unità 6 L’ordine di Vienna Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro un dipinto che raffigura i rappresentanti degli Stati europei riuniti a Vienna per il Congresso del 1814-1815. Sommario 1 2 3 4 Le ragioni della vittoria inglese nel lungo duello con la Francia L’insurrezione in Italia: il dibattito sulla strategia militare Le radici economiche della rivoluzione del 1848 in Francia L’ascesa al potere di Luigi Bonaparte F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 5 6 7 8 Bismarck e l’idea di nazione La nascita del Reich nella pittura di corte tedesca L’idea di martirio nella propaganda politica di Mazzini Il 1848 in Europa UNITÀ 6 1 L’ORDINE DI VIENNA 2 Le ragioni della vittoria inglese nel lungo duello con la Francia L’Inghilterra combatté contro la Francia per più di vent’anni, dal 1793 al 1815. Si trattò di una prova pesantissima, ma la Gran Bretagna ne uscì vittoriosa in virtù della potenza della sua flotta e della sua economia. D’altra parte, la società britannica non fu messa a dura prova dalla guerra, soprattutto negli anni 1810-1811. Com’era stato possibile che la Gran Bretagna conducesse una guerra quasi ininterrotta dal 1793 al 1815 e ne uscisse infine vittoriosa? La risposta non sta evidentemente nell’ispirazione della direzione politica, in una superba strategia congiunta o, nonostante le dimensioni dell’esercito nelle ultime fasi della guerra (350 000 uomini) […], nella potenza delle forze di terra. Considerando il conflitto nel complesso, i due principali fattori materiali decisivi furono quello navale e quello economico. Furono soprattutto i mari, la fonte sia della ricchezza sia della grandezza inglese, a salvare il paese e a garantire la vittoria finale. La potenza navale organizzata, che aveva come simbolo la flotta, «la difesa che ragione e natura ci indicano tanto chiaramente», fu utilizzata in maniera meno drammatica e spettacolare dopo il trionfo di Nelson a Trafalgar, ma la frequente inattività della flotta era di per sé un segno di supremazia. Collingwood [l’ammiraglio che sostituì Nelson a guida della flotta, n.d.r.] continuò a difendere il Mediterraneo nel corso di sette anni di continua espansione militare francese, mentre le navi inglesi ottennero oltremare vittorie in regioni tanto lontane quanto la Martinica, San Domingo e il Senegal. La supremazia navale britannica non si basava su armamenti navali superiori – la rivoluzione industriale non aveva ancora toccato la costruzione navale né i suoi metodi – e neppure su una disciplina e un morale superiori dei marinai comuni. Gli strumenti del reclutamento in marina – arruolamento forzato, oppure accordi con i magistrati per costringere vagabondi e detenuti – non garantivano affatto una forza affidabile. Erano piuttosto la quantità e la superiorità qualitativa degli ufficiali inglesi e l’organizzazione dei comandi navali a differenziare le due flotte nemiche. Fino alla morte in mare nel 1810, Collingwood si distinse in particolare, nelle parole di Creevey, come «il primo e unico ministro d’Inghilterra ad agire sul mare, a tenersi in corrispondenza con tutti gli Stati circostanti e a ordinare ogni cosa sotto la propria responsabilità». Mentre la marina da guerra teneva sgombre le rotte oceaniche, pattugliando le coste delle colonie e fornendo una forza di protezione alle navi mercantili, la marina mercantile, nel corso di tutte le vicissitudini della guerra economica, gettò le fondamenta di una supremazia schiacciante in tempo di pace. Anche se i francesi e i loro alleati catturarono in media 524 mercantili all’anno tra il 1795 e il 1810, questa perdita, persino negli anni peggiori, equivaleva soltanto al 3% del tonnellaggio complessivo inglese. Con il proseguire della guerra, la paga dei marinai mercantili crebbe, mentre le tariffe dell’assicurazione marittima scesero nettamente, F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 da un tetto del 25% negli anni 1790 a un minimo del 6% nel 1810. Il commercio oltremare inglese continuò ad espandersi, in netto contrasto con la stagnazione di quello francese; si ebbe un aumento eccezionale delle esportazioni dal 1812 al 1815, e, presagio del futuro, una nave a vapore appena costruita giunse a Londra da Glasgow nel 1815, dopo un viaggio di 1500 miglia. La costante capacità di ripresa del commercio inglese oltremare dipendeva naturalmente [anche] dalle capacità produttive di una società industriale che si andava sviluppando. Mentre Napoleone non seppe sviluppare l’industria francese sotto la copertura del protezionismo fornita dalla guerra e dall’inevitabile abrogazione del trattato di Eden [stipulato poco prima dello scoppio della Rivoluzione da William Eden, barone di Auckland, che nel governo inglese rivestiva una funzione simile a quella di ministro del Commercio, n.d.r.], l’industria inglese, immune dalla concorrenza, continuò a espandersi. I suoi diversi settori furono influenzati in modi diversi, ma almeno fino alla formalizzazione del sistema continentale di Napoleone (1806-1810) e alla promulgazione, per ritorsione, degli Ordini in Consiglio inglesi (del 1807), molte industrie ebbero una crescita continua. […] Mentre gli agricoltori continuarono a passarsela bene durante gli ultimi dieci anni di guerra, gli industriali si trovarono ad affrontare tra il 1806 e il 1811 problemi ben più complessi di quelli affrontati nel periodo precedente delle ostilità. La serie di Ordini in Consiglio (ventiquattro in tutto) emessi da Grenville e dal ministero di tutti i talenti e proseguita in misura molto più massiccia dal governo di Portland, era ritenuta la causa dei problemi degli uomini d’affari, ben più delle ordinanze di Berlino o del sistema continentale di Napoleone. Considerati nel complesso, gli ordini stabilivano uno stato di blocco contro la Francia e i suoi alleati, proibivano il commercio tra i porti francesi e altri porti nemici e tra le colonie nemiche e le loro madrepatrie e permettevano ai paesi neutrali di commerciare con la Francia e i suoi alleati soltanto se trasportavano merci inglesi o se le loro navi toccavano prima un porto inglese, dichiarando il carico, scaricando e ricaricando le merci imbarcate e pagando un dazio. In altre parole, la parte restante del commercio estero che non era già stata sconvolta o strangolata da Napoleone era severamente controllata dal governo britannico. «Il nemico aveva dichiarato che la Gran Bretagna non doveva avere commercio. La risposta fu che il nemico – e il termine era usato nella sua accezione più ampia – non doveva avere commercio se non attraverso la Gran Bretagna» (A.F. Fremantle). […] Ad accrescere le tensioni sociali contribuirono i cattivi raccolti del 1809 e 1811 […]. In tutti i grandi centri industriali, fabbricanti e mercanti chiedevano a gran voce un’abolizione totale dei «disatrosi e stupidi» Ordini in Consiglio. Cinquantamila abitanti di Manchester ne avevano domandato la revoca già nel 1808, un anno relativamente favorevole; nel 1810 e 1811 la pressione salì e la guerra diventò largamente impopolare. A Birmingham, città in cui si era calcolato che quasi la metà del volume totale della produzione era prodotta per il mercato americano, nell’estate del 1811 erano 9000 le persone che ricevevano il sussidio per i poveri, e «tutti gli industriali sono sovraccarichi di scorte». […] Quando i raccolti inglesi si rivelarono disastrosi e i prezzi alimentari erano cresciuti tanto che migliaia di persone rischiavano di restare affamate, Napoleone non seppe resistere alla pressione dei produttori francesi di cereali, che dopo una serie di buoni raccolti erano ansiosi di esportare le loro eccedenze nell’affamata Gran Bretagna. Compiendo nel 1810 un calcolo gravemente errato, sulla base di un’analisi fondamentalmente sbagliata della situazione politica, Napoleone giunse alla conclusione che se avesse potuto costringere la Gran Bretagna a esportare oro per comprare grano, un’inflazione disastrosa avrebbe paralizzato la volontà di resistenza dell’Inghilterra. […] Sarebbe stato molto meglio per lui se nel 1810 avesse cercato – poteva anche non riuscirci – di affamare la Gran Bretagna o almeno di accrescere le tensioni sociali nelle regioni industriali inglesi. Invece, lasciò passare il momento critico. A. BRIGGS, L’età del progresso. L’Inghilterra fra il 1783 e il 1867, il Mulino, Bologna 1993, p. 182, trad. it. D. PANZIERI UNITÀ 6 Quali erano i veri punti di forza della flotta britannica? Lo sviluppo industriale dell’Inghilterra ebbe un ruolo importante nella superiorità navale inglese? Di che cosa era segno la diminuzione delle tariffe di assicurazione marittima? Che cosa erano gli Ordini in Consiglio? RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 3 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 2 L’insurrezione in Italia: il dibattito sulla strategia militare UNITÀ 6 L’intero periodo risorgimentale, dal 1821 al 1860, fu attraversato da un serio dibattito in cui i motivi di ordine politico e le argomentazioni di tipo strategico si intrecciavano in modo fittissimo. Quanti proponevano l’insurrezione popolare come strumento per combattere contro l’Austria erano convinti non solo della sua importanza civile (un popolo capace di liberarsi dall’oppressione sarebbe poi stato capace, in futuro, di darsi un ordinamento veramente democratico), ma anche della sua efficacia militare. In realtà, entrambi i postulati dovevano rivelarsi dubbi, alla prova dei fatti. L’ORDINE DI VIENNA 4 Da un esule del ’21, il piemontese Carlo Bianco, conte di Saint-Jorioz, condannato a morte in contumacia [fisicamente assente in tribunale, al momento del processo, n.d.r.], combattente in Spagna e poi esule a Malta, si ha la prima appassionata indagine ed esposizione sistematica delle possibilità che l’Italia ha in sé di risorgere: il famoso trattato sulla guerra insurrezionale per bande, composto fra il 1824 e il 1829 e stampato a Marsiglia nella prima metà del 1830, è un’appassionata rivendicazione del valore italiano e la sicura affermazione che l’Italia avrà in sé, senza dover sperare né nei suoi principi né negli stranieri, i mezzi della sua resurrezione, i mezzi cioè per conquistare libertà, indipendenza, unità: l’insurrezione popolare, la guerra per bande; una guerra tutta diversa da quella regolare, ma che saputa combattere con ardore e tenacia, come già fecero gli spagnoli contro Napoleone, è destinata a trionfare dei più potenti e agguerriti eserciti stanziali [legati in modo fisso a un determinato territorio, sul quale hanno caserme, magazzini o fortezze, n.d.r.]; guerra di popolo che fraziona le forze perché siano più mobili, più facili da occultarsi e da nutrire, e pronte sempre a disperdersi e a riunirsi; guerra non legata a magazzini, a basi e linee d’operazione o al possesso di grandi centri. Guerra poi combattuta coll’aiuto crescente di tutta la popolazione, guidata da comitati segreti dapprima, palesi poi; e sempre più spietata, poiché le rappresaglie sanguinose e devastatrici del nemico portano a nuovo sangue e a nuovo odio, e la lotta tende ad assumere i suoi caratteri estremi di guerra totale e guerra assoluta; e l’esercito nemico alla fine dovrà abbandonare coi suoi laceri resti l’infausto e tremendo paese. A dargli il colpo di grazia potranno anche contribuire forze regolari, create via via coi combattenti meglio esercitati e allenati. In questo modo due milioni d’italiani insorti finiranno coll’annientare non cento, ma trecentomila soldati regolari, dell’Austria o di qualsivoglia potenza. L’errore del Bianco consisteva nel mettere in relazione numerica dei valori d’ordine differente e non commensurabili: eserciti armati, disciplinati, addestrati e ben inquadrati da un lato; dall’altro un potenziale umano, in gran parte arretratissimo, nel quale si doveva innanzi tutto trovare un entusiasmo, un’abnegazione, un’energia, una ferrea tenacia quale solo l’opera d’un uomo di F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 genio, e ben coadiuvato da altri uomini superiori, avrebbe potuto suscitare: a un possente e gravoso dato di fatto [la potenza militare austriaca, n.d.r.] contrapporre un atto di fede nella recondita [nascosta, da portare allo scoperto, n.d.r.] virtù della stirpe, un desiderio profondo, un’ardente speranza: a una mobilitazione regolare pretendeva opporre una mobilitazione generale in base a un universale imperativo patriottico. O, peggio ancora, contrapponeva la fredda convinzione che l’insurrezione, col suo crescendo di reazioni militari e di vendette popolari, avrebbe finito coll’assorbire nel suo spietato ingranaggio tutta la popolazione in una lotta senza quartiere per la vita e per la morte. Per di più il Bianco sembrava voler ignorare che gl’insorti spagnoli non avevano agito da soli, ma coll’aiuto possente dell’esercito inglese e dello stesso esercito regolare spagnolo. Il Bianco terminava il suo trattato alla fine d’agosto 1829 […]; poco dopo la stampa del trattato si aveva in Francia, a Parigi, nel 1830, la rivoluzione di Luglio, con le sue ripercussioni al di qua delle Alpi e con la cosiddetta rivoluzione dell’Italia centrale. […] A Parigi il Buonarroti mira a legare l’insurrezione italiana al gran moto rivoluzionario europeo, e Carlo Bianco sotto la sua alta ispirazione è a capo dei Militi Apofasimeni (disperati, pronti allo sbaraglio), cui conferisce un carattere strettamente militare, elemento di punta della prossima vera grande rivoluzione. Ed essi si diffondono sempre più in Piemonte, in Romagna, in Toscana, e alla società si iscrive nell’aprile 1831 anche Giuseppe Mazzini. Ma due mesi dopo il genovese fonda a Marsiglia la Giovine Italia, nella quale affluiscono gli Apofasimeni. Verso la fine del ’32 appare nel quinto fascicolo della «Giovine Italia» il noto scritto di Mazzini Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia, che costituisce la dottrina militare del nuovo movimento rivoluzionario. Nella parte tecnica il giovane apostolo s’attiene al trattato del Bianco, ripetutamente ricordato con molta lode; ma nell’insieme ne attenua la durezza, […] vede nella lotta e come elemento di questa, pur restando molto nel generico, la rigenerazione delle plebi agricole, afferma la necessità d’un nucleo di forze regolari e d’un organo direttivo centrale. I tentativi della Giovine Italia naufragano miseramente, già nella fase preparatoria cospirativa, nella spietata repressione di Carlo Alberto, e i tentativi della Savoia e di Genova falliscono quasi prima d’essere iniziati; né valgono a risollevare pel momento il prestigio del Mazzini i suoi sforzi d’allargare il movimento con la creazione della Giovine Svizzera e della Giovine Europa. P. PIERI, Storia militare del Risorgimento. Guerre e insurrezioni, Einaudi, Torino 1962, pp. 789-791 Quale episodio militare del recente passato, che veda come protagonista il popolo, è presentato come esemplare dell’efficacia della guerra per bande? Nel suo classico studio intitolato Come nascono le rivoluzioni, lo storico francese Ernest Labrousse propone un modello teorico che, a suo giudizio, si ripeté nel 1789, nel 1830 e nel 1847. In questi tre casi, la rivolta politica è preceduta da una crisi economica, che viene direttamente imputata al governo, alla sua negligenza o alla sua inettitudine. Questo clima arroventato spiega la partecipazione popolare ai moti, guidati da intellettuali o figure borghesi che hanno progetti politici e sociali di più vasto respiro. Ed eccoci alla crisi del 1847. La cui caratteristica è data dalla permanenza, nel suo seno, del vecchio meccanismo generatore della tensione, ma anche dalla comparsa di un nuovo meccanismo. Abbiamo intanto l’accumulo degli squilibri: squilibrio naturale [provocato dai cattivi raccolti, notevolmente influenzati dalle piogge e dal clima, n.d.r.] della vecchia economia delle granaglie e del tessile; squilibrio artificiale della nuova economia metallurgica. In primo luogo, pertanto, crisi di vecchio tipo; ossia crisi sostanzialmente agricola, e crisi del tessile: ve l’avevo detto che il 1847 sembrava una ripetizione del 1830. Infatti la faccenda comincia con una malattia della patata, di una patata che occupa ora un posto assai più considerevole, rispetto al 1830, nell’alimentazione popolare. La malattia si manifesta nel 1845-46. Il raccolto cerealicolo del 1846 è cattivo. Ci vuole poco a rendersi conto dell’importanza di questa accoppiata: il prezzo elevato della patata, alimento popolare, si ripercuote sul prezzo del pane, alimento popolare sostitutivo. L’aumento di un prodotto di grande consumo popolare quale la patata, comporta, anche quando non si registri un cattivo raccolto delle granaglie, un notevole aumento del prezzo di queste ultime. Quando poi il raccolto sia cattivo, come appunto nel 1847… Ne consegue che, nella Francia del 1847, assistiamo alla replica pressoché identica degli avvenimenti economici della Francia del 1830 e del 1789. […] Insomma, sotto questo aspetto, vediamo profilarsi una crisi di vecchio tipo. Ma, come vi avevo avvertito, la rivoluzione del 1848 scoppia un po’ alla confluenza tra crisi di vecchio e di nuovo tipo. Alla crisi dell’economia delle granaglie e del tessile si sovrappone la crisi dell’economia metallurgica. L’economia francese fa la sua prima conoscenza con una crisi metallurgica. Ricordiamo alcune date peraltro note: il 1847 è piuttosto vicino al 1841, ossia alla data della grande legge sulle espropriazioni, quella che istituisce e sancisce le espropriazioni indispensabili alla costruzione della nostra [francese, n.d.r.] rete ferroviaria. Inoltre, il 1847 è piuttosto vicino al 1842, anno in cui vede la luce la Carta, lo statuto, di questa rete. Naturalmente è stato varato anche un piano di costruzione; concepito nell’illusione di un periodo di prosperità proprio quando, nel 1846, i tempi facili volgevano alla fine. Ma chi era così ingenuo da credere a una crisi alle porte? Riunendo credito privato, credito locale e credito statale, il piano doveva consentire la rapida costruzione delle ferrovie. L’età del ferro e dell’acciaio era inaugurata. La metallurgia moderna, col coke, è già lanciata. Ma con lo scoppio della crisi non ci sono più disponibilità finanziarie; non c’è più credito: il piano viene sospeso. E con esso si aggiornano lavori pubblici per quasi un miliardo di franchi; insomma bisogna rinunciare a circa 500 milioni di giornate lavorative a due franchi al giorno. È il crollo della metallurgia. Lo stesso per le miniere. Tra il 1847 e l’inizio del 1848, la produzione metallurgica diminuisce di un terzo in termini di valore. Non ci metterà molto a diminuire della metà. Per quanto riguarda la produzione mineraria lo scivolone è del 20 per cento. […] L’ondata degli alti prezzi si è abbattuta sul paese come un’inondazione e, come succede quando le inondazioni defluiscono, si è lasciata alle spalle una popolazione di sinistrati, priva di risparmi. Spessissimo, lo testimoniano i Monti di Pietà, è la stessa mobilia a essere impegnata. Siamo al dramma della disoccupazione. La rivoluzione scoppierà in un mondo economicamente disastrato. […] Di solito le crisi sono imputate al governo. Cioè si imputa al governo un cattivo raccolto? – mi chiederete stupiti. Evidentemente non il fatto in sé del cattivo raccolto. Si afferma però: se c’è stato aumento dei prezzi vorrà dire che il governo ha esportato troppo grano negli anni precedenti; oppure che non ne ha importato a sufficienza nel corso di quest’annata deficitaria. Se l’industria metallurgica stagna, se c’è una crisi tessile, sarà perché le materie prime sono state troppo tassate all’importazione; e anche perché l’esportazione non è stata sufficientemente incentivata. […] Insomma: ritrovo questa concezione antropomorfica della crisi, nella persona di un ministro o di un ministero, puntualmente: per spiegare l’origine delle nostre tre rivoluzioni. […] Ma la crisi non ci si limita a imputarla al governo; spesso si mira più in alto, al regime stesso. Consentitemi di citarvi un discorso emblematico di Ledru-Rollin: fu tenuto in occasione del dibattito sull’Indirizzo inaugurale al parlamento nel 1847. Come tratteggia la situazione economica? A chi ne imputa la responsabilità? «Se le nostre industrie, il nostro commercio e il nostro credito – dichiara alla Camera – si trovano in simile stato allarmante, e potrei dire di imminente rovina, a chi va attribuita la colpa? A chi imputare la responsabilità, se non a quel sistema che ci grava così pesantemente ormai da sedici anni? […] Le debolezze in politica estera, al pari degli errori governativi in politica interna, bastano e avanzano per spiegare le difficoltà in cui si dibattono commercio e industria!». E. LABROUSSE, Come nascono le rivoluzioni. Economia e politica nella Francia del XVIII e XIX secolo, Bollati-Boringhieri, Torino 1989, pp. 222-226, trad. it. A. ZANARDO Quali fattori producevano, negli anni Quaranta dell’Ottocento, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità (cereali e patate)? Che cosa distingue la crisi economica del 1847-1848 da quelle che l’hanno preceduta? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Le radici economiche della rivoluzione del 1848 in Francia 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 3 4 L’ascesa al potere di Luigi Bonaparte UNITÀ 6 Nel confuso quadro della politica francese dei mesi e degli anni seguenti i moti parigini del 1848, Luigi Bonaparte seppe muoversi con maggiore abilità dei suoi avversari. Il successo si deve in primo luogo al suo «interclassismo demagogico»: ogni francese – di qualsiasi classe sociale – si sentì rivolgere un messaggio capace di gratificarlo. Ai contadini e agli operai fu promesso un miglioramento delle condizioni di vita, ai borghesi l’abolizione delle proteste dei lavoratori, mentre i cattolici ottennero che l’esercito francese intervenisse a Roma per ripristinare l’autorità del papa e sopprimere la Repubblica democratica. L’ORDINE DI VIENNA 6 Nel ’48 Luigi Bonaparte aveva quarant’anni ed una discreta esperienza politica alle spalle. È un vezzo [una cattiva abitudine, n.d.r.] della cultura di sinistra stabilire un’antitesi, e un abisso, tra il grande e il terzo Napoleone. […] In realtà, il carattere dominante del bonapartismo – cioè l’interclassismo demagogico, seduttivo, quasi irresistibile verso le masse meno politicizzate e al tempo stesso saldamente ancorato ad un rapporto di mutua assistenza coi ceti possidenti – è già tutto presente nel primo «imperatore dei francesi». Dalla riduzione drastica del suffragio al ripristino della schiavitù, dalla creazione di un nuovo ceto di notabili alla censura ferrea: tutto è già nel Primo Impero, anzi già nel 18 brumaio. Alla drastica distinzione tra il primo e il terzo Napoleone ha contribuito ovviamente anche il tono sprezzante dei pamphlets [scritti polemici, n.d.r.] sferrati contro Luigi Napoleone: dal Napoleone il piccolo di Victor Hugo al 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx. Ma tutto ciò ha finito per offuscare la sostanza: la nascita, cioè, ben precoce, dal seno stesso della rivoluzione, della cosiddetta terza via tra democrazia e reazione, cioè il bonapartismo, che in realtà altro non è che la stessa seconda via (la reazione) in forme moderne e pseudorivoluzionarie. […] Facendo tesoro delle vicende, certo istruttive, dell’illustre congiunto, Luigi Bonaparte, falliti i tentativi putschisti [dopo il fallimento di due progetti di colpo di Stato (putsch), n.d.r.] del 1836 e del 1840 (ma allora i possidenti non avevano bisogno di lui, Luigi Filippo era saldamente al potere), elesse come stelle polari della sua azione tre cardini: il populismo [lo sforzo ottenere il favore e il consenso del popolo, n.d.r.], l’ostentata deferenza verso la Chiesa cattolica, il costante legame con ambienti economicamente forti che potessero sorreggere il suo ingresso nell’agone [scontro, n.d.r.] politico. […] Nel 1844, aveva scritto un libretto, La liquidazione della povertà (Extinction du paupérisme), nel quale si offriva come «amico» delle classi lavoratrici. In questo scritto, Luigi Bonaparte pone l’accento sull’equilibrio agricoltura/industria; inoltre, attacca l’industrialismo selvaggio […]. In un’epoca in cui l’orario di lavoro nell’industria era di dodici ore al giorno, il lavoro minorile imperversava, e oltre Atlantico, negli USA, i difensori della schiavitù delle piantagioni avevano buoni argomenti per indicare come più umano tale arcaico rapporto di dipendenza rispetto alla feroce durezza della vita in fabbrica, le proposte del nuovo Bonaparte si offrivano come particolarmente attraenti: soprattutto nel mondo provinciale e agricolo. Una delle proposte dell’opuscolo era la creazione di comunità agricole che mettessero a frutto i nove milioni di terre incolte (era questo il dato delle statistiche ufficiali). Questa immensa rete di colonie agricole non solo avrebbe fornito alimento ad un gran numero di famiglie povere, ma avrebbe offerto un approdo alle masse di operai disoccupati buttati fuori dal ciclo produttivo a causa della stagnazione economica (fortissima in quei mesi, e tale sarebbe stata ancora fino almeno all’inverno 1848-49). I profitti – e qui il libretto diventa un vero manifesto dell’interclassismo – sarebbero stati divisi tra lavoratori e datori di lavoro. «Attualmente – scriveva – la retribuzione del lavoro è affidata al caso e alla violenza. Il padrone opprime, e l’alternativa è l’operaio che si ribella». La proposta avanzata era: «un salario regolato non sulla base del rapporto di forze ma secondo giustizia, tenendo conto delle necessità di chi lavora e degli interessi di chi crea lavoro». Questo – incalzava – dovrebbe essere l’obiettivo di un governo efficiente. […] Quando fu resa nota la sua candidatura per le elezioni di dicembre [le elezioni presidenziali del 1848, n.d.r.], qualcuno protestò; egli si difese vari giorni più tardi, con l’argomento ch’era doveroso accettare una candidatura che gli veniva offerta con insistenza e dopo tanti successi nelle elezioni a deputato. […] Del resto il risultato elettorale è eloquente di per sé: cinque milioni e mezzo al Bonaparte, un milione e quattrocentomila voti al principale antagonista (Cavaignac); ma ancor più indicativo è il risultato quasi nullo dei candidati ufficialmente socialisti (36 329 voti a Raspail, e 370 719 a Ledru-Rollin!). Il nuovo Bonaparte aveva mangiato tutte le opposizioni e tutti gli scontenti del governo Cavaignac, e insieme aveva attinto al suo stabile e vasto serbatoio elettorale provinciale. Il suo programma elettorale era, a suo modo, perfetto. Prometteva di difendere l’ordine, di proteggere la religione, la famiglia, la proprietà, di volere la pace, la decentralizzazione [la concessione di un ampio margine di autonomia alle singole province; la tradizione francese, invece, era di tipo centralistico, cioè concentrava a Parigi la maggior parte delle decisioni importanti, n.d.r.], la libertà di stampa, l’abolizione delle leggi di proscrizione (e i proscritti erano, in quel momento, le migliaia di operai deportati dopo le giornate di giugno), di proporsi la riduzione delle tasse più onerose per il popolo, di voler incoraggiare le imprese capaci di dar lavoro ai disoccupati, di voler instaurare strumenti volti al sostegno dei lavoratori anziani; in una parola di mirare al benessere di ciascuno fondato sulla prosperità di tutti. […] La leggenda, mai esausta, del primo Bonaparte fece il resto. L. CANFORA, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 120-126 Spiega le espressioni «interclassismo demagogico, deduttivo» e «terza via tra democrazia e reazione». Spiega l’affermazione «Il suo programma elettorale era, a suo modo, perfetto». F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Nella Germania nazista, era prassi corrente istituire un parallelo tra Hitler e Bismarck e presentare il cancelliere prussiano come un precursore del Führer. In realtà, Bismarck era assai poco sensibile al tema della nazione. Egli ragionava in termini freddi, lucidi, di potenza: il suo valore supremo era lo Stato, non la nazione germanica. Inoltre, Bismarck sperava di riuscire a conservare buone relazioni con l’impero zarista, mentre Hitler (mosso dal razzismo antislavo) voleva cancellare l’esistenza stessa della Russia e trasformarla in dominio tedesco. Il vero architetto dell’unità italiana fu Cavour. Mentre a Bismarck i parlamenti non piacevano, Cavour credeva nel libero gioco degli interessi e delle idee. Gli piaceva il gioco della politica parlamentare e riteneva che l’unità potesse essere raggiunta soltanto attraverso la riconciliazione degli interessi e non attraverso un governo assoluto. A ciascun gruppo bisognava dare la sua giusta possibilità e ciascun individuo doveva avere fiducia nella ragione che avrebbe prodotto il consenso senza abolire la libertà. Questa era una visione completamente liberale del nazionalismo, e doveva essere ripresa più tardi da Clemenceau [nella Francia del primo Novecento, n.d.r.]. Nella pratica Cavour fu meno liberale che in teoria, comunque in Italia fu un liberale che divenne l’architetto dell’unità. Come Mazzini, sebbene in modo completamente diverso, egli fece sì che il nazionalismo italiano combinasse le idee liberali di libertà con l’accento sulla coscienza nazionale. In Germania nessuno svolse una funzione analoga. […] Dopo il 1848, tuttavia, ci fu anche un’altra forma di realismo nuovo nell’impostazione del problema nazionale rappresentato non solo da Cavour ma anche da Bismarck. Come abbiamo già detto, era ancora possibile avere una visione territoriale della nazione invece che una visione culturale. Bismarck ne fu un esempio. Non gli interessava lo stato in quanto organismo che comprendeva tutto. Egli era molto disposto a lasciare che le minoranze presenti in Germania, come i polacchi a est, conservassero la propria identità e la propria lingua. Né Bismarck pretese una nazione unitaria che avesse un’unica visione culturale. Gli stati tedeschi meridionali conservarono il controllo dei loro affari culturali. La Germania fu unificata soltanto fino al punto che Bismarck ritenne necessario alla sua esistenza in quanto stato fra gli altri stati. Egli era un federalista, una posizione alquanto incompatibile con ogni genere di nazionalismo culturale. Per Bismarck, lo stato era uno strumento di potere. Quel potere non era aggressivo quanto piuttosto diretto a mantenere la nazione al sicuro da disordini interni ed esterni. Per lui il pericolo interno non era rappresentato dalle minoranze polacche o ebree, bensì dal programma rivoluzionario del marxismo. Perciò, sop- presse il Partito socialdemocratico tedesco. Ma al tempo stesso tentò di legare le classi più povere allo stato, non attraverso un nazionalismo esasperato ma attraverso una legislazione assistenziale. […] Bismarck era soprattutto un tecnico del potere. Il che non vuol dire mancanza di ideologia o concezione cinica del mondo. Anzi, per Bismarck, questo voleva dire senso di responsabilità verso Dio. Questa responsabilità veniva giustificata con la necessità di mantenere la nazione sicura una volta che era stata costituita e, prima di allora, con l’impegno a lavorare alla sua fondazione. Certamente, si poteva ricorrere a quelli che venivano chiamati metodi machiavellici; anche Cavour era convinto di questo. Ma simili metodi, dopo tutto, erano stati sempre usati dagli statisti nel corso della storia ed erano anche stati sempre collocati in un più ampio quadro ideologico. Per Cavour questo quadro era il liberalismo, la conciliazione degli interessi; per Bismarck era il senso di responsabilità verso Dio che gli consentiva di operare sulla terra macchiata dal peccato. «Sangue e ferro» potevano essere usati, ma soltanto in casi estremi, quando l’esistenza dello stato era in pericolo. Certo, dopo il fallimento del 1848 egli pensò che la Germania corresse il grave pericolo di non diventare mai uno stato. Il concetto di nazionalismo di Bismarck era più vecchio del nazionalismo culturale dei suoi tempi. Egli pensava in termini di stato, della salvaguardia del suo territorio e del suo potere, ma respingeva l’unità culturale e l’aggressività in nome del Volk. Tuttavia, questo concetto di nazionalismo non venne raccolto dai suoi successori. Il nazionalismo culturale divenne dominante nella maggioranza delle menti, compresa quella dell’imperatore Guglielmo II. Sebbene questo fosse dovuto principalmente alla forza del nazionalismo culturale dopo il 1848 [il concetto corrisponde a quello che, nell’Unità V è stato da noi definito sentimento nazionale o idea di nazione, n.d.r.], quella non fu la sola ragione. La fine del secolo assistette a una ripresa del romanticismo, che rafforzò ulteriormente la concezione della nazione in termini di cultura e di razza. In realtà, il nazionalismo culturale in Germania diventò nazionalismo razziale […] e doveva portare direttamente al nazionalsocialismo. Queste considerazioni non devono far pensare che Bismarck sia stato un precursore del nazionalsocialismo; anzi, il suo nazionalismo risaliva a un’epoca ignara di quella combinazione di romanticismo e di nazionalismo che doveva dar vita al nazionalismo culturale che avrebbe caratterizzato il futuro della Germania. G.L. MOSSE, La cultura dell’Europa occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Mondadori, Milano 1986, pp. 103-106, trad. it. S. D’AMICO Quali erano, per Bismarck, i veri e pericolosi nemici della nazione? Quale influsso esercitò l’atmosfera culturale romantica sul nazionalismo di Bismarck? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Bismarck e l’idea di nazione 7 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 5 6 La nascita del Reich nella pittura di corte tedesca UNITÀ 6 Subito dopo la vittoria ottenuta contro i francesi, il pittore Anton von Werner ricevette il prestigioso compito di celebrare la nascita del nuovo impero tedesco. Werner era presente a Versailles il giorno dell’incoronazione di Guglielmo I a Kaiser del neonato Reich e raffigurò quell’evento in numerosi dei suoi quadri. Nonostante l’apparente realismo quasi fotografico, in realtà il dipinto è un condensato di simboli finalizzati a trasmettere ai tedeschi un preciso messaggio nazionalistico. L’ORDINE DI VIENNA 8 L’immagine più nota dell’unificazione tedesca è il quadro di Werner intitolato Die Proklamierung des Deutschen Kaiserreiches (detto anche Die Kaiserproklamation) [La proclamazione dell’Impero tedesco o La proclamazione imperiale, n.d.r.]. Werner ne ha dipinto diverse versioni: quanto segue si riferisce alla Schloßfassung, la prima versione terminata nel marzo 1877 ed esposta nella sala del trono del castello reale di Berlino. La scena si svolge il 18 gennaio 1871 nella grande Galleria degli specchi della reggia di Versailles. Gli eserciti tedeschi sono alle porte di Parigi e hanno trasferito il loro quartiere generale da Ferrières, dove occupavano il castello dei Rothschild, a Versailles. Al centro dell’azione c’è ovviamente Guglielmo I, l’ormai anziano re di Prussia ed ora imperatore tedesco. […] In prima fila c’è Bismarck, l’architetto dell’unificazione nazionale, che raccoglie i frutti di una strategia annunciata nel suo primo discorso da cancelliere prussiano. Allora, nel settembre 1862, aveva sfidato in parlamento gli eredi della tradizione nazional-liberale con frasi destinate a rimanere famose: «La Germania non guarda al liberalismo della Prussia, ma alla sua potenza… le grandi questioni del tempo non si risolvono con i discorsi e le delibere a maggioranza – questo è stato il grande errore del 1848 e del 1849 –, ma con il ferro e con il sangue». […] Birmarck sorregge il testo del proclama che ha appena terminato di leggere, ma tiene bene in vista – come del resto lo stesso imperatore – l’elmo chiodato, il simbolo per eccellenza della potenza militare prussiana. Tutt’attorno si affollano soldati, ufficiali e comandanti tedeschi, che sollevano elmi e sciabole a salutare l’avvenuta proclamazione. […] Non a caso, il quadro si estende verso l’alto sino al punto da comprendere esattamente quella parte della volta (sopra la finestra centrale) dove compare il titolo del grande affresco Passage du Rhin en présence des ennemis [Passaggio del Reno alla presenza dei nemici, n.d.r.] di Charles Le Brun, l’allievo di Poussin divenuto «premier peintre du Roi» [primo pittore del re, n.d.r.]. In questo caso, la scelta compositiva di Werner va ben oltre la nota tecnica dell’«immagine nell’immagine». Il collegamento tra la gloria militare di Luigi XIV e la vittoria tedesca che porta alla fondazione del Reich, produce infatti un «gioco di specchi» degno della grande galleria degli specchi in cui si svolge la scena. […] I contemporanei di Le Brun leggono sulle volte di quelle sale di Versailles la propria storia, al di là di ogni analogia storica o allegoria mitologica. Nel Salone della Guerra, la Francia trionfa sulla Spagna e sull’Olanda, nel Salone della Pace, cioè dopo la Galleria degli Specchi, Luigi XIV offre la sua pace all’Europa. I contemporanei di Werner, invece, recepiscono l’«immagine nell’immagine» in maniera ben diversa, data dal mutamento dell’orizzonte storico. La memoria storica tedesca è ora dominata dal ricordo di Napoleone, per cui collega l’attraversamento del Reno soprattutto alle invasioni napoleoniche ed alle guerre di liberazione (Befreiugskriege). Ben pochi degli spettatori del quadro di Werner mettono in primo piano l’attraversamento del Reno del 12 giugno 1672 e tanto meno pensano all’evento del 334 a.C. – l’attraversamento del Granico che consente ad Alessandro Magno di penetrare in Asia – che rimane il principale riferimento storico-epocale di Le Brun [il pittore francese si era sforzato di presentare Luigi XIV come un nuovo Alessandro Magno, n.d.r.]. Adesso la visione retrospettiva ha una funzione unificante, per cui le vittorie tedesche su Napoleone III annullano, oltre all’espansionismo di Luigi XIV, il predominio continentale imposto all’Europa da Napoleone e l’avanzata verso Parigi diventa l’atto conclusivo di un «passaggio del Reno» in direzione contraria. L’altro motivo del quadro che accoglie sentimenti molto diffusi nel pubblico tedesco è la Waffenbrüderschaft, la fratellanza d’armi che si è affermata e consolidata nel corso della guerra. Alla campagna di Francia partecipano infatti anche eserciti – dalla Baviera alla Sassonia – che ancora nel 1866 hanno combattuto a fianco dell’Austria contro la Prussia. Non a caso il comando della terza armata, che raccoglie le truppe degli stati meridionali, è stato affidato al principe ereditario Federico Guglielmo, che si è distinto a Königgrätz, ma che soprattutto è considerato il più adatto per favorire il processo di fusione tra le truppe meridionali e quelle prussiane. La guerra contro il comune nemico diventa una nationaler Kreuzzug, una crociata nazionale destinata a risanare le ferite del 1866 ed anzi, ad unire saldamente i vecchi avversari in un nuovo patto di solidarietà nazionale. Werner esprime questo motivo in modi diversi. Inserisce molti rappresentanti degli stati meridionali, del Baden e soprattutto della Baviera, per lo più raggruppati nella parte destra del quadro. Vengono utilizzati anche i dettagli, per cui (al centro del quadro e in primo piano) un capitano della cavalleria leggera bavarese volge il busto verso lo spettatore in modo da far vedere chiaramente che è stato decorato con la croce di ferro, cioè con l’onorificenza prussiana. M. FERRARI ZUMBINI, Le radici del male. L’antisemitismo in Germania da Bismarck a Hitler, il Mulino, Bologna 2001, pp. 14-20 Che giudizio esprime Bismarck sul liberalismo? Quale fratellanza d’armi era importante mettere in risalto, nel nuovo Reich? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Mazzini riprese da Robespierre e dalla tradizione giacobina della Rivoluzione francese il culto degli eroi che avevano dato la vita per la patria e per la vittoria della giustizia. Inserendosi nella più ampia corrente romantica, Mazzini descrisse la morte eroica come un trionfo dell’individuo e della sua libera volontà, che non deve essere rifiutata come sterile sconfitta, bensì perfino ricercata con entusiasmo. Attingendo ampiamente al culto giacobino dei santi caduti, Mazzini edificò un pantheon [un elenco di figure venerabili, come in passato erano stati oggetto di culto gli dei e i santi, n.d.r.] di eroi martiri nel quale trovarono posto uomini come i fratelli Bandiera, giustiziati a Cosenza dopo aver tentato di liberare la Calabria dai Borboni. Senza farsi scoraggiare dalle critiche rivoltegli per il ruolo che aveva avuto nella preparazione della disastrosa spedizione, Mazzini pubblicò immediatamente un articolo sul “People’s Journal” di Londra nel quale celebrava quell’eroico sacrificio. Per lui, i fratelli Bandiera erano «vittime consacrate» dell’oppressione, che, impazienti di testimoniare la loro fede nell’Italia, si recarono verso il luogo della loro esecuzione dopo una notte di tranquillo riposo, vestiti con curata eleganza, e «supplicarono i soldati di risparmiare il viso, fatto a immagine di Dio». Alla miscela giacobina di passione religiosa e di dignità classica egli aggiunse poi una predilezione per la morte e il sacrificio di sé che proveniva dalla cultura romantica. Nonostante respingesse l’atteggiamento melanconico dei romantici, per orientarsi piuttosto verso l’attivismo politico, egli ne seguiva l’esempio quando esaltava la morte come atto di ribellione e di redenzione dopo un’esistenza condizionata dalle convenzioni, dalla monotonia e da un sentimento di delusione. Così, i fratelli Bandiera ebbero «lo scopo evidente… di morire. Aperti com’erano a tutti i grandi pensieri, furono soprattutto uomini d’azione. Ciò traspirava da tutte le loro manifestazioni…; cercarono da ogni lato l’arena nella quale slanciarsi». E realizzarono infine la loro aspirazione morendo per l’Italia. La narrazione che Mazzini propose della storia dei fratelli Bandiera evidenzia i tre elementi chiave della sua costruzione di un culto dei martiri rivoluzionari italiani. In primo luogo, egli mirava a conferire un’aura di sacralità alla propria idea di Italia, e ad affermarsi pubblicamente, assieme ai martiri (e ai futuri martiri) aderenti alla sua stessa causa, in veste di nuovo mediatore fra il mondo umano e la dimensione divina. […] In secondo luogo, nel culto del martirio Mazzini scorgeva una strategia funzionale alla comunicazione politica. La forza del martirio come simbolo collettivo era innegabile, e anche in questo senso Mazzini poteva rifarsi a una più antica consuetudine religiosa. All’epoca della Riforma, i cattolici inglesi avevano utilizzato il tema del martirio come un «potente simbolo della persecuzione», e la figura del martire era per essi diventata «un vessillo, un elemento di identificazione e di aggregazione, un simbolo della loro adesione alla fede cattolica», attorno al F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 quale rafforzare un senso condiviso di appartenenza. […] Infine, nel rappresentare la propria vita e quella dei suoi seguaci (i martiri italiani da lui definiti Apostoli), Mazzini prese le distanze dalla tradizione cristiana. In particolare, operò una fusione fra una più recente e romantica idea dell’individuo libero («Non temono né dolore, né pericolo; li fronteggiano intrepidamente; non devierebbero d’una sola linea dal loro cammino per evitarli») e più antiche raffigurazioni della santità. […] Per realizzare quegli obiettivi, Mazzini si dedicò a una instancabile opera di propaganda, riuscendo a fare in modo che la figura del martire venisse associata più a un atto di combattiva rivolta che a una rassegnazione passiva come quella di Silvio Pellico Mazzini credeva che un manipolo di eroi coraggiosi potesse produrre la scintilla capace di innescare un’esplosione rivoluzionaria; e considerate le scarse possibilità di successo, il coraggio di fronte alla morte e la fede nelle virtù del martirio erano ingredienti essenziali dell’atteggiamento eroico. Da questo punto di vista, il culto dei martiri del Risorgimento implicava non tanto il tormento cattolico quanto un appello all’azione politica, e poteva avere alcuni aspetti in comune con la militanza protestante e il culto dei martiri protestanti che manteneva una sua popolarità nell’Inghilterra vittoriana, paese nel quale il rivoluzionario genovese viveva. Per Mazzini, l’eroe martire santificava la nazione, ma la incarnava anche come una causa degna di essere condivisa, e per la quale valeva la pena combattere e morire. […] L’uso del culto dei martiri da parte di Garibaldi e dei garibaldini esemplifica la strategia politica elaborata da Mazzini. […] Nella loro ricerca di simboli riferibili all’appartenenza nazionale i rivoluzionari continuavano ad affidarsi ad un’iconografia [un’immagine, una modalità di raffigurazione, n.d.r.] derivata dal cattolicesimo. […] Tuttavia, allo stesso tempo, l’iconografia del martirio cristiano si fondava con quella più recente dell’eroe romantico, dando vita all’immagine meno tradizionale di una vicenda sacrificale dai tratti virili e vigorosi. Il martire del Risorgimento era tipicamente un uomo giovane o abbastanza giovane, bello e intenso, che riuniva nella propria persona la virtù classica («gli allori alle chiome») e la passione romantica («La fiamma ed il nome d’Italia sul cor»), e si lanciava incontro alla morte accogliendola come momento culminante della propria esistenza e compimento del proprio destino. Con Garibaldi, il martire risorgimentale divenne, forse più di ogni altra cosa, un soldato, le cui battaglie in Uruguay, a Roma, in Sicilia, sull’Aspromonte e Mentana rappresentavano anche un viaggio alla scoperta della nazione che si voleva consolidare. Il culto del martire diventò così un elemento centrale per la creazione di un’altra forma di culto, quella dedicata all’eroe soldato, e per affermarlo come simbolo nazionale della virtù, del coraggio e della bellezza, associato a sua UNITÀ 6 L’idea di martirio nella propaganda politica di Mazzini 9 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7 volta alla rivoluzione e alla ribellione. Si trattò di un processo che ebbe anche conseguenze sul piano pratico, in quanto il soldato-martire, e tutto quello che in esso era simboleggiato, entrò a far parte, in occasione delle guerre del Risorgimento, dell’appello alle armi promosso e gestito da Garibaldi. In breve, il martire risorgimentale rappresenta una sorta di modernizzazione del sacrificio eroico, ed esalta un rapporto con la morte e con la violenza basato su motivazioni più immediate e terrene. Nell’epoca di Mazzini e Garibaldi, il martirio divenne un atto di impegno politico, che implicava la ribellione attiva oltre che un atteggiamento di paziente rassegnazione. L. RYALL, Il culto della morte eroica nel Risorgimento, in O. JANZ, L. KLINKHAMMER (a cura di), La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, Donzelli, Roma 2008, pp. 26-28 e 41-43, trad. it. D. SCAFFEI UNITÀ 6 In che cosa l’idea del martirio mazziniano si distingue da quella cristiana? Che differenza c’è tra il culto del martire e quella dell’eroe soldato, nel Risorgimento italiano? L’ORDINE DI VIENNA 10 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La rivoluzione del 1848 esplose a Parigi ma, in pochissimo tempo, si propagò a gran parte dell’Europa. Nel complesso, però, i risultati di quella improvvisa crisi rivoluzionaria furono minimi: in pratica, l’unica novità significativa fu l’abolizione della servitù della gleba nell’Impero austriaco. La storia del mondo moderno aveva conosciuto molte rivoluzioni di maggior portata, e molte di maggior successo. Nessuna però si diffuse più rapidamente e in un raggio più vasto, correndo come un fuoco di sterpaglia al di sopra di frontiere, paesi e perfino oceani. In Francia, centro naturale e detonatore delle rivoluzioni europee, la proclamazione della repubblica avvenne il 24 febbraio: il 2 marzo la rivoluzione aveva già guadagnato la Germania di sud-ovest, il 6 la Baviera, l’11 Berlino, il 13 Vienna e subito dopo l’Ungheria, il 18 Milano e quindi l’Italia (dove un’insurrezione indipendente aveva già investito la Sicilia). All’epoca, il più veloce servizio d’informazioni disponibile a chiunque (quello della banca Rothschild) non poteva portare le notizie da Parigi a Vienna in meno di cinque giorni. Nel giro di una settimana, nessun governo restava in piedi, in una superficie dell’Europa ora occupata in tutto o in parte da dieci Stati – prescindendo da ripercussioni minori in un certo numero d’altri paesi. Il 1848 fu inoltre la prima rivoluzione potenzialmente estesa a tutto il globo, di cui si può discernere l’influenza nell’insurrezione del 1848 a Pernambuco nel Brasile e, qualche anno dopo, nella remota Colombia. In un certo senso, fu il paradigma [= il modello di riferimento – n.d.r.] del tipo di «rivoluzione mondiale» che da allora dovevano sognare i ribelli, e che in rari istanti, come all’indomani di grandi guerre, dovevano credere di poter riconoscere. In realtà, il fenomeno di esplosioni continentali o mondiali simultanee è estremamente raro. In Europa, quella del 1848 è la sola che abbia inciso sia sulle aree «sviluppate» sia su quelle arretrate del continente. Fu insieme la più estesa e la meno fortunata di questo genere di rivoluzioni: a sei mesi dal suo scoppio, se ne poteva tranquillamente prevedere la sconfitta su tutta la linea; a diciotto, i regimi da essi abbattuti, salvo uno, erano tutti restaurati, e l’eccezione (la Repubblica francese) prendeva il più possibile le distanze dal moto insurrezionale cui doveva la propria esistenza. [...] Un mutamento costituzionale di portata maggiore v’era stato, ma uno solo: l’abolizione della servitù della gleba nell’impero asburgico. Eccetto quest’unica conquista, certo importante, il 1848 ci appare come la sola rivoluzione nella storia moderna che alle maggiori promesse, al più vasto orizzonte e al successo più immediato, unisca la disfatta più rapida e completa. [...] Tutte le rivoluzioni ebbero in comune qualcos’altro, che spiega in larga misura il loro fallimento. Furono, nel fatto o nell’anticipazione immediata, rivoluzioni sociali degli operai comuni. Perciò spaventarono i liberali moderati che avevano spinto al potere e in posizioni di prestigio – e perfino dei politici più radicali – almeno quanto i sostenitori dei vecchi regimi. Il conte di Cavour, futuro architetto dell’Italia unita, aveva messo il dito su questo punto debole alcuni anni prima (1846): «Se l’ordine sociale fosse davvero minacciato, se i grandi princìpi sui quali riposa, corressero davvero un pericolo reale, si vedrebbero – ne siamo pesuasi – molti fra gli oppositori più determinati, fra i repubblicani più esaltati, presentarsi per primi nelle file del partito conservatore.» Ora, quelli che avevano fatto la rivoluzione erano indiscutibilmente i «poveri che lavorano» (labouring poor). Erano stati essi a morire sulle barricate; a Berlino, fra le trecento vittime degli scontri di marzo v’erano stati appena quindici rappresentanti delle classi colte e circa trenta maestri artigiani; a Milano, fra i 350 morti delle Cinque Giornate, solo dodici studenti, impiegati o proprietari fondiari. [...] La rivoluzione di febbraio [...] fu una rivoluzione sociale cosciente, il cui obiettivo non era una repubblica come che sia, ma la «repubblica democratica e sociale». I suoi leader erano socialisti e comunisti; del suo governo provvisorio faceva parte un operaio autentico, un meccanico noto come Albert; e, per qualche giorno, rimase incerto se la sua bandiera sarebbe stata il tricolore o la bandiera rossa della rivolta sociale. [...] Trascinati nel vortice della rivoluzione dalle forze dei poveri e/o dall’esempio di Parigi, i moderati cercarono naturalmente di trarre il massimo profitto da una situazione che non si erano aspettati fosse tanto favorevole. Ma, in ultima analisi, e spesso fin dall’inizio, si preoccuparono assai più della minaccia da sinistra, che dei vecchi governi. Il fallimento del Quarantotto trasse origine dal fatto che lo scontro decisivo non fu, in ultima analisi, fra i poteri costituiti e le «forze del progresso», ma fra l’«ordine» e la «rivoluzione sociale». La sua battaglia cruciale non fu quella del febbraio [1848 – n.d.r.], ma quella del giugno a Parigi, quando gli operai lanciatisi in una insurrezione isolata vennero sconfitti e massacrati: combatterono duramente, e duramente morirono. I caduti nelle battaglie di strada furono circa 1500 – due terzi o poco meno da parte governativa –; ma è tipico della ferocia dell’odio dei ricchi per i poveri che circa tremila insorti vennero passati per le armi dopo la sconfitta, altri dodicimila arrestati, e i più deportati in campi di lavoro in Algeria. E.J. HOBSBAWM, Il trionfo della borghesia 1848-1875, trad. di B. MAFFI, Laterza, Bari 1979, pp. 12-20 Presenta sinteticamente i caratteri della rivoluzione del 1848, mettendone in luce: a) la velocità di diffusione a livello mondiale; b) i protagonisti dei moti; c) imento dei moti stessi; d ) l’unico significativo mutamento che la rivoluzione riuscì a provocare. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 6 Il 1848 in Europa 11 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 8