Un sistema giuridico repubblicano: 1

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Un sistema giuridico repubblicano:
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Indice
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Un sistema giuridico repubblicano:
COLLANA DI STUDI
DI AMERICANISTICA
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Indice
Collana diretta da Donatella Schmidt
Università degli Studi di Padova
La collana si propone come spazio di riflessione
e di documentazione nel campo dell’americanistica
nell’ampio spettro delle sue varie declinazioni disciplinari
con particolare rilievo alla dimensione antropologica.
Comitato editoriale
Maria Cristina Dasso
Universidad de Buenos Aires (Uba)
[email protected]
Gérard Collomb
Iiac-Laios, (Cnrs/Ehess), France
[email protected]
Dominique Tilkin Gallois
Universidade de São Paulo (Usp), Brasil
[email protected]
William Fisher
College of William & Mary, Usa
[email protected]
José Zanardini
Universidad Católica de Asunción, Paraguay
[email protected]
Elizabeth Ewart
University of Oxford, Uk
[email protected]
Un sistema giuridico repubblicano:
Claude LÉvi-Strauss
Visto dal Brasile
a cura di
Paride Bollettin e Renato Athias
prefazione di Cristina Papa
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Indice
Prima edizione: maggio 2011
ISBN 978 88 6129 705 8
© Copyright 2011 by CLEUP sc
“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”
Via Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. +39 049 8753496)
www.cleup.it
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento,
totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese
le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
Un sistema giuridico repubblicano:
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Indice
Prefazione
Cristina Papa
Introduzione
Paride Bollettin e Renato Athias
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1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
Beatriz Perrone-Moisés
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2. La formula canonica del mito
Mauro William Barbosa de Almeida
43
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
Marcio Goldman
73
4. La storia pittografica
Oscar Calavia Sáez
85
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss
deve agli amerindi
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
103
6. L’uccello di fuoco
Tânia Stolze Lima
135
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
Eduardo Viveiros de Castro
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Indice
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
Ruben Caixeta de Queiroz
173
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale
Rafael José de Menezes Bastos
195
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
205
11. Come un profumo bruciato
Dall’esotismo lévi-straussiano come estetica del diverso
all’esperienza del consumo
Antonio Motta
219
Edizioni italiane di riferimento
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Gli autori
235
Prefazione
9
Prefazione
Cristina Papa
Università di Perugia
Perché un libro in italiano sull’opera di un antropologo francese, LéviStrauss, raccoglie contributi di antropologi brasiliani? Una triangolazione
italo-francese-brasiliana che deve essere spiegata almeno in premessa.
Su due termini di questa relazione si è scritto molto, di come Lévi-Strauss
sia diventato antropologo in Brasile e come questa esperienza scientifica e
umana abbia influito sulle sue teorie e sul suo modo di interpretare il rapporto tra “l’Occidente” e “gli altri”.
Il suo libro più famoso anche presso un largo pubblico di non specialisti, Tristi Tropici1, narra questa avventura intellettuale e umana, un’avventura su cui il meno noto Tropici sempre più tristi ritorna a distanza di
cinquant’anni.
Quest’incontro fu decisivo per Lévi-Strauss che descrive il Brasile come
“l’esperienza più importante della mia vita, per la lontananza, per il contrasto,
ma anche perché è stata determinante per la mia carriera”2. Un incontro decisivo anche per l’antropologia brasiliana, che continua ad essergli debitrice
nel campo degli studi sulle cosiddette “popolazioni indigene” percorrendo
anche nuovi sentieri e aprendo nuove problematiche di ricerca ma con un
ancoraggio solido alle tematiche lévi-straussiane, come è visibile nei testi
che sono raccolti in questo volume. Mentre profondi e di lunga data sono
i rapporti tra antropologia francese e brasiliana, l’influenza di Lévi-Strauss
sull’antropologia italiana, su cui si sofferma brevemente l’introduzione, è
stata certamente meno profonda ed è stata anche più circoscritta per quanto riguarda le tematiche e più limitata nel tempo, né l’Italia ha avuto nell’itinerario umano e intellettuale di Lévi-Strauss una particolare incidenza.
Sul terzo polo di questa triangolazione bisogna qui dire qualcosa di più,
perché meno scontato e meno noto ma nello stesso tempo essenziale come
1
2
Lévi-Strauss Claude (1965) [1955], Tristi Tropici, Milano: Il Saggiatore, .
Lévi-Strauss Claude (2005), Tropici sempre più tristi, Roma: I sassi, ed. Nottetempo, pp. 10.
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Cristina Papa
sfondo di questo lavoro. Più in generale vale la pena di sottolineare alcuni
aspetti del rapporto tra i due paesi, Italia e Brasile, al cui interno si collocano anche i rapporti culturali e gli studi antropologici.
Dal punto di vista storico bisogna partire da un’osservazione di Sandra Puccini che nel delineare il quadro degli itinerari dei viaggi scientifici
italiani fuori d’Europa alla fine dell’Ottocento osserva come “l’America,
tanto quella del Nord che quella centromeridionale, in questi anni sembra
attirare piuttosto i grandi flussi dell’emigrazione italiana che le ristrette élites
scientifiche”3.
Gli interessi extraeuropei del giovane regno d’Italia si indirizzano piuttosto verso l’Oriente per ragioni commerciali4 e più tardi verso l’Africa con
ambizioni coloniali. Alle missioni diplomatiche e commerciali si collegano
sia direttamente che indirettamente missioni e viaggi di carattere scientifico
(linguistici, naturalistici, antropologici).
Ma nonostante questo generalizzato disinteresse per un intero continente, il Brasile e l’America latina furono il luogo di destinazione di missioni
religiose cattoliche organizzate dai vari ordini italiani, che produssero anche materiali documentari di utilità etnografica e nello stesso tempo alcuni
viaggiatori italiani con le loro esplorazioni e con i loro lavori arricchirono in
Italia la conoscenza del Brasile, sia pure in misura minore rispetto ad altre
aree del mondo.
Si tratta di lavori ed esperienze ancora non molto studiate che meriterebbero un ulteriore approfondimento e a questo scopo risulta molto opportuna la mostra romana dedicata ai “Viaggiatori italiani dell’Ottocento
in America latina” (20 febbraio-19 aprile 2010), promossa dalla Soprintendenza al Museo nazionale preistorico ed etnografico Pigorini in occasione
del Bicentenario dell’indipendenza dei paesi dell’America latina. Le esperienze dei viaggiatori italiani in Brasile in questo periodo furono connotate
3 Puccini Sandra (1991) (a cura di), L’uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani
dell’Ottocento, Roma: Cisu, pp. 25.
4 La prima missione diplomatica del Regno d’ Italia è l’Ambasciata italiana in Persia del
1862, a cui presero parte anche alcuni scienziati. Più nota è la spedizione della nave “Magenta”, progettata nel 1864 e finalizzata a stabilire relazioni diplomatiche tra lo Stato italiano, il
Giappone e la Cina. Se ne fa un resoconto dettagliato di circa 1000 pagine in Giglioli Enrico
(1875), Viaggio intorno al Globo della R. Pirocorvetta Magenta negli anni 1865-66-67-68, con
una introduzione etnologica di Paolo Mantegazza, Milano: Ricordi. Enrico Giglioli, uno dei
fondatori della Società di antropologia italiana e membro della spedizione descrive dal punto
di vista geografico i paesi dell’Asia e dell’America latina (compreso il Brasile) toccati dalla nave
Magenta nell’arco di tre anni e fornisce anche numerose informazioni etnografiche sui popoli
che li abitavano.
Prefazione
11
non soltanto dall’attenzione etnografica alle culture locali ma furono anche
orientate da altri interessi: estetici nel pittore Guido Boggiani, zoologici nel
caso di Enrico Giglioli, geografici nel caso di Ermanno Stradelli e botanicomedici nel caso di Gaetano Osculati. Le loro esplorazioni in queste aree
ci hanno lasciato documenti anche iconografici di grande rilevanza per gli
studi successivi sulle zone da loro visitate soprattutto attraverso i dipinti di
Boggiani e le illustrazioni di Osculati che hanno corredato le loro pubblicazioni di interesse etnografico. Boggiani in particolare, che aveva avuto
una formazione artistica e prima di iniziare le sue spedizioni oltreoceano
aveva già acquisito una notevole notorietà per i suoi dipinti a carattere naturalistico, riesce a valorizzare anche dal punto di vista etnografico questa
sua capacità che “diventa parte integrante, ineliminabile del suo complessivo
discorso etnografico”5, nel libro che dà conto della sua etnografia sui Caduveo6 del Rio Nabileque7.
Ma anche Gaetano Osculati, con una formazione più eclettica, dagli studi medici in seguito abbandonati era diventato capitano di lungo corso,
correda con disegni delle abitazioni, di strumenti, ornamenti e abbigliamento la sua opera etnograficamente più significativa che riguarda l’esplorazione delle regioni lungo il Rio delle Amazzoni che percorre fino alla
foce, partendo dal porto di Guayaquil sul Pacifico e navigando lungo il rio
Napo nel periodo dal 1846 al 18488. Entrambi questi viaggiatori affrontano
con le loro risorse i viaggi privi di un sostegno istituzionale, un limite che
certamente influì anche sulla durata e sugli esiti dei loro viaggi e non solo
dal punto di vista etnografico e delle relazioni culturali tra i due paesi,
tanto che Boggiani vi perse addirittura la vita. La mancanza di un retroterra istituzionale risulta ancora più evidente se si confrontano esperienze
analoghe. Come ad esempio quella di Boggiani e del pittore francese Jean
Baptiste Debret che qualche anno prima all’interno di una missione arti-
5 Puccini Sandra (1999), Andare lontano, Roma: Carocci, pp. 267.
6 Boggiani Guido (1895), I Caduvei (Mbayà o Guaycurrù): Viaggi di un artista nell’America
meridionale, Roma: Loescher.
7 Il rio Nabileque è un affluente del Paraguay, nell’area più meridionale del Mato Grosso.
8 Osculati Gaetano (1854), Esplorazione delle Regioni equatoriali lungo il Napo ed il fiume
delle Amazzoni, frammento di un Viaggio fatto nelle due Americhe, negli anni 1846-1847-1848
da Gaetano Osculati, membro corrispondente della Società geografica di Parigi e di altre accademie
scientifiche d’Italia. Seconda edizione corretta ed accresciuta con carte topografiche e con l’aggiunta
di nuove tavole rappresentanti costumi e vedute tolte dal vero dallo stesso Autore, Milano: Fratelli
Centenari.
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Cristina Papa
stica ufficiale francese era partito per il Brasile dove restò ben 15 anni9. I
limiti nella politica culturale dell’Italia appaiono peraltro in contraddizione
con le potenzialità del nostro Paese in questo campo, ancor più che in altri,
a causa dell’interesse per l’Italia di molti giovani artisti brasiliani e di altri
paesi latino americani che venivano a completare nel nostro paese la loro
formazione e dell’interesse individuale di artisti italiani, come Alessandro
Cicarelli, Giovanni Mochi o Eugenio Landesio che in America latina ricoprirono anche incarichi istituzionali.
Trent’anni più tardi, come Osculati, anche Stradelli percorre l’Amazzonia, ma a differenza del primo, Stradelli passa in Brasile gran parte della sua
vita fino alla morte, dove accanto alle esplorazioni e ai lavori etnografici ricopre incarichi pubblici ed esercita la professione di avvocato. Il suo lavoro
di ricerca viene patrocinato dalla Società Geografica Italiana sui cui bollettini escono molti suoi lavori. La sua opera sulle popolazioni del Vaupes10 è
opera di grande impegno a carattere tra il linguistico e l’etnografico, esito di
lunghi soggiorni di ricerca, che gli consentono di documentare i vari aspetti
della cultura locale, ma anche di intervenire sullo sfruttamento delle risorse
9 La missione artistica, promossa dalla Francia su richiesta del re portoghese-brasiliano Giovanni VI, era finalizzata alla costituzione di una Accademia di belle arti in Brasile. Ne facevano
parte vari artisti, pittori come Jean Baptiste Debret e Auguste-Marie Taunay ma anche scultori,
incisori, architetti. Essa fu decisiva per la fondazione a Rio de Janeiro della Escola Real de
Ciencias, Artes e Oficios, che dal 1926 cambiò il proprio nome in Real Accademia de Desenho,
Pintura, Escultura e Arquitectura Civil. Debret, pittore storico ritrattista, a contatto con la
realtà brasiliana venne sollecitato a rappresentare anche la vita delle classi popolari urbane e
rurali con una riconosciuta sensibilità etnografica, anticipando quella che si sarebbe chiamata
pittura “costumbrista” (di costume). Debret restò in Brasile 15 anni dal 1816 al 1831. Uno degli
esiti del suo soggiorno, che contribuì a divulgare la sua opera, è il libro in tre tomi pubblicato
a Parigi tra il 1834 e il 1839, col titolo Voyage pittoresque et historique au Brésil, ou Séjour d’un
artiste français au Brésil, depuis 1816 jusqu’en 1831 inclusivement, époques de l’avènement et de
l’abdication de S.M.D. Pedro Ier, fondateur de l’empire brésilien. Comprende 153 illustrazioni
accompagnate da didascalie, che riguardano nel primo libro gli indigeni e il paesaggio naturale,
nel secondo gli schiavi neri al lavoro nelle città e nelle campagne, nel terzo scene di vita quotidiana, feste e rituali.
10 Stradelli, Ermanno (1929), “Il Vaupes e gli Vaupes”, Bollettino della Società Geografica
Italiana, 3a. série, 1890, vol. 3, pp. 425-453; “Vocabulários portoghese-nheêngatú”, Revista do
Instituto Histórico Geográfico Brasileiro. Quest’ultimo lavoro a partire dagli aspetti linguistici
analizza molteplici aspetti delle società e culture indigene amazzoniche attraverso il nheêngatú,
la lingua derivata da quella parlata dagli indigeni, adattata alla grammatica portoghese dai Gesuiti e che veniva utilizzata come lingua franca. Si deve a Stradelli anche la documentazione del
culto indigeno di Yuruparì, eroe fondatore dei Vaupes, contro cui combatterono i francescani
italiani Coppi e Canioni scatenando una rivolta nel 1883, che li costrinse alla fuga e alla chiusura
della missione nella zona. Il testo di Stradelli è stato ripubblicato recentemente nel volume di
Manera Danilo, (1999), Yuruparí, I flauti dell’anaconda celeste, Milano: Feltrinelli Traveller.
Prefazione
13
naturali da parte delle grandi imprese internazionali e sui loro esiti distruttivi sull’ambiente e sulla vita degli indigeni, tanto da considerare la lavorazione del caucciù come un crimine contro l’umanità. Queste spedizioni non
furono prive di efficacia anche a livello della conoscenza nell’antropologia
italiana degli studi che si conducevano in Brasile da parte di studiosi che
venivano costruendo le basi di una etnoantropologia brasiliana. Ne sono
testimonianza gli articoli che Giglioli e Mantegazza11 pubblicano sull’“Archivio per l’antropologia e l’etnologia” su “l’etnologia al Brasile”12. Quello
di Giglioli è dedicato alle ricerche etnografiche in Amazzonia di due giovani studiosi: João Barbosa Rodrigues un giovane botanico ed esploratore
che collaborò in varie occasioni con lo stesso Stradelli con cui risalì anche
il corso del fiume Jauaperi all’interno di una missione ufficiale brasiliana e
che fu nominato anche socio onorario della Società italiana di antropologia
ed enologia, e Couto de Magalhães, politico, militare ed etnologo di cui
Giglioli recensisce il libro O selvagem in cui l’autore accanto ai dati etnografici raccolti presso molte popolazioni indie del Brasile avanza anche una
proposta politica volta alla loro integrazione nello stato brasiliano. Quello
di Mantegazza invece dà conto dei primi due fascicoli dell’“Archivos do
Museu Nacional do Rio de Janeiro” del 1876 dedicati quasi completamente
all’antropologia ed etnologia del Brasile.
Nello stesso periodo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, in particolare a Rio de Janeiro, Minas Gerais e in gran parte del
Sud del Brasile, emigrarono migliaia di italiani per sfuggire alla miseria del
proprio paese, all’interno di un più ampio fenomeno migratorio diretto
anche verso altre aree del continente americano, a cui corrispose anche
un rinnovato interesse da parte della Chiesa cattolica nell’intensificare la
propria attività missionaria. In questa terra di immigrazione, insieme a comunità provenienti da altre aree del globo, vivono oggi circa 30 milioni di
discendenti italiani, un sesto dell’intera popolazione brasiliana. Al seguito
di questa prima ondata migratoria in Brasile si rifugiarono anche molti antifascisti italiani a partire dagli anni ’20 e molti ebrei italiani per sfuggire
alle persecuzioni razziali in epoca fascista. Tra quest’ultimi anche Tullio
Seppilli che, undicenne, con la famiglia, da Trieste si trasferì a São Paulo,
dove, come ricorda in uno scritto recente:
11 La nota, firmata con una M., è quasi certamente di Mantegazza.
12 Giglioli Enrico (1877), “Lo studio dell’etnologia al Brasile”, Archivio per l’antropologia
e l’etnologia, vol. VII, fasc. primo, pp. 40-49; Mantegazza Paolo (1877), “Studii di etnologia
ed antropologia brasiliana”, Archivio per l’antropologia e l’etnologia, vol. VII fasc. primo, pp.
49-50.
14
Cristina Papa
...si costituì così, fra il ‘39 e il ‘40, una piccola comunità di un paio di centinaia di
ebrei italiani, uniti dai comuni problemi e dai comuni ricordi: e fu certo una tipica manifestazione dello humour ebraico se questa piccola comunità, che un assai
particolare destino aveva fatto incontrare in un Paese così lontano, prese subito ad
autodenominarsi “Colonia Mussolini” […] Ricordo quando mio padre cominciò
a canticchiare le prime canzoni carnevalesche brasiliane. E mia madre che tornava
dalla spesa al mercatino rionale con sempre nuove “scoperte” sul costume locale.13
Le scoperte, a cui allude Seppilli, fecero tutt’uno con la “scoperta” da parte
di sua madre, che aveva una formazione classica e germanistica, dell’antropologia. Il Brasile costituisce per Anita Seppilli, con la sua realtà socio culturale
multiforme e complessa, dalle popolazioni amerindie alle numerose nazionalità recentemente immigrate compresa quella italiana, a una forte presenza
di una parte della popolazione di origine africana con cui viene in contatto
nelle realtà urbane del Brasile, un forte stimolo ad avvicinarsi agli studi antropologici. Sono di questo periodo alcuni saggi sulla figura del diavolo, sul
carnevale e sull’immaginario europeo di terre nell’Atlantico, scritti in riviste
brasiliane e argentine. Un interesse che, una volta tornata in Italia, farà confluire in modo originale con la sua profonda conoscenza degli studi classici in
nuovi importanti lavori in una antropologia di lungo periodo14. L’esperienza in
Brasile ritorna più direttamente in due saggi antropologici che Tullio Seppilli
scrive, una volta divenuto assistente di De Martino all’Università di Roma, sul
sincretismo religioso afro-cattolico in Brasile. Si tratta del primo lavoro uscito
in Italia su questo argomento, che rappresenta un mutamento decisivo degli
interessi verso la realtà culturale brasiliana, rispetto a quelli degli esploratori di
fine Ottocento. L’attenzione è in questo caso rivolta, sulla scia dei lavori di Roger Bastide e dell’antropologo brasiliano Artur Ramos, piuttosto ai complessi
fenomeni culturali in campo religioso che stavano avvenendo nelle zone urbane a seguito dell’incontro di tradizioni religiose di gruppi differenti non senza
l’intervento dello Stato e della Chiesa cattolica15. L’eco dell’esperienza brasilia 13 Seppilli Tullio, Minelli Massimiliano, Papa Cristina (curatori), Scritti di antropologia
culturale, 2 voll. vol. 1, Firenze: Olschki, op. cit. pp. 4.
14 Seppilli Anita (1977), Poesia e magia, Einaudi, Torino, 1971; Sacralità dell’acqua sacrilegio
dei ponti, Palermo: Sellerio.
15 Seppilli Tullio (1955), “Il sincretismo religioso afro-cattolico in Brasile”, Studi e materiali
di storia delle religioni. Pubblicati dalla Scuola di studi storico-religiosi della Università di Roma,
vol XXIV-XXV,1953-1954, pp. 189-233; Il sincretismo religioso afro-cattolico in Brasile II. (Note
aggiuntive), Roma: Istituto di Antropologia dell’Università, 1955. I due saggi sono stati riediti
in forma unitaria in Seppili Tullio, Minelli Massimiliano, Papa Cristina (a cura di), Scritti di
antropologia culturale, op. cit. pp. 269-310.
Prefazione
15
na è anche in una importante pubblicazione sull’esplorazione dell’Amazzonia
da parte di commercianti, soldati, missionari e scienziati di diverse nazioni
europee e sulle loro differenti rappresentazioni delle realtà locali compresa la
costruzione di mitologie come quelle delle Amazzoni o dell’Eldorado, scritta
insieme a sua madre16.
Ma la comunità italiana antifascista a São Paulo era rappresentata anche
da un altro importante studioso italiano, Ettore Biocca17, che, pur avendo una
formazione medica, si avvicinò in Brasile all’etnologia che continuò a coltivare
anche una volta rientrato in Italia nel 1946 dopo la caduta del fascismo. Come
ricorda Seppilli, Biocca non solo si interessò all’uso del curaro18 da parte degli
indigeni della foresta amazzonica ma anche all’impiego di altre sostanze allucinogene, oltre che alla diffusione presso le stesse popolazioni della tubercolosi
come esito del contatto con gli Europei e alla perdita dell’equilibrio psichico
in molti individui a seguito dell’attività delle società multinazionali nei territori
amazzonici.
In quegli anni anche Lévi-Strauss era a São Paulo, dove insegnava alla
Università, quella stessa che Tullio Seppilli frequentò per un anno prima
di tornare definitivamente in Italia nel 1947, finita la guerra e caduto il fascismo.
Lévi-Strauss era stato inviato in Brasile per insegnare all’Università di
São Paulo, fondata per impulso francese, che aveva avuto come promotore lo psichiatra Georges Dumas e dove insegnarono non casualmente anche altri studiosi francesi, per restare nel campo delle scienze sociali, oltre
allo stesso Lévi-Strauss anche Bastide e Gurtvich. Il giudizio che dà LéviStrauss di questa operazione culturale in Tristi Tropici mette in risalto il
ruolo forse non del tutto consapevole ma decisivo che ebbe la fondazione
da parte francese di questa università nella formazione della classe dirigente
16 Seppilli Anita, Seppilli Tullio (1964), L’esplorazione dell’ Amazzonia. Con 223 figure nel
testo, Torino: Utet.
17 A Biocca è interamente dedicato il fascicolo della rivista “Parassitologia . A publication of
the University of Rome, la Sapienza. Official Journal of the Italian Society of Parasitology”, vol.
44, n. 1-2, giugno 2002.
18 Recentemente ripubblicato in Italia è anche un suo saggio comparso nel 1946 in una
prestigiosa rivista brasiliana sull’uso del curaro da parte degli indios Makù dell’Alto Rio Negro.
Biocca Ettore, “Estudos etno-biológicos sôbre os Índios da região do Alto Rio Negro-Amazonas-Nota III* - Observações sôbre o Curare dos Índios Makú”, Thule. Rivista italiana di studi
americanistici, n. 18/19, aprile/ottobre, 2005, pp. 197-205. L’articolo è accompagnato da una
nota introduttiva di Tullio Seppilli che mette l’accento sul contributo di Biocca all’antropologia
medica. Seppilli Tullio, “Nota introduttiva”, Thule. Rivista italiana di studi americanistici, n.
18/19, aprile/ottobre, 2005, pp. 191-195.
16
Cristina Papa
brasiliana e nella promozione di ceti altrimenti destinati a restare marginali.
Una scelta lungimirante che contribuì a costruire quella profonda influenza
francese sul Brasile, nonostante la comunità francese in Brasile sia molto
esigua, se paragonata ad esempio a quella italiana. Altrettanta lungimiranza
non si deve all’Italia che, in assenza di una precisa politica culturale, ha
rivestito in Brasile un ruolo culturale marginale, fatta eccezione per l’influenza esercitata in alcuni specifici campi dal prestigio internazionale di
alcuni studiosi italiani
.
Una di queste eccezioni fu costituita dall’influenza che il positivismo italiano ebbe in Brasile19, paragonabile a quella del liberalismo o del marxismo
in Europa. Il positivismo si diffuse dopo il 1822, data dell’indipendenza del
Brasile, attraverso l’affermarsi delle scienze sociali e la istituzionalizzazione della sociologia del diritto nelle università brasiliane, a partire dall’influenza di Comte e per quanto riguarda il diritto e l’antropologia a seguito
dell’influenza italiana. La sua importanza andò crescendo nel tempo sino
a diventare l’ideologia della Prima Repubblica (1889-1930) tanto che Ordem e Progresso citato da Comte diventò emblema dello stato brasiliano. In
questo contesto le teorie di Lombroso ebbero una grande influenza sulla
dottrina del diritto penale brasiliano attraverso la mediazione del medico,
giurista e antropologo Raimundo Nina Rodrigues, che fondò a Bahia una
Scuola di Antropologia Criminale e che per primo studiò la popolazione
brasiliana di origine africana con particolare attenzione agli aspetti linguistici, artistici, festivi e religiosi.
Su un altro fronte e più recentemente, i rapporti tra Italia e Brasile si
sono costruiti sui temi della riforma psichiatrica su cui Franco Basaglia tenne le ormai famose “conferenze brasiliane” a São Paulo, Belo Horizonte e
Rio de Janeiro nel giugno e novembre 1979 successivamente pubblicate in
varie lingue: italiano, francese e portoghese. Conferenze che ebbero un notevole impatto se è vero che a distanza di trent’anni allo psichiatra italiano
nei giorni 11-13 maggio 200920 è stato dedicato in Brasile, a Salvador da
Bahia, un Incontro internazionale intitolato “Trent’anni dalla Legge Franco Basaglia. Riforme psichiatriche e trasformazioni culturali in Brasile e nel
19 Varejão Marcela (2005), Il positivismo dall’Italia al Brasile. Sociologia del diritto, giuristi
e legislazione (1822-1935), Milano: Giuffrè. Varejão, giurista della Universidade Federal de Paraíba, analizza in modo approfondito l’influenza del positivismo italiano non solo in Brasile ma
più in generale in Sudamerica.
20 Come fa notare Tullio Seppilli, che ha contribuito a vario titolo alla riforma psichiatrica
in Italia e a cui devo le informazioni sul movimento antimanicomiale in Brasile qui riportate, la
data del convegno è legata a una doppia ricorrenza: quella dell’approvazone della legge 180 in
Italia (13 maggio 1978) e la data dell’abolizione della schiavitù in Brasile (13 maggio 1888).
Prefazione
17
mondo”, promosso dalla Università Federale di Bahia e dal suo Istituto di
salute collettiva, dalla Segreteria di sanità del Governo dello Stato di Bahia,
e dal Governo federale del Brasile. L’incontro che ha avuto un grande successo di pubblico segnala una perdurante attenzione in Brasile sulla necessità di promuovere anche in questo paese l’abolizione dei manicomi. Infatti
il movimento antimanicomiale sviluppatosi a partire dai secondi anni ’80
dello scorso secolo non è riuscito a raggiungere ancora il suo obiettivo di
fondo21, nonostante le numerose esperienze di “etnopsichiatria” comunitaria diffuse nel Paese22.
Dopo una parentesi di qualche decennio, dovuta anche alla presenza di
regimi autoritari in Brasile che hanno scoraggiato la presenza di studiosi
stranieri nel paese, e in coincidenza con un rafforzarsi più generale degli
studi americanistici è ripresa in anni recenti l’attenzione degli antropologi
italiani per il Brasile. Non è qui il caso di soffermarsi su questi lavori che
sono peraltro noti sia al pubblico italiano che brasiliano trattandosi di lavori e ricerche contemporanee, che si distinguono anche per i temi trattati da
quelli precedenti. Credo però che debba essere sottolineato un elemento di
debolezza di questa nuova stagione di studi. L’antropologia, che in Brasile
ha avuto un grande sviluppo durante il Novecento per la sua capacità di
misurarsi con i problemi chiave del paese, è ancora troppo poco conosciuta
in Italia. La stessa cosa può dirsi anche per altri aspetti della cultura brasiliana: dall’architettura al cinema, dal design alla letteratura, ma per quanto
riguarda l’antropologia si tratta di un deficit conoscitivo che deve ancor
più necessariamente essere colmato proprio in coincidenza con la ripresa
di attenzione etnografica nei confronti del Brasile. L’antropologia italiana,
che ha sviluppato più una vocazione di ricerca at home piuttosto che in
località distanti ed esotiche, sia dal punto di vista dell’oggetto di studio
che di ispirazione teorica, ha sotto questo aspetto elementi di analogia con
l’antropologia brasiliana anche se evidentemente i problemi e le comunità
analizzate sono differenti. Tuttavia la consapevolezza della connotazione
politica del proprio lavoro insieme all’impegno per dare voce a gruppi e comunità ai margini della realtà sociale nel proprio Paese è caratteristica che
accomuna le due antropologie, anche se l’antropologia brasiliana ha mo-
21 Loucos pela vida [Pazzi per la vita]. A trajetória da Reforma psiquiátrica no Brasil, 1995,
Rio de Janeiro: Fundação Oswaldo Cruz. Escola Nacional de Saúde Pública.
22 Tra queste esperienze, importante è quella della comunità di Quatro Varas, alla periferia
di Fortaleza (Stato del Ceará), fondata e guidata da Adalberto Barreto, che fu allievo a Parigi di
Georges Devereux. Su questa esperienza si può vedere Eliane Contini (1995), Un psychiatre
dans la favela, Paris: Les Empêcheurs de Penser en Rond.
18
Cristina Papa
strato una capacità di intervento e di mobilitazione pubblica, ottenendone
un riconoscimento sociale ben lontano dagli spazi ancora angusti entro cui
è limitata l’antropologia italiana.
Rafforzare sinergie e canali di comunicazione, reciproca conoscenza e
cooperazione con la comunità antropologica brasiliana potrebbe giovare
anche alla nostra comunità scientifica a due differenti livelli: da un lato nel
confrontare le reciproche esperienze di studio ed intervento sulle proprie
realtà nazionali e dall’altro costituire un terreno problematico comune rispetto a temi di ricerca incentrati sulla realtà brasiliana. Lo scopo di questo
lavoro come di altre pubblicazioni e iniziative23, è quello di intensificare
questa rete di scambi e di reciproca interlocuzione sia pure a partire da
storie, problematiche, tradizioni diverse.
Un obiettivo che non può che giovarsi dell’infittirsi della rete di scambi
e cooperazione tra l’Italia e il Brasile, dagli scambi accademici a quelli economici, a quelli politici, a quelli più genericamente culturali, che coinvolgono anche molte regioni italiane, e che costituiscono un riconoscimento
alla accresciuta importanza di un paese che fa parte delle cinque economie emergenti più importanti del pianeta insieme a India, Cina, Messico
e Sud Africa e che investe largamente anche nello sviluppo della ricerca
scientifica e degli studi universitari. Più in generale, la capacità di misurasi
con i problemi della contemporaneità, che è il compito principale che deve
affrontare l’antropologia oggi e che può accrescere il suo riconoscimento
sociale non solo nel nostro paese, costringe l’antropologia ad abbandonare
ogni residuo provincialismo e chiusura entro i ristretti ambiti tematici del
folcorico, dell’esotico e del “primitivo”, aprendosi per diventare una disciplina che mette a frutto differenti tradizioni di studio per affrontare sfide
globali.
In questo contesto il libro curato da Paride Bollettin, un giovane studioso molto impegnato in questa prospettiva e che ha scelto come propria
area di ricerca l’Amazzonia e i problemi attuali delle popolazioni indigene,
vuole costituire un contributo in questa direzione ed essere di stimolo per
future analoghe iniziative.
23 Tra le altre, penso ad esempio ai convegni internazionali di Americanistica, che si svolgono con cadenza annuale e che sono giunti oramai alla loro trentatreesima edizione. I convegni
sono promossi dal Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano”, che ha sede a Perugia
e che pubblica anche la rivista Thule. Rivista italiana di studi americanistici.
Introduzione
19
Introduzione
Paride Bollettin e Renato Athias
Questo libro raccoglie articoli scritti da antropologi brasiliani a proposito e
a partire dall’antropologia di Lévi-Strauss, elaborati in luoghi e tempi diversi,
ed in questo senso vuole rendere omaggio da una parte alla riflessione antropologica contemporanea brasiliana e dell’altra all’opera e al pensiero di un
maestro già entrato nella storia non solo dell’antropologia, ma di tutta la riflessione dell’uomo sull’uomo. Una “storia” con la quale egli aveva sempre dialogato in maniera innovativa, sia con le critiche che aveva mosso ai fondamenti
storicisti di una parte dell’antropologia del secolo scorso, sia evidenziando
l’importanza di una sua collocazione all’interno della riflessione antropologica, quando al contrario si tentava di eliminarla1. I molti momenti di dibattito
sulla vita, la formazione e la riflessione dell’antropologo francese, organizzati
dappertutto, gli innumerevoli articoli per i suoi 100 anni e quelli successivi
che gli hanno reso omaggio dopo la morte dimostrano il riconoscimento di un
debito contratto con un pensatore che, senza paura di smentita, ha influenzato
una gran parte della produzione successiva anche in altre scienze umane e che
è stato capace inoltre di portare la sua disciplina ad un dialogo con le altre
scienze, costruendo nuovi paradigmi interpretativi. Omaggi ancora più significativi in un paese come l’Italia, dove l’impronta della sua riflessione è sempre
stata importante, e sempre anche molto controversa2.
Per una analisi critica del rapporto tra riflessione strutturalista e “storia” si veda il volume
di Francesco Remotti (1971), Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino: Einaudi.
2
Si vedano a titolo di esempio, e senza alcuna pretesa di esaustività, Francesco Remotti,
Lévi-Strauss. Struttura e storia (op. cit.), Sergio Moravia, La ragione nascosta. Scienza e filosofia nel pensiero di Claude Lévi-Strauss (1969, Milano: Sansoni), Lévi-Strauss e l’antropologia
strutturale (1978 [1973], Milano: Sansoni), Ragione strutturale e universi di senso. Saggio sul
pensiero di Claude Lévi-Strauss (2004, Firenze: Le Lettere), Antonino Buttitta, Dei segni e dei
miti (1996, Palermo: Sellerio), Antonino Buttitta e Silvana Miceli, Percorsi simbolici (1989,
Palermo: Flaccovio), o i saggi raccolti nel volume curato da Alberto Mario Cirese, Folklore e
antropologia (1974, Palermo: Palumbo). Tra i testi più recenti in Italia: Marino Niola (a cura
1
20
Paride Bollettin e Renato Athias
Sicuramente il suo apporto è stato particolarmente significativo per chi,
come i curatori di questo volume, portano avanti ricerche con i popoli amerindi, come del resto lo stesso antropologo francese ha fatto. Ma la sua influenza,
come detto, trascende i limiti del contesto etnografico a cui fanno riferimento
le sue prime opere. Molto è stato scritto sulla sua vastissima produzione, sia in
Italia che all’estero, e viene quindi da chiedersi quale sia l’utilità di un nuovo
sforzo di analisi. Si possono indicare almeno tre motivi. Il primo è che essa
risulta per molti aspetti ancora attuale e feconda di stimoli e pertanto le originali letture proposte in questo volume potranno incentivare una rivisitazione
foriera di nuovi sviluppi. Il secondo motivo, più contingente, è che essa rappresenta uno strumento imprescindibile, ed un termine di paragone costante,
per tutti coloro che portano avanti ricerche con i popoli amerindi e quindi la
proposta di articoli frutto di una riflessione che trae origine al di là dell’Oceano si configura come uno stimolo per l’analisi di questo terreno etnografico.
Infine, questo volume vuole stimolare un dialogo tra le due tradizioni di studi,
quella italiana e quella brasiliana, che hanno notevoli punti di contatto ma
anche di dissonanza, nella certezza che da esso possa derivarne un dialogo
proficuo e stimolante.
Tre motivi che, a nostro avviso, conferiscono al presente volume un significato che va oltre la riflessione sull’opera del maestro francese, ma che mira ad
intessere reti di riflessioni che possano creare un dialogo tra differenti prospettive disciplinari. Esso esprime la volontà di continuare un dialogo tra la produzione antropologica brasiliana e quella italiana, nella certezza che la ricerca
di affinità e distanze possa essere utile a stimolare una riflessione proficua per
entrambe. Un dialogo tra amici, o forse tra “parenti”, dato lo stretto legame
tra i due paesi, che come tale probabilmente porrà maggiormente l’accento
sugli aggettivi che non sui nomi, ossia che proporrà una indagine accurata
delle sfumature del pensiero lévi-straussiano, permettendo anche di interrogarsi sulla stessa disciplina antropologica. A questo proposito, nel sottolineare
alcuni aspetti affrontati nel volume si farà brevemente riferimento anche alla
loro incidenza nell’antropologia italiana.
I contributi che compongono il libro mettono in evidenza come l’opera
lévi-straussiana costituisca un riferimento imprescindibile ed ancora attuale
nella prospettiva di una produzione di conoscenza a riguardo dell’“alterità”,
centrale per chi si occupa delle popolazioni amerindie. Essi si soffermano inoldi), Lévi-Strauss fuori di sé (2008, Macerata: Quodlibet) e il libro di fotografie di Salvatore
d’Onofrio, Claude Lévi-Strauss (2009, Milano: Electa). Ci sarebbero inoltre da citare i numerosissimi articoli e le recensioni delle opere di Lévi-Strauss, o ancora le influenze delle sue opere
su scritti recenti e meno recenti, ma non è questo il luogo per una tale opera di analisi.
Introduzione
21
tre su quattro procedimenti centrali, tappe significanti nella costruzione della
teoria di Lévi-Strauss. Il volume è, in gran parte, dedicato all’analisi strutturale
la quale pretende di esaminare le strutture incoscienti dei fenomeni sociali e
culturali, analizzando le quali diviene percepibile come l’antropologo francese
ne considerasse gli elementi come “in relazione” tra loro e non come entità
indipendenti, e qui possiamo incontrare il particolare nel suo pensiero3. Egli
cerca, inoltre, di comprendere la coerenza del sistema costruito, esaminando
le sue proprie logiche. Infine, viene proposto un modello generale delle leggi
che governano i fondamenti soggiacenti all’organizzazione dei fenomeni sociali e culturali. Procedimenti questi che permettono una comprensione profonda delle rappresentazioni dei gruppi sociali.
A questo proposito, Alberto Mario Cirese propone di distinguere nettamente tra “analisi strutturale” e “strutturalismo”, descrivendo la prima come
metodo di ricerca ed il secondo come visione del mondo, rivalutando la prima
come uno strumento ancora utile nell’ottica della capacità che ne deriva di
vedere “cose che gli altri metodi non vedono”, sempre che si abbandoni l’ideologia strutturalista “che è passata”4. Egli continua poi sostenendo che l’analisi strutturale, seppur ben applicata nel caso dello studio della parentela, non
è così efficace nel caso dello studio degli insiemi mitici, anche se non esita a
riconoscerne i meriti quando si tratta di analizzare i modelli della rappresentazione della realtà. In un testo precedente, discutendo delle differenti tipologie
di modelli che possono essere utilizzate, riconosce che un aspetto importante
della ricerca risiede nella costruzione dei “gruppi di trasformazione di cui ci
parla abbondantemente Lévi-Strauss”5, ed i racconti mitici, i gruppi di trasformazione, infine, tutto ciò che è discusso nelle Mitologiche, rappresentano uno
dei campi di analisi più fertili, non solo per gli studi contenuti nel presente volume, ma anche per comprendere l’evoluzione del pensiero lévi-straussiano.
L’accento sui legami tra i diversi miti, quindi sul fulcro della loro analisi
strutturale, è presente anche nei lavori di Antonino Buttitta, ad esempio quanCome evidenzia anche Pier Giorgio Solinas: “Lo specifico della ricerca strutturale [...] consiste nel privilegiare l’analisi delle relazioni formali «soggiacenti» al fenomeno considerato, in vista
della costruzione di un completo sistema di relazioni formali”, Lévi-Strauss, le strutture della parentela e le posizioni marxiste, in Alberto Mario Cirese, Folklore e antropologia, op. cit., pp. 90.
4
Alberto Mario Cirese (2008), “Mie memorie ridestate dai cento anno di Lévi-Strauss”, in
Voci, pp. 9-17 (disponibile anche in: http://www.amcirese.it/Z_AMC/miememorie_levistrauss.
pdf). Si veda anche Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Bompiani, 1968, in cui il filosofo italiano critica una certa deriva della nozione di struttura
nella direzione della trasformazione da strumento esplicativo a concetto filosofico.
5
Alberto Mario Cirese (1995), “Modelos de comportamiento y modelos teóricos”, in Estudios sobre las culturas contemporaneas, Año/Vol. 1, N. 1, pp. 127-128.
3
22
Paride Bollettin e Renato Athias
do dice che: “Il mito, che si definisce come l’insieme delle sue varianti, costituisce un gruppo di trasformazioni nel quale ogni variante [...] propone sempre
[...] una nuova soluzione”, o ancora: “ogni mito è in relazione con gli altri miti.
Essi sono le tessere di un unico grande mito [...] e [...] si parlano tra loro”6.
Di conseguenza, l’analisi strutturale del discorso mitico deve concentrarsi su
queste relazioni, trasformazioni, gruppi, perché è attraverso queste che esso
diviene realmente “mitico”, ovvero è nella sua dinamicità e trasformabilità che
il mito ha un significato di ordinamento del mondo. Un ordine che utilizza,
secondo Lévi-Strauss, la logica del concreto per giungere a porre ordine al reale. Può essere utile fermarsi un istante su questa questione, che appare come
centrale in questo volume.
Diversamente dal positivismo del xix secolo che disprezzava i racconti mitici, gli aspetti della magia, i rituali, Lévi-Strauss li ha utilizzati come risorse
di una narrazione della storia del gruppo sociale, come espressioni legittime
delle manifestazioni di desideri e progetti occulti, tutti meritevoli di assurgere
al ruolo di materia prima dell’etnologia. Ciò appare chiaramente nelle Mitologiche, opera nella quale ha proposto un ordine in cui il racconto orale si
colloca su una piattaforma diacronica di un tempo non reversibile, al contrario
della struttura del mito (che ad esempio tratta della nascita o della morte di
eroe) che sale e scende lungo un asse sincronico, in un tempo che al contrario
è reversibile. Sebbene i miti non ci rivelino nulla a proposito dell’ordine del
mondo, sono molto utili per comprendere il funzionamento del gruppo che
li ha generati e che li perpetua. Già Sergio Moravia aveva evidenziato come
“Il mito, per Lévi-Strauss, è essenzialmente una struttura logico-formale”7.
In questa raccolta viene sottolineata tale idea nei testi degli antropologi brasiliani che analizzano i racconti mitici a partire dalle proposizioni del maestro
francese, il cui obiettivo era quello di provare che la struttura dei miti è identica in ogni luogo e che dunque la struttura mentale dell’umanità è la stessa,
indipendentemente dal popolo o gruppo sociale, clima o religione adottata o
praticata8.
Con Lévi-Strauss si è compiuta, forse, una delle ultime “torsioni” della disciplina, o meglio una “doppia torsione” (come dice uno degli autori dei testi
qui raccolti a riguardo della pubblicazione delle opere di Lévi-Strauss all’interno della collezione nella Bibliothèque de la Pléiade): quella del collocare
Antonino Buttitta e Silvana Miceli (1989), Percorsi simbolici, Flaccovio, op. cit., pp. 20 e 90.
Sergio Moravia (1978) [1973], in Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale, Sansoni, op. cit.,
pp. 30.
8
Come sottolinea Alberto Mario Cirese, questa ricerca delle “identità profonde che soggiaciono
alle differenze di superficie è una conquista scientifica fondamentale”, in Mie memorie..., op. cit.
6
7
Introduzione
23
l’uomo all’interno della sua propria opera, con il mirabile libro che è Tristi
Tropici9, e quella di elevare l’antropologia verso un rigore quasi matematico,
con la spasmodica ricerca delle trasformazioni e dei modelli. Quest’ultimo
aspetto è evidenziato molto bene anche da Paolo Caruso: “l’espressione matematica della società, che è poi la «struttura sociale», non coincide con la
concreta organizzazione sociale di una data società, ha un valore strumentale
e non ontologico, [...] è un paradigma, o un modello”10. Esso indubbiamente
influenza anche le successive ricerche, ad esempio nel campo della parentela,
aprendo la possibilità alla costruzione di modelli matematici di descrizione
dell’esperienza concreta del vissuto, come ha fatto Alberto Mario Cirese11.
Certo si potrebbe ancora continuare a lungo con la ricerca di punti nodali
della riflessione di Lévi-Strauss e dei confronti successivi con la sua opera,
come l’influenza dei suoi studi sulla parentela, l’importanza del rapporto con
gli studi linguistici, e così via, ma non è nei compiti di questa introduzione, che
si limita a mettere in evidenza i tratti salienti dei contributi qui raccolti. Questi,
alcuni dei quali ora tradotti in italiano, altri inediti, vogliono stimolare un dibattito a partire dalle questioni teoriche sollevate nell’antropologia brasiliana,
prendendo spunto dalle tematiche sviluppate da Lévi-Strauss, in riferimento a campi differenti, che si interrogano su questioni anche apparentemente
lontane, nel tentativo di permettere una navigazione ad ampio raggio su quei
“contro-sguardi” che stanno alla base della disciplina antropologica.
È importante evidenziare come Lévi-Strauss abbia nel Brasile, o meglio
nei popoli indigeni del Brasile, la propria fonte primaria per sviluppare la sua
“L’oggettività per l’etnografo non consiste nel fingersi sin dall’inizio della ricerca al riparo da
qualsiasi passione, col rischio di restare preda di passioni mediocri e volgari e di lasciarle inconsapevolmente operare nel discorso etnografico, quasi vermi ululanti nell’interno di un decoroso sepolcro di marmo, ma si fonda nell’impegno di legare il proprio viaggio all’esplicito riconoscimento
di una passione attuale, congiunta ad un problema vitale della civiltà cui si appartiene, a un nodo
della prassi, uno stimolo della historia condenda o del res gerendae, nel raccontare come quel
“patire” fu faticosamente oggettivato nel corso dell’esplorazione etnografica mediante il successivo
impiego delle tecniche di analisi storico-culturale. La importanza di Tristi Tropici di C. Lévi-Strauss
sta appunto nel fatto di essere un documento significativo di questo nuovo corso dell’indagine etnografica.” con queste parole Ernesto De Martino commenta il famoso libro di Lévi-Strauss in
La Terra del Rimorso, 1996 [1961], Milano: Ed. Est, pp. 20. Certo il rapporto della tradizione
antropologica italiana di ispirazione storicista con Lévi-Strauss è molto complesso, basti ricordare la critica di Alfonso Maria Di Nola (“Non mi incanti Lévi-Strauss”, in A.L.I.A.S., 14
novembre 2009, pp. 17-18).
10
Paolo Caruso (1967), Introduzione, in: Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di
antropologia, Torino: Einaudi, pp. 28.
11
Si vedano ad esempio i programmi Acarep e Gelm, che rappresentano uno strumento di
un nuovo linguaggio della parentela.
9
24
Paride Bollettin e Renato Athias
teoria antropologica. Le osservazioni realizzate sui popoli indigeni del Brasile
fanno parte degli elementi centrali della sua antropologia strutturale. Ed è
proprio in questa direzione che l’autore rivela che:
La mia carriera si è decisa una domenica dell’autunno 1934 alle nove del mattino,
con una telefonata. Era Celestino Bouglé, allora direttore della scuola normale
superiore; da qualche anno egli mi accordava una benevolenza un po’ sostenuta e
reticente: in primo luogo perché non ero un antico normalista, in secondo luogo
e soprattutto perché, anche se lo fossi stato, non appartenevo alla sua scuderia
per la quale nutriva sentimenti particolari. Evidentemente non aveva altra scelta,
infatti mi domandò all’improvviso: «Lei ha sempre intenzione di fare l’etnografo?»
«Certo!» «Allora ponga la sua candidatura come professore di sociologia all’Università di São Paulo. I dintorni sono pieni di Indiani, potrà dedicare loro i suoi
weekends.12
Detto altrimenti, fu la sua permanenza in Brasile che lo rese un etnologo,
come egli stesse ebbe modo di dire: “J’étais parti pour le Brésil parce que je voulais devenir ethnologue”13. È stato il pensiero di questi popoli a dialogare con il
suo, il che sembra indicare il “privilège de l’ethnologie”: “comme inauguration
d’un dialogue avec la pensée primitive, elle achemine notre propre culture vers
une pensée nouvelle” come suggerisce Pierre Clastres14. Si può quindi notare
nelle sue proposte teoriche, che esse sorgono a partire dalla sua esperienza
brasiliana durante gli anni dal 1935 al 1939: tale programma di studi conteneva già precisamente le tematiche che egli avrebbe affrontato durante tutta
la sua carriera accademica: parentela, mitologia, totemismo, ecc. Le rappresentazioni sociali si costituiscono come il punto centrale del suo universo di
interessi e la riflessione su di esse sarà presente lungo tutto il suo percorso di
pensatore.
Il primo capitolo, di Beatriz Perrone-Moisés, mostra con grande acutezza i
dettagli della maniera in cui Lévi-Strauss vede il Brasile e gli indigeni, evidenziando ciò che egli stesso avrebbe definito la “filosofia amerindia” o il sapere
indigeno che fa parte delle sue osservazioni e che vuole trasmettere all’Occidente. Come dice molto bene l’autrice, nell’analizzare il testo della Lezione
Inaugurale al Collège de France:
Claude Lévi-Strauss (1999 [1955]), Tristi Tropici, Milano: Il Saggiatore, pp. 45.
Claude Lévi-Strauss e Didier Eriborn (1988), Da vicino e da Lontano, Milano: Rizzoli,
pp. 36.
14
Pierre Clastres (1979), Entre silence et dialogue, in Bellour, R. e Clément, C. (orgs.),
Lévi-Strauss, Paris: Gallimard, p. 37-38.
12
13
Introduzione
25
Lévi-Strauss fa lì una serie di omaggi, ai suoi predecessori in quella istituzione ed
a quelli che definisce «maîtres de l’anthropologie sociale», per concludere con un
omaggio agli indigeni, «dont l’obscure ténacité nous offre encore le moyen d’assigner aux faits humains leurs vraies dimensions». Ma non è appena perché la loro
esistenza fornisce all’antropologo la materia del suo lavoro che Lévi-Strauss parla
lì di debito che non potrà mai saldare. Il debito in questione è quello del sapere,
della conoscenza, perché è nella conoscenza degli «Indiens des tropiques et leurs
semblables par le monde» che si incontra «l’essentiel des connaissances que vous
m’avez chargé de transmettre à d’autres», dice Lévi-Strauss, per concludere la sua
lezione dichiarandosi «leur élève, et leur témoin».
Questo sapere indigeno che Lévi-Strauss esporrà al mondo fa parte di una
struttura del “pensiero selvaggio” in cui, attraverso codici differenti, si trasmette la maniera in cui gli indigeni riflettono sulla loro società. Non a caso è
proprio su questo sapere che gli antropologi più legati al suo pensiero si impegnano per compredere queste società.
Mauro de Almeida presenta nel secondo capitolo una questione oscura e
centrale dell’opera di Lévi-Strauss, ossia “La formula canonica del mito”, e
dimostra come questa intuizione teorica organizza ed orienta la sua ricerca.
L’autore espone con chiarezza, sobrietà ed eleganza che la formula canonica
del mito, criticata come una utilizzazione magica di simboli matematici nelle
scienze sociali, occultata per circa trent’anni dallo stesso Lévi-Strauss, è utilizzata come legge generatrice di forme mitiche. Il testo di Mauro de Almeida
illustra come la matematica dialoghi con l’antropologia, e come essa sia essenziale per la realizzazione di ciò che sempre è stato un progetto ideale per
Lévi-Strauss e fondamento dello strutturalismo.
“I significati della storia” è il tema del saggio di Marcio Goldman, in cui
egli cerca di identificare, a partire dall’opera di Lévi-Strauss, i tre significati
della “storia” presenti nella sua narrativa. Goldmann sostiene che forse si
tratta di modalità alternative di descrizione degli stessi fenomeni e che possono essere “compresi come effetti soggettivi di funzionamenti che hanno luogo sul piano dell’intersoggettività prima, e che si manifestano ugualmente al
livello del sociologico propriamente detto”. Goldman approfondisce quindi
il dibattito attorno a due punti rilevanti: che la riflessione sulla storia sarebbe
presente nell’opera di Lévi-Strauss come una dimensione solo apparentemente secondaria e che è proprio a partire da essa che si possono raggiungere dimensioni importanti e marginalizzate del cosiddetto strutturalismo;
a ciò egli aggiunge una riflessione sul fatto che la teoria lévi-straussiana ha
sviluppato una dimensione antropologica non etnocentrica in relazione alla
storia stessa.
26
Paride Bollettin e Renato Athias
Da un altra prospettiva, Oscar Calavia Sáez, nel quarto capitolo “La storia
pittografica”, evidenzia che l’insieme dell’opera di Lévi-Strauss può essere interpretata storicamente. I miti raccolti nelle Mitologiche sono narrazioni che
utilizzano le categorie del sensibile per raccontare ciò che in passato successe
ai popoli indigeni: una storia di storie, una storia pittografica.
Con il capitolo cinque, di Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto, si
discute un’altro importante aspetto dell’opera lévi-straussiana e si cerca di evidenziare, all’interno di una discussione più ampia, le informazioni etnografiche raccolte in Brasile e i dibattiti teorici da lui proposti a partire da queste. I
due autori analizzano il problema del dualismo, il cui sviluppo viene accompagnato fin dai testi inaugurali sui Bororo ed i Nambikwara, fino a Storia di Lince
(1991), in questo tragitto essi mettono in evidenza sia come i dati etnografici
occupino uno spazio centrale nell’opera di Lévi-Strauss, sia il rilievo dei suoi
contributi per l’etnologia contemporanea.
Il contributo di Lévi-Strauss allo studio dei miti amerindi è incontestabile,
ampio e profondo. Tânia Stolze Lima, nel suo articolo intitolato “L’uccello
di fuoco”, il sesto del volume, riprende un mito degli juruna per confrontarlo con quelli studiati nelle Mitologiche. L’autrice sottolinea, partendo dalla
propria esperienza di campo con gli juruna, una profonda relazione tra questi
miti, soprattutto tra quelli che riguardano la distinzione natura/cultura, e sottolinea il fatto che essi offrono elementi etnografici utili ad una comprensione
della nozione indigena di mito.
“Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo” è il titolo del settimo capitolo, firmato da Eduardo Viveiros de Castro, che ricerca in Storia
di Lince e nelle Mitologiche gli elementi centrali del proprio discorso. Come
egli stesso dice, è in Storia di Lince che si può trovare la “chiave di tutto il sistema”: “Il maestro francese – continua Viveiros de Castro – si riferisce qui al
sistema mitico panamericano analizzato nella serie delle Mitologiche; ma io mi
riferisco al sistema teorico dello strutturalismo. Sempre che sia realmente possibile distinguere i due sistemi”. L’autore presenta Lévi-Strauss come uno dei
fondatori del post-strutturalismo nel senso di un “pensatore che ha reinventato l’antropologia, lo smontatore dei fondamenti metafisici del colonialismo
occidentale, e che allo stesso tempo ha rivoluzionato la filosofia, aprendo uno
dei principali sentieri del secolo affinché altri potessero smontare i fondamenti
colonialisti della metafisica occidentale”. Nelle conclusioni viene infine evidenziato come il movimento teorico di Lévi-Strauss proceda verso una “amerindianizzazione dello strutturalismo”.
In questi lavori qui raccolti, gli autori sottolineano come non sia possibile
riassumere le Mitologiche senza che si perda qualcosa dell’insieme, perché
sono proprio i legami logici tra i miti che rivelano l’intelligibilità delle culture.
Introduzione
27
Partendo da questo movimento dal continuo al discreto come forma legittima
di costruzione di significati, Ruben Caixeta de Queiroz, nell’ottavo capitolo
“Dal movimento al fisso e viceversa”, presenta il cinema come una possibile
allegoria del pensiero lévi-straussiano. In opposizione ai miti, i riti ed il cinema
utilizzano la frammentazione e la ripetizione come maniera di introdurre differenze minime tra loro ed impercettibili ad occhio nudo. Queste differenze rendono possibile la ricostruzione del movimento attraverso un flusso illusorio di
immagini, il che rende il movimento dal discontinuo al continuo possibile.
Nei saggi successivi l’opera di Lévi-Strauss viene analizzata a partire dalla
musica e dai linguaggi utilizzati nelle narrazioni. Rafael de Menezes Bastos
propone di discutere l’idea di rituale, partendo dalla prospettiva dell’ascolto,
in particolare tra i kamaiurá dello Xingu, proprio basandosi sulle proposte
di Lévi-Strauss, in cui l’ascolto di sonorità musicali ha un significato specifico che opera nella memoria e nel linguaggio e che stabilisce il piano della
traduzione “intersemiotica, [che] viene pensata in termini sinonimici o della
riproduzione degli stessi significati dai differenti linguaggi”. Secondo l’autore,
come egli stesso dice: “i linguaggi o sottosistemi coinvolti nella trama intersemiotica della verità costituiscono, uno per uno, sforzi di espressione significante di significati di altri canali, dislocandoli, nel frattempo, attraverso nuovi
significati, conseguenti, che mimeticamente producono”.
Gli ultimi due capitoli del volume sono dedicati a mettere in evidenza come
il luogo, il Brasile, è stato visto da Lévi-Strauss. In questo senso le autrici, Cornélia Eckert e Ana Luzia Carvalho da Rocha, cui si deve il decimo capitolo,
mostrano il Brasile prodotto nei testi di Lévi-Strauss. Esso viene visto in una
condizione di “produttore di sincretismi culturali e territorio di coesistenza
di tempi sociali diversi [che] ha bisogno di essere rivisto attraverso l’angolo
della sua memoria collettiva, per la sovrapposizione di strati di lunga durata
in cui la presenza di principi contraddittori permette al suo corpo sociale di
ridisegnare, ogni giorno, il suo aspetto”. Le due autrici rivolgono la propria
attenzione alla definizione di cultura utilizzata da Lévi-Strauss, affrontando
anche un’analisi dei raggruppamenti umani in Brasile a partire dalla nozione
di “città tropicale”, segnalando che la città comprende anche le storie individuali di ognuno e che queste storie vengono territorializzate. Come esse stesse
dicono: “Schivando la pressione della storia immediata delle trasformazioni
urbane, l’estetica del disordine che configura la città del «Terzo Mondo» è qui
vista come il risultato del comportamento estetico di un popolo che incontra
riposo nell’adattabilità. È questa trasgressione di una retorica che riduce le
esperienze temporali dei brasiliani ad un paese senza memoria a cui ci siamo
riferiti, allegoria messa in dubbio dall’etnografia della memoria della durata
al problematizzare il lavoro del popolo brasiliano nell’adattarsi alla materia
28
Paride Bollettin e Renato Athias
deperibile del Tempo, svelando i contenuti latenti che contengono molto più
del tragitto immaginario di colui che pensa, parla, agisce ed interagisce”. In
questo modo, gli strumenti messi a disposizione dall’antropologo francese,
soprattutto la definizione di cultura, rendono possibile una comprensione più
approfondita della realtà urbana.
Antonio Motta nel capitolo undici problematizza lo “spazio dell’esotico”
nella produzione dell’“altro” in Lévi-Strauss. Come dice l’autore: “l’altra parte coinvolta nella relazione, che è lo stesso oggetto investito, ossia la cultura
dell’altro (esotica) si trasforma in una mera formulazione e valorizzazione di
un ideale, in principio basato nell’affermazione dell’alterità, però visto dalla
prospettiva di chi lo nomina o professa l’esotismo, ma che da esso si conserva
immune nella propria cultura di origine”. In realtà, le proposte di Lévi-Strauss
nell’ambito della sua etnologia cercano di comprendere l’esotico avendo in
mente una applicazione universale.
L’impatto del progetto teorico dell’opera di Lévi-Strauss non è misurabile,
soprattutto per ciò che riguarda il modello degli studi etnologici che egli ha
inaugurato, in cui si può contemplare la base per la comprensione delle società
amerindie. Sappiamo però che la scienza non si costituisce solo con individui
isolati e questa pubblicazione vuole proporre una proiezione verso il futuro,
perché rende possibile un dibattito su questioni elaborate da e su Lévi-Strauss,
studiate e discusse da antropologi brasiliani che producono conoscenze etnografiche e etnologiche in e sul Brasile, che ci auguriamo possano essere di stimolo anche in Italia. Il desiderio è quello, quindi, di proporre un dialogo che
possa intessere trame di spiegazioni, di analisi e di riflessioni tra due tradizioni
antropologiche, ma anche tra persone fuori e dentro l’ antropologia che leggendo l’opera del maestro francese vi hanno riconosciuto elementi innovativi
per il loro lavoro.
Per concludere questa breve introduzione, ci sia permesso di ringraziare
tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di questo volume. In
modo particolare un sentito ringraziamento va a Fabrizio Loce Mandes e Luca
Tabarrini, di Contro-Sguardi, per l’immagine di copertina. Ringraziamo anche
Andrea Ravenda, Alexander Koensler, Cristina Papa, Giovanni Pizza, Donatella Schmidt, Laura Montesi, Igor Baglioni e Martina Forti per il sostegno e l’appoggio alla realizzazione di questo lavoro. Un grazie sincero anche al maestro
francese cui questo volume è dedicato, per aver permesso con la sua riflessione
di aprire nuovi fertili terreni di indagine per l’antropologia e come egli stesso
ebbe a dire: “le mie ultime parole siano per quei selvaggi, la cui oscura tenacia
ci offre ancora modo di assegnare ai fatti umani le loro vere dimensioni”15.
15
Claude Lévi-Strauss, Elogio dell’antropologia, in Id., Razza e storia..., op. cit., pp. 82.
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
29
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
Beatriz Perrone-Moisés
L’incontro tra Lévi-Strauss ed il Brasile si dette per un caso. Lo studente di
diritto, dopo la filosofia, voleva già consegnarsi a la forme la plus extrême qui
se puisse concevoir di straniamento di sé che è l’etnografia (Lévi-Strauss, 1955:
59). La vocazione era là, già scoperta nella lettura di antropologi britannici
e nordamericani (cominciando da Primitive Society, di Robert Lowie) e nel
concomitante rifiuto della ripetizione filosofica. Egli aveva anche già scoperto,
nella psicanalisi, nel marxismo e nella geologia, modi di pensare che andavano oltre le apparenze immediate che più tardi sarebbero risuonati nella sua
proposta di analisi strutturale. Nel 1934, l’etnologia gli appariva come una
“planche de salut” (Lévi-Strauss, 1955: 56); oltre a ciò, egli voleva vedere il
mondo, percorrere nuovi orizzonti, come ha ribadito in varie interviste. Ma
se tutto spingeva il giovane Lévi-Strauss fuori dal Vecchio Mondo, niente lo
portava obbligatoriamente in Brasile. In quel momento, racconta “Le Brésil
et l’Amérique du Sud ne signifiaient pas grand-chose pour moi” (Lévi-Strauss,
1955: 49). La sua iniziazione come etnologo avrebbe potuto realizzarsi in un
altro luogo: “on m’aurait proposé la Nouvelle-Calédonie ou l’Afrique, j’aurais
accepté. Le hasard a voulu que ce soit le Brésil, un pays dont je ne connaissais
rien”1. E questo in ogni caso, una volta avvenuto, influenzò ciò che avvenne
in seguito.
“Ma carrière s’est jouée un dimanche de l’automne 1934, à 9 heures du matin, sur un coup de téléphone” (Idem.), racconta in Tristes tropiques, il libro
– inclassificabile2 – che lo rese noto al grande pubblico facendolo riconoscere
come grande scrittore. Si trattava di un invito a fare lezione di sociologia alla
Intervista a Grisoni, in Léry (1994: 6).
“Tristes tropiques constitue un genre littéraire à part [...] inclassable, sans doute parce que
hors classe”, nelle parole di Pascal Dibie (2003: 29). Da segnalare inoltre che, nell’anno della sua
pubblicazione, la giuria del Premio Goncourt si lamentò di non poter dare a Tristes tropiques il
massimo premio, perché non si poteva definirla come un’opera di invenzione.
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Beatriz Perrone-Moisés
appena fondata Universidade de São Paulo, dove egli avrebbe potuto, gli dissero, fare ricerche sul campo durante i fine settimana, con i molti indigeni che
si trovavano nei sobborghi della città. Non era vero. Gli indigeni erano ben
più lontani, come commenta lo stesso Lévi-Strauss più avanti, chiedendosi se
non ci fosse stata una confusione tra São Paulo e Città del Messico o Tegucigalpa (Idem.: 49-50).
Ad ogni modo, fu in Brasile che Lévi-Strauss realizzò il lavoro sul campo
indispensabile per ottenere le proprie credenziali come etnologo, le sua “preuves d’ethnologue” (Lévi-Strauss e Eribon, 1988: 35). Si trattava di una esigenza
formale per essere accettato tra gli specialisti. Ma il lavoro sul campo è sempre
più che una mera formalità. È un vero rito di passaggio, indispensabile, come
disse (in Charbonnier, 1961: 18 [ed. it.: 38]), per apprendere la “ginnastica
intellettuale” di cambiare il proprio sistema di riferimento, ginnastica senza la
quale non è possibile essere etnologo. Ginnastica ben diversa da quella che gli
proponeva la filosofia, e della quale si dichiarava stanco (Lévi-Strauss, 1955:
55 [ed. it.: 51]). Questa “ginnastica etnologica” era anch’essa stancante, dice,
ma fisicamente stancante. E continuava ad essere una ginnastica intellettuale,
come l’altra. Nella stessa descrizione del lavoro di etnologo, nel 1955, LéviStrauss già connetteva mente e corpo, ragione e sensi, preannunciando la logica dei sensi che sarebbe stata esplicitata nel 1962, ne Il pensiero selvaggio, e
moltiplicata, con i codici sensoriali con cui operano i miti amerindi, nel corso
delle Mitologiche.
E così, fu in Brasile che egli visse l’isolamento fisico in relazione al proprio
gruppo, i cambiamenti brutali, lo sradicamento cronico che fanno un etnografo, secondo la sua stessa caratterizzazione del lavoro sul campo (Idem.:
59 [ed. it.: 53]). Tutte le difficoltà e gli sconforti provati in queste spedizioni
nell’interno del Brasile sono espressi e chiaramente affermati da Lévi-Strauss,
ma l’incanto dei viaggi permane, soprattutto nelle descrizioni della natura e
degli incontri con gli amerindi. Egli racconta in Tristes tropiques che “d’avoir
tant parcouru les savanes désertiques du Brésil central a redonné son charme
à cette nature agreste qu’ont aimé les anciens”. Più avanti, descrive la foresta
tropicale come un
monde d’herbes, de fleurs, de champignons et d’insectes [...] [où] un univers fait
place à un autre, moins complaisant à la vue [dei paesaggi montagnosi] mais où
l’ouïe et l’odorat, ces sens plus proches de l’âme, trouvent leur compte (Idem.:
393-94).
Visione, udito, olfatto, tre sensi menzionati e comparati in una descrizione
della foresta. La ricchezza e la sottigliezza delle osservazioni sensibili, tanto
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
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fondamentali nella logica del concreto e nelle Mythologiques, segnano anche le
sue descrizioni di questo periodo brasiliano. Il Nuovo Mondo, prima di essere
visibile, gli si presenta come un profumo, che egli afferma essere “difficile à
décrire à qui ne l’a pas respiré”, per in seguito analizzarlo in “brise de forêt alternant avec des parfums de serre, quintessence du règne végétal”, comprensibile
solo, continua, da
ceux qui ont enfoui le nez au coeur d’un piment exotique fraîchement éventré
après avoir [...] respiré la torsade mielleuse et noire du fumo de rolo, feuilles de
tabac fermentées et roulées... (Idem.: 85)3.
“Aujourd’hui encore je pense d’abord au Brésil comme à un parfum brûlé”,
dice in Tristes tropiques (Idem.: 50) e Saudades do Brasil comincia con l’odore
del creosoto che si applicava ai bagagli prima di partire in spedizione. Sono
vari profumi, gusti e suoni del Brasile che egli descrive. Le manifestazioni del
codice sensoriale si moltiplicano in Tristes tropiques4.
Se la vista è, secondo la sua descrizione della foresta amazzonica, un senso meno vicino all’anima, non per questo verrà lasciato in disparte. Sempre
presente, si manifesta con particolare forza nelle famose pagine dedicate alla
descrizione di un tramonto, in Tristes tropiques. Lévi-Strauss dirà più tardi
che adottava lì il tramonto come modello dei problemi etnologici che avrebbe
dovuto risolvere più tardi e tornerà a questo stesso tramonto nel finale de
L’Homme nu, ultimo volume delle Mythologiques. Al concludere5 il viaggio
attraverso i miti, scriverà nel “Finale”:
Parvenu au soir de ma carrière, la dernière image que me laissent les mythes et,
à travers eux, ce mythe suprême que raconte l’histoire de l’humanité [...] rejoint
donc l’intuition qui, à mes débuts et comme je l’ai raconté dans Tristes Tropiques,
me faisait rechercher dans les phases d’un coucher du soleil [...] le modèle des faits
que j’allais étudier plus tard et des problèmes qu’il me faudrait résoudre sur la mythologie: vaste et complexe édifice, lui aussi irrisé de milles teintes, qui se déploie
sous le regard de l’analyste, s’épanouit lentement et se referme pour s’abîmer au
loin comme s’il n’avait jamais existé. (Lévi-Strauss 1971:620).
3
Si noti la congiunzione del tabacco con il miele, motto del secondo volume delle Mitologiche, nella descrizione della “torsade mielleuse” del tabacco in corda.
4
Una serie di altri passaggi di Tristes tropiques con riferimenti sensoriali si trova in PerroneMoisés (2008a).
5
Temporaneamente, dato che le tre “piccole Mitologiche”, La voie des masques, La potière
jalouse e Histoire de Lynx saranno pubblicate in seguito, tra il 1975 ed il 1991.
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Beatriz Perrone-Moisés
È lontana dall’essere l’unica occorrenza di pagine dedicate alla descrizione
visuale del mondo nella sua opera. Non è neanche l’unico tratto in cui la bellezza e l’eleganza si evidenziano nel suo testo. Lunghe e poetiche descrizioni
di paesaggi brasiliani fanno da punteggiatura a Tristes tropiques, e tornano in
versione compatta nell’introduzione a Saudades do Brasil. Nella metà degli
anni 1990, Lévi-Strauss lamentava di vedere la natura paulista, tanto magistralmente descritta quattro decenni prima, colpita dalla crescita accelerata
della città di São Paulo. Ma si rallegrava di incontrarla, sopravvivente, nella
foresta che copre i pendii dell’altopiano paulista sparpagliandosi fino al mare,
alla Serra do Mar, “tropique de rêve”, come egli la qualificò in Tristes tropiques.
La natura brasiliana prende anche corpo, con odore, suono, colore e densità
nei suoi animali, che riappariranno soprattutto nel primo volume delle Mythologiques, e nei suoi fiumi, rilievi ed orizzonti.
Nonostante la tanto marcata presenza dell’aspetto sensoriale in Tristes tropiques, e la sua tanto lodata qualità letteraria, Lévi-Strauss dirà più tardi (1988)
che solo nella sua opera successiva avrebbe curato realmente lo stile cercando,
in maniera concreta, di esprimere “cose astratte e difficili”, di realizzare il suo
obiettivo: superare l’opposizione tra il “sensibile” e l’“intelligibile”. Ma già
nel libro in cui descrive le sue spedizioni, il suo linguaggio, come ha osservato
Octavio Paz,
oscilla continuamente tra il concreto e l’astratto, l’intuizione diretta dell’oggetto e
l’analisi: un pensiero che vede le idee come forme sensibili e le altre forme come
segni intellettuali (Paz, 1967: 11).
La prosa, che già è stata definita “tropicale”, di Tristes tropiques è uno dei numerosi esempi dell’impossibilità di separare, in Lévi-Strauss, forma e contenuto.
Lì si esprime uno dei suoi più notevoli talenti, quello di far sì che la materia di
cui parla dia forma alla maniera in cui parla di essa. O di esprimere nella forma
del testo il suo contenuto6. Solidarietà tra forma e contenuto che è, giustamente,
essenziale nella sua nozione di struttura. Reintegrazione del sensibile nell’intellegibile, o viceversa, che segna tutta l’opera di Lévi-Strauss. Già in Tristes tropiques, egli componeva il proprio pensiero con categorie del sensibile.
Torniamo al Brasile da lui descritto e pensato nel libro “inclassificabile”.
Oltre alla natura vergine ed al viaggio attraverso i sensi, cosa vede Lévi-Strauss
in Brasile?
6
Ho sviluppato questo punto in relazione a Histoire de Lynx, mostrando come la composizione del libro stesso e l’analisi in esso sviluppata hanno la forma dell’“ideologia bipartita
amerindia” (Perrone-Moisés, 2008b).
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
33
Rio de Janeiro è “morsa” nella baia di Guanabara e tutto nella città sembra di un tempo antico, come “demodé”. Gli appare una città che non è stata costruita come le città usualmente sono, che si inserisce con difficoltà nel
paesaggio, “à la façon des doigts dans un gant trop étroit”. La São Paulo degli
anni ‘30 gli sembrava essere un esempio tipico delle città americane, una “ville
sauvage” dal ciclo corto, sempre a mezza strada tra il cantiere e la rovina, “perpetuellement jeunes [mas] jamais saines”. Una città che, “d’une façon générale,
[...] offrait ces tons soutenus et arbitraires qui caractérisent les mauvaises constructions”. Nel cuore del Brasile, Goiás Velha viene descritta come un insieme
di “façades dégradées” conquistate da rampicanti, banani e palme; la sua vicina
e succedanea, Goiânia, come “une plaine sans fin, qui tenait du terrain vague et
du champ de bataille, hérissée de poteaux electriques et de piquets d’arpentage”
(Lévi-Strauss, 1955: 88, 96, 107-108, 139, 140). Sono molti e diversi gli aspetti
del Brasile che Lévi-Strauss descrive, sempre rivelando uno sguardo attento ed
acuto in formule che oscillano tra un certo “détachement” ed il puro incanto.
Il Brasile non ha, ciononostante, un posto di rilievo nel suo pensiero.
Occupa, nella sua opera, un luogo comparabile a quello del sudest asiatico,
dell’America del Nord o anche della stessa Europa. Appartiene ad un insieme
di luoghi che fanno parte della traiettoria di Lévi-Strauss, ai quali egli applica
il pensiero, che egli confronta e connette gli uni agli altri, in quello che egli
stesso chiama il suo “travelling mentale”. I “tropiques vacants” in Brasile si
oppongono ai “tropiques bondés” in India. Le allora nuove strade dello stato
del Paraná accompagnano il rilievo come le vecchie strade romane della Gallia. Rio de Janeiro, a prima vista, ricorda le gallerie di Milano e Amsterdam,
o la stazione Saint-Lazare a Parigi, ma all’aria aperta, e lo fa pensare anche
a Calcutta, Nizza o Biarritz nel XIX secolo. Ma Rio è anche il contrario di
Chittagong, nel golfo del Bengala. Ed i quartieri della città ne evocano anche
altri, in altri paraggi e tempi: Botafogo ricorda Neuilly, Copacabana è SaintDenis degli anni ‘30. I pantani attorno alla città di Santos sono come il delta
del Bramaputra. La nebbia dell’altopiano paulista è bretone. Goiânia gli evoca
il ricordo di Karachi. São Paulo, come Chicago e New York, sorprende l’europeo perché appare precocemente devastata dal tempo. La “lugubre” Porto
Esperança figura nella sua memoria a lato di Fire Island, nello stato di New
York, a sua volta una sorta di Venezia invertita. Corumbá, in Mato Grosso,
ricorda le città pioniere del vecchio west e della California (Lévi-Strauss, 1955:
161-162, 94, 96, 103, 142, 107, 184-185, 228).
Ad un certo punto del racconto, Lévi-Strauss evoca un quadro di combinazioni tra l’ambiente geografico ed il popolamento, le cui possibilità sarebbero tutte espresse nell’insieme {Europa, India, America del Nord e America
del Sud} (Idem.: 149). Ma non sono queste le uniche variabili considerate in
34
Beatriz Perrone-Moisés
Tristes tropiques e, ad uno sguardo più ravvicinato, si vede che non si tratta di
una mera combinazione. Attraverso i luoghi del mondo, Lévi-Strauss percorre
un gruppo di trasformazioni connesse da opposizioni, sdoppiamenti, inversioni, duplicazioni, come quelle che seguirà più tardi tra i miti amerindi, nelle
Mythologiques. Nel gruppo di trasformazioni che può anche essere il mondo,
questo Brasile occupa un luogo alla fin fine più contingente di quello del mito
di riferimento bororo della tetralogia. Perché nonostante egli affermi, all’inizio de Il crudo ed il cotto, che il viaggio attraverso i miti, i tragitti per i gruppi di trasformazione, potrebbe essere iniziato a partire da uno qualsiasi dei
suoi rappresentanti, il mito bororo M1 si presenta come “spécialment propre
à exercer la réflexion”, non perché sarebbe “typique”, ma piuttosto per la sua
“position irregulière au sein d’un groupe”, per i “problèmes d’interprétation que
[tale posizione] soulève” (Lévi-Strauss 1964:10). Mano a mano che si avanza
per i cammini delle trasformazioni mitiche, M1 giustifica sempre più il proprio
luogo di punto di partenza, per ritornare con forza alla fine del tragitto, ne
L’Homme nu. Questo Brasile – o questi vari Brasili – descritto nel libro autobiografico non si presenta né come tipico né come notevolmente atipico; non
sembra essere più che un punto iniziale nella memoria del viaggiatore, in un
viaggio che avrebbe potuto, di fatto, essere cominciato in un qualsiasi luogo.
Qualsiasi luogo, che però fosse in America. Perché il Brasile che segna la
vita e l’opera di Lévi-Strauss è quello degli amerindi. Il Brasile che fa di lui un
americanista e inflette la sua produzione intellettuale è quello in cui vivono
Nambikwara, Bororo, Caduveo, Tupi-Kagwahiv, Tupi Mondé. Nell’esperienza
sul campo la cui brevità tanti critici hanno tenuto a sottolineare, Lévi-Strauss
sarebbe stato uno di quegli etnografi che
se referment sur eux-mêmes et se laissent en quelque sorte flotter; ils s’en remettent à un travail inconscient qui se produit de toute façon, pour installer en eux des
observations, faire surgir des réflexions, mais qui se manifesteront à leur conscience quelquefois des années après leur séjour sur le terrain
per riprendere una riflessione dello stesso autore a proposito delle distinte
maniere di vivere l’esperienza sul campo (apud Clement, 2002: 9). Lasciandosi
“flotter” nel Nuovo Mondo da questa altra faccia dell’umanità che gli si rivelava, Lévi-Strauss aprì lo spazio necessario per una trasformazione. È l’America
che Lévi-Strauss pensa, e che in lui si pensa.
Il suffit de lire Tristes tropiques — ou encore de regarder les photos de Saudades do
Brasil”, osserva Anne-Christine Taylor, “pour comprendre que sa rencontre avec
les Indiens a marqué en profondeur sa sensibilité et son imaginairie scientifiques,
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
35
pour deviner qu’elle a joué un rôle dans la généalogie des concepts de l’anthropologie structurale (Taylor 2004:92).
È già stato notato (Peixoto, 1988: 96; Taylor, 2004: 94) che egli ritorna continuamente alla propria esperienza etnografica in Brasile nel corso dell’opera
posteriore. I Nambikwara, “società ridotta alla sua più semplice espressione”,
rispondevano nell’esperienza, come egli stesso pondera, ad una questione che
Rousseau aveva affrontato teoricamente, ossia, ciò che potrebbe essere una
“società minima”, un “grado uno” della società, per così dire. L’esperienza tra
i Nambikwara, questa “società minima”, è fondamentale per lo sviluppo della
sua critica al “falso arcaismo”, idea corrente (ancora) che le società come la loro
sarebbero sopravvivenze di uno stadio primo, arcaico, di ogni società (Coelho
de Souza e Fausto, 2004: 92 [in questo volume Cap. 5, n.d.t.]). I Nambikwara
sono anche decisivi per lo sviluppo della prima parte del fondamentale trattato di teoria della parentela che sono le Strutture Elementari della Parentela.
I Bororo, “société encore vivante et fidèle à sa tradition” (Lévi-Strauss 1955:
244) in cui ebbe il privilegio, come egli stesso riconoscerà più tardi, di vedere
in tutto il suo splendore questa arte tanto amerindia che è quella piumaria, gli
forniscono la materia prima per studi seminali di organizzazione sociale ed
il primo mito (delle migliaia di miti amerindi) delle Mythologiques, il mito di
riferimento, storia di un giovane che si reca a prendere i figli di arara nel nido,
lo “snidatore di uccelli”, al quale egli torna continuamente, condotto da altri
miti americani. La “apertura all’altro” che propone come caratteristica del
pensiero amerindio era già stata individuata molto prima di divenire oggetto
di Histoire de Lynx, dato che è presente nei suoi primi articoli, come nota
Anne-Christine Taylor (2004: 95-96)7.
Le “saudades” evocate nel titolo del suo libro di fotografie sono, alla fin
fine, nostalgie dello “état d’excitation intellectuelle intense” con cui egli scoprì
il Nuovo Mondo, del tempo degli esploratori e viaggiatori le cui avventure si
sentiva di rivivere, dei primi incontri tra europei e tupi nella costa brasiliana
(Lévi-Strauss e Eribon, 1988: 34); lui che si riconosce in Jean de Léry, visitatore francese che, nel XVI secolo, scrisse una delle più belle opere a riguardo dei
popoli dell’America, la Storia di un viaggio alla terra del Brasile (1578), salutata
come “breviaire de l’ethnologue” in Tristes tropiques. In una mappa dello stato
di São Paulo del 1918, egli notava che due terzi dell’area erano definiti come
“territoire inconnu habité seulement par les Indiens”, ed anche che lì, negli
anni ‘30, già non c’era più alcun indio (Lévi-Strauss, 1955: 52). Nell’opera di
7
“Apertura all’altro” che è anche caratteristica della stessa antropologia da lui inaugurata.
Cfr. Viveiros de Castro (in questo volume, Cap. 7).
36
Beatriz Perrone-Moisés
Lévi-Strauss, come nella sua analisi dei miti, nessun dettaglio deve essere considerato come fortuito, la mappa del 1918 rimanda tanto alla decimazione dei
popoli indigeni quanto al mistero dei suoi “territori sconosciuti”. “Sconosciuti” nel senso che potevano avere per gli europei, di paesaggi diversi, i tropici,
l’esotico. Ma anche, o soprattutto, territori del pensiero, mondi da conoscere
che gli indigeni gli mostrano. Egli sente la nostalgia degli indigeni8, che gli propiziarono una delle ultime opportunità di registrare una esperienza umana che
“non doveva nulla” alla cultura occidentale; senza la quale non sarebbe più
possibile pensare l’umano al di fuori della tradizione occidentale, perché tutte
le culture della faccia della terra sarebbero presto, in qualche modo, entrate
in contatto con essa e si sarebbero trasformate in questo contatto. La rapida
scomparsa evidenziata dalla mappa sarebbe esemplare della brutale distruzione dell’America, che tante volte Lévi-Strauss ha evocato nella sua opera9, ed
anche un caso specialmente flagrante di distruzione della diversità culturale,
di perdita di realizzazioni uniche delle possibilità umane.
Ciò che fu deciso in quell’imprevedibile telefonata avrebbe portato LéviStrauss ad essere un americanista con un ingresso “brasiliano”, o un europeo
che incontra l’America sul suolo del Brasile. Lévi-Strauss scopre gli americani
in Brasile e scopre, rivela l’America. L’incontro è tanto importante che si può
parlare di “indianizzazione” dell’immaginario scientifico di Lévi-Strauss (Taylor, 2004: 06) e percepire una inflessione amerindia nella sua teoria del sociale,
tributaria di Marcel Mauss tanto quanto dei Nambikwara o dei Bororo. Ma, si
noti, il suo pensiero è anche tributario delle molte letture fatte più tardi, nelle
biblioteche di New York, dove egli dice di aver realmente appreso l’etnologia
amerindia.
Se un qualche Brasile influenza l’opera di Lévi-Strauss, è quello dei popoli
indigeni, ed è nella comprensione degli universi amerindi che la sua opera permane più viva. È soprattutto agli etnologi americanisti che Lévi-Strauss indica
cammini, possibilità e questioni che continuano alimentando nuove scoperte.
Come aveva di loro nostalgia Jean de Léry, di ritorno all’Europa e divenuto pastore calvinista, quando dichiarava di lamentarsi molto spesso di non essere tra i selvaggi (Léry, 1994:
508). La comparazione stabilita da Léry in questo passaggio, tra i modi di relazione dei selvaggi
e quelli che diremmo civilizzati ed egli chiamava cristiani (la cui fertile prosperità nota Lestringant; in Léry, 1994: 508, n.2), in cui gli amerindi emergono come moralmente superiori, è uno
dei numerosi echi di Léry in Lévi-Strauss o meglio, uno dei paralleli tra entrambi, che echeggiano lezioni amerindie.
9
L’evocazione del genocidio massiccio praticato nel Nuovo Mondo segna specialmente Histoire de Lynx, la cui apertura invita il lettore ad un atto di “contrition et pitié” in occasione
dei 500 anni del primo viaggio di Colombo e nel quale Montaigne, altro autore che lamenta la
distruzione dell’America, occupa un posto centrale.
8
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
37
La riflessione etnologica a riguardo degli amerindi delle cosiddette terre basse
sudamericane, riconosciuta e rispettata come campo di rinnovamento teorico
per l’antropologia, è dove la sua influenza più si è fatta sentire.
Commentando l’importanza di Lévi-Strauss, due importanti specialisti di
questa area osservano che
si tant d’écrits amazonistes ressassent des oppositions binaires, des dualismes sociaux ou idéologiques, décortiquent des choréographies conceptuelles composées
de rapports en miroir, ce n’est ni parce que leurs auteurs sont congénitalement
anti-historicistes et idéalistes, ni parce qu’ils sont automatiquement sous l’influence de Lévi-Strauss; c’est tout simplement parce que les Amérindiens eux-mêmes
leur en offrent la matière
e ci invitano ad ammettere chiaramente, con loro, che “le structuralisme «marche» bien en Amazonie car les autochtones parraissent spontanément structuralistes” (Descola e Taylor 1993: 15-16).
Si potrebbe forse dire, prendendo la relazione da un altro lato, che LéviStrauss è amerindianista ed il suo pensiero (chiamato “strutturalismo”) è anche pensiero amerindio. Più che fondato in suolo amerindio, come notava
Anne-Christine Taylor, in una formulazione che Eduardo Viveiros de Castro
ci invita a considerare “dans toute l’étendue de sa radicalité” (2008: 131), si
tratta di pensare il pensiero lévi-straussiano come trasformazione del pensiero
amerindio (Cfr. Viveiros de Castro, in questo volume Cap. 7). Lo strutturalismo “funziona bene” tra gli amerindi perché è una trasformazione dei loro
modi di stare nel mondo, di pensare il mondo. E non sembra che l’opera di
Lévi-Strauss possa essere pienamente apprezzata senza considerare il suo suolo americano e, di più, senza considerare anche gli amerindi come autori. Le
Mytologiques certamente, tessute come sono di idee e significati amerindi.
In questo punto, come in vari altri, lo stesso Lévi-Strauss lascia piste nel
corso della sua opera, e le completa nelle interviste. Consideriamo, ad esempio, la sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1960. Secondo i canoni del genere, Lévi-Strauss fa lì una serie di omaggi, ai suoi predecessori in
quella istituzione ed a quelli che definisce “maîtres de l’anthropologie sociale”,
per concludere con un omaggio agli indigeni, “dont l’obscure ténacité nous
offre encore le moyen d’assigner aux faits humains leurs vraies dimensions”.
Ma non è appena perché la loro esistenza fornisce all’antropologo la materia
del suo lavoro che Lévi-Strauss parla lì di debito che non potrà mai saldare. Il
debito in questione è quello del sapere, della conoscenza, perché è nella conoscenza degli “Indiens des tropiques et leurs semblables par le monde” che si
incontra “l’essentiel des connaissances que vous m’avez chargé de transmettre à
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Beatriz Perrone-Moisés
d’autres”, dice Lévi-Strauss, per concludere la sua lezione dichiarandosi “leur
élève, et leur témoin” (Lévi-Strauss, 1973: 44). Non si tratta della fornitura di
dati all’analista, è del sapere – il loro – e dell’apprendimento – con loro –, da
ciò l’“élève”. “Témoin”, a sua volta, può essere compreso come persona che
riporta fatti di altri contesti o, in questo caso, trasporta significati tra codici
differenti, i sensi del mondo amerindio a codici comprensibili per noi, traduttore, insomma.
Ciò risulterà ben chiaro un decennio dopo, quando il debito sarà espresso in una risposta ad una domanda a proposito del luogo del sensibile nella
sua opera. La reintegrazione del sensibile nell’intelligibile, dicevo più sopra,
facendo eco ad una serie di lettori di Lévi-Strauss, è uno dei marchi della sua
originalità. Quindi, vale la pena di riprodurre la sua risposta integralmente:
En abordant l’étude des mythes et, en général, de la pensée des peuples dits primitifs, j’ai été frappé de ce que la différence fondamentale que j’apperçois entre notre
pensée et la leur (leur pensée non pas en tant qu’hommes, mais en tant qu’elle se
manifeste dans des formes de civilisation) tenait au fait que ces sociétés ne font
pas la distinction tranchée qui nous est devenue habituelle de par notre tradition
philosophique, et reprise en compte par la science, entre le sensible et l’intelligible.
Mais qu’au contraire, pour elles, il y a continuité entre les deux règnes: la signification du monde se manifestant directement à travers lesordres de la sensibilité; et
c’est à cette intuition qu’avec des moyens et dans des registres différents, j’essaie
de ramener les sciences de l’homme (Lévi-Strauss, 2003 [1971]: 53).
La formulazione rimanda a “popoli detti primitivi”, ma i miti in questione
sono amerindi, e la lezione è amerindia, manifestata nelle sue “formes de civilisation”. Le strutture espresse nella mitologia amerindia, ma anche nei loro
sistemi di parentela e nelle forme di organizzazione sociale, sono amerindie.
Ad ogni modo, di una qualche umanità specifica dovevano essere, perché le
strutture, ci insegna Lévi-Strauss, possono essere apprese solamente nelle loro
realizzazioni, poiché sono agentivazioni di contenuti e non forme vuote. Molto
nell’opera di Lévi-Strauss può solo essere compreso quando riferito ai mondi
amerindi che pongono il suo pensiero in movimento, gli danno forma e contenuto. Separato dai mondi americani, lo strutturalismo di Lévi-Strauss certamente apre delle possibilità da pensare. Ma può correre il rischio di divenire
un discorso svuotato, la matrice del pensiero battezzata struttura che è tutto
quanto può essere detto e per questo non dice niente. È lo stesso Lévi-Strauss
che nel finale del tragitto attraverso i miti amerindi afferma il rischio che la
ricerca dei meccanismi di funzionamento dello spirito – che tante volte aveva
affermato come orizzonte e contributo dell’analisi strutturale –, riducendo i
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
39
miti alla loro forma, attinga infine un “discours vide” (Lévi-Strauss, 1991: 25455).
Questo cammino che va dall’affermazione delle “strutture dello spirito”
come oggetto ultimo all’esposizione di una filosofia amerindia, dalle matrici
del pensiero umano verso il pensiero amerindio, passa per una mediazione nel
finale de L’Homme nu, nel passaggio che dichiara che “les mythes ne disent
rien qui nous intruise sur l’ordre du monde, la nature du réel, l’origine de l’homme ou sa destinée”, ma, “en revanche”, insegnano molto su “les sociétés dont ils
proviennent”; per subito in seguito affermare che “enfin et surtout, ils permettent de dégager certains modes d’opération de l’esprit humain” (Lévi-Strauss,
1971: 571)10. Se le modalità di operazione dello spirito sono condivise, è grazie
a ciò che si possono comprendere i modi propriamente amerindi di operare.
Un’altra trasformazione di questo movimento tra l’universale dello spirito ed
il particolare amerindio può essere letta nella ugualmente famosa affermazione, nell’“Apertura” de Le cru et le cuit, che poco importa se è il suo pensiero
che pensa quello degli amerindi o il contrario. L’interpretazione che si offre
immediatamente è legata al movimento tra “l’intuizione diretta dell’oggetto e
l’analisi” di cui parla Paz, citato sopra, che a sua volta rimette all’affermazione,
ricorrente nell’opera di Lévi-Strauss, di “homologie de structure entre la pensée
humaine en excercice et l’objet humain auquel elle s’applique [...] intégration
[...] de la méthode et de la réalité” (Lévi-Strauss, 1962: 535). É al proposito
ultimo dell’antropologia, che sarebbe quello di “contribuer à une meilleure
connaissance de la pensée objectivée et de ses mécanismes”, che Lévi-Strauss si
riferisce in questo passaggio iniziale delle Mythologiques: la “démarche doublement réflexive de deux pensées agissant l’une sur l’autre” può illuminare
entrambe nella misura in cui esprimono lo spirito umano (Lévi-Strauss, 1964:
21). Ma può esserci anche un’altra cosa. O è un’altra cosa ancora ciò che LéviStrauss fa. Perché tale procedimento riflessivo, la cui possibilità è data dalla
unità dello spirito umano, produce un pensiero trasformato. Poco importa,
alla fin fine, perché questo è ciò che importa: aprire l’un l’altro pensieri tanto
diversi, il cui allontanamento differenziale è condizione della produzione di
un nuovo pensiero.
Idea questa “molto complicata”, come nota Eduardo Viveiros de Castro, commentando
questo stesso passaggio (2001: 4 e seg.). L’autore nota, in questo stesso testo, che l’affermazione
in questione, fatta ne L’Homme nu, sembra stonare dall’ultimo passaggio delle “piccole Mitologiche”, Histoire de Lynx (idem.: 5, n.6). Tutta la lettura che faccio del luogo del pensiero amerindio nel pensiero dello stesso Lévi-Strauss si basa precisamente in un movimento che parte da
Histoire de Lynx retrospettivamente, verso le opere anteriori; direzione di lettura che propone
anche Viveiros de Castro.
10
40
Beatriz Perrone-Moisés
Il pensiero di Lévi-Strauss è inflesso da quello degli amerindi, e la sua
opera prima, le Mythologiques, monumentale trattato di etnologia amerindia,
esprime questa relazione fondante in maniera chiara. Il suo strutturalismo,
come osserva Eduardo Viveiros de Castro (in questo volume, Cap. 7), è “una
trasformazione strutturale del pensiero amerindiano”.
La riflessione etnologica a proposito degli amerindi delle cosiddette terre
basse sudamericane, riconosciuta e rispettata come campo di rinnovamento teorico per l’antropologia, è il luogo in cui la sua opera è, senza ombra di dubbio
o dissidenza, incontornabile, anche quando si tratta di contrapporsi ad essa.
Vale la pena ricordare, già che ho cominciato dalla relazione tra Lévi-Strauss ed
il Brasile, che l’influenza del suo pensiero nella riflessione fatta in Brasile a proposito dei mondi amerindi non è il risultato del suo passaggio di là. Né avrebbe
potuto, dato che Lévi-Strauss non era ancora il pensatore che lì apprese le sue
prime lezioni amerindie. E neanche l’antropologia praticata in Brasile sarebbe
stata preparata, prima di alcuni decenni, per apprezzare nella giusta misura il
contributo di Lévi-Strauss. La sua opera ha cominciato a costituirsi come un riferimento ed una guida per gli amerindianisti in Brasile quando l’etnologia fiorì
in suolo brasiliano, soprattutto a partire dal decennio 1970, quando cominciarono ad accumularsi etnografie ed analisi dei popoli indigeni delle cosiddette
Terre Basse. È stato in quel momento che gli etnologi brasiliani, come anche
gli altri americanisti “ont pris la mesure de l’apport de Lévi-Strauss à l’étude des
sociétés et des cultures amérindiennes” (Taylor, 2004: 97).
“J’étais parti pour le Brésil parce que je voulais devenir ethnologue”, disse
lui (Lévi-Strauss & Eribon 1988: 33). Il Brasile che, per caso, ha influenzato la
vita e l’opera di Lévi-Strauss è quello dei Bororo, dei Nambikwara, Caduveo,
Tupi, attraverso cui egli intesse il dialogo con il pensiero amerindio. L’opera di
Lévi-Strauss, ha detto una volta Pierre Clastres, sembra indicare il “privilège
de l’ethnologie”: “comme inauguration d’un dialogue avec la pensée primitive,
elle achemine notre propre culture vers une pensée nouvelle” (Clastres, 1979:
37-38). La stessa proiezione di possibilità future, generate da relazioni di trasformazione tra il pensiero e le pratiche amerindie e pensieri e pratiche occidentali si legge nell’apprezzamento di Viveiros de Castro dell’opera di LéviStrauss. Il suo messaggio – paradossale –, dice questo autore, è quello che
l’anthropologie n’a d’autre alternative que de poser un alignement de principe
avec la pensée sauvage, de se situer sur le plan de l’immanence qu’elle partage avec
son objet. En définissant les Mythologiques comme le «mythe de la mythologie»
et la connaissance anthropologique comme une transformation structurale de la
praxis indigène [...], l’anthropologie lévi-straussienne projette une «philosophie à
venir» (Viveiros de Castro, 2008: 131-132).
1. Lévi-Strauss: l’America riscoperta in Brasile
41
Lévi-Strauss divenne etnologo tra gli indigeni del Brasile ed approfondì la
sua iniziazione immergendosi nella lettura delle opere dedicate agli amerindi.
Inaugurando un dialogo capace di porre la nostra cultura nel cammino di un
nuovo pensiero, perché trasformato, influenzato e rinnovato da questo dialogo, l’opera di Lévi-Strauss non cessa di indicare nuove strade, generando
nuove domande ed altre idee, specialmente nell’americanismo, campo che lo
scelse in una telefonata inattesa, che egli adottò e per la conoscenza del quale
tanto ha contribuito.
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2. La formula canonica del mito
43
2. La formula canonica del mito1
Mauro William Barbosa de Almeida
La formula canonica del mito è uno dei topici più ostici dell’opera di LéviStrauss, ma è anche una delle idee più affascinanti e persistenti del grande
antropologo. Essa sorse per la prima volta nel 1955, nell’articolo su “La struttura dei miti” (Lévi-Strauss, 1955), fu menzionata nell’articolo “Struttura e
dialettica” dell’anno successivo (Lévi-Strauss, 1958b [1956]), per riapparire
trent’anni dopo ne La vasaia gelosa (Lévi-Strauss, 1985) e nel 2001 (LéviStrauss, 2001a [1994]) in un articolo sull’architettura religiosa.
Dal 1955 al 1985, la formula canonica è stata in maniera generale ignorata dai commentatori e lo stesso Lévi-Strauss si è mantenuto in silenzio a
proposito. La sua riapparizione ne La vasaia gelosa, nel 1985, però, ha avuto
forti ripercussioni. Nel 1988, la rivista L’Homme ha pubblicato due articoli sul
tema, di Jean Petitot e di Bernard Mezzadri (Petitot, 1988, 1989; Mezzadri,
1988), e dieci anni dopo è apparso il libro di Lucien Scubla, un tour-de-force
sullo spinoso argomento (Scubla, 1998). Nel 1995, L’Homme dedica alla formula canonica un numero intero, che può essere visto come un moltiplicarsi
delle strade indicate negli articoli del 1988 (Côté, 1995; Désveaux; Pouillon,
1995; Marcus, 1995, Petitot, 1995, Scubla, 1995), in particolare dell’idea di
applicare la teoria delle catastrofi alla modellizzazione della formula. Il numero speciale de L’Homme ha avuto, a sua volta, nel 2001, uno sdoppiamento
importante, che è stato il libro in inglese organizzato da Pierre Maranda, The
Double Twist (La Doppia Torsione), che contiene alcuni degli articoli apparsi
ne L’Homme e vari altri originali. Il libro organizzato da Maranda presenta
due aspetti importanti per noi: l’articolo in cui Lévi-Strauss utilizza la formula
canonica a proposito dell’architettura religiosa (Giappone, Giava e America
1
Questo testo è la traduzione dall’originale in portoghese: “A Fórmula Canônica do Mito”,
pubblicato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008), Lévi-Strauss. Leituras Brasileiras. Belo Horizonte: Editora da UFMG, p. 147-182.
44
Mauro William Barbosa de Almeida
del Sud) ed un estratto di una lettera di Lévi-Strauss a Solomon Marcus sulla
formula canonica (Maranda, 2001; Lévi-Strauss, 2001 [1994]).
Apparentemente, non resterebbe nulla da dire sulla formula. Ma penso che
non sia questo il caso. Come si vede, le pubblicazioni sull’argomento sono intimamente legate tra loro, a cominciare dalla presenza di Jean Petitot in tutte.
Questa continuità non è solo superficiale: essa è in relazione con il fatto che
in tutte queste pubblicazioni la formula canonica è applicata principalmente all’analisi di sintagmi completi, ossia, riti e narrative individualizzati, con
questo utilizzo apparentemente giustificato dalla formulazione basata nella
teoria delle catastrofi. È, però, paradossale che Lévi-Strauss, tanto nelle sue
prime formulazioni programmatiche quanto nei suoi ultimi scritti sulla formula (Lévi-Strauss, 2001 [1994]), abbia, al contrario, utilizzato la stessa per connettere oggetti culturali a insiemi geograficamente e storicamente discontinui,
prestando attenzione a paradigmi, e non a sintagmi individuali.
Andremo a confermare questa affermazione con una riconsiderazione della analisi lévi-straussiana del mito di Edipo e dei miti Pueblo (Lévi-Strauss,
1958c) ed anche del mito iniziale de La potière jalouse (Lévi-Strauss, 1985).
Prima, però, ricapitoleremo brevemente il punto di vista difeso nelle pubblicazioni di Jean Petitot e Lucien Scubla.
L’interpretazione sintagmatica della formula canonica
I lavori di Mezzadri, Jean Petitot e Lucien Scubla, e indipendentemente
da questi del folklorista Pierre Maranda, hanno dato una nuova rispettabilità
alla formula canonica. Ma bisogna richiamare l’attenzione sulla divergenza di
punti di vista tra questi autori e lo stesso Lévi-Strauss. Alla radice di questa
divergenza si trova una preoccupazione molto diffusa a riguardo dello strutturalismo di Lévi-Strauss, che è riassunta da Lucien Scubla quando attribuisce a
Lévi-Strauss una “visione irenica e statica della vita sociale e delle forme simboliche”, nella quale “tutte le opposizioni sarebbero, in ultima istanza, di tipo
logico o fonologico” (Scubla, 1988: 288). La strategia suggerita da Scubla per
correggere questa supposta “visione irenica e statica” coincide con quella che
era stata preconizzata da Terence Turner in un interessante articolo del 1990,
in cui afferma che l’uso rigoroso della nozione di trasformazione esigerebbe
che Lévi-Strauss centrasse l’analisi in sintagmi di miti individualizzati, e non in
frammenti di paradigmi (Turner, 1990). Insomma, questi autori intendono di
reintrodurre la diacronia nell’analisi mitologica al valorizzare la parole e non
la langue.
2. La formula canonica del mito
45
Non ci sono dubbi sul buon senso di valorizzare l’enunciazione di miti
come un atto di conversazione. Ma, di fatto, esiste una grande distanza tra la
prospettiva difesa da Lévi-Strauss e l’uso della “formula canonica” da parte di
autori come Maranda, Petitot e Scubla.
L’utilizzo della formula canonica come stenografia della narrazione, ed anche come grammatica generativa di narrazioni (Maranda, 2001: 4), serve per
affrontare il percorso di eroi che trasformano una situazione iniziale in una
situazione finale inconciliabile con la prima. Questa via di analisi rimonta essenzialmente alla Morfologia della fiaba, opera del folklorista russo Vladimir
Propp, pubblicata nel 1928 ma divulgata in occidente solamente attorno al
1960 (Propp, 1970). Propp spiegò le “radici storiche” della morfologia del
racconto ricorrendo alla teoria dei riti di passaggio. Allo stesso modo, Mezzadri interpreta la formula canonica come la modellizzazione di un rito e se
Scubla esita nel leggere la formula canonica come una “espressione stenografica” di rituali di rei che sono capri espiatori, certamente vede tali rituali come
“la prima illusione non triviale del processo morfogenetico che [la formula] si
sforzava di rappresentare” (Scubla, 1998).
Non possiamo, in questo caso, ignorare la dettagliata critica che LéviStrauss diresse a Propp (Lévi-Strauss, 1973b [1960]). In questa critica, LéviStrauss insistette su una divergenza di fondo tra i metodi, che risiederebbe
precisamente nelle distinte maniere di trattare la relazione tra forma e contenuto, o tra struttura e storia. Secondo Lévi-Strauss, per il formalista, forma
e contenuto sono domini che necessitano di essere mantenuti separati, “dato
che solo la forma è intelligibile, ed il contenuto non è che un residuo destituito
di valore significante”. Al contrario, per lo strutturalista, “non c’è da un lato
l’astratto, dall’altro il concreto”:
Forma e contenuto hanno la stessa natura, sono di competenza della stessa analisi.
Il contenuto deriva la sua realtà dalla sua struttura e quello che si definisce forma
è la «messa in struttura» [mise en structure] delle strutture locali in cui consiste il
contenuto (idem: 158 [ed. it.: 172]).
Le osservazioni di Lévi-Strauss in questo testo del 1960 ci costringono, almeno, ad affrontare con scetticismo l’affermazione che “lo stesso Lévi-Strauss
non sempre ha saputo esattamente in cosa consista la formula che egli inventò” (Scubla, 1988: 287), così come quella che la teoria delle catastrofi “corrobora il modello soggiacente alla nostra interpretazione antropologica e gli dà
uno status molto più preciso” (idem: 291), o ancora la tesi che è necessario
scegliere tra “il cammino del mentalismo, con un pizzico di «materialismo
46
Mauro William Barbosa de Almeida
cerebrale» – come suggerito da Le pensée sauvage –, [...] o il cammino della
teoria morfogenetica... indagato per trent’anni da René Thom ed i suoi seguaci...” (Scubla, 2001: 126).
Qui si esprime l’idea che sarebbero necessari matematici (come René Thom
e Jean Petitot) per dare rigore all’analisi strutturale e, ancora oltre, affinché “le
scienze umane siano incluse all’interno delle scienze naturali in una maniera
non-riduttiva”(idem: 126)2.
Contrariamente a questa visione, ho sostenuto in un altro articolo che LéviStrauss utilizza idee matematiche con la creatività di un bricoleur, per articolare riflessioni originali, e non per illustrare teorie pronte, siano esse la “teoria
dei gruppi” o la “teoria delle catastrofi”. Ho combinato questa argomentazione con la tesi secondo cui il procedimento strutturale di Lévi-Strauss, lontano
dal ridursi alla ricerca di logiche atemporali, coinvolge una costante dialettica
tra strutture concettuali e la storia reale irriducibile a quelle (Almeida, 1991
[1990]).
Arrivo, così, all’obiettivo di questo articolo. Esso consiste nell’argomentare
come la “formula canonica del mito” combina in maniera essenziale un procedimento logico ed un procedimento euristico-trascendentale. Per dirlo in
altra maniera: ogni formula canonica funziona, da un lato, come un giudizio
analitico e, dall’altro, come un giudizio sintetico. Essa non è mai una semplice
cornice per descrivere la logica del mito (come lo sarebbe uno schema analogico, o di “mediazione di contraddizioni”), ma è principalmente una guida
per stabilire connessioni tra gruppi di miti distinti, o anche tra piani semantici
differenti, attraversando per questo, necessariamente, una frontiera data. Per
ciò stesso, la formula non si riduce mai ad un sillogismo, come sarebbe da
aspettarsi se il mito, od ogni congiunto di miti, potesse essere considerato
come una deduzione logica. Differentemente, ogni formula costruita a partire
Questa pretesa è realmente giustificata? Lo spettro fisico dei colori può essere rappresentato come continuo, e sviluppa qui il ruolo di “substrato continuo” del paradigma colore. Se ci
atteniamo ad una dimensione, questo substrato può essere rappresentato nel fascio delle x come
un continuo che va, ad esempio, dal bianco al nero. Ogni cultura “categorizza questo substrato
continuo” in unità discrete – per esempio, riducendolo a due colori, “bianco” e “nero”. Un
informatore, mentre gli vengono presentate successivamente le parti del continuo, ad un certo
punto salta dalla categoria “bianco” a quella di “nero”: questo punto di discontinuità è una
“catastrofe”, che in questo caso si riduce ad un punto. Con un numero molto maggiore di assi,
il locus della catastrofe diviene più complesso, ma l’idea è di trattare punti di discontinuità come
punti in cui l’attuante salta da una “attrazione” ad un’altra. Per capire come ciò si applica alla
diacronia narrativa, pensiamo i segmenti della narrativa come “attuanti” confinati ad una “funzione” (“values categorizing the continuous substratum of paradigms into discrete units”, Petitot,
2001: 272). Transitare tra due funzioni opposte significa quindi, per un attuante, saltare da un
“confino” ad un altro e, così, superare “opposizioni”.
2
2. La formula canonica del mito
47
da un insieme delimitato di miti esige dal lettore che ricerchi un ponte tra essi
e gli altri insiemi, o ancora tra il codice in considerazione ed altri codici. Questa risorsa per fare un bilancio di un insieme mitico indica nella direzione di
trasformazioni che possono essere state imposte dalla storia, o da un altro tipo
di movimento irriducibile alla ragione analitica. Insomma, da un movimento
della ragione nella sua capacità di “oltrepassare abissi”, e che Lévi-Strauss
ha caratterizzato come ragione dialettica. Così, ciò che appare, a prima vista,
come se fosse un formalismo positivista è, al contrario, un appello alla ricerca
di qualcosa oltre il dato positivo: uno sforzo di immaginazione capace di spiegare, attraverso procedimenti come l’inversione, l’analogia, la metonimia, le
lacune attraverso la storia del subconscio.
La base di questo discorso sarà una rilettura dell’articolo del 1955, pubblicato nel 1958, in cui Lévi-Strauss presentò una celebre analisi dei miti che
formano insieme ciò che chiama mito di Edipo. Si tratta, qui, di giustificare
l’apparire della “formula canonica del mito” come indicazione di un procedimento metodologico che, nonostante non sia esplicito, è essenziale nell’analisi.
Questo raziocinio sarà confermato con l’uso della formula canonica del mito
nel 1985, ne La vasaia gelosa.
Edipo alla amerindia
Nell’articolo intitolato “L’analisi strutturale del mito”, pubblicato originalmente nel 1955 in inglese e nel 1958 in francese, con alcune modifiche, (LéviStrauss,1955, 1958a), Lévi-Strauss introduce la nozione secondo cui il mito
sarebbe costituito da “grandi unità costitutive” (per distinguerle dalle unità
minori, come fonemi, morfemi e semanti); queste “grandi unità costitutive”
sono “relazioni” (ossia, l’“attribuzione di un predicato ad un soggetto”). A
questo punto Lévi-Strauss corregge la definizione delle “grandi unità costitutive”, affermando che “le vere unità costitutive del mito” sono “fasci di relazioni” (bundles, paquets).
Tutto ciò è illustrato con la celebre analisi strutturale del mito di Edipo,
che, nella versione francese del 1958, appare preceduta dalla giustificativa che
si tratta non di una dimostrazione, ma sì di una “manovra dell’ambulante”,
che cerca di “spiegare il più rapidamente possibile il funzionamento della
macchinetta che cerca di vendere ai babbei” (Lévi-Strauss, 1958a [1955]: 235
[ed it.: 239]).
Le relazioni con la forma del predicato-soggetto sono illustrate con proposizioni come quelle del seguente gruppo: “Cadmo cerca sua sorella Europa, rapita da Zeus”, “Edipo si sposa con la madre Giocasta” e “Antigone seppellisce
48
Mauro William Barbosa de Almeida
Polinice, suo fratello, violando l’interdizione”. Ora, in ognuna delle relazioni
di questo “fascio di relazioni”, il predicato è un comportamento transitivo,
perché suppone un attore ed un oggetto dell’azione e, in ogni caso, il soggetto e l’oggetto dell’azione sono parenti consanguinei (sorella, madre, fratello).
Ciò che il fascio ha in comune si esprime qui con la proposizione “relazioni
di parentela (consanguinea) sovrastimate”, ossia, sovrastima delle relazioni (di
consanguineità)3. In quest’ultima forma si possono abbreviare le proposizioni
in questione con l’annotazione Fx(a), dove Fx è un predicato (sovrastima delle
relazioni) ed il termine “a” rappresenta un termine (parenti consanguinei)4.
Il secondo fascio di relazioni (“i [fratelli] Spartoi si sterminano”, “Edipo
uccide suo padre Laio”, “Eteocle uccide suo fratello Polinice”) porta alla proposizione “relazioni di parentela sottostimate o svalorizzate”, e che potrebbero essere rappresentate come Fy(a), essendo che potremmo anche scrivere
Fx-1(a) per ricordare il fatto che, in questo caso, la qualità y è l’opposto di x.
Adesso si tratta dell’azione – transitiva – di uccidere che viene applicata alle
coppie di consanguinei.
Un terzo fascio configura un pacchetto che si riferisce anch’esso ad atti di
omicidio, ma ora opponendo un umano (sempre un uomo del gruppo consanguineo) ad un mostro autoctono (un drago, ed i suoi discendenti, gli Spartoi,
“uomini seminati” con i denti del drago e nati dalla terra). Questo fascio può
essere rappresentato da Fx-1(b), ossia: la svalorizzazione della relazione tra
umani e mostri ctonici (di fatto, nella forma dell’omicidio).
Abbiamo fino a questo punto il seguente inizio di deduzione: Fx(a) sta a
Fy(a) come Fy(b) sta a...? e qui, se la logica del mito fosse quella dell’analogia
o del sillogismo, ci aspetteremmo una quarta proposizione con la forma Fx(b),
che completi il seguente schema:
Fx(a) ≈ Fy(a) :: Fy(b) ≈ Fx(b)
Schema 1 – La logica del mito come schema analogico (Gruppo di Klein).
Nella versione del 1955 in inglese, la consanguineità è esplicitata come “overrating of blood
relations”. A rigore, potremmo glossare così la proposizione soggiacente al fascio: comportamento esageratamente prossimo, o oltrepassare le regole sociali (tra consanguinei di sesso opposto). Questa lettura è di fatto la prima lettura di Lévi-Strauss: “tutti gli incidenti riuniti nella prima colonna parlano di “parenti consanguinei”, la cui “relazioni di prossimità sono... esagerate”.
Lévi-Strauss descrive anche così il predicato: “questi parenti sono oggetto di un trattamento più
intimo di quello che le regole sociali autorizzano”. Ora, questa prima formulazione riafferma una
endogamia reale o latente e suggerisce per implicazione la rinuncia all’alleanza.
4
Un termine che designa una relazione, e non un attuante come modellizzazione sintagmatica in Propp e Greimas.
3
2. La formula canonica del mito
49
Ossia: sovrastima della prossimità tra umani e mostri, che ci aspetteremmo,
per simmetria con la prima coppia, prenda la forma di prossimità intima o alleanza tra umani e mostri, un gruppo umano e questi ctonici. Ora, non sarebbe
necessario uno sforzo per incontrare episodi precisamente di questo tipo nelle
narrative del ciclo di Edipo. Esse abbondano in quasi tutte le generazioni di
discendenti di Cadmo, nella forma dei matrimoni tra il lignaggio agnatico di
Cadmo e il lignaggio degli Spartoi “autoctoni”. Dopo aver ucciso il drago che
custodiva Tebe, lo straniero Cadmo riesce, grazie a uno stratagemma, a sterminare quasi tutti gli Spartoi (i guerrieri nati dalla terra, seminata con i denti del
drago). Gli Spartoi sopravvissuti danno origine alle grandi famiglie di Tebe.
Inizia un ciclo di conflitto ed alleanza (Grimal, 1951: 72, 325 et seg. [ed. it.:
103, 379 e seguenti]; Cfr. Bock, 1979: 907).
Cadmo, Polidoro, Labdaco, Laio, Edipo e Eteocle sono rappresentanti di
sei generazioni del lignaggio di stranieri-fondatori di Tebe. Nella prima generazione, lo straniero Cadmo, dopo aver ucciso il Drago, dà sua figlia Agave in
sposa a Ctonio, uno degli Spartoi sopravvissuti, mentre suo figlio Polidoro si
sposa con la nipote di Ctonio. Labdaco, figlio di Polidoro, è orfano e, durante
la sua infanzia, la reggenza di Tebe è compito di Nicteo (figlio di Ctonio). Il
figlio di Labdaco, Laio, è anch’egli orfano e durante la sua infanzia la reggenza
di Tebe è di Lico (fratello di Nicteo, un altro degli Spartoi). Edipo, figlio di
Laio, viene esiliato nell’infanzia, mentre la reggenza di Tebe è di Creonte. Così,
ripetutamente la tirannia di Tebe viene alternata tra Labdacidi e Spartoi, con
labdacidi orfani o bambini che si rifugiano al di fuori della città e riassumono
la posizione di tiranno in età adulta. Alla fine di questo ciclo, un “autoctono”
(Creonte) condanna a morte un labdacide (Eteocle, figlio di Edipo) ed anche
la sorella Antigone, ma il suo proprio figlio Emone si uccide per amore di Antigone. Questi “fasci” trattano, così, da un lato dell’antagonismo – ma anche
dell’alternanza politica – tra autoctoni e stranieri, e dall’altro lato dell’alleanza
matrimoniale tra autoctoni e stranieri.
Osserviamo quindi che l’opposizione tra non-autoctonia e autoctonia
può essere vista in chiave politica e non cosmica. Qualsiasi che sia la chiave,
il mito di Edipo, da un lato, si inserisce nello schema logico dell’analogia,
formalizzato con il gruppo di Klein; da un altro lato, permetterebbe una
lettura nel registro sociologico dell’incesto, della guerra e dell’alleanza. E ci
sono, di conseguenza, varie analisi del mito che utilizzano presumibilmente
il metodo di Lévi-Strauss per giungere a qualche conclusione in questo registro sociologico (Carroll, 1978; Willner, 1982; Bock, 1979), allo stesso modo
come sono comuni le interpretazioni della struttura del mito nella forma di
una analogia (gruppo di Klein), come avviene in Greimas ed in Pierre Maranda.
50
Mauro William Barbosa de Almeida
Niente, in questa linea di pensiero, sarebbe strano per Lévi-Strauss: né la
logica dell’analogia (ed il gruppo di Klein) né la teoria dell’alleanza e le sue
implicazioni politiche. Per questo motivo, acquista una rilevanza essenziale il
fatto che Lévi-Strauss introdusse come quarto mitema – al posto de “alleanza
politica con esseri autoctoni” – il “carattere piede-gonfio (ctonio) di Edipo”,
che ha connesso con il “carattere storpio di Labdaco” e con il “carattere balbuziente di Laio”. Osserviamo inoltre che questo mitema non si appoggia su
di un fascio di azioni all’interno della sintassi narrativa del mito. Invece che
questo, c’è una interpretazione nel registro filologico, che permette a LéviStrauss di raggruppare questi tre predicati da lui identificati nell’etimologia
– “piede-gonfio” o “piede-forato”, “storpio”, “balbuziente” – come aventi il
punto in comune del fatto che indicano una origine ctonia. Questa interpretazione dei disturbi del movimento fu suggerita, forse, a Lévi-Strauss dal materiale amerindio.
Ora, questo punto è stato contestato dagli ellenisti, secondo cui LéviStrauss avrebbe proiettato sui greci antichi l’etnografia amerindia (dove gli
esseri ctoni sono di fatto “deformi”). Lasciamo questo punto per riprenderlo
più avanti, trattenendoci qui appena su un punto: la “formula canonica del
mito” costituisce una ricetta per introdurre una connessione tra miti di regioni geografiche o tra domini storici distinti. Possiamo tentare di formulare, in
questo spirito, una nuova versione del mito di Edipo.
Fx(a) ≈ Fy(a) :: Fy(b) ≈ Fb-1(x)
Schema 2 – Il mito di Edipo con la formula canonica.
La formula potrebbe essere letta così: la sovrastima di relazioni (di parentela) Fx(a) sta alla sottostima delle relazioni di parentela Fy(a) così come
la negazione delle relazioni con i mostri autoctoni Fy(b) sta al carattere-autoctono-invertito (carattere anti-autoctono) della funzione esagerazione Fb1(x).
In questa stenografia c’è un suggerimento per andare oltre a ciò che le
narrative dicono direttamente e cercare connessioni in un altro dominio. Ed
il sorprendente è che, anche lasciando di lato l’interpretazione amerindia, il
passo “trascendentale” della deduzione ha importanti conseguenze. Esso permette una lettura come la seguente: l’incesto – nel gruppo consanguineo di
stranieri al lignaggio di Cadmo – sta al parricidio/fratricidio – all’interno del
lignaggio di Cadmo – come la guerra – contro gli esseri ctoni/contro l’autoctonia – sta al carattere deforme – ctonismo “invertito”, dislocato – dei tiranni.
L’ultimo passo porta al tema seguente: tiranni, che al limite negano l’alleanza
2. La formula canonica del mito
51
in favore dell’esogamia, sono segnalati per il disordine nel camminare e nella
comunicazione.
La difficoltà di camminare correttamente, una anomalia della exis, si applica a persone che sono anche colpevoli di abuso sessuale di persone prossime
(il caso di Laio ed Edipo), o che sono tiranne, con una anomalia comunicativa,
il che porta al tema dell’enigma risposto e dell’oracolo senza risposta, così
come al tema della tirannia come distorsione politica – punti trattati in dettaglio da Jean-Pierre Vernant e dallo stesso Lévi-Strauss in lavori successivi. I
tiranni sono marcati dalla non-autoctonia, rivelata dal “camminare storto”, ma
anche dall’incapacità di usare correttamente la parola – di dare risposte alle
domande e di fare le domande adeguate alle risposte.
La “autoctonia in forma umana” si applica a comportamenti esagerati, sia
nella forma dell’abuso di intimità consanguinea – incesto tra figlio e madre
ed esagerazione di intimità tra fratello e sorella –, sia nella forma dell’abuso
dell’allontanamento – assassinio del padre da parte del figlio e del fratello dal
fratello. Collocando la chiusura della formula come un carattere distorto di
una relazione, indichiamo nella direzione dei posteriori suggerimenti di LéviStrauss (nella lezione inaugurale del 1960) che associano lo zoppicare ad un
disturbo della socialità (disturbo dell’alleanza e del dialogo), così come nella
direzione indicata da Jean-Pierre Vernant, che enfatizza il nesso tra incesto e
tirannia – due forme di incapacità di intavolare relazioni sociali normali.
Non abbiamo bisogno di prendere troppo seriamente questa formulazione
canonica dell’analisi lévi-straussiana del mito di Edipo, che lascia, senza dubbio, vari dettagli aperti5. Ciò che importa è indicare che, alla luce della formula canonica, percepiamo meglio che l’analisi ispirata alla formula canonica
contrasta in due sensi con l’analisi secondo il modello del gruppo di Klein. Il
primo contrasto è tra una analisi interna, che formalizza gli eventi all’interno della narrativa, ed una analisi esterna e paradigmatica, che conduce verso
l’esterno della narrativa; il secondo è tra una deduzione per analogia, a partire
dai termini della narrativa, e una “deduzione trascendentale”, che indica nella
direzione della possibilità di altri corpus mitici.
L’analisi lévi-straussiana del mito di Edipo, pertanto, non si lascia ridurre né al quadro semiotico alla maniera di Greimas (gruppo di Klein) né al
procedimento empirico-induttivo soggiacente al metodo di Vladimir Propp.
5
Potremmo aver letto il quadro della Figura 2 così: la sovrastima di relazioni Fx(a) di parentela sta alla sottostima delle relazioni con i mostri autoctoni Fy(b) come la sottostima delle
relazioni Fy(a) di parentela sta alla funzione-mostro autoctono (monco, mancino, piede-gonfio)
della sovrastima di relazioni. Questa lettura verticale si approssima più letteralmente alla formula canonica scritta da Lévi-Strauss nel 1955.
52
Mauro William Barbosa de Almeida
Non è un algoritmo algebrico-sillogistico né un riassunto formalizzato di una
famiglia di narrative. La doppia torsione che ora chiude lo schematismo mitico
– una condensazione ed un dislocamento – contiene una ipotesi soggiacente e
per nulla triviale sul meccanismo per il quale i miti si trasformano, trattenuti
dall’esigenza di simmetria da un lato, ma spinti a romperla dagli accidenti
della storia dall’altro6.
Una risposta senza domanda
Se il nostro ragionamento è corretto, l’essenziale della formula canonica è
di esigere un salto storico e semantico. Ma abbiamo già menzionato più sopra
il fatto che gli ellenisti criticano l’ispirazione in miti degli indigeni nordamericani per spiegare la mitologia greca. Ora, sappiamo che la “pista amerindia”
per trovare la domanda per la quale il “carattere monco” sarebbe la risposta
era provvisoria, e lo stesso Lévi-Strauss modificò la propria posizione iniziale a
questo proposito. Nella versione inglese del suo articolo, Lévi-Strauss già metteva in risalto – con maggiore enfasi che nella versione francese – il carattere
ipotetico della speculazione filologica sui nomi di Labdaco, Laio ed Edipo.
Nella versione francese del 1958 non smette, però, di sottolineare che questi
nomi propri apparivano hors contexte: dato che non ci sono episodi a proposito del carattere monco di Labdaco né sul carattere mancino di Laio, nella
misura in cui, nel caso dei piedi-gonfi di Edipo, non è in gioco una origine
non-umana. Jean Pierre Vernant aveva certamente ragione al riprovare il coup
de force, nel quale Lévi-Strauss condensò da un lato “l’uccisione del drago da
parte di Cadmo e la vittoria di Edipo sulla Sfinge nella stessa casella semantica di un rifiuto dell’autoctonia”, e dall’altro “il piede gonfio di Edipo e la
claudicazione dei Labdacidi nella casella inversa e simmetrica di un originario
radicarsi ctonio”7 (Vernant, 1974: 241 [ed.it.: 240]). Nonostante ciò, lo stesso
La condensazione nella versione “amerindia” lega Edipo, Laio e Labdaco (a partire dalla
sua presunta difficoltà di camminare in maniera eretta) agli Spartoi (come esseri ctoni), presumibilmente perché (secondo suggestioni dei miti amerindi) esiste una connessione tra l’origine
dalla terra e la deformità.
7
Nell’articolo del 1955a, Lévi-Strauss aveva esteso alla Grecia antica la teoria pueblo in
cui “la vita umana è intesa sul modello del regno vegetale (emergenza fuori dalla terra)”, giustificando così la scelta del mito di Edipo come primo esempio (Lévi-Strauss, 1958: 252 [ed.
it.: 248]). Ciononostante, gli ellenisti affermano che la deformità (come carattere monco) è un
tratto degli dei e non degli esseri ctonici (Detienne e Vernant, 1974: 242 [ed. it.: 205]). Evidenza
di ciò è il fatto che gli Spartoi, i “seminati” con i denti del drago, escono dalla terra eretti e senza
deformità.
6
2. La formula canonica del mito
53
Jean Pierre Vernant affermò nel 1988 che, nonostante l’interpretazione lévistraussiana sia apparsa all’inizio “almeno contestabile”, “modificò in maniera
tanto radicale il campo degli studi mitologici che a partire da essa, in LéviStrauss ed in altri specialisti, la riflessione a proposito della leggenda edipiana
ha intrapreso vie nuove e, credo, feconde”. (Vernant, 1988: 54)
E ciò in particolare perché
... Lévi-Strauss, che io sappia, è stato il primo ad estrarre l’importanza di un tratto
comune alle tre generazioni del lignaggio dei Labdacidi: un disequilibrio nel camminare, una mancanza di simmetria tra i due lati del corpo, un difetto in uno dei
due piedi (idem: 55).
Il “tratto in comune” è qui una risposta che richiede una domanda. L’interessante è che, anche se abbandonassimo la domanda a cui Lévi-Strauss giunse
nel 1955, i tratti torti di Labdaco/Laio/Edipo hanno continuato ad alimentare
i tentativi di formulare una domanda adeguata. Ad esempio: i tratti torti dei
personaggi, nella loro connessione con l’incesto e con enigmi, indicano verso
una riflessione politica ateniese – i cui poeti tragici hanno fornito le versioni da
noi più conosciute del mito di Edipo – sulla tirannia come forma di anormalità nella comunicazione. Letture successive hanno messo in relazione il tema
del “disequilibrio nel camminare” all’incesto (fratello-sorella, madre-figlio),
all’abuso del linguaggio nella forma dell’enigma, all’abuso del potere nella forma della tirannia8.
È stato, infine, Jean Pierre Vernant colui che ha richiamato l’attenzione
verso un gruppo di miti greci geograficamente distante dai miti di Edipo, in
cui il carattere-monco ha un ruolo centrale. Si tratta della storia di Labda, la
regina monca di Corinto. Salta agli occhi il parallelismo stretto con il mito di
Edipo: a Tebe, c’è un lignaggio di tiranni stranieri – che si sposano all’esterno del proprio gruppo consanguineo –; a Corinto, c’è un lignaggio di tiranni
endogami. A Tebe, l’abuso sessuale di un futuro tiranno “maldestro” (Laio
ha relazioni sessuali con il giovane figlio del suo anfitrione, che prevede che
il lignaggio di Laio si estinguerà in due generazioni) porta alla distruzione del
lignaggio attraverso le azioni di suo figlio piede-gonfio, Edipo (passando per
un incesto); a Corinto, un matrimonio esogamico di Labda, la Zoppa, porta
8
Jean-Pierre Vernant ricorda che Terence Turner fu il primo ad accentuare l’importanza
dell’enigma. Da ciò i termini di Lévi-Strauss del 1960: “Come l’enigma risolve, così l’incesto
avvicina termini destinati a rimanere separati: il figlio si unisce alla madre, il fratello alla sorella,
così come fa la risposta che riesce, contro ogni previsione, a raggiungere la sua domanda” (LéviStrauss, 1973a [1960]: 34 [ed. it.: 58-59]; Vernant, 1988: 56).
54
Mauro William Barbosa de Almeida
alla distruzione del lignaggio per le azioni di suo figlio Cipselo (ma qui sono i
cittadini che uccidono il tiranno). In entrambi i casi, esiste una profezia oracolare la cui conseguenza si cerca di impedire con il tentativo – frustrato – di
assassinare un(a) figlio(a)9. I paralleli simmetrici continuano10. Si distacca la
tensione tra l’endogamia del lignaggio agnatico (fratricidio, parricidio) ed i
conflitti fratricidi da un lato e tra guerra ed alleanza dall’altro – tutto questo in
connessione con il tema dell’impraticabilità della tirannia permanente. Tutto
avviene, quindi, come se l’esagerata prossimità tra consanguinei di sesso opposto (incesto) stesse al conflitto con i consanguinei dello stesso sesso (fratricidio, parricidio, filicidio), come l’alleanza con gli autoctoni (non agnati) sta
alla guerra con gli autoctoni.
Contraddizione e mediazione nei miti Pueblo
Se stiamo percorrendo fino a qui il cammino giusto, l’analisi del mito di
Edipo annuncia l’essenziale della formula canonica. Ed i miti Pueblo commentati con molti più dettagli da Lévi-Strauss nello stesso articolo? Quando
osserviamo la sintesi iniziale che Lévi-Strauss presenta per un insieme di miti di
origine Zuni, ottenuti in un intervallo di tempo di mezzo secolo (Lévi-Strauss,
1958a [1955]: 244 [ed. it.: 246]), notiamo che viene messo in gioco un tableau
più complesso che non quello del mito di Edipo. Di fatto, nel primo tableau
Zuni, al posto di un insieme di fasci di relazioni – ognuna di esse ridotta ad una
proposizione –, relazionate tra loro per opposizione, vediamo all’interno dei
fasci stessi di relazioni (ad esempio colonne di eventi) trasformazioni graduali.
Così, nella colonna 1, si afferma nell’alto della colonna l’uso di vegetali per
dare vita ad umani (emergenza a partire dalla terra), ma questo uso è modulato (passando per l’uso di vegetali per alimentare gli umani) fino ad arrivare
9
I Bacchiadi monopolizzano il potere politico a Corinto sposando le loro figlie tra di loro (i
labdacidi alternano il potere politico a Tebe, sposandosi con discendenti degli Spartoi); l’endogamia dei tiranni di Corinto viene interrotta dal matrimonio esogamico di Labda (o perché ella,
essendo zoppa, non trovò marito all’interno del lignaggio, o divenne “zoppa” giustamente per
essersi sposata all’esterno del gruppo), mentre a Tebe l’alleanza viene interrotta dal matrimonio
endogamico di Edipo con sua madre; l’oracolo profetizza che il figlio di Labda (la Zoppa) assumerà il potere a Corinto, ma che avrà appena due generazioni di discendenti, mentre l’oracolo
profetizza che Edipo, il figlio di Giocasta (la madre incestuosa) ucciderà suo padre (sul padre
di Edipo, colpevole di “incesto”, cadrà la maledizione che la sua stirpe sarà stermineata, il che
avviene in due generazioni). Si veda Vernant (1988: 77).
10
Per questi paralleli, Cfr. Robey. “From Oedipus to Periander”. In: Oxford Readings in
Greek Religion. www.uark.edu/campus-resources/dlevine/Oxford5.html
2. La formula canonica del mito
55
all’uso predatorio di animali per alimentare gli umani e, finalmente, all’uso
predatorio di umani nella guerra. Già nella colonna 4, la progressione avviene
in senso inverso: comincia con la morte e termina con la “salvezza della tribù”.
Insomma, ci sono opposizioni all’interno di ogni fascio, confrontando vegetale
ed animale, vita e morte, divinità e uomini11. In un primo sommario, LéviStrauss ricorre a differenti versioni del mito di origine per sviscerare dai miti il
tema dell’emersione, sia come “risultato degli sforzi degli uomini per sfuggire
alla loro condizione miserabile nelle viscere della terra” (versioni di Bunzel e
di Cushing), sia come “conseguenza di un richiamo, lanciato agli uomini dalle
potenze delle regioni superiori” (versione di Stevenson), attraverso mediazioni
ambigue che conducono ad un “termine contraddittorio nel bel mezzo del
processo dialettico”.
VITA (=crescita)
Uso (meccanico) del regno vegetale (come crescita)
Uso alimentare del regno vegetale (piante silvestri)
Uso alimentare del regno vegetale (piante silvestri e
coltivate)
Uso alimentare del regno animale
Uso distruttivo del regno animale e del regno umano
ORIGINE
RACCOLTA
AGRICOLTURA
CACCIA
GUERRA
MORTE(=de-crescita)
Schema 3 – Progressione dialettica e termine contraddittorio.
Ci sono, inoltre, trasformazioni mitiche che, al posto di presentare il carattere di inversioni discrete (o altre simmetrie reversibili), introducono piccoli
allontanamenti che riempiono l’abisso che separa due termini contraddittori
– o per lo meno creano l’apparenza di farlo. Ciò che viene introdotto qui è
l’importanza che assumono nei miti catene di mediazioni che attraversano un
percorso di varianti.
A questo punto, Lévi-Strauss distacca il ruolo moderatore delle figure mediatrici, sia nella forma di “coppie dioscuriche” (2 messaggeri divini, 2 clown
cerimoniali, 2 divinità della guerra; o coppie di fratelli, di fratello-sorella, di
marito-sposa, di nonno-nipote), sia nella forma di trickster, in questo caso
esemplificata dal coyote e dall’avvoltoio: predatori ambigui perché non uccidono ciò che mangiano (come agricoltori), ma predano animali (come cacSe consideriamo il tableau come una striscia di carta, ed incolliamo la estremità di sinistra
(progressione dall’alto verso il basso dalla vita alla morte) e di destra (progressione dal basso
verso l’alto dalla morte alla vita), otterremo un nastro di Möbius – una figura topologica che è
uno dei topos ricorrenti della fase mitologica dell’opera di Lévi-Strauss.
11
56
Mauro William Barbosa de Almeida
ciatori). L’importante, però, è che questi mediatori sono parte di blocchi maggiori di opposizioni paradigmatiche (il coyote è un intermediario tra erbivori
e carnivori, così come lo scalpo lo è tra la guerra e l’agricoltura, i vestiti tra
natura e cultura, la cenere tra il fuoco della casa ed il tetto, ed altre). Insomma,
lontani dall’essere una mera soluzione logica per risolvere una opposizione tra
opposti, i dioscuri e tricksters sono piste euristiche per indagare trasformazioni
mitiche che portano ad altri continenti spaziali e semantici, e, in questo caso,
conducono Lévi-Strauss a paralleli tra l’Ash-boy della mitologia amerindia e il
Gatto con gli Stivali europeo.
L’utilizzo di termini ambigui (trickster e dioscuri) come mediatori è un primo esempio delle “operazioni logiche” del mito (Lévi-Strauss, 1958a [1955]:
241 [ed. it.: 246]). Un’altra caratteristica è la “dualità di natura”, che caratterizza una stessa divinità nei miti. Lévi-Strauss esemplifica questo punto con il
seguente schema (idem: 251 [ed. it.: 255]):
(Masauwû : x) ≈ (Muyingwû : Masauwû) ≈ (Shalako : Muyingwû) ≈ (y : Masauwû)
Schema 4 – Divinità contraddittorie.
In questa serie, fondata su versioni distinte (che Lévi-Strauss numera da 1
a 4), il dio Masauwû appare vincolato a funzioni che cambiano a seconda del
luogo in cui appaiono.
Così, nella versione 1, Masauwû soccorre gli uomini, anche se non in maniera assoluta. Ciò viene scritto così: Masauwû: x. Ricordiamo che x e y rappresentano qui “valori arbitrari che bisogna però postulare per le due versioni
«estreme»” (idem: 252 [ed. it.: 255]). Tenendo ciò a mente, possiamo esprimere il tutto più chiaramente con la seguente formula, ricordando che il segno >
esprime il fatto che Masauwû ha la funzione di soccorrere gli umani, più delle
altre divinità.
Fsoccorrere (Masauwû > x)
Nella versione 4, Masauwû è ostile agli uomini, ma potrebbe esserlo ancora
di più. Con la stessa notazione di sopra, scriveremmo:
Fostilità (y > Masauwû)
Con la stessa notazione, possiamo riunire le versioni da 1 a 4 e riscrivere
così la Formula 4 più sopra:
2. La formula canonica del mito
57
Fsoccorrere (Masauwû > x)
≈
Fsoccorrere (Shalako > Muyingwû)
Fsoccorrere (Muyingwû > Masauwû)
≈
Fsoccorrere -1 (y > Masauwû)
Schema 5 – Una versione quasi canonica dei miti Pueblo.
Con questa notazione, si comprende meglio perché Lévi-Strauss abbia annunciato, discutendo il ruolo dei termini dioscurici, che “la costruzione logica del mito presuppone una duplice permuta di funzioni” (idem: 251 [ed.it.:
255]), dato che è di fatto necessario trasformare due volte la prima espressione per ottenere l’ultima: trasformare la funzione Fsoccorrere nella funzione
Fanti-soccorrere, e invertire il ruolo di Masauwû (da termine massimo in una
relazione a termine minimo nella relazione inversa). È subito dopo che LéviStrauss presenta la sua celebre formula, che guadagna un senso se la leggiamo
alla luce tanto dell’analisi dei miti di Edipo (si compari con lo Schema 2) come
alla luce dei miti Zuni dell’emergenza (Schema 5 sopra):
Fx(a) : Fy(b) ≈ Fx(b): Fa-1(y)
Schema 6 – La formula canonica originale.
In questo formato, si distaccano: una simultanea inversione paradigmatica
(il valore a è trasformato nel valore a-1), e sintagmatica (un termine è convertito in predicato). Ma negli esempi dati, questa doppia trasformazione ha luogo
alle frontiere: nel passaggio tra le versioni Zuni distanti mezzo secolo, e tra i
miti del re-zoppo Edipo a Tebe e della regina-zoppa di Corinto; nel passaggio tra codici di comunicazione (enigmi e profezie; domande senza risposta e
risposte senza domanda), codici di società (incesto e parricidio), codici corporali (monchi, deformi, maldestri), codici cosmologici (origine ctonia ed origine
vegetale dell’umanità).
Un esempio di vasaia gelosa
Il procedimento introdotto nell’analisi del mito di Edipo può essere così
riassunto: completare un quadro logico passando da una triade autocontenuta
ed empiricamente sostenuta ad un quarto termine che esige un salto, che LéviStrauss chiamerà “dialettico” in Antropologia Strutturale (1958) e ne Il pensiero selvaggio (1962) e “deduzione trascendentale”, nel 1985, in La vasaia gelosa.
Non sarà qui possibile esplorare la complessità della cinque applicazioni della
formula canonica in quest’ultima opera, ma non è possibile fare a meno di
58
Mauro William Barbosa de Almeida
fare riferimento alla prima, alla quale Lévi-Strauss dedica i capitoli da 1 a 4. Il
programma generale è così descritto già nella prefazione dell’opera:
Partendo da un mito ben localizzato e che, a prima vista, sembra riunire capricciosamente dei termini eterocliti da tutti i punti di vista, seguirò passo a passo le
osservazioni, le inferenze empiriche, i giudizi analitici e sintetici, i ragionamenti
espliciti ed impliciti che rendono conto della loro connessione (Lévi-Strauss, 1985:
22 [ed.it.: 12]).
Accompagniamo alcuni dei passaggi annunciati in questa affermazione. Il
mito in questione viene dagli Jívaro. Nella prima versione, la narrativa racconta di come Sole e Luna, che vivevano a quel tempo sulla terra e dividevano la
sposa Ahôho, entrano in conflitto per gelosia della sposa e lasciano la casa in
direzione del cielo. Quando Ahôho cerca di seguire i mariti al cielo, portando
con sé un cesto con dell’argilla, la liana che utilizzava come scala viene tagliata
e lei cade tornando a terra, dove, trasformandosi in un uccello Succiacapre
(Ahôho), canta ancora oggi nelle notti di luna nuova, con nostalgia dei mariti.
Ma quando cadde, Ahôho sparse sulla terra il cesto di argilla che portava con
lei, e che serve oggi per fabbricare i vasi per le feste e le cerimonie. Si seguono
altre sette versioni, nelle quali si tratta di spiegare ora l’origine dell’argilla per la
ceramica, ora delle zucche coltivate, ora delle liane della foresta. Lévi-Strauss
identifica le zucche coltivate (Cucurbitacee coltivate) con le “varianti combinatorie” delle liane silvestri (entrambe rampicanti). L’argilla ha in comune con
le liane la caratteristica di essere informe; ha la proprietà del “continuo” in
opposizione al discreto (come i bambù); in ogni caso, la presenza dell’argilla
è una invariante in tutte le versioni, e si intende come argilla e liane-zucche
possano essere identificate. La conclusione del capitolo 1 de La vasaia gelosa
è, quindi, formulata attorno a tre elementi:
Tuttavia, stabilendo uno stretto legame fra un’arte della civiltà, un sentimento morale e un uccello, i miti jívaro costituiscono un enigma. Quale rapporto può esistere tra ceramica, gelosia coniugale e Succiacapre? (Idem: 34 [ed. it.: 21]).
Tenendo a mente questo enigma, l’autore espone nel capitolo 2 il seguente
programma:
Ci chiederemo innanzi tutto se esiste un legame tra l’arte del vasaio e la gelosia
[...] Ci interrogheremo in seguito sul legame tra la gelosia e il Succiacapre. Se in
entrambi i casi otterremo un risultato positivo, in base a ciò che decisi in passato
di chiamare una deduzione trascendentale ne conseguirà l’esistenza di una connessione anche tra la ceramica e il Succiacapre (Idem: 35 [ed. it.: 22]).
2. La formula canonica del mito
59
I capitoli 2 e 3 sono dedicati ai primi due passi di questa dimostrazione.
Il capitolo 3 comincia enfatizzando la connessione tra l’arte della ceramica
e “molteplici attenzioni, norme e divieti” che rasentano l’ossessione (Idem: 34
[ed. it.: 22]). Qui Lévi-Strauss utilizza liberamente dati dell’etnografia sudamericana e nordamericana che trattano dell’arte della ceramica, incluendo gli
Yurucaré, i Tacana e gli Jívaro della pedemontana andina, i Waurá dello Xingu
e gli Urubu del Maranhão, i Tanimuka del sudovest colombiano, concludendo
che in ogni dove la “Madre-terra, la Nonna dell’Argilla, la Signora dell’Argilla
e dei vasi in terra, la padrona della ceramica” è una benefattrice degli umani,
ma possiede un “carattere geloso e molesto”, dando dimostrazioni di gelosia
in diverse forme, giungendo ad esigere la castità dei ceramisti tra gli Urubu12. Lévi-Strauss estende questa dimostrazione alla mitologia dell’America
del Nord, concludendo che “risulta che i miti e le credenze stabiliscono una
relazione fra arte ceramica e gelosia”, in maniera tale che “questa connessione
fra arte del vasaio e gelosia costituisce un dato del pensiero amerindio” (Idem:
48 [ed. it.: 31]).
Nel capitolo 3 continua la dimostrazione con il suo secondo passo: l’esistenza del nesso tra la gelosia, l’avidità ed i dissensi coniugali, da un lato, e la
figura dell’uccello Succiacapre (Lévi Strauss conosce molto bene l’ampio lessico brasiliano per l’uccello: Bacurau, Curiango, Urutau, Mãe-da-Lua, MandaLua, Chora-Lua). Un apparente problema è il carattere caotico dei miti americani che trattano di Succiacapre. Lévi-Strauss, ciononostante, li raggruppa
per “grandi temi”: (1) nel primo gruppo, Succiacapre viene collocato in un
panteon amazzonico (servitori della Luna tra i Tupi amazzonici, uccello sacro
dei Campa le cui piume ornavano il diadema dell’Inca, ecc.), i discendenti di
divinità, o ancora è associato alla Luna ed al Sole, il che pone tutto questo
gruppo di miti in connessione con il tema più generale dei conflitti domestici
tra gli astri; (2) in un secondo gruppo, l’accento ricade sulla connessione tra
Succiacapre e le liti coniugali motivate dalla gelosia (Karajás, Aruak della Guyana, Mundurucu e Tenetehara); (3) un terzo gruppo di miti lega Succiacapre
all’avidità ed alla gola (Quéchua del nordovest dell’Argentina, Karib e Aruak
della Guyana, Ayoré del Chaco boliviano). In questa maniera, gli eterocliti miti
di Succiacapre, che trattino di conflitti cosmici tra divinità o di liti domestiche
tra umani, appaiono come parte di un continuo.
I capitoli 2 e 3 completano, così, i due passi iniziali del ragionamento che
consiste nello stabilire prima che c’è una connessione tra la ceramica e la gelo-
12
In ciò la Mãe-de-Argila assomiglia alla Mãe da Seringueira dei seringueiros del sudovest
amazzonico!
60
Mauro William Barbosa de Almeida
sia e, in seguito, che c’è un legame tra gelosia e Succiacapre. La prima connessione è teorica: si tratta qui della teoria indigena secondo la quale la ceramica
è una delle cose che sono in gioco nel conflitto cosmico tra potenze celesti e
potenze ctonie. Già la seconda connessione, tra “gelosia e Succiacapre”, deriva da una “deduzione empirica” basata sull’associazione sensibile tra l’uccello
ed un carattere avido, solitario e triste, ma che viene confermata anche dal
legame tra dissapori coniugali e conflitti tra gli astri.
Resta il terzo passo: mostrare che “esiste anche un legame tra la ceramica e
Succiacapre”. Ma questo terzo passo esigerà una “deduzione trascendentale”13.
Nel capitolo 4, Lévi-Strauss fa il seguente bilancio della situazione:
Partendo da miti jívaro che determinano un triangolo: gelosia, ceramica, Succiacapre, ho mostrato come nel pensiero degli Indios sudamericani esista una connessione tra ceramica e gelosia da una parte, fra gelosia e Succiacapre dall’altra (Idem:
67 [ed. it.: 45]).
A questo punto, però, dice Lévi-Strauss, “la dimostrazione rimane tuttavia
incompleta. Se i tre termini formano un sistema, occorre che siano uniti due a
due. [...] Ma qual è il nesso esistente tra la ceramica e il Succiacapre?” (Idem:
70 [ed. it.: 47]).
Il problema può essere esibito nella forma dello schema seguente:
gelosia
ceramica
→
:
→
Succiacapre
?
Schema 7 – Un triangolo empirico-logico.
La colonna di sinistra è formata da attributi morali e tecnici (gelosia, ceramica) e la colonna di destra corrisponde a termini (Succiacapre, ?). LéviQuando flirta con il linguaggio kantiano, Lévi-Strauss sta mettendo in risalto che i passaggi del pensiero mitico non derivano dall’esperienza sensibile. Ricordiamo che Kant spiega questa nozione ricorrendo alla distinzione giuridica tra ciò che è “di diritto” (quid juris) e ciò che
è “di fatto” (quid facti). Nell’argomento “di fatto” bastano esempi empirici; ma per convincere
che qualcosa è “di diritto”è necessaria una deduzione a partire da principi. Analogamente, dice
Kant, nel caso dei concetti empirici, possiamo ricorrere all’esperienza per attribuire un senso ad
essi; ma nel caso di concetti “sintetici a priori”, è necessaria una deduzione a partire da principi:
“Chiamo questa spiegazione del modo come i concetti a priori possono essere in relazione agli
oggetti, di deduzione trascendentale di questi concetti, e la distinguo dalla deduzione empirica,
che indica il modo attraverso il quale un concetto è ottenuto dall’esperienza e dalla riflessione
su di essa...” (Critica della Ragion Pura, A85). Cfr. Lèvi-Strauss (1985: 35 [ed.it.: 22]).
13
2. La formula canonica del mito
61
Strauss si interroga a proposito della connessione tra il termine Succiacapre
e l’attributo ceramica. Questa connessione dovrebbe apparire mediata da un
quarto termine che, però, è assente: è come se mancasse, nel ragionamento
fatto nei miti Jívaro, un uccello nella linea inferiore al quale corrisponda l’attributo di ceramista.
Si pone qui un problema sul quale conviene soffermarsi, dal momento che la sua
soluzione mette in gioco certi principi fondamentali dell’analisi strutturale dei miti.
Per dimostrare la connessione tra il Succiacapre e la ceramica, dovremo ricorrere
ad un uccello che non occupa alcun posto nei miti finora considerati (Idem: 70-71
[ed. it.: 47]).
Questo uccello sarà trovato. È il Fornaio (Furnarius sp.), che ha “abitudini”
diametralmente opposte a quelle di Succiacapre: è loquace e non taciturno,
costruisce la sua casa di argilla ed è notevole per l’armonia coniugale, apprezzando la convivenza con gli umani. Ecco come Lévi-Strauss giustifica inizialmente l’introduzione di un nuovo termine. Così, l’introduzione del Fornaio si
giustifica “da un punto di vista non solo logico”, dato che è un Succiacapre al
contrario, ma anche geografico, dato che “essi provengono dal Chaco, dove
vivono gli Ayoré nei cui riti e nei cui miti il Succiacapre svolge un ruolo che
non ha uguali” (Idem: 71 [ed. it.: 48]).
Il fournier [Fornaio], che gli abitanti caboclos ed indigeni delle foreste
dell’alto fiume Juruá chiamano Maria-de Barro, è oggetto, secondo LéviStrauss, di un trattamento rispettoso da parte dei Kaxinauá, che abitano le foreste della stessa regione. Questo trattamento di rispetto, inoltre, è condiviso
da seringueiros e caboclos, che lo estendono ad un altro uccello che costruisce
la casa, che è il Japim, che, a differenza del Fornaio, non costruisce la sua casa
di fango ma di vegetali.
Ma è legittimo questo procedimento di “chiudere un ciclo di trasformazioni
per mezzo di uno stato che non compare nei miti che illustrano gli altri stati”
(Idem: 77 [ed. it.: 52])? La prima risposta è che, anche se i Fornai non appaiono esplicitamente nei miti Jívaro, esse sono implicitamente presenti in essi:
È fuor di dubbio che i Fornai fossero presenti nel pensiero degli Indios anche
quando questi non ne parlavano. E le loro abitudini, come ho provato, non potevano non essere percepite in opposizione a quelle dei Succiacapre (Idem: 78 [ed.
it.: 53])
Ma ciò non è sufficiente: è necessario appoggiare questo passaggio dall’invisibile al visibile su di un principio generale. È qui che l’autore ricorre alla
62
Mauro William Barbosa de Almeida
formula canonica del 1955, in due passaggi. E qui mi prendo la libertà di
mantenere, assieme con l’annotazione dall’apparenza algebrica utilizzata da
Lévi-Strauss, la notazione diagrammatica che ho usato più sopra nello Schema 7.
Fgelosia (Succiacapre) : Fvasaia (Donna) :: ?
Schema 8 – La Formula Canonica ne La vasaia gelosa: l’enigma.
O, in un diagramma sul quale ritornerò:
Gelosia
Vasaia
→
:
→
?
Succiacapre
Donna
Questa prima proposizione in forma di enigma si legge così: che relazione
esiste tra Succiacapre che “funziona” come un uccello geloso e una donna la
cui funzione è spiegare l'origine della ceramica? Se pensiamo allo schema con
la forma di una analogia, la risposta sarebbe: è la stessa relazione che abbiamo
tra la Donna che funziona come un umano geloso e Succiacapre la cui funzione è spiegare l'origine della ceramica. Ma il problema che solleva questa
risposta è che, mentre la gelosia è un attributo empiricamente osservabile nelle
donne (così come il carattere del ceramista), ed anche il carattere “geloso”
del Succiacapre è un fatto dell'esperienza, il carattere ceramista di Succiacapre è smentito dall'esperienza. In altre parole, il ragionamento dell'analogia
(in cui, se A/B=C/D, allora AD=BC) non funziona. La risposta corretta, dice
Lévi-Strauss è data dalla continuazione della formula canonica, ora con una
inversione sintattica nella linea inferiore (permutando il ruolo dell'attributo e
del termine) ed una simultanea inversione paradigmatica nel termine introduzione del Fornaio con una forma inversa.
Fgelosia (Succiacapre)
Fgelosia (Donna)
:
::
:
Fvasaia (Donna)
Fsucciacapre-1 (Vasaia)
Schema 9 – La Formula Canonica: una risposta.
Lévi-Strauss legge così la formula: “la funzione «gelosa» del Succiacapre sta
alla funzione «vasaia» della donna come la funzione «gelosa» della donna sta
alla funzione «Succiacapre invertito» della vasaia” (Idem.: 79 [ed. it.: 53-54]).
2. La formula canonica del mito
63
Nella seconda parte del ragionamento, la funzione-gelosia si applica alla
Donna, ma al posto della funzione-vasaia applicata al Succiacapre, è un Succiacapre invertito (Fornaio) che, preso come predicato, si applica alla vasaia.
La formula indica che (1) i termini Donna e Succiacapre (lato sinistro) sono
congruenti in relazione a “gelosia”, e che (2) i termini Donna e Vasaia sono
congruenti in relazione a “vasaia” (applicata alla donna) e “Fornaio” (Succiacapre invertito)14.
Conclude Lévi-Strauss:
La funzione «gelosia» del Succiacapre deriva, come ho mostrato, da ciò che
ho chiamato altrove una deduzione empirica: interpretazione antropomorfica
dell’anatomia e delle abitudini osservabili di questo uccello. Quanto al Fornaio,
non può svolgere il ruolo di termine poiché non figura in quanto tale nei miti del
Succiacapre. Esso è presente come termine unicamente in miti che li invertono.
Ma il suo impiego a titolo di funzione conferma il sistema delle equivalenze, mediante trasformazione in deduzione empirica di ciò che in partenza era solo una
deduzione trascendentale (che, come afferma il mito, il Succiacapre possa essere
all’origine della ceramica). Sul piano dell’esperienza, il Fornaio è un mastro vasaio
come il Succiacapre, sempre sul piano dell’esperienza, è un uccello geloso (Idem:
80 [ed. it.: 54]).
Commentiamo questo interessante ragionamento formulato da Lévi-Strauss
con il vocabolario kantiano. Alla fine del ragionamento è espresso il pensiero
mito-logico (empirico e deduttivo) attraverso il quale i miti Jívaro associano
esplicitamente l’origine della ceramica ad una donna (che sono le ceramiste
dei giorni d’oggi) e ad un uccello caratterizzato dalla gelosia, Succiacapre (un
uccello che vive solitario ed emette lamenti notturni nelle notti di luna). Perché questo uccello, e non un altro che ha una connessione empirica con l’arte
della ceramica, come il Fornaio? È come se il raziocinio mitico, espresso nello
schema lévi-straussiano (anche qui in senso kantiano), esigesse un retrocedere
di fronte ai dati dell’esperienza diretta, in maniera da poter situare questa
esperienza in termini più ampi (qui quello dei conflitti cosmici tra astri). Il costruttore di miti non è un raccoglitore di impressioni dall’esperienza, ma è un
teorico. Al posto di introdurre nel mito di origine della ceramica un uccello ceramista e domestico (una specie di immagine iconica della stabilità coniugale),
egli introduce uno specchio del Fornaio, la cui connessione con la ceramica,
alla cui origine è presente, si dà attraverso il tratto morale che ha in comune
14
Ricordiamo che, nel caso del ciclo tebano di Edipo, il “carattere zoppo del Re” appariva
come un tratto implicito (o incosciente), ma appariva in forma esplicita nel ciclo corinzio di
Labda, che costituisce una versione “invertita” del ciclo tebano di Edipo.
64
Mauro William Barbosa de Almeida
con le vasaie, la gelosia, e che è anche un nesso tra l’uso domestico dell’arte
della ceramica e le grandi questioni metafisiche che ebbero luogo nella volta
celeste all’inizio del mondo.
C’è bisogno qui, forse, di un epilogo. Per questo ripresentiamo la formula
come una operazione su una striscia di carta. Il suggerimento è che lo schema
di pensiero indicato dalla formula canonica ha meno a che fare con l’algebra
che non con la topologia. Per percepirlo, pensiamo letteralmente allo Schema
10 più sotto come a due rettangoli ritagliati in fogli di carta. Ritagliamo la
prima striscia ed incolliamo le sue estremità, accostando gelosia con succiacapre, e vasaia con donna. Il risultato è un cilindro e corrisponde alla prima
formulazione della formula canonica. In seguito, ritagliamo la seconda striscia
ed uniamo gelosia con donna, e vasaia con succiacapre. Il risultato è un nastro
di Möbius e corrisponde alla seconda formulazione della formula. Il passaggio
dal cilindro al nastro di Möbius rappresenta quindi il giudizio composto: la
gelosia di Succiacapre sta al carattere vasaia della donna come la gelosia della
donna sta al carattere Fornaio (Succiacapre invertito) della vasaia. La dimostrazione di Lévi-Strauss diviene una metafora topologica. Nel pensiero mitico, strappare un giudizio orientato e riconnetterlo attraverso un salto discontinuo, abolendo con ciò la separazione tra predicato e soggetto ed invertendo
i termini, è come passare dal cilindro, una superficie orientata, ad un nastro di
Möbius, superficie non orientabile nella quale fronte e verso non hanno una
esistenza separata.
*gelosia
**vasaia
succiacapre*
donna**
(unire le estremità della striscia unendo gli asterischi corrispondenti)
*gelosia
succiacapre-1
-1vasaia
donna*
(incollare le estremità unendo gli asterischi corrispondenti; è necessaria una torsione)
Schema 10 – La formula Canonica: da un cilindro ad un nastro di Möbius.
Ricordiamo che, per passare da un cilindro ad un nastro di Möbius, è necessario tagliare ed incollare, eseguendo nel percorso una torsione. Con questa metafora topologica, ritroviamo una idea lévi-straussiana familiare: quella
secondo cui la logica delle trasformazioni mitiche implica tagliare ed incollare,
una figura familiare ai lettori delle Mitologiche. Lo schema canonico è una
2. La formula canonica del mito
65
metafora ispirata allo schematismo della matematica: passare dal cilindro al
nastro di Möbius equivale a disorientare un giudizio.
A cosa servono le formule
Il mio obiettivo è stato quello di mostrare che la formula canonica non è né
uno schema per formalizzare le componenti di una narrativa, né uno schema
della logica dell’analogia. Diversamente da ciò, essa indica la possibilità di accedere ad “una maniera universale di organizzazione dei dati dell’esperienza
sensibile” (Lévi-Strauss, 1958a: 250 [ed. it.: 253]) alla frontiera tra la storicità
irriducibile e le esigenze intrinseche al pensiero trasformatore. Questo implica
una differenza profonda tra lo strutturalismo di Lévi-Strauss e la morfologia
di Vladimir Propp (includendo i suoi sdoppiamenti nella teoria morfogenetica
delle catastrofi). Se ben riuscita, l’analisi morfologica/morfogenetica porterebbe ad una grammatica delle narrative, capace di rendere conto di un corpus
di base e capace di produrre altre narrative similari. Il metodo indicato da
Lévi-Strauss, al contrario, presuppone che i miti si trasformano gli uni negli
altri, soggetti come sono a condizionamenti della storia ed alle esigenze di
una logica “non orientata” e così aperta alla storicità; di conseguenza, guida il
ricercatore verso l’indagine delle trasformazioni sintattiche e paradigmatiche
che registrano la maniera in cui il narratore mitico collettivo ha elaborato teorie sul mondo attraverso trasformazioni successive ed aperte15 (Lévi-Strauss,
1958b: 260-266 [ed. it.: 265-271]).
La lettura canonica del mito va dal conscio all’inconscio; essa anticipa nuove
possibilità, invece di descrivere meramente ciò che già è stato attualizzato: è
sintetica e non analitica. Essa esige dall’osservatore che transiti dalla “deduzione
empirica” basata sull’etnografia pura alla “deduzione trascendentale” e da questa nuovamente alla “deduzione empirica” (Lévi-Strauss, 1985: 80 [ed. it.: 54]).
Nel ciclo tebano dei miti di Edipo, una prima inferenza empirica indica il ruolo
dei termini “zoppo”, “balbuziente” e “maldestro” in nomi di re maschili di un
15
Si confronti questa visione con quelle di Carneiro da Cunha (2009 [1973]), Sahlins (1981,
1985) e Peter Gow (2001). Credo che essa sia convergente con quella che Viveiros de Castro
esprime in un testo che mi è giunto tra le mani mentre terminavo di revisionare il presente
capitolo, e dal quale estraggo il seguente passaggio: “Con la formula canonica, al posto di una
opposizione semplice tra metaforicità totemica e metonimicità sacrificale, ci installiamo immediatamente nell’equivalenza tra una relazione metaforica ed una metonimica, la «torsione»
che fa passare da una metafora ad una metonimia o vice versa: la famosa «doppia torsione», la
«torsione soprannumeraria», il «double twist» che, in realtà, è trasformazione strutturale per
eccellenza” (Viveiros de Castro, 2008).
66
Mauro William Barbosa de Almeida
lignaggio straniero esogamico, ma è una deduzione trascendentale che rimanda
al termine “zoppo” - una regina nativa di un lignaggio nativo endogamico16.
Fermiamoci per ritornare alle affermazioni dello stesso Lévi-Strauss sull’argomento, fatte inizialmente negli articoli del periodo che va dal 1955 al 1958.
Consideriamo affermazioni come la seguente: “(...) se si riesce a ordinare una
serie completa di varianti nella forma di un gruppo di permute, si può sperare
di scoprire la legge del gruppo” (Lévi-Strauss, 1958a: 253 [ed. it.: 256]).
Un gruppo è essenzialmente una famiglia di permutazioni (come nello
Schema 1). Però abbiamo concluso che la formula canonica ha un’altra struttura, che è quella dello Schema 2 o dello Schema 8, o una variante di queste.
La differenza può essere esemplificata nella seguente maniera. Nel caso della
deduzione analogica (per “permutazione”), ci si aspetta la risposta ad una domanda: “se sappiamo che 2 sta a 4 come 3 sta a X, cos’è X?”, e sappiamo che
la risposta è 6 (perché 2 x X = 4 x 3) senza aver bisogno di introdurre qualcosa
di realmente nuovo. Ma nel secondo caso si tratta di trovare una domanda per
una risposta ambigua. “Se sappiamo che 4 è il risultato di una trasformazione T applicata a 2, qual’è l’oggetto X che è in connessione con 3 attraverso
una trasformazione T?”. Questo secondo caso presenta due incognite: la trasformazione T e l’oggetto X. Ma così come una equazione con due incognite
non ha un’unica soluzione, un problema formulato in questa maniera non ha
un’unica risposta, ma varie. Per scegliere tra queste è necessario tornare al
piano empirico e cercare tra le possibili X e le possibili trasformazioni T quelle
che meglio connettono i miti tra loro.
Ciò che Lévi-Strauss designa con “legge del gruppo” ha, quindi, un significato peculiare. E ne abbiamo una conferma nel capitolo XII di Antropologia
Strutturale, scritto nel 1956, intitolato “Struttura e dialettica”, e che è un importante complemento a “Struttura dei miti”:
... è indispensabile confrontare il mito con il rito, non solo in seno a una medesima
società, ma anche con le credenze e le pratiche delle società vicine. Se un certo
Un esempio con il quale ho cominciato la presentazione orale di questo testo è dato da
un aneddoto che si trova in Tutaméia, di Guimarães Rosa. Professoressa: “- Joãozinho, fai un
esempio di sostantivo concreto”. Joãozinho: “- I miei pantaloni, professoressa”. Professoressa:
“- E di un sostantivo astratto?”. Joãozinho: “- I suoi, professoressa”. L’aneddoto potrebbe essere riformulato come un enigma il cui spirito è ben colto dalla formula canonica, il cui quarto
termine conduce ad un salto inaspettato tra domini semantici che normalmente si trovano separati. Al posto di una deduzione logica che porterebbe alla risposta attesa (“- La mia innocenza,
professoressa”...), Joãozinho trasporta l’opposizione concreto/astratto dal codice grammaticale
al codice della sessualità, attraverso una analogia che trasporta oltre i dati immediati del problema.
16
2. La formula canonica del mito
67
gruppo di miti pawnee rappresenta una permuta, non solo di taluni rituali della
stessa tribù, ma anche di quelli di altre popolazioni, non ci si può accontentare di
un’analisi puramente formale: quest’ultima costituisce una tappa preliminare della
ricerca... (Lévi-Strauss, 1958b: 265-266 [ed. it.: 270]).
In questo viaggio tra miti vicini – e qui è il punto importante – non cerchiamo la diffusione di elementi dei miti, ma l’azione attiva del costruttore di miti
collettivi, attraverso trasformazioni che rivelano meccanismi di “risposta, di
scuse o anche di rimorsi”:
... sottolineando che l’affinità non consiste soltanto nella diffusione, al di fuori della loro area di origine, di talune proprietà strutturali o nella ripulsione che ostacola
il loro propagarsi: l’affinità può anche procedere per antitesi, e generare strutture
che presentano il carattere di risposte, di rimedi, di scuse o anche di rimorsi (Idem:
266 [ed. it.: 271]).
Vediamo qui due livelli: uno quello della forma logica, e l’altro quello
dell’inconscio, combinati come fronte e verso, e accompagnati lungo distanze
geografiche e storiche. Come insiste Lévi-Strauss, nel 1958, “(...) tutto ciò che
un’analisi strutturale del contenuto del mito potrebbe, da sola, ottenere: regole di trasformazione che permettono di passare da una variante ad un’altra”
(Idem: 260 [ed. it.: 265]).
Una versione del mito si trasforma in un’altra nella storia e nello spazio
geografico, e queste trasformazioni, inflesse dalla realtà, si subordinano, allo
stesso tempo, alle esigenze delle teorie includenti sul mondo17. Vediamo così
che la “formula canonica”, secondo questi testi degli anni ‘50, di fatto pretende di rifarsi da un lato ad operazioni logico-algebriche e dall’altro ad operazioni storico-psicologiche, alla ragione analitica ed alla ragione dialettica, alla
deduzione ed alla fabulazione.
Arriviamo alla fine evocando un’ultima testimonianza di Lévi-Strauss a
proposito dell’utilizzo della sua formula. Si tratta di un lettera che l’antropologo francese scrisse a Solomon Marcus nel 1994, citata da Pierre Maranda nella
sua introduzione al volume interamente dedicato alla formula canonica, ma
con prospettive in generale dissonanti in relazione a quelle dell’antropologo
francese. Nella lettera Lévi-Strauss si pronuncia con un tono conciliatorio a
rispetto del distanziamento tra la sua prospettiva e quella degli autori del voTerence Turner ha richiamato l’attenzione sulla differenza tra trasformazione logica e trasformazione storica quando ha commentato un articolo di cui sono autore sullo strutturalismo
di Lévi-Strauss. Purtroppo mi è sfuggita l’efficacia di quel punto perfettamente giustificato a
quell’epoca (Almeida, 1993). Si veda anche Gow (1991).
17
68
Mauro William Barbosa de Almeida
lume, che suppostamente starebbero introducendo la “diacronia” nell’analisi
narrativa e applicando la formula canonica per formalizzare l’evoluzione temporale delle azioni in un mito o in un rito specifico:
Lei distingue due utilizzi della formula, uno diacronico, e l’altro sincronico. Il
primo può essere illustrato da Maranda e Maranda (1971), che lo applicano alla
dimensione temporale interna alle narrative, mentre io uso la formula per organizzare varianti da un punto di vista puramente formale (Lévi-Strauss, 2001a [1994]:
314).
Ma Lévi-Strauss mette in discussione questa distinzione, arrivando alla
questione di fondo: la natura della diacronia.
Ciò nonostante, anche il mio uso di essa implica un aspetto diacronico. La variante
che viene per ultima (il quarto membro della formula) nasce da un evento che è
avvenuto nel tempo: il passaggio delle frontiere culturali o linguistiche, la presa in
prestito da parte di un pubblico straniero (Idem: 314).
Un esempio finale di questo procedimento, inoltre, è l’articolo con il quale
Lévi-Strauss contribuì al volume in questione, organizzato da Pierre Maranda.
In questo interessante capitolo, Lévi-Strauss utilizza la formula canonica per
pensare a connessioni tra modalità di rappresentare il cosmo in costruzioni
religiose-rituali in Giappone, in India ed in America del Sud (Lévi-Strauss,
2001b [1994]: 28). Ora, la diacronia storico-geografica a cui si riferisce LéviStrauss qui ha un peso materiale:
... Nel presente caso, è degno di nota che la doppia trasformazione illustrata dalla
formula sia iniziata da restrizioni tecniche. Il passaggio da un materiale ad un altro
ricopre così lo stesso ruolo dei cambiamenti di natura linguistica o culturale in altri
contesti: esso riguarda sempre il passaggio di un limite (Idem: 28).
Tornando alla sua lettera, Lévi-Strauss continua a distinguere la diacronia
della storia reale da una diacronia puramente simbolica:
... Si può concepire la diacronia in due modi: come inscritta nella durata temporale
interna di una narrazione specifica (le temps du récit), o come l’inscrizione di varie
narrative relazionate in una durata temporale esterna (le temps historique) (LéviStrauss, 2001a [1994]: 314).
Alla fine, Lévi-Strauss specula sulla possibilità di una combinazione dei
due accenti, ammettendo “[...] menti individuali che coscientemente inventa-
2. La formula canonica del mito
69
no narrative, e menti collettive che inconsciamente generano serie di trasformazioni mitiche...” (Idem: 314).
Ciononostante, aggiunge, è possibile che questi due procedimenti “non
derivino dalle stesse costrizioni o che non si basino sulle stesse possibilità”.
Individui che inventano narrative (o il piano della parole) in maniera cosciente
e “pensieri collettivi” (o collettività pensanti) soggetti a coercizioni della storia
di lunga durata saranno soggetti a differenti restrizioni che funzionano qui
come infrastrutture del pensare: siano materiali da costruzione (pietra, paglia),
siano materiali del pensiero (Succiacapre e Fornai), non hanno la stessa distribuzione geografica.
Lévi-Strauss è, allo stesso tempo, un kantiano “senza soggetto trascendentale” e un materialista storico? Se teniamo a mente la nozione di “menti collettive che generano incoscientemente serie di trasformazioni mitiche”, soggette
a coercizioni materiali di lunga durata, le due proposizioni non sono tanto
assurde come potrebbero apparire a prima vista. Nella formula canonica,
l’“ultimo membro”, quello nel quale avviene una “doppia torsione”, connette
narrative in relazione tra loro nella temporalità reale. Le trasformazioni nel
tempo storico non si riducono alla mera diacronia simbolica delle strutture del
pensiero. Ciò perché – allo stesso modo in cui una macchina può essere vista
formalmente come pura struttura reversibile in un tempo astratto, ma è soggetta alle leggi della termodinamica ed è condannata all’aumento di entropia
quando è considerata nel tempo reale della storia –, le forme della logica mitica
sono soggette alle ingiunzioni dell’infra-struttura ed alla capacità rivoluzionaria della mente umana, che consiste nel poter superare le frontiere dell’esperienza sensibile e proiettarsi verso lo sconosciuto.
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Mauro William Barbosa de Almeida
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
73
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia1
Marcio Goldman
In uno dei suoi articoli sulla storia della biologia, Stephen Jay Gould (1991)2
si riferisce ad una immagine offerta con frequenza ai lettori di tutto il mondo
con il fine di fare loro visualizzare uno dei piccoli antenati del cavallo contemporaneo. Egli rivela, così, che una enorme quantità di autori, in Europa,
America, Asia ed in ogni dove, cercano di chiarire come l’animale in questione
presentava approssimativamente le dimensioni di un cane fox terrier. Intrigato
dalla apparente invenzione indipendente di una immagine in fin dei conti per
nulla ovvia, Gould finisce con lo scoprire che tutte le formulazioni si ispirarono ad un unico testo, trasmesso di autore in autore, di generazione in generazione, citato di seconda, terza o quarta mano, senza che nessuno sentisse
alcuna necessità di ricorrere all’“originale” – che sia il testo o che sia l’animale
utilizzato come esempio. Per essere più preciso, ciò che di fatto è avvenuto è
che a nessuno importava sapere chi fosse il creatore dell’immagine, o anche
conoscere ciò che gli serviva come significante.
In questo caso specifico, tale processo, che potremmo denominare di generazione e di trasmissione di una volgata, non mi sembra così grave. Alla fin fine,
tutto indica che gli animali confrontati possiedano effettivamente dimensioni
simili, e sembra che nessun danno reale alla conoscenza sia stato prodotto da
questo luogo comune. Più gravi – e, allo stesso tempo, molto più interessanti
– sono i casi in cui certe distorsioni sono presenti. Così, Dominique Merllié ha
suggerito che una serie di malintesi riguardo all’opera di Lucien Lévy-Bruhl
si devono giustamente al fatto che “avendo tutti quanti «letto» Lévy-Bruhl,
1
Questo testo è la traduzione dal portoghese di: “Lévi-Strauss e os sentidos da História”,
pubblicato originalmente in: (1999), Revista de Antropologia, Vol. 42, n.1-2, pp. 223-238.
2
Ringrazio Peter Gow per avermi rivelato l’esistenza di questo testo. Ringrazio anche, in
maniera più generale, Tânia Stolze Lima per una serie di suggerimenti che riguardano punti
specifici del testo.
74
Marcio Goldman
nessuno senta la necessità di leggerlo, e il senso comune deformato mantiene
sé stesso” (1989: 427).
Ciò che è grave in casi di questo tipo non è tanto la supposta deturpazione
in sé – sempre discutibile –, o la “offesa” ad un determinato autore – mai molto importante, a conti fatti. Quello che risulta grave è che equivoci di questo
genere tendono a reprimere possibili sviluppi che una comprensione, per così
dire, più “empatica”, potrebbe stimolare. In altre parole, acquisendo autorità,
il senso comune tende a non essere più contestato, il che provoca la paralisi
del pensiero. Il fatto che Lévy-Bruhl, ad esempio, sia rimasto durante mezzo
secolo nella penombra del pensiero antropologico, non è né lamentabile in
sé, né moralmente condannabile: impoverisce perché ci ha privato di alcuni
strumenti importanti che avrebbero potuto aiutare lo sviluppo delle nostre
stesse démarches.
La menzione a Lévy-Bruhl può sembrare un po’ fuori luogo in questa sede.
Non soltanto perché tutto indica che continua a non essere di bon ton invocare
il “teorico della mentalità primitiva” in un incontro di antropologi, ma anche
perché l’autore al quale oggi qui porgiamo omaggio, appare opporsi al primo
sotto tutti i punti di vista. Vi si oppone non appena da quelli intellettuali o
teorici – sui quali ci sarebbe molto da dire – ma, per riprendere le parole di
Roger Bastide, come il chiaro si oppone allo scuro. Figura centrale della storia
dell’antropologia negli ultimi cinquant’anni, si potrebbe immaginare che LéviStrauss sia al riparo dalle letture affrettate, o almeno da quelle di seconda o
terza mano – al riparo dalla volgata quindi.
Come è noto, tutti sappiamo che ciò non è vero, anche se ognuno potrebbe
avere il proprio Lévi-Strauss e discordare dalle altre letture. Prendiamo, ad
esempio, un passo di un articolo recentemente pubblicato da Joanna Overing
– scelto non solo perché è spaventosamente chiaro riguardo alle relazioni tra
il pensiero di Lévi-Strauss e la storia, ma anche perché, dal mio punto di vista,
l’autrice fa parte del gruppo dei migliori antropologi oggi in attività. Dopo
aver criticato la “versione particolarmente interessante della difesa della «astoricità»” presumibilmente contenuta nella distinzione tra potere coercitivo e
non coercitivo di Pierre Clastres (Overing, 1995: 107), Overing si dirige verso
ciò che potrebbe essere considerata la fonte di questa versione:
La più famosa di tutte le formulazioni della a-storicità dei popoli indigeni è quella
di Lévi-Strauss (...) [che] stabilisce la sua famosa distinzione (molto spesso intesa
in maniera equivocata) tra società “calde” e “fredde”. Allo stabilire questo contrasto, l’autore separa i popoli dotati di storia da quelli che non la possiedono. Egli
argomenta che questi ultimi deliberatamente subordinano la storia al sistema ed
alla struttura, e a causa di questa subordinazione le società in cui essi vivono posso-
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
75
no essere chiamate “fredde” (...). Questa atemporalità, secondo lui, è un principio
che mira alla eliminazione della storia (...) (Idem: 108).
Torneremo subito a questo testo. Prima, però, io insisterei ancora sull’opposizione tra Lévi-Strauss e Lévy-Bruhl, dato che questa opposizione è anche
quella tra una autore senza dubbio “maggiore” ed uno che per lo meno è venuto ad essere “minore”. È chiaro che non sto utilizzando questi termini nel loro
significato tradizionale, ma in quello proposto da Gilles Deleuze: “maggiore”
e “minore” non sono dati o caratteristiche “oggettive” di testi ed autori; sono
operazioni. Non esiste, quindi, né una rigida divisione, né un manicheismo
(minore = buono; maggiore = male). Ogni autore è simultaneamente maggiore
e minore. O meglio: ogni opera può essere indagata in ciò che ha di maggiore
o di minore (Deleuze e Bene, 1979: 97-101).
Penso che, tra le altre virtù, la riflessione sul luogo della storia nel pensiero di Lévi-Strauss possa permettere, forse, di raggiungere certe dimensioni
usualmente assunte come secondarie – o “minori” – nell’opera di colui che
è indubbiamente un autore “maggiore”. Perché il tema della storia, nei suoi
molteplici significati, permea l’opera da un estremo all’altro, talvolta in maniera esplicita, altre volte in maniera più discreta. Tra i testi fondamentali ci
sono, senza dubbio, “Storia e etnologia”, del 1949, “Razza e Storia” (1952),
la “Lezione Inaugurale” (1960), “Le discontinuità culturali e lo sviluppo economico” (1960), la interviste con Georges Charbonnier (1961), gli ultimi due
capitoli de Il pensiero selvaggio (1962), il secondo “Storia e etnologia” (pubblicato negli Annales del 1983), Lo sguardo da lontano (1983), Storia di Lince
(1991), “Ritorno al passato” (1998) – oltre, è chiaro, a passaggi, più o meno
lunghi, in praticamente tutti i libri dell’autore. È anche importante osservare
che è giustamente in questi testi che l’enfasi di Lévi-Strauss incide molto di
più sulla questione della diversità socioculturale che non sulla famosa “unità
dello spirito umano”.
Così come avviene per altri punti, credo che per ciò che riguarda la storia, Lévi-Strauss abbia ripreso ed ampliato le conseguenze che l’esperienza
dell’antropologia sociale o culturale possono avere sul tema, facendo sì che
passassero ad essere capaci di funzionare come una critica ad alcuni presupposti molto radicati nelle società e nel pensiero occidentali. Perché tutto indica
che, almeno fin dall’Illuminismo, la storia esercita un certo imperialismo tra
noi, poggiando sulla ipotetica certezza che l’unica forma di comprensione dei
fatti umani passi necessariamente attraverso il recupero del processo che ha
fatto sì che si arrivasse ad essere come siamo. Ricordiamo, di passaggio, che
Lévi-Strauss abbozza una ipotesi per spiegare il fascino della storia:
76
Marcio Goldman
E siccome crediamo anche di cogliere il nostro personale divenire come un mutamento continuo, ci sembra che la conoscenza storica raggiunga l’evidenza del
nostro senso intimo (1962: 292 [ed. it.: 278])
È chiaro che avvicinando la fiducia nella storia a tale “illusione” di una
“pretesa continuità totalizzante dell’io” (Idem.), Lévi-Strauss indica già il partito che prende.
Ma c’è qualcosa di più. Tutti sappiamo che l’antropologia stessa si è costituita alla fine del xix secolo in un ambiente segnato da questo imperialismo
della storia. Come ha messo in risalto Richard Lewontin, l’evoluzionismo non
è esattamente una “teoria”, ma una “ideologia”, ossia “una maniera di organizzare la conoscenza del mondo [...], una visione del mondo, più in generale,
che [...] ha permeato tutte le discipline negli ultimi duecento anni” (1985:
234, 238). La critica a questo modello – che potremmo chiamare “diacronico”
e che non è esclusivo dell’evoluzionismo sociale, permeando anche le teorie
della Scuola Sociologica Francese e dell’antropologia boasiana – si manifesterà
a partire dagli anni ‘20, quando, quasi simultaneamente, il funzionalismo britannico ed il culturalismo nordamericano metteranno in questione il privilegio
dell’asse temporale, proponendo la sua sostituzione con un modello sincronico che dovrebbe mettere in risalto le discontinuità e specificità di ordine
soprattutto spaziale.
Dobbiamo evidenziare, inoltre, che le critiche funzionaliste e culturaliste all’evoluzionismo (ed al privilegio della storia, di conseguenza) sono soprattutto di ordine “metodologico”. Sono cioè esclusivamente preoccupate
della quasi impossibilità di ottenere dati storici affidabili riguardo alle società che, in generale, studiano gli antropologi. La critica lévi-straussiana è
però molto più ambiziosa. Partendo, certamente, dalle difficoltà incontrate
dalla conoscenza storica di fronte alle società dette primitive, Lévi-Strauss
non solo rivolge un attacco decisamente epistemologico all’evoluzionismo
sociale (in “Storia e Etnologia”, “Razza e Storia” ed in altri testi) così come
elabora una critica più profonda all’imperialismo della storia in generale – critica che si trova soprattutto negli ultimi due capitoli de Il pensiero
selvaggio.
Di conseguenza, fin dal 1949, Lévi-Strauss richiamava l’attenzione sul fatto
che il dibattito tra metodo storico e metodo sociologico fosse stato trasposto
verso l’interno dell’antropologia, praticamente fin dal momento in cui questa
disciplina si costituì come tale (1949: 15 [ed. it.: 14-15]), e che non fosse per
nulla difficile contrapporre, nella storia del pensiero antropologico, coloro che
occupano una posizione “storicista” a coloro che poterono arrivare ad essere
considerati veri “nemici della storia”.
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
77
Con il pretesto di costruire una stretta difesa dell’antropologia contro gli
attacchi della storia, Lévi-Strauss, in realtà, utilizza l’esperienza dell’antropologia per elaborare una critica generalizzata all’imperialismo della storia nel
pensiero occidentale. Il primo passo è esplicitare la polisemia del termine.
Come tutti sappiamo, ma talvolta tendiamo a dimenticare, per storia si possono intendere almeno tre cose ben differenti: la “storia degli uomini”, o storicità (quella che essi fanno “senza saperlo”), la “storia degli storici” e la “storia
dei filosofi”, o filosofia della storia (Lévi-Strauss, 1962).
I problemi di Lévi-Strauss con la storia si riassumerebbero, apparentemente, al terzo significato del termine, ed è contro l’idea che ci sarebbe un qualche
senso privilegiato della storia, e che questa definirebbe la stessa umanità degli
uomini, che l’ultimo capitolo de Il pensiero selvaggio fu scritto. Allo stesso tempo, credo che sia necessario tenere a mente che è molto difficile per la schiera
degli storici liberarsi completamente dalle tentazioni della filosofia della storia. Ed è estremamente significativo che alcune delle pagine più importanti di
“Storia e dialettica” vengano consacrate giustamente alla dimostrazione che
la conoscenza storica è tanto schematica come qualsiasi altra e che, oltre a
ciò, l’antropologia – cercando di adottare una prospettiva estranea a qualsiasi
società specifica e dirigendosi verso l’ignoto – tende a produrre un sapere più
includente di quello della storia.
Nonostante le apparenze, è quindi evidente che Lévi-Strauss ha sempre
saputo che il vero problema risiede nelle forme in cui viene concepita la storia
nel suo primo significato, ossia come storia degli uomini e come storicità. Anche il senso comune lo ha sempre saputo, e al di sotto delle accuse di nemico
della storia (filosofia o scienza) soggiace sempre quella, più grave, di un supposto misconoscimento della storicità stessa. È vero che l’autore ha sempre
cercato di controbattere a tali accuse, ma anche queste confutazioni non ci
devono far dimenticare l’essenziale: la novità introdotta da Lévi-Strauss per
ciò che riguarda i modi di pensare la storicità.
In primo luogo, questa novità deriva dal fatto che la storia comincia ad
essere pensata dal punto di vista dell’antropologia, ossia della diversità. Ed
anche se Lévi-Strauss si attiene a poche di tali forme, il fatto è che, almeno
di diritto, possono esistere tante forme di storicità quante di parentela o di
religione. La distinzione tra “storia fredda” e “storia calda” ha, giustamente,
l’obiettivo di ribadire questo punto.
Introdotti nel 1961, nelle interviste concesse alla Radio Francese a Georges
Charbonnier, questi termini si prestarono ad ogni tipo di fraintendimento –
come attesta il passo di Joanna Overing citato all’inizio di questa presentazione. Fin da Il pensiero selvaggio, Lévi-Strauss ha cercato di spiegarsi, spiegazione ripresa nel 1983, nel secondo “Storia e Etnologia” ed in Lo sguardo da
78
Marcio Goldman
lontano, e riassunta in un articolo recente che cerca di rispondere alle critiche
di due neo-sartriani:
Imputarmi la stessa concezione erronea implica un equivoco sul significato e l’efficacia della distinzione che ho proposto di fare tra “società fredde” e “società
calde”. Essa non postula, tra le società, una differenza di natura, non le colloca in
categorie separate, ma si riferisce alle attitudini soggettive che le società adottano di fronte alla storia, alle maniere variabili in cui esse la concepiscono. Alcune
accarezzano il sogno di permanere tali come immaginano di essere state create
nell’origine dei tempi. È chiaro che esse si ingannano: tali società non scappano
dalla storia più di quelle – come la nostra – a cui non ripugna il sapersi storiche,
incontrando nell’idea che hanno della storia il motore del proprio sviluppo (LéviStrauss, 1998: 108).
Commentando la questione in una intervista successiva, Lévi-Strauss attribuì il malinteso al fatto che “nessuno si è dato l’onere di riflettere. C’era una
vecchia distinzione, popoli con storia e popoli senza storia, allora essi dicono
che la mia distinzione è identica a questa” (Viveiros de Castro, 1998: 119).
Dobbiamo riconoscere, però, che il carattere oggettivo o soggettivo dell’opposizione tra storia fredda e calda non è così semplice. In un testo pubblicato
da oltre trent’anni, Marc Gaboriau sottolineava, nell’opera di Lévi-Strauss,
l’esistenza di due modelli con cui pensare la società e, più specificatamente, la
questione della storia. Il primo, che Gaboriau denomina “psicanalitico”, ma
che potrebbe essere detto “durkheimiano”,
attribuisce alla società una specie di riflessione oggettiva che non coincide con la
coscienza dell’individuo [...]. La società è come un soggetto, che reagisce ad un
esterno, correggendo le proprie deficienze (Gaboriau, 1963: 153).
Il secondo modello, che coesiste col primo, tratterebbe la società come una
“macchina”, gli aggiustamenti e reazioni deriverebbero dal suo funzionamento oggettivo, non da coscienze individuali o collettive.
In sintesi: è ovvio che Lévi-Strauss non accetta qualsiasi dicotomia apparentemente oggettiva tra società “con storia” e “senza storia”, per altro verso
le forme di reagire alla temporalità sono ora considerate come i semplici effetti
di un determinato tipo di struttura sociale, ora come il risultato di una specie
di volontà collettiva.
Alcuni anni prima dell’introduzione della distinzione tra storia fredda e calda, Lévi-Strauss aveva già proposto un’altra dicotomia cercando di demarcare
distinte forme di storicità – proposta che, forse anche più dell’altra, aveva sofferto una incomprensione fondamentale e suppongo che ciò sia dovuto al fatto
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
79
che “Razza e Storia” – nel quale l’opposizione tra storia stazionaria e cumulativa è presentata – ebbe come destino la rubrica di testo “introduttivo”. Letto
da quasi tutti durante i nostri primi studi di antropologia, è raramente rivisto
nel momento in cui diveniamo capaci di una riflessione più seria; preferiamo
indicarlo ai nostri alunni, il che chiude il cerchio e rilancia la maledizione.
Come parte delle nostre “Introduzioni all’antropologia”, “Razza e Storia”
è quasi interamente ridotto a ciò che non va oltre il suo preambolo: la critica
all’etnocentrismo ed al “falso evoluzionismo” o “evoluzionismo sociale”. Si
presta poca attenzione, così, al fatto che questo testo forse è l’unica proposta di applicazione, nel campo delle scienze sociali, di un modello veramente
evoluzionista, o per meglio dire, non la trasposizione di un lamarckismo o di
un darwinismo già fuori moda anche nel dominio delle scienze naturali, ma
l’evocazione della possibilità di un neo-darwinismo sociologico. Ossia, di una
riflessione ispirata dalle trasformazioni radicali che le scoperte di Mendel provocarono nella teoria evoluzionista, collocando al centro nozioni come quella
di caso, probabilità, mutazione e concatenazione delle trasformazioni – giustamente quelle che Lévi-Strauss pretende di recuperare per l’antropologia.
“Razza e Storia” procede per tappe. In un primo momento, storia cumulativa e storia stazionaria sembrano semplici sostituti dell’opposizione con/senza
storia. In seguito, siamo invitati a riconoscere, con esempi tratti dall’America
precolombiana, che la cumulatività non è un privilegio occidentale. Infine, a
questa relativizzazione “di fatto”, segue una relativizzazione “di diritto”: la distinzione deriva sempre da una specie di illusione ottica e se la storia dell’America appare cumulativa è perché siamo capaci di ritagliare e selezionare in essa
avvenimenti simili, in significato ed orientamento, a quelli che privilegiamo
nel nostro stesso divenire. Se, come dice Lévi-Strauss, “la storia non è, quindi,
mai la storia, ma la storia-per”, si può dire, a maggior ragione, che la storia
dell’America è cumulativa “per noi”. In altre parole, se la distinzione tra storia
fredda e calda è di ordine “soggettivo”, quella tra storia stazionaria e cumulativa lo è in un grado ancora più elevato:
Ogni qualvolta propendiamo a qualificare una cultura umana come inerte o stazionaria, dobbiamo dunque chiederci se questo immobilismo apparente non dipenda
dalla nostra ignoranza dei suoi veri interessi consapevoli o inconsapevoli e se, dotata di criteri differenti dai nostri, questa cultura non sia nei nostri confronti vittima
della stessa illusione (Lévi-Strauss, 1952: 73 [ed. it.: 120]).
Osserviamo, però, che la stessa ambiguità esistente nel modello storia “fredda” e “calda”, riappare a proposito della coppia stazionaria/cumulativa. Così
come il primo può essere interpretato o come parte del funzionamento di una
80
Marcio Goldman
macchina sociale o come derivando da qualcosa come una volontà collettiva,
la seconda è interpretata ora come un effetto delle prospettive relative di una
società di fronte ad un’altra (in una specie di relazione di intersoggetività sociale, quindi), ora come il risultato del fatto che una cultura si incontri isolata
o, al contrario, faccia parte di una “alleanza” culturale con altre società:
In tal senso, si può dire che la storia cumulativa sia la forma di storia caratteristica
di quei superorganismi sociali che costituiscono i gruppi di società, mentre la storia stazionaria – se esistesse davvero – sarebbe il contrassegno di quel genere di vita
inferiore che caratterizza le società solitarie (Lévi-Strauss, 1952: 89 [ed. it.: 137]).
Prima di tornare al triplice significato di “storia”, proponendo un’altra
lettura del suo significato, allontaniamo, in maniera preliminare, l’apparente contraddizione tra modello “psicanalitico” e “meccanico”. Non credo, di
fatto, che essi siano in opposizione. Possiamo sostenere, forse, che si tratti di
due maniere alternative di descrivere gli stessi fenomeni, ma ciò sarebbe fragile, anche se corretto. Meglio dire che termini come desiderio o volontà non
rimettono necessariamente a costanti radicate in una ipotetica natura umana o
sociale data in anticipo; che essi possono essere compresi come effetti soggettivi di funzionamenti che hanno luogo sul piano dell’intersoggettività prima,
e che si manifestano ugualmente al livello del sociologico propriamente detto.
La “volontà” di una società di resistere alla storia è il correlato – né causa né
conseguenza – di un macchinario sociale che funziona rendendo difficile il
lavoro della storia.
Credo che sia possibile, ora, tentare di riunire il campo semantico, solamente in apparenza disperso, dei tre significati della storia. Mi sembra che
al ritagliare il campo in questa maniera, Lévi-Strauss stia facendo qualcosa di
ben più profondo, che non semplicemente ricordare che il passare del tempo
è inevitabile, che gli storici si occupano di mappare ed organizzare i fenomeni
decorrenti da ciò e che la filosofia della storia è appena una dubbia forma di
auto-coscienza delle società occidentali.
Mi sembra, di conseguenza, che la triade venga gerarchizzata. Le distinte
storicità specifiche di ogni società o cultura costituiscono la forma particolare
attraverso cui esse reagiscono al fatto inevitabile che si trovano nel tempo o
nel divenire. In questo senso, tanto la “storia degli storici” quanto la “filosofia
della storia” fanno parte costitutiva della nostra forma specifica di storicità
o, almeno, di quella dominante in Occidente da molti secoli. Il che significa
semplicemente dire che della nostra forma di reagire alla temporalità fa parte
un certo tipo di riflessione su di essa. Forse qui risiede uno dei sensi dell’approssimazione tra mito e storia, o dell’ipotesi che la storia funziona, tra noi,
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
81
come il nostro mito. Molto più che una mera “relativizzazione” del sapere
scientifico, si tratta qui di rivelare che differenti tipi di storicità sono articolati
con differenti tipi di riflessione su di esse, i quali, a loro volta, fanno parte del
tipo di storicità sulla quale si riflettono.
La storia, come forma di sapere e auto-coscienza, è, quindi, caratteristica di
queste società che “interiorizzano risolutamente il divenire storico per farne il
motore del loro sviluppo” (Lévi-Strauss, 1962: 268 [ed. it.: 254]). Potremmo,
quindi, dire che facciamo parte di una società che è, prima di tutto, “a favore
della storia”, anche se in qualche momento può reagire ad essa. Se ciò è vero,
non è troppo considerare che esistono anche società “contro la storia”, quelle
che cercano, “grazie alle istituzioni che si danno, di annullare, in modo quasi
automatico, l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul loro equilibrio e
la loro continuità” (Idem).
Quindi, “contro la storia” è una espressione che deve, evidentemente, essere intesa nello stesso senso in cui Pierre Clastres parla di “società contro lo
Stato”. Ossia, non come semplice assenza o privazione, ma come un principio
attivo – il che allontana immediatamente qualsiasi minaccia di etnocentrismo.
Oltre a ciò, credo che sia possibile immaginare che buona parte delle proteste
contro coloro che, suppostamente, rifiutano alle altre società la benedizione
della storia derivano da una sorta di etnocentrismo elevato alla seconda potenza. Dato che, alla fin fine, chi ha detto che per avere dignità umana è necessario che la storia, così come la conosciamo, sia presente? E non si immagini, neanche, che la distinzione tra queste due attitudini di fronte alla storia
caratterizzi due gruppi o tipi di società. Anche se sempre in una relazione
di subordinazione, attitudini distinte sono simultaneamente presenti in ogni
società umana.
Joanna Overing ha, così, almeno il merito di aver intuito correttamente
l’approssimazione tra Clastres e Lévi-Strauss. Perché non sarebbe difficile
mostrare che oltre a fondarsi su dati etnografici precisi ai quali nessuno dava
molta attenzione, il modello di Clastres deriva giustamente da una profonda riflessione su questi testi “minori” di Lévi-Strauss. Come ha dimostrato
François Châtelet, qualsiasi sia il significato che si vuole prestare al termine
“storia”, questa è la parte essenziale di queste società che, da molto tempo,
hanno scelto il partito dello Stato. E lo stesso Lévi-Strauss lo ricordava quando, nell’intervista a Charbonnier, utilizzava una bellissima metafora e richiamava l’attenzione sul fatto che le società con “storia fredda” funzionano come
“orologi”, ossia in equilibrio e senza grandi disuguaglianze – senza potere coercitivo, direbbe Clastres. Quelle che conoscono la “storia calda”, al contrario,
sono come “macchine a vapore”, generando una enorme quantità di energia
ed accelerando il tempo al costo delle crescenti disuguaglianze tra gli uomini
82
Marcio Goldman
che tutti conosciamo – soprattutto oggi, quando il sogno saintsimoniano di
Lévi-Strauss, di una società che lasci il “governo degli uomini” per dedicarsi all’“amministrazione delle cose”, sembra sempre più distante, sostituita da
una vera e terribile “amministrazione degli uomini”.
Anche se ciò può apparire un tanto paradossale, credo che al distinguere e
separare la storicità in sé dai discorsi che, con il pretesto di riconoscerla pienamente, fanno il possibile per eliminarla, Lévi-Strauss abbia aperto il cammino
verso una riflessione storica lontana dalle trappole di tutti gli evoluzionismi e
di tutte le ideologie celebrative. Libera dalle false totalità e dalle filosofie della
storia, la storicità può riapparire nella forma dell’avvenimento e del divenire, e
la storia può riprendere i suoi diritti come riflessione critica.
Arrischierei, quindi, di dire che alcuni degli sviluppi contemporanei, usualmente presi come assolutamente estranei al pensiero di Lévi-Strauss, incontrarono in lui il punto di appoggio a partire dal quale potersi lanciare – ed è
principalmente all’opera di Michel Foucault che penso in questa sede3.
Se fosse necessario attenuare un po’ la stranezza suggerita dall’idea che
Lévi-Strauss potrebbe essere alle origini di alcuni dei quasi-storicismi contemporanei, io citerei solamente la testimonianza di un autore pochissimo sospetto
di connivenza con visioni anti-storiciste o anche con il cosiddetto “strutturalismo” – questa figura mediatica che nessuno ha mai saputo esattamente cosa
fosse. È proprio attraverso una lunghissima citazione, riunendo passi estratti
dall’ultimo capitolo de Il pensiero selvaggio, che Paul Veyne (1978: 23-24 [ed.
it.: 20-30]) proclama con enfasi il fatto che “tutto è storico” e che, pertanto,
“la Storia”, al singolare e con la maiuscola, “non esiste”. Ed è giustamente a
partire da questa dimostrazione che il suo libro Come si scrive la storia cerca
di rivelare la viabilità di un modello interamente storicista per l’esercizio della
disciplina storica. In un momento in cui stupidità di ogni tipo a proposito del
“progresso” e della “modernità” sono ripetute anche da alcuni antropologi,
questa lezione di Lévi-Strauss non dovrebbe essere dimenticata.
È difficile per me trovare le parole adeguate per ringraziare l’invito a partecipare a questo omaggio assolutamente necessario. Mi piacerebbe, però, terminare con una nota di ammirazione, parola che deve essere compresa tanto nel
suo significato etimologico, quello di una approssimazione che non esclude la
distanza, così come nell’accezione dello stupore e della meraviglia – condizio3
Si racconta che provocato dai fratelli Campos – che osservavano che la sua opera sembrava
trattenersi entro un limite situato al di qua delle trasformazioni più contemporanee della poesia
–, João Cabral de Melo Neto avrebbe detto che immaginava la sua opera come un trampolino:
l’estremità ben flessibile con il fine di rendere possibile i salti, ma con la base necessariamente
ben ferma.
3. Lévi-Strauss ed i significati della storia
83
ne di ogni lavoro intellettuale. Anni addietro è stata la lettura di Lévi-Strauss
che mi ha convito che, nel campo delle Scienze Sociali, era l’antropologia che
poteva aprirmi al tipo di riflessione che desideravo. Riflessione critica, capace
di avvicinare le questioni più diverse senza perdere il contatto con l’esperienza
vissuta. Uno dei maggiori valori di questa avventura intellettuale è stato giustamente quello di avermi modificato profondamente, facendo, così, che mi
allontanassi progressivamente e parzialmente dalle idee del suo ispiratore. Il
che, è chiaro, come ha detto Paul Veyne che vorrei nuovamente citare in conclusione, non ha la minima importanza:
è più importante avere idee che conoscere la verità; è per questo che le grandi opere [...], anche quando rifiutate, continuano significative e classiche [...]. La verità
non è mai il più elevato valore della conoscenza. (Veyne, 1976: 42).
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4. La storia pittografica
85
4. La storia pittografica1
Oscar Calavia Sáez
Nel xxi secolo, le riaffermazioni del Lévi-Strauss storico stanno divenendo
tanto comuni quanto lo furono, nel xx secolo, le condanne sommarie del LéviStrauss contrario alla storia. Parlo di secoli e non di anni o decenni, in omaggio ad una traiettoria intellettuale eccezionalmente lunga e ricca, ma anche
perché il nuovo secolo è testimone del fatto che alcune delle obiezioni dirette
alla posizione di Lévi-Strauss sono andate a finire, chi lo avrebbe detto, nella
spazzatura della storia.
La storia non è più quella dell’inizio degli anni ’60, quando vigeva una
versione estrema ed euforica dell’illuminismo e la coscienza umana sembrava
essere chiamata a dirigere il corso del tempo. Quaranta anni dopo, l’osservazione lévi-straussiana che la storia è utilizzata come un mito da parte dell’Occidente è presente nella nozione postmoderna delle grandi narrazioni. I due
più importanti, quello del progresso e quello dell’emancipazione, sembrano,
sempre più, miti nella peggiore delle accezioni. L’esacerbazione delle diseguaglianze, la resurrezione della Crociata e della Jihad o il ritorno dei nazionalismi
violenti hanno smentito anche troppo quella infelice tesi della fine della storia,
ma non per questo suggeriscono la sua continuità. Forse, invece, al contrario,
la sua tendenza alla reiterazione, i suoi vicoli senza uscita. La storia universale
ha perso buona parte del suo impero sulla storia delle minoranze, degli oggetti
o delle episteme. La storia è stata restituita ai popoli senza storia; forse perché
l’Occidente non ne era più interessato.
Infine, è nelle ore difficili che si rivelano gli amici, a volte nei luoghi più
inattesi. Una discussione a proposito del concetto di storia in Lévi-Strauss può
contribuire a regolare alcune vecchie controversie antropologiche, ma, soprattutto, è un buon punto di partenza per alcune nuove prospettive storiche.
1
Questo testo è la traduzione dall’originale in portoghese: “A história pictografica”, pubblicato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008), Lévi-Strauss - Leituras brasileiras.
Belo Horizonte: Editora da ufmg, p. 125-146.
86
Oscar Calavia Sáez
Alcune riserve devono essere fatte al testo che segue. Esso deve molto al
lavoro che gli etnologi hanno dedicato negli ultimi decenni alla storia degli
antichi “popoli senza storia”. Sono tentativi di ripensare la storia a partire dai
suoi margini. Anche se le idee lévi-straussiane già da molti anni stanno fecondando terreni più classici, specialmente i medievalisti e gli ellenisti2, anche se
esse sono più o meno presenti in tutte le produzioni di ciò che siamo abituati
a chiamare storia culturale, non mi sembra che siano arrivate al cuore della
disciplina. Non pretendo che gli storici ortodossi, quelli che si incontrano di
prassi nei dipartimenti e sugli scaffali della storia, condividano necessariamente i giudizi che seguono e che, in molti casi, ancora possono avere un potenziale di polemica. Questo articolo non entrerà nella polemica, ma cercherà di
definire meglio uno dei suoi protagonisti. Servirebbe a poco reiterare vecchi
argomenti appoggiati in vecchi equivoci.
Il secondo appunto si riferisce alla relazione di queste rivendicazioni con
l’opera dell’autore indicato. Egli stesso ebbe molte occasioni di discutere a
rispetto, ad esempio, del binomio società fredde/società calde e delle sue
interpretazioni. Autori come Goldman (1999, [in questo volume; cap. 3]) o
Johnson (2004) hanno commentato in dettaglio le opere di Lévi-Strauss che
trattano in maniera esplicita della storia3. Questo testo, fedele alla presentazione orale che gli ha dato origine, è una presentazione sulle metafore lévi-straussiane, che non aspira a precisioni filologiche e che si riferisce con frequenza ad
opere molto distanti dal tema in questione. Non sono sicuro che Lévi-Strauss
sottoscriverebbe queste interpretazioni, tra l’altro perché esse focalizzano le
discontinuità di un’opera la cui continuità il suo autore ha sempre cercato di
affermare. Ma questa è, alla fine, la servitù dei classici: la memoria che è loro
garantita non è per forza accompagnata da una perfetta fedeltà.
Società fredde versus società calde, orologi versus macchine a vapore
Si deve cominciare da un contesto molto spesso dimenticato. Tutti gli scritti di Lévi-Strauss sulla storia hanno un proposito comune, quello di difendere
Pensiamo specialmente alle opere di Jean Pierre Vernant e di Jacques LeGoff e di tutto il
movimento rinnovatore della storia in cui essi si situano.
3
Questo articolo deve molto ad entrambi i testi. Al primo, in maniera generale; a quello di
Johnson nel capitolo dedicato alla storia come gioco della roulette. Un altro testo, di Mauro
W.B. Almeida (1999) è alla base del capitolo sull’entropia. È anche in sintonia con la rivendicazione di Lévi-Strauss con lo storico Gow (2001: 10-17). Per il resto, ricapitola e prosegue alcune
idee da me già esposte in scritti precedenti (Calavia Sáez, 2002, 2005).
2
4. La storia pittografica
87
i popoli “studiati dagli etnologi” da quegli argomenti che li escludono dalla
storia, o che solo permettono loro di entrarvi a partire dal loro ingresso nel
sistema coloniale. Confrontandosi sulla stessa visione, gli etnostorici hanno
argomentato che questi popoli possiedono, alla fin fine, qualche tipo di storia;
si è scavato un luogo in seno al discorso storico per l’oralità e la narrazione mitica, cercando, così, di raffreddare l’argomento contrario. La strategia di LéviStrauss è un’altra: egli affronta questo argomento contrario nella sua totalità.
Invece di avocare che gli altri non sono poi così tanto altri, egli parte dalla
differenza e si appoggia sui popoli primitivi per indagare la nozione stessa di
storia ed i presupposti ad essa associati. Al posto di sostenere, ad esempio, che
i miti sono un tipo di storia, Lévi-Strauss postula – come sappiamo, nella sua
polemica con Sartre – che la storia è un tipo di mito. Non può sorprendere che
i risultati fossero polemici.
È inevitabile riferirsi primariamente a questa distinzione tra società fredde
e calde, che è stata lo spaventapasseri preferito dei critici4. Il binomio “freddo/
caldo” è stato subito confinato all’interno delle stesse coordinate di “primitivo/moderno” o di “selvaggio/civilizzato” ed a servire come un riassunto di
tutte le formule utilizzate per escludere dalla storia la maggior parte dell’umanità. In realtà, questa esclusione era stata, e lo era ancora quando Lévi-Strauss
propose la sua allegoria, un denominatore comune di quasi tutti gli orientamenti teorici. I modi ed i motivi variavano. Gli altri potevano essere “senza
storia” perché ne erano accidentalmente rimasti ai margini, o perché mancavano della capacità di cambiare, o semplicemente perché, in mancanza dei mezzi
per registrare le proprie esperienze, non erano in grado di oggettivare questa
esperienza. In ogni caso erano i titolari di una carenza.
In questo contesto, la differenza tra società fredde e calde offriva la possibilità di rendere positive queste differenze apparenti tra noi e gli altri. “Freddo/
caldo” è venuto non per rinforzare, ma per dislocare binomi come “primitivo/contemporaneo” o “selvaggio/civilizzato”. Una lettura degna di questo
nome rivela che Lévi-Strauss si stava riferendo non a qualità obiettive di una
o dell’altra società, con o senza storia, ma a modi di percezione differenti di
una storia che coinvolge tutti5. Le società fredde focalizzano le permanenze e,
con ciò, riescono a creare l’illusione di uno stesso canone che si ripete indefinitamente: succeda ciò che succeda, i membri del clan A continueranno a
4
L’idea è stata esposta per la prima volta da Lévi-Strauss nelle interviste radiofoniche concesse a Georges Charbonnier nel 1959 (Charbonnier, 1989), assieme a quella degli orologi e
delle macchine a vapore.
5
È questa la difesa che lo stesso Lévi-Strauss espone in un’altra intervista posteriore (Eribon
e Lévi-Strauss, 1988: 160-161 [ed. it.: 176]).
88
Oscar Calavia Sáez
sposarsi con quelli del clan B ed i loro figli apparterranno al clan C; chiunque
sia che occupi una posizione, egli sarà chiamato X ed avrà gli attributi di X;
qualsiasi siano i nuovi oggetti o pratiche, essi saranno integrati in un mito delle
origini, come se lì si trovassero fin dalle origini. Al contrario, le società calde
focalizzano i conflitti, i cambiamenti, e di essi ne fanno i cardini della propria
esperienza: il risultato, né più né meno illusorio, è un mondo ricreato ad ogni
secolo, ad ogni generazione o ad ogni anno (le società calde hanno bisogno di
essere sempre più calde). Ad ogni pagina del suo giornale, il lettore scopre due
o tre eventi che alterano o andranno ad alterare il corso dell’umanità: gli anticoncezionali, la telefonia mobile, i Beatles, i transgenici. È chiaro che caldo/
freddo non è una descrizione discreta, ma un gradiente nel quale possiamo determinare molte posizioni: una società assolutamente fredda è un tipo ideale,
tanto quanto una società assolutamente calda. Ovunque si riconosce qualche
cambiamento o qualche permanenza. Ma, soprattutto, è necessario notare che
questa distinzione recupera precisamente il soggetto storico, o più esattamente concede una rilevanza alla sua capacità cognitiva. A questo proposito, molti
discorsi storicisti centrati sul soggetto storico cadono in una contraddizione
fatale: il soggetto ha o non ha coscienza della storia, ma appare come se questa
storia sia data indipendentemente dalla sua coscienza. Si può perdere il treno
della storia, o si può salire sul vagone appropriato, ma non esiste alcuna possibilità di alterarne il tragitto, tanto meno la velocità del convoglio. La distinzione caldo/freddo introduce una distanza sostanziale tra l’agente storico e la
storia, o tra la storia e la storiografia. Una distanza che non serve a separare,
ma a mettere in relazione. Un soggetto storico si mostra come tale ancor più
quando scende dal treno della storia per, ad esempio, proseguire a piedi.
Al contempo, questa difesa della storicità lévi-straussiana sarebbe anche
troppo facile se non ricordassimo che assieme a questa allegoria delle società
fredde e calde Lévi-Strauss ne propose un’altra che apparentemente contraddice la precedente interpretazione. In questo caso, si tratta di orologi versus
macchine a vapore: ci sarebbero da un lato le società “orologio”, in cui tutto
è preparato per una riproduzione stabile degli stessi cicli e delle stesse forme,
con una minima tassa di esternalità, ossia, con un consumo minimo di risorse
ambientali ed una risoluzione interna dei conflitti. Sono società che tendono
all’autosufficienza e, per usare un termine di moda, sostenibili. Dall’altro,
avremmo società che Lévi-Strauss compara alle macchine a vapore, che operano massimizzando le loro differenze interne, promuovendo conflitti che
solo incontrano una soluzione (provvisoria) ricorrendo all’esterno, cercando
nuovi soggetti, spazi o risorse. L’immagine della macchina a vapore – tanto
emblematica di una rivoluzione industriale già antiquata nel momento in cui
4. La storia pittografica
89
Lévi-Strauss la propone – evoca la visione marxista, in cui le contraddizioni
in seno alle relazioni di produzione portano periodicamente a rivoluzioni e,
attraverso queste, a nuovi modelli di produzione, necessariamente più espansivi dei precedenti. Nuovamente, e nonostante la maggior parte delle esperienze umane si situi in un qualche punto intermedio tra un estremo e l’altro,
percepiamo che i modelli ideali che servono di ispirazione alla metafora sono
di nuovo i primitivi ed i moderni; questo binomio è il fratello gemello del
precedente. Ma, come in quel caso, Lévi-Strauss ci dice chiaramente che le
società sono così.
Non si tratta più di una percezione o di una ideologia. E neanche si tratta
di condizioni o capacità umane differenti. La meccanica e la termodinamica
sono modi di fare la storia, non principi che distinguono segmenti dell’umanità. Notiamo anche che, nonostante la facile analogia tra la coppia freddo/
caldo e la coppia orologi/macchine a vapore, Lévi-Strauss sta utilizzando due
allegorie per portare alla luce ciò che sembrava essere una unica differenza ed
è questo che lo distanzia dall’evoluzionismo. Azione e riflessione, o se vogliamo, storia e storiografia, si articolano ma non si confondono. Forse è difficile
pensare a società estremamente conservatrici o innovatrici di fatto che non lo
siano anche di diritto e di intenzione. Ma tra le une e le altre – tra il villaggio
bororo e la voragine del mondo industriale –, c’è uno spazio molto ampio
per la discrepanza tra storia e coscienza storica. Rivoluzioni mascherate da
restaurazioni, cicli percepiti come percorsi lineari, strutture che si rivelano
dense e dure alla fluidità degli eventi. È il paradosso di Lampedusa: tutto
cambia perché tutto resti uguale, o simmetricamente, tutto rimane uguale
perché tutto cambi. Anche quando ci rifiutiamo di ammettere una frontiera
chiara tra i fatti e le percezioni dei fatti, troviamo qui questa duplicità che
gli umani affrontano nella loro esperienza. Pensiamo, ad esempio, alla persistenza dell’antico regime in una società come quella europea del xix secolo,
in contraddizione con la sensazione di rapido cambiamento in tutti gli ordini
(Mayer, 1990); o al contrario, all’attenzione con cui l’Impero della Cina è
riuscito ad auto-ritrarsi come un universo immutabile nonostante una storia
enormemente complessa ed agitata. Come caratterizziamo una società come
quella dei Tupinambá, la cui temporalità si ancorava in un frenetico ciclo di
vendetta (Carneiro da Cunha e Viveiros de Castro, 1986)? Calda, per l’ossessione della recente offesa e la prossima vendetta? Fredda, per la ripetizione di
questo ciclo? Al limite, i binomi lévi-straussiani non sono fatti per classificare:
essi ampliano il contrasto tra tempo e temporalità, ed allargano di molto il
catalogo delle storicità umane.
90
Oscar Calavia Sáez
Storia ed entropia
Assieme a questa diversità, l’idea delle macchine a vapore inserisce, ad ogni
modo, un vettore comune, perturbatore, perché, al limite, ricolloca la storia
umana nella storia naturale. Una macchina a vapore funziona consumando
energia e generando calore a partire da essa. Solo una parte di questo calore si
trasforma nuovamente in energia; solo una parte della materia consumata da
essa si trasforma nuovamente in materia organizzata: il resto si diluisce come
calore residuale, degradando l’ordine. È, insomma, la famosa seconda legge
della termodinamica, il cui prestigio si applica ai più diversi domini dell’essere, inclusa, sicuramente, la condizione umana.
Il contrasto tra la struttura (più esattamente, la simmetria) e l’entropia informa tutta l’opera di Lévi-Strauss e vale per un commento a proposito della storia, anche quando non è formulato come tale6. La storia può apparire
nell’opera di Lévi-Strauss come un processo entropico che le società fredde/
orologio si sforzano di ritardare, e le società calde/macchine a vapore contribuiscono ad accelerare. I secoli consumano la sociodiversità e la biodiversità,
dissolvendo gli ordini locali, siano culturali indigeni o forestali, per collocare
al loro posto imperi globalizzati o monoculturali. Personalmente penso che sia
degna di un elogio questa reintegrazione dell’umano all’interno del cosmico,
anche se fosse solo per controbilanciare l’umanesimo stretto con cui si tende
ad escludere la “natura” dalla narrazione storica. Ma è vero, per altro verso,
che la seconda legge della termodinamica, formulata in termini macroscopici,
ha un rilievo discutibile nella scala temporale umana. Si può identificare una
entropia immediata nella dissoluzione delle culture, ma sappiamo che l’ordine è ricostituito, nuove classificazioni sostituiscono le antiche, e, alla fine, è
ammissibile il dubbio che il prodotto delle successive globalizzazioni sia un
mondo più omogeneo che non quello che lo ha preceduto. Lévi-Strauss, in
realtà, si mostra molto più sensibile al primo movimento, quello della dissoluzione, tema centrale di Tristi tropici, che riappare in ogni intervista che, ormai
centenario, concede ogni tanto.
La capacità di ricostruire resta in secondo piano e non ci sono dubbi che
l’associazione con l’entropia introduce una visione pessimista della storia in
due sensi: morale ed epistemologico. Il senso epistemologico è molto rilevante
6
Ricordiamo che, come è stato detto, la storia è utilizzata frequentemente come mito: in
questo senso, è già stato detto, ad esempio, che ogni rivoluzione ha il suo Robespierre, il suo
Danton ed il suo Fouquier-Tinville, trasformati così in paradigmi. Don Quixote o Madame
Bovary possono essere visti come paradigmi. Ma la funzione dello storico e del romanziere è
precisamente quella di fuggire dal paradigmatico in direzione dell’individuale.
4. La storia pittografica
91
per l’argomento del presente testo. Suggerisce che la storia è una modalità di
sapere che tende al caos, è un flusso del quale niente può essere detto se non
che operiamo in esso tagli sincronici: narrare la storia è giustapporre immagini fisse, la cui comparazione suggerisce il movimento. Al di sotto di questa
illusione narrativa ci sarebbe un movimento indicibile, che incarnerebbe l’irriducibilmente storico: la degradazione delle forme, la loro serializzazione. In
nessun momento Lévi-Strauss è tanto esplicito in questo senso come quando
tratta, nel terzo volume delle Mitologiche, della “morte dei miti” e della loro
trasformazione in romanzo (forse, potremmo dire, anche della loro trasformazione in storia). I miti cominciano a morire quando i loro episodi si reiterano, trasformandosi in una serie di avventure. Al posto dei grandi contrasti
simbolici che organizzano i miti sorgono le sfumature, ed al posto degli eventi
paradigmatici le eventualità dei protagonisti. Il mito – da ciò l’interesse degli
antropologi per esso – codifica il romanzo, come la storia, dissolve i codici7.
Lo storico stricto sensu è uno sfondo che si intuisce ma che non può essere
veramente pensato e detto, a differenza delle forme veramente pensabili, le
strutture, isole in un oceano di incertezza. L’elementare ed il meccanico hanno
un valore intellettuale perché è a questo livello che l’esperienza e la cognizione
umana si possono incontrare.
Ciò che c’è di veramente anti-storico nel pensiero di Lévi-Strauss è, insomma, la sua morale. Le società fredde appaiono non come società ingenue,
ma come società eroiche impegnate in trattenere o diminuire il ritmo di una
dissoluzione irreversibile. La storia è contemplata più come degradazione che
come costruzione, il che definitivamente non è ciò che piace alla maggior parte
degli storici. Ma fare di questo disgusto una ignoranza equivarrebbe a proporre che la storia deve essere patrimonio di coloro a cui piace. Come ha già
detto da qualche parte Emil Cioran, i pensatori reazionari non sono quelli che
apprezzano i vecchi tempi, ma coloro che pensano sia possibile tornare ad essi.
E Lévi-Strauss, malgrado la sua ossessione con l’entropia, è contrario a questa
linea del tempo sulla quale reazionari e rivoluzionari misurano le loro forze.
Freccia del tempo versus roulette8
La freccia del tempo – un oggetto di apparizione fugace nelle enciclopedie
e sulle lavagne – è forse la rappresentazione più comune della storia intesa alla
7
8
Questo item segue, in linee generali, le idee esposte in Almeida (1999).
Questo capitolo è, essenzialmente, una parafrasi di Johnson (2004).
92
Oscar Calavia Sáez
maniera occidentale: suggerisce linearità, irreversibilità ed una direzione definita. Per quanta attenzione vogliamo dare alla diversità delle culture umane,
è difficile sfuggire alla sensazione che tutte esse appaiono convergere nella
direzione di un unico destino, e anche la freccia serve a questo: in maniera
minimalista, essa rappresenta il progresso.
Nel 1952, Lévi-Strauss intraprese la sua impugnazione della freccia del tempo in una opera ben conosciuta: “Razza e storia”, su richiesta dell’Unesco, sulla
scia della lotta antirazzista e dei processi di decolonizzazione che sorgevano
allora. Ancora una volta, si trattava di rifiutare l’idea della storia come un privilegio di una razza o di una civilizzazione, e da ciò anche l’idea di un destino
unico per tutti i gruppi umani, e dell’inevitabilità del dominio occidentale.
La prima provvidenza presa da Lévi-Strauss è di riformulare o, a rigore,
raffreddare la storia universale, presentando una relazione di lunga durata, in
cui i movimenti veramente critici si disperdono nel tempo e nello spazio, invece di concentrarsi in questa mezza dozzina di secoli marcati dal predominio
europeo. Movimenti come la rivoluzione neolitica, l’invenzione e lo sviluppo
della scrittura, il divorzio tra umanità e natura operati dai monoteismi sostituiscono i segni della storia eurocentrica, la cui rivoluzione tecnico-scientifica
si somma a queste virate decisive. In questa scala ampliata, l’esperienza della
civilizzazione occidentale ci appare come una esperienza molto più puntuale
ed aleatoria: avvenne, potrebbe non essere avvenuta, ridurrà un giorno il suo
significato, sparirà più avanti. In questa scala, anche le innovazioni europee si
livellano con altri fatti umani; poche invenzioni e scoperte (evocando il binomio di Morgan) uguagliano il potenziale storico che mostrarono l’agricoltura,
la ceramica o la scrittura, tecniche che la civilizzazione occidentale incontrò
già pronte. Ma, quali che siano i meriti dei moderni e dei neolitici, non sarebbero tutti loro compresi nell’attuale civilizzazione? La freccia del tempo
concentra il valore della storia nella sua punta. Sarà che le esperienze recenti
– fin dagli anni ‘50 non mancarono nuovi argomenti – non stanno mostrando
precisamente che questa storia occidentale, indipendentemente dal passato
remoto, è in qualche modo un cammino privilegiato, al quale si devono unire
inevitabilmente tutte le altre storie? È questa la premessa della storia cumulativa, in cui ogni momento integra i precedenti e, elevato a causa, determina i
successivi. Nella visione comune degli storici, la causalità storica è una prova
imponente: prima o poi, Cartagine doveva essere distrutta da Roma, e Roma
distrutta dai barbari; c’erano motivi sufficienti perché ciò avvenisse, indipendentemente dal caso.
Ma la causalità storica soffre un importante limite: essa funziona solo retrospettivamente. Ciò che il giorno dopo è una necessità storica non passava di
una eventualità alla vigilia, e quando uno storico si mostra capace di prevedere
4. La storia pittografica
93
quello che avverrà un anno o un secolo dopo, senza dubbio elogeremo la sua
chiaroveggenza, ma non senza sospettare, in fondo, che egli semplicemente ha
fatto una scommessa fortunata. La storia non ha mai osato includere la futurologia come sottodisciplina regolare. Lévi-Strauss tira le somme di questa limitazione ben conosciuta della storiografia e le applica coerentemente alla storia.
Egli lo fa con una allegoria opposta a quella della freccia del tempo, quella del
gioco della roulette. La storia, in questa versione, non è più il percorso di una
freccia, ma una successione di giocate di roulette, necessariamente discontinue. Non esiste giocatore che non tenti di addomesticare il caso, cercando una
logica nella sequenza dei lanci, e non definisca in funzione di essa la propria
strategia, ma sappiamo che, se il croupier è onesto, questa logica non esiste. La
storia come roulette suggerisce che la successione dei momenti storici si deve
ad una scelta aleatoria tra le scommesse, ossia, tra i differenti futuri che ogni
momento storico propone.
Ma questa scommessa per il caso, poco congruente con l’ethos o con il pathos scientifico, può apparire temeraria. Sarebbero potute prevalere, ad esempio, le civilizzazioni amerindie di fronte agli invasori europei? La storia degli
ultimi secoli sembra essere, al contrario, un gioco truccato: una civilizzazione
si impone sulle altre inglobandole, senza lasciare molto spazio alla fortuna.
Per salvare la sua allegoria, Lévi-Strauss ricorre a ciò che chiama coalizioni.
Pensiamo ad un pool di giocatori che combinasse le proprie giocate al banco
della roulette: il gioco non smetterebbe di essere aleatorio, ma se il pool fosse sufficientemente grande avrebbe grandi possibilità di vincere lancio dopo
lancio. L’Occidente sarebbe una coalizione di questo genere, forse la più conosciuta. Esso ingloba le conoscenze, le tecniche, la storia di una infinità di
popoli e la sua identità è costruita retrospettivamente, richiamando l’eredità
di civilizzazioni genealogicamente distanti dal mondo europeo. La differenza
fondamentale tra le società si troverebbe non nella loro potenzialità intrinseca, ma nell’opportunità che hanno avuto di stabilire tali coalizioni: la lotta
non è tra l’arcaico ed il moderno, ma tra la comunicazione e l’isolamento. Il
continente americano è, per Lévi-Strauss, un esempio di tale antagonismo.
Gli ampi scambi realizzati tra le centinaia di popoli amerindiani costituirono
civilizzazioni poderose, ma relativamente ristrette. Non furono al pari di conquistatori che portavano con loro l’esperienza di una interazione secolare tra
tre continenti. Non furono alcune centinaia di avventurieri che distrussero gli
imperi mesoamericani o andini. Essi vennero appoggiati da Europa, Asia e
Africa, portavano con loro una arte politica, una tecnica militare ed una esperienza storica dell’alterità che oltrepassava in diversità le creazioni originali del
mondo americano; un potere che includeva ma che andava ben oltre i cavalli
e le armi da fuoco.
94
Oscar Calavia Sáez
Se il gioco della roulette guadagna, così, in verosimiglianza, esso perde,
nella stessa misura, la propria originalità. Alla fin fine, non sarebbe questo
concetto di coalizioni un altro modo di esprimere il carattere cumulativo della
storia? No, perché c’è una differenza vitale tra questa roulette storica, con le
sue coalizioni di scommettitori ed i suoi giocatori individuali, e la freccia del
tempo. Le coalizioni di giocatori non lasciano indietro il giocatore individuale, che continuerà giocando con la sua unica fish. È per questo che le società
“primitive” sono nostre contemporanee con pieno diritto: le loro giocate continuano ad essere valide, non sono state annichilite dal passare del tempo. Un
sistema di parentela, o una terapia, o un modo di relazionarsi con l’ambiente
“primitivi” sono scommesse indipendenti, che conservano le proprie probabilità; non esiste un’esperienza umana definitivamente lasciata indietro. Non è
possibile tornare indietro nella storia, ma le altre storie non sono il passato: sono
virtualità verificabili. Di fatto, guardandoci attorno e comprovando quanto di
arcaico torna per inserirsi nei cambiamenti dell’ultimo minuto – consideriamo
le situazioni create dalle tecnologie riproduttive, le relazioni tra religione e
politica o le nuove mode di alterazione del corpo – possiamo comprovare che
l’allegoria della roulette non è una fantasia nostalgica: ci sono evidenze di essa
ed i suoi risultati non sempre sono gratificanti. Ma sempre potremmo preferire la sorte di un giocatore a quella di un dipendente del destino.
Nomotetico versus idiografico
Nel loro insieme, le allegorie prese in rassegna costituiscono una filosofia
della storia, elaborata in termini macroscopici e, come sappiamo, pessimistici:
una passione distante dalla storia, una attività di lettura mai tradotta in ricerche proprie. C’è, però, un’altra dimensione in cui Lévi-Strauss fa storia.
Per comprendere come, è necessario ricordare che lo storico non solo parla
a riguardo della temporalità della narrazione – l’aspetto di cui ci siamo occupati fino a questo momento –, ma anche dello statuto epistemologico delle
scienze umane. La storia è l’eponimo di ciò che Windelband chiamò scienze
idiografiche, in opposizione alle scienze nomotetiche. Le scienze nomotetiche,
lo sappiamo, sono quelle capaci di scoprire regolarità, formulare leggi e fare
predizioni ragionevolmente esatte. Le scienze idiografiche conoscono l’esattezza solo retrospettivamente: esse descrivono, ma lasciano molto a desiderare
quando predicono. La storia è il paradigma di queste, capace, eminentemente, di legittimarsi senza alcun appello al nomotetico. La storia è dotata di un
effetto di verità indipendente da regolarità e previsioni. Al limite, può abbandonare le leggi e avventurarsi nel caos: lo storico è nel suo diritto quando
4. La storia pittografica
95
dissolve canoni suppostamente comuni, differenzia contesti, mostra eccezioni,
decostruisce identità e, insomma, mostra come ogni istante storico è un caso
unico se osservato con sufficiente dettaglio. È chiaro che tutto questo lavoro
disgregatore non servirebbe a nulla se alla fine non fosse ricapitolato un qualche tipo di ordine, e l’ordine prototipico della storia si basa sull’idiogramma.
Vediamo due esempi classici, separati da alcuni decenni e da una larga
differenza di sensibilità. Il vasto volume Paidéia, di Werner Jaeger, pubblicato
la prima volta nel 1936, traccia un panorama dell’universo ellenico attraverso
la nozione che dà il titolo al libro. I suoi dati vengono da un campo esteso,
anche se quasi esclusivamente letterario: la letteratura, la scienza e la filosofia
greche. Un altro autore avrebbe potuto fare appello ad un altro tipo di documentazione riguardante l’organizzazione sociale, il sistema di parentela, la
cultura materiale. Ciò che importa, in ogni caso, è la presenza di un idiogramma, quello della Paidéia, che fornisce un filo conduttore: ci sono, nel corso
di questo ampio catalogo, pratiche e nozioni che possono essere astratte in
questo concetto.
L’altro esempio è un testo di Paul Veyne, che tenta di definire il valore
dell’opera di Michel Foucault per il rinnovamento della storia (Veyne, 1982).
L’enigma da lui proposto è quello di sapere come gli imperatori romani finirono per proibire le lotte dei gladiatori che essi stessi avevano lungamente incentivato. Scartate come insufficienti le cause allegate da vari autori, scartato il
peso determinante di tale o talaltra infra-struttura o dottrina – ovvero, scartate
le spiegazioni –, ciò che ci resta è la diversità di pratiche e rappresentazioni
della regalità. L’impero non è un fenomeno unico: esso può presentarsi come
una presenza divina, o come un potere predatorio, o come una vigilanza pastorale che deve regolare i conflitti, amenizzare i costumi ed allontanare i sudditi
dal piacere del sangue. Niente ci permette di predire quando e perché il potere
adotterà forme benevole e paternalistiche, ma questa rappresentazione ci permette di descrivere, interpretare e comparare. Il monarca-pastore differenzia
momenti all’interno dell’Impero Romano ed identifica configurazioni somiglianti in altri imperi. Questo oggetto storico è un altro idiogramma.
Gli esempi potrebbero essere migliaia. La parole-chiave delle scienze umane sono, in grande parte, idiogrammi: la globalizzazione, la rivoluzione, il barocco, il millenarismo, la modernizzazione sono termini, alle volte, estratti da
un contesto concreto e generalizzati, altre volte coniati direttamente da uno
storico, ma usati sempre come astrazioni. Sappiamo che ognuno di essi può
essere scartato, smontando le generalizzazioni che lo hanno costruito, ma è in
virtù di essi che siamo capaci di interpretare la storia.
96
Oscar Calavia Sáez
Discontinuità in Lévi-Strauss
Lévi-Strauss non si è mai visto sedotto dallo charme dell’idiografico. In un
certo senso, potremmo dire che tutta la sua opera era destinata ad esorcizzare
questa possibilità. L’idiografia utilizza concetti nativi, anche se il nativo è il
proprio autore: ossia, concetti che possono essere estesi, ma non universalizzati
e, pertanto, poco adatti per fondare il programma scientifico lévi-straussiano.
Questo programma è, di diritto, nomotetico. Lo strutturalismo, e in particolare il suo ricorso alla linguistica – la scienza umana che più è stata capace di
formulare regolarità e leggi –, indica in questa direzione. La storia, per LéviStrauss, appare essere tutto il contrario di ciò e le allegorie già commentate lo
lasciano sufficientemente chiaro. La storia sembra sedurre Lévi-Strauss come
lo fa un altro irriducibile; non perché esibisce regolarità che si approssimano
al suo ideale di conoscenza, ma perché esse, con la loro complessità ed il loro
tenore aleatorio, sono immagini di tutto il contrario.
Al posto di optare, come i partigiani dell’idiografico, per uno spazio intermedio tra la scienza esatta e l’indefinitezza, Lévi-Strauss sembra optare consistentemente per gli estremi. Da un lato, le formule, le equazioni ed i modelli,
dall’altro, il caos del reale. Ma questo caos storico sarà qualcosa di più che un
panno di fondo sul quale si distacca la sua attività di scienziato? Di fatto LéviStrauss dice esattamente questo quando, da qualche parte, parla dell’esperienza umana come di un oceano confuso da cui si elevano alcune isole di ordine,
oggetto legittimo dell’antropologia, o dell’antropologia strutturale.
Già lo sappiamo: ma l’opera di Lévi-Strauss rimane confinata a due o tre di
queste terre ferme – i sistemi di parentela, la logica dei miti o delle classificazioni – o, al contrario, essa è una navigazione attraverso spazi più incerti? Per
questo, dobbiamo ammettere che esiste una separazione, o una torsione, tra il
Lévi-Strauss programmatico ed il Lévi-Strauss che elabora le sue opere prime
della maturità.
Un buon esempio di ciò è la sua seconda grande incursione negli studi
sulla parentela, centrata sulla nozione di casa. Lévi-Strauss aveva presentato
in Le strutture elementari della parentela, del 1949, un buon esempio del suo
programma iniziale: tutta l’oscena variabilità dei sistemi di parentela poteva essere ridotta alla combinazione di due regimi di scambio e tre modelli
di alleanza; il libro includeva la promessa di un nuovo volume dedicato ai
sistemi complessi, che, come sappiamo, non è mai stato scritto. Al posto di
questo, molti anni dopo, Lévi-Strauss lanciò, all’interno della subdisciplina,
la nozione di casa, rilevante per comprendere i sistemi cognatici in cui la storia appare in primo piano. La casa appare, a prima vista, un idiogramma,
ma non si comporta come tale. Invece di incamminarsi, attraverso numerosi
4. La storia pittografica
97
esempi, verso una definizione sempre più depurata, essa sembra che vada
dissolvendosi nella sua variabilità. In ogni luogo, essa si lega a dati ecologici,
sociologici, cosmologici e storici diversi, trasformandosi in un caleidoscopio
virtuale di case possibili e tutte queste varianti non sono anomalie di un qualche modello fisso, ma costitutive della nozione che viene proposta. La casa è,
più che un concetto, una vaga nozione. O, per onorare il nostro titolo, la casa
è un pittogramma.
Pittografia e pensiero selvaggio
Come ben sappiamo, la pittografia è quel sistema di scrittura che, secondo le narrative evoluzioniste, precede l’idiografia e la scrittura fonetica. C’è
ragione di dubitare di questa gerarchia evolutiva, perché i tre sistemi convivono tanto nella scrittura egizia quanto nei sistemi di comunicazione moderni.
Prendiamo i segnali stradali. In essi coabitano gli esempi di scrittura fonetica,
nei nomi delle città, nei limiti di velocità; gli idiogrammi, nei significati convenzionali dei colori come il rosso, l’azzurro, il verde, o nelle forme geometriche come il triangolo, il cerchio, ecc; ed, infine, i pittogrammi, figure la
cui interpretazione non è totalmente data dalle convenzioni del codice della
strada, alludono ad altri contesti e non sono liberi da una qualche ambiguità.
Il profilo di un bovino allerta del pericolo di collidere con un animale di grande stazza, ma in alcune strade del Pará il bovino è sostituito da un granchio,
ed un guidatore di fuori probabilmente non saprà che il pericolo qui consiste
non nello sbattere contro l’animale, ma nel pattinarci sopra. I pianificatori
del traffico preferirebbero, senza dubbio, prescindere dai pittogrammi e dalla
loro ambiguità – sostituendo vacche, canguri e granchi da un idiogramma che
significhi “animali liberi” – ma la diversità delle situazioni possibili va oltre. I
pittogrammi divengono necessari.
Il pittogramma non è una scrittura rudimentale, ma una scrittura differente: massimo potere evocativo, minimo controllo del significato. Nella misura
in cui il suo significato rimane sotto controllo, si trasforma in idiogramma e
conseguentemente si astrae. Continuerà a essere un pittogramma fintanto che
la sua equivocità porterà con sé un valore. Il disegno di una tigre può essere
utilizzato come fonogramma, significando il suono /t/; può anche essere usato
come idiogramma, rappresentando, ad esempio, l’India. Può, infine, essere
un pittogramma e in questo caso potrà rappresentare la feracità, la forza, la
regalità, l’odore acre, la pelle a strisce, la solitudine del predatore e qualsiasi
attributo che una tigre sia capace di incarnare. I fatti storici hanno la stessa
equivocità: ognuno ha molte interpretazioni, ognuno si organizza attorno a
98
Oscar Calavia Sáez
numerosi assi. Gli storici lottano per ridurre questa confusione, trasformandola in idiografia. Ma sarebbe possibile postulare una storia pittografica che
mettesse in relazione i fatti prima di astrarli, se per caso fosse possibile pensare
con questo tipo di segno. È precisamente questa la proposta iniziale delle Mitologiche, già anticipata ne Il pensiero selvaggio: il pensiero è capace di operare
con categorie sensibili, ossia, esso può stabilire relazioni significative tra termini del sensibile (ad esempio crudo e cotto), o relazioni significative di secondo
livello, ad esempio, tra coppie di oggetti prossimi e coppie di oggetti distanti,
o tra cicli corti e lunghi, ecc. L’essenziale è che in questa complessificazione – capace di dire molto sulla società ed il mondo – il pensiero non debba
per forza ricorrere ad una formulazione astratta e possa sempre esprimersi
attraverso una immagine – un pittogramma. Così, all’interno di un mito, una
canoa – il cui equilibrio dipende dalla distribuzione da un estremo all’altro dei
suoi occupanti, ad ogni modo confinati nel loro spazio ristretto – è capace di
esprimere la nozione della buona distanza necessaria tra gli agenti sociali senza
la necessità di coniare una formula verbale come “buona distanza sociale”. Ma
ognuno di questi occupanti avrà attributi concreti, che possono sdoppiarsi in
altri assi di significazione: la canoa del sole e della luna non sarà la stessa del
giaguaro e del formichiere. In un caso, la buona distanza si stabilirà tra ritmi,
nell’altro, tra modi di trattare l’esterno. In verità, e dentro le condizioni imposte dal pensiero selvaggio, i pittogrammi possono moltiplicare la loro significazione quasi indefinitamente.
Ma, allora, come è possibile comporre una storia con questo tipo di materiale? La tesi di questo testo, se per caso non fosse ancora sufficientemente
chiara, è che Mitologiche, l’opera culminante di Lévi-Strauss, è una storia pittografica dei popoli amerindi – forse l’unica storia possibile, per la mancanza di scritture, ma per ciò stesso una storia modellatrice, capace di suggerire
alternative alle storiografie che hanno contato fin dall’inizio sulle armi e sulle
correnti della scrittura.
Mitologiche come storia
Mitologiche come storia può sembrare una idea esorbitante. Non assomigliano a nessuna opera storiografica e nemmeno il suo autore le presenta come
tali. In vari sensi, possono apparire come tutto il contrario di un’opera storica: alla fin fine, storia e mito non sono concetti costruiti uno contro l’altro?
Possiamo proporre che le Mitologiche sono storia allo stesso modo che un
anemone è un animale, e l’ornitorinco è un mammifero: non facendo appello
alle fattezze tipiche, ma alle definizioni radicali.
4. La storia pittografica
99
Per cominciare, le Mitologiche affrontano una sfida costante per gli storici,
ma quasi sempre da questi elusa, diluendo la frontiera tra storia e storiografia.
L’opera è un insieme articolato di narrazioni indigene, narrazioni che, nonostante questo termine – “mito” – con cui le definiamo, descrivono ciò che,
secondo i nativi, una volta è successo: la loro storia9. La storia è raccontata non attraverso/nonostante questi filtri, ma con essi, non riducendo i loro
dati ad una temporalità unica, ma mettendo in contrasto più temporalità. Se
tentassimo di fare lo stesso con la storia dell’Occidente, il risultato sarebbe
una narrazione in cui i fatti non sarebbero cose come l’Impero Romano, il
feudalesimo, le guerre di religione o le rivoluzioni, ma la descrizione che di
tutto ciò hanno fatto Gibbon, Voltaire, Marx o Toynbee. Sappiamo che queste descrizioni sono fatti storici, tanto quanto le battaglie o i regni. Allo stesso
tempo, la maggior parte degli storici pretende di storificare fatti svincolandosi
dalle narrazioni in cui essi sono stati custoditi; le Mitologiche sono una storia
di storie, il cui oggetto sono già narrazioni. Si potrebbe obiettare che, ad ogni
modo, Lévi-Strauss è l’autore dell’insieme, il proprietario della narrazione. Ma
la sua attività autoriale si esercita, essenzialmente, nella selezione e nell’articolazione dei miti, non nella loro riduzione idiografica, che, certamente, appare,
ma negli interstizi – ragione principale della difficoltà di riassumere le Mitologiche: gli anelli di congiunzione sono dati nei miti e le interpretazioni non sono
capaci di per sé stesse di dare unità all’insieme.
Questa storia non segregata dalla sua storiografia è capace di descrivere
irriducibilità storiche e di articolarle le une con le altre. Ogni insieme di miti
condensa il modo in cui un popolo o una regione concepiscono determinati
temi: si può trattare del comportamento corretto a tavola, o delle attitudini di
fronte all’incesto, o della successione delle stagioni; in ogni caso, se questi temi
sono stati selezionati per comporre i miti, è perché è in essi che si identificano
gli assi, i conflitti, i punti critici di ogni società in un determinato luogo e tempo. Il risultato è una descrizione organizzata non secondo criteri esterni, ma
designati dai suoi propri protagonisti; una descrizione, insomma, più storica,
già che evita il temuto anacronismo – potremmo dire anche anatopismo – di
intendere i fatti a partire da un contesto che non è quello che corrisponde
loro localmente. Non manca chi opini che una storia altra, come quella che
le Mitologiche esemplificano, non merita il nome di storia. Non tanto per la
mancanza – che tratteremo in seguito – di una colonna vertebrale cronologica,
ma perché la descrizione segue registri che non sono quelli che, da questo lato
9
È questo il principale taglio scelto da Peter Gow per sviluppare il proprio approccio al
mito come storia, ed a Lévi-Strauss come storico.
100
Oscar Calavia Sáez
del grande divisore, tendiamo a scegliere come storicamente rilevanti. Secoli
fa, come sappiamo, la storia trattava di re e battaglie; a questi elementi si sommarono in seguito le produzioni dei grandi specialisti dell’arte o della scienza,
le forme giuridiche della proprietà, i sistemi di governo, andando a costituire
l’insieme che, oggi, siamo abituati a concepire come storia. Questi incrementi
hanno fatto qualcosa di più che non ampliare la storia di re e battaglie: la hanno trasformata. Non è male che gli storici scartino fatti: è il detrito di oggi che
può fondare una nuova storia domani.
La cronologia assoluta è il più prestigioso di questi anatopismi di cui abbiamo appena detto: una sequenza temporale di asce di pietra ci sembra più storica di un insieme di miti, anche se manca di qualsiasi significazione locale. E
la mitologia sorge prima, o a margine, della scrittura che permette di tracciare
cronologie assolute; può continuare indifferente ad esse, quando esistono. Le
Mitologiche non ricorrono a questo principio organizzatore – anche perché i
dati americani, in gran parte agrafi, non lo permetterebbero. Ma la cronologia,
destituita dalla sua abituale funzione di governo, non è per questo assente,
giacché i miti portano con loro segni temporali nella loro elaborazione. I miti
sorgono come varianti di altri miti e questa variazione non è aleatoria: essi variano in funzione degli elementi concreti che possono mettere in gioco in ogni
luogo, siano questi elementi naturali – animali, piante, tipi di miele, elementi o
cicli del clima, costellazioni visibili – o istituzioni umane – regimi matrimoniali, rituali, pratiche guerriere –; e variano, soprattutto, attraverso il dialogo con
altri miti, come risposta differenziale alle formulazioni di un popolo vicino. I
miti definiscono, così, prossimità e distanze e sono capaci di delineare insiemi regionali, che possono sovrapporsi a quelli costruiti con base in altri dati
(archeologici, ergologici, linguistici), ma anche avere configurazioni alternative: essi testimoniano correnti e connessioni che nessun altro dato potrebbe
evidenziare. Le trasformazioni dei miti non sono aleatorie né necessariamente
simmetriche. A volte lo sono, quando riordinano elementi e relazioni equivalenti: c’è anche spazio nella mitologia per le invenzioni indipendenti. Altre volte, un mito può essere compreso solo come derivato da un primo, ad esempio,
quando si sforza di illustrare con elementi della natura locale le stesse relazioni
che sorgevano con più facilità a partire da un altro contesto. Ci sono versioni
più forti e più deboli di un mito, che utilizzano i contrasti sensibili alla loro
massima potenza o li stemperano con mediazioni; ci sono miti “freddi”, cristallini ed economici, e miti “caldi”, che si avvicinano al romanzo d’avventura.
Le Mitologiche non descrivono un meccanismo di creazione e trasmissione dei
miti, ma una sottile diversità di relazioni tra le narrazioni. Ciò nonostante, la
coerenza del congiunto prevale e possiamo incontrare, probabilmente unite
da una corrente interminabile di trasformazioni, versioni quasi identiche di
4. La storia pittografica
101
uno stesso mito. Si potrebbe dire, anche, coalizioni di miti, che estendono da
un estremo all’altro delle Americhe una qualche costante. Pensiamo al mito
dei gemelli, nel quale Lévi-Strauss identificava, nel finale di Storia di Lince,
l’essenza di una certa ideologia americana dell’alterità. Anche così, l’insieme
della mitologia amerindia si mantiene fedele al principio della roulette, conservando il pieno valore delle virtualità. È per questo che, al posto di costruire
lungo il suo percorso da un estremo all’altro delle Americhe una specie di
teologia uniforme10, le Mitologiche presentano un catalogo ricchissimo di rappresentazioni della diversità umana.
Le Mitologiche non sono la speculazione nomotetica che c’era da aspettarsi
a partire dai progetti che Lévi-Strauss abbozzò nei suoi primi scritti sull’analisi
di miti: tutto ciò che avrebbe potuto sostenere questo progetto – la formula
canonica, i grafici, le equazioni – appare con forza all’inizio dell’opera e poi
si dirada e ridefinsce come semplici illustrazioni. Al posto di arrivare ad un
insieme di regole, o ad alcuni quadri sinottici, o ad una conclusione sul valore ed il significato del mito, le Mitologiche rimangono irriducibili nella loro
monumentale estensione, come è proprio della storia. Il loro valore è nella
concretezza della narrazione e nel suo alto grado di relazione con il contesto.
Ma quella scommessa epistemologica sugli estremi, della quale abbiamo
parlato in precedenza, suppone che per Lévi-Strauss sia possibile alleare l’irriducibilità con la razionalizzazione, senza ricorrere a quella mezza misura
dell’idiografia. La storia delle Mitologiche è un’arte ed un ordine combinatorio, in cui operazioni finite danno luogo a variazioni virtualmente infinite, storiche. Questo ordine è possibile perché la pittografia è, alla fine, una scrittura,
non una pittura. La critica che è stata mossa a Lévi-Strauss che i miti che egli
ha utilizzato, in forma di riassunti, scartano tutta la ricchezza esperienziale del
mito – l’intonazione, la performance, le matrici idiomatiche – trova giustificazione in questa scelta del livello pittografico, un livello che potremmo definire
come dell’intelligibilità equivoca. Il livello in cui l’equivoco – già che non è
una comprensione esatta – è accessibile all’ascoltatore distante, perché non
è limitato né dalla depurazione dei segni né dalla densità ridondante di una
performance diretta. Le Mitologiche trattano di un processo narrativo realizzato a media distanza, in cui i ricettori/emissori sono capaci di comprendere
la narrazione, ma sono liberi di intenderla a modo proprio, organizzando un
insieme di narrazioni differenti ma articolate, che corrispondono a realtà diverse ma articolate. Cos’è la storia, se non questo? Un quadro della differenza
umana nello spazio e nel tempo, non sprovvisto di cronologia, ma sprovvisto
10
Cfr. il tentativo di Sullivan (1988).
102
Oscar Calavia Sáez
dell’illusione che una cronologia custodisca una misteriosa virtù esplicativa.
In altri tempi, era comune identificare così l’etnologia, ausiliaria della storia:
il sistema delle scienze assumeva che la presenza di una cronologia era sufficiente per definire tale gerarchia. Oggi, quando l’alternativa tra progresso e
ritardo comincia ad apparirci meno rilevante della tensione tra uniformazione
e diversità, forse la relazione tra etnologia e storia deve già essere definita in
altro modo, o, quando il panorama si allarga nel tempo e nello spazio, lasciare
il passo alla pura e semplice identificazione.
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5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
103
5. Riconquistando il campo perduto: cosa LéviStrauss deve agli amerindi1
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
Mi interessa solo ciò che non è mio. Legge dell’Uomo.
Legge dell’Antropofago.
(Manifesto Antropofago, Revista de Antropofagia, 1928)
“Chi è Claude Lévi-Strauss?” chiedeva Curt Nimuendaju in una lettera
scritta ad Herbert Baldus l’11 novembre del 1936:
Lo ho conosciuto, la prima volta, in un articolo nel [giornale O] Estado [de São
Paulo], “Com os selvagens civilizados”, che mi ha molto interessato per il suo
posizionarsi nella questione indigena. Dopo viene il suo “Contribution à l’étude
de l’organisation sociale des Bororo”, no JSA [Journal de la Société des Americanistes], dove lui, in poche pagine, presenta un materiale valido, e che mi è arrivato
come se lo avessi richiesto. Cos’altro ci possiamo aspettare da lui in futuro? (apud
Welper, 2002).
L’autore di queste parole è un tedesco trasferitosi in Brasile nel 1903, che
dedicò la sua vita all’etnografia, all’archeologia ed all’indigenismo, incarnando, nell’immaginario dell’etnologia brasiliana, la figura del suo primo ricercatore sul campo. Battezzato “Nimuendaju” dai Guarani di São Paulo nel 1906,
morì nel 1945 nel fiume Solimões tra i Tikuna. Nel 1936, Nimuendaju era il
principale specialista sui popoli indigeni situati in Brasile e un riferimento per
tutti gli antropologi europei, incluso Lévi-Strauss il quale, l’anno successivo, lo
inviterà, senza successo, a far parte della sua spedizione alla Serra do Norte2.
Il 13 gennaio del 1937, Nimuendaju tornerà a scrivere a Baldus a proposito di
Lévi-Strauss:
Questa è una versione di un testo scritto in francese, il cui titolo è “Regagner le Terrain
Perdu: Ce que Lévi-Strauss doit aux indiens” e pubblicato in portoghese nella (2004) Revista
de Antropologia, 47(1). Il titolo originale possiede un doppio senso, difficile da preservare in
italiano, dato che se l’espressione militare è “riconquistare il terreno perduto”, definiamo la
ricerca etnografica come “campo” (e non “terreno” alla maniera dei francesi).
2
Nimuendaju lavorava da oltre un decennio con popoli di lingua Jê del Brasile centrale, sui
quali pubblicherà tre importanti monografie (1939, 1942, 1946), pubblicate grazie alla collaborazione con Robert Lowie.
1
104
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
È notevole che l’uomo, di cui Lei scrive, che solo recentemente è passato all’etnologia, si sia informato in così poco tempo in una maniera tale, da comprendere
con tanta precisione le condizioni sociologiche dei Bororo, che di fatto non sono
semplici. Se penso che io ho lottato per sei anni con la sociologia dei Canela, merita
attenzione la forma concisa di presentazione (Idem.).
Come spiegare questa ammirazione di Nimuendaju, un uomo forte di
un’esperienza pluridecennale, per un lavoro basato su una così breve permanenza sul campo? Riconosciuto in ambito accademico più per la sua opera
teorica che per (e, in un certo senso, nonostante la) sua esperienza di campo, Lévi-Strauss sarà per alcuni un viaggiatore-filosofo, non un etnografo; per
altri, più impazienti, neanche questo, come ha tenuto a dire Luis de Castro
Faria, membro della spedizione alla Serra do Norte:
Cette expédition est le prix que Claude Lévi-Strauss a payé pour être reconnu
comme un véritable ethnologue. Mais [...] il n’avait pas le “physique du rôle”. Il
avait des difficultés à communiquer, et ça l’ennuyait d’être aussi loin de la civilisation, de son confort. (Libération, 1/9/1988)
Demistificare l’uomo e la sua avventura può avere lì la sua funzione e la sua
ragione. Tristi Tropici contiene non solo la tristezza dei tropici ma anche una
particolare sensibilità che detesta i viaggi, anche quando li si intraprende, e gli
esploratori, anche quando si è uno di loro. Chi si ferma, però, sul Lévi-Strauss
donchisciottesco, perde di vista la sua facoltà di combinare una visione geometrica, capace di cogliere grandi strutture, con uno sguardo minuzioso, capace
di prestare attenzione ai dettagli etnografici, come se la memoria operasse alla
maniera di una macchina fotografica dotata di lente zoom, gli occhi scivolano
dal grandangolo al teleobiettivo, passando dal micro al macro e producendo
una serie di fotogrammi in differenti scale. Questa facoltà non è cinematografica; essa tende ad abolire la continuità del movimento, gli interstizi. Non che
sia contraria a qualsiasi dinamica, ma questa dinamica può essere ricostruita
solamente a posteriori, come nel montaggio di una sequenza a partire da stills
fotografici, nella quale ogni istantanea ha allo stesso tempo la propria forma
e la forma trasformata dell’istantanea seguente. È questa la capacità che LéviStrauss mise in atto tra i Kadiwéu, i Bororo, i Nambikwara e i Tupi-Kawahib,
negli anni ’30, e che ha raggiunto la pienezza nelle Mitologiche3. Nimuendaju
Il primo incontro di Lévi-Strauss con gli indios brasiliani avvenne nel nord del Paraná,
nel 1935, durante una breve visita ai Kaingang (Jê meridionali). Da novembre 1935 a marzo
1936, egli visitò i Kadiwéu, alla frontiera con il Paraguay, ed i Bororo, nel Mato Grosso, in una
spedizione di maggior respiro, i cui risultati etnografici (notoriamente, l’articolo sui Bororo e
3
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
105
seppe riconoscere questo aspetto, forse perché aveva lottato tutta la vita con
i dettagli e gli era mancato un grandangolo, una mancanza un po’ ironica per
chi cominciò la vita come meccanico ottico nella fabbrica Zeiss di Jena (Welper, 2002: 32).
In questo articolo, vogliamo regagner le terrain perdu de Lévi-Strauss. Non
si tratta di sapere ciò che egli fece o non fece, né di giudicare i risultati empirici
delle sue ricerche. Ciò che a noi interessa è tracciare il campo di idee e problemi che questa esperienza legò a Lévi-Strauss e, attraverso di lui, ai ricercatori
che vennero dopo. Recuperare “cosa Lévi-Strauss deve agli indios” non consiste, quindi, nel dare ad ognuno la sua parte, ma nel sottolineare gli aspetti
dell’opera americanista lévi-straussiana che, per la loro continua capacità di
animare il dibattito contemporaneo, testimoniano le lezioni che l’antropologo
seppe apprendere dal suo incontro con gli indios sud americani.
Assumeremo come filo conduttore il tema del dualismo. Invertendo l’ordine cronologico dei suoi viaggi, cominceremo dai Nambikwara, che sono, in più
di un senso, all’inizio: sia per essere passati nell’immaginario dell’antropologia
politica come rappresentanti del grado zero dell’autorità (e per Lévi-Strauss
di tutta la socialità), sia per rappresentare nell’opera sociologica dell’autore la
forma più semplice e pura del principio di reciprocità. In seguito passeremo
ai Bororo, ed alla sfida posta dalla complicazione della formula dualista, per
poi da lì accompagnare gli sdoppiamenti della questione nell’opera di LéviStrauss, focalizzando la dialettica tra simmetria e gerarchia, tra diametralismo
e concentrismo, fino ad arrivare a Storia di Lince ed alla formulazione più
americanista del problema del dualismo.
Arcaismi
L’esperienza più lunga di Lévi-Strauss con un gruppo indigeno brasiliano
ebbe luogo tra giugno e settembre del 1938, durante la stagione secca, nella
regione nordovest del Mato Grosso, dove mantenne contatti con bande nambikwara che circolavano nell’area di influenza della missione religiosa di Utiariti. A partire da questa esperienza etnografica, Lévi-Strauss dedicò ai Nambikwara un insieme di articoli (1944a, 1946, 1947), la sua tesi complementare
(1948a), un capitolo di Handbook of South American Indians (1948b), oltre
ad una parte di Tristi Tropici (1955). Curiosamente, nessuno di questi testi è
l’esposizione per il Musée de l’Homme) gli permisero di essere riconosciuto come etnologo.
Con ciò poté ottenere risorse per la missione realizzata tra maggio e novembre del 1938, che lo
portò tra i Nambikwara ed i Tupi-Kawahib del Rio Machado (Peixoto, 1998).
106
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
stato poi ripubblicato nei volumi di Antropologia Strutturale, così come non lo
furono gli articoli più generali dello stesso periodo, come il famoso testo sulla
guerra ed il commercio (1976 [1942]) e un altro, meno conosciuto, sulla parentela sud americana (1943) – tutti anteriori all’avvicinamento dell’antropologia alla linguistica strutturale annunciata da Lévi-Strauss nel 1945. Il campo
tra i Nambikwara riappare, però, negli articoli a proposito dell’arcaismo (1974
[1952a]) e dello sciamanismo (1974 [1949]), così come in Le strutture elementari della parentela (da qui in avanti SEP), in cui svolge un ruolo centrale nella
concettualizzazione del matrimonio tra cugini.
La letteratura antropologica ha conservato, dai lavori sui Nambikwara, due
immagini principali: da un lato, quella del bimodalismo economico e del seminomadismo; dall’altro, quella dell’organizzazione politica semplice, nella quale il capo non sarebbe altro che un servo del gruppo. I Nambikwara entrano
nell’immaginario della disciplina come un popolo estremamente mobile, che
pratica una orticoltura molto semplice, ora vivendo in villaggi semipermanenti, ora organizzandosi in bande nomadi riunite attorno a leaders sprovvisti
di potere e di beni, il cui unico privilegio sarebbe la poligamia. Ricercatori
successivi hanno messo in dubbio le descrizioni di Lévi-Strauss dell’economia
nambikwara, suggerendo che essi, primo, non sono stagionalmente nomadi,
dato che la maggior mobilità ha luogo in periodi microstagionali ed accompagna il ritmo dei lavori agricoli e, secondo, che essi vivono in villaggi permanenti e possiedono una orticoltura relativamente diversificata4. Price (1981)
ha suggerito inoltre una maggiore variabilità nella leadership nambikwara ed
una maggiore autorità dei loro leaders, variegando il modello di Lévi-Strauss,
che Clastres estenderebbe alla quasi totalità delle terre basse sud americane
(estensione attualmente oggetto di molte critiche).
Per Lévi-Strauss, comunque, la mobilità e l’acefalia nambikwara riflettevano una situazione storico-etnografica specifica, anche se eletta a esempio
del limite minimo dell’organizzazione sociale e dell’autorità politica. Questa
elementarità dei nambikwara, centrale per la riflessione di Lévi-Strauss e per
l’emulazione di Rousseau, non risultava dalla proiezione di un immaginario
primitivista sulla realtà etnografica. Alla fin fine, il campo tra i Nambikwara
ed i Bororo condusse Lévi-Strauss ad una delle critiche più importanti del primitivismo a-storico che marcava lo schema evolutivo dell’Handbook of South
American Indians – critica che egli formulò in un articolo del 1944 (1994b)
(nel quale rispondeva a Lowie [1941] a proposito del carattere originario o
4
Si vedano le critiche di Aspelin (1976, 1979) e Price (1978), così come le risposte di LéviStrauss (1976, 1978).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
107
avventizio dell’organizzazione sociale jê) e sviluppò in “La Notion d’Archäisme en Ethnologie” (1974 [1952a])5. Curiosamente né Aspelin né Price citano
questi articoli, nei quali Lévi-Strauss mette in dubbio l’originale semplicità dei
popoli del Brasile Centrale.
L’argomento sul falso arcaismo è moderno, nonostante il linguaggio
dell’epoca. Lévi-Strauss s’allontana dall’idea che le società come quella Nambikwara o Bororo possano essere trattate come sopravvivenze di uno stadio
arcaico dell’umanità. Crederlo, dice l’autore, è conferire a queste società:
l’exorbitant privilège d’avoir duré e de n’avoir point d’histoire (...) L’archaïsme veritable est l’affaire de l’archéologue et du préhistorien, mais que l’ethnologue, voué
à l’étude de sociétés vivantes et actuelles, ne doit pas oublier que, pour être telles, il
faut qu’elles aient vécu, duré, et donc changé (1974[1952a]: 115 e 126).
Tutte le società sono nella storia, anche se non tutte fanno la stessa cosa della storia – un punto che i critici delle nozioni di caldo e freddo hanno voluto
dimenticare.
Così, se Lévi-Strauss si sbaglia per ciò che riguarda l’importanza relativa
dell’orticoltura tra i Nambikwara, egli non li costruisce come un esemplare
tipico di una società di cacciatori-raccoglitori, ma come il prodotto di una
storia regressiva6. Nonostante la storicizzazione del problema, Lévi-Strauss
costruisce l’argomento regressivo supponendo l’associazione inequivoca tra
mobilità e privazione, riproducendo una rappresentazione della mobilità indigena, radicata fin dal XVI secolo, secondo la quale caccia e raccolta sono
segni necessari di insicurezza e scarsità, mentre l’agricoltura, di stabilità ed
abbondanza. Negli ultimi decenni, alcuni autori hanno relativizzato questa
rappresentazione a riguardo delle popolazioni della foresta, attraverso studi
quantitativi (Hill & Hawkes, 1983; Hawkes et al., 1982) e di carattere storicoetnologico (Fausto, 2001; Rival, 1998, 2002).
Si veda anche il testo di chiusura della conferenza Man, the Hunter (1968), “On the concept of primitivieness”, nel quale Lévi-Strauss torna sull’argomento, questa volta con un nuovo
adepto (Lathrap, 1968).
6
La discussione sul carattere regressivo o no dei popoli cacciatori-raccoglitori in Amazzonia
– se erano o no popolazioni orticultrici che desedentarizzarono (in generale a causa di intrusioni, violenze ed epidemie post-conquista) – fu ripresa da ricerche successive (Lathrap, 1968;
Martin, 1969; Clastres, 1972; Balée, 1994). Sulla possibilità che esistessero cacciatori-raccoglitori “à part entière” nella foresta tropicale, si veda Lévi-Strauss (1974 [1952]: 123), Bailey et al.
(1989), Bailey & Headland (1991), Headland (1987). Per una analisi critica della discussione, si
veda Good (1995) e Fausto (2001).
5
108
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
L’oggetto di Lévi-Strauss, certamente, erano i popoli del cerrado, un ambiente che egli reputava sterile, incapace di generare nuove invenzioni culturali. Da ciò egli negò l’esistenza di una “culture de la savane” la quale non
sarebbe altro che “une imitation impuissante de la culture forèstiere” (1974
[1952a]: 124). Vedere la savana con gli occhi della foresta (o del litorale) è
stata una costante nella storia della colonizzazione del Brasile. Tale visione era
in continuità con quella dei Tupinambá, abitanti della costa atlantica nel XVI
secolo, che disprezzavano i loro vicini dell’interno, chiamati genericamente
Tapuia, la maggioranza dei quali erano popoli di lingua macro-Jê. Pensando
al cerrado come se offrisse una “influence negative” ed insistendo, sulla scia di
Nimuendaju, sulla complessità dei sistemi sociali dei popoli Jê e Bororo, LèviStrauss si collocherà di fronte ad un problema che egli cercò di risolvere con
la nozione di falso arcaismo: la regressione appare come una risposta all’enigma posto dalla congiunzione di un ambiente povero, una tecnologia semplice
ed una organizzazione sociale complessa. Lavori più recenti sull’etno-ecologia
e sullo sfruttamento del cerrado da parte dei popoli indigeni suggeriscono,
però, l’esistenza di una conoscenza specifica e sofisticata, che non può essere
attribuita ad una versione “appauvrie et diminuée de la culture forestière”7, suggerendo, al contrario, uno sviluppo autoctono e non regressivo, quando non
una esplosione di complessità in un determinato momento della storia (Wüst,
1998; Wüst & Barreto, 1999).
Se il contrasto tra la povertà della savana e la ricchezza della foresta è un’eredità dell’immaginario dell’Handbook of South American Indians – organizzato
attorno a due opposizioni: terre alte versus terre basse e foresta versus savana,
con la costa che appare come una zona ibrida di multiple possibilità (Steward,
1950; Steward & Faron, 1959) –, è necessario ricordare che Lévi-Strauss fin
dall’inizio criticherà il carattere a-storico di questa tipologia mai accettando
la sua traduzione in una teoria determinista dell’ambiente come fattore strettamente limitante dello sviluppo delle culture della regione (Meggers, 1954,
1971; Gross, 1975). Da ciò Lévi-Strauss giudica il nuovo immaginario proposto dall’archeologia degli anni ‘80 e ‘90 (Roosevelt, 1980, 1993) come un
ritorno alle sue intuizioni, intuizioni che girano, ancora una volta, attorno al
problema dell’arcaismo:
Déjà en 1935, chez les Bororo, j’étais frappé par des traditions indigènes sur les
grands villages du temps passé, si densément peuplés que les maisons formaient
plusieurs cercles concentriques. Quelques années plus tard, il m’apparaissait que
7
Si veda ad esempio, Posey (1986) a proposito dello sfruttamento delle aree di transizione
tra cerrado e foresta tra i Kayapó, e Flowers (1994) sugli Xavante.
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
109
les Nambikwara n’offraient pas l’image d‘une structure sociale élémentaire, vestige
de temps archaïques, mais que les vicissitudes de l’histoire les y avaient contraints.
Je défendis vainement cette thèse contre Lowie et le P. Cooper à l’époque de l’élaboration du Handbook of South American Indians (Lévi-Strauss, 1993: 8).
Protodualismo
Se la struttura sociale nambikwara non appare a Lévi-Strauss come un vestigio dei tempi arcaici, è però descritta come “elementare”. Anche se egli non
li prende come un fatto naturale, ma come il prodotto di una storia specifica,
i Nambikwara occupano nella sua opera il luogo equivalente a quello dello
stato di natura nella filosofia politica, il che è espresso con chiarezza in Tristi
Tropici:
J’avais cherché une société réduite à sa plus simple expression. Celle des Nambikwara l’était au point que j’y trouvais seulement des hommes (1955: 284).
E più avanti:
j’étais allé jusqu’au bout du monde à la recherche de ce que Rousseau appelle ‘les
progrès presque insensibles des commencements’ (idem).
Questo progresso degli inizi, Lévi-Strauss lo intravvede nel suo incontro
con due “orde” nambikwara, di dialetti distinti, alleate per mezzo di una convenzione che faceva degli uomini di una “cognati” degli uomini dell’altra (e
faceva delle rispettive spose “sorelle”, e vice versa), in maniera che nella generazione successiva i matrimoni inter-orda si adeguassero all’assimilazione tra
affini e incrociati, caratteristica del loro sistema di parentela. Se i due gruppi
così uniti conservassero la memoria della doppia origine, riflette Lévi-Strauss,
verrebbero in questa maniera gettate le basi di un sistema di metà esogamiche
(1943: 1-3; 1948a: 79; 1955: 351; 1962: 74; 1967[1949]: 78-9). Il caso – anche
troppo aneddotico, riconosce, perché si possa su di esso fondare una teoria
dell’origine delle organizzazioni dualiste – gli appare però come uno in cui,
nelle parole che prende a prestito da Lowie: “the characteristic features of the
sib organization are in some measure prefigured among sibless tribes” (Lowie,
1919: 28, apud Lévi-Strauss, 1943: 403).
Nel senso che Lévi-Strauss attribuirà a questa “prefigurazione” si trova la
chiave della soluzione per il problema della relazione tra organizzazione dualista, matrimonio di cugini incrociati e terminologia classificatoria simmetrica.
110
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
Questo è un momento cruciale delle SEP: egli getta un ponte tra la deduzione
della proibizione dell’incesto, come regola universale all’origine della cultura,
e l’interpretazione dei sistemi concreti nei termini di strutture elementari di
scambio matrimoniale; ossia, il ponte tra la teoria strutturalista della parentela
e la teoria ristretta dell’alleanza del matrimonio (Dumont, 1971: 91). L’importanza eccezionale del matrimonio tra cugini, dice Lévi-Strauss, risiede nell’arbitrarietà, dal punto di vista biologico, della divisione dei cugini in coniugi
prescritti e proibiti (1967 [1949]: 142), che viene così a richiedere una spiegazione di altro ordine: vero experimentum crucis dello studio delle proibizioni
matrimoniali (idem: 143), l’istituzione manifesterebbe con speciale chiarezza
l’onnipresenza della reciprocità, anche in assenza di formule esplicite di alleanza tra i gruppi. Dimostrando che “la notion de reciprocité permet donc de
déduire immédiatement la dichotomie des cousins” (idem: 152), Lévi-Strauss
offre una spiegazione strutturale per un fenomeno estremamente diffuso – le
terminologie classificatorie simmetriche – la cui interpretazione era stata fino
ad allora dominata da speculazioni evoluzioniste o storiciste, oltre ad estendere
la portata della sua dimostrazione, nella misura in cui la distribuzione di questi
sistemi di classificazione è più ampia di quella della norma matrimoniale.
L’importanza teorica del matrimonio tra cugini, che fa di esso uno dei temi
dominanti nella prima parte delle SEP, non è però sufficiente per garantire la
presenza di sistemi come quello dei Nambikwara nell’analisi dello scambio
ristretto, che si concentra sulle sezioni australiane. Questo perché, nonostante
siano equivalenti dal punto di vista del loro valore funzionale (stabilire un
sistema di reciprocità), il matrimonio tra cugini e l’organizzazione dualista differiscono considerevolmente quanto alla loro struttura, esemplificando una
distinzione importante nella teoria dell’alleanza tra il metodo delle relazioni
ed il metodo delle classi, tra la delimitazione automatica dei coniugi possibili
attraverso la costituzione di una classe e la “determinazione di una relazione o
di un insieme di relazioni che permettono di dire per ogni singolo caso se il coniuge considerato è desiderabile o escluso” (1967 [1949]: 139 [ed. it.: 183]).
La collocazione marginale dei Nambikwara nelle SEP si spiega, così, per il
carattere non coattivo del loro dualismo relazionale. Al di qua delle strutture
elementari (Viveiros de Castro, 1993: 154), potrebbero solamente occupare il
luogo di fondamento teorico, senza mai esemplificare il funzionamento sociologico reale di queste strutture. Da ciò decorre la difficoltà, sentita da molti
etnologi nei decenni ‘50 e ‘60, di analizzare i sistemi amazzonici simili a quello
dei Nambikwara. Se gli strumenti analitici della teoria della discendenza erano
inadatti alla regione, neanche la teoria di Lévi-Strauss sembrava molto utile.
Curiosamente, l’acclimazione della teoria dell’alleanza all’Amazzonia finì mediata da un passaggio per l’India del sud, attraverso i lavori di Louis Dumont
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
111
sui popoli dravidiani (1953, 1957, 1983). Le analisi di Dumont, così come
la sua critica del passaggio dal locale al globale nelle sep (Dumont, 1971),
liberarono la teoria dell’alleanza dal linguaggio delle “classi”, aprendo il cammino per una estensione del concetto di struttura elementare (o, almeno, di
“alleanza di matrimonio” o di “scambio simmetrico”) ben oltre l’universo dei
sistemi unilineari, in maniera da includere anche sistemi fondati esclusivamente sul metodo delle relazioni (Overing Kaplan, 1975; Rivière, 1969, 1973; Becker, 1969; Viveiros de Castro, 1993). Le conseguenze di questo movimento,
fondamentale per l’analisi dei sistemi di parentela amazzonici, sono andate,
comunque, molto oltre la stessa parentela, dato che hanno permesso che si
recuperasse una intuizione inaugurale di Lévi-Strauss, alla cui origine, ancora
una volta, c’è il celebre incontro tra due bande nambikwara e la loro ricerca di
termini per esprimere una relazione prima inesistente.
Le pagine finali dell’articolo “The Social Use of Kinship Terms among Brazilian Indians” (1943) riassumono la questione. All’avvicinare i Nambikwara ai Tupi cinquecenteschi, Lévi-Strauss focalizza lo scambio matrimoniale,
in particolare il matrimonio tra cugini incrociati, ma va oltre, discutendo i
termini che, utilizzati da individui senza una previa relazione di parentela,
permettono di stabilire una relazione. Questi termini, che la letteratura posteriore mostrerà sempre più numerosi, esprimerebbero secondo l’autore una
“special «brother-in-law» relationship” che funzionerebbe come un dispositivo
di apertura dell’universo della parentela, servendo a stabilire relazioni sociali
più ampie:
When the technical problem of establishing new social relationship is put up to the
Indians [Nambikwara], it is not the vague «brotherhood» which is called upon,
but the more complex mechanism of the «brother-in-law» relationship (1943: 407,
n. 22).
Alla fine del testo, dopo aver analizzato le somiglianze e le differenze tra la
relazione tra cognati amerindia e il comparatico euroamericano, Lévi-Strauss
conclude che “the outstanding character of the ‘brother-in-law’ relationship [is]
a specific feature of South American sociology”. Rifiutando la separazione tra società e cultura, cosmologia e sociologia, la letteratura etnologica, a partire dalla
fine degli anni ‘60, avrebbe esplorato tutte le conseguenze di questa intuizione
di Lévi-Strauss, in un movimento nel quale la categoria dell’affinità guadagnerà progressivamente in comprensione ed estensione. Presa inizialmente come
meccanismo interno di costituzione di gruppi locali (Rivière, 1969; Overing
Kaplan, 1975), l’affinità apparirà, in seguito, come un dispositivo relazionale
che rende possibili ed organizza le relazioni extralocali, articolando persone e
112
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
collettivi oltre la parentela (si veda in particolare, Albert, 1985; Descola, 1981),
e, finalmente, come idioma e schema della relazione tra lo Stesso e l’Altro, tra
identità e differenza (Descola, 1992; Viveiros de Castro, 1993, 2001).
L’elaborazione dell’affinità come “fenomeno politico-rituale, esterno e superiore al piano inglobato della parentela” (Viveiros de Castro, 1993: 181),
venne incontro ad una serie di studi sui fenomeni della guerra e del cannibalismo, in cui la posizione dell’Altro – determinata dall’alterità e dall’inimicizia
– è, negli specifici contesti etnografici, ricoperta da differenti figure: cognati e
nemici reali o immaginari, umani o non-umani relazionati come affini. Questo
Altro sorge, così, come la determinazione del Sé, determinazione positiva e
necessaria alla costituzione ed al funzionamento dei sistemi sociocosmologici
indigeni. È stato proprio il rifiuto dell’opposizione sociale e culturale che ha
permesso questa estensione delle figure dell’affinità oltre il locale e lo strettamente umano, movimento che è risultato nel dibattito a proposito delle nozioni di animismo e prospettivismo (Descola, 1986, 1992; Arhem, 1993; Viveiros
de Castro, 1996a; Lima, 1996). Affermando che per gli amerindi le relazioni sociali vanno oltre l’universo degli umani, l’etnologia amazzonica ha fatto
dell’accusa di idealismo – invettiva lanciata da africanisti di tradizione marxista ad americanisti di ispirazione strutturalista – una virtù. Da questo doppio
movimento – l’adozione di una prospettiva antiidentitaria e relazionale ed il
rifiuto della distinzione forte tra ideale e materiale – è risultata un’etnologia
che, con un piede nelle SEP e l’altro nelle Mitologiche, cerca oggi di ripensare
l’opposizione centrale che struttura entrambi i lavori: quella tra natura e cultura. In questo senso, anche la “anthropologie de la nature” (Descola, 2001), e
non solo l’antropologia della parentela americanista, deriva dalla relazione tra
cognati nambikwara.
Multidualismo: gerarchia e reciprocità
Se la comprensione delle società di tipo nambikwara ha seguito il cammino
che abbiamo descritto sopra, il multidualismo degli Jê e Bororo, differentemente, pone problemi di altro ordine.
Se, tanto in un caso come nell’altro, il principio di reciprocità è alla base
dell’integrazione del gruppo, questa integrazione obbedisce a ritmi differenti in Amazzonia e nel Brasile Centrale. Nell’universo del protodualismo, è
l’estensione del linguaggio della parentela – più precisamente, dell’affinità
– al piano politico che svolge questa funzione. La percezione del significato
sociopolitico della relazione di affinità – epitomizzato nella figura del “cognato” – ricopre un ruolo chiave nella concettualizzazione da parte di Lèvi-
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
113
Strauss del matrimonio tra cugini: è questa dimensione sociopolitica che,
proiettandosi oltre l’immediatezza dei legami intracognatici, sotto forma
di affinità fittizia, conferisce alla formula egocentrica un effetto sociologico sovra-individuale, permettendole di operare come dispositivo integrativo, conforme all’esempio delle due bande nambikwara, o all’istituzione del
“compérage” tra i Tupi storici (Lévi-Strauss, 1943; cfr. 1967 [1949]: 503). Il
gruppo emerge, in questi casi, come il prodotto di una sintesi locale mediata
dall’idioma della parentela.
Nel caso centro-brasiliano, al contrario, l’integrazione sociale sarebbe data
fin dall’inizio: è effettivamente difficile non vedere i loro villaggi circolari
come un diagramma di parti, insiemi e connessioni poste da una sociologia
indigena in un piano normativo che, nelle parole di J. Crocker (a proposito
dei Bororo):
sets out the arrangement of the [...] corporate groups in the village circle; stipulates, to a degree, their internal differentiation; and relates the whole to the natural
and spiritual universe (1979: 252).
Il contrasto tra una forma di sociabilità pre-data (con il rischio di dissoluzione) ed un’altra non terminata (e interminabile) è implicito nella strategia di
comparazione regionale, fondata sulla opposizione tra l’efflorescenza strutturale delle società centro-brasiliane ed il minimalismo sociologico amazzonico.
Mentre l’ultimo caso si presta alla decostruzione del concetto di Società di cui
si occupa buona parte dell’antropologia contemporanea, il primo ci mette a
confronto – almeno a prima vista – con una (oggi) scomoda versione nativa
della nostra visione del sociale come totalità.
Da questo punto di vista, il problema “tecnico” collocato dalle società centro-brasiliane sarebbe non quello dello stabilire nuovi legami sociali ma quello
della prevenzione della dissoluzione del “tutto” nei suoi elementi componenti.
Secondo i ricercatori del Projeto Harvard-Museu Nacional8, il fazionalismo
apparirebbe come il sintomo della disfunzionalità per eccellenza, e la capacità
di prevenire il suo sviluppo come prova della vitalità delle istituzioni e della
cultura in questione. Già secondo Lévi-Strauss, il rischio di decomposizione
8
Coordinato da Maybury-Lewis, questo progetto, che riunì, negli anni ‘60, ricercatori brasiliani e statunitensi, grazie ad un accordo tra Harvard ed il Museu Nacional do Rio de Janeiro,
riprese questioni poste dall’analisi lévi-straussiana del materiale jê di Nimuendaju. I risultati teorici ed etnografici del progetto, consolidati nella raccolta Dialectical Societies (Maybury-Lewis,
1979), verrano ad influenzare in maniera decisiva non solo lo studio dei popoli centro-brasiliani
come anche tutta l’etnologia sud-americanista.
114
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
risulterebbe da ciò che possiamo chiamare effetto endogamico del multidualismo.
Il percorso che portò Lévi-Strauss a questa discussione passa per il sud
dell’attuale stato del Mato Grosso, dove, nel 1936, egli entrò in contatto con
i Bororo, un popolo di lingua Macro-Jê. Appena tornato da questa prima
esperienza di campo, Lévi-Strauss pubblicò il suo primo testo etnologico,
“Contribuição ao estudo da organização social dos índios Bororo”, che tanto
impressionò Nimuendaju. Basato su una permanenza di meno di due mesi
nel villaggio di Kejara, si trattava di una delle prime descrizioni antropologicamente informate di questo popolo9. Il registro etnografico dell’articolo non
anticipa nulla degli sviluppi speculativi che, negli anni ‘50, marcheranno la sua
riflessione sulle culture indigene centro-brasiliane. Ricorrendo alla distinzione che egli stesso farà più tardi tra un “modello teorico e semplificato” della struttura sociale bororo, la “pianta di questo o quel villaggio particolare”,
ed un “modello sincretico che consolidi, in uno schema unico, informazioni
ottenute da più fonti indigene” (1964: 48 [ed. it.: 66]), si può dire che, nel
1936, Lévi-Strauss si mantiene più vicino al piano di uno specifico villaggio,
mentre le ipotesi degli anni ‘50 andranno, al contrario, a manipolare “modelli
teorici semplificati” - eccessivamente semplificati, quando non fittizi, diranno
alcuni critici. Tra questi due momenti, c’è, da un lato, la lettura da parte di
Lévi-Strauss dei lavori dei padri salesiani sui Bororo, pubblicati nel decennio
1940 (Colbacchini e Albisetti, 1942; Albisetti, 1948), dall’altro, l’elaborazione
delle sep, che comprende la riflessione a proposito dei sistemi jê descritti da
Nimuendaju. La lettura di Colbacchini e Albisetti gli permise di imporre un
maggiore ordine al proprio materiale; è solo a partire da essa, per esempio, che
il sistema clanico ottagonale acquisisce la nitidezza con cui comincerà più tardi
ad apparire nei differenti modelli successivi10.
Lévi-Strauss criticherà, più tardi, gli autori della Enciclopédia Bororo (Albisetti & Venturelli, 1962), per il fatto che adottano un modello sincretico,
che indica la loro tendenza a censurare indicazioni inconsistenti o contraddittorie, come in una ricerca di “una verità unica e assoluta che, nei Bororo, non
è forse mai esistita” (Lévi-Strauss, 1964: 50 [ed. it.: 67]). La costruzione di un
Negli anni ‘30, l’etnografia bororo si riassumeva a Von den Steinen (1984), Radin e Fric
(1906), Cook (1907), Colbacchini (1925) e Baldus (1936), studi ancorati, con eccezione del
penultimo, in esperienze tanto o più brevi che quella di Lévi-Strauss.
10
Nel 1936, Lévi-Strauss parla di quattro clan in una metà, sei in un’altra, prendendo apparentemente suddivisioni per clan indipendenti (1936: 270-271). Già in Tristes trópicos, LéviStrauss parlerà della divisione ottagonale riportata dai salesiani come “probabile in passato”,
ma diluita con il tempo dai processi di estinzione e suddivisione clanica: “in realtà la situazione
è dunque piuttosto confusa” (1955: 252 [ed. it.: 209]).
9
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
115
modello propriamente teorico non dipenderebbe, a sua volta, da tale arbitrio.
Questa distinzione permette di trattare uno degli aspetti salienti della carriera del “problema bororo” nell’etnologia americanista; ossia, la proliferazione
di modelli (tanto antropologici come nativi) della struttura sociale di questo
popolo, così come espressi nei piani spaziali dei loro villaggi. Questa proliferazione è etnograficamente significativa: ovvero, essa dice qualcosa non solo
sull’impresa antropologica, ma sulle realtà indigene. Prendendola sul serio,
Lévi-Strauss sviluppa alcune delle sue idee più feconde per l’etnologia posteriore.
Lo schema classico dell’organizzazione sociale bororo (che corrisponde,
ad esempio, al “modello semplificato” che appare ne Il crudo ed il cotto) è
quello di un villaggio diviso a metà da un asse est-ovest, composto da una metà
nord ed una metà sud, suddivise in quattro clan ognuna. La casa degli uomini,
al centro, riproduce (e inverte) internamente la stessa divisione. Metà e clan
sono esogamici, matrilineari e connessi attraverso complesse relazioni rituali.
Esistono, però, aspetti gerarchici in questa organizzazione, che (tra gli altri
elementi) rendono più complicata la descrizione. Tali aspetti preoccupano fin
da subito Lévi-Strauss, che, nello stesso anno in cui pubblica “On dual organization in South America” (1944b), nel quale suggerisce per la prima volta
il carattere fittizio delle organizzazioni dualiste centro-brasiliane, si interroga
sulla relazione tra reciprocità e gerarchia tra i Bororo (1944c).
La questione è inizialmente posta in termini di natura simmetrica o asimmetrica delle relazioni tra le metà11, ma finisce per dirigersi verso un altro
aspetto del sistema bororo: quello di un’opposizione addizionale tra quelli
“di sopra” e quelli “di sotto”, sovrapposta alla divisione originale. Nel 1936,
Lévi-Strauss descriverà il villaggio di Kejara come diviso, da un asse nord-sud
supplementare, in un secondo paio di metà: “de l’amont” (Cobogewoge) e “de
l’aval” (Cebegewoge) (1936: 271-272). Qualcosa di simile era stato indicato
per i Bororo del Rio Das Garças da Colbacchini nel 1925, ma l’interpretazione
successiva dell’Enciclopédia Bororo, che diverrà canonica, è che l’opposizione
in gioco esprime una ripartizione interna di ogni clan in due “sottoclan”: quello dei “superiori” e quello degli “inferiori”, ammettendo ancora una ulteriore
categoria intermedia (“quelli di mezzo”), di statuto abbastanza problematico.
Nonostante questa interpretazione dei salesiani sia stata presa in alcuni casi
come l’ultima parola sulla questione (Crocker, 1967: 112; Maybury-Lewis,
I clan Bado Jeba (“costruttori del villaggio”), che detengono i titoli di comando, appartengono alla metà nord, Exerae. Questa gerarchia sarebbe ambivalente, dato che i termini Exerae e
Tugarege, secondo Lévi-Strauss, potrebbero essere associati, rispettivamente, ai significati “debole” e “forte”, una interpretazione che è contestata però dai salesiani.
11
116
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
1960: 23; Zerries, 1976: 102), l’etnografia successiva suggerisce cautela (Viertler, 1976; Fabian, 1992). Lévi-Strauss continua, da parte sua, a sostenere la
verosimiglianza delle sue osservazioni iniziali, enfatizzando il rischio esistente
nel sacrificare, in nome della coerenza del modello, la diversità delle varianti
locali e delle interpretazioni native (1964, 1973)12. Egli stesso, però, finirà per
appoggiarsi all’interpretazione dei salesiani per formulare una delle sue più
conosciute ipotesi a proposito dei Bororo: quella che le complessità dell’esogamia nasconderebbero una realtà endogamica.
Questa ipotesi, che si trova in Tristi tropici, è in parte basata su dati registrati da Lévi-Strauss nel 1936. Egli aveva individuato, allora, un sistema di
“unioni preferenziali” tra le unità formate da classi di nomi personali (o titoli)
appartenenti al clan, differenziate in termini di ricchezza clanica (Lévi-Strauss,
1936: 278-281). Più tardi, munendosi delle indicazioni di Albisetti (1948), egli
identifica tali unità con il subclan della Enciclopédia Bororo e costruisce un
modello secondo il quale le unioni preferenziali avrebbero luogo esclusivamente tra sottoclan dello stesso rank:
Si cette description était exacte (...) on voit que le schéma classique des institutions bororo s’effondrerait. Quelles que soient les préferences matrimoniales qui
unissent entre eux certains clans, les clans proprement dits perdraient toute valeur
fonctionelle (...) et la société bororo se réduirait à trois groupes endogames (...) qui
constitueraient vraiment trois sous-sociétés (Lévi-Strauss, 1974 [1952b]: 142).
La natura delle suddivisioni claniche bororo – e la loro espressione concreta sul piano residenziale (si veda specialmente Viertler, 1976, e Caiuby
Novaes, 1986) – è un problema molto complesso. I nomi o le classi di nomi
a cui alludeva Lévi-Strauss nel 1936 corrispondono ad unità riferite come i-e
(“nome”), e che Crocker designa ora come “lignaggio” ora come “name-set”.
I “sottoclan” consistono in aggregati di i-e. Ma niente obbliga (o autorizza)
a concepire questi aggregati in termini segmentari, come se i-e e sottoclan
designassero segmenti racchiusi in ordini di inclusione successivi, prodotti
dalla proiezione di uno stesso principio (la matrilinearità o l’uxorilocalità) attraverso differenti livelli. Per lo meno, questo è ciò che suggerisce l’etnografia
successiva, nella quale si può constatare che la tripartizione “di basso/di mezzo/di sopra” (Xebegiwuge/Boedawuge/Xobugiwuge) è lontana dall’esaurire
Crocker finirà per dargli qualche ragione: i suoi informatori “concordano con quelli di
Lévi-Strauss, dicendo che per alcuni propositi il villaggio era, anticamente, diviso in una parte
«superiore» e un’altra «inferiore» per mezzo di un asse nord-sud in mezzo al villaggio. Questa
divisione, certamente, non è in vigore tra i Bororo attuali” (1969: 57-58, n.6).
12
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
117
il repertorio di contrasti categoriali utilizzati per fissare differenze all’interno
di ogni clan. Vari altri già erano stati identificati da Lévi-Strauss nel 1936:
(fratelli) più anziani/più giovani, nero/rosso, oltre alle distinzioni che corrispondono agli emblemi (gli aroe) specifici associati a differenti segmenti di
uno stesso clan. Non è chiara, nella letteratura, la relazione tra queste differenti opposizioni; ciò che è sicuro è che questi contrasti, per l’appunto, non
si sovrappongono. E questo non solo nella pratica, ma anche sul piano del
modello: non tutti sono applicati (o applicabili) simultaneamente in tutti i
clan, e, anche quando lo sono, non designano divisioni equivalenti quanto alla
loro estensione o funzione.
La connessione tra questi contrasti e le alleanze matrimoniali, tuttavia, sembra sicura (Viertler, 1976: 172). Così, il problema con l’ipotesi di Lévi-Strauss
non è che non esistano preferenze matrimoniali orientate da considerazioni
di status, ma piuttosto il fatto che né gli i-e né le unità più inclusive, risultanti
dalla loro aggregazione, possono essere prese come gruppi dalle frontiere definite e stabili, capaci di operare coordinatamente secondo la maniera supposta
dalla ipotesi. Come mostrarono gli studi sui popoli amazzonici con sistemi
di parentela “dravidiani”, è la concezione dell’alleanza come una relazione
tra segmenti pre-costituiti (fondati nella linearità o in qualche altro principio
normativo equivalente) che deve essere qui ripensata.
L’adesione di Lévi-Strauss al modello di segmentazione dei salesiani non è
incondizionata ed egli continuerà ad insistere sulla varietà di letture legittime
del modello nativo (1974 [1956]; 1973). Il risalto che l’ipotesi dell’endogamia
raggiunge negli anni ‘50 si spiega con la costruzione del multidualismo centrobrasiliano come un fenomeno di travestimento esogamico di realtà endogamiche. Questa costruzione è legata all’elaborazione concettuale delle sep e, in
particolare, alla problematica dell’integrazione sociale che permea il libro, nel
quale appare inizialmente nella distinzione tra “endogamia vera” (il rifiuto di
riconoscere la possibilità di sposare oltre i limiti della “cultura”) e “endogamia
funzionale”, contropartita positiva dell’ingiunzione esogamica (Lévi-Strauss,
1967 [1949]: 54 [ed. it.: 98]). La minaccia all’integrità del tessuto sociale sorge
quando le regole di matrimonio, per la concentrazione ripetuta di certe alleanze, distorcono le implicazioni dell’esogamia, convertendola in (pseudo)vera
endogamia, ricreando all’interno del gruppo la stessa frontiera che lo separava
dall’esterno. Questa enfasi nel rischio di involuzione endogamica e disintegrazione del gruppo in “sottosocietà” (idem.: 265 [ed. it.: 289]) deriva dalla stessa
concezione morfologista, dallo stesso privilegio delle “classi” sulle “relazioni”,
che rendono difficile la comprensione dei sistemi di tipo nambikwara (si veda
Coelho de Souza, 2002). La riflessione successiva di Lévi-Strauss sul multidualismo centro-brasiliano lo condusse, tuttavia, ad una revisione importante
118
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
dello schema delle sep ed ad una riformulazione cruciale del problema del
dualismo amerindio.
Caratteristico dei sistemi centro-brasiliani, il fenomeno del multidualismo poneva l’autore di fronte ad una situazione apparentemente paradossale: ossia, la disgiunzione tra la superelaborazione istituzionale e lo scarso
valore funzionale (cioè, matrimoniale) del principio dualista. A parte la disposizione circolare e la distinzione tra il (semi)cerchio delle case e la piazza
centrale, comune a tutte le versioni, i vari sistemi jê comportano formule
diverse di differenziazione, coinvolgendo una molteplicità di suddivisioni
sovrapposte non-coincidenti. Certi popoli jê portano all’estremo questa
complicazione, accumulando varie paia di metà, in generale agame e basate
su principi divergenti. Anche nel caso bororo che, con la sua esogamia e
matrilinearità, si presenta come un sistema relativamente armonico, questa
armonia si vede perturbata da un sistema di inversioni rituali che, nelle parole di Crocker,
stands the whole society on its head, in an almost literal sense, and makes the Bororo ultimately much more Gê-like than they initially appear (1979: 251).
Queste inversioni bororo richiamarono fin da subito l’attenzione di LéviStrauss, che, come abbiamo visto, cercò di spiegarle nei termini della combinazione tra differenti strutture di reciprocità, e, in particolare, dell’imposizione
di un dualismo apparente su un sistema triadico primitivo fondamentale (1974
[1952b]; 1984). I sistemi jê gli sembravano passibili dello stesso trattamento.
Razionalizzazioni di difficoltà poste da configurazioni ibride basate sulla combinazione di strutture di scambio contraddittorie, i modelli presenti tra gli Indios del Brasile centrale, ed il loro linguaggio istituzionale (ovvero, i sistemi di
classi in cui questi modelli si esprimono), nasconderebbero, al di sotto del loro
dualismo e simmetria ostensivi, una organizzazione triadica ed asimmetrica
più fondamentale. Questa conclusione porterà Lévi-Strauss ad annunciare la
necessità di rivedere la distinzione tra scambio ristretto e scambio generalizzato. Ritenendolo troppo prossimo alle classificazioni indigene, egli suggerirà la
necessità di trattare lo scambio ristretto come un caso particolare di scambio
generalizzato, nel quale, tuttavia,
même ce cas particulier n’est jamais complètement réalisé dans l’experience, sinon
sous forme de rationalisation imparfaite de systèmes qui restent irréductibles à un
dualisme, sous les espèces duquel ils essayent vainement de se représenter (1974
[1956]: 167).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
119
Questa conclusione è accompagnata da una sofisticata analisi del multidualismo, in cui sono determinate le implicazioni dei suoi differenti schemi
formali e le relazioni tra essi; analisi che si svilupperà in uno degli argomenti
più elusivi di Lévi-Strauss: quello secondo cui le organizzazioni dualiste non
esistono. Questa tesi, che mira inizialmente allo “schema dualista” in generale, si convertirà in una ipotesi sul dualismo amerindio in particolare che,
ispirando molta dell’etnologia americanista contemporanea, rivela la forza
dell’intuizione etnografica di Lévi-Strauss – e quello che egli deve agli indigeni.
Dualismo concentrico e diametrale
L’articolo “Les organisations dualistes existent-elles?” si apre con un contrasto tra due piani del villaggio winnebago, forniti da informatori nativi, in
cui l’opposizione tra struttura diametrale e struttura concentrica rimette a due
concettualizzazioni alternative di una stessa organizzazione, troppo complessa
per essere formalizzata in un modello unico (Lévi-Strauss, 1974 [1956]). Il
problema è lo stesso posto dalla diversità delle versioni disponibili della struttura sociale bororo: “razionalizzazioni imperfette”, i modelli dualistici devono
sempre sdoppiarsi per recuperare ciò che ogni applicazione lascia sfuggire.
Ciò nonostante, la critica lévi-straussiana non si limita ad una denuncia dei
modelli nativi come semplici “cortine di fumo” (pace Maybury-Lewis, 1989b:
104). È sempre possibile evocare passaggi contraddittori di Lévi-Strauss riguardo allo statuto dei modelli coscienti, anche se il suo interesse per questi
come “contributo teorico” è sicuramente aumentato con il tempo. Sia come
sia, l’articolo del 1956 si distacca per l’attenzione che presta a tali “razionalizzazioni”: rifiutandosi di giudicare tra soluzioni alternative, si propone di
prenderle tutte in considerazione e determinare la loro relazione.
Il caso cruciale è, un’altra volta, quello Bororo, le cui anomalie e contraddizioni saranno analizzate adesso per mezzo della determinazione delle proprietà formali di due tipi di dualismo: il diametrale ed il concentrico. L’autore
mostra in che modo una struttura diametrale, come quella che divide un villaggio circolare in due metà, implica una dicotomia simmetrica ed equilibrata
del dominio considerato, ed una struttura concentrica, come quella che oppone la piazza centrale (pubblica) e la periferia delle abitazioni (domestica), una
opposizione tra termini diseguali, giacché questi si presentano “ordonnés par
rapport à un même terme de référence: le centre” (1974 [1956]: 155). Il contrasto stabilisce le basi per una tipologia delle strutture dualiste (e non delle
120
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
organizzazioni dualiste, si noti) in cui le forme diametral-simmetriche, da un
lato, e concentrico-gerarchiche, dall’altro sono i poli tra i quali si dispongono
le strutture diametrali asimmetriche, che, con la loro misteriosa combinazione
di gerarchia e reciprocità, preoccupavano Lévi-Strauss fin dal 1944. Queste
ultime descrivono la maggior parte dei sistemi di metà esistenti (generalmente
designate con contrasti del tipo superiore/inferiore, forte/debole, ecc.), ma il
loro statuto differisce da quello delle prime due, nella misura in cui l’asimmetria non deriva, al contrario della struttura concentrica, dalla sua “natura”: la
sua posizione intermedia corrisponderebbe ad una soluzione di compromesso
tra i due poli.
Già da un punto di vista più ampio, che consideri la relazione tra il dualismo e le forme di organizzazione non-dualiste, sono le stesse strutture concentriche che occupano una posizione intermedia. Diadiche come le strutture
diametrali, ma asimmetriche, esse sarebbero virtualmente ternarie, dato che
presentano sempre un riferimento ad un terzo termine: non solo al centro
che gerarchizza, ma anche all’esterno verso il quale si aprono. Mentre per
le strutture diametrali questo esterno costituisce un elemento non pertinente
(creando la “illusione di un sistema chiuso”), nel caso del dualismo concentrico esso si presenta come un prolungamento della struttura originale, che starebbe al cerchio periferico come questo sta al cerchio centrale (Lévi-Strauss,
1974 [1956]: 168 [ed. it.: 173]). Questo ternarismo conferisce al dualismo
concentrico proprietà dinamiche: portatrici di un “implicito triadismo”, tali
strutture farebbero una mediazione tra il dualismo statico di tipo diametrale e
le strutture apertamente triadiche.
Le nozioni di dualismo concentrico e diametrale saranno abbondantemente utilizzate dai successivi studiosi degli jê, a cominciare dal Projeto HarvardMuseu Nacional (si veda in particolare DaMatta, 1976; Seeger, 1977, 1989).
Più tardi, la dialettica di questi schemi, con le sue implicazioni dinamiche servirà da modello formale per la sintesi di Viveiros de Castro sul dravidianato
amazzonico (Viveiros de Castro, 1993; Viveiros de Castro & Fausto, 1993). Il
dualismo concentrico, in particolare, gli evocherà un altro modello di opposizione, l’opposizione gerarchica dumontiana e la nozione di inglobamento del
contrario, che avranno un ruolo centrale in questi lavori. Viveiros de Castro
suggerirà che, nei sistemi dravidiani amazzonici (dei quali la monade endogamica guianense appare come un caso tipico), al dualismo diametrale della
distinzione affinità e consanguineità si sovrappone una struttura scalare e cromatica, nella quale la distanza sociospaziale organizza il campo sociale totale
e interferisce nella classificazione terminologica, ridefinendo la relazione tra
affinità e consanguineità: “En Amazonie, l’opposition affinité/consanguinité
est hiérarchique, et non pas équistatutaire ou distinctive” (Viveiros de Castro,
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
121
1993: 149); il dualismo diametrale della classificazione sociale egocentrata si
piega al concentrismo ed alla logica cromatica del continuo.
Viveiros de Castro ha fornito il modello di ciò che altri autori avevano
descritto etnograficamente (in particolare Albert, 1985) per le relazioni intercomunitarie in Amazzonia. Al proporre una gerarchia (di valore) tra esterno
ed interno, egli ha articolato, inoltre, il modello sociologico al cosmologico,
avvicinando i lavori sull’organizzazione sociale a quelli sulla guerra e lo sciamanismo: tutti esprimerebbero una stessa struttura aperta e gerarchica, il cui
vettore va dall’esterno verso l’interno, nel quale la relazione prototipica è la
predazione e l’idioma relazionale dominante è l’affinità (Viveiros de Castro,
1993). Il concetto chiave qui è quello di “affinità potenziale”13: la categoria al
suo stato puro, valore non-marcato e generico, condizione esterna ed inglobante della parentela, distinta dall’affinità matrimoniale, che sarebbe la sua
determinazione ed attualizzazione nella sfera subordinata in cui si vede inglobata dalla consanguineità. Questa “affinità senza affini” risale, ancora una volta e non a caso, all’affinità fittizia che Lévi-Strauss vide all’opera tra le bande
nambikwara.
La dialettica del concentrico e del diametrale fornirà anche una chiave per
la concettualizzazione della dinamica storica: “le gradient de la distance est le
terrain par excellence de l’interaction entre structure et histoire” (Viveiros de
Castro & Fausto, 1993: 146)14. Ma il suo dinamismo intrinseco è già chiaro
nell’articolo del 1956, generando la pluralità di modelli (nativi), frequentemente antitetici, che si giustappongono o si succedono poiché possono affermarsi solo in questa maniera: sdoppiandosi nello spazio e nel tempo, per
giustapposizione e per sostituzione. Il contrasto tra strutture concentriche e
diametrali catturò, così, un aspetto chiave del dualismo amazzonico – la sua
instabilità – apprendendola sotto forma di una dualità interna allo stesso principio dualista, la stessa instabilità che il concetto di trasformazione topologica
descriverà a partire dalle Mytologiques fino a Histoire de Lynx.
Che ciò non sempre sia stato percepito si deve, almeno in parte, alle abituali difficoltà di comunicazione tra le due sponde del Canale della Manica.
La polemica con Maybury-Lewis è a questo rispetto istruttiva (oltre che imSi veda Viveiros de Castro (2002: 412-413) per una riconsiderazione del battesimo di
questo concetto, che Taylor, invertendo la terminologia originale dell’autore, ha suggerito di
chiamare “virtuale” o “meta-affinità” (1999: 312, n.6), e a quella di Descola si riferisce come
“affinità ideale”.
14
Questo è stato uno degli aspetti importanti dello sforzo teorico di vari autori brasiliani
che hanno cercato negli anni ‘80 e ‘90 di specificare etnograficamente ciò che Sahlins (1985)
chiamò “strutture performative”. Si vedano gli articoli nella raccolta organizzata da Viveiros de
Castro (1995).
13
122
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
portante storicamente, dato che ha costituito lo sfondo teorico del progetto di
ricerca coordinato da quest’ultimo tra gli anni ‘60 e ‘70, che ha rappresentato un avanzamento decisivo nello sviluppo dell’etnologia sud-americana). Le
due critiche principali che Maybury-Lewis dirige alla teoria delle organizzazioni dualiste di Lévi-Strauss sono: primo, che, assunta la problematica della
reciprocità, essa definisce in maniera eccessivamente ristretta il suo oggetto,
dando indebitamente la priorità all’organizzazione sociale ed alla dimensione
matrimoniale; secondo, che è una teoria incapace di apprendere la storicità
delle società a cui si applica. Riducendo lo scambio ad una istituzione ed il
dualismo ad una rappresentazione, Maybury-Lewis si priva della possibilità di
comprendere la connessione tra i due e di approfittare di quella che è stata la
principale lezione che gli indigeni hanno insegnato a Lévi-Strauss: la potenza
dell’affinità e la sua realizzazione come storia.
Dualismo: né istituzione né rappresentazione
La prima critica di Maybury-Lewis, che Lévi-Strauss subordinerebbe indebitamente il problema del dualismo alla reciprocità (1960; 1989a; 1989b),
ignora l’insistenza di quest’ultimo sulla distinzione tra organizzazione dualista
come istituzione (metà) ed il dualismo come schema concettuale, suscettibile
di essere applicato in una diversità di contesti “et qui pourrait même être universel” (Lévi-Strauss, 1962: 73). Questa distinzione fonda qui l’applicazione di
un procedimento caratteristico della costruzione dell’oggetto nello strutturalismo: la dissoluzione del fenomeno in favore della sua determinazione in quanto
attualizzazione contingente di una struttura di possibili (che rimane qui una
struttura di reciprocità). La critica di Maybury-Lewis rivela la sua difficoltà di
capire che la “reciprocità” lévi-straussiana è essa stessa una struttura mentale universale e non una istituzione particolare, in quanto il principio dualista
“n’est lui-même qu’une modalité du principe de réciprocité” (Levi-Strauss, 1967
[1949]: 97). Identificando questo principio con la sua espressione matrimonialistituzionale (l’esogamia delle metà), Maybury-Lewis (1969) non ha altra alternativa se non vederlo come una manifestazione particolare e contingente di
un’altra cosa: il dualismo convertito nella propensione a “pensare per antitesi”.
La distinzione tra organizzazioni dualiste e schema dualista si converte nella
sua lettura in una distinzione tra dualismo “sociale” e dualismo “simbolico”.
Per Lévi-Strauss, comunque, si tratta sempre di strutture di reciprocità, ossia, di scambio, anche se queste non si riducono al piano matrimoniale. Come
chiarirà in seguito, egli era alla ricerca di una spiegazione “generalisée de tous
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
123
les phénomènes du dualisme” (1973: 91), che, come abbiamo visto, lo porta
a proporre che i diversi dualismi sociologici (con o senza metà, siano queste
esogamiche o no) “suppongono e ricoprono” strutture di alleanza non dualiste, ovvero, triadiche (idem.: 91-92 [ed. it.: 111]). Se ciò indica che la connessione tra dualismo “sociale” e alleanza può solo essere indiretta, è perché la
reciprocità non si riduce per Lévi-Strauss (pace Maybury-Lewis, 1960, 1989b)
ad un principio di equilibrio nelle transazioni matrimoniali: alla fin fine, “ce
qu’une société ‘dit’ en termes de relations d’alliance, une autre société le ‘dit’ en
termes d’organisation spatiale villageoise, une troisième en termes de représentations religieuses, etc” (Lévi-Strauss, 1973: 97), e, potremmo completare, in
termini dei loro stili artistici. Alla fin fine, non era questa l’ipotesi dell’autore
per il grafismo kadiwéu che gli appare organizzato attorno ad una doppia opposizione – ternarismo/binarismo, reciprocità/gerarchia – così come il piano
del villaggio bororo? L’arte grafica dei Kadiwéu, popolo Mbaya-Guaikuru che
Lévi-Strauss conobbe ancora nel 1935, nel Mato Grosso, gli appariva come
una soluzione, al livello del simbolico, ad una contraddizione che i Bororo
avevano risolto sociologicamente (1955: 168-169 [ed. it.: 181 e seg.]).
Per Maybury-Lewis, al contrario, c’è una opposizione tra il sociale ed il
simbolico che non deriva dalla differenza tra uno schema e la sua attualizzazione, ma dalla distinzione tra le sfere in cui un tale sistema verrebbe ad applicarsi, ovvero, tra cosmologia ed organizzazione sociale. Se una tale distinzione
è ignorata da Lévi-Strauss (Maybury-Lewis, 1960), essa lo è deliberatamente:
“è proprio sul valore assoluto di una tale distinzione che il mio studio sulle
organizzazioni dualiste apriva un dibattito” (1973: 100 [ed. it.: 119]); dibattito
che sarà pienamente assunto dall’etnologia americanista nel suo sforzo per
rompere la separazione tra i domini del sociale e del cosmologico, della società
e della cultura, un punto esplicitamente affermato da Overing Kaplan (1977,
1983-1984) e sposato da quasi tutti gli specialisti della regione. Utilizzata sia
come metodo comparativo, sia come analisi etnografica, la nozione di schema
comune che si manifesta attraverso i differenti codici sensibili andrà ad influenzare profondamente l’etnologia amazzonica a partire dagli anni ‘70 e la
libererà dal tipologismo funzionalista.
In Histoire de Lynx, lo stesso Lévi-Strauss ritornerà sul problema, stavolta
sotto la forma di contrasto tra la fioritura istituzionale del dualismo centrobrasiliano e l’elaborazione mitica dello stesso tema tra i Tupi (1991: 315-316
[ed. it.: 224-225]). L’analisi del dualismo dà luogo lì ad uno sviluppo ulteriore.
Nel capitolo dedicato al problema della “idéologie bipartite des indiens”, dopo
essersi dissociato da una interpretazione delle organizzazioni dualiste come
espressione della “natura binaria del pensiero umano”, Lévi-Strauss scrive:
124
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
Je constate seulement que des peuples qui occupent une aire géographique immense, certes, mais circonscrite, ont choisi d’expliquer le monde sur le modèle
d’un dualisme en perpétuel déséquilibre dont les états successifs s’emboîtent les
uns dans les autres: dualisme qui s’exprime de façon cohérante tantôt dans la mythologie, tantôt dans l’organisation sociale, tantôt dans les deux ensembles (LéviStrauss, 1991: 316).
Lévi-Strauss crede ora di incontrare una problematica particolarmente
amerindia, nella quale egli vedrà l’espressione del principio universale della
reciprocità (e Maybury-Lewis una propensione ugualmente universale a pensare per antitesi). Si può leggere qui il passaggio da una teoria generale della
reciprocità ad una teoria “ristretta” del dualismo amerindio, che rappresenterebbe, a partire dalle Mythologiques, una riamerindianizzazione dell’opera
di Lèvi-Strauss. La nostra idea, però, è che, da un estremo all’altro di questa
traiettoria, dalla relazione tra cognati nambikwara al multidualismo centrobrasiliano, e dallo scambio matrimoniale al mito, si sente la forza di una stessa
ispirazione: “l’identité constitue un état révocable ou provisoire, elle ne peut pas
durer” (1991: 305). Ispirazione etnografica suscitata, almeno in parte, dal luogo che la socialità ed il pensiero indigeni conferiscono alla categoria di affinità,
attraverso la quale si aprono all’alterità ed al tempo.
Dualismo in perpetuo disequilibrio ed apertura verso l’altro
Durante i decenni ’70 e ’80, l’etnologia amazzonica si è dedicata alla critica
dei modelli africani dell’antropolgia sociale britannica, la cui inadeguatezza
per descrivere le società della regione era stata indicata dai jêologi nel decennio precedente, ed alla costruzione di un linguaggio concettuale adeguato alla
descrizione delle realtà indigene locali (si vedano specialmente Carneiro da
Cunha, 1977, 1978; Seeger et al., 1979; ed i lavori riuniti in Overing Kaplan,
1977). Abbiamo già indicato come la teoria dell’alleanza era stata ambientata
al contesto amazzonico e come il tema del “cunhadio” [la relazione tra cognati,
n.d.t.] era stato sviluppato nella direzione di una metafisica dell’affinità e di
ciò che Viveiros de Castro chiamò di economia simbolica dell’alterità (1996b).
Questa dialettica tra identità ed alterità – di sicuro eredità della problematica
del “même et l’autre” nella filosofia francese del XX secolo e del tentativo di
superare la filosofia del Soggetto – incontrò un terreno fertile in Amazzonia,
che si costituisce come uno dei suoi terreni più proficui. Il rifiuto di una definizione identitaria del Sé – nella quale i termini di una relazione preesistono
alla relazione stessa – non è, però, un semplice atteggiamento teorico di rigetto
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
125
di una certa tradizione filosofica o una mera applicazione delle lezioni della
fonologia strutturale. Come già intuì Lévi-Strauss nel 1943, esso possiede una
affinità elettiva con le realtà amerindie. È questo che Histoire de Lynx cercherà
di consolidare, mostrando, attraverso l’analisi delle sue differenti concezioni
della gemellarità, che la relazione tra identità e differenza si pone nel mondo
amerindio in maniera diversa da quella del pensiero europeo (Lévi-Strauss,
1991: 302-307, 316 [ed. it.: 213-218, 225]).
Al problema posto dalla gemellarità – “la dualité peut-elle se résorber dans
l’image approchée de l’unité par quoi on la représente, ou offre-t-elle un caractère
irréversible, à tel point que l’écart minimal entre ses termes doivent fatalement
s’élargir?” (Lévi-Strauss, 1991: 300) –, i nativi del Nuovo Mondo avrebbero
preferito dare risposte intermedie, e tra la contraddittorietà e l’identità avrebbero scelto l’instabilità. L’identità appare, quindi, come uno stato revocabile e provvisorio: neanche gli stessi gemelli possono essere identici. L’identità
pura è una condizione inarrivabile o, in alcuni casi, non desiderabile perché
eguagliata alla morte15. Il principio del disequilibrio si trova all’interno della
coppia, nella simmetria tra i due termini (nel caso, la disuguaglianza relativa
tra i gemelli), che instaura una dinamica particolare di sdoppiamento o incassamento regressivi, così come espresso ad esempio nel diagramma del mito
tupinambá di differenziazioni successive in cui uno dei poli sempre si biparte
in una nuova coppia (Idem.: 76 [ed. it.: 48]). Obbligato a, tappa dopo tappa,
sdoppiare i termini dell’opposizione iniziale, il modello del dualismo in perpetuo disequilibrio si presta pertanto ad una lettura di tipo frattale, nel quale
la stessa forma si ripete in scale diverse. Questa rappresentazione coincide
(e non a caso) con la caratterizzazione del dinamismo proprio del dualismo
concentrico.
Questo punto è enunciato nelle formulazioni più recenti di Viveiros de
Castro. Riformulando il concetto di affinità potenziale, prendendo adesso una
distanza in relazione alla problematica della totalità implicata nel linguaggio
dumontiano (Viveiros de Castro, 2002), l’autore fa un movimento parallelo
a quello che porta Lévi-Strauss dalla critica del dualismo nel 1956 all’elogio
del dualismo in perpetuo disequilibrio nel 1991. Anche nel suo caso, vediamo la dialettica del concentrico e del diametrale, il gioco del triadismo e del
dualismo, riapparire sotto forma di una struttura asimmetrica costituita di
dualismi successivi; in questa struttura, l’affinità potenziale appare come un
“dato generico, fondo virtuale contro il quale è necessario fare apparire una
15
Questa concezione ha importanti conseguenze per la questione dell’identità personale e
collettiva, che marca una differenza centrale tra l’etnologia amazzonica di orientamento strutturalista e quella ispirata da una antropologia dell’identità.
126
Marcela Coelho de Souza e Carlos Fausto
figura particolare di socialità consanguinea”, e la consanguineità (la parentela
in senso stretto) deve a sua volta essere deliberatamente fabbricata, estratta da
questo fondo virtuale, “mediante una differenziazione intenzionale e costruita della differenza universalmente data” (idem.: 423-424). Questa estrazione,
però, suggerisce l’autore, produce necessariamente “maggiore affinità”, una
volta che il “potenziale di differenziazione è dato dalla affinità: differenziarsi
da essa è affermarla per contro-effettuazione” (idem. 432). Il diagramma che
Viveiros de Castro offre di questa struttura, che descrive come di “attualizzazione” e “contro-effettuazione” dell’affinità, struttura “strutturante”, “che
descrive una morfogenesi, non una morfologia” (idem.: 433), corrisponde
esplicitamente a quello con cui Lévi-Strauss illustra il dualismo ricorsivo del
mito tupinambá in Histoire de Lynx (Lévi-Strauss, 1991: 76; Viveiros de Castro, 2002: 436 e seg.).
I due aspetti più incompresi della teoria lévi-straussiana del dualismo – da
un lato, la natura del suo oggetto (né istituzione ne rappresentazione), dall’altro, il suo dinamismo – sono intimamente correlati, poiché entrambi fanno
riferimento al valore dell’affinità come schema della differenza nelle sociocosmologie amerindie. La maggior parte dei critici ha teso a leggere l’opera di
Lévi-Strauss come una riduzione del mondo dinamico del vissuto al mondo
statico delle categorie pure delle opposizioni binarie, invece di enfatizzare ciò
che permette di dotare di movimento i principi e gli schemi che troviamo
sotto la diversità di fenomeni osservati etnograficamente. Tale movimento ci
appare dominare non solamente l’elaborazione del problema del dualismo,
ma anche la stessa nozione di struttura trasformazionale delle Mythologiques.
Questa opera, vero esperimento del metodo comparativo elaborato contro il
comparativismo tipologico funzionalista, può ancora essere presa, come ha
suggerito recentemente Peter Gow, come se ci offrisse una “specifically anthropological conceptualization of history” (2001: 13), nella quale le trasformazioni
diacroniche sofferte dai miti sono interpretate come cambiamenti che cercano
di rispondere al passare del tempo ed alle trasformazioni storiche, in modo
da mantenere la scala ed il significato del mondo vissuto. Perché il mito possa
“obliterare il tempo” e fornire l’illusione calda di una stabilità fredda, esso
deve essere in continua trasformazione, essendo, per definizione, un oggetto
storico che può essere indagato in quanto tale. Ancora una volta, siamo di
fronte ad una instabilità generatrice di movimento. Il che forse spiega perché,
come si chiede Lévi-Strauss,
au regard de la gémellité, des sociétés chaudes peuvent s’accommoder d’une philosophie froide, et que des sociétés froides – peut-être parce qu’elles le sont – ressentent le besoin d’une philosophie chaude (1991: 316-7).
5. Riconquistando il campo perduto: cosa Lévi-Strauss deve agli amerindi
127
Infine, in Histoire de Lynx Lévi-Strauss intuisce la possibilità di tornare non
solo alle frontiere filosofiche ed etiche del dualismo amerindio, ma anche alle
sue proprie, che lo avevano condotto da Rousseau ai Nambikwara. L’“ouverture à l’autre”, fonte di ispirazione del dualismo amerindio, è anche la fonte
che ha spinto Lévi-Strauss al campo, che ha fatto di lui un etnologo e non un
filosofo, e che persiste nella sua inquietudine riguardo ai destini dell’antropologia, stretta, da un lato dall’egotismo e, dall’altro, dalla paura di affermare la
differenza. Ecco la faccia contemporanea dell’imperialismo che, rigettando la
differenza come esotismo, crede di elevare moralmente gli altri popoli perché
concede loro ciò che la metropoli valorizza per sé stessa. La buona antropologia, però, quella che gli amerindi insegnarono a Lévi-Strauss, non ha paura
della differenza ma di essa si alimenta.
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134
Indice
6. L’uccello di fuoco
135
6. L’uccello di fuoco1
Tânia Stolze Lima
(…) Lévi-Strauss (...) Ciò che realmente egli afferma è che il
cuore ha precisi algoritmi.
Gregory Bateson
Per passare da una parola fisica al suo significato,
prima, la si distrugge in schegge, così come il fuoco di
artificio è un oggetto opaco fino a che non è, nel suo destino, un fulgore in
aria e la propria morte. Nel passaggio da semplice corpo a significato
d’amore, il fuco ha lo stesso traguardo supremo: esso muore.
Clarice Lispector
Nella millenaria storia della nozione di mito, quali avvenimenti sono comparabili con l’opera di Lévi-Strauss? Non so se ne esistono altri oltre allo stesso sorgere di tale nozione, che, come si sa, dipende dalla nascita della filosofia
greca e della storia. Non so se nella storia della mitologia esistono due avvenimenti tanto fondamentali quanto quello che ha escluso il mito dalla ragione e
quest’altro che lo ha trasformato in pensiero.
Ciò nonostante, anche tra gli antropologi che studiano le società indigene
sud americane è presente una certa reticenza di fronte all’opera mitologica di
Lévi-Strauss. Al termine di una conferenza cui ho assistito recentemente, di
un antropologo francese che potrebbe essere considerato “lévi-straussiano”
(dato che finiva di esporre un sistema panamericano formato dai miti dello
snidatore di uccelli), un antropologo nord americano prese la parola ed espose
il proprio metodo di analisi dei miti, opponendolo a quello di Lévi-Strauss.
Per me, si trattava di uno solo e stesso metodo, e così il suo Lévi-Strauss non
aveva assolutamente la stessa dimensione del mio. Nella letteratura etnologica
sud americana è facile percepire come la dimensione di Lévi-Strauss varia a
seconda della simpatia e tranquillità intellettuale che la sua opera suscita in
ognuno di noi. Quanto a me, se ne ho grande simpatia, non posso dire che tale
opera mi tranquillizzi. Al contrario.
1
Questo testo è la traduzione dell’originale in portoghese: “O pássaro de fogo”, pubblicato
in: (1999) Revista de Antropologia, Vol. 42, n. 1-2, pp. 113-132.
136
Tânia Stolze Lima
La questione soggiacente alla mia esposizione in questo seminario, al quale
è un grande onore partecipare, è a rispetto della motivazione della reticenza
di alcuni sudamericanisti con l’opera mitologica di Lévi-Strauss. Tra le altre regole del metodo, l’attenzione per l’esaustività è di enorme importanza
nell’economia generale dell’opera (Lévi-Strauss, 1991: 147 [ed. it.: 180]), ed è
essa che motiverebbe la reticenza degli etnologi. A sua volta, questa esigenza
fa pensare ad una incontinenza dello spirito di simmetria, e la domanda di
molti lettori è di sapere a cosa, in realtà, corrispondono, alla fine, i gruppi di
trasformazione appresi o costruiti da Lévi-Strauss. Tradotta grossolanamente,
la questione è sapere se tali strutture esistono realmente o sono state da lui
immaginate.
Lévi-Strauss certamente prende in considerazione una diversità di sfumature della realtà che non potrebbe soddisfare coloro che si dispongono a considerare solamente il bianco ed il nero, il sì o il no. Esiste, ne Il crudo ed il cotto
un passaggio (Idem: 148 [ed.it.: 183]) in cui l’autore non lascia alcun dubbio
a proposito di ciò che pensa a riguardo: distingue lì il tipo di esistenza dei
gruppi di trasformazione dal tipo di esistenza di ciò che chiama famiglie di
miti, ossia, un gruppo di miti che ha una propria esistenza in quanto insieme
(è il caso dei miti jê sull’origine del fuoco). Già le unità costruite dall’analisi
hanno un’esistenza puramente logica. Non sono sicura di sapere esattamente
cosa questo voglia dire, ma immagino che solamente l’arte possa produrre
cose che sono allo stesso tempo particolari, limitate nel tempo e nello spazio e
sprovviste di un riferimento empirico.
Ma questa risposta pone un altro interrogativo. Non essendo mia intenzione ridurre l’opera ad un lavoro estetico, che motivo abbiamo noi di riconoscere nei gruppi di trasformazione di Lévi-Strauss un valore strettamente
etnologico? Si può argomentare che il vero punto è che non esiste nessuna
ragione per negare loro tale valore. Ma ancora: se tali gruppi non fossero veri,
niente di ciò che facciamo nelle nostre etnografie potrebbe essere vero, per il
semplice fatto che sono costruite nella stessa maniera, essendo la differenza
unicamente di scala.
Io suggerirei un parallelo tra Lévi-Strauss e Darwin. Quest’ultimo ha scoperto che le differenze tra i membri di una specie sono della stessa natura
delle differenze tra specie, generi o famiglie; Lévi-Strauss ha scoperto che in
un mito gli episodi si articolano alla stessa maniera con cui si articolano le sue
versioni: sono trasformazioni logiche gli uni delle altre. Se ciò è vero, perché
fermarsi lì? Perché non comprendere allo stesso modo le differenze tra miti di
società distinte?
Anche se si può rifiutare la legittimità della frammentazione del racconto
operata da Lévi-Strauss – dato che di fatto l’unità con cui egli lavora è, dipen-
6. L’uccello di fuoco
137
dendo dal grado di evoluzione dell’analisi, l’episodio –, anche così sarebbe
difficile non riconoscere che nelle società che studiamo sono gli episodi che
sono frequentemente azionati.
Le ragioni, quindi, che avremmo per non accettare il prolungamento
dell’analisi fino alle unità dotate di una esistenza strettamente logica non sembrano essere, in fondo, motivate dal metodo, quanto, penso, da un disaccordo
più profondo riguardo all’applicazione del concetto di cultura. Tornerò su
questo punto più avanti.
Saremmo ingiusti se pretendessimo di valutare adesso, alla fine degli anni
‘90, il significato di un’opera i cui dispositivi più fondamentali già si trovano
dati nell’articolo del 1955, “La struttura del mito”. Cos’era il mito prima di
Lévi-Strauss?
Credo che non sia una semplificazione impropria affermare che, fino ad
allora, il problema si trovava collocato più o meno così: com’è possibile che
persone tanto ragionevoli quanto noi arrivino a fidarsi di storie inverosimili?
Esse non sarebbero, pertanto, ragionevoli, ed il mito sarebbe un discorso irrazionale. Ovviamente l’idea che essi si ingannino e noi non ci inganniamo, o
che alcuni si ingannino meno di altri, può solo essere una illusione. L’unica
uscita sarebbe affermare che tutti noi ci inganniamo in una sola misura. È ciò
che Lévi-Strauss propone, affermando che è necessario effettuare un “ampliamento dei quadri della nostra logica” (Lévi-Strauss, 1958), determinare “una
quarta dimensione dello spirito” (Idem., 1950), al fine di poter dissolvere l’apparenza di irrazionalità del mito.
Se il mito ci suona come una storia sprovvista di buon senso, ciò che ci è
permesso concludere non è che sia una storia falsa, ma che non può essere
giudicato dal punto di vista della storia. Il mito ha meno a che fare con la
storia che non con la musica, e come questa con la poesia anche se in grado
minore, perché si tratta di un linguaggio introverso, che ignora la funzione referenziale. Se, da un lato, dobbiamo opporre storia e mito, Lévi-Strauss (1962)
proclama che la storia è un mito. Ossia, sostiene, allo stesso tempo, che “A non
è B” ma “B è A”. Ora, questa relazione di non reversibilità tra mito e storia è
fondamentale, dato che senza di essa Lévi-Strauss non potrebbe restituire ai
miti il loro pieno diritto allo statuto di pensiero. Resta aperta la questione di
come gli indigeni trattano i loro miti e la loro storia; e se possiamo immaginare
che fanno con la seconda lo stesso che ne facciamo noi, non possiamo con ciò
indovinare quello che fanno esattamente con i loro miti, anche se sappiamo
che non li trattano assolutamente come una finzione.
Possiamo osservare un cambiamento di prospettiva importante, che esprime una alterazione della relazione gerarchica tra loro e noi. Lévi-Strauss si
confronta con una situazione nella quale era il punto di vista della storia che
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Tânia Stolze Lima
creava, simultaneamente, la storia come relazione veritiera ed il mito come relazione falsa ed incoerente. Egli decide di assumere il punto di vista del mito,
a partire dal quale può affrontare il mito e la storia come miti, senza che per
questo ci sia una perdita della differenza tra la conoscenza storica e la narrativa mitica. Si vede così creato un nuovo equilibrio nelle relazioni di forza che
reggono l’apparire e l’esercizio dell’antropologia.
Ma il mito non diviene un punto di vista a partire dal quale si può disegnare
una nuova immagine del pensiero senza che lo stesso avvenga con il divenire.
Questo doppio dislocamento conduce Lévi-Strauss a considerare la temporalità ed il pensiero come fatti assoluti, e pensiero vuol dire ciò in cui la vita si
trasforma con l’apparire dell’uomo nella storia della natura, e la temporalità
non caratterizza gli umani più che gli altri esseri esistenti al mondo.
Se, come propose Malinowski, il significato di un discorso fosse realmente
quello che esso fa, il significato delle Mitologiche dovrebbe essere ricercato
primariamente in ciò che hanno fatto. Il loro significato incontestabile è l’alterazione delle pratiche discorsive degli antropologi e, anche, degli altri. Questi
libri furono la parola d’ordine, non perché capaci di proibire questo o quello,
ma perché mutarono la realtà, smontando un sapere fino ad allora incontestato. Prima, tutti sapevano definire il mito, si sapeva dove situarlo nell’etnografia. Adesso, non diciamo più le stesse cose né abbiamo l’antica sicurezza; i miti
abbandonano le appendici delle etnografie e cominciano a spuntare da tutte le
parti. In particolare, non sappiamo più cos’è un mito.
Ma la mia argomentazione cadrebbe a terra nel caso si potesse obiettare
che mito è semplicemente il nome che diamo a relazioni che feriscono il nostro
sentimento di verosimiglianza. Una questione che si può sollevare è quindi,
come ha fatto Marcel Detienne (1981), se non esista una certa continuità tra
l’opera di Lévi-Strauss ed il discorso della Ragione a rispetto del mito. Per
Detienne, il semplice atto di classificazione di una parola come mito esprimerebbe una politica di esclusione.
Penso che questa continuità è doppiamente falsa, tanto per la maniera in
cui l’analisi dei miti è condotta da Lévi-Strauss – ossia, applicando ai miti
le operazioni mitiche –, quanto per il fatto che l’etnografia comprova che le
società indigene sud americane concepiscono una specificità delle relazioni
che chiamiamo mito in contrasto ad altri tipi di discorso (Gallois, 1994). I
miti sono, per gli indigeni, discorsi di un tipo irriducibile. La loro specificità è
generalmente determinata, in queste società, da ciò che si potrebbe chiamare
il regime discorsivo, ossia, dalla politica del linguaggio. O non si narrano miti
in territorio straniero, o ci sono momenti del giorno o regioni del territorio in
cui determinati miti non possono essere narrati, o ci sono quelli che le donne
non possono raccontare, o i più giovani non lo possono fare di fronte ad una
6. L’uccello di fuoco
139
persona più anziana, e così via. Tutto ciò articolato con un dispositivo più generale che determina che il peso politico ed il peso cosmologico di una narrazione dissociata dal testimone oculare non è lo stesso di un racconto basato su
questa testimonianza. Lontano dall’essere una conseguenza unicamente delle
nostre abitudini mentali, questo differenziale, che si è convenuto nei termini
di mito e storia, presenta un radicamento evidente e una grande importanza
nelle società indigene.
Nel caso della società juruna, il discorso storico non conosce limiti di tempo e di spazio, essendo totalmente nullo in quanto a peso cosmologico; ma se
esiste la possibilità di ascoltare la storia dal suo “proprietario” (il testimone
oculare o, nel caso della morte di questi, i suoi figli o, nel caso della morte
di questi, i suoi nipoti) non c’è l’abitudine di raccontarla a qualcuno, se non
contornandosi di attenzioni e raccomandazioni all’interlocutore che ne cerchi
il vero proprietario. Già il discorso mitico, al quale non si attribuiscono proprietari tra le persone vive, implica il diritto del più anziano sul più giovane,
oltre i limiti di tempo e di spazio, genere e grado di pericolosità, variabile a
seconda della narrazione. L’affermazione più toccante sul peso incommensurabile del particolare insieme dei miti juruna mi è stata fatta da un anziano, che
si era manifestato preoccupato per la mia vita a causa di un viaggio in aereo
che avrei fatto portando con me le registrazioni delle “narrazioni di Senã’ã”,
il creatore.
Ma è ancora necessario esaminare meglio la forza di interferenza del nostro
senso della realtà. La prima volta che raccontai ad alcuni Juruna un mito (era
una narrazione apinayé), le persone non percepirono che quando terminai la
narrazione il mito già era realmente finito. La situazione si ripeté in altre occasioni, e può ricordare quella in cui, in una sala da concerto, alcune persone
comincino ad applaudire prima del tempo. Con gli Juruna, ho l’impressione
che non percepiscano quando finisce il mito, e questo può indicare tanto una
infinitezza formale del racconto quanto rivelare che la mia opzione di raccontare miti potando dalla narrativa il topico iniziale, che riassume brevemente lo
sviluppo della storia, li lascia in uno stato di permanente aspettativa: se ometto
il tema, come potrebbero indovinare il punto in cui lo sviluppo si conclude?
Una volta tentai di raccontare loro il mito bororo che apre Il crudo ed il
cotto, e semplicemente mi impedirono di proseguire, fino al punto in cui qualcuno esclamò che stavo mentendo, perché il colibrì non si immerge. Io dicevo
che il colibrì, per aiutare il giovane incestuoso, si sarebbe immerso per cercare
un sonaglio nel nido delle anime. Pensai tra me e me: chi siete voi per ricordarmi che il colibrì non si immerge! Non potei comprendere ciò che stava
avvenendo, poiché le mie narrazioni erano sempre state ben accolte e, dopo
quel giorno, essi non mi interruppero mai più. Il problema, quindi, poteva
140
Tânia Stolze Lima
soltanto derivare dal mito. Immaginai che, dato che nessun mito juruna che io
conoscessi indagava l’incesto tra madre e figlio, probabilmente essi ritennero
la storia bororo brutta per questa ragione. Mesi dopo potei scoprire, stupefatta, che gli Juruna avevano ragione, dato che, nonostante le anime bororo
vivano di fatto nel fondo del fiume, era in un albero che il mito situava il loro
“nido”. La soppressione della distanza tra la realtà etnografica ed il mito, che
la manchevolezza della mia memoria mi portava ad operare, feriva il senso di
verosimiglianza degli Juruna, che mi ordinarono di tacere.
I miti, come ha dimostrato Lévi-Strauss, non obbediscono a costrizioni abbastanza ben definite che stanno alla base di una logica del sensibile? Questo
episodio mi mostrò che la ragione della mia sorpresa era la nozione, assolutamente falsa, secondo la quale qualsiasi cosa è possibile nei miti. Ciò indica
anche che il campo di possibilità definito dal nostro senso di verosimiglianza
non ha la stessa estensione né la stessa comprensione che il campo di possibilità degli Juruna, che percepiscono esattamente che i miti di altre società sono
discorsi dotati di coerenza, di interesse e di verità.
Ma come possono gli Juruna sapere che i miti di altri appartengono allo
stesso tipo di discorso dei propri? Penso che la questione già prefiguri la risposta. Non potrebbero saperlo nel caso in cui un criterio non fosse preso in
considerazione, ossia, il fatto che gli avvenimenti mitici sono dipendenti da
un campo di possibilità che è altro in relazione alla propria esperienza sociale.
Nell’etnografia juruna, una proposizione come “la giovane coppia aveva la
propria casa” è tanto favolosa quanto “le lontre erano le padrone della canoa”.
E ciò non è scevro di conseguenze per la ricerca etnografica, dato che i racconti che non feriscono il nostro senso di verosimiglianza possono essere presi, erroneamente, come storia. Gli Juruna, ad esempio, sono particolarmente
ricchi in miti che operano strettamente con i codici politico e sociologico e la
cui identificazione esige che li si proietti sull’insieme dei materiali etnografici
per percepire che sono lontano dall’adeguarsi al campo di possibilità della vita
sociale. Sono miti nel senso stretto, come si può, in maniera supplementare,
verificare dalla loro posizione nel regime dei discorsi.
Il differenziale tra i due campi di possibilità indica, di per sé stesso, che
gli Juruna non applicano ai miti ed alle storie basate su testimonianze oculari
gli stessi criteri di verità. Entrambi devono possedere una consistenza logica
esplicativa, devono essere plausibili secondo il loro mondo di riferimento specifico. Posso mentire nel raccontare che ho visto una cosa avendone in realtà
vista un’altra, ma non posso mentire nel narrare un mito, eccetto quando non
lo so narrare. Ciò che un mito narra è avvenuto realmente, la stessa esistenza
del mito prova che è verità. Non è rara l’esistenza di versioni leggermente
differenti di un mito, e, per quanto ne so, escludendo l’ipotesi che una de-
6. L’uccello di fuoco
141
terminata persona abbia alterato la storia – tutti narrano correttamente ciò
che hanno udito dai più anziani –, gli Juruna considerano due possibilità. O
avvenimenti molto simili sono avvenuti più di una volta, e, in questo caso, i
racconti sono generalmente narrati consecutivamente dallo stesso narratore
(non essendo, inoltre, del tutto raro che questa situazione di “temi e variazioni” esiga dal narratore la capacità di riprodurre la sequenza cronologica
corretta conferita all’insieme). O altrimenti si tratta di versioni di uno stesso
mito, ognuna fedele a ciò che il narratore ha udito, e che riportano solo approssimativamente l’evento così come questo è avvenuto. In questo caso oggi,
nessuno è in grado di saperlo con certezza, potendo al massimo fare le proprie
congetture su possibilità altre rispetto a quelle presentate dalle versioni disponibili, ossia, possono immaginare una nuova versione dei punti equivoci, senza
che questo significhi che possano narrare il mito completo a partire da queste
congetture, le quali, secondo quanto ho potuto constatare, esistono come versioni autorizzate in altre società tupi.
Bisogna notare, però, che, dal punto di vista degli Juruna, i miti non sono
sprovvisti di una funzione referenziale e, almeno su questo piano, niente permette di approssimarli alla poesia. Ma ciò è lontano dal significare che LéviStrauss neghi ai miti una funzione che questi hanno obiettivamente nel piano
etnografico, dato che ciò che qui realmente importa è che la funzione referenziale dei miti è di un tipo che appena li distingue meglio da altri discorsi.
Se il discorso storico si riporta per definizione al passato, il discorso mitico si
riporta, anch’esso per definizione, ad un passato anteriore al passato, ad una
temporalità che precede e, per ciò stesso, eccede la temporalità; si riporta così
a ciò che è stato e può venire ad essere per te o per me. Quanto a certi insiemi
di miti, gli Juruna concepiscono una tale relazione di immanenza tra la parola
e l’avvenimento che l’atto di dirlo può causare l’avvenimento. Insomma, se la
parola mitica trasgredisce la funzione referenziale ordinaria del linguaggio non
è per carenza, ma, come ha argomentato Lévi-Strauss a proposito dell’arte, per
un “eccesso di oggetto”.
Cosa sarà, allora, che motiva la reticenza degli etnologi verso l’opera mitologica di Lévi-Strauss? Ho già anticipato che, secondo la mia opinione, tutto
deriva meno dal metodo applicato ai miti che non dal modo con cui l’autore
maneggia il concetto di cultura. Penso che sia proprio questo che rende possibile l’applicazione del metodo in scale variabili, a partire dalle quali si costruiscono oggetti che decollano dalla realtà empirica così come la concepiamo. In “Il concetto di struttura in etnologia”, Lévi-Strauss esplora la vecchia
questione di quanto vale il concetto di cultura, proponendo una concezione
totalmente strumentale:
142
Tânia Stolze Lima
Chiamiamo cultura ogni insieme etnografico che, nella prospettiva dell’indagine,
presenti, rispetto ad altri, scarti significativi. Se cerchiamo di determinare scarti
significativi tra l’America del Nord e l’Europa, le considereremo come culture
differenti; ma, supponendo che l’interesse verta su scarti significativi fra – diciamo
– Parigi e Marsiglia, questi due insiemi urbani potranno essere provvisoriamente
costituiti come due unità culturali. L’obiettivo ultimo delle ricerche strutturali è
quello delle costanti connesse a tali divergenze, e perciò risulta evidente che il
concetto di cultura può corrispondere a una realtà oggettiva pur rimanendo funzione del tipo di ricerca considerato. Una stessa collezione di individui, purché
sia oggettivamente data nel tempo e nello spazio, dipende simultaneamente da
più sistemi di cultura: universale, continentale, nazionale, provinciale, locale, ecc.;
e familiare, professionale, confessionale, politico, ecc. Nella pratica, comunque,
questo nominalismo non può essere spinto alle estreme conseguenze. In realtà, il
termine cultura è impiegato per raggruppare un insieme di scarti significativi la cui
esperienza prova che i limiti approssimativamente coincidono. Che tale coincidenza non sia mai a tutti i livelli in una volta, ciò non deve vietarci di usare la nozione
di cultura (1958: 325 [ed. it.: 328-329]).
Avviene, inoltre, nel campo della cultura lo stesso che in quello della storia: così come i periodi non si trovano pre-ritagliati ma sono costruiti dagli
storici, neanche l’umanità è pre-ritagliata, eccetto nel caso in cui naturalizziamo i ritagli introdotti dai gruppi sociali e da noi stessi. Ma ciò che voglio evidenziare è come questa maniera di concepire la cultura assomiglia alla visione
di Evans-Pritchard della società nuer. Anche la segmentarietà nuer implica
che uno stesso insieme di individui appartenga a gruppi di diverso ordine di
grandezza e che solamente una relazione sociale determinata nel tempo e nello spazio può dire quali gruppi stanno venendo costituiti e dissolti. I gruppi
segmentari hanno un’esistenza solo in atto: noi siamo A se e solamente se in
un certo momento voi siete B. Assieme, voi e noi, saremo C, nel caso in cui
altri divengano D in relazione a noi, e così successivamente. Di diritto, se non
di fatto, i segmenti non sono permanenti, reificati, transcontestuali o atemporali, dato che le identità collettive non sono entità empiriche ma relazioni
differenziali.
Accanto all’uso segmentare del concetto di cultura, l’antropologia ne conosce un altro che si potrebbe dire imperiale. La cultura è prima separata dalla
natura e, in seguito, i suoi differenti territori sono sovracodificati in maniera
da far credere che le sue frontiere sempre flessibili e variabili siano marchi
naturali; infine, questo grande impero della cultura conferisce ad ogni territorio sovracodificato lo statuto di impero autonomo. Si può andare ancora
più lontano, si può sempre sovracodificare il sovracodificato, in modo che se
anteriormente gli imperi autonomi mantenevano relazioni di equivalenza ed
6. L’uccello di fuoco
143
incommensurabilità, ossia se ognuno differiva da tutti gli altri nella stessa misura in cui questi differivano tra loro, ora uno degli imperi vuole distinguersi
da tutto l’insieme in maniera differente.
Ovunque l’operazione imperiale si presenti, la natura è tagliata dalla cultura e le differenti culture che da ciò derivano, esigono per essere analizzate, la
nozione di principio o quella di totalità espressiva. Si tratta del conosciuto meccanismo secondo il quale, qualsiasi cosa tu faccia, sei condannato ad esprimere
un principio, qualsiasi cosa tu dica, dice la totalità.
Le Mitologiche rappresentano senza dubbio l’opera antropologica meno
compromessa con l’uso imperiale della cultura. Non chiedo che mi si creda
sulla parola, ma io, che ho appena riletto Il crudo ed il cotto, sinceramente non
so quale sia la differenza che, grosso modo, esisterebbe tra i Tupi e gli Jê, ad
esempio, per ciò che riguarda la mitologia dei due insiemi di popoli. Nessuna
tipologizzazione delle società che lì appaiono attraverso i loro miti. Nessuno
viene opposto a nessuno: ha ciò che l’altro non ha, pensa ciò che l’altro non
pensa, è ciò che l’altro non è. E questo non perché siano tutti uguali, ma perché le differenze scoppiettano [pipocar, n.d.t.] da tutte la parti ed anche in
ciascuno.
Ciò che a prima vista appare più enigmatico è che derivi da un uomo che
lavora come un motore per la fabbricazione di opposizioni. Il linguaggio di
Lévi-Strauss, marcato dai termini opposizione, simmetria, inversione, solo apparentemente suggerisce una somiglianza con il pensiero degli antropologi che
utilizzano in maniera esplicita o meno gli stessi strumenti analitici. Prima però
di esaminare questo punto esploriamo la problematica lévi-straussiana della
separazione tra natura e cultura.
La partecipazione di Lévi-Strauss al seminario di Lacan il 30 novembre del
1954 mette in scena una curiosa conversazione. Mannoni, dopo aver evidenziato che il trattamento lévi-straussiano della distinzione tra natura e cultura,
già non si formulava nei termini classici di una opposizione tra il naturale e
l’istituzionale, l’universale ed il contingente, dichiara che “dopo Lévi-Strauss,
si ha l’impressione che non si possano più usare le nozioni di cultura e di natura” (in Lacan, 1985: 56 [ed. it.: 47]). Facendo apparire una maggiore tranquillità rispetto a Mannoni o Hyppolite, Lacan sostiene ciò che segue:
... I miei dialoghi personali con Lévi-Strauss mi permettono di illuminarvi su questo punto. Lévi-Strauss sta per far marcia indietro di fronte alla bipartizione molto
netta che fa tra la natura e il simbolo, di cui sente tutto il valore creativo, perché
è un metodo che permette di distinguere fra i registri, e allo stesso tempo fra gli
ordini di fatti. Oscilla, e per un motivo che potrebbe meravigliarvi, ma che è chiaramente da lui confessato – teme che, sotto la forma dell’autonomia del registro
144
Tânia Stolze Lima
simbolico, rifaccia capolino, mascherata, una trascendenza per la quale, a causa
delle sue affinità, della sua sensibilità personale, prova solo timore e avversione. In
altri termini, teme che dopo che abbiamo fatto uscire Dio dalla porta, lo facciamo
rientrare dalla finestra. Non vuole che il simbolo, siappure sotto la forma straordinariamente depurata sotto la quale lui stesso lo presenta, non sia che una riapparizione di Dio sotto una maschera. Ecco cosa c’è all’origine dell’oscillazione che ha
manifestato quando ha messo in discussione la separazione metodica del piano del
simbolico dal piano naturale (Lacan, 1985: 51-52 [ed. it.: 42-43]).
Non so se il timore, ma l’antipatia per la trascendenza, Lévi-Strauss non
la occulta ai lettori. Si usa dire che la sua posizione cambiò dopo Le strutture
elementari della parentela. Egli stesso riflette su questo punto nella Prefazione
alla seconda edizione del libro, formulando un paradosso curioso. Comincia
osservando che la semplicità dell’opposizione natura e cultura cadrebbe nel
caso essa fosse opera (come gli antropologi affermano) dell’uomo stesso, perché in tal caso, prosegue, “non sarebbe né un dato primitivo né un aspetto
oggettivo dell’ordine del mondo” (Lévi-Strauss, 1967: xvii [ed. it.: 20]). Vediamo così che si tratta meno di opporsi al senso comune antropologico che
di portarlo fino alle estreme conseguenze. Ossia, se l’antropologia è corretta
nel dire che gli umani si allontanano dalla natura, allora la separazione è strettamente immaginaria. La scappatoia da questo paradosso è ben conosciuta:
Lévi-Strauss affermerà l’esistenza di una continuità reale e di una discontinuità logica tra natura e cultura e proporrà l’utilizzo dell’opposizione come
strumento di analisi.
Si vede quindi come Lévi-Strauss, che rifiuta diversi dualismi caratteristici
della nostra tradizione (sensibile/intelligibile, individuo/società, emozione/ragione, mito/storia, io/altro ed anche, in un certo senso, natura/cultura), attribuisca a quest’ultimo un valore metodologico. Il che significa che Lévi-Strauss
conferisce alla coppia natura/cultura un trattamento dello stesso tipo di quello
che conferisce a opposizioni come concavo e convesso o orizzontale e verticale. Non credo di allontanarmi troppo dalla concezione dell’autore avvicinandomi all’opposizione fonologica: natura e cultura sono “segni differenziali,
puri e vuoti” (Idem., 1986: 209 [ed. it.: 174]).
Attribuire all’immaginario lo statuto di metodo, è usarlo per delucidare l’immaginario stesso, senza con ciò illudersi, credendosi capaci di averlo
superato. All’assumere l’opposizione come immaginaria, Lévi-Strauss non
suppone di aver raggiunto nessun punto di vista a partire dal quale si possa
opporre il reale all’immaginario, dato che qui l’unica verità che si può bramare nasce quando l’immaginario vede sé stesso come tale. In altre parole, se
egli nega all’opposizione tra natura e cultura qualsiasi riferimento nell’ordine
6. L’uccello di fuoco
145
del mondo, è solo per sostenere che, primo, la loro relazione è di immanenza e, secondo, che l’opposizione è reale, ma solamente in quanto realtà del
pensiero.
Esaminiamo adesso come il problema appare in una delle Mitologiche, Il
crudo ed il cotto. In questo libro, si osservano due usi differenti dell’opposizione natura/cultura, che ora si presenta come uno strumento di analisi, ora
come un oggetto. Come strumento analitico, però, questa coppia appartiene
ad un insieme di varie decine di altre coppie di termini opposti, i quali non si
situano allo stesso livello di astrazione e la cui grande parte è, senza ombra di
dubbio, espressa in maniera diretta dai miti stessi. La funzione del mitologico consiste in evidenziarle e, a volte, tradurle in altre opposizioni che legano
termini appartenenti al campo del concetto più che al campo del segno. È
questo il caso appunto della coppia natura/cultura, che traduce l’opposizione tra segni come crudo e cotto o tapiro e uomo. Il procedimento garantisce
una certa continuità tra i miti e le analisi; la premessa forse essendo giustamente che per comprendere come pensano i miti è necessario pensare come
loro.
Analizzare i miti è, quindi, collocarsi nel loro prolungamento e fare ciò che
essi fanno. Ma cos’è che fanno? Come in una specie di grande laboratorio simbolico, i miti fanno esperienze con le relazioni di subordinazione del linguaggio. In essi, la differenza tra denotazione e connotazione è posta solamente per
essere superata. Un mito jê (M163) parla di un diadema di piume rosse che
“brillava tanto che sembrava fuoco vero”; il picchio lanciò questo diadema
verso il sole che si trovava al piedi dell’albero, ed il sole “l’afferrò, passandolo
rapidamente da una mano all’altra per poterlo tenere finché si fosse raffreddato...” (Lévi-Strauss, 1991: 277 [ed. it.: 386]). A causa del goffo fratello del sole,
il diadema avrebbe provocato un incendio che avrebbe distrutto la foresta e
gli animali. La somiglianza prefigura l’identità, l’icona diviene indice, anche la
metafora ha una relazione esistenziale con l’oggetto.
Anche la differenza tra il nome proprio e la persona è collocata solamente
per essere superata. In un mito tupinambá (M96), un uomo chiamato Sarigoys
abusa della donna di Maíra Ata, ingravidandola; il suo castigo sarà trasformarsi in una sariga (Lèvi-Strauss, 1991: 170 [ed. it.: 228-229]).
Si dà lo stesso nella relazione tra la parola e la cosa. Nel mito bororo
dell’origine del fuoco (M55), il giaguaro, offrendosi per cenare con la scimmia,
la interroga: “Ma... dov’è il fuoco?” (:127 [ed. it.: 171]), come se il linguaggio
precedesse la realtà. La scimmia lo inganna, facendogli confondere l’immagine
del sole al tramonto con il fuoco e, mentre il giaguaro corre invano verso l’orizzonte occidentale per prenderlo, la scimmia inventa la tecnica di produzione
del fuoco per frizione.
146
Tânia Stolze Lima
Allo stesso modo, il pensiero crea la realtà. Il cacciatore perseverante di
un mito carib (M162) si scopre preso dal desiderio verso una aluatta femmina
arrostita e sospira: “Se lei potesse trasformarsi in donna per me!”. Ed ella
realmente si trasforma per lui! (:261 [ed. it.: 362]). Lo sciamano di un mito
apapocuva (M64) si finge morto e, semplicemente, si decompone.
Un mito arekuna (M145) introduce una esperienza un po’ più complicata.
Se l’esperienza della diversità umana ci permette di venire a conoscenza della
variabilità dei segni in un mondo delle cose relativamente costante, questo
mito forgia una variabile interamente nuova: postula una situazione in cui i
segni sono costanti ma le cose no. È giustamente questo che un tapiro femmina spiega ad un uomo, suo ex figlio adottivo, attuale marito. Lasciandolo
come figlio per prenderlo in marito, il tapiro gli spiega che nel suo mondo le
cose sono diverse: il tuo serpente velenoso è la mia padella per arrostire, il mio
serpente è il tuo cane.
I miti, quindi, postulano un mondo la cui relazione di alterità con il mondo
dell’esperienza sociale deriva, potremmo dire, dal fatto che le cose assumono
la funzione di segni ed i segni la funzione di cose. Un mondo di prima della divisione tra parola e cosa, esistenza logica e realtà empirica, o natura e cultura.
Qual’è la relazione tra questa proprietà dei miti ed il metodo di LéviStrauss? Semplicemente, essa è incorporata al metodo, distruggendo con ciò,
nelle stesse dimensioni analitiche dell’opera, le confortanti relazioni gerarchiche tra referenza, segno, nome, significato, senso proprio, metafora; ritirando
i sostegni natura e cultura, soggetto e oggetto o esistenza logica e realtà empirica. E l’analisi acquisisce con ciò un nuovo tipo di continuità con i miti, che si
può osservare in molti piani.
In un mito kayapó (M125), gli uomini uccidono un tapiro; in un mito bororo (M2), un uomo stupra una donna. Tra le altre relazioni di trasformazione
che attirano senza difficoltà la complicità dei lettori, per Lévi-Strauss, lo stupratore è il tapiro! In caso contrario, come potrebbe il mito bororo affermare
che lo stupratore appartiene al clan dei tapiri?
L’incesto dello snidatore di uccelli bororo (M1) si trasforma in una eclissi
(Lévi-Strauss, 1991: 281 [ed. it.: 391]), visto che questa, in America del Sud
come in altre parti del globo, esige un clamore che, in Europa, si manifesta di
fronte alle unioni coniugali condannabili. A sua volta, l’esposizione della carne
cruda al sole nei miti jê dell’origine del fuoco (M7 e M12) diviene un incesto
tra il cielo e la terra, attraverso i raggi del sole. La cosa evolve verso una bellezza selvaggia e misteriosa quando Lévi-Strauss, anticipando l’obiezione dei
lettori a proposito del carattere congetturale e speculativo di queste relazioni,
offre loro un mito inuit (M156) nel quale l’eclisse è l’abbraccio che il sole a
volte riesce a dare a sua sorella.
6. L’uccello di fuoco
147
A proposito dell’opposizione natura e cultura come oggetto di analisi
e come essa è concepita dai miti, in particolare dall’insieme di miti relativi
all’origine dei veleni per la pesca e la caccia, Lévi-Strauss offre una analisi che
si situa ad un livello analogo a quella di Dumézil sull’ideologia tripartita degli
indoeuropei (Bellour & Clément, 1979). Non è questo il luogo per presentare
in maniera completa i risultati di una analisi che mostra come i miti pensano
la relazione tra natura e cultura nei termini di una “dialettica dei grandi e
piccoli intervalli”, e come la natura è concepita come un “mondo al contrario”. Si tratta di un contributo per la conoscenza etnografica delle cosmologie
indigene che, per quanto ne so, ha atteso trent’anni perché cominciassimo a
percepirne l’importanza. Mi riferisco al fenomeno che Lévi-Strauss ha battezzato reciprocità di prospettive tra natura e cultura – e qui mi riferisco ad una
nozione indigena di punto di vista che i miti delle liane esplicitano:
In tutti i casi la natura imita il mondo della cultura, ma alla rovescia. La cucina che
la rana esige è il contrario di quella degli uomini, in quanto essa ordina all’eroina
di scuoiare la selvaggina, di disporre la carne sulla graticola e di mettere le pelli nel
fuoco, ciò che significa agire contro il buon senso: si affumica infatti la selvaggina
nella sua pelle, e la si tiene sopra un fuoco lento, alimentato con legna. Con il mito
arekuna questo carattere di mondo alla rovescia si accentua ulteriormente: il tapiro
copre il figlio adottivo di zecche a guisa di perle: «Gliele mette attorno al collo, alle
gambe, alle orecchie, ai testicoli, sotto il braccio, su tutto il corpo» [...].
Non basta dunque dire che in questi miti la natura, l’animalità, si invertono in
cultura e in umanità. La natura e la cultura, l’animalità e l’umanità, divengono qui
reciprocamente impermeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera
all’altra: non esistono soluzioni di continuità, ma viceversa queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine
correlativo dell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi vicendevolmente.
Orbene, una certa concezione del veleno non sarebbe forse adatta a ispirare questo
sentimento privilegiato di trasparenza reciproca della natura e della cultura (...)?
Il veleno opera una specie di corto circuito fra la natura e la cultura. Esso è infatti
una sostanza naturale che, come tale, viene ad inserirsi in una attività culturale:
caccia o pesca, e che la semplifica all’estremo. Il veleno è incomparabilmente più
potente dell’uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone, amplifica il suo gesto
e anticipa i suoi effetti, agisce più rapidamente e con maggiore efficacia. Si comprende allora perché il pensiero indigeno veda in esso una intrusione della natura
nella cultura. La prima penetrerebbe momentaneamente nella seconda: per alcuni
istanti si svolgerebbe una operazione congiunta, nella quale le rispettive parti diverrebbero indiscernibili (Lévi-Strauss, 1991: 262-263 [ed. it.: 357-358]).
Non so se posso concordare interamente con l’idea che il mondo al contrario in cui consiste la natura, secondo la filosofia indigena, sia ispirato dal
148
Tânia Stolze Lima
veleno più che dal fuoco, dal tapiro o dal pipistrello. Anche i punti di vista del
giaguaro e degli avvoltoi sono messi in risalto dai miti, caratterizzando ugualmente la trasparenza, la permeabilità e la contrarietà tra natura e cultura. Il
mito matako dell’origine del giaguaro (ossia, di un padrone del fuoco), M22,
racconta di una donna, futuro giaguaro, che strappa con una dentata la testa
di suo marito, la porta a casa e la mostra ai figli dicendo che si tratta della testa
di un armadillo. L’insieme formato dai miti tupi dell’origine del fuoco offre
un mito (M65) nel quale gli avvoltoi trovano il cadavere di un dio che si finge
morto ed accendono un fuoco con il fine di resuscitarlo. Ancora più suggestivo è un mito tacana (M42), nel quale il pipistrello, che, al contrario della liana,
“incarna infatti una disgiunzione radicale fra la natura e la cultura” (LéviStrauss, 1991: 132 [ed. it.: 177]), resta sposato con una umana che ignora la
sua condizione fino al giorno in cui ella vede un pipistrello sorridendole e lo
uccide senza riconoscervi il marito (Idem.: 123 [ed. it.: 166]).
Per terminare, la mitologia juruna presenta una piccola difficoltà per la
cui soluzione lo sforzo speso sembrerà ad alcuni interamente derisorio. Sarò
quindi molto breve. Il mito juruna dell’origine del fuoco ha l’arpia come il suo
primo proprietario, ma afferma che questi non ne ha mai perso il possesso.
Ciò significa che il mito in realtà narra che gli umani condividono il fuoco con
l’arpia. Quando per caso qualche arpia ruba loro carne arrostita da un forno,
come ho già visto succedere, le persone procedono come il giaguaro benevolente ed avveduto di uno dei miti jê. Per altro verso, secondo il loro mito dello
snidatore di uccelli, l’eroe (che inoltre ha la posizione del genero) viene salvato
giustamente da un arpia che gli dà sangue da bere, dato che il sangue è l’acqua
per l’arpia. Essa mangia cotto, ma beve crudo. Per un popolo che considera le
bevande fermentate come il marchio per eccellenza della vita culturale, l’arpia
incarna, direbbe Lévi-Strauss, la più radicale disgiunzione tra natura e cultura
che si possa concepire.
Ho battezzato questo mito di Uccello di Fuoco ed ho scoperto più tardi
che la migliore maniera di memorizzare miti è dare loro nomi propri. Questa
fantasia indica le molte relazioni che possiamo mantenere con una persona
che certamente mai conosceremo, ma i cui libri sono entrati nelle nostre vite
come una persona vera, influenzando la materia più intima della nostra soggettività.
Un’ultima parola: “il pensiero riconquista i propri diritti nei confronti della
ragione, che ne era stata investita al fine di soggiogarlo, e si appropria del compito di legiferare contro la stessa ragione; in ciò ritroviamo il senso del lancio
di dadi.” (Deleuze, 1997: 107 [ed. it.: 130-140]).
6. L’uccello di fuoco
149
Bibliografia
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Deleuze, G. (1997) [1962], Nietzsche et la Philosophie. Paris: puf.
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Gallois, D. T. (1994), Mairi Revisitada. A Reintegração da Fortaleza de Macapá na
Tradição Oral dos Waiãpi. São Paulo: nhii-usp/fapesp.
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Edições 70, pp. 201-212.
Lévi-Strauss, C. (1991) [1964], O cru e o cozido. São Paulo: Brasiliense.
150
Indice
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
151
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del poststrutturalismo1
Eduardo Viveiros de Castro
Cari colleghi,
devo cominciare dicendo che sono molto sensibile all’onore che qui mi
viene offerto: di aprire con questa allocuzione il convegno Lévi-Strauss: un
siglo de reflexión. Non riesco a spiegarmi la ragione per cui mi abbiate scelto,
tra i tanti colleghi qui riuniti – tutti più accreditati di me per una tale onorificenza – se non per il fatto contingente di essere un etnologo nato in Brasile, e
che studia i popoli indigeni brasiliani. Vedo in questo invito, così, una sorta di
omaggio indiretto al mio paese, dove Lévi-Strauss si fece le ossa come etnologo, ma soprattutto ai popoli indigeni brasiliani, popoli il cui pensiero, contribuendo in maniera decisiva alla formazione di quello dello stesso Lévi-Strauss,
è giunto di buon ora ad irrigare la tradizione filosofica dell’Occidente, dopo
cinque secoli di dimenticanza o disprezzo – nel momento stesso in cui questa
tradizione necessita mai come ora di tutto l’aiuto esterno per poter avere un
risultato. Finalmente l’Occidente comincia a percepire che non è altro che un
accidente, un gigantesco accidente antropologico che potrà chiudere la carriera della specie sulla Terra.
La seconda ragione che mi sovviene per ricevere un tanto distinto invito
potrebbe essere per così dire intrinsecamente lévi-straussiana o strutturalista,
ossia: mi vedo chiamato a parlarvi precisamente perché, come potete percepire, non parlo la vostra lingua, ma una lingua gemella di questa. Sappiamo che
una delle caratteristiche fondamentali dei gemelli nella mitologia amerindia è
di essere leggermente, ma crucialmente, diseguali, asimmetrici. Tale asimmetria è palpabile nel caso delle nostre rispettive lingue, con il portoghese che
ricoprirebbe il ruolo di gemello lunare, minore, con qualcosa di ingannatore
(malandro, diremmo in questa lingua) con i suoi dittonghi traditori, le sue
1
Questo testo è la traduzione di una conferenza inedita pronunciata dall’autore a Città del
Messico il 19 novembre del 2008, nell’ambito del seminario “Lévi-Strauss, un siglo de reflexión”, organizzata dall’Instituto Nacional de Antropologia e Historia.
152
Eduardo Viveiros de Castro
sibilanti serpentine e le sue strane chiantes [consonanti fricative pre-labiali,
n.d.t.], in contrapposizione allo spagnolo solare, cristallino, imperioso e magniloquente, che sarebbe come il gemello maggiore, il demiurgo della coppia.
Ciò che state udendo in questo momento, quindi, è l’ingannatore o trickster
che tenta di farsi passare per il demiurgo, come succede in tanti miti del continente. Come sappiamo, egli sempre fracassa, in una maniera allo stesso tempo
comica e grottesca.
Sia come sia, questa conferenza si colloca interamente nel segno dei gemelli, dato che questi sono, come dice enigmaticamente Lévi-Strauss nel suo libro
più profondo – mi riferisco a Storia di Lince –, “la chiave di tutto il sistema”.
Il maestro francese si riferisce qui al sistema mitico panamericano analizzato
nella serie delle Mitologiche; ma io mi riferisco al sistema teorico dello strutturalismo. Sempre che sia realmente possibile distinguere i due sistemi.
II
Il titolo che mi sono trovato a dare a questa conferenza è “Claude LéviStrauss, fondatore del post-strutturalismo”. Temo che sia necessario giustificarlo. Per questo, comincio a parlare di un altro titolo. Sto terminando di scrivere un libro su Lévi-Strauss che si chiama Questo non è tutto: Lévi-Strauss e
la mitologia amerindia. “Questo non è tutto”, “ce n’est pas tout” è una formula
molto frequentemente utilizzata dall’autore, in particolare nelle Mitologiche, al
punto da poter essere considerata una manierismo diacritico. La “piccola frase
di Lévi-Strauss” (la chiamo così in omaggio alla “piccola frase di Vinteuil” de
Alla ricerca del tempo perduto), marca la nascita quasi prestigiatoria di sempre un altro asse, invariabilmente “un altro” asse di trasformazione, disposto
di traverso, in diagonale rispetto ai vari assi che fino a lì venivano a guidare
la comparazione; essa annuncia la presenza di una torsione supplementare
completamente imprevista, che apre repentinamente una progressione che si
incamminava verso la chiusura; essa segnala la rivelazione di un vincolo addizionale, implicato, oscuro, compattato nel testo in analisi che subito si spiega
e si chiarisce ed allo stesso tempo si moltiplica e diffrange in prospettive che,
letteralmente, si perdono di vista all’orizzonte.
Il movimento segnalato dalla piccola frase avviene con molta maggiore frequenza che non essa; essa è eccezionale, ma esso ci sembra necessario, intrinseco al procedimento lévi-straussiano, procedimento che non termina mai, al
contrario di ciò che si è abituati ad insegnare pigramente, con lo stabilirsi di
opposizioni binarie; in realtà, comincia con esse, e comincia precisamente con
il complicarle. Ricordiamo, tra le tante, la profonda osservazione de L’uomo
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
153
nudo : “Il problema della genesi del mito si confonde quindi con quello del
pensiero stesso, la cui esperienza costitutiva non è quella di un’opposizione
tra l’io e l’altro, ma dell’altro colto in quanto opposizione”(Lévi-Strauss, 1971:
539-540 [ed. it.: 566]). Da ciò si può concludere, in sintonia con altri passaggi
dell’autore, che l’io è un caso particolare dell’altro, così come l’opposizione,
tanto quanto l’identità, è appena un caso particolare della differenza.
Secondo il nostro autore, di conseguenza, una opposizione binaria è tutto
fuorché un oggetto semplice, o semplicemente doppio, o anche semplicemente un oggetto; forse – ma qui è possibile che stiamo andando troppo lontano
– neanche una opposizione. Si leggano le pagine luminose de Le origini delle
buone maniere a tavola o de La vasaia gelosa sulla natura esatta, o meglio, “anesatta”, della relazione tra il Sole e la Luna nella mitologia amerindia e si avrà
un’idea di ciò di cui sto parlando.
La piccola frase ricopre, in verità, una funzione fondamentale all’interno
dell’economia teorica dello strutturalismo. Essa indica la non finitezza perpetua dell’analisi strutturale e suggerisce che la ragione di questa non finitezza
è la molteplicità virtuale di ogni oggetto determinato dal metodo strutturale,
dato che l’oggetto è sempre uno stato particolare di un sistema di trasformazioni i cui limiti sono radicalmente contingenti e, inoltre, definibili soltanto
in maniera relazionale. La “in-terminabilità”, nel doppio significato (senza
fine o termine, e senza la possibilità di determinazione univoca di ciò che è
un termine ed una relazione) dell’analisi mitica è un principio fondamentale
delle Mitologiche, enunciato subito nella “Apertura” de Il crudo ed il cotto: il
carattere aperto, intensivo, interattivo, in nebulosa, poroso, “connessionista”
dei sistemi mitici che ricostruisce. “Questo non è tutto”, quindi, perché niente è tutto, in nessun momento si raggiunge una totalizzazione. “Questo non
è tutto” proietta un concetto di struttura (ed una concezione di analisi) che
non privilegia nessuna volontà di chiusura, completezza, compattezza. Con
il “questo non è tutto”, si comincia ad intravvedere la possibilità di un LéviStrauss post-strutturalista.
Naturalmente, questo di fatto non è tutto... La piccola frase, come una
chiave, può essere usata tanto per aprire ciò che era chiuso come per chiudere
ciò che era aperto. La dimostrazione della chiusura trasformazionale, della
coerenza ed omogeneità dei gruppi di miti in analisi appare ripetute volte nel
corso del testo delle Mitologiche, per raggiungere una sorta di apoteosi enfatica nel capitolo “Il mito unico” de L’uomo nudo. Lévi-Strauss andrà ad insistere ripetute volte nelle Mitologiche sulla chiusura del sistema che analizza, la
rotondità della terra mitologica, la completezza del circolo che lo porta dalle
savane del Brasile alla coste brumose degli stati di Washington e della Columbia Britannica, così come sulle varie chiusure secondarie dei sottogruppi mitici
154
Eduardo Viveiros de Castro
interni a questo periplo. L’idea di clôture, chiusura, clausura appare a volte
consustanziale all’analisi strutturale: secondo Lévi-Strauss, è necessario dimostrare che il gruppo si chiude, che si è tornati allo stato iniziale di una catena
di miti attraverso un’ultima trasformazione; che, in realtà, il gruppo si chiude
su diversi assi. Questa insistenza è legata al tema della necessaria ridondanza
del linguaggio mitico, condizione dello stabilirsi di una “grammatica” della
mitologia, come a volte l’autore si compiace di concepire la propria impresa; e
si conosce l’antipatia che egli riserva alla nozione di “opera aperta”.
Avviene, però, che la moltiplicazione delle dimostrazioni di chiusura produce l’impressione paradossale che esista un numero teoricamente indefinito,
ossia, aperto, di strutture chiuse. Le strutture si chiudono, ma il numero delle
strutture, e di vie attraverso cui chiuderle, è aperto – non c’è una struttura delle strutture, nel senso di un livello finale di totalizzazione strutturale,
né una determinazione a priori degli assi semantici (i codici) mobilitati nella
struttura2. Ogni “gruppo” di miti finisce per rivelarsi situato all’intersezione
di un numero indeterminato di altri gruppi, ogni “mito” è ugualmente una
interconnessione; e dentro ad ogni mito... I gruppi devono potersi chiudere
(clore); ma l’analista non può lasciarsi bloccare (en fermer) all’interno di quelli:
“la proprietà caratteristica di qualsiasi mito o gruppo di miti è proprio quella
di impedire che se ne rimanga prigionieri: nel corso dell’analisi arriva sempre
il momento in cui si pone un problema che ci costringe, per essere risolto, a
uscire dal cerchio che l’analisi si era tracciato” (Lévi-Strauss, 1971: 538 [ed.
it.: 565]).
Sarà necessario quindi insistere, noi, sulle tensioni interne al pensiero di Lévi-Strauss relativo alla mitologia amerindia, ossia, su una dialettica
dell’apertura e della chiusura analitica (come l’autore diceva, su una “dialettica dell’apertura e della chiusura” ripetutamente tematizzata dai miti) che è necessario indagare, incluso nei suoi tentativi, forse necessariamente incompleti,
di auto-mediazione. Necessità o contingenza, completezza o interminatezza,
struttura o molteplicità, trascendenza della regola o immanenza del significato: questa quadrupla tensione struttura lo strutturalismo e traccia le linee di
divergenza della sua posterità. È tale tensione che mi ha spinto a scegliere il
titolo di questa conferenza. Perché se Rousseau, nella celebre espressione di
Lévi-Strauss (1962/1973), deve essere visto come il fondatore delle scienze
umane, allora Lévi-Strauss stesso si dovrebbe dire che non solo le ha rifondate,
L’inesistenza di una meta-struttura è segnalata fin dalla “Introduzione all’opera di Marcel
Mauss” (1950) e dal “Il concetto di struttura in etnologia” (1958). Sull’indeterminatezza del
principio degli assi semantici di un sistema mitico, si veda la massima de Il pensiero selvaggio
secondo cui “il principio di una classificazione non si postula mai”.
2
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
155
con lo strutturalismo, come le ha anche virtualmente “in-fondate”, all’indicare
il cammino verso un post-strutturalismo, in altre parole, verso una antropologia dell’immanenza, in cui forse egli non è giunto, “come Mosè ha condotto
il suo popolo ad una terra promessa il cui splendore egli non avrebbe mai
contemplato” (questo è lo stesso Lévi-Strauss, parlando di Mauss), realmente
ad addentrarsi3.
III
La grande questione che si apre oggi, nel processo di rivalutazione – già
stavo scrivendo “riabilitazione” – dell’eredità intellettuale di Lévi-Strauss, è
quella di decidere se lo strutturalismo è uno o molteplice, o, per utilizzare
una polarità lévi-straussiana, se esso è continuo o discontinuo. Senza smettere
di concordare con gli interpreti che concordano con Lévi-Strauss, cioè che
vedono la sua opera come marcata da una profonda unità di ispirazione e
di metodo (parleremo di questo più avanti), vedo la personalità teorica dello
strutturalismo e del suo autore come divisa – ma non opposta – in due gemelli
eternamente diseguali, un eroe culturale ed un ingannatore, il personaggio
della mediazione (ma che è anche l’instauratore del discreto e dell’ordine) ed
il contro-personaggio della separazione (ma che è allo stesso tempo il maestro
del cromatismo e del disordine). Ci sono sì due strutturalismi, ma, come LéviStrauss stesso ha mostrato, due è sempre più di due.
Vedo così l’opera di Lévi-Strauss dal lato della contingenza, dell’interminatezza e della molteplicità: uno strutturalismo in disequilibrio perpetuo. Come
la mitologia amerindia che egli seppe comprendere meglio di qualsiasi altro
antropologo, questa opera è complessa, ambigua e plurale, e quindi sempre attuale. È questa attualità permanente dell’opera – la sua capacità di auto-ritardarsi – che si è vista recentemente riconosciuta dalla canonizzazione secondo
la formula indigena (voglio dire, francese) consacrata che è la pubblicazione
nella Bibliothèque de la Pléiade, il cui nome abbonda tra l’altro di risonanze
lévi-straussiane. Ricordiamo che la costellazione eponima è un segno eminente
del continuo nel pensiero amerindio; si vede quindi la finezza della “doppia
torsione” che ha fatto sì che il grande analizzatore del passaggio dal continuo
al discreto fosse ricondotto indietro al continuo – ma, nella tipica marcia a
spirale della trasformazione mitica, ad un continuo più profondo, di secondo
3
“Deve esserci da qualche parte un passaggio decisivo che Mauss non ha superato...” (LéviStrauss, 1950: XXXVII [ed. it.: XLI]).
156
Eduardo Viveiros de Castro
ordine per così dire, sovrannaturale più che naturale, un continuo la cui relativa indifferenziazione interna (autori, secoli, generi si allineano nella serie di
volumi ricoperti da un fino marocchino – la pelle di una qualche anaconda mitologica? – marcata da una discretissima variazione cromatica), lo fa solamente
distaccare più chiaramente nel vasto cielo notturno ed anonimo della storia.
Questo, ancora una volta, non è tutto. Onore supremo, questa ascensione
al continuo avvenne in vita, nello stesso anno del centenario di Lévi-Strauss
che celebriamo. Tutti gli antropologi del mondo dobbiamo sentirci orgogliosi
e debitori per l’omaggio che così si presta alla nostra disciplina nella persona
del suo più illustre praticante, il pensatore che ha reinventato l’antropologia,
lo smontatore dei fondamenti metafisici del colonialismo occidentale, e che
allo stesso tempo ha rivoluzionato la filosofia, aprendo uno dei principali sentieri del secolo affinché altri potessero smontare i fondamenti colonialisti della
metafisica occidentale.
IV
Si tratta, oggi, di sapere se l’antropologia strutturale, in flagrante discrepanza con le configurazioni simboliche i cui fondamenti essa seppe tanto bene
esporre, è realmente il sistema concettuale chiuso, univoco, omogeneo ed
equilibrato che la volgata antropologica ci ha trasmesso. Penso, beninteso, di
no. Cominciamo, pertanto, a renderci conto che l’opera di Lévi-Strauss collabora attivamente, e ciò fin dagli inizi, con molto di ciò che sembrerà essere
la sua sovversione futura e che lo strutturalismo sempre è stato gemello di sé
stesso, per ricordare l’interpretazione della “sentenza fatidica” che è il tema di
un capitolo de Storia di Lince. Se Lévi-Strauss non è l’ultimo pre-strutturalista
(lungi da ciò, hélas), è allo stesso tempo molto vicino all’essere stato il primo
post-strutturalista.
Prendiamo ad esempio l’idea-maestra, affermata nella Lezione Inaugurale
al Collège de France, secondo la quale l’antropologia strutturale utilizza “un
metodo più fondato sulle trasformazioni che sulle flussioni”, con cui l’autore
marcava la sua preferenza per una concezione combinatoria più che differenziale della struttura (Lévi-Strauss, 1960/1973: 28 [ed. it.: 53]). Questa idea
divenne, nel corso dell’opera di Lévi-Strauss, una verità abbastanza approssimativa, visto che la nozione-chiave di trasformazione è andata trasformandosi
essa stessa. Primo, essa ha guadagnato una precedenza semantica sulla nozione di struttura. Secondo, ha assunto un abbigliamento sempre più analogico,
sempre più vicina ai flussi dinamici che alle permutazioni algebriche. Il punto
di inflessione di questa curva si situa, come tutto indica, in un qualche mo-
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
157
mento della redazione delle Mitologiche. Una nota ne Dal miele alle ceneri è
forse il primo registro esplicito del cambiamento:
Leach ci ha rimproverato... di ricorrere esclusivamente a modelli binari. Come
se la nozione stessa di trasformazione, che utilizziamo così costantemente dopo
averla mutuata da D’Arcy Wentworth Thompson, non dipendesse interamente
dall’analogia... (Lévi-Strauss, 1966: 74, nota 1 [ed. it.: 159, nota 12]).
Due decenni dopo, il punto viene riaffermato dall’autore: la nozione di
trasformazione non gli è giunta né dalla logica né dalla linguistica (né, si ha
l’impressione, dallo strutturalismo matematico di Bourbaki), ma dal naturalista D’Arcy Thompson e, attraverso questi, da Goethe e Dürer (Lévi-Strauss e
Eribon, 1988: 158-159 [ed. it.: 161]). La trasformazione è ora una operazione
estetica e dinamica, non più logica ed algebrica. Con ciò, l’opposizione tra
alcuni paradigmi concettuali centrali della fase classica dello strutturalismo,
come {totemismo, mito, discontinuità} versus {sacrificio, rito, continuità}, diviene ben più fluida ed instabile di quanto l’autore continuerà, nonostante
tutto, ad affermare in alcuni passaggi della fase posteriore dell’opera, come nel
celebre contrasto tra mito e rito del “Finale” de L’uomo nudo.
La linea di separazione passa chiaramente tra l’algebra finitaria adeguata ai
contenuti della parentela e la forma intensiva del mito:
Il problema posto nelle Strutture elementari della parentela dipendeva direttamente dall’algebra e dalla teoria dei gruppi di sostituzioni. Quelli posti dalla mitologia sembrano inseparabili dalle forme estetiche che li obiettivano. Ora, queste
appartengono contemporaneamente al continuo ed al discontinuo... (Lévi-Strauss
e Eribon, 1988: 192 [ed. it.: 192]).
Lévi-Strauss menziona quindi la teoria delle catastrofi di René Thom, che
è stata messa in comunicazione con lo strutturalismo antropologico da Jean
Petitot, un filosofo di formazione matematica. La teoria di Thom, continua
Lévi-Strauss nel passaggio sopra citato, permetterebbe di superare l’antinomia tra il continuo ed il discontinuo, offrendosi pertanto come la matematica
adeguata al mito.
Non ho la competenza per giudicare questa adeguatezza o inadeguatezza.
Ma la conclusione generale che si può dedurre è che la nozione strutturalista
di trasformazione ha subito di fatto una doppia trasformazione, storica e strutturale – in realtà, una unica trasformazione complessa, che la ha trasformata
in una operazione simultaneamente “storica” e “strutturale”; come argomenta
il mio collega Mauro Almeida in un importante recente articolo (Almeida,
158
Eduardo Viveiros de Castro
2008 [in questo volume, Cap. 2]), quello che la formula canonica descrive
è precisamente la trasformazione della storia in struttura e viceversa (ma il
percorso non è lo stesso nelle due direzioni). Questo cambiamento si deve in
parte all’influenza, su Lévi-Strauss, delle nuove interpretazioni matematiche
disponibili; ma soprattutto, io penso, al cambiamento del tipo di oggetto privilegiato della sua antropologia. Con il mito, le frontiere tra permuta sintattica
e innovazione semantica, dislocamento logico e condensazione morfogenetica,
divennero più tortuose, contestate, complicate – più frattali. L’opposizione tra
la forma e la forza (le trasformazioni ed i flussi) ha perso i suoi contorni e, in
una certa maniera, si è indebolita.
Questo non significa che Lévi-Strauss abbia dato grande rilevanza a tale
trasformazione, né che si sia soffermato su di essa oltre la suddetta riflessione
rispetto ai differenti problemi trattati dal metodo strutturale. Al contrario, la
sua tendenza è sempre stata quella di sottolineare “la continuità del programma che seguiamo metodicamente fin da Le strutture elementari della parentela” (l’avvertenza si trova nella “Apertura” de Il crudo ed il cotto). Continuità
– ecco una nozione ambivalente come poche nel vocabolario strutturalista.
È chiaro che Lévi-Strauss ha ragione; sarebbe un po’ ridicolo volerlo correggere a proposito di sé stesso, come sembrano fare alcuni dei suoi commentatori più fondamentalisti (dato che esiste uno struttural-fondamentalismo!).
Ma l’insistenza del maestro francese sull’unità di ispirazione della sua opera
non manca di proporci, come buoni strutturalisti, una lettura discontinua di
questa opera; meno per insistere sulle rotture univoche che non per suggerire
una coesistenza complessa o una sovrapposizione intensiva di stadi del discorso strutturale.
Le discontinuità del progetto strutturalista possono essere distribuite all’interno delle due dimensioni classiche: lungo l’asse delle successioni, con l’idea
che l’opera lévi-straussiana conosca fasi; e lungo l’asse delle coesistenze, con
l’idea che essa enunci un discorso doppio, che descriva un doppio movimento. Le due discontinuità coesistono nella misura in cui i momenti dell’opera si
distinguono per l’importanza concessa ad ognuno dei due movimenti, opposti
contrappuntisticamente nel corso di essa.
V
Cominciamo dalla diacronia, dicendo che lo strutturalismo è come il totemismo: esso non è mai esistito. O, più precisamente, come il totemismo, il
suo modo di esistenza non è quello delle sostanze ma quello delle differenze.
In questo caso, la differenza, varie volte notata dai commentatori, tra la pri-
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
159
ma fase dell’opera di Lévi-Strauss, rappresentata da Le strutture elementari
della parentela, e che si potrebbe dire pre-strutturalista, e la seconda fase,
post-strutturalista, popolata dalle Mitologiche e dalle tre monografie successive.
Dico che la seconda fase è post-strutturalista perché prima di essa si iscrive il breve momento indiscutibilmente “strutturalista”, rappresentato dai due
studi sul problema totemico, che l’autore descrive come segnalando una pausa
tra Le strutture elementari della prentela e le Mitologiche. È nei libri del 1962
(Il totemismo oggi e Il pensiero selvaggio), di conseguenza, che Lévi-Strauss
identifica il pensiero selvaggio, ossia le condizioni concrete della semiosi umana, con una gigantesca e sistematica impresa di ordinamento del mondo e
promuove il totemismo, antico emblema antropologico dell’irrazionalità primitiva, a modello di tutta l’attività razionale. È a questo momento dell’opera
che un giudizio malizioso di Deleuze e Guattari (1981: 289 [ed. it.: 354]) sembra meglio applicarsi: “Lo strutturalismo rappresenta una grande rivoluzione,
tutto il mondo diventa [devient] più ragionevole”. Uno spirito conciliatore
potrebbe ponderare che, con lo strutturalismo, il mondo non diviene più ragionevole senza che la ragione divenga un’altra cosa... più mondana forse, nel
senso di più secolare, più popolare, ma anche più artista, più bohémien – più
surrealista –, meno redditizia4.
La nozione che Le strutture elementari della parentela sono un libro “prestrutturalista” deve essere presa, beninteso, con un buon pizzico di sale. Ad
ogni modo, penso che antropologi come David Schneider o Louis Dumont
abbiano ragione quando classificano così l’opera del 1949, organizzata com’è
attorno a due dicotomie fondative delle scienze umane: Individuo e Società,
da un lato – il problema dell’integrazione e totalizzazione sociali –, e Natura
e Cultura, dall’altro – il problema dell’istinto e dell’istituzione umani. I Lumi
ed il Romanticismo: Hobbes e Herder, diciamo. O, se desideriamo eponimi
più recenti: Durkheim e Boas. (A mediare queste polarità, naturalmente, c’è
Rousseau, questo trickster filosofico che Lévi-Strauss, non a caso, ha elevato a
proprio santo protettore.)
Il problema de Le strutture elementari della parentela è il problema “antropologico” per eccellenza dell’ominizzazione: l’emergere della sintesi della cultura come trascendenza della natura. “Il gruppo”, ossia la Società, si mantiene
come soggetto trascendentale e causa finale di tutti i fenomeni analizzati. Ciò,
però, fino all’ultimo capitolo del libro, quando, come ha sottolineato Patrice
4
Ricordiamo che il contrario del “pensiero selvaggio” è il pensiero “addomesticato con il
fine di ottenere una rendita” (Lévi-Strauss, 1962).
160
Eduardo Viveiros de Castro
Maniglier (uno dei più originali commentatori di Lévi-Strauss che io conosca),
tutto sembra repentinamente dissolversi nella contingenza:
Le molteplici regole che proibiscono o prescrivono certi tipi di coniugi, e la proibizione dell’incesto che le riassume tutte, si chiariscono a partire dal momento in
cui si pone che la società deve esistere [ci sia, soit]. Ma la società avrebbe potuto
non esistere (Lévi-Strauss, 1949/1967: 561 [ed. it.: 627]).
E segue il grandioso sviluppo conclusivo, dove si stabilisce allo stesso tempo che la società è coestensiva al pensiero simbolico e non la sua causa antecedente o la sua ragione di essere, che la sociologia della parentela è un
ramo della semiologia (ogni scambio è scambio di segni, ossia, di prospettive)
e che ogni ordine umano porta dentro di sé un permanente impulso di controordine. Questi accordi finali segnano l’entrata, ancora sommessa, di ciò che si
potrebbe chiamare seconda voce del discorso antropologico di Lévi-Strauss,
quando la sociologia della parentela comincia ad aprire spazi verso una “antisociologia”5, ossia, verso una economia cosmopolitica – in altre parole, verso
il regime del piano di immanenza amerindio che verrà tracciato nelle Mitologiche.
Perché è con le Mitologiche che l’inversione nell’ordine delle voci si completa – o meglio, quasi si completa; non sarebbe stato proprio necessario
andare più lontano: come Mosè e la Terra Promessa... Nelle Mitologiche, la
nozione di società è destituita analiticamente, in favore di una attenzione sistematica alle trasformazioni narrative inter-societarie; l’opposizione Natura/
Cultura smette di essere una condizione antropologica universale (obbiettiva
o soggettiva) per trasformarsi in un tema mitico, interno al pensiero indigeno
– tema la cui ambivalenza dentro a questo pensiero, inoltre, non farà altro
che crescere ad ogni volume della serie –; e gli oggetti algebriformi chiamati
“strutture” guadagnano contorni più fluidi, deviando, come abbiamo menzionato, in direzione di una nozione analogica di trasformazione. Le relazioni che
costituiscono le narrative amerindie, più che formare totalità combinatorie in
distribuzione discreta, in variazioni concomitanti e tensione rappresentativa
con i realia socio-etnografici, elevano ad un punto che si potrebbe dire di vera
esemplarità i principi di “connessione ed eterogeneità”, “molteplicità”, “rottura asignificante” e “cartografia” che Deleuze e Guattari contrapporranno
ai modelli strutturali in nome del celebre concetto di “rizoma” – rizoma, il
concetto stesso della anti-struttura, l’emblema del post-strutturalismo.
5
L’espressione è stata applicata da Jacques Donzelot (1977) a L’Anti-Edipo (Deleuze e
Guattari, 1972), noto manifesto post-strutturalista.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
161
Il movimento della dimostrazione delle Mitologiche, di conseguenza, è
quello della connettività eterogenetica generalizzata, dove un mito di un popolo trasforma un rituale di un secondo popolo ed una tecnica di un terzo
popolo; dove l’organizzazione sociale di alcuni è la pittura corporale di altri
(o: come andare dalla cosmologia alla cosmetica senza dimenticare la politica); e dove la rotondità geometrica della terra della mitologia è costantemente
messa in corto circuito dalla sua radicale porosità geologica, grazie alla quale
le trasformazioni sembrano saltare tra i punti estremi del continente americano, sorgendo qui e là come affioramenti vulcanici di un oceano sotterraneo di
magma. Azione a distanza.
Pierre Clastres disse che lo strutturalismo era “una sociologia senza società”; se questo fosse vero – Clastres lo diceva per criticarlo –, allora con le
Mitologiche abbiamo uno strutturalismo senza struttura – e lo dico per elogiarlo. Chiunque si disponga a compiere l’attraversamento completo delle
Mitologiche constaterà che la mitologia amerindia cartografata dalla serie non
appartiene alla famiglia delle strutture arboricole, ma a quella delle reti rizomatiche: essa è una gigantesca tela senza un centro di origine, una mega-agentività collettiva ed immemoriale di enunciazione disposta in un “iper-spazio”
(Lévi-Strauss, 1967: 84 [ed. it.: 91]) incessantemente attraversato da “flussi
semiotici, flussi materiali e sociali” (Deleuze e Guattari, 1981: 33-34 [ed. it.:
59]); una tela o rizoma percorso da diverse linee di strutturazione, ma che è,
nella sua interminabile molteplicità e nella sua radicale contingenza storica, irriducibile ad una legge unificatrice ed irrappresentabile da una meta-struttura.
Esistono innumerevoli strutture nei miti amerindi, ma non c’è una struttura
del mito amerindio – non esistono, si noti in particolare, strutture elementari
della mitologia.
La mitologia amerindia, infine, è una molteplicità aperta, una “molteplicità
alla n-1”, per utilizzare il concetto di Deleuze e Guattari, o diremmo meglio
alla “M-1”, in omaggio al mito di riferimento, M1, il mito bororo che, come
subito si constatava, era solo una versione invertita ed indebolita dei miti jê
che lo seguivano (M7–12). Il mito “di riferimento” è un mito qualsiasi, un
mito “senza riferimenti”, un m-1, come ogni mito. Dato che ogni mito è una
versione di un altro mito, ogni mito apre ad un terzo e quarto mito e gli n-1
miti dell’America indigena non esprimono una origine né indicano un destino:
non hanno riferimenti. (Discorso sulle origini, il mito è precisamente ciò che si
ruba ad una origine). Il “mito” di riferimento lascia il posto al senso del mito,
al mito come macchina di significato: uno strumento per convertire un codice
in un altro, proiettare un problema su di un problema analogo, far “circolare
il riferimento” (come direbbe Bruno Latour), contro-effettuare anagrammaticamente il significato. Si ricordi il passaggio de L’uomo nudo dove l’autore
162
Eduardo Viveiros de Castro
generalizza le osservazioni di Saussure sull’anagramma, suggerendo che lì ci
approssimiamo alla matrice di ogni significato e che il meccanismo del gioco
di parole (calembour) costituisce il “fondamento di ogni semiologia” (LéviStrauss, 1971: 581 [ed. it.: 613]). Ecco qui una tesi che porta la nozione di
“gioco di parole” realmente alle sue ultime conseguenze.
La prima approssimazione al concetto di mito presentata da Lévi-Strauss
evidenziava la sua traducibilità integrale: “Si potrebbe definire il mito come
quel modo del discorso in cui il valore della formula traduttore, traditore tende
praticamente a zero” (Lévi-Strauss, 1955/1958: 232 [ed. it.: 235]). Ne L’uomo
nudo, la definizione viene estesa dal piano semantico al piano pragmatico; apprendiamo quindi che più che semplicemente traducibile, il mito è eminentemente traduzione:
Ogni mito è per sua natura una traduzione [...] esso si colloca, non già in una
lingua e in una cultura o sottocultura, ma nel punto di articolazione di queste con
altre lingue ed altre culture. Il mito quindi non è mai della propria lingua, bensì una
prospettiva su una lingua altra... (Lévi-Strauss, 1971: 576-577 [ed. it.: 607-608]).
Questa definizione prospettivista del mito proposta ne L’uomo nudo lo rende contiguo alla stessa antropologia, sapere che si costituisce, in una cruciale
definizione che Lévi-Strauss avanzava già nel 1954, come la “scienza sociale
dell’osservato” (Lévi-Strauss, 1954/1958: 397 [ed. it.: 397]). Ora, se l’antropologia è la “scienza sociale dell’osservato”, le Mitologiche, come sappiamo, sono
“il mito della mitologia” (Lévi-Strauss, 1964: 20 [ed. it.: 20]). Queste due definizioni sono convergenti. Il discorso della mitologia strutturale stabilisce le
condizioni di ogni possibile antropologia. Ogni antropologia è una trasformazione delle antropologie che sono il suo oggetto (l’oggetto di ogni antropologia
può solo essere un’altra antropologia, l’antropologia dell’altro), situate tutte,
da sempre, nel “punto di articolazione di una cultura con le altre culture”. Ciò
che permette di passare da un mito ad un altro, e da una cultura ad un’altra, è
della stessa natura di ciò che permette di passare dai miti alla scienza dei miti,
e dalla cultura alla scienza della cultura. Trasversalità e simmetria. Si apre così
una connessione inattesa tra il progetto delle Mitologiche ed il principio (poststrutturalista) di simmetria generalizzata di Bruno Latour e Isabelle Stengers:
la mitologia strutturale è una esperienza di simmetrizzazione antropologica,
una operazione di disinglobamento gerarchico delle differenze tra tutti i termini analitici. Il cosiddetto post-strutturalismo è essenzialmente la affermazione
di una ontologia delle molteplicità piane, dove le nozioni di continuità e di
omogeneità non hanno niente in comune. Una ontologia della trasversalità,
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
163
ossia, della continuità tra eterogenei. Disinglobamento gerarchico, ovvero: la
differenza tra la “cultura” (o “teoria”) dell’antropologo e la “cultura” (o “pratica”) del nativo non viene considerata come possedendo nessun privilegio
ontologico o epistemologico sulle differenze “interne” ad ognuna di queste
culture; essa non è né più né meno condizionante che le differenze in entrambi
i lati della frontiera discorsiva.
Se il mito è traduzione, allora esso non è, soprattutto, rappresentazione,
dato che una traduzione non è una rappresentazione ma una trasformazione. “Una maschera non è principalmente ciò che essa rappresenta, ma bensì ciò che trasforma, vale a dire ciò che essa sceglie di non rappresentare”
(Lévi-Strauss, 1979: 144 [ed. it.: 100]). Il che dà al meta-oggetto multidimensionale che sono le Mitologiche un carattere propriamente olografico,
giusto come il rizoma mitico con il quale esso fa rizoma, e che contiene in
ogni mito un’immagine ridotta del sistema mitico panamericano (il “mito
unico”). “È giustamente perché la struttura è rigorosamente definita come
un sistema di trasformazioni, che essa non può essere rappresentata senza fare della propria rappresentazione una parte di sé stessa” (Maniglier,
2000: senza pagina definita). Ciò ci indirizza verso una riconsiderazione
della struttura come “transformalista”, o meglio, trasformazionalista – in
altre parole, né formalista, nel senso proppiano, né trasformazionale, nel
senso chomskyano:
Una struttura è sempre tra due: tra due varianti, tra due sequenze di uno stesso
mito... L’unità della struttura non è quella di una forma che si ripeterebbe identicamente in una ed un’altra variante, ma quella di una matrice che permette di
mostrare in cosa una variante è una trasformazione reale dell’altra... La struttura è
rigorosamente coestensiva alle sue attualizzazioni. Ecco perché Lévi-Strauss insiste
sulla differenza tra lo strutturalismo ed il formalismo, che ostinatamente si tende a
trascurare (Maniglier, op. cit.)6.
6
Ecco perché anche la ricerca di una “struttura del mito” in quanto oggetto sintagmatico
chiuso è un perfetto contro-senso. Come risalta da questa osservazione di Maniglier, e più enfaticamente dalla dimostrazione di Mauro Almeida nell’articolo già citato, la trasformazione
strutturale per eccellenza, la formula canonica del mito, non permette di definire la “struttura
interna” di un mito – dato che ciò non esiste. Un mito non si distingue dalle sue versioni, la
composizione “interna” di una narrativa è della stessa natura delle sue trasformazioni “esterne”. Ciò che avviene all’interno di un mito è ciò che permette di passare da un mito ad un
altro. Ogni mito è “come la bottiglia di Klein” (Lévi-Strauss, 1985: 209 e seguenti [ed. it.: 145
e seguenti]).
164
Eduardo Viveiros de Castro
VI
Se non senza struttura, allora, almeno uno strutturalismo con un’altra
nozione di struttura che quella de Le strutture elementari della parentela. O
forse si dovrebbe dire che ci sono due usi differenti del concetto di struttura nell’opera di Lévi-Strauss: come principio trascendentale di unificazione,
legge formale di invariabilità, e come operatore di divergenza, modulatore di
variazione continua (variazione di variazione): la struttura come combinatoria
grammaticale chiusa e come molteplicità differenziale aperta. In realtà, entrambe sono sempre state presenti nell’opera di Lévi-Strauss, ma il loro peso
relativo cambia nel corso del tempo.
Facciamo quindi un passo indietro, o prima combiniamo questo passo diacronico con la discontinuità sincronica a cui abbiamo alluso più sopra. L’opera
di Lévi-Strauss, già da molto presto, contiene un subtesto o controtesto poststrutturalista. La supposta parzialità dello strutturalismo in favore di opposizioni simmetriche, equipollenti, duali, discrete e reversibili (come quelle dello
schema totemico classico) viene smentita non solo dalla ancora oggi sorprendente critica al concetto di organizzazione dualista dell’articolo del 1956 (“Le
organizzazioni dualiste esistono?”; Lévi-Strauss, 1956/1958) – che postula il
ternario, l’asimmetria e la continuità come precedenti al binarismo, alla simmetria ed alla discontinuità – come anche dalla ugualmente antica ed ancora
più sorprendente “formula canonica del mito” (Lévi-Strauss, 1955/1958), che
tutto può essere, meno che simmetrica e reversibile. Oltre a ciò, è particolarmente degno di nota che Lévi-Strauss chiuda le due fasi delle Mitologiche (il
“Finale” de L’uomo nudo e Storia di Lince) con l’avvertimento sui limiti del
vocabolario della logica estensionale per rendere conto delle trasformazioni
che avvengono nei/tra i miti.
Soprattutto, non è sicuramente un caso che i due ultimi libri mitologici di
Lévi-Strauss siano costruiti come sviluppi proprio di queste due figure del
dualismo instabile. La vasaia gelosa (1985) è una illustrazione sistematica della
formula canonica, così come Storia di Lince si concentra sull’instabilità dinamica – il “disequilibrio perpetuo”7 – delle dualità cosmo-sociologiche amerindie. Ciò mi fa supporre che ci troviamo di fronte ad una stessa struttura virtuale, della quale la formula canonica, che pre-decostruisce l’analogica totemica
del tipo A:B::C:D, ed il dualismo dinamico, che corrode la parità statica delle
7
L’espressione “disequilibrio perpetuo” fa la sua prima comparsa ne Le strutture elementari, per descrivere il matrimonio avuncolare dei Tupi, popolo la cui mitologia è, forse non a caso,
il riferimento principale per il tema del disequilibrio perpetuo ne Storia di Lince.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
165
opposizioni binarie, sarebbero solo due attualizzazioni privilegiate; forse ce ne
potrebbero essere altre.
Con la formula canonica, al posto di una opposizione semplice tra metafora
totemica e metonimia sacrificale, ci collochiamo immediatamente nell’equivalenza tra una relazione metaforica ed una relazione metonimica, la “torsione”
che permette di passare da una metafora ad una metonimia o viceversa (LéviStrauss, 1966: 211 [ed. it.: 265]): la famosa “doppia torsione”, la “torsione
soprannumeraria” che in realtà è la trasformazione strutturale pura e semplice
(o, meglio, ibrida e complessa): la “relazione di squilibrio... [che è] una proprietà inerente alle trasformazioni mitiche” (Lévi-Strauss, 1984: 13 [ed. it.:
07-08]). La conversione asimmetrica tra il significato letterale ed il figurato, il
termine e la funzione, il contenitore ed il contenuto, il continuo ed il discontinuo, il sistema ed il suo esterno – questi sono i veri temi strutturalisti, che
attraversano tutte le analisi lévi-straussiane della mitologia amerindia.
Con Storia di Lince, il disequilibrio o l’apertura intensiva che è una proprietà costitutiva della struttura – di questa seconda nozione di struttura –
raggiunge ciò che si potrebbe definire in maniera giocosamente hegeliana “coscienza del sé”. Abbiamo già osservato che le Mitologiche concedono molta
importanza, anche retorica, all’imperativo della chiusura. Ma questa importanza viene drasticamente relativizzata da diversi passaggi dell’opera che, in
direzione opposta, sottolineano l’interminabilità dell’analisi, la marcia a spirale (più che in cerchio) delle trasformazioni, l’asimmetria delle opposizioni, la
pluralità dei livelli, le dimensioni supplementari, la molteplicità e la diversità
degli assi necessari per ordinare i miti... La parola chiave qui è disequilibrio,
ossessivamente ripetuta nelle Mitologiche. Alcuni esempi: “lo squilibrio esiste
sempre...” (Lévi-Strauss, 1966: 222 [ed. it.: 277]); “lungi dall’essere isolata
dalle altre, ogni struttura ha in sé uno squilibrio che non può essere compensato se non facendo ricorso a un termine tratto dalla struttura adiacente...”
(Lévi-Strauss, 1967: 294 [ed. it.: 319]); “anche quando la struttura cambia o
si arricchisce per superare uno squilibrio, ciò avviene sempre al prezzo di un
nuovo squilibrio, che appare su un altro piano. [...] ... la struttura deve a una
inevitabile dissimmetria il proprio potere di generare il mito, il quale non è
altro che uno sforzo per correggere o dissimulare questa dissimmetria costitutiva” (Idem: 406 [ed. it.: 439]).
Questo disequilibrio non è una semplice proprietà formale della mitologia,
che risponde per la trasformabilità e traducibilità dei miti, ma un elemento
fondamentale del suo contenuto. I miti pensano attraverso questo disequilibrio – e ciò che essi pensano è questo disequilibrio stesso, la “disparità” in cui
consiste “l’essere del mondo” (Lévi-Strauss, 1971: 539 [ed. it.: 565]). I miti
contengono la propria mitologia, o teoria “immanente” (Lévi-Strauss, 1964:
166
Eduardo Viveiros de Castro
20 [ed. it.: 20]), la teoria afferma, secondo un celebre passaggio de L’uomo
nudo, una
...asimmetria originaria, che si manifesta diversamente secondo la prospettiva in
cui ci si pone per poterla cogliere: fra l’alto e il basso, il cielo e la terra, la terraferma
e l’acqua, il vicino e il lontano, la destra e la sinistra, il maschio e la femmina, ecc.
Questa disparità, inerente al reale, mette in moto la speculazione mitica ma ciò
perché condiziona, al di qua del pensiero stesso, l’esistenza di ogni oggetto pensato
(Lévi-Strauss, 1971: 539 [ed. it.: 565]).
Ma è soltanto venti anni dopo, con Storia di Lince, che il mito accederà a
ciò che si potrebbe chiamare il suo momento propriamente speculativo, quando esso trasforma il perpetuo disequilibrio da condizione a tema:
Qual è infatti l’ispirazione profonda di questi miti? [...] Essi rappresentano l’organizzazione progressiva del mondo e della società, nelle forme di una serie di bipartizioni; ma senza che fra le parti, che risultano a ogni tappa, appaia mai una vera
uguaglianza. [...] Da tale squilibrio dinamico dipende il buon funzionamento del
sistema che, altrimenti, rischierebbe continuamente di cadere in stato d’inerzia.
Quel che implicitamente proclamano questi miti è che mai potranno essere gemelli
i poli fra i quali si ordinano i fenomeni naturali e la vita in società: cielo e terra,
fuoco e acqua, alto e basso, vicino e lontano, Indiani e non-Indiani, concittadini
e stranieri. L’intelligenza si adopera per accoppiarli, ma non riesce a stabilire fra
loro una parità. Perché sono queste variazioni differenziali in serie – così concepite
dal pensiero mitico – che mettono in moto la macchina del mondo (Lévi-Strauss,
1991: 90-91 [ed. it.: 58])8.
I miti, insomma, pensandosi tra loro, si pensano in quanto tali, in un movimento speculativo che, se “riflette” – ossia si auto-trasforma – correttamente, non potrà sfuggire al disequilibrio sul quale riflette. La dualità imperfetta
attorno alla quale gira l’ultima grande analisi mitologica di Lévi-Strauss, la
gemellarità che è “la chiave di tutto il sistema”, è l’espressione finita di questa
asimmetria auto-propulsiva. La vera dualità che interessa allo strutturalismo
non è il combattimento dialettico tra Natura e Cultura, ma la differenza intensiva ed interminabile tra i gemelli diseguali di Storia di Lince, che sono la cifra
del pensiero mitico. La cifra, in tutti i sensi della parola: la chiave, il numero e
il codice. La cifra: la disparità fondamentale della diade, l’opposizione come
limite inferiore della differenza, il due come caso particolare del multiplo.
8
La parola finale di questo paragrafo, nell’originale, è “univers” - ma si è preferito qui il
termine “mondo” come un omaggio al massimo poema di Carlos Drumond de Andrade.
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
167
VII
Avviciniamoci alla nostra conclusione. Patrice Maniglier osservava, a rispetto della differenza tra le due fasi maggiori del progetto strutturalista, che
Se il primo momento dell’opera di Lévi-Strauss sembra caratterizzarsi per una intensa interrogazione sul problema del passaggio dalla natura alla cultura e sulla discontinuità tra questi due ordini,... il secondo momento è non meno intensamente
caratterizzato da una denuncia ostinata, da parte di Lévi-Strauss, del [tentativo di]
costituzione dell’umanità come un ordine a parte (Maniglier, 2000: senza pagina
definita).
In effetti, si consideri l’ultimo paragrafo de Le strutture elementari della parentela, dove l’autore osserva che, nei suoi miti a proposito dell’Età
dell’Altro e dell’Aldilà, “l’umanità ha sognato di cogliere e fissare quel fuggitivo istante in cui fu permesso di credere che si poteva giocare d’astuzia
con la legge dello scambio: guadagnare senza perdere, godere senza dividere”, e che così per essa la felicità completa, “in eterno negata all’uomo
sociale”, è quella che consiste nel “vivere tra sé”. Si confronti questa constatazione, finalmente tanto freudiana, con un passo ben più tardo dell’opera
di Lévi-Strauss, in cui l’antropologo definisce il mito come “una storia dei
tempi in cui gli uomini e gli animali non erano ancora distinti” (Lévi-Strauss
e Eribon, 1988: 193 [ed. it.: 193]), aggiungendo che l’umanità non è mai
riuscita a rassegnarsi di fronte alla mancanza di un accesso comunicativo
alle altre specie del pianeta. Riflettiamo: la nostalgia di una comunicazione originaria tra tutte le specie (la continuità interspecifica) non è esattamente la stessa cosa che quella nostalgia della vita “tra sé” responsabile per
la fantasia dell’incesto postumo (la discontinuità inter-specifica). Molto al
contrario, diremmo: mutò l’enfasi, ed il senso, di ciò che lo strutturalismo
assume come il contro-discorso antropologico, ossia, umano. In altre parole,
la seconda voce del discorso antropologico dello strutturalismo comincia a
risuonare più forte.
La discordanza o tensione creativa tra i “due strutturalismi” contenuti nell’opera di Lévi-Strauss viene interiorizzata in maniera particolarmente
complessa nelle Mitologiche. Abbiamo visto più sopra che Lévi-Strauss metteva in contrasto l’algebra della parentela de Le strutture elementari della parentela, che si situerebbe interamente nell’ambito del discreto, con la dialettica
mitica tra continuo e discontinuo. Questa differenza non è puramente formale, poiché non è soltanto la forma estetica della mitologia amerindia che si
mostra come un misto di continuo e discontinuo, ma anche il suo contenuto
168
Eduardo Viveiros de Castro
filosofico – e del resto come potrebbe un vero strutturalista separare la forma
dal contenuto?
Così, è necessario concludere che le Mitologiche sono poco più di un’impresa centrata sullo “studio delle rappresentazioni mitiche del passaggio dalla
natura alla cultura”, che è come l’autore descrive modestamente la sua impresa in Parole Date (Lévi-Strauss, 1984). È nella misura in cui esse vengono
scritte che l’autore comincia, a sua volta, a contestare la pertinenza di un contrasto radicale tra Natura e Cultura, come osserva Maniglier. Sarebbe quindi
un po’ assurdo immaginare che Lévi-Strauss trasferisse agli indigeni l’insensatezza che diagnosticava come una tara fatale dell’Occidente. Di conseguenza,
le Mitologiche, lungi dal descrivere un passaggio chiaro ed univoco tra Natura
e Cultura, obbligano il loro autore a cartografare un labirinto di cammini tortuosi ed equivoci, vie traverse, vicoli stretti, impasse oscuri, fiumi che scorrono nelle due direzioni allo stesso tempo, come quelli evocati ne Le origini
delle buone maniere a tavola... Il senso unico tra Natura e Cultura non supera, in un certo senso, la prima metà del primo libro della tetralogia. Da lì in
avanti, i sette libri della serie completa si mostrano affascinati dalle “mitologie
dell’ambiguità” (Dal miele alla ceneri), dalle “mitologie dei flussi” (L’origine
delle buone maniere a tavola), dai percorsi regressivi e dalle retromarce dalla
Cultura alla Natura, dalle zone di compenetrazione tra questi due ordini, dai
piccoli intervalli, dalle periodicità corte, dalle ripetizioni rapsodiche, dai modelli analogici, dalle deformazioni continue, dai dualismi che si moltiplicano
in semi-triadismi ed esplodono inaspettatamente in una molteplicità di assi
trasversali di trasformazioni... Il miele e la seduzione sessuale, il cromatismo
ed il veleno, la luna e l’androginia, la confusione ed il fetore, le eclissi e la bottiglia di Klein, i triangoli culinari che visti da vicino si trasformano in curve di
Koch, ossia, frattali infinitamente complessi... Si direbbe che il contenuto della
mitologia amerindia consista in una negazione dell’impulso stesso generatore
del mito, nella misura in cui questa mitologia pensa attivamente, e contempla
nostalgicamente, un continuo la cui negazione è, nel pensiero di Lévi-Strauss,
la condizione fondamentale del pensiero. Se la mitologia amerindia possiede,
come afferma diverse volte Lévi-Strauss, un fronte ed un verso, un significato
progressivo ed un altro regressivo, è anche perché questi sono i due sensi o
direzioni del discorso strutturalista stesso (o viceversa). La polemica distinzione tra mito e rituale del “Finale” de L’uomo nudo si rivela, in fin dei conti,
come se fosse stata interiorizzata ricorsivamente: il grande mito tupi di Storia
di Lince descrive un movimento identico a quello che definisce l’essenza di
ogni rito (rito, non mito, si noti bene), una cascata di opposizioni con portata
decrescente, la loro convergenza asinottica in uno sforzo “disperato” di captare l’asimmetria ultima del reale. Come se l’unico mito che realmente fun-
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
169
zionasse come mito lévi-straussiano fosse il “mito della mitologia”, ovvero, le
Mitologiche stesse. O no; neanche esso. Questo è sicuramente un problema
che deve essere ripreso.
Richiamo la vostra attenzione, qui, su un paragrafo situato già allo spegnersi delle luci de L’uomo nudo, alla pagina 448 dell’originale. A proposito
di un mito nordamericano sulla conquista del fuoco celeste, che implica l’uso
di una scala di frecce che si spezza e rompe la comunicazione tra il cielo e la
terra, l’autore osserva – lo stesso autore, ricordiamo, che cominciava Il crudo
ed il cotto con un elogio del discreto, dell’arricchimento logico effettuato dalla
riduzione dei continui primordiali – adesso, ripeto, egli conclude:
Non dobbiamo assolutamente dimenticare che questi atti di mediazione non reversibili comportano pesanti contropartite: impoverimento quantitativo dell’ordine
naturale – nella durata, per il termine assegnato alla vita umana, nello spazio, per
la diminuzione del numero delle specie animali dopo la sua disastrosa impresa
celeste –; e, inoltre, impoverimento qualitativo dal momento che, per aver conquistato il fuoco, il picchio perde la maggior parte del suo ornamento di piume
rosse (M729); e se, in compenso, il merlo acquisisce il colore rosso del petto, questa
acquisizione assume la forma di una lesione anatomica conseguente al suo fallimento nel corso di quella medesima missione. Quindi, sia per la distruzione di
un’armonia primitiva, sia per l’introduzione di scarti differenziali che la alterano,
l’accedere dell’umanità alla cultura si accompagna, sul piano della natura, a una
sorta di degradazione che la fa passare dal continuo al discontinuo (Lévi-Strauss,
1971: 448 [ed. it.: 466]).
Questo è uno di quei passaggi quasi dispersi nella selva delle Mitologiche
che subito percepiamo come cruciali, quando l’ambiguità tra i due discorsi
dello strutturalismo, quello dell’ominizzazione trionfante de Le strutture elementari della parentela e quello della denuncia dell’auto-separazione dall’umanità, viene “interiorizzata” analiticamente e messa in conto ad una riflessione
immanente al mito: sono i miti che raccontano le due storie e la retromarcia
non è poi così negativa, o almeno non solo negativa: la genesi della cultura è
degenerativa? E in questo caso, la retromarcia è rigenerativa? Quindi impossibile? Semplicemente immaginaria? O peggio? Perché ci sono momenti in
cui la nostalgia del continuo appare a Lévi-Strauss come un sintomo di una
malattia reale provocata dalla proliferazione incontrollata del discontinuo, si
direbbe, e non solo come una mera fantasia o libertà immaginaria. Il riscaldamento globale della storia, o la fine delle storie fredde, è la fine della Natura9.
9
Questo passaggio echeggia la “morale dei miti” del finale de L’origine delle buone maniere
a tavola, che echeggia tanti altri passaggi, come quello dell’articolo in omaggio a Rousseau.
170
Eduardo Viveiros de Castro
VIII
La distanza reale che separa le due grandi fasi dell’opera di Lévi-Strauss è
un movimento cruciale realizzato nelle Mitologiche: la “amerindianizzazione
dello strutturalismo”. Le Mitologiche sono un reale trattato di sociologia indigena, nell’accezione autoriale della parola. Sociologia degli indigeni, fatta dagli
indigeni: “la scienza sociale dell’osservato”. Ed è in questo senso che esse completano il lavoro di dissoluzione della sociologia i cui primi segnali P. Maniglier vedeva ne Le strutture elementari della parentela. È chiaro, le Mitologiche
sono prima di tutto una analisi di miti fatta da Lévi-Strauss, con una pretesa
di tipo psicologico-cognitivo. La proposta dell’autore è di esaminare il funzionamento dell’immaginazione mitica in quanto facoltà dello spirito umano.
Inoltre, o al contrario, le Mitologiche costituiscono anche uno studio di etnosociologia, cioè di anti-sociologia. C’è qui una immagine del socius inscritta
in questo discorso mitologico; questa immagine ha poco in comune con le
nostre stesse immagini, le metafore millenarie della nostra propria tradizione.
È interessante notare che nei miti analizzati nella serie, si parla molto poco di
ciò che l’antropologia classica intende per “sociologia”. I miti dicono poco a
proposito di clan, diritti, potere politico, strutture di autorità... Essi parlano di
sangue, miele, tabacco, marciume, fantasmi, maiali, cannibalismo, colori degli
uccelli, peni removibili, ani personificati... Insomma, i miti raccontano di un
universo essenzialmente materiale, corporale, sensibile e sensoriale, e molto
poco di un universo giuridico e normativo, che è come noi siamo abituati a
concepire il discorso sociologico. Le Mitologiche dimostrano che la sociologia
indigena è una sociologia dei corpi e dei flussi materiali. In realtà, questi libri
sono come una lotta serrata tra l’unità dello spirito umano e la molteplicità del
corpo indigeno. Lo spirito comincia con un netto vantaggio, nella “Apertura”
de Il crudo ed il cotto; ma il corpo comincia progressivamente a dominare la
lotta, fino a vincerla inequivocabilmente, anche se ai punti – per un piccolo
clinamen che si accentua nitidamente nei rounds finali, con Storia di Lince.
Cito qui L’origine delle buone maniere a tavola: “In questo secolo in cui l’uomo si accanisce
nel distruggere innumerevoli forme di vita, dopo aver distrutto molte società la cui ricchezza e
diversità costituivano da tempo immemorabile il suo più splendido patrimonio, è più che mai
necessario dire, come fanno i miti, che un umanesimo ben orientato non comincia da sé stessi,
ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell’uomo, e il rispetto per gli altri esseri prima
dell’amor proprio. Né va dimenticato che essendo comunque destinato a terminare, nemmeno
un soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra può servire da scusa a qualsiasi specie,
anche alla specie umana, per appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per comportarvisi senza pudore e senza discrezione” (422 [ed. it.: 457]).
7. Claude Lévi-Strauss, fondatore del post-strutturalismo
171
L’idea di una amerindianizzazione dello strutturalismo è, secondo il mio
punto di vista, essenziale affinché la ripresa dell’eredità intellettuale di LéviStrauss si faccia nella maniera di un avanzamento epistemologico, ossia politico, e non di un ritorno nostalgico ad un preteso rigore scientifico che sarebbe stato abbandonato dall’antropologia post-moderna. Dobbiamo poter
essere capaci di ricavare tutte le conseguenze dell’idea che lo strutturalismo
lévi-straussiano, pensiero autenticamente speculativo o auto-tematico, è una
trasformazione strutturale del pensiero amerindio; esso è il risultato dell’inflessione che quest’ultimo pensiero riceve quando viene filtrato da problemi e
concetti caratteristici della logopoiesis occidentale (lo stesso e l’altro, il continuo ed il discreto, il sensibile e l’intelligibile, la natura e la cultura...), secondo
un movimento di “equivocazione controllata”, in equilibrio instabile, sempre
fecondamente minacciato dal tradimento e dalla corruzione. Comprendo che è
tanto poco prudente separare l’antropologia di Lévi-Strauss dalle sue condizioni di costituzione nel contatto con la linguistica di Saussure o con la morfologia
di D’Arcy Thompson, quanto lo sarebbe separarla dall’esperienza formativa
dell’autore, sul campo e nelle biblioteche, assieme ai popoli amerindi. Le “fondamenta amerindie dello strutturalismo”, per usare le parole di A.-C. Taylor
(2004: 97), non possono essere ignorate senza che si perda con ciò una dimensione vitale della comprensione dell’intera opera di Lévi-Strauss. Ciò non
significa in nessun modo che la validità dei problemi e dei concetti proposti
da questo antropologo si restringa ad una “area culturale”, per quanto possa
essere vasta, ma giusto il contrario: l’opera di Lévi-Strauss è il momento in cui
il pensiero amerindio fa il proprio lancio di dadi, émet son coup de dés, oltrepassando il proprio “contesto” e mostrandosi capace di dare da pensare all’altro,
ossia, a chiunque, persiano o francese, si disponga a pensare – senz’altro.
Questa è la massima lezione del maestro: diventiamo capaci di ascoltare
altre lezioni, le lezioni dell’altro, praticare quella “apertura all’Altro” che, per
una sorprendente giravolta, l’antropologia scopre essere l’attitudine che caratterizza questi altri che essa studia molto più che noi stessi, questi altri che
prima essa si compiaceva di immaginare racchiusi in un atemporale guscio
etnocentrico. Il messaggio finale di Storia di Lince è così quello, perturbatore,
che anche l’altro degli altri è altro. E la conclusione più generale da raggiungere è che l’antropologia non dispone di altra posizione possibile che quella dello stabilire una complanarità di principio con il pensiero selvaggio, il tracciare
un piano di immanenza comune al proprio oggetto. Definendo le Mitologiche
come il “mito della mitologia” e la conoscenza antropologica come una trasformazione della praxis indigena, l’antropologia lévi-straussiana progetta una
“filosofia a venire” segnata positivamente dal marchio dell’interminabilità e
della virtualità: l’Anti-Narciso.
172
Eduardo Viveiros de Castro
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8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
173
8. Dal movimento al fisso (e viceversa)
in Lévi-Strauss1
Ruben Caixeta de Queiroz
Prologo: Lévi-Strauss multiplo
Molte sono le porte di entrata ed uscita per la comprensione del pensiero
di Lévi-Strauss. Saremmo tentati di dividerlo in tappe, tentare di svelare un
momento di rottura, un vecchio ed un nuovo Lévi-Strauss – ma ciò sarebbe
contraddittorio con un autore che tanto si è speso contro le relazioni semplicistiche di causa ed effetto e gli schemi che portano dal semplice al complesso.
Saremmo tentati di dividerlo per temi, parentela e mitologia, ad esempio –
ma non è stato giustamente lui a proporre di non separare la sociologia dalla
cosmologia? E tutto ciò è già stato detto in maniera esplicita ne Le strutture
elementari della parentela, libro pubblicato nel 1949 e che segna la prima riflessione di ampio respiro dell’autore. Tutto questo (e altro ancora) già appare
in forma mescolata in Tristi Tropici, pubblicato nel 1955. Dire che Lévi-Strauss
è l’inventore dello strutturalismo in etnologia sarebbe ben poca cosa per classificare il suo pensiero, sempre in dialogo con varie altre aree del sapere e
delle arti, passando per la linguistica, la matematica, la musica, la pittura, la
letteratura, la filosofia, la psicanalisi; oltre a ciò, e più importante, in dialogo
serio con il pensiero indigeno, il che fa di Lévi-Strauss un antropologo prima
di tutto, e della sua antropologia – e ciò dovrebbe essere di tutta l’antropologia
– una disciplina in tutto differente dalla filosofia e dalla sociologia.
In qualche occasione, Lévi-Strauss ha suggerito che i quattro volumi delle
Mitologiche potessero essere letti in ogni ordine, ad esempio il lettore potrebbe cominciare a partire dall’ultimo grande volume – L’uomo nudo – e non dal
primo – Il crudo ed il cotto. Inoltre, disse che se il lettore avesse avuto difficoltà
nell’accompagnare l’analisi dell’autore, se egli si fosse indisposto di fronte al
1
Questo testo è la traduzione dal portoghese dell’originale: “Do movimento ao fixo (e viceversa) em Lévi-Strauss”, pubblicato in: Caixeta De Queiroz R. e Nobre R. F. (Org.) (2008),
Lévi-Strauss. Leituras Brasileiras. Belo Horizonte: Editora da Ufmg.
174
Ruben Caixeta de Queiroz
rigore ed alla forma della sua analisi, avrebbe potuto abbandonare tutto ed
appena leggere i miti come se stesse ascoltando una musica. Prendo molto seriamente tali raccomandazioni, dato che esse mi confermano che l’opera lévistraussiana fugge da molto dello scientificismo che molti vogliono attribuirle,
suggeriscono quanto il romanticismo ed il classicismo si confondono nel suo
sguardo antropologico (come ben dice Marcio Goldman in un suo articolo,
2003), mi portano a credere che di fatto l’antropologia di Lévi-Strauss sia una
antropologia del sensibile, interessata tanto alla scienza quanto all’estetica.
Questa presentazione vuole dire tutto ciò in altra maniera: l’antropologia lévistraussiana è multipla e, prima di tutto, essa accoglie nel suo seno l’altro ed il
pensiero nativo, che, lo sappiamo, si diffonde per il cielo e per la terra, per il
cosmo e per il socius, per la speculazione filosofica e per la prassi. Questo è
anche il pensiero di Lévi-Strauss; è difficile, o impossibile, racchiuderlo, classificarlo, proporre tappe di sviluppo. Mi si lasci, quindi, parlare di due o tre
soli fatti che penso di sapere su di esso.
Una cosa porta ad un’altra, che, a sua volta, porta ad un’altra ancora.
Una cosa in relazione ad un’altra vuol dire altra cosa che non essa stessa
da sola o in relazione alla terza. In primo luogo, parlerò del dialogo o della
mescolanza tra il pensiero lévi-straussiano ed il pensiero indigeno, uno moltiplica l’altro. In secondo luogo, mi interrogherò su di una lettura comunemente fatta a proposito dell’obiettività (scientifica) e della figura centrale
dell’opposizione o del dualismo, che sarebbero presenti, soprattutto, nei
primi scritti dell’autore. Infine, a partire dal tema del passaggio dal continuo
al discreto, molto presente nelle Mitologiche, articolo e ripresento gli scritti
di Bergson come quelli di Lévi-Strauss, nella speranza tanto di comprendere
meglio quel passaggio quanto di suggerire che il cinema potrebbe essere
stato una metafora o una allegoria tanto forte e stimolante quanto lo furono
la linguistica, la musica, la pittura, la poesia o la formula canonica utilizzata
dall’autore2.
Lévi-Strauss, nonostante avesse portato con sé una telecamera super 8 durante la propria
ricerca sul campo in Brasile nel 1936 e avesse fatto alcune riprese, non ha mai pensato al cinema
come ad un’arte maggiore, meno ancora come ad un linguaggio capace di ispirargli comparazioni del tipo di quelle che arrischio nel finale di questo capitolo. Nel suo libro di fotografia,
Saudades do Brasil, giunge a parlare addirittura in maniera annoiata dell’immagine in movimento. Però, paradossalmente, vedremo che questo articolo dice esattamente che il pensiero lévistraussiano ha luogo in un movimento intenso e che se esso si ferma in qualche luogo è per, in
seguito, tornare a procedere, così come il fotogramma nel cinema, così come la vita, al di qua e
al di là della riflessione e della classificazione, come il pensiero indigeno, che si confonde, a volte, con il pensiero di Lévi-Strauss, più vicino al rito che al mito, al sensibile che all’intelligibile,
anche se ogni sforzo viene fatto per unire l’uno con l’altro.
2
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
175
Di fatto, forse si trova in quest’ultimo punto l’unico contributo innovatore
che questo lavoro potrà portare alla lettura di Lévi-Strauss, dato che i primi
due punti si presentano appena come una introduzione più generale che è
perfettamente dispensabile per coloro che hanno una maggiore conoscenza
dell’autore. Però, ciò che dirò a proposito dei vincoli tra cinema, Bergson e
Lévi-Strauss passa per l’intendimento di un movimento – in perpetuo disequilibrio – presente fin dai primi scritti lévi-straussiani e, così, si giustifica questa
presentazione a zigzag.
Dialogo e molteplicità
La prima e più semplice cosa che dovrei sapere o dire sul pensiero di LéviStrauss è che esso è stato costruito a partire da due ontologie: l’amerindia
e l’occidentale. In questo senso, non credo che sia stato un gesto gratuito,
articolato alla fine della sua lezione inaugurale al Collège de France, nel 1960,
il fatto che egli, dopo aver reso omaggio ai suoi maestri – passando per Boas,
Mauss e Durkheim –, abbia detto che le sue ultime parole di ringraziamento e
riconoscenza di un debito dovevano essere indirizzate ai
...selvaggi, la cui oscura tenacia ci offre modo di assegnare ai fatti umani le loro
vere dimensioni [...] quegli Indiani dei tropici, e i loro simili sparsi per il mondo,
che mi hanno insegnato il loro povero sapere in cui consiste, tuttavia, l’essenziale
delle conoscenze che voi mi avete incaricato di trasmettere ad altri [ed. it.: 82].
Ben oltre alla gratitudine verso gli indigeni, Lévi-Strauss dice in maniera
limpida che il suo pensiero non esisterebbe senza il loro; questo è il suo metodo, così come attesta il celebre passaggio de Il crudo ed il cotto:
Nell’uso che facciamo del metodo, ci si accuserà di interpretare e semplificare eccessivamente. A prescindere dal fatto, già ribadito, che non pretendiamo che tutte
le soluzioni proposte abbiano un valore eguale, giacché noi stessi abbiamo tenuto
a sottolineare la precarietà di talune di esse, sarebbe ipocrita non andare fino in
fondo al nostro pensiero. Risponderemo quindi ai nostri eventuali critici: che cosa
importa? Infatti, se il fine ultimo dell’antropologia è quello di contribuire a una
migliore conoscenza del pensiero oggettivato e dei suoi meccanismi, è in definitiva
la stessa cosa che, in questo libro, il pensiero degli indigeni sudamericani prenda
forma sotto l’azione del mio, o il mio sotto l’azione del loro. Ciò che importa è che
lo spirito umano, senza riguardo all’identità dei suoi messi occasionali, vi manifesti
una struttura sempre più intelligibile a mano a mano che si sviluppa il procedimento doppiamente riflessivo di due pensieri che agiscono l’uno sull’altro e ognuno
dei quali, di volta in volta, può essere la miccia o la scintilla dal cui avvicinamento
176
Ruben Caixeta de Queiroz
scaturirà la loro comune illuminazione. E se quest’ultima viene a rivelare un tesoro,
non ci sarà bisogno di arbitri per procedere alla spartizione, giacché si è cominciato a riconoscere [...] che l’eredità è inalienabile, e che essa deve rimanere indivisa
(Lévi-Strauss, 2004: 32-33 [ed. it.: 29-30]).
Già nel 1954, in un testo chiamato “Posto dell’antropologia nelle scienze
sociali e problemi che il suo insegnamento comporta”, ripubblicato nel 1958
in Antropologia strutturale, Lévi-Strauss chiarisce che “mentre la sociologia
si sforza di fare la scienza sociale dell’osservatore, l’antropologia cerca invece
di elaborare la scienza sociale dell’osservato”, adottando il punto di vista del
nativo o “un sistema di riferimenti fondato sull’esperienza etnografica e tale
che sia indipendente dall’osservatore e insieme dal suo oggetto” (Lévi-Strauss,
1967: 404 [ed. it.: 397-398]).
Ossia, potremmo dire che il metodo lévi-straussiano presuppone un dislocamento del punto di vista dell’osservatore, implica che egli subisca un influsso
dall’altro, dal suo modo di vita, o, come ha ben mostrato Marcio Goldman,
nel suo testo “Os tambores dos mortos e os tambores dos vivos”, potremmo
approssimare l’antropologia di Lévi-Strauss al concetto deleuziano di “Divenire”, nel momento in cui “divenire-nativo” significa strapparci da noi stessi,
“non solo da noi stessi ma dalla identità sostanziale possibile. Si tratta, infatti,
di appoggiarsi sulle differenze non per ridurle a somiglianza (che sia assorbendole, o che sia venendo da esse assorbiti) ma per differire, semplicemente ed
intransitivamente” (Goldman, 2003: 465). È un lungo cammino questo, dove
Tânia Stolze Lima, nel suo testo “Uma história do dois, do um e do terceiro”
(2008), parla della molteplicità di una sociologia bororo-lévi-straussiana, composta di segmentarietà di tipo diadico e triadico, asimmetriche o no, concentriche e diametrali. Mi arrischierei a dire che buona parte della riflessione attuale
contenuta nelle tematiche del prospettivismo amerindio, così come quella della
parentela che parla di una attualizzazione e contro-effettuazione del virtuale,
portata avanti da Viveiros de Castro, ha a che fare con Lévi-Strauss e con i Bororo – paradigmatici degli indigeni sudamericani –, ha a che fare con entrambi,
dato che uno non c’è senza l’altro, o meglio, oggi, parlare di uno è parlare
dell’altro. Infine, per riassumere quello che in primo luogo vorrei dire di LéviStrauss: il suo pensiero non può essere compreso senza il pensiero indigeno.
Oggettivismo, opposizione e dualismo
Si può dire che nel suo articolo “L’analisi strutturale in linguistica ed antropologia”, del 1945, la fonologia o la linguistica moderna rappresentino, per
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
177
Lévi-Strauss, più che una fonte di ispirazione o una metafora per analizzare i
sistemi di parentela, l’inaugurazione del metodo strutturale. C’è qui una chiara
rivendicazione di un metodo scientifico per l’antropologia3. Ma un po’ alla
volta, nel corso della sua opera, come se si stesse rendendo conto che l’antropologia si situa più vicina all’arte che non alla scienza – anche se scienza ed
arte, o mitologia e scienza, si avvicinano più che allontanarsi una dall’altra:
questa è la conclusione cui giungerà nel 1991, nella prefazione de Storia di Lince –, Lévi-Strauss utilizzerà metafore provenienti da altri domini per allargare
la comprensione del campo sociale o culturale: la musica, la pittura, la famosa
formula (canonica) matematica, ecc. Già nel finale delle Mitologiche, nelle ultime pagine de L’uomo nudo, dopo la traversata dell’universo mitologico delle
Americhe, Lévi-Strauss si rassegna al fatto che “i miti non ci dicono nulla che
ci informi sull’ordinamento dell’universo, sulla natura del reale, sull’origine
dell’uomo o sul suo destino” (Lévi-Strauss, 1991: 577 [ed. it.: 602]).
A partire da questa “confessione”, Joanna Overing approfitta per attaccare: dice che Lévi-Strauss sostiene la tesi secondo la quale il mondo reale può
essere rivelato solo dalla scienza e che, per lui, “gli eventi presentati dalla mitologia sono, in relazione a questo mondo reale rivelato dalla scienza, irrazionali
e falsi e, pertanto, comparabili alla storia minore, meno importanti: la storia
dei cronisti più oscuri” (Overing Kaplan, 1995: 111).
Eduardo Viveiros de Castro presenta un’altra analisi dell’opera di LéviStrauss. Di fatto, egli non nega che i miti ci insegnano qualcosa sulle società
da cui provengono e, soprattutto, su certi modi fondamentali (e universali)
di operazione dello spirito umano. Allo stesso tempo, l’idea che i miti parlino
solamente del loro soggetto (la società e la mente umana) non viene sostenuta
da Viveiros de Castro4. Questo autore risale al 1955 per trovare nell’articolo
“La struttura dei miti”, di Lévi-Strauss, un argomento molto più interessante
secondo il quale, al posto di opporre
la mentalità primitiva ed il pensiero scientifico come due modi qualitativamente
differenti di pensare gli stessi oggetti – lo stesso mondo –, è necessario collocare la
differenza nel mondo. Perché non sono le «operazioni intellettuali» che differiscono, ma la «natura delle cose» sulle quali incidono queste operazioni.
È in questo senso che Geertz (1978: 40 [ed. it.: 41]) accusa il metodo strutturalista in linguistica e la sua versione antropologica di volere “capire gli uomini senza conoscerli”.
4
Sto utilizzando qui una versione preliminare di un articolo di Viveiros de Castro (s.d.), che
è stata in parte ripresa nel testo “O nativo relativo” (Viveiros de Castro, 2002a)
3
178
Ruben Caixeta de Queiroz
L’autore conclude che
si tratta di prestare attenzione a quello che dicono i discorsi amazzonici sull’ordine
del mondo e sulla natura del reale, il che include ciò che dicono sulla società e lo
spirito umani [...]. E ciò che essi dicono – o se il lettore preferisce, ciò che insegnano – è che non c’è necessità di scegliere, perché non è possibile separare, tra la
natura del reale e lo spirito umano, l’ordine del mondo e il movimento della società
(Viveiros de Castro, 2001: 6).
Ossia, più che una epistemologia che si costruirebbe sulle basi dell’oggettivismo, ciò che il pensiero indigeno pensa, ciò che Lévi-Strauss intravede – soprattutto nel libro del 1991, Storia di Lince – è una ontologia dei soggetti.
Nonostante questo, ne “L’analisi strutturale in linguistica e in antropologia” Lévi-Strauss scommette che la fonologia può ricoprire, “nei confronti
delle scienze sociali, lo stesso compito rinnovatore che la fisica nucleare, per
esempio, ha avuto per l’insieme delle scienze esatte” (Lévi-Strauss, 1967: 47
[ed. it.: 47]). Queste scienze potrebbero, finalmente, abbandonare le analogie
con i sistemi biologico e meccanico e, in maniera più obiettiva, comprendere
i fatti della vita sociale in termini di segni linguistici e di struttura incosciente.
Ma, qui, ciò che importa ricordare è meno l’insegnamento della linguistica
che afferma che nel linguaggio si verifica la logica binaria, cioè la differenza,
l’opposizione e la relazione (un termine ha senso solo nella sua relazione con
un altro termine), quanto piuttosto che, per Lévi-Strauss, il modello della fonologia ci permette di abbandonare l’atomismo e l’individualismo delle scuole
precedenti, perché, negli studi di parentela, ad esempio, il “sociologo si trova
in una situazione formalmente simile a quella del linguista fonologo: come i
fonemi, i termini di parentela sono elementi di significato; anch’essi acquistano tale significato solo a condizione di integrarsi in sistemi” (Idem: 47 [ed. it.:
48]).
Nei primi due capitoli de Le strutture elementari della parentela, del 1949,
Lévi-Strauss discute dell’opposizione tra natura e cultura, poiché la proibizione dell’incesto sarebbe l’istituzione capace di spiegare il passaggio dalla prima
alla seconda, ovvero, la vita in società sarebbe possibile per il doppio significato di quella istituzione: allo stesso tempo in cui postula una regola negativa
(la proibizione di sposarsi all’interno del proprio gruppo), immediatamente
stabilisce una regola positiva (l’obbligo di sposarsi all’esterno del gruppo). Mi
sembra che Lévi-Strauss abbia sempre avuto ragione sulla doppia influenza
tra i due termini dell’opposizione, sul doppio cammino che porta all’altro, sul
terzo termine mediatore tra la Natura e la Cultura, il Crudo e il Cotto, il Continuo e il Discontinuo. Pertanto già ne Le strutture elementari della parentela
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
179
Lévi-Strauss concepisce il dinamismo dell’opposizione tra natura e cultura,
in cui il secondo termine sembra, nel corso del tempo, prendere le redini e
governare il primo termine, ma la forza della cultura dipende dal cavalcare e
dall’energia della natura, come possiamo leggere in questo passaggio:
[L’unione dell’esistenza biologica e dell’esistenza sociale dell’uomo] non è né statica né arbitraria, e nel momento stesso in cui si stabilisce, tutta intera la situazione
si trova ad essere completamente modificata. In realtà, più che di una unione, si
tratta di una trasformazione o un passaggio: prima che si verifichi, la cultura ancora non è data; con il suo verificarsi, la natura cessa di esistere nell’uomo come un
regno sovrano. [...] È proprio l’accoppiamento che fornisce la cerniera, o più esattamente l’incastro in cui può fissarsi la cerniera; la natura, impone l’accoppiamento senza determinarlo, e la cultura lo riceve soltanto per definirne immediatamente
le modalità. (Lévi-Strauss, 1982: 63; 71 [ed. it.: 67; 74]).
In una tesi di mestrado del 2005, Pedro Augusto Lolli fa una critica ben
attenta di una certa lettura che vede nella coppia natura-cultura una mera opposizione binaria e statica, nella quale la continuità starebbe a lato del primo
termine e la discontinuità del secondo. Contro questa idea, la tesi propone:
Uno, l’abbandono dello statico in favore del dinamico; poi, l’abbandono di una
visione binarista a detrimento di una visione dialettica del continuo e del discreto;
infine, invece che una riflessione enfatizzata sulla distinzione natura e cultura, vediamo una enfasi sempre maggiore sulle mediazioni tra la natura e la cultura (Lolli,
2005: 13).
Concordo con l’autore, con due riserve: 1) l’operazione di mediazione tra
natura e cultura, tra continuo e discreto, non si fa per mezzo di una logica dialettica, perché essa, se la comprendo bene, implica un superamento dell’opposizione attraverso una specie di sintesi o totalizzazione, mentre, nella visione
di Lévi-Strauss, una differenza residuale, che si produce a cascata, ricolloca
sempre l’opposizione “in disequilibrio perpetuo”; 2) Lolli scopre, poco alla
volta, nella sua lettura di Lévi-Strauss, che le dette opposizioni, quali natura
e cultura, continuo e discontinuo, si dissolvono o si sfumano, ma che questo
è un percorso fatto dal lettore, non dallo scrittore, che, come abbiamo visto,
fin dall’inizio, ne Le strutture elementari della parentela, pone già come certo il
dinamismo dell’opposizione; e se, come vedremo in seguito, una prima opposizione si fa, ad esempio, tra crudo e cotto, è subito per stabilire un triangolo
culinario nel quale si inserisce il marcio; e, ancora, in maniera simile, se all’inizio delle Mitologiche si trova una opposizione che va dal continuo al discreto,
dal crudo al cotto, nel suo svilupparsi c’è una opposizione che procede in
180
Ruben Caixeta de Queiroz
senso regressivo dal discreto al continuo, il che si può constatare nell’insieme
dei miti sul veleno da pesca ed il miele.
Potremmo dire che tutta la questione delle opposizioni è uno sdoppiamento del tema del duale e del ternario, dell’opposizione diametrale e di quella
concentrica, tema che non approfondiamo qui, che marcherà l’etnologia lévistraussiana almeno dal 1956 (“Le organizzazioni dualiste esistono?”) al 1991
(Storia di Lince). Da allora la discussione non è terminata, trovandosi esplicita
negli articoli, ad esempio, di Stolze Lima (2008) e Viveiros de Castro (2002).
Segnaliamo, en passant, che, dopo Storia di Lince, potremmo parlare di una
cosmologia bororo-lévi-straussiana, come possiamo dedurre da questa citazione di Tânia Stolze Lima: “Passando dal 1956 al 1991, troviamo il «triadismo
implicito» trasformato in «dualismo filosofico» e «apertura all’altro»” (2008:
244).
Continuo e discreto alla luce del cinema
Quando Deleuze e Guattari dichiarano (nel capitolo “Divenire-intenso,
divenire-animale, divenire-impercettibile”, di Millepiani) che lo strutturalismo
è una grande rivoluzione rispetto all’evoluzionismo ed al serialismo, ciò non
manca di essere un riconoscimento della forza di questa teoria, o meglio, della
forza della forma, ma è, anche, una grande ironia, perché dire che tutto, il
mondo delle cose e del pensiero, diviene più ragionevole nello strutturalismo,
è dire anche che in esso c’è uno spegnimento del flusso che va dall’animale
all’uomo o dalla natura alla cultura, e viceversa; c’è, infine, un imprigionamento della forza da parte della forma5. Lo strutturalismo lévi-straussiano avrebbe
stabilito in maniera decisiva il postulato secondo il quale dobbiamo oltrepassare le somiglianze esterne in direzione delle omologie interne, dato che:
si tratta di instaurare non più un’organizzazione seriale dell’immaginario, ma un
ordine simbolico e strutturale dell’intelletto. Non si tratta più di graduare le rassomiglianze e di arrivare in ultima istanza a un’identificazione dell’uomo e dell’animale in seno a una partecipazione mistica. Si tratta di ordinare le differenze per
Paradossalmente, in un bel passaggio, Pierre Sanchis (1995: 240), forse senza averne coscienza, colloca Lévi-Strauss a lato di Deleuze e Guattari e, con ciò, rende incoerente la critica
della coppia a Lévi-Strauss. Vediamo: “[lo] strutturalismo di Lévi-Strauss, al contrario di ciò
che molte volte si scrive, [è] uno strumento aperto e flessibile, perché un organismo [radcliffebrowniano], semplicemente, è – e, essendo così com’è, funziona. Un insieme di relazioni tra relazioni [lévi-straussiano] non è dell’ordine dell’«essere», della «cosa», ma del venire-ad-essere,
della freccia, della connotazione, dell’analogia, dell’omologia, del «simbolo», e così via”.
5
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
181
arrivare a una corrispondenza dei rapporti. Perché l’animale, da parte sua, si distribuisce secondo rapporti differenziali o opposizioni distintive di specie, e allo
stesso modo l’uomo, secondo i gruppi considerati” (Deleuze e Guattari, 1997: 1617 [ed. it.: 353]).
In questa maniera, Lévi-Strauss avrebbe chiaramente visto nel totemismo
non solo un sistema di vera classificazione, ma rimanderebbe al sacrificio, o
al modello della serie che confonde natura e cultura, al mondo dell’oscurità,
dell’illusorio e della destituzione del buon senso. Ciò nonostante, Deleuze e
Guattari constatano più avanti che Lévi-Strauss, nei suoi studi di miti, non
manca di incrociare questi atti rapidi per i quali l’uomo diviene animale allo
stesso tempo in cui l’animale diviene uomo, o diviene, come preferisce la coppia, un’altra cosa, né animale, né uomo, dato che sono blocchi di divenire che
si spostano in maniera parallela.
A questo punto la domanda che dobbiamo porre è doppia: perché LéviStrauss avrebbe privilegiato il totemismo a scapito del sacrificio e perché, anche così, il secondo appare all’ombra del primo?
La prima domanda ci sembra ovvia: in un’epoca in cui ancora si vedeva il
sistema di pensiero indigeno come pre-logico o a-logico, caratterizzato dalle
ombre dell’affettività e della partecipazione, era necessario, per così dire, esagerare affinché il suo carattere logico e scientifico si facesse evidente. È così
che leggo questo passaggio de Il totemismo oggi, scritto quasi simultaneamente
a Il pensiero selvaggio, entrambi pubblicati nel 1962:
... perché l’accademismo pittorico potesse dormire tranquillamente, non era opportuno considerare El Greco come un essere sano e capace di rifiutare certi modi
di rappresentazione del mondo, ma come un malato le cui figure allungate testimoniavano soltanto di una malformazione del globo oculare... In questo come nell’altro caso venivano consolidati nell’ordine della natura certi modi culturali che, se
fossero stati riconosciuti come tali, avrebbero immediatamente determinato altri
modi particolareggiati, ai quali veniva attribuito un valore universale (Lévi-Strauss,
1986: 12 [ed. it.: 6]).
E più avanti:
Per mantenere nella loro integrità e nello stesso tempo fondare i modi di pensare
dell’uomo normale, bianco e adulto, niente di più comodo che raccogliere fuori di
lui costumi e credenze – piuttosto eterogenei e difficilmente isolabili, per la verità – attorno ai quali si sarebbero cristallizzate come massa inerte, idee destinate a
rivelarsi meno inoffensive se si fosse reso necessario riconoscere la loro presenza e
la loro attività in tutte le civiltà, compresa la nostra. Il totemismo è, innanzitutto, la
proiezione al di fuori del nostro universo, e come per esorcismo, di atteggiamenti
182
Ruben Caixeta de Queiroz
mentali incompatibili con l’esigenza di una discontinuità tra uomo e natura, che il
pensiero cristiano considerava fondamentale (Idem: 12-13 [ed. it.: 7-8]).
L’argomento di Lévi-Strauss è duplice: nello stesso tempo in cui dice che il
pensiero totemico è fondato sulla logica, sullo spirito di una scienza del concreto, egli afferma che gli occidentali tentano di dequalificarlo, rimettendolo
ad un luogo distante, nel tempo e nello spazio, senza rendersi conto o senza voler rendere conto che esso opera tanto nella nostra società quanto nelle
altre; infine, il pensiero totemico è una scienza. In questo senso, possiamo
dire che, secondo Eduardo Viveiros de Castro, Lévi-Strauss ha dato un trattamento molto più dettagliato al totemismo che al sacrificio e che ha visto in
quest’ultimo più una religione che non una scienza, per questo lo ha osservato
come l’impero del non-senso.
Ma, questa è la seconda parte della domanda: perché il sacrificio permane,
per così dire, espresso, in uno stato “non cristallizzato”, come una virtualità diffusa dispersa, fondamentalmente nei quattro volumi delle Mitologiche,
soprattutto ne Il crudo ed il cotto e nell’analisi del passaggio dal continuo al
discreto? Possiamo comprendere questo fatto solo se prendiamo in considerazione che Lévi-Strauss desiderava “scientificizzare” il pensiero indigeno, totemizzarlo, ma, nel considerarlo, e nel maneggiare la materia dei miti, lo stesso
pensiero dell’etnologo, diciamo così, si è fatto confuso, si è sacrificato, perché
egli sapeva molto bene che se c’era un percorso che andava dal continuo al
discreto, c’era anche un percorso regressivo, nel senso inverso. Vediamo tutto
ciò un po’ più da vicino.
Nell’inizio del primo volume delle Mitologiche, Lévi-Strauss annuncia che
il passaggio dal continuo al discreto avviene attraverso un taglio radicale che
ritira, per estrazione, un pezzo della continuità, nella direzione della costruzione di un sistema di significazione. Ne Il crudo ed il cotto, l’autore, quando
analizza due miti, sostiene che essi si riferiscono a tre campi,
... ognuna di queste sfere è in sé originariamente continua, per poterle concettualizzare è indispensabile introdurre in esse la discontinuità. In ogni caso, tale
discontinuità è ottenuta per eliminazione radicale di certe frazioni del continuo.
Quest’ultimo ne risulta impoverito, ed elementi meno numerosi sono ormai in grado di dispiegarsi nello stesso spazio, mentre la distanza che li separa è sufficiente
per evitare che sopravanzino gli uni sugli altri o che si confondano tra di essi (LéviStrauss, 2004: 75-76 [ed. it.: 80]).
E conclude: “in qualsiasi sfera, è soltanto a partire dalla quantità discreta
che si può costruire un sistema di significazioni [...] Pertanto, in tutti questi
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
183
casi un sistema discreto risulta da una distruzione di elementi, o dalla loro sottrazione da un insieme primitivo” (Idem: 75-76 [ed. it.: 80-81]), ossia, affinché
il sistema divenga ricco dal punto di vista logico e della significazione è necessario effettuare un atto negativo: l’estrazione di elementi dalla rete continua.
Allo stesso tempo, Lévi-Strauss constata, subito dopo, ancora ne Il crudo
ed il cotto, quando tratta dell’insieme di miti che hanno come tema le Pleiadi,
il veleno e l’arcobaleno, così come nel volume due, Dal miele alle ceneri, che,
in questo percorso, c’è una traiettoria inversa, propriamente regressiva, che
va dalla cultura alla natura, dal discreto al continuo. A questo proposito due
passaggi de Il crudo ed il cotto sono, dal mio punto di vista, abbastanza chiarificatori. Il primo:
Orbene, la problematica del veleno da pesca ci ha suggerito che, da un punto di
vista semantico, esso si situa in un luogo nel quale il passaggio dalla natura alla
cultura si effettua senza soluzioni di continuità, o quasi. In altri termini, nella nozione che gli indigeni si fanno del veleno d’origine vegetale, l’intervallo fra natura
e cultura, che certo esiste sempre e ovunque, si trova ridotto al minimo [...] Tutto
avviene come se il pensiero sudamericano, risolutamente pessimista nella sua ispirazione e diatonico nel suo orientamento, attribuisse al cromatismo una specie di
nequizia originaria, e tale che i grandi intervalli – indispensabili alla cultura perché
essa esista, e alla natura perché essa sia pensabile per l’uomo – non possono risultare se non dall’autodistruzione di un continuo primitivo, la cui potenza si fa sempre
sentire nei rari punti in cui esso è sopravvissuto: sia a beneficio dell’uomo, sotto la
forma dei veleni dei quali questi si è impadronito; sia contro di lui, nell’arcobaleno
che egli non può controllare (Idem: 321 [ed. it.: 362-363]).
Ed il secondo passaggio:
In quanto vengono considerati come esseri “cromatici”, il veleno e la malattia
hanno, con l’arcobaleno, una proprietà comune che rende quest’ultimo adatto a
significarli. D’altra parte, l’osservazione empirica delle loro devastazioni determina
l’inferenza (o verifica l’ipotesi) che il continuo porta in sé il discontinuo, e anche
che lo genera (Idem: 364 [ed. it.: 419]).
Tutto il problema del passaggio dal continuo al discontinuo ci conduce ad
un altro ed al “Finale” de L’uomo nudo, quando viene trattata la relazione tra
il discorso e l’azione, il pensiero e la materia, la classificazione e la realtà, la
categoria ed il mondo vissuto. E in questo senso, Lévi-Strauss stabilisce una
opposizione tra mito e rito, tra totemismo e sacrificio. Il movimento che va dal
continuo al discreto è, se così possiamo dire, il movimento della costituzione
del logos e quello in senso inverso (dal discreto al continuo) è un movimento
184
Ruben Caixeta de Queiroz
nella direzione della pratica, che sbocca nel rituale, che è così definito come
un procedimento ossessivo di frammentazione e ripetizione. Se il mito cerca di
stabilire le grandi discontinuità e le grandi differenze (natura e cultura, crudo
e cotto, cielo e terra, acqua e fuoco), incaricandosi anche, come abbiamo visto,
delle piccole differenze, il rito, al contrario, tende ad introdurre differenze
minuscole o infinitesimali, a tal punto che esse divengono quasi impercettibili.
Accompagniamo un lungo passaggio de L’uomo nudo. A proposito della frammentazione, Lévi-Strauss dice che il rituale distingue, all’interno delle classi di
oggetti e dei tipi di gesti, fino all’infinito ed attribuisce valori discriminanti alle
più piccole sfumature. Concorrente alla frammentazione, si verifica il processo
di ripetizione, in cui lo stesso gesto o la stessa parola sono minuziosamente
messi in scena. Pertanto, da un lato, si trova la percezione delle minori differenze e, dall’altro, abbiamo la ripetizione pura ed esaustiva. In realtà, i procedimenti di frammentazione e di ripetizione si oppongono: nel primo caso
si tratta di introdurre differenze, per quanto piccole esse siano, in seno ad
operazioni che potrebbero apparire identiche; nel secondo caso si tratta di riprodurre fino a perderlo di vista lo stesso enunciato. Possiamo dire, però, che
le differenze rese infinitesimali tendono a confondersi in una quasi identità.
In questo momento, Lévi-Strauss avvicina il cinema al rito, nel senso che
anche lì si ritrovano i processi di frammentazione e ripetizione. L’autore cita
l’esperienza condotta da Worth e Adair tra i Navajo per dire che solamente
gli indigeni sono capaci, nel processo di montaggio, di percepire le differenze
infime tra due fotogrammi successivi, questo perché, specialisti di rituali, essi
sanno distinguere i minimi dettagli di un processo. Nel contempo, ciò che
più ci interessa qui è questo presupposto (tecnico-fisico-ideologico) venuto
dal cinema, secondo il quale, per catturare il movimento del mondo reale, c’è
bisogno di un dispositivo che frammenti questo movimento in 24 immagini
fisse per secondo, ossia che ci sia una differenza infima tra una immagine ed
un’altra. È questa differenza infima che rende possibile, nella proiezione, la
ricostruzione illusoria del movimento.
Facciamo un piccolo intervallo per, in un certo senso, poterne approfittare ed arrivare alle conseguenze di questa comparazione proposta da LéviStrauss. Tutti sappiamo che il cinema, in quanto spettacolo, è stato inventato
nel 1895 dai fratelli Lumière. Però, prima di loro, varie esperienze di studio
del movimento, con un obiettivo scientifico, ossia volte a svelare il mistero del
movimento della vita, erano state condotte da Muybridge e Marey. Ognuno
con il suo metodo, questi scienziati inventarono un dispositivo, la cronofotografia, che permetteva di analizzare il movimento, cioè i momenti in cui esso
si ferma, si fissa, si sospende. Ad esempio, per esaminare l’andatura di un
cavallo, Muybridge collocò lungo il suo cammino vari apparecchi collegati
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
185
tra loro con un filo, in maniera tale che, muovendosi, il cavallo li azionasse
ed una immagine venisse catturata ad ogni singolo movimento dell’animale.
Detto in altra maniera, Muybridge e Marey perfezionarono una macchina per
analizzare il movimento che non poteva essere percepito ad occhio nudo. Ma,
paradossalmente, il movimento poteva essere analizzato solamente per mezzo
della sua fissazione, fermandolo. Da lì è nato il cinema: queste immagini fisse,
24 immagini al secondo, furono collocate una dopo l’altra e, per mezzo di un
proiettore – all’inizio la macchina per filmare era la stessa che proiettava –,
esse sfilavano in maniera da ricostruire il movimento, ossia la sintesi e l’illusione del movimento. Muybridge o Marey avrebbero detto che non avrebbero
mai inventato il cinema, perché ciò che interessava loro era esattamente analizzare il movimento e vedere ciò che non era passibile di essere captato ad
occhio nudo. Ora, fare la sintesi del movimento, fare il cinema, è reintrodurre
la cecità (o l’illusione), non vedere più il momento in cui il cavallo appoggia lo
zoccolo al suolo.
Prima di tornare a Lévi-Strauss, citerei un altro esempio a partire dal cinema. Dziga Vertov, quando realizzò L’uomo e la camera (1929), volle mostrare i procedimenti utilizzati nella costruzione di un film, oltre a fare un film.
Questo processo è complesso, ma mi piacerebbe qui mettere in risalto solo
un passaggio, che è quello nel quale il cineasta analizza l’immagine fissa ed in
movimento. Bisogna ricordare che Vertov aveva l’opinione che l’occhio della
camera fosse superiore a quello umano. Questo sarebbe incapace di “vedere
bene le cose” a causa dell’eccesso o della scarsità di luce nel mondo, della velocità e della sovrapposizione degli esseri, infine, della confusione degli enti che
popolano la cornice delimitata dal nostro sguardo o dai nostri quadri mentali.
La macchina per fotografare e filmare, al contrario, apre o chiude il diaframma
per controllare la luce ed adeguarla alla sensibilità della pellicola, delimita un
quadro che contiene certi elementi e ne esclude altri, focalizza certi esseri e ne
sfoca altri. Ma come ciò avviene? Per un processo di esclusione, evidentemente – qui ci troviamo nel dominio del mito –, ma anche attraverso un processo
di frammentazione, nella produzione di 24 immagini al secondo – ed entriamo
nel regno del rito. Vertov voleva, in un certo passaggio de L’uomo e la camera,
fare uscire lo spettatore dall’illusione, rivelandogli il processo di ricostruzione
del movimento, ossia di costruzione del film: mostrargli il gesto decomposto,
rallentato, accelerato, tagliato, sospeso, fermato. Il critico del cinema JeanLouis Comolli dice che, in questo istante, l’analisi proposta da Vertov
smaschera ciò che la sintesi nasconde: il flusso delle immagini è, in realtà, discontinuo [...] La macchina riproduce all’inizio fotogrammi. In seguito essa induce a
trasformare questi fotogrammi, per definizione frammenti discontinui di materia,
186
Ruben Caixeta de Queiroz
di spazio e di tempo, in un insieme fuso, una cosa mentale che diviene più o meno
coerente e liscia (Comolli, 2004: 244).
Ma, insiste Comolli, lo svelarsi vertoviano nasconde un’altra illusione: nello
stesso tempo in cui le immagini fisse o i fotogrammi vengono presentati a noi
spettatori, la macchina di proiezione rimane in movimento e le immagini continuano a sfilare nei loro nastri, anche se vediamo l’immagine fissa sullo schermo. Questo è il massimo dell’inganno, dell’illusione. Questa è l’illusione dalla
quale non c’è modo di fuggire, nonostante la scienza, la stessa di Muybridge e
Marey o quella del realismo contemporaneo, tenti ad ogni costo di liberarsene;
essa vuole convincerci che possiamo analizzare il movimento così com’è, ma,
per ironia, il movimento viene appreso solo nella sua fermata. Forse, è proprio per questo che Vertov, dopo aver smascherato il processo di costruzione
di un film e aver fatto l’analisi dell’immagine, torna a presentarci la sintesi
del movimento, ci ricolloca nel mondo dell’illusione, che è quello del cinema,
che è quello della vita, che è quello del rituale, come possiamo intravedere.
Se vogliamo, ciò che Vertov ci ha detto, nel 1929, è ciò che diranno ben più
tardi Roy Wagner o Bruno Latour: non esiste realismo senza costruttivismo e
viceversa. O come ha detto Viveiros de Castro (2002): non c’è mondo prima
della visione che abbiamo di esso. Riassumendo, possiamo dire che il cinema
è nato da questa volontà illusoria di frammentare ed analizzare il movimento,
movimento delle cose e degli esseri. Illusione e illuminismo, come possiamo
ben vedere, si fondono e si confondono, illuminano allo stesso tempo in cui
oscurano la nostra mente.
Torniamo al nostro tragitto iniziale e a Lévi-Strauss per concludere questo
articolo. Nel “Finale” de L’uomo nudo, dopo aver comparato il rituale al cinema – entrambi utilizzerebbero procedimenti simili: frammentazione e ripetizione, potremmo dire analisi e sintesi – Lévi-Strauss va ad opporre pensiero e
vita pratica, mito e rito, nel tentativo di comprendere i due cammini percorsi
in senso opposto: dal continuo al discreto e viceversa. Dice l’autore:
Il vissuto, con la sua fluidità, tende perennemente a sfuggire attraverso le maglie
della rete che il pensiero mitico gli getta sopra per conservarne solo gli aspetti più
appariscenti. Frazionando le varie operazioni e suddividendole in mille particolari
instancabilmente ripetuti, il rituale si sforza di effettuare una minuziosa rabberciatura, cerca di chiudere gli interstizi, alimentando così l’illusione che sia possibile risalire alla rovescia il mito e ricostruire la continuità a partire dalla discontinuità [...] In fin dei conti l’opposizione tra il rito e il mito è quella fra il vivere e
il pensare, e il rituale rappresenta un imbardastimento del pensiero asservito alle
esigenze della vita. Esso riduce [...] le necessità del primo a un valore limite che
però rimane sempre irraggiungibile: altrimenti il pensiero stesso verrebbe a essere
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
187
abolito. Questo disperato tentativo, sempre destinato al fallimento, per ristabilire
la continuità del vissuto smantellato dallo schematismo che il pensiero mitico ha
sostituito a esso, costituisce l’essenza del rituale... (Lévi-Strauss, 1991: 609 [ed. it.:
636-637]).
A questo punto, utilizzo qui un’immagine creata da Viveiros de Castro:
il mito è una rete, che ha maglie di una certa dimensione, esso cattura solo il
pesce più grande del buco, quello minore passa. Il rituale, evidentemente, è
un tentativo di diminuire le maglie della rete. Il rito non è una applicazione
del mito, ma il rito è la retromarcia del mito. È qui presente l’idea che sia
possibile fare il discontinuo a partire dal continuo, ciò che fa il mito, ma che
sia impossibile fare il cammino contrario, ciò che il rito tenta di fare, ma che
resta a metà strada e, pertanto: il rito è una illusione. Ossia, il giorno in cui il
pensiero tornerà a coincidere con il reale, o il giorno in cui esso potrà coincidere con il reale, smetterebbe di essere pensiero. In ogni caso, il pensiero
non può mai coincidere con la vita, perché il principio, la ragione ed il modo
di esistenza del pensiero sono essere non-vita, essere non-vissuto. Possiamo
concludere che il rituale possiede un carattere nostalgico e romantico, mentre
il mito è illuminista. Il rito ritiene di poter tornare dopo aver già diviso; vuole
tornare all’infanzia, alla fusione, all’immanenza, allo stato di partecipazione
primitiva. Ma, insiste Lévi-Strauss, non c’è ritorno, la marcia del simbolico è
irreversibile6.
Abbiamo già parlato del luogo privilegiato in cui il nostro etnologo colloca
il pensiero a detrimento della pratica, il totemismo a detrimento del sacrificio,
il mito in relazione al rito. Tutto ciò perché il nostro autore vuole lanciare una
rete sul pensiero amerindio ed il pensiero dell’uomo in generale nel tentativo
di comprenderlo meglio. E comprenderlo sarebbe ridurlo o escluderne una
parte importante. Ossia, Lévi-Strauss vuole fare lo stesso che il mito fece o fa
quando lancia una rete sul mondo sociale o naturale. Così, possiamo percepire
quanto rischiamo dicendo che il pensiero di Lévi-Strauss è mitologico! Non
c’è nessuna contraddizione in ciò, se ricordiamo che l’uno si costruisce sull’al-
Dopo il “Finale” de L’uomo nudo, Lévi-Strauss è tornato nei suoi ultimi scritti a comparare
il rito al cinema ed a situare entrambi nel dominio dell’illusorio: “Per quanto dettagliati siano, i
riti di caccia e di cottura delle capre potrebbero essere moltiplicati. Come le immagini di un film
cinematografico esaminate una ad una, non potranno ricostruire l’esperienza invivibile, eccetto
che nel pensiero, di un uomo che si trasformò in capra. A meno che, come le immagini di un
film, uno zelo pietoso produca tanti riti e li faccia sfilare tanto rapidamente che, proprio grazie a
questa mescolanza, creino l’illusione di un vissuto impossibile, poiché nessuna esperienza reale
gli è corrisposta o corrisponderà mai” (Lévi-Strauss, 1993: 84).
6
188
Ruben Caixeta de Queiroz
tro7. Quando l’uno o l’altro lanciano la propria rete sul mondo, molto fugge,
resiste, si divide. Ciò che resta è il sacrificio, il rito. Ciò che resta è il pensiero
degli indigeni ed il pensiero di Lévi-Strauss; l’uno non è l’antitesi dell’altro, è
un’altra cosa che uno e l’altro, non è la sintesi, è il multiplo, la differenza che
resiste.
Epilogo: il movimento in Lévi-Strauss e Bergson
Si può dire che Lévi-Strauss fosse, nel corso della sua opera, più preoccupato della forma che della forza, dell’istante che del movimento, del fisso che
del flusso. Ma è giusto dire che sempre l’antropologo si trova di fronte alla forza, di fronte alla sintesi al posto dell’analisi (ricordo il passaggio de Il crudo ed
il cotto in cui Lévi-Strauss dice che il lettore, “superati i limiti dell’irritazione e
della noia, possa essere trasportato (in virtù del movimento che lo allontanerà
dal libro) verso la musica che è nei miti” [Lévi-Strauss, 2004: 52; ed. it.: 54]).
In questi momenti, egli si rincontra con il sensibile, l’invisibile, l’irrazionale,
il primitivo (nel senso di iniziale), il precario, infine, con il movimento (della
forza) e non con l’eternità (della forma). Così, è più che giusto collocare lato a
lato il pensiero di Lévi-Strauss, di Bergson e lo stesso pensiero indigeno.
Gilles Deleuze (1983: 11) dice, nella sua analisi dell’immagine-movimento
in Bergson (il che vorrebbe dire anche in Lévi-Strauss), che le cose e le persone sono sempre forzate a nascondersi nel momento in cui esse nascono. Ciò
si deve al fatto che esse sorgono in un contesto che ancora non le include.
Quello che era implicito fin dall’inizio appare in forma chiara solamente nel
corso del suo sviluppo, esattamente quando perde la propria forza. Inoltre,
continua Deleuze, è stato Bergson che ha trasformato la filosofia collocando
la questione del “nuovo” al posto di quella dell’eternità (come sono possibili
la produzione e l’apparizione di qualche cosa nuova?). Ora, è stato in questa
maniera che, senza che lo stesso Bergson lo sapesse o volesse, egli, analizzando
l’immagine-movimento, ha postulato l’essenza dell’immagine cinematografica.
E cosa determina il sorgere del cinema? È lo stesso Deleuze (Idem: 14) che ci
risponde: non solamente la foto, ma la foto istantanea (la foto in posa appar-
7
Dice Lévi-Strauss a proposito della sua analisi ne Il crudo ed il cotto: “Pertanto, a mano
a mano che la nebulosa si estende, il suo nucleo si condensa e si organizza. Filamenti sparsi si
saldano, certe lacune si colmano, nuove connessioni si stabiliscono, qualcosa che assomiglia a
un ordine traspare dietro il caos. [...] Nasce un corpo multidimensionale, le cui parti centrali
rivelano l’organizzazione, mentre intorno regnano ancora l’incertezza e la confusione” (LéviStrauss, 2004: 21 [ed. it.: 15]).
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
189
tiene ad un altro linguaggio), l’equidistanza tra le istantanee, la collocazione
di questa equidistanza su di un supporto che costituisce il film e, infine, un
meccanismo che faccia sfilare le immagini. Quindi, il cinema è un sistema che
riproduce il movimento in funzione di un momento qualsiasi, ossia in funzione
di istanti equidistanti scelti in maniera da dare l’impressione della continuità.
Infine, Bergson non voleva comprendere le “pose eterne” (i ritagli immobili),
tali come le suppone il primo pensiero fotografico o la filosofia della “eternità”, ma gli sarebbe piaciuto comprendere il movimento stesso della vita e del
pensiero e, per questo, anticipò “i ritagli mobili di durata” proprio al cinema.
Infine, possiamo dire che Bergson cercò di svelare i meccanismi attraverso i
quali apprendiamo i flussi degli esseri e delle cose e, senza saperlo, facendo ciò
azioniamo un dispositivo irrazionale (illusorio, sensibile), che è il dispositivo
cinematografico stesso. Dice Bergson ne “L’evoluzione creatrice”, citato da
Deleuze:
Noi prendiamo immagini (visioni) in maniera quasi istantanea dalla realtà che passa e, dato che esse sono caratteristiche di questa realtà, non è sufficiente metterle
in fila lungo un divenire astratto, uniforme, invisibile, situato nel fondo dell’apparecchio della conoscenza... Percezione, intelletto e linguaggio generalmente procedono in questa maniera. Che si tratti di pensare il divenire o di esprimerlo, o
anche di percepirlo, noi non facciamo altra cosa se non azionare una specie di
cinematografia interiore (Deleuze, 1983: 10).
Se comprendo bene ciò che Bergson dice, una “immagine” presa dal “mondo” è una immagine fissa “movimentata” dalle immagini già disposte nel nostro “apparecchio di conoscenza”. Questa “immagine” del “pensiero umano”,
è l’immagine che ho del pensiero che Lévi-Strauss fa a proposito del pensiero
mitologico: una rete lanciata sul mondo degli esseri e delle cose, nel tentativo,
sempre frustrato, di frenare e comprendere meglio il movimento (in perpetuo
disequilibrio) delle cose.
Di fronte a tutto questo, è possibile, credo, connettere Bergson a LéviStrauss ed al pensiero indigeno, e questa triade, senza che nessuno lo sappia o
lo voglia dire in maniera esplicita, al pensiero cinematografico. Vediamo cosa
dice Lévi-Strauss a proposito degli indigeni Sioux e di Bergson per comprovare che ciò che pensa questo filosofo è lo stesso che pensano gli indigeni. Viene
detto, ne Il totemismo oggi, sui Sioux:
Ogni cosa muovendosi, in un momento o in un altro, qui e lì, segna un tempo di
sosta. L’uccello che vola si ferma in un luogo per fare il suo nido, in un altro per
riposarsi. L’uomo in cammino si ferma quando vuole. Così, il dio si è fermato. Il
sole, così brillante e magnifico, è un luogo dove lui si è fermato. La luna, le stelle,
190
Ruben Caixeta de Queiroz
i venti, è lì che lui è stato. Gli alberi, gli animali, sono tutti i suoi punti di sosta...
(Dorsey in Lévi-Strauss, 1986: 125 [ed. it.: 138]).
E aggiunge una citazione di Bergson:
Una grande corrente di energia creatrice si slancia nella materia per ottenere ciò
che può. Essa si è fermata sulla maggior parte dei punti; queste soste si traducono
ai nostri occhi con altrettante apparizioni di specie vive, cioè di organismi dove il
nostro sguardo, essenzialmente analitico e sintetico, distingue una moltitudine di
elementi che si coordinano per compiere una moltitudine di funzioni; il lavoro di
organizzazione non era, tuttavia, che la sosta stessa, atto semplice, analogo all’atto
di affondare un piede che determina istantaneamente migliaia di granelli di sabbia
a intendersi per offrire un disegno (Bergson in Lévi-Strauss, 1986: 125 [ed. it.:
138).
Può sembrare strano, Lévi-Strauss che cita un fenomenologo per corroborare le proprie idee, ma Bergson è più interessante di Sartre, come già ha detto
Lévi-Strauss nell’intervista concessa a Didier Eribon, perché Bergson, dice
Lévi-Strauss,
medita su problemi metafisici come potrebbe fare un Indiano e come effettivamente facevano i Sioux. Accostandoli, rendo omaggio al pensiero di Bergson, che
al di là dei tempi e dei luoghi affonda le sue radici nel profondo del pensiero umano in ciò che esso può avere d’universale (Eribon e Lévi-Strauss, 2005: 168 [ed.
it.: 166-167]).
Ciò che Bergson pensa, con riferimento al passaggio citato, è ciò che pensa
la mitologia degli indigeni, è ciò che pensa Lévi-Strauss, è ciò che pensa il pittore giapponese Kawanabe Kyôsai (1831-1889). D’accordo con Lévi-Strauss,
nel suo libro Guardare, ascoltare, leggere, Kyôsai
dichiara di non comprendere perché i pittori occidentali facciano posare il loro
modello: se questo modello è un uccello, non cesserà di muoversi e l’artista non
potrà fare nulla. Kyôsai, invece, osserva l’uccello tutta la giornata. Ogni volta che,
in modo fuggevole, apparirà la posa sperata, si allontanerà dal modello e schizzerà
in tre o quattro tratti, su uno delle sue centinaia di quaderni, il ricordo che ha conservato. Alla fine, egli ricorderà tanto bene la posa da riprodurla senza più guardare l’uccello. Allenandosi così per tutta la vita, dice, ha acquisito una memoria così
viva e precisa da poter rappresentare a mente tutto quello che gli fu dato di osservare. Poiché non è il modello al momento presente che egli copia, ma le immagini
che il suo spirito ha immagazzinato (Lévi-Strauss: 1997: 32 [ed. it.: 33-34]).
8. Dal movimento al fisso (e viceversa) in Lévi-Strauss
191
Ora, è così che succede anche nel cinema, perché ogni fotogramma che sfila produce la dimenticanza nella memoria dello spettatore di quello che lo ha
preceduto, in maniera che io non vedo una immagine fissa, ma in movimento,
anche se fittizio. Allo stesso modo, nel cinema, un piano non solo succede
all’altro, ma cancella dalla memoria dello spettatore il piano precedente ed è
questo che lo mantiene nel presente cinematografico. Tutto ciò ci fa ricordare
due frasi di Lévi-Strauss: la prima di queste, detta nella già citata intervista
a Didier Eribon, ricorda un passaggio di Tristi tropici, nel quale l’etnologo
aveva detto di possedere una intelligenza neolitica: “non sono uno che capitalizza, che fa fruttare il sapere acquisito; sono piuttosto uno che si sposta su di
una frontiera sempre in movimento. Conta soltanto il lavoro del momento. E,
molto rapidamente, questo si annulla” (Eribon e Lévi-Strauss, 2005: 08 [ed.
it.: 8]). La seconda frase, scritta in Tristi tropici, è detta non più solamente a
proposito dell’autore, ma degli stessi indigeni e dell’umanità intera: “L’uomo
non crea cose veramente grandi che al principio; in qualunque campo, solo il
primo frutto è integralmente valido. Quelli che seguono sono esitanti e balbettanti, e si affannano pezzo per pezzo a ricuperare il territorio superato”
(Lévi-Strauss, 1996: 386 [ed. it.: 397]).
Nel pensiero di Viveiros de Castro, nella scia del pensiero indigeno e dello strutturalismo lévi-straussiano, il minoritario guadagna forza e potere, la
forma perde la forza, la forza guadagna forza, il sacrificio non è più il luogo
del non-senso. Il rito non è più solamente illusione, ma è, o dovrebbe essere,
anche una formula che pensa, tanto quanto il totemismo. Sto pensando alla
formula del cineasta francese Jean-Luc Godard: il cinema non è, o dovrebbe
non essere, solo una illusione per ingannare gli spettatori e vendere merci,
dovrebbe essere prima di tutto una formula che pensa. Di fronte a tutto ciò,
infine, oggi abbiamo bisogno di un sacrificio, direbbe Eduardo Viveiros de
Castro. Si legga, non prendere l’illusione come regno della sragione, ma assumere la realtà come sua compagna, perché il mondo è multiplo, ibrido, fatto
di spirito e di materia, animalità ed umanità. Questo è ciò che penso a proposito del prospettivismo, o meglio, ciò che Eduardo Viveiros de Castro pensa
a proposito dell’ontologia amerindia. Ma, prima di noi, è stato necessario che
esistesse Lévi-Strauss e, prima di qualsiasi altro, è stato necessario che esistessero gli indigeni sudamericani.
(Molto di ciò che è stato detto in questo articolo è stato ispirato dagli scritti [e
dalle parole] di Eduardo Viveiros de Castro su Lévi-Strauss e sul pensiero degli
indigeni sudamericani, il tutto amalgamato in temi come il prospettivismo, lo
sciamanismo, il sacrificio, il totemismo, le organizzazioni dualiste. Si registri,
quindi, la mia gratitudine verso questo genuino pensatore.)
192
Ruben Caixeta de Queiroz
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194
Indice
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale
195
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio
e la Musica Occidentale1
Rafael José de Menezes Bastos
Dando continuità ai lavori che ho realizzato su Lévi-Strauss e la musica2,
desidero affrontare in questa sede il suo pensiero musicale dal punto di vista
di quell’aspetto che ritengo il più interessante e che pochi prendono sul serio
– o proprio nessuno, per quel che ne so –: voglio riflettere su Lévi-Strauss
come un pensatore della musica occidentale, nell’olimpo dei maggiori, cioè
di Spengler, Adorno, Weber ed altri mostri sacri dell’argomento. Facendo ciò
spero di poter rendere il giusto omaggio alla fertilità della sua monumentale
opera, evidenziandovi un aspetto eventualmente sorprendente. La produzione
accademica, e non, sul tema – il pensiero musicale di Lévi-Strauss – è grande,
essa privilegia affrontare la relazione che l’autore stabilisce tra il mito e la musica, relazione che costituisce un capitolo – per così dire – del suo pensiero sul
mito, questo sì di grande impatto nelle scienze umane, nella filosofia, nelle arti
ed in altri campi3.
Mi è sempre sembrato strano, ma confesso che non lo avevo mai preso sul
serio se non recentemente, che Lévi-Strauss abbia lavorato poco sulle musiche indigene amerindie propriamente dette. Se la memoria non mi inganna,
il grosso del suo contributo a questa tematica si trova nel secondo volume
1
Una versione anteriore di questo testo, del quale sono l’unico responsabile, è già stata pubblicata in Araujo ed altri (2008), un’altra è stata presentata alla Mesa Redonda 4 – in omaggio ai
100 anni di Lévi-Strauss – organizzata da Tânia Stolze Lima durante il 32° Encontro Anual da
anpocs (Caxambu, 27-31/10/2008). Ringrazio Samuel, Gaspar e Vincenzo per la preparazione
degli originali per la pubblicazione e Tânia [Stolze Lima, n.d.t.] per l’invito a partecipare alla
Mesa Redonda. Sono grato anche agli integranti il pubblico di questa per i commenti.
2
Come in Menezes Bastos (1978 [1999], 1982, 1990a, 1990b, 1993, 1995a, 1966) e due libri
in preparazione.
3
Per una considerazione di questo impatto nei campi musicologici, si veda, tra tanti altri
testi, Nattiez (1971, 1973a, 1973b), Imperty (1979, 1981) e Pousseur (1971), oltre ai lavori
riferiti nella nota 2 per una mappatura più sistematica. Si veda Merquior (1975) a proposito
dell’estetica generale dell’autore.
196
Rafael José de Menezes Bastos
delle Mitologiche (1967), a cui credo si possa aggiungere qualcos’altro in Tristi
Tropici (1986 [1955]). Poco più di questo ci potrà essere, credo. Nei due casi,
però – specialmente nel primo –, l’enfasi viene riposta più negli strumenti musicali e per così dire nella fonografia che non nella musica stessa. Voglio dire
che chi si disponesse a cercare nel nostro autore – giustamente famoso per il
pensiero mitico-musicale – dati, informazioni e riflessioni sui sistemi musicali
amerindi ne resterebbe deluso. Suggerisco che non si tratta di una omissione
di Lévi-Strauss, casuale o no, ma del risultato, questo sì, di una sua posizione
sistematica, come si può argomentare basandosi anche sulla sua conosciuta
dichiarazione che le musiche etniche (tra le quali si trovano le amerindie) non
esercitano su di lui la stessa “forza suggestiva” della musica occidentale (Nattiez, 1973a: 6)4.
Lévi-Strauss quindi, quasi non affronta le musiche indigene, uno dei motivi più forti, tra l’altro, delle molte critiche da parte degli integranti le varie
musicologie5. Ma egli si dedica con fervore – e completezza – ad elaborare un
pensiero molto significativo sulle relazioni tra mito, tipicamente ma non esclusivamente quello amerindio, e musica, quella occidentale. Ma cosa pensa, più
precisamente, di queste relazioni?
Mi si permetta di esprimermi: per Lévi-Strauss tutto avviene come se la
musica occidentale fosse, essa stessa, mito, o meglio, manifestazione suprema
nel mondo occidentale – durante una determinata epoca – del pensiero mitico. Nell’universo primitivo, secondo lui, curiosamente, ciò non ha luogo – lì
lui può perfino “sentirsi esaltato da una musica primitiva, ma per motivi non
esclusivamente musicali: in ragione del contesto rituale, sociale, etnico” (Nattiez, 1973a: 6).
L’autore elabora questo provocante codice – dove l’“esclusivamente musicale” compone con il contesto un enigma ben intonato al gusto del pensiero
musicale occidentale moderno6 – cumulativamente. In maniera schematica,
io direi a partire dalle Mitologiche (in “Apertura ii” de Il crudo e il cotto e nel
Sulla forza suggestiva esercitata su di lui dalla musica occidentale – cui fa tante volte riferimento nel corso della sua opera – viene immediatamente alla mente il famoso passaggio di
Tristi Tropici, a proposito dell’invasione ossessiva del suo spirito, in Mato Grosso, da parte dello
Studio n° 3, opus 10, per piano di Chopin (Lévi-Strauss, 1986: 373-374 [ed. it.: 365]).
5
Si veda Menezes Bastos (1999: 52-54; 1990: 41-42) per una mappatura di queste critiche.
Per le incursioni musicologiche dell’autore, si veda il Finale de L’Homme Nu ed alcuni testi di
Guardare, Ascoltare, Leggere (1997a).
6
Mi riferisco al pensiero sulla musica classico-romantica. Brevemente, lì la musica viene
immaginata come una entità, per così dire, “in uno stato puro e libera da qualsiasi incarnazione” (si veda più avanti, come la matematica per Lévi-Strauss). Ho trattato questo argomento in
diversi testi (ad esempio, 1990a, 1995a, 1996).
4
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale
197
già citato Finale) con un consolidamento in un piccolo testo: Mito e Musica7.
Vale la pena di dire che per produrlo egli si basa sulla propria condizione di
colto conoscitore della vita musicale del concerto – come egli modestamente
afferma, attraverso la radio –, e della letteratura musicale e musicologica su di
essa.
In Mito e Significato, Lévi-Strauss non si ferma allo stabilire le relazioni che
commentiamo (tra il mito e la musica) sul piano esclusivamente della similarità – come ha fatto nelle Mitologiche I –, saltando verso quelle del piano della
contiguità, secondo quanto avanzerà nell’ultimo volume della sua celebre tetralogia. Quanto alle prime (le relazioni sulla linea della similarità), forse tutto
può essere riassunto nell’idea di partitura per orchestra, dove la lettura deve
essere fatta da sinistra verso destra ed in senso verticale, dall’alto verso il basso
(curiosamente, non dal basso verso l’alto)8. “Come e perché ciò avviene?”,
si domanda, avanzando subito che le relazioni di contiguità costituiscono la
chiave per le prime (1979: 67-68 [ed. it.: 58]).
Ecco la chiave, risponde Lévi-Strauss: quando il pensiero mitico passò in
secondo piano in occidente – tra il Rinascimento ed il xviii secolo – cominciarono a sorgere i primi romanzi ed i grandi generi della musica occidentale. Nel
campo della musica, ciò avvenne con Frescobaldi (1583-1643) e Bach (16851750), e raggiungerà il proprio auge più tardi, con Mozart (1756-1791), Beethoven (1770-1827) e Wagner (1813-1883) (Idem: 68-69 [ed. it.: 59])9. Si noti
che, nel Finale, Lévi-Strauss avanzerà l’idea che il romanzo e la musica condividono, tra le epoche di Frescobaldi e Bach, l’eredità del mito, dato che con
l’invenzione della fuga ebbe luogo uno spostamento tra i due, con la musica
che assunse “le strutture del pensiero mitico” ed il romanzo, da mitico si fece
romanzesco (1971: 583 [ed. it.: 615])10. Ho sempre messo in risalto che questa
tesi è compatibile con quella di Spengler, che considera il XVIII secolo come
il periodo in cui l’individuo, in occidente, commette il deicidio, incoronandosi
come Dio nella religione dell’arte11.
Secondo l’autore, quindi, il pensiero mitico nell’occidente moderno smette di avere una consistenza nel proprio campo, segnatamente il mitologico,
Conforme rispettivamente Lévi-Strauss (1991 [1964], 1971 e 1979 [1978]).
L’idea della partitura come simile al mito era già stata esposta dall’autore almeno fin dal
1955 (si veda 1970a: 232 [ed. it.: 237]).
9
Si veda Menezs Bastos (1996: 156-169, 176, nota 12).
10
La fuga cui Lévi-Strauss si riferisce è la Bachiana (1979: 72-73 [ed. it.: 62]).
11
Ho analizzato questo incrocio tra Lévi-Strauss e Spengler (si veda, 1973) in 1995a e 1996.
Nello stesso Finale, sostiene Lévi-Strauss, senza riferirsi a Spengler: “Quando il mito muore, la
musica diviene mitica così come le opere d’arte, quando muore la religione, cessano di essere
semplicemente belle per divenire sacre”(1971: 584 [ed. it.: 616]).
7
8
198
Rafael José de Menezes Bastos
migrando inizialmente verso la letteratura e la musica, presto passando, però
– sotto l’imperativo dell’arte della fuga – ad avere dimora specifica nel campo
della musica. Lì dove la sua “funzione intellettuale e emotiva assieme” incontrarono le condizioni per un pieno sviluppo (1979: 69 [ed. it.: 59]).
Suggerisco, così, che non risulti da una omissione questa assenza nell’opera
di Lévi-Strauss di una, per così dire, attenzione alle musiche amerindie, consistentemente compensata da una forte enfasi sulla musica occidentale. È mia
opinione che, quanto alla musica, ciò che è fondamentale nell’opera in oggetto
è la composizione stessa di questa relazione – tra il mito (come detto, amerindio ma non solo) e la musica (occidentale) – a partire da un insight molto
potente: la musica tonale occidentale ed il mito amerindio sono manifestazioni
equivalenti di una stessa entità, ossia il pensiero mitico. La musica primitiva?
– Si trova nel mondo del contesto.
Si potrebbe dire di tutto ciò: “Mein Reich ist in der Luft”. È ovvio indicarlo, ma vale la pena: il pensiero musicale di Lévi-Strauss è un pensare quasi
esclusivamente sull’occidente – e non sul mondo amerindio –, avendone tanto
interesse quanto quello di altri intellettuali della stessa levatura, ad esempio,
come ho detto, Spengler, Weber e Adorno12. É possibile pensare l’occidente
senza la musica?
Sempre nel “Finale”, Lévi-Strauss affronta la musica in un’ottica più ampia, collocandola a lato del mito ed includendo i due nel novero delle “quattro
famiglie principali” degli studi strutturali, assieme alle entità matematiche e
alle lingue naturali. La sua intenzione in ciò – che qualifica come una ipotesi
– è di stabilire le relazioni mito-musica in maniera chiara e convincente (1971:
578 [ed. it.: 609]).
Nel caso delle entità matematiche, l’autore mette in risalto che esse consistono in strutture “allo stato puro, esenti da qualsiasi incarnazione” (Idem).
Dato che sono così, Lévi-Strauss – ricordando Saussure – indica il fatto che
esse mantengono una relazione di opposizione con i fatti della lingua, doppiamente incarnati, nel suono e nel significato. Le entità matematiche e linguistiche occupano, quindi, poli opposti di uno stesso asse nel presente schema
di Lévi-Strauss. La musica ed il mito disegnano il secondo, posizionandosi
anch’essi in esso in maniera opposta: nel caso della prima “la struttura, in
un certo qual modo staccata dal senso, aderisce al suono”. Quanto al mito,
avviene l’inverso - “staccata dal suono, aderisce al senso” (Idem: 578 [ed. it.:
610]).
12
Ricordo che per Weber il tratto distintivo della musica occidentale è la razionalità, mentre
per Adorno, la ratio progressiva (Menezes Bastos, 199a; 1995a, 1996).
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale
199
Dal punto di vista dell’incarnazione nel significato e nel suono, le quattro
famiglie riferite costruiscono, secondo l’autore, un continuo. In questo, le matematiche sono le più libere, le linguistiche le meno, le musicali e le mitiche
sarebbero le intermediarie. Infine, egli afferma che la musica è il linguaggio –
si legga, la lingua parlata – senza il significato. Il mito? - L’inverso, il significato
senza il suono (Idem: 579 [ed. it.: 611]).
La base di tutto questo esercizio comparativo è data dalla comprensione
della lingua parlata come l’entità che preesiste alla altre (Idem). Ma che tipo
di preesistenza è questa? Inoltre: dall’interno di quale antropologia l’autore
formula questo schema tanto seducente?
Queste due questioni riportano la mia riflessione ai primordi dell’opera di
Lévi-Strauss, lì dove essa viene, per così dire, programmata – ai testi ripubblicati come i capitoli ii-v e xv-xvii di Antropologia Strutturale (1970 [1949]), a
Le Strutture Elementari della Parentela (1976 [1949]) ed a Tristi Tropici. Molto
brevemente: lì l’autore, appropriandosi da un lato della semiologia di Saussure
e dello strutturalismo linguistico della scuola di Praga – in questo Jakobson
occupa una posizione di rilievo –; delle matematiche qualitative, sviluppate,
tra gli altri, nel campi delle teorie dell’informazione, dei giochi e della cibernetica – Wiener è qui centrale; e, dall’altro, della teoria della reciprocità di
Mauss, cerca di comprendere l’uomo attraverso lo schema generale della comunicazione – “Chi dice uomo dice linguaggio, chi dice linguaggio dice società” (1986: 385 [ed. it.: 380).
In questo quadro, la precedenza nella considerazione – quella della lingua
parlata sulle altre entità abbracciate dagli studi strutturali – sembra evidenziarsi sul piano assolutamente radicale della filogenia della specie umana e, lì, del
passaggio dallo stato di natura a quello di cultura. Ciò, però, merita di essere
affrontato con generosità – si direbbe, in maniera “sfumata” – senza perdere
di vista la polisemia con cui il termine linguaggio viene amministrato dall’autore, il che include dai significati più ristretti al campo linguistico propriamente
detto, fino a quelli che indicano la semiologia come dominio generale degli
studi sui sistemi di segni, passando per le sue accezioni più propriamente sociologiche (secondo la nozione di scambio).
Ne Il totemismo oggi (1975 [1962: 104-105] [ed. it.: 143]), abbracciando
le idee di Rousseau sull’origine delle lingue, Lévi-Strauss assume la posizione
di pensare la musica (secondo lui, sempre umana poiché persino il canto degli
uccelli non gli sembra propriamente musicale [1991: 27, nota 6; ed. it.: 56,
nota 6]) come preverbale, legata (come la poesia) al mondo delle passioni. La
lingua è successiva, appartiene all’universo dell’intelletto ed è segno distintivo dell’avvento della cultura (Ibidem: 104 [ed. it.: 143]). L’autore sembra
200
Rafael José de Menezes Bastos
stabilire, quindi, le relazioni musica-lingua parlata in termini ordinali (e non
cardinali) nel processo di ominizzazione.
Ne Le parole e la Musica (1997b), recuperando le idee di Chabanon (17301792) – differenti da quelle di Rousseau (1712-1778) e Rameau (1682-1764),
in particolare per non associare l’origine della musica con quella della lingua
–, l’autore assume una posizione leggermente distinta da questa, indicando
una relazione di ordine più cardinale tra musica e lingua. Omaggiando Michel-Paul-Guy de Chabanon, violinista, compositore e filosofo francese, per la
anticipazione, nel xviii secolo, di punti che la semiologia saussureana consoliderà (tipicamente sull’arbitrarietà del segno, nel caso musicale), e ricorrendo
a Jakobson nella comparazione tra la musica e la poesia – al limite, la lingua –,
egli riassume le differenze tra le due dicendo che “la musica non ha parole”,
essendo quindi un linguaggio, che “ignora il dizionario” (Idem: 71 [ed. it.:
85]). Egli non si riporta, quindi, alla sua celebre tesi de Il Crudo ed il Cotto:
la musica solamente è traducibile per se stessa, dato che è il linguaggio che
per eccellenza riesce a trascendere l’opposizione tra il sensibile e l’intelligibile
(Idem: 22 [ed. it.: 32]), “il supremo mistero delle scienze dell’uomo, quello nel
quale esse inciampano e che custodisce la chiave del loro progresso” (Idem: 26
[ed. it.: 36]). É all’interno di questa antropologia, somma delle scienze dell’uomo – in cui la matematica è tanto oggetto quanto il mito, la lingua e la musica
–, che Lévi-Strauss propone il suo ammirevole schema.
Si sa almeno dalla fine degli anni ‘40, con la pubblicazione di A Dictionary
of Musical Themes (si veda Barlow e Morgenstern, 1949), che la musica – o
meglio, la musicologia o proprio la teoria musicale occidentale – include il
dizionario e, anche, qualcosa come la parola. Dizionario di temi, nel caso organizzato dal compositore. Si noti che questo tipo di opera non è per nulla
eccentrica nella storia della teoria musicale occidentale, radicata com’è in una
lunga tradizione di studi che ha inizio già nel mondo classico Greco-Romano
(con gli scritti sulla Retorica di Aristotele e Cicerone), avendo come rifugio
il lavoro dei trattatisti medievali (tra i quali Boezio), tutto ciò proseguendo
con le indagini di Retorica Musicale e Topica, realizzate nel XVII secolo da,
tra gli altri, Burmeister e Mattheson (si veda Piedade, 2007). Questa tendenza analitica si sviluppa ampiamente nei secoli successivi, dato che da almeno
trent’anni essa trova continuità nell’area di studi che potremmo chiamare di
intelligenza musicale (si veda Meek e Birmingham, 2003).
Ma cosa sarà un dizionario di temi? Cos’è un tema? Ci sarà, infine, un qualche linguaggio traducibile – intersemioticamente – in un altro? Come “dico”,
ad esempio, “pietra” in “pittura di Monet”? Tutto comincia, qui, con cos’è
“dire” nel piano intersemiotico ed evidentemente non vale dare risposte del
tipo “anthropology” è “anthropologie”, che è “antropologia”, che è ..., perché
9. Claude Lévi-Strauss, il Mito Amerindio e la Musica Occidentale
201
così continuiamo nello stesso linguaggio in termini intersemiotici, ossia continuiamo operando con la lingua parlata.
Suggerisco che nelle Mitologiche lo stesso Lévi-Strauss tocca uno degli enigmi (parola che preferisco a mistero, nel caso dell’indagine antropologica) della
musica. Cioè, quando analizza il mito ispirato dall’idea di tema e variazione,
indica simultaneamente la nozione di motivo – atomo dell’estratto sintattico
della musica – e i processi variazionali attraverso i quali i motivi sono elaborati
nella trama musicale: inversione, giustapposizione, retrogradazione, opposizione e tanti altri.
Cos’è un motivo? – Diciamo che è qualcosa che da un lato ha la natura
del tema – cosa che nessuno può negare alla musica (è chiaro che non a tutta,
ma a qualcuna) – allo stesso tempo in cui è somigliante ad un assunto o topico, ciò a cui molti (tipicamente, musicisti ed appassionati, come Lévi-Strauss,
della musica classico-romantica occidentale) rifiutano un’esistenza nel campo
musicale. Il motivo è una causa o agitazione elementare, un tema minimale,
diciamo così (Menezes Bastos, 1990a). Qualcosa, infine, come una parola o,
meglio, tema, radice, radicale del campo della lingua parlata.
Non credo, così, che il problema – esprimendo ora con questa parola ciò
che prima ho chiamato enigma e che l’autore intende come un mistero – della
musica sia che essa escluda qualcosa come la parola e, così, il dizionario. Il
problema che Lévi-Strauss solleva, considerando solamente la musica – e, in
questa maniera, raccontando il mito che costituisce la stessa musica occidentale, non una qualsiasi, ma specificamente la classico-romantica –, sarebbe, se
realmente lo fosse, un problema generale dei linguaggi. Di tutti e di ognuno,
nel caso che la sua indagine si stabilisca sul piano della traduzione intersemiotica, questa viene pensata in termini sinonimici o della riproduzione degli
stessi significati dai differenti linguaggi. Si tratta, credo, di un falso problema.
Al livello, è sicuro, dell’enigma (ma non del mistero). Come io stesso dissi una
volta, i linguaggi o “sottosistemi coinvolti nella trama intersemiotica in verità
costituiscono, uno per uno, sforzi di espressione significante di significati di
altri canali, dislocandoli, però, attraverso nuovi significati, conseguenti, che
mimeticamente producono” (Menezes Bastos, 2001: 347).
Coda: Lévi-Strauss, la Musica Amerindia e la Storia Occidentale
Sto scrivendo un libro (si veda Menezes Bastos, in preparazione), basato
sulla mia tesi di dottorato (1990a), che in una certa maniera viene a rinforzare
la posizione di Lévi-Strauss sulla musica amerindia (si vedano anche i miei
testi del 1993 e 1995b). Il libro apre alcune possibilità di riflettere a proposito
202
Rafael José de Menezes Bastos
dell’idea di rituale in Amazzonia e in esso lavoro con il concetto di musica
rituale di Ellen Basso (Basso, 1985). D’accordo con ciò che sto formulando
a tale proposito, i rituali in Amazzonia – di base, quindi, riti musicali – sono
rituali di lunga durata (Menezes Bastos, 2007). Noto che il rito da me descritto
nel libro in preparazione avvenne nel 1981 tra i kamayurá (xinguani di lingua
Tupi-Guarani), ma risale a molti anni prima, con la morte della persona che,
attraverso di esso, viene co-dimenticata (e non, commemorata). In questo stesso libro, tratto della importantissima questione di come l’ascolto di canzoni,
musiche strumentali o miste, molto frequentemente provoca nei kamayurá il
ricordo – pregno di dimenticanza – del passato, il che talvolta raggiunge avvenimenti legati ad antenati di molte generazioni anteriori. Rileggendo recentemente la tesi di dottorato di Maria Ignez Cruz Mello (2005), ho osservato
che ella descrive i rituali tra i wauja (o waurá, anch’essi xinguani, ma di lingua
Aruaque) che hanno a che fare con la costruzione di mortai fatti dieci, quindici anni prima dell’epoca della loro descrizione. Questi mortai sarebbero stati
bruciati esattamente durante i rituali che Mello ha studiato così bene.
Infine, è molto curioso che in una regione famosa per non preoccuparsi del
tempo storico, le terre basse dell’America del Sud, la musica, vista nel mondo
occidentale come l’arte che cancella, lavori alla lunga durata. Voglio dire che,
le società fredde, nel caso le amazzoniche, sarebbero calde per ciò che riguarda la loro musica, al contrario dell’occidente – madre di tutti i calori storici
– dove sarebbe fredda quanto il suo mito.
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13
Esiste una seconda edizione di questo libro, del 1999, quasi ipsis litteris in relazione alla
prima, pubblicata dalla Editora da Universidade Federal de Santa Catarina.
204
Rafael José de Menezes Bastos
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10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
205
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”1
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
Brasile, Arapongas, 1938. Un antropologo francese in visita in Brasile non
si trattiene di fronte al dinamismo delle immagini del tempo che presiede alla
nascita della città nei Tropici ed afferma che vi abita un popolo il cui percorso
dalla barbarie alla decadenza non aveva mai conosciuto la forza della civilizzazione. Ciò è stato scritto in Tristi Tropici (1955), in cui Claude Lévi-Strauss,
nella descrizione dei suoi ricordi, dipinge un paese bucolico e nostalgico. Costruendo un genere stilistico marcato dal suo stupore di fronte al dislocamento di un Io (Europa) verso un Altro (Brasile), l’autore narra un paese nativo
minacciato dalla “frizione interetnica”2 e dalle conseguenze della Modernità
sulle città brasiliane, che egli qualifica come tristi perché degradate lungo la
freccia del tempo.
Alla mercé dei miti della rovina e del fallimento e sotto la pressione delle
favole progressiste, le città industriali dell’America tropicale degli anni ‘30 si
sarebbero alimentate voracemente del nuovo, senza alcun debito verso il loro
passato storico. Il passato del luogo e tutta la durata dei diversi processi sociali
erano ridotti all’età del mondo colonizzatore ed al modello evolutivo a lungo
termine, costitutivo dell’esperienza e del pensiero europei, relegando il Brasile
all’immagine di un tempo agitato, vertiginoso.
Sotto l’egida della sua esperienza temporale, lo sguardo straniero di Claude
Lévi-Strauss rivisita le proprie memorie vissute nella Vecchia Europa (adulta)
e nei mondi colonizzati (infantilizzati) a mano a mano che si inoltra nelle differenti regioni del Brasile, dal litorale al sertão. Sfidando il mito europeo del
1
Articolo pubblicato in portoghese ed in tedesco nei volumi a cura di Leibing & Benninghoff-Lühl (2001).
2
Ci riferiamo qui al concetto coniato da Roberto Cardoso de Oliveira (1972) per lo studio
delle tensioni e degli attriti interculturali che la società brasiliana, mediata dall’azione dello
Stato, stabilisce con le popolazioni indigene locali.
206
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
Progresso, la società brasiliana si presenta all’antropologo francese nell’ottica
di un ciclo temporale agitato, discordando dalla cadenza continua della logica
centrata nell’esperienza europea attraverso la quale si orienta l’autore di Tristi
Tropici. Imprigionato dall’antagonismo tra una concezione di tempo vertiginoso che tutto divora e un tempo lento che tutto riconcilia, il pensiero eurocentrico di Lévi-Strauss limita la possibilità interpretativa dell’esperienza temporale delle città brasiliane. In questo senso, analizzandole, l’autore constata
che, in esse, il coinvolgimento umano è precario, i cittadini sono indifferenti e
l’estetica urbana è retta dal disordine: elementi stutturanti delle deformazioni
dell’ordine processuale idealizzato nella memoria “del” sociale nel Vecchio
Mondo. Il Paese si perde nell’informità temporale, senza poter contribuire,
nella stessa efficacia di significati, alle interpretazioni delle strutture simboliche dello sviluppo del patrimonio umano universale.
Lungo i sentieri di un tempo corto e seguendo il ritmo della storia unilaterale e trionfante della Modernità, si è detto molto rispetto all’aspetto indigente, mutante e mutevole della vita sociale nei Tropici, tanto quanto si è commentato a proposito dell’immagine della distruzione che conclude il processo
di instaurazione del fenomeno urbano brasiliano. Ecco perché qui insistiamo
nell’interpretare la poetica dell’instabilità in Brasile e nel riconoscere la costruzione del significato politico (politica della forma e del genere discorsivo ed interpretativo della storiografia e dell’etnografia) nel quale risiedono le
rappresentazioni che offrono spiegazioni sulla traiettoria brasiliana come una
deviazione (o contromano) di una estetica basata sull’ordine e sull’armonia del
progetto civilizzatore.
Contemplando le immagini della retorica di un tempo finalista
Meticciato e sincretismo possono darci la chiave per la comprensione della
distanza che separa la drammatica della dialettica della durata, la quale accompagna il processo di consolidamento del tempo nel corpo della vita sociale
del Brasile, e le immagini del grottesco e della mostruosità che permeano la
costruzione delle teorie su questo paese. Si tratta di evidenziare in che misura
l’immagine del carattere mostruoso ed anacronistico della società brasiliana,
presente nelle etnografie che narrano le esperienze del dislocamento, della
meraviglia dei “viaggiatori”, come di Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici, della storiografia dei brasilianisti, molte volte perpetuata all’interno del pensiero
sociale brasiliano, è in relazione con i giudizi estetici negativi a partire dai quali
gli intellettuali elaborano la comprensione del tempo agitato che accompagna
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
207
la vita sociale del Paese fin dalla sua formazione3. In questo senso, i discorsi
che presentano il Brasile come un “paese senza memoria” si riferiscono costantemente al tema del “sottosviluppo”, del “ritardo”, della “marginalità”
e del capitalismo selvaggio come modi di trattamento concettuale delle questioni della barbarie e della deformità che presiedono l’atto di fondazione del
corpo sociale in Brasile sulla base di sincretismi culturali, di mescolanze delle
razze.
Si potrebbe dire che i limiti della comprensione della logica contraddittoria
che regna nelle forme informi della vita sociale si basano sui miti di fondazione
del Nuovo Mondo che contaminano le interpretazioni a riguardo delle sistemazioni temporali nei Tropici, eternamente scisse tra le immagini della barbarie e della civilizzazione, dell’inferno e del paradiso. Tali “interpretazioni” del
Brasile come “un paese senza memoria” sono, quindi, impregnate dello stesso
spirito riduzionista e moralizzatore che ha retto i miti dell’implementazione
della civilizzazione nei Tropici, originati nello sguardo dell’eroe conquistatore
europeo e nell’avvento della scoperta e colonizzazione del Nuovo Mondo. La
stessa classificazione “scientifica” che trasfigura, più recentemente, il Nuovo
Mondo in Terzo Mondo già rivela il posto atopico occupato da Brasile, come
da altri paesi, all’interno di una visione eurocentrica della durata temporale, in
base alla concezione di un tempo lineare e progressista, dato che evoca l’idea
di un corpo sociale sincretico, la cui fattezza denuncia la presenza di una “armonia” in tensione fra le proprie origini eterogenee (radici europee, africane,
indigene) all’interno della stessa idea dell’unità dell’“essere brasiliano”4.
La personalità etnica dell’“essere brasiliano”, che contempla la figura del
Terzo Mondo amalgamando, in uno stesso ed unico essere-stare collettivo, una
pluralità di stati, suggerisce la visione colonizzatrice della durata, ossia, una materia intermediaria per le sistemazioni temporali nei Tropici, materia inadeguatamente fluida ed imprecisa, in cui si svelano, a volte, le impressioni di mostruosità e deformazione con le quali il fenomeno della memoria è stato abbordato
dal pensiero intellettuale prodotto in seno ai paradigmi classici. In questo senso,
il dualismo che regge la episteme classica applicata dall’Europa vittoriana agli
3
Questo tema costituisce il fulcro dello studio di Ana Luiza Carvalho da Rocha nella sua
tesi di dottorato (1994). I chiarimenti dell’analisi del contenuto sulla produzione del pensiero
scientifico brasiliano contenuti nelle note seguenti di questo capitolo sono stati estratti da tale
lavoro.
4
Questo è un tema costante nella letteratura nazionale, che appare nel folclore popolare in
forma dispregiativa, nella figura di Zé Ninguém o di Zé Povinho, ed in Monteiro Lobato, nella
figura del personaggio Jeca Tatu, secondo Roberto Da Matta (1981). Per altro verso, la figura
“meticcia” del popolo brasiliano è stata positivamente drammatizzata dal movimento modernista, in particolare da Mário de Andrade, nella sua opera Macunaìma.
208
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
altri popoli e civiltà arriva fino ai giorni nostri nella forma in cui gli intellettuali,
europei e no, riflettono sull’antagonismo insuperabile che scinde le ondulazioni temporali in Brasile tra tradizionale/moderno, sviluppo/sottosviluppo, paesi
periferici/paesi egemonici, ritardo/modernità, rurale/urbano.
Ciò che si presenta è il tema del paradosso della coesistenza di molteplici
contrari nella formazione del corpo collettivo in Brasile, paese frequentemente compreso attraverso la semplificazione riduttrice di un sapere intellettuale
cartesiano che cerca di allontanarsi dalla sensibilità relativista della persona ordinaria per raggiungere, in favore del reale, la pretesa oggettività. L’argomento
duale si trova, così, nel profondo degli orientamenti dei saperi scientifici che
tendono ad eliminare, nelle loro spiegazioni causali e materiali del ritardo e
della rovina del mito del Progresso nei Tropici, il residuo tangibile di un tempo lacunoso che accompagna la formazione della società brasiliana ignorando
la genealogia delle proprie categorie scientifiche sul piano mitologico5.
Il dilemma che fa da cornice alle rappresentazioni che costruiscono il Brasile come “un paese senza memoria” istiga, quindi, a comprendere la temporalità di una maniera di essere “brasiliana” che si realizza indipendentemente dal
monopolio etnocentrico in cui gravita la produzione dei saperi scientifici. Si
tratta forse del muoversi con l’ermeneutica del sospetto per suscitare le dimenticanze ed i ricordi selettivi che danno significato a questa instabilità prescritta
a partire dallo sguardo del Centro per rivelare le tensioni, le trasformazioni ed
i conflitti che racchiudono un controdiscorso alle immagini museificate della
percezione dei “colonizzatori” moderni. In questi termini, prima di opporre il
Nord al Sud, la società patriarcale alla società di classe, la ragione sensibile al
rigore scientifico, si tratta di lavorare con il principio della tensione fondante
dell’oggettività scientifica. Si ritorna, lentamente, alla necessità di comprendere che il processo di produzione di concetti scientifici, prima di allontanarsi
dalla conoscenza ordinaria del senso comune, si nutre di esso6.
5
Questa polemica è riesaminata nella opposizione tra l’intuizione poetica della sociologia delle coccole e delle amicizie, una sociologia nordestina, metaerotica e metarazionale della
civilizzazione della canna da zucchero di Casa Grande e Senzala e di Sobrados e Mocambos di
Gilberto Freire, sociologia della benedizione paterna, in opposizione alla sociologia onnipotente della fabbrica e della città, sociologia prometeica della lotta di classe, sociologia paulista di
Florestan Fernandes e di Otavio Ianni; o la sociologia del mondo caipira, di Parceiros do Rio Bonito, di Antônio Cândido (1987), in cui letteratura e prosa scientifica si rinnovano in un quadro
interpretativo delle popolazioni cabocle del Paese, o ancora la sociologia del Brasile indigeno,
dei cicli minerali e vegetali della formazione del corpo sociale in Brasile, ossia, la sociologia
orgiastica di Darcy Ribeiro in Os Brasileiros (1969).
6
Negli anni ‘60, il pensiero sociale in Brasile ricerca le radici del Paese, in una comparazione
sempre maggiore tra i mali della civilizzazione nei Tropici e la drammatica del popolo porto-
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
209
Dal sentimentalismo sociale e storico della sociologia del nordest di Gilberto Freire (1974, 1981, 1985) e dal moralismo critico della onnipotente sociologia paulista delle classi sociali al tema del ricercatore soggetto/oggetto della
ricerca e dei suoi anthropological blues (cfr. Da Matta, 1978), si tratta di acclamare le preoccupazioni intellettuali della comunità scientifica che si dibatte
tra un pensiero sociale del Brasile e in Brasile senza aderire, nel frattempo,
all’idea che la sistemazione delle forme diverse della vita sociale del Paese sia
il risultato della corruzione dello spirito razionalista dell’Europa vittoriana nei
Tropici7.
L’estetica temporale delle città brasiliane nella poetica dell’instabilità
Ricordando le affermazioni lévi-straussiane a riguardo dell’etica della distruzione che caratterizza i Tristi Tropici, le quali hanno dato inizio a questo
articolo, e sospettando del modo in cui inscrivono un realismo sociale nella
dinamica urbana, possiamo dire che, trattandosi di una estetica temporale influenzata dalla distopia del passato, proponiamo di interpretare che, in Brasile, la Città-Rovina è l’espressione dell’insieme di intenzioni e di comportamenti dell’uomo brasiliano di fronte al Tempo, ossia, attraverso la distruzione di
strutture spaziali che segnalano un arcaismo, gli abitanti delle città valorizzano
il presente nella riformulazione del passato.
Per chiarire le strutture soggiacenti al fenomeno della distruzione della Città in Brasile, diviene necessario riflettere sul tema della causalità formale che
accompagna la strutturazione dei fenomeni temporali, ossia, sullo sforzo dei
suoi abitanti di evocare il Tempo come una sequenza di rotture e lacune vissute da una comunità resistendo alla tentazione di miniaturizzare (ridurre) le
loro esperienze quotidiane nella rappresentazione del Tempo come una continuità uniforme. Si tratta di operare la comprensione del paradosso dell’“anima barbara” della società brasiliana (associata inequivocabilmente alla società
ghese, in un tentativo di esorcizzare il suo passato impuro, attribuendo alla persona brasiliana
un fare cordiale, un jeitinho ed una malandragem, dimensioni plausibili di essere esplicitate alle
basi populiste della vita politica del Paese e delle sue élite abituate all’ombra del potere.
7
La non-contemporaneità della realtà brasiliana raggiunge il suo grado più critico con il
pensiero sociale del Brasile negli anni ‘60, attraverso la strada di una Sociologia critica e militante, considerata all’epoca l’unico filo conduttore capace di sostenere un sapere sociologico atto
a promuovere, finalmente, la redenzione dell’anima barbara della società brasiliana per infine
portarla in paradiso. Il monoteismo dei valori marxisti che consolidarono il dominio delle classi
sociali si confronta con l’umanesimo pluridimensionale del tragitto antropologico della formazione del corpo collettivo in America Latina.
210
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
patriarcale, schiavista ed agraria del mondo coloniale) che, alimentandosi di
valori moderni, costruisce un comportamento estetico singolare di fronte alle
ondulazioni del tempo.
Il gesto della dimenticanza (rovina), o il desiderio di trasformazione nel
“restaurato” e rivestito (domesticazione della forza effimera del tempo e
negazione della morte), può essere compreso o come il lavoro di trasferire
l’esplicito, o come una allegoria della caducità, secondo Walter Benjamin
(1984), in un nuovo ordine di significato, generando un significato altro per
l’instabilità estetica adesso soddisfacente e conciliatrice con l’opera del tempo discontinuo. Nella logica di una memoria moderna, si può incontrare
qui un tessere la durata del quotidiano nel luogo, implicito nell’atto della
dimenticanza.
Attraverso il ricordo del gesto primordiale di fondazione della Civilizzazione nei Tropici, ossia l’atto di cannibalizzazione del Diverso e dello Straniero che ha accompagnato l’occidentalizzazione dell’America, la società
brasiliana, invece di addomesticare la fuga dal tempo, proiettandolo in un
vettore lineare e progressivo, aderisce alla sua materia deperibile come una
forma di sovrapporre la morte del suo corpo sociale. In questo senso, ad
esempio, il frammento di una storia a riguardo della Città acquisisce una forma propria, sui generis, rispetto a colui che parla, facendo sorgere la trama
della vita urbana in una struttura narrativa come parte di mappe mentali dei
suoi abitanti, possedendo una geometria che le è peculiare. Per non rischiare
di incorrere nella dimenticanza, possiamo suggerire che questo è stato un
orientamento promettente delle ricerche di antropologia urbana brasiliana le
quali incidono su etnografie che interpretano i punti di vista differenti delle voci cognitive che tracciano mappe affettive del vivere sociale e culturale
in Brasile. Ciò implica che, nella vibrazione ritmica del Tempo, il luogo del
grottesco è preminentemente atto di trasformazione, “arte del fare” direbbe
Michel de Certeau (1994). Le narrative nella e della città brasiliana indicano
questa sensibilità delle esperienze biografiche, dei contesti estetici inscritti
nelle traiettorie singolari degli abitanti, delle sociabilità tessute nella grandezza spaventosa di una presenza eterogenea, della retorica della morte nelle sue
strade, dell’esuberanza festiva nei suoi viali, del policulturalismo che regna
nella vita quotidiana dei cittadini, dei gesti e degli atteggiamenti quotidiani
continui e reinventati.
Dal folclore e dall’edonismo popolare alle produzioni di una cultura artistica di élite, dallo spettacolo pubblico alle parate elettorali, dalla celebrazione dei calendari sportivi e musicali alle feste religiose, dall’esacerbazione del
corpo in spettacolo alle delizie del consumismo, dalla proliferazione di sette
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
211
religiose e culti al risorgere di movimenti regionali e locali, ciò che si deduce
è che la Città in Brasile si traduce in una specie di santuario del disordine. Si
tratta di un territorio capace di celebrare, oltre alla materialità degli oggetti,
delle abitudini, dei modi di vita dei suoi abitanti, il genius loci di un popolo.
Con il carattere “informe delle forme” (Maffesoli 1982, 1988, 1992) con il
quale si disegna il consolidamento del tempo in Brasile, si sottolinea, così, il
postulato della non-dualità logica degli antagonismi di valori che lo configura,
ciò tanto nel caso in cui si pensi alla formazione della società brasiliana quanto ai saperi che trattano di essa. Esiste, inoltre, nel processo di distruzione e
ricostruzione della città, una singolarità specifica che ci stimola ad interpretare la città come rovina e frammento. Nel caso dello studio delle ondulazioni
temporali in Brasile, questa motivazione implica, da un lato, il localizzare il
punto di incontro tra lo studio della memoria collettiva e della genesi della
Civilizzazione sotto i Tropici e, da un altro, il trattare l’incomprensibile adesione degli abitanti al sacrificio della distruzione delle città brasiliane. Ora, la
singolarità del processo di distruzione di territori di una città qualsiasi è che
questo processo può essere messo a fuoco a partire dal principio della poetica
dell’instabilità.
Non si può comprendere, quindi, la singolarità dell’atto di distruzione e
ricostruzione di uno spazio esistenziale senza risalire a una moltitudine di atti,
volizioni e sentimenti che tessono i propri territori nel dominio del vissuto
dei suoi abitanti. In questo senso, prendere la città come materia suppliziata
significa qui affrontare la potenza sotterranea di una immaginazione creatrice
presente nell’uomo brasiliano che, distruggendo la propria abitazione, ha la
pretesa di “addomesticare” il Tempo.
Relativizzando gli schemi esplicativi, si possono seguire i presupposti delle
“arti del fare” che, nel rifiuto dell’effimero, cercano uno spessore temporale.
In questo modo, raccontare la città nella sua durata è apprendere la dinamica delle sue strutture spaziali nelle sovrapposizioni temporali vissute dai suoi
abitanti, conferendo loro una “dialettica della durata” (Bachelard, 1989). Si
tratta di datare ed ordinare l’agitazione temporale nell’ordine del vissuto che
dà, alla Città-Rovina nei Tropici, un carattere di opera in perpetua creazione.
Pertanto, diviene necessario qui abdicare da tutta l’interpretazione realista del
fenomeno urbano in Brasile derivante da una sociologia positiva sulla vita sociale nei grandi centri urbani del Paese. Si suggerisce piuttosto di adottare una
prospettiva comprensiva per interpretare l’atto perpetuo di distruzione e ricostruzione della città che accompagna la creazione della civilizzazione urbana
nell’America Tropicale.
212
Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
Un paesaggio enigmatico: dalla dimenticanza alla narrativa delle esperienze
temporali
Come scoprire il pulsare della vita nella forma-città, nelle sue stratificazioni
e rovine, nell’edificazione di nuovi topos urbani, nella demolizione di antiche strutture spaziali, nella ristrutturazione e sovrapposizione del significante
dell’opera architettonica? Si tratta qui di etnografare la memoria della durata
degli abitanti brasiliani nello svelamento delle opere della sinergia delle fantasticherie della volontà e del riposo che nutre una comunità in relazione al suo
divenire8.
Legando a questo apprendimento le forme associative elaborate da Georg
Simmel (1984, 1989), diviene possibile captare, nelle memorie biografiche,
le forme della sua manifestazione concreta, che è la sua “forma” nella percezione della sua esteriorità. La città si anima, così, con lo sforzo degli abitanti
di continuare nel tempo, di vivere concretamente le loro memorie pensate:
le sociabilità e le dinamiche quotidiane vanno disegnando mappe affettive di
appartenenza territoriale dei soggetti.
Si parte dall’idea simmeliana della città come una opera d’arte circoscritta
alla storia della cultura occidentale, attraverso la quale “leggiamo”, nell’estetica
urbana delle città brasiliane – tanto quanto nelle sue manifestazioni artistiche
e culturali –, il tema delle infrazioni che lo stile barocco offre alle regole del
pensiero occidentale classico in cui l’assurdo della estetizzazione delle masse
e del grottesco avanza sull’idea di coerenza, il mitico sul logico, l’immaginario
sul cogito.
Attuando come sistemi decentrati, alcune città brasiliane generarono, fin
dalla loro fondazione, forze che esercitavano pressione dall’interno verso
l’esterno dei loro limiti, generando un’armonia conflittuale tra perimetro-frontiera-confine9. In questo senso, la configurazione di un décor e di un ambiente
urbano deforme per il continuo processo di distruzione e ricreazione può solo
essere messa a fuoco come realtà materiale (nelle sue strutture spaziali) se consideriamo che la città può perpetuarsi solo se i suoi abitanti la riconquistano
quotidianamente nei loro sogni e fantasie.
A questo proposito abbiamo sviluppato un progetto di ricerca integrato sulle città in Brasile, privilegiando Porto Alegre. Si tratta del Projeto de Pesquisa Integrado CNPq Estudo Antropológico de Itinerários Urbanos, Memória Coletiva e Formas de Sociabilidade no Meio Urbano
Contemporâneo e del Banco de Imagens e Efeitos Visuais, www.biev.ufrgs.br
9
A proposito si veda la bibliografia sulla sociologia dello sviluppo e della trasformazione sociale così come le teorie della modernizzazione e i suoi critici, con esponenti come Luiz Pereira,
Fernando Henrique Cardoso, Paul Singer e altri.
8
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
213
È qui appropriato pensare alla sovversione dell’immagine del Terzo Mondo della ragione economicista riprodotta come logica universale nei discorsi
scientificisti che insistono nel farci prigionieri. L’immagine dialettica simmeliana del terzo (la triade) crea la variabilità delle strategie e delle creatività umane
per il pensare e l’agire nel sociale. Il terzo, all’inverso, crea una tensione semantica, il conflitto, la disputa, la differenza nelle combinazioni relative dell’interazione sociale, producendo, nel proprio disordine, la reciprocità cognitiva
nelle traiettorie umane singolari in maniera da permettere la liberazione di
nuovi significati e negoziazioni nei sentimenti di identità che il fatto di essere
brasiliano-del terzo mondo può generare. Si tratta, quindi, di un fenomeno di
consolidamento temporale, che definisce infine la tonalità estetica dei grandi
centri urbani del Paese. In questo senso, la distruzione di strade, le rovine
degli edifici, la frammentazione delle sociabilità arcaiche, la ricostruzione di
quartieri e la crescita della città informale possono non necessariamente provocare, nel collettivo e nell’individuo, un’immagine di sofferenza e di caos per
il carattere discontinuo delle loro “forme informi”. L’enigma si svela al concepire che, nel lavoro di non dimenticare, si alimenta il desiderio di vita come
lo voleva Walter Benjamin (1993). Così, la città nei Tropici acquisisce valore
estetico precisamente in ciò che essa evoca come territorio veicolare, generata
nella fruizione di manifestazioni culturali di matrici diverse e di incontro di
differenti comportamenti estetici. Per la sua tendenza verso l’informale, l’ampliamento delle forme, il teatro della vita urbana locale concentra la variazione
di un identico tanto quanto l’identità delle differenti formule ripetitive opposte (localismo X globalizzazione)10.
La distruzione della Città in Brasile ricopre così un ruolo positivo: si inserisce, quindi, nell’insieme mitico che l’America tropicale veicola, ossia, nei
riti di riconquista del Tempo. Detto in altra maniera, in uno schema dinamico, la città urbano-industriale di oggi riabilita ed eufemizza la barbarie.
Diveniamo, in tal modo, i maestri di un movimento circolare del tempo e
dei suoi ritmi, movimento questo che si trasforma in un talismano contro il
nostro destino di uomini mortali. Forse è questo il caso del comportamento
estetico dell’uomo brasiliano di fronte alle nostre città “senza forma” e senza
opere coltivate.
È, quindi, nel cuore dei tempi sovrapposti che dobbiamo collocarci per
comprendere il fenomeno della distruzione come un processo di costruzione
perpetua del teatro della vita urbana in Brasile. Così, in mezzo alle molte inter10
Ricorriamo qui a Ruben George Oliven, in A Parte e o Todo (1992), e a Gilberto Velho, in
Individualismo e Cultura (1981). Ci sembra interessante anche mettere a fuoco questa tematica a
partire dal pensiero di Gilles Deleuze, in particolare nell’opera Différence et Répétition (1968).
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Ana Luzia Carvalho da Rocha e Cornelia Eckert
pretazioni che si possono formulare, in termini di distruzione e di caos, vista
dall’angolo delle interconnessioni tra i domini dell’estetica urbana e della memoria collettiva, la più corretta è quella che ci parla a proposito della creazione
dello spazio esistenziale come di un fenomeno che risponde ad una concatenazione complessa di movimenti ritmici di assimilazione accomodante da parte
di un gruppo umano dei suoi mezzi cosmici e sociali, ai quali si sovrappone
l’immagine dinamica dell’inserimento dell’uomo nel suo ambiente.
Il sistema spazio-temporale super-umanizzato delle nostre attuali città industriali moderne brasiliane, anche se tanto differente dai distanti antenati europei (luoghi di accampamenti di cacciatori nomadi, fortificazioni merlate del
Medioevo, fortificazioni rinascimentali in forma di stella), è stato progettato su
un fondo di colori, di rilievi e di odori influenzato dalla geografia leggendaria
dei Tropici. Anche considerando una riflessione sul disequilibrio patologico
nell’uomo della civilizzazione, circondato da una cintura di fabbriche, di favelas, di grattacieli, di fame e miseria, di una rete di vie utili, la città “senza
forma” ritrova sempre, come realtà vissuta, le figure diverse che incarnano
l’immagine di un territorio rifugio.
Resistendo al riduzionismo di un tempo finalizzato, le città in Brasile, così,
permangono fedeli ad una visione pluralista del tempo, unico modo di preservare, in sé stesse, la consacrazione dell’ordine polisemico del corpo collettivo
dei suoi abitanti. La distruzione della Città in Brasile ha, quindi, una natura
sintetica: significa la maturazione della fine del Tempo e, così, la promessa immortalità. Industrializzazione, modernizzazione e urbanizzazione esprimono
molti miti ciclici ed operatorii dell’Occidente cristiano: accelerare la storia ed
addomesticare il tempo.
Trasgressione della retorica
Nella considerazione formale di uno stile di “città tropicale” per comprendere gli agglomerati urbani del Brasile, entra in discussione la concezione di
una sensibilità collettiva dei suoi abitanti che sta alla base della sua creazione,
in cui la bellezza informe prende forma e si esprime con tutta la voluttuosità.
I rituali sacrificali a cui sottoponiamo oggi la città hanno un significato
liturgico ed iniziatico, dove un corpo collettivo, per mezzo della ripetizione
del sacrificio delle sue strutture spaziali, “scambia”, “negozia” il passato con
il futuro, in un tentativo di addomesticare Kronos. È per questo che concepiamo la narrativa dell’estetica dei fenomeni culturali come veicolanti degli stili
di vivere associati alle città in Brasile che accomodano i giochi della memoria
della sua comunità.
10. La retorica di un mito: “Brasile, un paese senza memoria!”
215
La storia di ogni individuo nella città è la storia delle situazioni che egli ha
affrontato nel suo territorio, ed è l’azione di questo soggetto in questi spazi
che fa di un episodio banale una situazione, per lui, di rivendicazione delle
sue tradizioni.
Si può supporre che le descrizioni etnografiche disarmoniche dei fenomeni della cultura urbana, nelle sue più differenti epoche, parlano “in quantità
maggiore o minore e in maniera più o meno profonda nelle opere anonime
del «vivere la città»” (Dorfles, 1973), ragione per cui significano un autentico
recupero dell’Immaginario negli studi sul mondo contemporaneo.
Schivando la pressione della storia immediata delle trasformazioni urbane, l’estetica del disordine che configura la città del “Terzo Mondo” è qui
vista come il risultato del comportamento estetico di un popolo che incontra
riposo nell’adattabilità. È questa trasgressione di una retorica che riduce le
esperienze temporali dei brasiliani ad un paese senza memoria a cui ci siamo
riferiti, allegoria messa in dubbio dall’etnografia della memoria della durata
problematizzando il lavoro del popolo brasiliano nell’adattarsi alla materia deperibile del Tempo, svelando i contenuti latenti che contengono molto più del
tragitto immaginario di colui che pensa, parla, agisce ed interagisce.
In Brasile, la città mette in gioco le emozioni e le passioni collettive arcaiche
del suo popolo convivendo con la visione meccanica del mito del Progresso e
dell’Ordine. Proprio per la natura della sue “forme informi”, la città in Brasile non acquisisce un valore estetico per le sue opere coltivate, ma per una
concezione differente della materia della vita urbana attribuita alla sensibilità
collettiva dei suoi abitanti. Il Brasile interpretato nella condizione di produttore di sincretismi culturali e territorio di coesistenza di tempi sociali diversi ha
bisogno di essere rivisto attraverso l’angolo della sua memoria collettiva, per la
sovrapposizione di strati di durata in cui la presenza di principi contraddittori
permette al suo corpo sociale di ridisegnare, ogni giorno, il suo aspetto.
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218
Indice
11. Come un profumo bruciato
219
11. Come un profumo bruciato
Dall’esotismo lévi-straussiano come estetica del diverso all’esperienza del consumo
Antonio Motta
Le Brésil s’esquissait dans mon imagination comme des gerbes de palmiers
contournés, dissimulant des architectures bizarres, le tout baingné dans une
odeur de cassolette, détail olfactif introduit subrepticement, semble-t-il,
par l’homophonie inconsciemment perçue des mots “Brésil” et “grésiller”,
mais qui, plus que toute expérience acquise, explique qu’aujourd’hui
encore je pense d’abord au Brésil comme à un parfum brûlé
Claude Lévi-Strauss
Celebrare l’Anno del Brasile in Francia, nel 2005, e l’anno della Francia in
Brasile, nel 2009, costituisce un esempio paradigmatico di quanto l’esotismo
sia ancora capace di provocare interesse nell’immaginario francese. Da un lato
e dall’altro la relazione continua in maniera asimmetrica. Dal lato di là, l’esotismo senza riserve, dal lato di qua, la missione civilizzatrice della Francia nel
Brasile dei Tropici.
Nel corso del tempo, il Brasile si è presentato come una fonte di immagini
e rappresentazioni diverse, spesso oscillando tra la nostalgia di un eden tropicale, revival del primitivismo e altri stereotipi associati alla disuguaglianza
sociale; prossimo a ciò che, dopo Roger Bastide, si è convenuto nel mondo
francofono di chiamare Brésil, terre des contrastes. Lo sconfinamento di questo campo semantico, tradotto per mezzo di segni, forme e rappresentazioni,
si esprime più chiaramente nei momenti in cui il Brasile diviene, per qualche
motivo speciale, eventuale oggetto di interesse nella stampa o nei mezzi di comunicazione francesi, con ridondanti riferimenti alla miseria, alla violenza, al
narcotraffico, alla corruzione e a tante altre malefatte attribuite alla condizione
di paese periferico. Se da un lato questo “esotismo al contrario” – che abitualmente veicola le piccole e grandi tragedie quotidiane del popolo brasiliano –
trova uno spazio ed una ricezione presso il pubblico francese, dall’altro, non
resta indietro l’ambigua profusione di immagini di un paese che si pretende
anche di dipingere – dal punto di vista della cultura francese – attraverso l’altra
faccia della medaglia: idillico, sensuale e sincretico. A quest’ultima tendenza si
220
Antonio Motta
devono anche aggiungere alcune rubriche: carnevale, musica, calcio, spiaggia
e tante altre cose che rimandano a singolarità culturali non meno attraenti.
Forse, chissà, sarà proprio per questo che lo stesso contenuto latente delle
immagini che predominano nelle celebrazioni ufficiali, negli accordi di cooperazione internazionale, riguardando politiche culturali, o perfino nei momenti
occasionali in cui la cultura e la società brasiliane si fanno rappresentare in
Francia, insiste ancora oggi in un tono di nostalgia delle origini o, più precisamente, del “pays de braise”. Per adesso, rimaniamo alla prima parte della
storia: il Brasile in Francia.
L’invenzione dell’altro esotico
Secondo quanto suggerisce il luogo comune, l’esotismo si inscrive in una
significativa tradizione della letteratura francese, la cui genealogia rimonta alla
curiosità erudita motivata dalla scoperta di nuovi spazi geografici nel Rinascimento e, di conseguenza, alla propagazione e ricezione dei primi récits de
voyages. È stato così che il Nuovo Mondo non solo ha acquisito l’esistenza
narrativa e l’iconografia nelle relazioni dei primi viaggiatori, specificatamente,
André Thevét (1558) e Jean de Léry (1578), come essi hanno anche fornito
elementi di ispirazione al celebre Essais di Michel de Montaigne, nel 1572,
sintetizzati nel capitolo “Des Cannibales”, dedicato agli indigeni Tupinambá.
Al contrario, però, dei viaggiatori che raccontavano le proprie esperienze nelle terre brasiliane a partire da ciò che poterono osservare in situ, Montaigne
stesso non giunse mai ad allontanarsi dal continente europeo, come neanche
mai vide un indigeno nel suo habitat di origine. Probabilmente, il suo unico
contatto con l’esotismo in carne ed ossa avvenne nel 1562, quando si recò nella
domestica e pacata città di Rouen, durante le festività organizzate da Re Carlo
ix e da sua madre Caterina de Medici, occasione in cui tre autoctoni brasiliani,
catturati e trasportati dalle loro terre, composero il décor della festa reale, con
l’esposizione delle loro esuberanti corone di piume, ornati con piumaggi colorati, sfilando nel mezzo degli attoniti sguardi della corte francese.
Evidentemente, prima di divenire il tema della riflessione relativista di
Montaigne, o anche di popolare i racconti di viaggiatori, missionari ed amministratori coloniali, l’immagine dell’altro esotico e geograficamente distante si era già trasformata in un oggetto di potere e disputa, attraverso la
doppia strada aperta dal processo di colonizzazione e propagazione della
fede cristiana. Indipendentemente dalle controversie a riguardo della forma
di rappresentazione e, più grave, a riguardo della forma violenta di sfruttamento e di espropriazione a cui fu sottomesso, l’altro esotico non ha smesso
11. Come un profumo bruciato
221
di continuare ad istigare l’immaginazione e l’interesse intellettuali nei secoli
successivi.
Affinché non si perda il filo è conveniente ricordare che in lingua francese la parola esotismo fu utilizzata per la prima volta da Rabelais, nel 1552,
nel senso di marchandise exotique. Allo stesso tempo però, ha cominciato ad
essere utilizzata con una maggiore frequenza, alla fine del xviii secolo, per
designare tutto ciò che non apparteneva alla civilizzazione di riferimento di un
individuo, soprattutto per ciò che riguarda le civilizzazioni non occidentali,
ossia qualcosa portato da un paese lontano. Indipendentemente dal suo uso, la
parola esotismo ha conservato il significato etimologico della sua forma latina
exoticus che deriva dal tardo greco exôtikós (straniero, esterno), formato dalla
radice éx o ek (movimento verso l’esterno).
Nel xviii secolo, terreno eccezionalmente fertile per la costruzione e la ricezione dell’esotismo in Francia, il centro dell’interesse gravitò, molto spesso, tra
variazioni negative e positive in riferimento agli abitanti del Nuovo Mondo.
La prima di queste, delineata alla maniera del Conte de Buffon, nella sua Historie Naturelle, scritta tra il 1749 ed il 1788, fu portata all’estremo da Cornelius De Pauw, attraverso un etnopessimismo tropicale e, nel secolo successivo,
incontrando una sua maggiore risonanza nella “degradazione dell’esotismo”,
secondo il corollario razzista del Conte Arthur Gobineau. L’altro lignaggio
qui delineato è segnato da visioni entusiastiche, orientate dalle riflessioni di
alcuni illuministi. Per quanto riguarda quest’ultimo quadro, basta ricordare le
rêveries di Jean-Jacques Rousseau, ispirate dall’ideale vivre selon la nature, subito trasformate in culto all’immagine del bom sauvage, confermato anche da
Diderot nel Supplément au Voyage de Bougainville. Tra l’altro, ha perfettamente ragione Jacques Derrida quando nota che Tristes Tropiques di Lévi-Strauss
sarebbe una specie di felice combinazione tra le Confessions di Rousseau ed il
Supplément di Diderot.
Ma è stato solamente a partire dal xix secolo che la seduzione per l’esotismo ha smesso di limitarsi solamente all’America. Essa cominciò ad includere anche parte dell’Oriente, come l’Egitto, la Siria e l’Arabia, oltre ad altre
regioni dell’estremo oriente, come l’India e la Cina – ciò che venne ad essere conosciuto come la renaissance orientale. Tale seduzione non si restrinse
appena alla speculazione filosofica o al piano della storia, trasformandosi
subito in un potente substrato della creazione letteraria, come non smentisce l’esotismo sentimentale nei romanzi di Chateaubriand, tanto americano
quanto orientale, che sia in Atala o in Les Natchez. Edward Said ha già messo
in risalto che perfino Flaubert, con il suo accurato senso dello stile, non ha
tardato ad arrendersi al sortilegio della vacanza orientale, coltivando in certi
momenti della sua opera il gusto per l’esotismo voluttuoso, sofisticato, più
222
Antonio Motta
chiaramente evidenziato in Salambo, e seguito da altri nomi della letteratura
francese.
Su questo argomento, sarebbe forse più giusto ricordare che il massimo
esempio dell’assimilazione e conversione dell’alterità in pittoresco, mescolamento di esotismo ed erotismo, si materializza, soprattutto, a partire dal 1879,
nei romanzi di Pierre Loti. Ufficiale della marina francese, viaggiatore e scrittore, Loti incarnò come nessuno il prototipo del turista moderno, una sorta
di “ruffiano della sensazione del diverso”, ravvivando con tonalità ancora più
forti il sentimento del viaggio e del passaggio come mezzo di pura evasione.
Già Victor Segalen, autore di una riflessione inconclusa, intitolata Essai sur
l’exotisme, insorge nella scena intellettuale francese, all’inizio del secolo scorso, con il fermo proposito di criticare l’eccessiva banalizzazione dell’esotismo,
allora promosso alla mera registrazione descrittiva di impressioni superficiali
che tendevano a ridurre l’altro allo stesso. Voce dissonante nella sua epoca,
Segalen cercò di porre le basi di una estetica centrata sulla valorizzazione della
diversità e della differenza, trasformando la nozione di esotismo in categoria della conoscenza, a partire dalla propria esperienza radicale con l’alterità:
“l’exotisme est tout ce qui est autre”.
Non è che Paul Gauguin – ben prima della critica di Segalen – non avesse già prodotto uno dei primi decentramenti in relazione all’ideale estetico
occidentale, svincolando l’esotismo dal suo aspetto meramente pittoresco,
quando cerca a Tahiti un modello di rappresentazione fino ad un certo punto immune alle richieste della metropoli. Allo stesso tempo, questo modello
avrebbe guadagnato una maggiore forza e autonomia estetica solamente con
l’emergere dello sperimentalismo formale di alcune avanguardie, soprattutto
il surrealismo ed il cubismo di Picasso ispirato all’arte primitiva africana. Da
parte di alcuni intellettuali francesi, come è il caso di Michel Leiris, André
Breton, Georges Bataille ed altri, ebbe luogo, in maniera manifesta, un accentuato interesse estetico verso il continente africano, cioè verso l’immagine di
un’Africa associata ad una specie di nostalgia delle origini, allo stesso tempo
forza sovversiva e libertaria capace di abbattere il vecchio mito di un Occidente detentore di valori universali: la ratio e l’estetica dello stesso. Non si deve
minimizzare qui il rilevante contributo della critica letteraria o della cultura,
che va da Mallarmé a Malraux, autore de Le Musée imaginaire.
L’inizio del decennio 1930 in Francia è segnato anche dai primi tentativi etnografici, ancora in contesto coloniale, che si traducono nella famosa Missione
Dakar-Gibuti, diretta dall’allora allievo di Marcel Mauss, il giovane Griaule,
la cui funzione era quella di collezionare oggetti etnografici che avrebbero dovuto complementare e riempire le lacune delle collezioni africane del Museo
di Etnografia del Trocadero, successivamente Musée de l’Homme (ora, in un
11. Come un profumo bruciato
223
altro luogo, Musée du Quai Branly). In questo modo, la cosiddetta art nègre
avrebbe conosciuto un prestigio mai visto fino ad allora, includendo non solo
le maschere e le sculture africane – disputate tanto dal pubblico dei musei
quanto dai collezionisti privati –, come anche l’adesione alla moda di altre
tradizioni di origine africana, come il jazz americano che giungeva a Parigi con
la voce di Josephine Baker. Assieme a questa nuova sensibilità estetica, si diffondeva il gusto per altri artefatti etnografici portati dall’Oceania, soprattutto
sculture della Polinesia e dell’Australia, e in seguito, dall’America, attraverso
i totem policromi degli indigeni Kwakiutl, del Canada, dei bastoni da danza,
dell’Isola di Pasqua, fino ai diversi oggetti della cultura materiale degli autoctoni brasiliani, come arte piumaria, ceramiche, ornamenti e utensili vari.
Quasi un secolo dopo, alcuni di questi oggetti etnografici composero la
collezione della esposizione temporanea, al Grand Palais, a Parigi, intitolata
Brésil indien: les arts des amérindiens, nel 2005. Si tratta dell’evento di punta
che ha segnato l’Anno del Brasile in Francia, la cui ultima sala è stata dedicata
alla spedizione di Claude e Dina Lévi-Strauss nel Brasile Centrale, degli anni
1935-1936, costituendo, anche se in maniera subliminale, un riferimento al
già consacrato libro Tristes Tropiques che, in quell’anno, festeggiava il suo cinquantesimo compleanno.
C’è spazio qui, quindi, per una parentesi, ossia per riprendere la questione iniziale sul nostalgico revival del mondo primitivo – probabile eredità del
rousseanismo – che, oltre ai Tristes Tropiques ed al suo autore, conta anche
su un buon lignaggio di autori ed opere che indagano ed esplorano l’esotismo, che va da Blaise Cendras, passando per Alain Gheerbrandt in OrénoqueAmazonie, Lucien Bodart, Le massacre des indiens, fino a tentativi più recenti,
come quello di Jean-Christophe Rufin, autore del romanzo Rouge Brésil, premio Goncourt nel 2001. Anche se tautologica, non abbiamo già incontrato la
risposta nella stessa definizione dell’esotismo?
Claude Lévi-Strauss: alla ricerca dell’esotismo perduto
In maniera penetrante, Lévi-Strauss presenta alcune vie verso la risposta
alla prima parte della questione. Secondo lui, i principali responsabili per il
grande equivoco furono i resoconti di viaggio e, in maniera implicita, potremmo anche alludere alla figura dell’esotismo con essi consegnata, perché, secondo lui, “creano l’illusione di ciò che non esiste più e che ancora dovrebbe esistere”, nel caso in cui la propagandata civilizzazione occidentale non lo avesse
distrutto. È ben possibile che sia questa l’irrimediabile constatazione che lo
portò a dichiarare, già nella pagina inaugurale dei suoi Tristes Tropiques, di
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Antonio Motta
essere lui un tipo particolare di viaggiatore che odia i viaggi e gli esploratori
e, più avanti, sentenziare che i viaggi sono “Ce que d’abord vous nous montrez,
voyages, c’est notre ordure lancée au visage de l’humanité” (Lévi-Strauss, 1955:
38).
Evidentemente, la sua famosa dichiarazione di principio incide meno
sull’atto soggettivo del viaggio in sé, pensato come incontro etnografico con
nuove realtà, che sui suoi effetti reali causati da successivi sfoghi esplorativi che l’umanità ha conosciuto, soprattutto a partire dal xvi secolo, oriundi
dell’espansione coloniale europea. Gli ultimi grandi imperi coloniali sparirono
attorno alla metà del xx secolo, ma lasciarono segni indelebili come eredità ai
diversi popoli.
Tale questione ha cominciato ad essere cruciale per buona parte dell’antropologia realizzata nella prima metà del secolo scorso, orientata da una sorta
di cattiva-coscienza in relazione alla civilizzazione occidentale. Non è senza
ragione che Tristes Tropiques è divenuto un riferimento critico imbattibile in
relazione ad una visione del Brasile, appresa attraverso un processo di corrosiva trasformazione, specialmente per ciò che riguarda il destino funesto delle
popolazioni autoctone.
In questo senso, praticare l’etnologia, secondo Lévi-Strauss, almeno all’epoca dei pionieri, era anche, in un primo momento, poter ancora sperimentare
una buona dose di esotismo: “et je me reconnais, voyageur, archéologue de
l’espace, cherchant vainement à reconstituer l’exotisme à l’aide de parcelles et de
débris”(Idem.: 44). Come i due viaggiatori belgi, personaggi di Joseph Conrad, che in pieno impenetrabile entroterra dell’Africa Nera vaticinavano melanconici l’arrivo inevitabile della civilizzazione – la strada, il viale, la città –,
anche Lévi-Strauss non nasconde il proprio disappunto quando cammina per
la prima volta per la strade di Rio de Janeiro. Deluso di fronte alle evidenze
del processo di civilizzazione , si rimette al prodigioso spettacolo testimoniato
dai suoi antecedenti, gli antichi viaggiatori: “Je foule l’Avenida Rio-Branco ou
s’élevaient jadis les villages tupinamba, mais j’ai dans ma poche Jean de Léry,
bréviaire de l’ethnologue” (Idem.: 89). Però né Léry, nel xvi secolo, né Bouganville, nel xviii secolo, riuscirono a percepire la ricchezza ed il significato di
questa diversità primordiale – riflette Lévi-Strauss. Ciò lo porta a lamentarsi
“di fronte alle ombre”, ovvero di ciò che gli antichi viaggiatori ebbero ancora
il privilegio di apprezzare, ossia l’esotismo nel suo stato più puro, meno contaminato, meno corrotto, nonostante mancasse loro la capacità di discernimento
e comprensione. Secoli dopo, in quello stesso luogo, già vestito con la pelle del
viaggiatore moderno, con la infelice coscienza della perdita, l’autore de Tristes
Tropiques se ne va lì “(…) voyageur moderne, courant après les vestiges d’une
réalité disparue”(Idem.: 45). Di conseguenza, sono i distanziamenti massimi,
11. Come un profumo bruciato
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tradotti dal minimo grado di contatto tra alcuni gruppi indigeni e la civilizzazione, ciò che di fatto durante la sua permanenza brasiliana lo ha sempre
sedotto come realtà etnografica. Si spiega così il suo disinteresse per un Brasile
che si modernizzava, la cui popolazione urbana si moltiplicava ogni giorno.
Un disprezzo anche per la forme e le dinamiche ibride della cultura urbana e
rurale, con le sue manifestazioni sincretiche variate, studiate all’epoca da Bastide e tanti altri che giunsero ad interessarsi del Brasile. Anche con il passare
del tempo, mentre scrive Tristes Tropiques, non riesce a svincolarsi dall’immagine fantasmatica di un paese esotico, recuperato dalla memoria involontaria
e dalle note di campo, restituite dalle “intermittences du coeur” metaforizzate
dalle rovine:
Le Brésil s’esquissait dans mon imagination comme des gerbes de palmiers contournés, dissimulant des architectures bizarres, le tout baingné dans une odeur de
cassolette, détail olfactif introduit subrepticement, semble-t-il, par l’homophonie
inconsciemment perçue des mots “Brésil” et “grésiller”, mais qui, plus que toute expérience acquise, explique qu’aujourd’hui encore je pense d’abord au Brésil
comme à un parfum brûlé (Idem.: 50).
Se in relazione alla fine dell’esotismo Lévi-Strauss giunse a riconoscerlo
come una inevitabile conseguenza dell’occidentalizzazione e, più recentemente, della mondializzazione dell’economia e della cultura, per ciò che riguarda
i viaggiatori moderni, probabilmente rappresentati dalla figura del turista, la
sua opinione sembra non divergere molto da quella firmata già nel decennio
1950, nell’articolo intitolato La Fine dei Viaggi, pubblicato in una rivista di
critica letteraria, in cui osserva che
i cavalieri di ventura (...) sarebbero quindi saggi nel cercare posizioni alternative
durante i tempi difficili che trascorreranno tra il momento in cui la pretesa esplorazione avrà definitivamente perso la propria maschera esotica e quello in cui si potranno intraprendere sulla superficie della luna o di Marte i grandi viaggi rinnovati
del xvi secolo, in capsule di materiale plastico(Lévi-Strauss, 1956: 32).
L’esotico ricreato: mercato e consumo del kitsch-etnico
Se il velo e la maschera dell’esotismo già non possiedono la forza ed il
significato di un tempo, cedendo definitivamente lo spazio alla differenza in
quanto categoria euristica per pensare l’alterità, sarebbe più opportuno, in
questo caso, indagare perché la figura dell’esotismo, anche in tempi magri e
di crisi, di “mondializzazione della cultura” e di tante altre revisioni critiche
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Antonio Motta
post-coloniali, ancora oggi è capace di incontrare una espressiva ricezione nella cultura francese e, del resto, europea.
Una delle ipotesi, non l’unica, sarebbe che l’industria culturale, l’economia
del turismo e, pertanto, la logica del mercato, abbiano creato le condizioni
favorevoli a trasformare l’esotico in prodotto di esportazione ed importazione
redditizio su scala mondiale, variando a seconda degli interessi e delle domande di gusti e luoghi. Non si immagini, però, che siamo di fronte ad un
quadro interamente nuovo. Già all’inizio del secolo scorso, Victor Segalen
ed altri autori indicavano i pericoli dell’eccessiva banalizzazione dell’esotico,
dell’omogeneizzazione degli individui e dei paesaggi geografico-culturali. I
principali responsabili sarebbero stati, secondo loro, l’industria del turismo
e l’economia di mercato che, sempre più, tendevano a ridurre la percezione e
rappresentazione dell’altro ad una semplice caricatura di una vecchia Europa
irrimediabilmente esaurita nei propri valori.
In un certo modo, questa realtà ha assunto contorni più visibili nel mondo
contemporaneo. I fronts turistici brasiliani, veicolati nelle scene pubblicitarie
internazionali, ad esempio, continuano ad appellarsi all’immagine di un paese
diversificato nelle proprie matrici etniche e, geograficamente, privilegiato anche per l’uso del tempo libero, l’evasione e lo svago dei turisti stranieri, che
effettivamente possiedono un peso maggiore di redditività in questo mercato.
Tentare di dare conto dell’immagine di un qualche paese è un compito
sempre molto rischioso. Tuttavia, ciò è divenuto una regola banale nella logica
del turismo di massa. Trovandosi temporaneamente in un luogo diverso da
quello che gli è familiare, il turista, in generale, si accontenta semplicemente di
contemplare il pittoresco, raramente pretende di raccogliere e, meno ancora,
approfondire informazioni. Oltre a ciò, molto frequentemente, porta con sé
una specie di script previamente definito, anche prima di lasciare il proprio
paese. Ciò che lo motiva è, prima di tutto, un insieme o collezione di segni che
traduca il luogo di destinazione, dato che questo può essere assorbito anticipatamente per mezzo di foto, cartoline, guide, film ed altre risorse, avendo la
necessità appena della conferma in loco.
Curioso, ma comprensibile, il fatto che i nativi già si siano accorti di questa
realtà, nella misura in cui essi stessi sono divenuti protagonisti importanti nel
processo di costruzione e negoziazione dell’esotismo a casa propria. Affinché
si confermi il pronostico del mercato, tanto più avrà successo l’esotico quanto
più saranno attese e realizzate le fantasie ed aspettative del consumo straniero.
Se applicato correttamente questo corollario, esso deve garantire, in buona
parte, la sopravvivenza materiale e la manutenzione dei differenti tipi di stereotipi sul paese ricettore. In questo caso, quanto più pittoresco l’altro, maggiore seduzione risveglierà nel visitatore affrettato che cerca solo di comprovare
11. Come un profumo bruciato
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ciò che già dà per certo, attraverso la testimonianza visuale ed istantanea delle
proprie fantasie. Non bisogna sottostimare, allo stesso tempo, la capacità ed
arguzia dei nativi che, per mezzo della persuasione narrativa delle loro storie,
ognuno a modo proprio, riescono molto bene ad “inscatolare” la cultura locale, rendendola ancora più arrotondata, conforme al gusto del cliente straniero.
Secondo questo tipo di raziocinio, la maggiore arte della convinzione risiede
nel creare, a partire dal falso, l’illusione del genuinamente autentico e residuale, come traccia e prova di una cultura che, bene o male, allo sguardo dell’altro
straniero lasci trasparire l’illusione di continuare a resistere eroicamente alle
trasformazioni del tempo – già che l’aspetto dinamico e trasformativo di ogni
cultura sembra interessare solo agli antropologi. Da ciò l’attenzione dei protagonisti nativi, dei “trafficanti dell’esotico”, dei “ruffiani dell’esotico”, molte
volte con la connivenza degli stessi autoctoni, al mascherare le discontinuità e
gli influssi esterni che eventualmente possano arrivare a fratturare le immagini
che la maggioranza degli stranieri ancora insiste a portare via dal Brasile, evitando ad ogni costo di frustrare i sedimentati clichês che essi credono di udire
e vedere attorno allo spettro di un Brasile atemporale, per questo più vicino
alla natura e più sottomesso alle sue leggi: sessualità, desublimazione, allegria,
istintività, sensitività, irrazionalità, ecc.
Allo stesso tempo, se ci sono immagini consumate da coloro che sono di
fuori, ci sono anche rappresentazioni interne, apprese dallo sguardo di differenti strati della popolazione brasiliana. È sicuro che, tra queste due difficilmente si incontrerà una qualche corrispondenza. Anche perché il bene
più prezioso, coltivato dalle élite native, che hanno potuto viaggiare fuori dal
paese, per molto tempo sono state le attrazioni della cultura materiale consegnate dalla cosiddetta “civilizzazione” e, per estensione, occidentalizzazione
del mondo. Ecco come opera il gioco antagonistico di interessi. Mentre i nativi
correvano dietro alla divulgata civilizzazione, alla prassi del progresso ed ai
beni materiali da esso derivanti, gli europei sbarcavano in Brasile avidi di sole,
di natura, inseguendo le ultime vestigia della cultura immateriale: esotismo
allo stato “più puro”. In questo modo, il pathos melanconico dell’esotismo
perduto di Lévi-Strauss guadagna nella versione nativa la “sindrome” della
nostalgia della civilizzazione, il complesso del “ritardo” ed altre sintomatologie di una cultura colonizzata. Basta ricordare il riferimento aneddotico al
poeta parnassiano Olavo Bilac, un vero dépaysé nel suo stesso paese:
Se Bilac resta qui a Rio de Janeiro a passeggiare tra il Beco das Cancelas e la Rua da
Vala muore della peggiore delle nostalgie di Parigi (...). Solo all’inizio del xx secolo
sarebbe iniziato un ciclo di viaggi annuali a Parigi. Là Bilac confesserà di odiare la
natura. Non disse nulla a nessuno, perché sarebbe stato per lui negativo in quanto
228
Antonio Motta
poeta rivelare tali sentimenti, ma la verità era questa: apprezzava solo gli ambienti
urbani e civilizzati (Broca, 1975: 93).
Non è meno vero anche che le attrattive di consumo dei settori medi ed alti
della società brasiliana contemporanea, già da alcuni anni addietro, si siano
dislocati verso il mondo nordamericano tecnologizzato dei beni, con i suoi
innumerevoli display di artefatti high tech, allo stesso tempo aumentando il
gusto per l’evasione e intrattenimento nel mondo spettacolarizzato delle repliche o simulacri: medievali, gotici e rinascimentali, degli scenari glaciali con
eschimesi di cera, dell’habitat naturale con copie in scala reale degli indigeni.
Chinook, Irochesi, Algonchini e Kwakiutl, che disputano l’attenzione dei turisti al fianco delle olografie pop e di virtualità che conferiscono al paesaggio
degli Stati Uniti l’aspetto unico e seduttore del falso assoluto. Allo stesso tempo, osservate le dovute proporzioni, la riproduzione dell’impuro esotico non
è più privilegio esclusivo della società nordamericana. Paesaggi lontani sono
ricostruiti anche in diverse regioni del Brasile, componendo mirabolanti scenari di resort, di parchi tematici e di spazi di intrattenimento urbano, negoziati
a prezzo modico dalle agenzie di viaggi, secondo la logica massificatrice del
turismo interno.
Se le rappresentazioni stereotipate di Tahiti, con le sue capanne, servite
da giovani nativi con ornamenti floreali, possono essere incontrate facilmente
in qualsiasi luogo del nordest brasiliano, dune di sabbia del litorale cearense
e potiguara possono molto bene metaforizzarsi nel Sahara, includendo nella
permanenza del turista gite sul cammello condotto da alcuni contadini nordestini travestiti da berberi. Già nel Brasile Centrale – dove Lévi-Strauss realizzò la sua meteorica incursione etnografica tra gli indigeni Cadiueu, Bororo
e Nambiquara –, conosciuta anche come la regione del Pantanal, il turismo
rurale offre confortevoli lodges e safari domestici monitorati da informatori nativi bilingue. Nell’alto Amazonas, invece, il turismo ecologico presenta
come opzione incursioni nella foresta, con diritto alla ricezione ed al pernottamento in comunità indigene, con capanne stilizzate, ad una consulta con lo
sciamano e l’esibizione performatica di diversi rituali; nel sud del paese sono le
Alpi svizzere, le scenografie tedesche o scandinave che servono da sfondo per
coloro che cercano temperature invernali ed incanti che arrivano a ricordare
certi paesaggi europei. Ci sono anche coloro che preferiscono sperimentare
l’illusione di un Brasile più autentico, attraverso il cosiddetto turismo culturale, interagendo con manifestazioni della cultura popolare, quali: il Boi del
Maranhão, il Maracatu del Pernambuco, la Ala das Baianas della Mangueira,
la Bateria della Mocidade Independente de Padre Miguel, tra le altre tante
offerte disponibili attualmente nel mercato culturale.
11. Come un profumo bruciato
229
Vale la pena, inoltre, di mettere in risalto che alcune di queste tradizioni locali sono state in primo piano al vii Festival di Danza di Lione nel
1996, causando stupore nel pubblico francese. Lo stesso interesse in relazione all’esotico folklorizzato era già stato dimostrato nel 1987, in occasione
dell’esposizione Brésil Arts Populaires, al Grand Palais. L’esotico primitivo si
trovava rappresentato anche nella mostra Brésil indien: les arts des amérindiens, nel 2005, in piena effervescenza dell’anno commemorativo del Brasile
in Francia.
In ogni caso, indipendentemente dai contorni o sfumature ideologiche che
giunsero ad acquisire le differenti forme e contenuti delle immagini del Brasile
in Francia, la figura dell’esotismo non smette di imporsi ancora oggi come una
specie di paradosso costitutivo. Questo perché il suo stesso punto di partenza
già indica una relazione asimmetrica, stabilita tra due universi culturali distinti, che può essere tradotta attraverso un insieme di valori, mediati da una cultura che decide di definire e demarcare previamente le regole che conducono
e legittimano questo tipo di relazione. Di conseguenza, tali regole impongono
la loro preferenza verso un oggetto che è loro assolutamente esterno o estraneo, ossia popoli e culture lontane. In questo caso, l’altra parte coinvolta nella
relazione, che è lo stesso oggetto investito, ossia la cultura dell’altro (esotica) si
trasforma in una mera formulazione e valorizzazione di un ideale, in principio
basato nell’affermazione dell’alterità, però visto dalla prospettiva di chi lo nomina o professa l’esotismo, ma che da esso si conserva immune nella propria
cultura di origine.
E non è per pura casualità che allo stabilire una relazione marcata dalla valorizzazione dell’elemento esotico ci sia una sempre maggiore preponderanza
di determinati contenuti di valore sull’altro, dettati da vecchie coppie di opposizioni, pensati a partire da cultura x natura, progresso x arcaismo, scrittura x
oralità, artificiale x spontaneo, che si sommano ad altre del genere, mediate, è
chiaro, da un certo relativismo.
Allo stesso tempo, dalla prospettiva eurocentrica, è stata l’immagine di un
mondo rappresentato come in procinto di scomparire, orientata dall’allegoria della natura e, in un certo modo, risultato ora dell’alternanza ora della
giustapposizione del primitivismo e dell’arcaismo ciò che, effettivamente, ha
conferito alla figura dell’esotismo la sua maggiore legittimità nel mondo occidentale. Basta ricordare l’apice delle commemorazioni dell’Année du Brésil en
France, nel 2005, che è risultato nella partecipazione di artisti brasiliani al già
tradizionale concerto nella Piazza della Bastiglia, alla vigilia del 14 juillet, con
il frenetico e delirante repertorio che ha contemplato dal samba, passando dal
pagode fino alla musica axé. Il risultato non avrebbe potuto essere diverso.
I francesi ancora una volta si arrendevano di fronte al vecchio script: popolo
230
Antonio Motta
allegro, cordiale, “paese del carnevale” già preannunciato nell’articolo de Le
Monde dal titolo “Le “pays de braise” prend la Bastille le 13 juillet”.
Cliché di questo tipo si confermano perfino nel 18° salone del libro, realizzato a Parigi, nel 1998, dove la letteratura brasiliana (case editrici e traduzioni)
fu in speciale evidenza nell’evento. Nonostante si sia trattato di una manifestazione della cosiddetta cultura erudita brasiliana, il simbolo che è servito da
marchio per l’evento portava stampata l’immagine colorata di un tucano, uccello tipico della foresta amazzonica, catalogata e riverita dai primi naturalisti
francesi che nel xviii secolo vi giunsero. E come se non bastasse l’ironica coincidenza, l’uccello esotico appariva tenendo nell’enorme becco verde-e-giallo
alcuni esemplari di libri, come se volesse, con quel gesto, mediare il passaggio dal mondo della natura a quello della cultura, dall’oralità, come iscrizione
dell’esotico, alla parola scritta, come segno della civilizzazione. Non è forse già
tempo di fuggire dal ciclo insuperabile della natura? Ed al posto dell’esotico,
perché non la visione di un Brasile contemporaneo, più complesso, che può
condividere le stesse ambizioni ed inquietudini dei suoi omologhi del “primo mondo”? Si dovrebbe, quindi, indagare, nell’ambito delle celebrazioni
dell’anno della Francia in Brasile, nel 2009, perché venga enfatizzata solamente la missione civilizzatrice della Francia nel Tropici, specialmente a proposito
della filosofia, della letteratura, delle arti, del teatro, del cinema e di altri campi
accademici della cultura erudita. Purtroppo, l’asimmetria delle relazioni in cui
si appoggia la figura dell’esotismo produce alcuni di questi equivoci che, fino
ad oggi, hanno provocato distorsioni diverse nel campo della cultura e delle
sue rappresentazioni.
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Lévi-Strauss, C. (1970) [1966], Dal miele alle ceneri. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (1971) [1967], L’origine delle buone maniere a tavola. Milano: Il
Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (1974) [1971], L’uomo nudo. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (1978) [1973], Antropologia strutturale due. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (1983) [1964], Il totemismo oggi. Milano: Feltrinelli.
Lévi-Strauss, C. (1984) [1983], Lo sguardo da lontano. Torino: Einaudi.
Lévi-Strauss, C. (1985) [1979], La via delle maschere. Torino: Einaudi.
Lévi-Strauss, C. (1987) [1985], La vasaia gelosa. Torino: Einaudi.
Lévi-Strauss, C. (1992) [1984], Parole date. Torino: Einaudi.
234
Indice
Lévi-Strauss, C. (1993) [1991], Storia di Lince. Torino: Einaudi.
Lévi-Strauss, C. (1994) [1993], Guardare Ascoltare Leggere. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (1999) [1955], Tristi Tropici. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (2002) [1958], Antropologia Strutturale. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. (2003) [1947], Le strutture elementari della parentela. Milano:
Feltrinelli.
Lévi-Strauss, C. (2003) [1962], Il pensiero selvaggio. Milano: Il Saggiatore.
Lévi-Strauss, C. e Eribon, D. (1988) [1988], Da vicino e da lontano. Milano: Rizzoli.
Vernant, J.-P. (1981) [1974], Mito e società nell’antica Grecia. Torino: Einaudi.
Veyne, P. (1973) [1971], Come si scrive la storia. Roma: Laterza.
Note sugli autori
235
Note sugli autori
Beatriz Perrone-Moisés
Ha ottenuto la laurea in Scienze Sociali all’Universidade de São Paulo (1982), il mestrado in Antropologia Sociale all’Universidade Estadual de Campinas (1990) ed il
dottorato in Scienze Sociali (Antropologia Sociale) all’Universidade de São Paulo.
Attualmente è professoressa del Departamento de Antropologia della Universidade
de São Paulo e ricercatrice del Núcleo de História Indígena e do Indigenismo (USP),
dove coordina il gruppo di ricerca “Redes Ameríndias: geração e transformação de
relações nas Terras Baixas sul-americanas”.
Mauro William Barbosa de Almeida
Laureato in Scienze Sociali all’Universidade de São Paulo (1972), mestrado in Scienze
Poliche nella stessa Università (1979), Ph.D. in Antropologia Sociale alla University of
Cambridge (Faculty of Archaeology and Social Anthropology e Darwin College) nel
1993, con post-dottorato all’Università di Stantford e all’Università di Chicago. È stato
Tinker Professor all’Università di Chicago nel 2006. Attualmente è professore associato
all’Universidade Estadual de Campinas, dove insegna presso il Departamento de Antropologia Social. Possiede esperienze di ricerca nel nordest brasiliano e nel sudovest
dell’Amazzonia (Stato dell’Acre). Opera principalmente nelle seguenti aree tematiche:
Amazzonia, seringueiros, riserve estrattiviste, conservazione ambientale e teoria antropologica. Ha partecipato attivamente alla concezione, creazione e regolarizzazione
della prima riserva estrattivista (Alto Juruá) ed alla pianificazione della Universidade da
Floresta (Universidade Federal do Acre – Campus Floresta). Tra le sue pubblicazioni
appare il libro: A Enciclopedia da Floresta. O Alto Juruá: prática e conhecimentos das
populações, co-autore con Manuela Carneiro da Cunha.
Marcio Goldman
Ha conseguito la laurea in Scienze Sociali presso l’Universidade Federal Fluminense
(1979), il mestrado in Antropologia Sociale all’Universidade Federal do Rio de Janeiro (1984) ed il dottorato in Antropologia Sociale presso la Universidade Federal
do Rio de Janeiro (1991). Attualmente è Professore Associato del Programa de PósGraduação em Antropologia Social (ppgas), Departamento de Antropologia, Museu
Nacional, ufrj. È borsista della Fundação de Amparo à Pesquisa do Estado do Rio
236
Note sugli autori
de Janeiro e borsista di produttività nella ricerca del Conselho Nacional de Desenvolvimento Científico e Tecnológico. Le sue aree di interesse in antropologia includono
antropologia politica, antropologia della religione, teoria antropologica, antropologia
simmetrica e religioni afrobrasiliane. È autore di Razão e Diferença. Afetividade, Racionalidade e Relativismo no Pensamento de Lévy-Bruhl (1994); Alguma Antropologia
(1999), Como Funciona a Democracia. Uma Teoria Etnográfica da Política (2006), e
co-organizzatore di Antropologia, Voto e Representação Política (1996). Attualmente porta avanti ricerche sulle relazioni tra religione, potere e socialità nelle religioni
afrobrasiliane nella città di Ilhéus nel sud dello Stato di Bahia e prepara il libro: Uma
Introdução à Antropologia Pós-Social.
Oscar Calavia Sáez
Laureato in Geografia e Storia presso la Universidad Complutense de Madrid (1986),
mestrado in Antropologia Sociale presso la Universidade Estadual de Campinas
(1991), dottorato in Scienza Sociale (Antropologia Sociale) alla Universidade de São
Paulo (1995) e post-dottorato al Centre National de la Recherche Scientifique (2003).
Attualmente è Professore Aggiunto dell’Universidade Federal de Santa Catarina, della
Universidad Complutense di Madrid e Chercheur Associé del Centre National de la
Recherche Scientifique e della Société Des Américanistes. Attua nell’area dell’Antropologia, con enfasi in etnologia indigena, operando principalmente nei seguenti temi:
etnostoria, indigeni pano e indigeni yaminawa.
Marcela Coelho de Souza
Ha ottenuto la laurea in Scienze Sociali presso la Universidade de São Paulo (1985),
il mestrado in Antropologia Sociale presso la Universidade Federal do Rio de Janeiro
(1992) ed il dottorato in Antropologia Sociale presso la Universidade Federal do Rio
de Janeiro (2002). Attualmente è Professoressa del Departamento de Antropologia
della Universidade de Brasília. Ha esperienze in area di Antropologia, con enfasi in etnologia indigena, lavorando principalmente nei seguenti temi: indigeni jê, teoria della
parentela, teoria della cultura, patrimonio immateriale e proprietà intellettuale.
Carlos Fausto
Laureato in Scienze Sociali alla Universidade de São Paulo (1985), mestrado in Antropologia Sociale alla Universidade Federal do Rio de Janeiro (1991) e dottorato in Antropologia alla Universidade Federal do Rio de Janeiro (1997), è Professore Aggiunto
(iv) della Universidade Federal do Rio de Janeiro. Ha realizzato un post-dottorato al
Laboratoire d’Anthropologie Sociale (Collège de France/cnrs) ed è stato Professore
Visitante alla École Pratique des Hautes Études, alla École des Hautes Études en
Sciences Sociales ed alla Università di Chicago. Realizza ricerche in Amazzonia dal
1988, ed ha pubblicato libri ed articoli sui popoli indigeni, in particolare su guerra,
sciamanesimo, etnostoria, archeologia ed arte. Ha coordinato vari progetti di media e
ampia portata di carattere nazionale ed internazionale, oltre a progetti di abilitazione
e video realizzazione con Video Nas Aldeias e con l’Associação Indígena Kuikuro
dell’Alto Xingu. È membro dell’equipe di ricerca del Musée du Quai Branly ed ha
Note sugli autori
237
portato avanti progetti scientifici in collaborazione con la Università della Florida e
con il Max Planck Institut Für Psycholinguistik.
Tânia Stolze Lima
Laureata in Scienze Sociali preso la Universidade Federal Fluminense e dottore di
ricerca in Antropologia Sociale al ppgas-Museu Nacional di Rio de Janeiro. È etnologa
e Professoressa Associata (ii) del ppga-Programa de Pós-Graduação de Antropologia e
del Departamento de Antropologia della Universidade Federal Fluminense. È ricercatrice del NuTI-Núcleo de Transformações Indígenas e partecipa alla Rede Abaeté de
Antropologia Simétrica, creata nel 2005. La sue attuali attività di ricerca si inseriscono
nel Projeto Pronex-2003, faperj/cnpq, del NuTI. Oltre ad articoli pubblicati in riviste
scientifiche brasiliane e straniere, è autrice del libro: Um peixe olhou para mim: o povo
Yudjá e a perspectiva. Ha una lunga esperienza etnografica con il popolo yudjá (juruna)
nell’Alto Xingu ed il suo tema prediletto di ricerca sono i sistemi sociocosmologici
dell’Amazonia indigena.
Eduardo Viveiros de Castro
Etnologo americanista, con esperienza di ricerca in Amazzonia, ha ottenuto il dottorato in Antropologia Sociale alla Universidade Federal do Rio de Janeiro (1984) ed il
post-dottorato alla Université de Paris X (1989). È professore di etnologia al Museu
Nacional/ufrj dal 1978. Membro della Équipe de Recherche en Ethnologie Américaniste do c.n.r.s. dal 2001; Simón Bolívar Professor of Latin American Studies alla Università di Cambridge (1997-98); Directeur de recherches al c.n.r.s. (1999-2001), è stato Professore Visitante nelle Università di Chicago (1991, 2004), Manchester (1994),
usp (2003), ufmg (2005-06). Premio di migliore tesi di dottorato in Scienze Sociali
dell’anpocs (1984); Médaille de la Francophonie della Accademia Francese (1998);
Prêmio Erico Vanucci Mendes del cnpq (2004); Ordem Nacional do Mérito Científico
(2008). È relatore di 32 tesi di laurea magistrale e 15 di dottorato dal 1984 ad oggi,
tutte al ppgas del Museu Nacional. Attualmente segue: due mestrandos, quattro dottorandi. Ha pubblicato 100 articoli o capitoli di libri e sette libri, dal 1972 ad oggi. Ha
coordinato il Projeto Pronex “Transformações indígenas: os regimes de subjetivação
ameríndios à prova da história” (2004-06). É coordinatore del Núcleo de Transformações Indígenas, gruppo con sede al Museu Nacional/ufrj, e co-coordinatore della
Rede Abaeté de Antropologia Simétrica.
Ruben Caixeta de Queiroz
Laureato in Scienze Sociali presso la Universidade Federal de Minas Gerais (1987),
mestrado in Antropologia Sociale all’Universidade Estadual de Campinas (1992) e
dottore di ricerca in Lettres et Sciences Humaines - Université de Paris x, Nanterre (1998). Attualmente è Professore Aggiunto della Universidade Federal de Minas
Gerais. Ha esperienza nell’area di antropologia, con enfasi in etnologia indigena, operando principalmente nei seguenti temi: documentario, etnologia, film etnografico e
Amazzonia.
238
Note sugli autori
Rafael José de Menezes Bastos
Laureato in Musica presso la Universidade de Brasília (1968), mestrado in Antropologia Sociale alla Universidade de Brasília (1976) e dottorato di ricerca in Scienze Sociali
(Antropologia Sociale) presso la Universidade de São Paulo (1990). Attualmente è
Professore Associato (i) della Universidade Federal de Santa Catarina, dove coordina
il nucleo di studi “Arte, Cultura e Sociedade na America Latina e Caribe” (musa).
Lavora come consigliere editoriale delle seguenti pubblicazioni, tra le altre: “Vibrant”
(Associação Brasileira de Antropologia), “The World of Music”, “Critical World”
(Universidade de Montreal), “Campos - Revista de Antropologia Social”, “Continuum Encyclopedia of Popular Music of the World”, “Revista de Estudos Poetico-Musicais” (del Núcleo de Estudos Poético Musicais, ufsc). È coeditore di “Ilha - Revista de
Antropologia” ed editore di “Antropologia em Primeira Mão”, entrambe della ufsc.
Ha grande esperienza nell’area di Antropologia, con enfasi in etnologia ed etnomusicologia indigena, lavorando principalmente nei seguenti temi: musica nella terre basse
dell’America del sud, Alto Xingu, musica popolare brasiliana, Santa Catarina e musica
in America Latina e Caraibi.
Ana Luzia Carvalho da Rocha
Ha ottenuto la laurea in Scienze Sociali alla Universidade Federal do Rio Grande
do Sul (1978), il mestrado em Antropologia Social pela Universidade Federal do Rio
Grande do Sul (1985) ed il dottorato in Antropologia - Université de Paris v (René
Descartes) (1994). Attualmente è antropologa della Universidade Federal do Rio
Grande do Sul e Professoressa della Universidade Federal de Santa Catarina. Ha esperienza nell’area di Antropologia visuale e sonora, con enfasi in collezioni etnografiche,
estetica urbana e memoria collettiva, lavorando principalmente nelle seguenti tematiche: traiettorie sociali, narrazioni biografiche, patrimonio etnologico, estetica urbana,
antropologia visuale e sonora, forme della sociabilità. Coordinatrice di Ricerca del
Banco de Imagens e Efeitos Visuais del Laboratório de Antropologia Social/ppgas/
ufrgs. Lavora come ricercatrice dell’Instituto Anthropos nell’ambito degli studi sulla
memoria ambientale, le pratiche quotidiane e la sostenibilità.
Cornelia Eckert
Laureata per la ricerca in Storia (1981) e laureata per l’insegnamento in Storia presso
la Universidade Federal do Rio Grande do Sul (1980), mestrado ppgas ifch ufrgs
(1985), dottore di ricerca in Antropologia Sociale - Paris v - Sorbonne, Université
René Descartes (1991) e post-dottorato in Antropologia Sonora e Visuale, Paris viii.
Professoressa Associata (i) del Departamento de Antropologia e del Programa de Pós
Graduação in Antropologia Sociale nella Universidade Federal do Rio Grande do
Sul. Linee di ricerca: antropologia visuale e immagine, antropologia urbana e ambiente. Porta avanti ricerche su memoria collettiva, traiettoria, sociabilità nella città
a partire dall’etnografia di lunga durata. Coordina il portale biev (www.biev.ufrgs.br)
ed il Núcleo de Antropologia Visual. Attualmente partecipa alla Comissão Técnicocientífica della Fapergs, al Conselho Editorial ufrgs, alla Comissão Salão ic ufrgs, e
Note sugli autori
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coordina il ppgas ufrgs, ed è vice-coordinatrice del gt Patrimônio della aba e partecipa alla Comissão de Imagem e Som della anpocs.
Antonio Motta
Ha ottenuto il mestrado in Storia Moderna e Contemporanea alla Université de ParisSorbonne ed il dottorato di ricerca in Antropologia Sociale alla Ecole des Hautes
Etudes en Sciences Sociales, con la direzione di M. Godelier. Ha ottenuto un postdottorato alla Universidad Complutense di Madrid (ucm) ed uno alla Universidad
de Salamanca (usal). È Professore e ricercatore nel Programa de Pós-Graduação em
Antropologia della Universidade Federal do Pernambuco e nel Programa de Doutorado de Antropologia de Iberoamérica, all’Universidad de Salamanca. Attualmente è
il coordinatore del Programa de Pós-Graduação em Antropologia e coordinatore del
Corso di Laurea in Museologia della Universidade Federal do Pernambuco; dirige il
Laboratório de Estudos Avançados de Cultura Contemporânea (lec) ed il Laboratório de Pesquisa sobre Patrimônio (lpc).
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Note sugli autori
Un sistema giuridico repubblicano:
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Indice
Stampato nel mese di maggio 2011
presso C.L.E.U.P. «Coop. Libraria Editrice Università di Padova»
Via G. Belzoni, 118/3 - Padova (Tel. 049 8753496)
www.cleup.it
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