturalmente). Mi piace ricordare anche l’esclusivo “Veglione delle Mimose” e quello degli “Albergatori” dove le signore bene della nostra cittadina e dei paesi vicini avevano modo di sfoggiare tutta la loro eleganza in una atmosfera di buon gusto. Nei grandi capannoni dello stabilimento Arrigoni, a farne memoria è rimasto solo l’enorme camino, si svolgeva invece a cavallo degli anni 40/50 il popolare veglione della “Stella Rossa”, organizzato dal locale Partito Comunista. Qui si poteva toccare con mano la grande forza organizzativa che riusciva a mettere in campo quel partito. Per molti lavoratori, che prestavano gratuitamente la loro opera per predisporre tutto il necessario alla riuscita della manifestazione, rappresentava più che una 99 fede politica una vera religione. Vi era la gigantografia di Stalin o di Mao Tse Tung, ogni tanto due orchestre vi suonavano “Bandiera Rossa” e…..anche se non si era troppo d’accordo, una capatina quella sera si doveva fare. La cena e le bevande (ovviamente alcolici) si potevano portare da casa. Il prezzo del biglietto era veramente “popolare”; si può quindi facilmente immaginare l’enorme successo della serata. Partecipavano famiglie intere. Preso posto, stendevano le tovaglie (chi le portava) sui tavoli e imbandivano le mense con ogni ben di Dio: enormi tegami di brodetto di canocchie, “garagul”, “bes”(lumachini ), ciambelloni, crostate ed una distesa di fiaschi di vino. Per una volta tanto non si badava a spese! Era vera allegria e per una serata si dimenticavano tutte le difficoltà della vita quotidiana. Gente allegra, di cuore e di grande compagnia. Era bello fermarsi, accettare l’ospitalità, ma soprattutto….il vino che veniva offerto sempre con grande generosità. Se è vero che tutti i salmi finiscono in gloria, è altrettanto vero che dopo quelle abbondanti libagioni , alle quali non si poteva dire di no, si finiva sempre con l’intonare a squarciagola le belle canzoni della vita marinara. Era insomma più una sagra paesana che non una serata danzante. La Democrazia Cristiana credeva opportuno non organizzare eventi simili anche perché la gerarchia ecclesiastica di quei tempi non avrebbe certo approvato l’iniziativa. A questo punto permettetemi di fare una confessione, rimanga però tra noi, visto il mio trascorso democristiano: ebbene sì … anche io ho partecipato qualche volta al veglione della stella rossa! 100 Un pomeriggio da s…ballo Quando si parla di balli, un piccolo salto con la memoria nei primi anni cinquanta è d’obbligo. La compagnia era cambiata, vuoi per gli studi che avevamo intrapreso, vuoi per certi interessi che incominciavano a diversificarsi. L’amicizia nei riguardi della vecchia compagine era comunque rimasta inalterata, solo la frequentazione ne aveva sofferto. Si erano allontanati: Enzo, Manen e Sandren, ma avevamo acquisito tanti nuovi amici, tra cui: Aldo Calbi, Lino Franchini (Limon), Giacomo Frontini (Peledo), Giancarlo Denicolò (Zafaren), Adelio Ercoles (Macaron), Andrea Molari, Manlio, Marcello Morosini (Scucia) e Paolo Bondi. Eravamo molto affiatati e il tmepo libero lo si passava principalmente sui campi da calcio (giocavamo nelle giovanili del Cattolica) o al bar della Domus Nostra, gestito dalla famiglia Staccoli supportato dalla dirimpettaia Parrocchia. I maligni asserivano, a quei tempi, che era nato anche in antitesi al “Cremlino” di via Costa, di evidente diversa estrazione politica. In proposito sono d’accordo con l’on. Andreotti quando affermava che “a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina”. Con “l’altra metà del cielo” invece le cose non andavano molto bene, avevamo la nomea di bravi ragazzi ma purtroppo timidi e impacciati e gli approcci 101 lasciavano sempre alquanto a desiderare. Per affrancarci da questa imbarazzante situazione Lino e Peledo, i più intraprendenti tra di noi, pensarono bene di organizzare la domenica pomeriggio qualche festa da ballo. Alla sera era impensabile che le ragazze uscissero di casa! La “prima” si svolse, se non ricordo male nella sala da pranzo dell’hotel Corallo in via Carducci. Era gestito a quei tempi dalla famiglia Dei, la figlia Mara sposerà poi Vincenzo Cecchini. Tra le ragazze invitate c’erano, oltre alla succitata Mara: Piera Colosio, Enrica Galli, Ebe Bianchini e Olga Cervesi. Suppliva l’orchestra un vecchio grammofono a manovella portato da Giancarlo. Era un regalo, coordinato con alcuni dischi, fatto negli anni trenta dagli zii d’America. Al rinfresco voleva pensare sempre Peledo: due bottiglie di Vermotuh e due vassoi di pasticcini, alcuni maligni asserivano che questa incombenza gli permetteva di fare la cresta sulla spesa. Anche in questo caso si trattava solo di invidia e malcelata cattiveria! Si arrivava verso le quattro e le ragazze erano ovviamente accompagnate, quasi tutte, dalle rispettive madri. Le signore venivano fatte accomodare in un punto strategico, da dove avrebbero potuto tranquillamente controllare che tutto si svolgesse secondo le regole. Il tavolo lo avevamo già imbandito con una bottiglia di Vermotuh ed un vassoio di pasticcini. Lasciavamo le signore mamme alle loro chiacchiere di donne che, vertevano certamente, sul nostro comportamento e sulle nostre persone, lo si capiva benissimo dai loro sguardi! A onor del vero devo ammettere che riscuotevo un buon successo presso le madri! Il bello veniva quando iniziavano le danze: nessuno di noi sapeva ballare, ma, grazie a Dio, le ballerine erano tutte molto comprensive, piene di consigli e suggerimenti. Questo non ci esimeva però, dato il nostro impaccio dal farci assomigliare agli attori delle migliori scene di fantozziana 102 memoria. Per noi ragazzi c’era anche una incombenza: sederci a turno vicino al grammofono e girare la manovella ai primi sintomi di rallentamento della musica, non ci si crederà ma quello era il posto più ambito da noi maschietti! Sul far della sera le signore si alzavano, era il segnale che la festa era finita e si doveva rincasare. Peledo con le sue battute era veramente impareggiabile nei commiati, riusciva a strappare un sorriso alle madri ed alle ragazze la promessa di un prossimo incontro. Una cosa era certa però: la mondanità non era il nostro forte! 103 Personaggi Attori involontari della vita quotidiana di un paese tranquillo 105 Il buon dottor Rudi Nereo Rudi, cittadino benemerito di Cattolica La stragrande maggioranza dei cattolichini, dato il tempo trascorso, non avrà certo conosciuto il dottor Nereo Rudi. Qualcuno ne avrà forse sentito parlare. Tanti, in età venerabile, ricorderanno sicuramente la sua distinta figura, la bonarietà, il sorriso, la battuta pronta rigorosamente in veneto, il proverbiale appetito e le conseguenti, in certe ricorrenze, pantagrueliche mangiate con i suoi marinai. Possedeva una strana bicicletta di cui si vantava, con i pedali che invece di fare il solito giro circolare avevano un movimento avanti-indietro. Alle persone che lo conobbero dedico questo piccolo ma vivo ricordo. Nato a Cazzano di Tramigna (VR) il 24/08/1890, si laurea in medicina e chirurgia nel 1915. Richiamato quale ufficiale medico nella prima guerra mondiale, viene congedato nel 1918 per una ferita alla spalla sinistra riportata in zona di guerra. Vince un concorso da medico condotto e si trasferisce con la signora Venerina a Cattolica nello stesso anno. Si fa subito notare per la sua umanità e bravura, diventando in breve tempo il medico di tutti ma in particolare dei pescatori e 107 della povera gente; sempre a disposizione dei pazienti di giorno e di notte, 24 ore su 24! Se doveva andare in visita in casa di povera gente che aveva il problema di coniugare il pranzo con la cena, spesso sotto la ricetta che lasciava sul comò metteva il denaro necessario per comperare le medicine! Succedeva spesso che qualcuno cercando di compensarlo per la sua consulenza, gli offrisse un filone di pane o delle mele o altre piccole cose che lui accettava gentilmente per non mettere in imbarazzo nessuno. Allora non c’era il servizio sanitario nazionale! Seppe entrare nel cuore della gente. Sempre alla mano, quando il suo lavoro lo permetteva, frequentava volentieri il Caffè Roma; memorabili le sue partite a scopa con Piccioni, il padre di Wilmo. Nella sua carriera ebbe tanti attestati di gratitudine che purtroppo andarono distrutti in un incendio. Morì improvvisamente il 18/11/1949 all’età di 59 anni lasciando un vuoto incolmabile in noi famigliari e un sincero cordoglio in tutta la cittadinanza. Il funerale, che si svolse il giorno dopo, fu una manifestazione impressionante di dolore e di lutto; praticamente tutta Cattolica vi partecipò. La bara, portata a spalla, era arrivata al ponte di ferro che la coda doveva ancora muoversi davanti alla Chiesa di S. PioV! Le sue spoglie riposano accanto a quelle dei suoi genitori nel paese natale. A perenne ricordo la zia fece erigere un cippo commemorativo nel cimitero di Cattolica lungo il vialetto che porta alla chiesetta. Negli anni ottanta il consiglio comunale lo dichiarò, “post mortem”, “cittadino benemerito” e gli intitolò una via nelle vicinanze del campo sportivo. 108 Viale Bovio – Villa Dr. Rudi (poi Caffè Sirenella e gelateria Nuovo Fiore) Novembre 1949 – Funerali Dr. Nereo Rudi 109 Gagiot (Domenico Candiotti) Il motto latino “nemo propheta in patria” si addice perfettamente a questo nostro compaesano, forse dimenticato dai suoi concittadini. Era un genio incompreso, aveva una straordinaria manualità, non disgiunta da una grande inventiva. Alcune sue opere sono ancora oggi visibili, a testimonianza della sua abilità: la meridiana che troneggia al centro della spiaggia, porta la scritta, in altro sopra lo gnomone, “CANDIOTTI 1938”. A dire il vero quella odierna è una copia perfetta dell’originale, andata distrutta qualche anno fa durante i lavori di restauro a causa di un improvviso fortunale. Sono sue creature anche alcune maestose aquile, scolpite nel cemento in via Curiel, tre delle quali fanno ancora bella mostra di sé nella villa situata all’incrocio con via C. Battisti: una stringeva negli artigli una manciata di tagliatelle, ora perdute, un’altra aveva un enorme capitone. Erano il segno distintivo della Pensione Aquila, il cui nome è poi passato all’odierna pizzeria. La quarta oggi orna il l’ingresso dell’Hotel Belsoggiorno in via Carducci. Mi fa ancora piacere ricordare (ne fui giovanissimo testimone oculare ) l’increscioso incidente in cui incappò il nostro personaggio nel tentativo di …camminare sull’acqua! Un giorno dei primissimi anni quaranta, un gruppo di 110 persone stava camminando verso la spiaggia, quando una di loro mi chiamò: “ven a veda Paolo, ui è Gagiot cal vò fé una dli su matedie”. Così mi unii a loro e raggiungemmo il pontile. Diversi curiosi si erano già radunati intorno al nostro eroe che, incurante dei consigli degli amici – sta bon, nu fa al mat – era intento a infilarsi ai piedi una specie di enormi scarponi di gomma, precedentemente gonfiati con una pompa da bicicletta, dalla vaga somiglianza ad una barchetta di moscone. Impugnate quindi due racchetti da sci infilate in due palloni l’estroso Gagiot si inoltrò fiducioso nel mare; fatte poche decine di metri, qualcosa non funzionò, perse l’equilibrio e si capovolse. In quella non invidiabile posizione rimase solo per pochi secondi. Alcuni volenterosi si precipitarono in acqua riuscendo a riportarlo a riva, spaventato ma salvo…non tutte le ciambelle riescono col buco! Si distinse invece in America Latina, dove emigrò alla fine degli anni venti. Nel nuovo mondo ebbe modo di manifestare tutto il suo ingegno. Aveva trovato lavoro come custode presso una fabbrica di prodotti tossici. Per ovviare ai molti incidenti che colpivano le maestranze, riuscì ad inventare un congegno di allarme così ingegnoso da meritarsi l’apprezzamento dei superiori. La società poi, intuendo l’importanza di quel dispositivo lo brevettò, dandogli il nome di “DOMINGO” (Domenico in spagnolo). Gagiot morì nel 1943. 111 Altri personaggi Ogni paese che si rispetti, almeno fino a sessant’anni fa, aveva un suo personaggio speciale, oggi diremmo “diversamente sveglio” che, a sua insaputa, almeno così spero, era al centro dell’attenzione non sempre benevola dei concittadini. Scherzi e burle, qualche volta feroci, erano la norma. Il malcapitato, suo malgrado, era il “passatempo” preferito di tanti bambini e giovani sfaccendati. Cattolica, per non venire meno alla sua fama di Regina dell’Adriatico ne aveva, statisticamente parlando più del dovuto. Alcune rugginose malelingue riccionesi asserivano che non era solo questione del caso, della fortuna o di coincidenze astrali, ma il fatto era da imputare ad un terreno più fertile che in altre zone “dai meli nascono le mele” dicevano. Ai cattolichini non rimaneva altro che rimandare ironicamente al mittente certe basse insinuazioni, infatti il campanilismo fra le due cittadine era feroce e ogni occasione era buona per mettere alla berlina l’avversario e farsi poi quattro risate fra i complici al bar. 112 “Tajulen” Tra gli originali e colorati personaggi ricordo in particolare Tajulen (il vero nome non l’ho mai saputo), un omino buono e tranquillo che, nonostante fosse analfabeta e non conoscesse la musica scritta, aveva una dote particolare: con la sua piccola e vecchia fisarmonica riusciva ad orecchio a suonare tutto quello che gli si chiedeva con vera maestria. Nelle calde serate estive era conteso dalle osterie del tempo, perché con le sue canzoncine divertiva gli avventori, specialmente tedeschi, che allora arrivavano in massa sulla nostra riviera. Non chiedeva mai un soldo a nessuno, si accontentava di un piatto di “tajulen in brod” (tagliolini in brodo) perché diceva “a n’ho al stomaga bon pla pasta sota”. Dal suo piatto preferito derivò poi il soprannome. Pierino dei calcinelli Altro personaggio di rilievo di quel piccolo mondo di “figli adottivi paesani” era Pierino dei calcinelli, rigorosamente in italiano. Anche questo modesto protagonista di quel tempo passato doveva il suo nome al mestiere che praticava. Con il suo attrezzo a forma piramidale detto “ smenacul” a metà strada tra un rastrello ed un vaglio, setacciava la sabbia con l’acqua fino alla cintola per pescare i “calcinel”: le piccole telline bivalvi dal colore giallo chiaro molto apprezzate per il loro sapore delicato, vere prelibatezze per preparare gustosi sughi per gli spaghetti. Pierino dei calcinelli aveva un suo codice deontologico: pescava solo dall’autunno alla primavera inoltrata perché, come diceva lui, “d’instè i n’è bon, i’ha al latt”. Per ripararsi dai rigori invernali, nella sua semplicità, faceva i “terzarul” ai calzoni, si levava le scarpe ed entrava in acqua vestito! Se qualcuno passando gli domandava: ”Ma an 113 tzent fred?” Rispondeva sempre con quella sua particolare voce nasale che denotava già abbondanti libagioni: “Na, me a ho al riscaldament interne” toccandosi contemporaneamente la tasca della “sacona” dalla quale spuntava il collo di una bottiglia di vino. Spesso il frutto delle sue fatiche lo portava a casa nostra. Suonava il campanello e alla donna di servizio che apriva la porta diceva, levandosi il cappello: “Ho port un rigal mal dutor”. La risposta era sempre la stessa “ Aspettate qui che chiamo la signora”. Mia zia appariva pochi secondi dopo, ringraziava: “Grazie e tieni questa mancia!” Questo era l’unico modo per fargli accettare del denaro. Affettuosamente il valore della regalia era sempre superiore al prezzo del pescato. “L’ Albena” L’Albena era una piccola donna sempre vestita di nero, una via di mezzo tra una perpetua e un sacrestano. Viveva in una stanzina ricavata alla base del campanile delle suore. Una delle sue incombenze era quella di suonare alle sei del mattino, la campana per annunciare la prima messa (il campanile di S. Pio V verrà inaugurato solo nel 1950). L’Albena era analfabeta e non avendo un orologio, faceva riferimento per l’ora all’apertura del panificio della confinante famiglia Talacchi. Un giorno Giustin, il fornaio, famoso anticlericale e magnifico bestemmiatore, volle farle uno scherzo: finse di aprire il forno alle tre di notte. La povera donna, non sospettando nulla, come sempre si alzò e incominciò a suonare la campana. Successe il finimondo! Quei rintocchi a quell’ora volevano dire: o un incendio o qualcosa di estremamente grave. Le finestre di Via Pascoli incominciarono ad aprirsi e ad illuminarsi, la gente preoccupata si chiedeva e interpellava i vicini su cosa fosse accaduto, ma nessuno sapeva dare una ri- 114 sposta. Alla fine si venne a capo del mistero: la colpa era “dla pora Albena”. Lascio immaginare tutte le contumelie possibile e….irripetibili che dovette sorbirsi la poveretta. Passati i bollori e il trambusto tutti tornarono a letto. L’unico ancora alzato che se la rideva con quei suoi dentoni alla Fernandel era il vero colpevole: Giustin! Mimmo Racconto questo episodio solo quale testimonianza del clima umano di un certo periodo della nostra esistenza, più che una semplice cronaca di vita vissuta. Mimmo era un giovane con gravi problemi mentali. Di lui non so il vero nome né a quale famiglia appartenesse, ma ricordo che si diceva che fosse molto modesta. C’era una cosa che disturbava e sconvolgeva nel vero senso della parola, la personalità di quel ragazzo: il fischio! Se sentiva qualcuno fischiare, e c’era sempre un dispettoso o un incosciente pronto a farlo, si trasformava da ragazzo tranquillo in un essere violento e incontrollabile. Aveva due qualità che per noi bambini erano grossi problemi: correva velocemente ed era bravissimo a tirare sassi. Se inavvertitamente ci trovavamo nei paraggi del fischio dovevamo tenerci sempre a debita distanza e alla prima occasione, possibilmente senza dare nell’occhio, darcela a gambe levate. Era un essere umano e noi lo accettavamo per quello che era: uno dei tanti rischi che dovevamo affrontare ogni giorno da soli. Anche in questo caso fare il raffronto con gli iperprotetti bambini di oggi non sarebbe giusto ma solo superfluo. Che fine avrà fatto quel ragazzo? Non l’abbiamo mai saputo, molto probabilmente sarà stato rinchiuso in uno di quei lager che allora chiamavano manicomi. 115 La strega Questa donna era una povera mendicante: alta, magra, vestita di stracci che la coprivano fino alle caviglie. Camminava claudicando, facendo finta di essere storpia. Si aiutava con una stampella che altro non era che un lungo bastone con una forcella a “V” dove appoggiava l’ascella. Era vittima purtroppo delle nostre “attenzioni” che finivano sempre allo stesso modo con il grido “strega….strega!” La sua reazione era sempre commisurata alla qualità dei nostri scherzi: il lancio di un sasso o, nei casi più gravi, della sua stessa gruccia. Noi non stavamo certo ad aspettare le sue reazioni, ma alle prime avvisaglie lesti, fuggivamo in tutte le direzioni inseguiti dalle stregate maledizioni della vecchia donna. Ora ripensando a quelle bricconate devo ammettere che mi sento un po’ a disagio. “Gianlori” Esile, mite, inoffensivo, ma sempre ubriaco era Gianlori, uomo dai piccoli occhi cisposi. Le sue sbornie rispecchiavano il suo carattere tranquillo. Di lui purtroppo non rammento neanche il vero nome, tantomeno qualche aneddoto che lo possa riguardare direttamente. Perdere il ricordo di qualcuno è sempre triste e quando questi ricordi servono per far “rivivere” una persona, per me è ancora più triste, quindi mi farebbe piacere sapere che qualche mio concittadino ha la possibilità di protrarre nel ricordo il personaggio di Gianlori e scrivesse di lui. Lo stagnino Era un personaggio importante per quei tempi in cui non si buttava via niente. Accomodava tutto: dai piatti ai tegami, dagli ombrelli a tutti i piccoli utensili utili in una casa. Soldi non ne circolavano e bisognava risparmiare su tutto. 116 Il nostro amico, ancora ricordo il suo viso rubizzo e i suoi modi gioviali e simpatici, passava mediamente in centro una volta ogni quindici giorni. Con la sua bicicletta sgangherata, con il suo cesto di vimini per gli attrezzi (il servizio era a domicilio!), con la sua voce stentorea annunciava alle donne di casa il suo arrivo. La plastica non era stata ancora scoperta ed il coccio imperava in cucina, specialmente nelle famiglie meno agiate. Se qualcosa si rompeva ci si rivolgeva sempre al nostro artigiano che, con una manualità degna di miglior causa, con l’ausilio di un trapano ad archetto, una spranga ed una specie di cemento a base di cenere, riusciva sempre a rimediare al danno. Aggiustava anche gli ombrelli, con il disappunto di noi bambini che ambivamo alle stecche di acciaio flessibile per realizzare degli ottimi archi e pericolosissime frecce per i nostri giochi non propriamente innocenti. 117 In conclusione Alla conclusione di questi racconti permettetemi di fare una proposta che metta fine ad una piccola ingiustizia perpetrata ai danni di quelli nati “prima”. Imperano tanti neologismi tipo: diversamente abili, paramedici, collaboratori ecologici, collaboratrici familiari…..allora, al posto del vocabolo “vecchio” che suona così male e che ha sempre un valore negativo, non usiamo “diversamente giovane”? Naturalmente ogni riferimento alla mia persona è puramente casuale. Dopo l’appello “urbi et orbi ”e queste ultime note si chiude il ciclo della spensieratezza. Altri impegni, altre incombenze, altre responsabilità si affacceranno con il passare degli anni, sul palcoscenico della vita di noi ragazzi. Così va il mondo. In queste pagine ho cercato di raccontare quelle cose che credevo più interessanti. Per me è stato oltre che un piacere, l’occasione per ritornare con la memoria e un pizzico di nostalgia a quei tempi passati. A voi (mi voglio illudere) spero abbia offerto qualche momento di piacevole svago. Clio, musa della storia e dei racconti, non se ne abbia troppo a male se mi sono permesso indegnamente di invadere il suo campo. Capirà certamente, da buona immortale dea, che la mia non aveva la pretesa di essere una storia con la esse maiuscola, ma solo una semplice testimonianza di avvenimenti vissuti da un bambino in un periodo particolare. So per certo che l’immeritata fama di bravo ragazzo che avevo a quei tempi verrà sicuramente adombrata, ma sono altrettanto certo che chi mi conosce, perdonerà di buon grado le marachelle narrate in queste pagine e quelle….che non ho potuto raccontare! A tutti i miei gentili lettori un grazie dal profondo del cuore. 118 I luoghi delle nostre scorribande Il pontile in tutta la sua magnificenza 119 I campi da tennis e la pista da pattinaggio sulla spiaggia L’attracco al Pontile 120 Via Bovio (allora Viale Principe di Piemonte) LE NAVI – colonia marina XXVIII Ottobre 121 Il porto canale Il mitico Avviamento 122 … e la sua demolizione nel 1966 Cattolica negli anni ‘30 123 Indice Presentazione..................................................................................3 Prefazione.....................................................................................11 Gli anni della guerra..................................................................15 La compagnia “dal Viel”................................................................17 Idrolitina ‘alcolica’.........................................................................20 I tedeschi in casa..........................................................................24 I disagi e le paure della guerra....................................................28 Il tempo passato in campagna.....................................................34 Ritorno a casa. Mesi pericolosi.....................................................40 Gli Alleati e i nuovi giochi dei ragazzi.........................................46 Nuove disavventure......................................................................50 Immagini di morte e pericoli.......................................................55 Il dopo guerra.............................................................................59 Lentamente la vita riprende..........................................................61 Il campo giochi.............................................................................67 Il ‘covo’ della banda, feste di paese e nuovi amici......................72 Tragica burrasca............................................................................81 Curiosità.......................................................................................85 Ciccio, “al macàc dla Rudi”...........................................................87 Lo scherzo.....................................................................................92 Il tritolo.........................................................................................94 I capodogli....................................................................................96 I veglioni.......................................................................................98 Un pomeriggio da s…ballo........................................................101 Personaggi.................................................................................105 Il buon dottor Rudi.....................................................................107 Gagiot (Domenico Candiotti).....................................................110 Altri personaggi..........................................................................112 I luoghi delle nostre scorribande...........................................119 124 125 Impaginazione e grafica: Michele Balducci Finito di stampare nel settembre 2012 presso Tipolito La Grafica - Cattolica