Parere motivato di diritto civile Traccia Tizio scopre che, sul quotidiano Alfa, è stato pubblicato un articolo contenente notizie che lo riguardano, corredato dall’indicazione di suoi dati personali riservati, in cui viene posto in collegamento con il ritrovamento, nella città di Roma, di un arsenale di armi appartenente alle Brigate rosse. Il giorno dopo, il medesimo giornale pubblica, accanto alla sua immagine, un'intervista da lui mai rilasciata e corrispondente al contenuto di una telefonata intercorsa con il giornalista Caio. Tizio, in realtà, dopo essere stato arrestato nel 1979, in quanto appartenente ad un gruppo terroristico, ha scontato la pena inflittagli e è riuscito, con enormi sforzi, a costruirsi una nuova vita, sicché desidera non essere più accostato, agli occhi della pubblica opinione, a fatti di terrorismo, trattandosi di una parte della sua esistenza ormai chiusa, rispetto alla quale vuole essere soltanto dimenticato. Il candidato – assunte le vesti del legale – rediga motivato parere, illustrando gli istituti e le problematiche sottesi alla fattispecie in esame. Istituto di riferimento I DIRITTI DELLA PERSONALITÀ SOMMARIO: 1. Generalità. – 1.1. Tecniche di tutela. – 2. I singoli attributi della personalità. – 2.1. Il “diritto” alla vita. – 2.2. La tutela dell’integrità fisica e gli atti di disposizione del proprio corpo. – 2.3. Il diritto all’identità personale: nome e immagine. – 2.4. Il diritto all’integrità morale: onore e riservatezza. – 2.5. Il c.d. diritto all’oblio. 1. Generalità La protezione della persona umana assurge a principio informatore del nostro sistema giuridico. L’art. 2 della Costituzione stabilisce che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità”, mentre l’art. 3, al secondo comma, attribuisce alla Repubblica “il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Tali disposizioni assumono una posizione fondamentale sotto il profilo dell’efficacia formale. Tradizionalmente al diritto (o ai diritti) della personalità vengono attribuiti i caratteri della: a) indisponibilità; b) irrinunciabilità; c) intrasmissibilità; d) imprescrittibilità. I surriferiti caratteri vanno tuttavia rimediatati alla luce della prospettiva qui seguita di emancipazione del valore giuridico della persona dalla categoria del diritto soggettivo. Da ciò discende che il soggetto non può disporre, né rinunciare, né trasmettere il valore di cui non è titolare, né la sua inerzia può comportare l’estinzione dello stesso per prescrizione. 1.1. Tecniche di tutela La particolare struttura del valore giuridico di persona e la sua ontologica diversità rispetto al modello del diritto soggettivo si riverbera anche sul piano delle tutele. I rimedi esperibili in caso di violazione del valore giuridico di persona sono: 1) l’azione inibitoria, che costituisce il rimedio elettivo volto a reprimere comportamenti che si sostanzino nella negazione di un valore giuridico, in quanto offre una reazione immediata contro l’antigiuridicità di un comportamento in atto. Come autorevolmente osservato, “il valore giuridico, tutelato attraverso il dovere di astensione altrui, spiega da sé la necessità che vengano a cessare i comportamenti da cui viene trasgredito” (MESSINETTI) 2) l’azione risarcitoria, che, con riferimento al valore giuridico di persona assume un carattere peculiare rispetto al modello canonico di cui all’art. 2043 cod. civ. Tale norma nasce, infatti, per la riparazione di quei pregiudizi di natura patrimoniale connessi alla lesione di posizioni di diritto soggettivo assoluto. Secondo una parte della dottrina deve ritenersi, che, la risarcibilità del danno consistente nella lesione del valore giuridico di persona, quale danno non patrimoniale, trovi esclusivo fondamento nella disposizione di cui all’art. 2059 cod. civ., letto in combinato disposto con la disposizione costituzionale che formalizza al massimo grado il valore stesso: l’art. 2 della Cost. A differenza di quello inibitorio, il rimedio risarcitorio, quale che sia il suo fondamento, implica una specifica valutazione della condotta tenuta da altri ed esige un elemento soggettivo, senza il quale la qualificazione di antigiuridicità non basterebbe a fondare una sanzione ulteriore rispetto all’inibitoria. 2. I singoli attributi della personalità Il valore giuridico di persona è suscettibile di manifestarsi in diverse forme che possono essere fatte oggetto di autonoma considerazione e tutela da parte dell’ordinamento. A grandi linee può operarsi una fondamentale distinzione tra gli aspetti: a) c.d. “materiali” della personalità, che si specificano nel “diritto” alla vita, alla salute e all’integrità psicofisica; b) c.d. “morali” dei quali costituiscano manifestazione, i “diritti” al nome, all’immagine, all’identità personale, all’onore e alla riservatezza. 2.1. Il “diritto” alla vita Una fondamentale manifestazione del valore giuridico di persona, espressamente tutelata tanto a livello interno quanto a livello internazionale, è la vita, quale fenomeno naturale dell’esistenza fisica. La vita è tutelata: a) tanto nei confronti dello Stato che non può violare la vita della persona, neppure in caso di gravi condanne penali (l’Italia ha infatti abolito la pena di morte, sostituendola con l’ergastolo, anche nei casi previsti dalle leggi militari di guerra); b) quanto nei confronti dei privati che, in caso di attentati alla vita altrui, incorrono in aspre sanzioni di carattere penale. Non deve credersi tuttavia che le problematiche inerenti al c.d. “diritto alla vita” siano residuali in seno al dibattito privatistico, dovendosi anzi rilevare la sempre più viva attenzione alla quale ultimamente alcune di esse sono state sottoposte. Ci si riferisce in particolare alle questione della titolarità del diritto al conseguimento della vita da parte del nascituro, e a quella, assai penosa, della sussistenza di una libertà individuale di autodeterminazione in ordine alla cessazione della vita stessa, qualora si versi in gravi condizioni di dolore e sofferenza fisica a causa di un male incurabile. Quanto al primo aspetto, ci sembra di poter dire che lo sganciamento della personalità dagli angusti confini del diritto soggettivo possa condurre ad un superamento della tesi formalistica in base alla quale al nascituro, in quanto privo di capacità giuridica, non spetterebbe il diritto alla vita. Si ritiene, invece, che proprio l’inquadramento della persona umana quale valore fondamentale tutelato in quanto tale dall’ordinamento debba condurre ad una sua protezione anche a prescindere dall’esistenza giuridica del soggetto sul quale esso si appunta. In tal senso, peraltro, depongono anche i dati normativi offerti: – dall’art. 1 della legge 22 maggio 1978, n. 194 (sull’interruzione volontaria di gravidanza) che attribuisce allo Stato il compito di tutelare la vita umana dal suo inizio; – dall’art. 1 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 che, con terminologia impropria e ai limitati fini della procreazione medicalmente assistita, prende in considerazione “i diritti di tutti” i soggetti coinvolti compreso il concepito. Ciò posto, peraltro, occorre considerare che il valore (potenziale) della vita del nascituro può entrare in conflitto con altri valori in atto di pari rango quali certamente sono la tutela della salute e della vita stessa della madre, ai quali l’ordinamento con una scelta condivisibile, attraverso un bilanciamento di interessi, accorda preferenza sia pure entro determinati limiti. In particolare la legge consente alla madre l’interruzione della gravidanza: a) entro i primi 90 giorni qualora la prosecuzione della stessa, il parto o la maternità comportino un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4, L. 194/78); b) anche dopo i primi 90 giorni quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna, ovvero quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6, L. 194/78). Una questione sulla quale si è recentemente sviluppato un fervente dibattito tanto in dottrina, quanto nella giurisprudenza, è quella della sussistenza nell’ordinamento di un diritto a non nascere ove il nascituro sia affetto da gravi malformazioni o anomalie che possano compromettere le condizioni e la qualità della vita dopo la nascita (c.d. “diritto a non nascere se non sano”). Il c.d. diritto a non nascere se non sano deve essere preliminarmente distinto dal c.d. “diritto a nascere sano”, che costituisce invece una variabile del diritto alla integrità psicofisica e del diritto alla salute, di cui agli artt. 5 cod. civ. e 32 Cost., e che viene riconosciuto anche al nascituro, sia pure subordinatamente all’evento della nascita. L’opinione prevalente non riconosce in capo al concepito un diritto a non nascere per diverse ragioni. Il diritto “a non nascere se non sano” non viene riconosciuto al nascituro. Il diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata compete ad altri soggetti i quali, da tale nascita, abbiano subito un nocumento; la casistica giurisprudenziale si riferisce, in particolare, ai casi di sterilizzazione (maschile o femminile) e di aborto (anche terapeutico) non riusciti e di errata o mancata o incompleta diagnosi prenatale in relazione ad eventuali malformazioni del feto. L’inesatta informazione medica, infatti, preclude alla madre l’esercizio del diritto di scelta, sia nel caso di intervento di aborto o di sterilizzazione non riuscito, sia anche nel caso in cui essa dipenda da una errata diagnosi prenatale sulle condizioni di salute del feto. La mancata diligente preventiva comunicazione ai genitori sui rischi e sulle condizioni del nascituro, nonché l’omissione di controlli ed esami più approfonditi, attengono, dunque, alla responsabilità contrattuale ed extracontrattuale del professionista e della struttura sanitaria nei confronti dei genitori. I genitori chiedono, infatti, la riparazione di un danno derivante non solo e non tanto dalla nascita di un figlio non voluto, ma dal fatto stesso che è stata violata la loro decisione di non averlo. Peraltro, il risarcimento del danno per mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza non consegue automaticamente all’inadempimento dell’obbligo di esatta informazione se il professionista sia stato interpellato dopo il novantesimo giorno dal concepimento. In questo caso occorrerà, infatti, anche accertare che sussistano le due condizioni previste dagli artt. 6 e 7 della L. 194 del 1978: – un processo patologico, fisico o psichico, in atto; – l’impossibilità di una vita autonoma, al di fuori dell’ambiente materno, per il feto. In altri termini, il giudice chiamato ad accertare la responsabilità del professionista dovrà stabilire, con valutazione da compiersi ex ante, e quindi con riferimento al momento in cui il medico ha omesso la corretta informazione, se la conoscenza della reale situazione patologica del feto avrebbe ingenerato nella donna un processo patologico, fisico o psichico, con pericolo grave per la salute della stessa, ovvero se la sussistenza dell’errore diagnostico abbia o non abbia privato la madre dell’esercizio del suo diritto all’interruzione della gravidanza a causa della malformazione del figlio. Nel caso in cui, invece, l’inadempimento all’obbligo di esatta informazione intervenga sino al novantesimo giorno dal concepimento, sussiste pacificamente l’obbligo del professionista di risarcire il danno. Altra questione particolarmente controversa è quella della sussistenza in capo al soggetto di un diritto di morire, ponendo volontariamente fine alla propria vita. Si discute, in particolare, in merito alla esistenza di una facoltà di suicidio; secondo la prospettiva tradizionale, che disegnava i c.d. “diritti della personalità” sul modello dominicale, non poteva che addivenirsi ad una qualificazione di liceità del suicidio quale esplicazione della autodeterminazione dell’individuo spinta al limite estremo della soppressione di se stesso. Un problema assai delicato si pone peraltro nelle ipotesi in cui il malato, che sopravviva esclusivamente grazie a dei trattamenti sanitari volti a sopperire alla carenza di alcune funzioni vitali (si pensi all’alimentazione tramite un sondino naso-gastrico per i pazienti che non siano in grado alimentarsi autonomamente), scelga deliberatamente di sospendere detti trattamenti. Tale scelta rientra nella piena disponibilità del soggetto dato che, giusto il disposto dell’art. 32, secondo comma, Cost. “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”; “la legge” – prosegue la norma – “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Elemento caratterizzante dei trattamenti sanitari è, dunque, salve le eccezioni espressamente disciplinate dalla legge nell’interesse pubblico (c.d. “trattamenti sanitari obbligatori”), il consenso libero e informato dell’interessato che si rende necessario anche se l’attività del medico è a vantaggio della salute del paziente. Il consenso informato deve essere: 1) personale; 2) basato su informazioni mediche esaustive; 3) esplicito; 4) consapevole; 5) prestato da soggetto capace di intendere e volere. Solamente quando il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà il medico può intervenire in situazione di bisogno mediante il ricorso allo stato di necessità. Il consenso prestato dal paziente è manifestazione del diritto di autodeterminazione, che trova la sua espressione nella libertà costituzionale di scelta terapeutica. L’attività medico-chirurgica, infatti, è un’attività socialmente utile che trova il proprio limite negli artt. 13 (che tutela la libertà personale) e 32 (che pone un limite al carattere socialmente utile dei trattamenti sanitari vietandoli in assenza di consenso del paziente) Cost., nonché nell’art. 33 della L. 833/1978, che regolamenta l’acquisizione del consenso informato nelle ipotesi di impossibilità psico-fisica del paziente. Questione strettamente connessa è quella del testamento biologico, intendendosi con ciò una dichiarazione scritta di volontà di un soggetto nel pieno delle facoltà mentali relativamente ai trattamenti sanitari da somministrargli nell’ipotesi in cui egli dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte per malattie o lesioni traumatiche cerebrali irreversibili o invalidanti, che costringano a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali. Le disposizioni contenute nel testamento biologico sono revocabili in ogni momento dal testatore ancora nel possesso delle capacità cognitive senza alcun onere formale: la primarietà e l’assolutezza del diritto in gioco inducono, infatti, ad escludere il richiamo di limitazioni per analogia con altri istituti e in particolare con quello delle revocazione delle disposizioni testamentarie (artt. 679 ss. cod. civ.). 2.2. La tutela dell’integrità fisica e gli atti di disposizione del proprio corpo Un aspetto materiale della personalità di fondamentale rilevanza per l’ordinamento è anche l’integrità fisica. Essa è oggetto di specifica protezione da parte di diverse disposizioni costituzionali e di legge tra cui meritano particolare menzione: a) l’art. 32 Cost., che tutela la salute quale diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività; b) l’art. 5 cod. civ., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo ove cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica; c) l’art. 2087 cod. civ., che obbliga l’imprenditore ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro; d) l’art. 1 della L. 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale destinato “al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione”. Deve pertanto ritenersi, alla luce di un’interpretazione evolutiva del dato letterale di cui all’art. 5 cod. civ. che nell’ordinamento viga un generale divieto di “disporre” del proprio corpo, quando l’atto dispositivo possa recare nocumento al valore giuridico di persona. Devono comunque ritenersi lecite in virtù di un fondamentale principio di solidarietà sociale le donazioni di organi necessari per l’altrui salute. La legge prevede espressamente la donazione di un rene di persona vivente, il trapianto parziale di fegato, la donazione di cellule staminali, midollari e periferiche a scopo di trapianto. In particolare, per la donazione del rene (l. 458/1967) sono previsti controlli e l’autorizzazione del giudice. La l. 592/1967 regola la donazione di sangue a scopo terapeutico sottoposta a controllo e prelievo medico. La l. 164/1982 disciplina la liceità del trattamento medico finalizzato al mutamento di sesso, previa autorizzazione all’intervento da parte dell’autorità giudiziaria. Il divieto di cui all’art. 5 cod. civ. non riguarda le parti staccate del corpo (unghie, denti e capelli) che al momento del distacco diventano beni autonomi suscettibili di godimento e di scambio. Quanto al cadavere, deve ritenersi che, a seguito della morte, il corpo dell’uomo diventi res extra commercium, stante l’evidente lesione della dignità umana e del sentimento di pietà verso i defunti che deriverebbe da una commerciabilità dello stesso. Una disciplina peculiare è, infine, dedicata agli espianti di organi da cadavere a fine di trapianto (L. 1 aprile 1999, n. 91). Tale disciplina consente l’espianto di organi o tessuti, all’esclusivo scopo di provvedere a trapianti terapeutici, da un soggetto del quale sia stata clinicamente accertata la morte e che abbia previamente assentito. Il consenso, tuttavia, si presume nelle ipotesi in cui il soggetto pur debitamente informato non abbia espresso volontà contraria. 2.3. Il diritto all’identità personale: nome e immagine Uno degli aspetti della personalità oggetto di attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza fin da tempi risalenti è certamente il nome della persona. Il nome rappresenta il segno identificativo e distintivo della persona. È costituito da: – un prenome, scelto dai genitori al momento della nascita; – un cognome, quello del padre, che si acquisisce automaticamente con il rapporto di filiazione. Al figlio legittimo e adottivo è attribuito il cognome del padre; al figlio naturale è attribuito il cognome di chi lo riconosce. Il Codice civile, agli artt. 7, 8 e 9, tutela il diritto al nome, impedendone l’uso indebito con l’azione inibitoria. L’art. 7 cod. civ. protegge il nome sotto un duplice aspetto: 1) come diritto all’uso del proprio nome ovvero come diritto di essere identificati e di identificarsi con il proprio nome (diritti protetti con l’azione di reclamo); 2) come diritto all’uso esclusivo del proprio nome, protetto tramite l’azione di usurpazione, contro chi usi il nome altrui per identificare se stesso o per indicare una cosa (per es., come marchio di un prodotto) o ne faccia comunque indebito uso. In entrambi i casi l’azione tende ad ottenere dall’autorità giudiziaria una sentenza che ordini la cessazione del fatto lesivo del diritto e, se del caso, la sua pubblicazione su uno o più giornali; per questo non occorre che l’attore provi di aver subito un danno, essendo sufficiente che provi una potenzialità di pregiudizio. L’azione di cui all’art. 7 cod. civ. può essere proposta anche da chi, pur non portando il nome contestato o indebitamente usato, abbia alla tutela del nome un interesse fondato su ragioni familiari degne d’essere protette (art. 8 cod. civ.). Ai sensi dell’art. 9 cod. civ. viene tutelato anche lo pseudonimo, quando abbia acquistato la stessa importanza del nome. La tutela del diritto al nome non spetta solo alle persone fisiche ma anche alle persone giuridiche, in riferimento alla denominazione della società o dell’associazione o della fondazioni. La tutela dell’immagine riceve una protezione analoga a quella del diritto al nome. In questo caso deve ricercarsi, però, un punto di equilibrio fra le due esigenze opposte: 1) della riservatezza, come desiderio di sottrarre la propria vita privata alla curiosità altrui; 2) del diritto alla libera manifestazione del pensiero (di cui è espressione la libertà di stampa). L’art. 10 cod. civ., integrato con gli artt. 96 e 97, L. 633/1941 (legge sulla protezione del diritto d’autore), dispone che, qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dai casi in cui la legge lo consente, ovvero con pregiudizio della reputazione e del decoro della persona stessa e dei menzionati congiunti, il giudice può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento del danno, tutto questo a meno che non si tratti di soggetto notorio (attore, atleta famoso ecc.) o che l’immagine sia stata pubblicata nel contesto di un avvenimento pubblico (cerimonia, manifestazione sportiva ecc.) e comunque sempre che la pubblicazione non rechi pregiudizio alla dignità della persona. Non è permessa, perciò, la pubblicazione dell’immagine, neanche se di persona notoria, ripresa durante la vita intima. Secondo l’opinione più accreditata la tutela del nome e dell’immagine sarebbero espressione di un ben più ampio diritto alla tutela della propria identità personale. 2.4. Il diritto all’integrità morale: onore e riservatezza A differenza dei diritti al nome e all’immagine, il diritto all’onore, ovvero alla dignità personale, al decoro e alla considerazione all’interno della società, non ha una specifica protezione civilistica. Tuttavia, esso si desume dalle norme del Codice penale che incriminano fattispecie quali l’ingiuria (art. 594 cod. pen.), definita come un’offesa all’onore e al decoro, e la diffamazione (art. 595 cod. pen.), che protegge la reputazione, lesa attraverso comunicazioni con due o più persone. Il diritto all’onore può entrare in contrasto con altri diritti di pari rango quale il diritto alla libera manifestazione del pensiero, del quale costituiscono espressioni il diritto di cronaca, di critica e di satira. La tutela civile del diritto all’onore si esplica attraverso i rimedi inibitorio e risarcitorio (anche in forma specifica, ad es., mediante pubblicazione della sentenza a mezzo stampa). Un particolare rimedio, previsto dalla legge sulla stampa è la rettifica, consistente nel diritto della persona lesa dalla pubblicazione di far pubblicare, sullo stesso periodico, con peculiari modalità, risposte, rettifiche o dichiarazioni inerenti all’articolo lesivo della reputazione. In continua espansione è poi la tutela accordata al diritto alla riservatezza o, con termine mutuato dai paesi di Common law, alla privacy, contemplato anche dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio (art. 14 Cost.) e della sua corrispondenza (art. 15 Cost.); ne consegue che ogni individuo ha diritto di non vedere pubblicate o divulgate, attraverso la stampa, la televisione o altri mezzi di comunicazione di massa, notizie attinenti alla propria vita privata, anche se vere e non lesive della dignità e dell’onore. Il diritto in questione è protetto, per certi aspetti dall’art. 617-bis cod. pen. che punisce chiunque, fuori dai casi previsti dalla legge, installa apparati o strumenti volti a intercettare comunicazioni o conversazioni telefoniche o telegrafiche. La grande diffusione dei mezzi informatici ha inoltre portato come conseguenza la possibilità da parte praticamente di chiunque di creare e gestire le cosiddette banche dati, ossia raccolte sistematiche e sempre più complete di informazioni che, in certi casi, possono essere a carattere oggettivo, riguardando notizie di pubblico dominio, e altre volte, e più spesso, a carattere soggettivo, ossia sul conto di persone, imprese, enti. Il diritto alla riservatezza nel nostro paese ha conosciuto solo di recente una regolamentazione da parte del legislatore. Precedentemente all’entrata in vigore della prima legge ad esso appositamente dedicata (la legge 675/1996), tuttavia, era stata la giurisprudenza, in accoglimento della concezione monista con riferimento alla struttura dei diritti della personalità, ad accordare tutela alla riservatezza, per l’appunto quale attributo di un unico diritto della personalità. Attualmente la materia è regolata dal D.Lgs. 196/2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali”, che ha dettato una normazione generale diretta a garantire che “il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con particolare riferimento alla riservatezza e alla identità personale” e, altresì, a tutelare “i diritti delle persone giuridiche e di ogni altro ente o associazione” (art. 2, co. 1). 2.5. Il c.d. diritto all’oblio Di creazione giurisprudenziale è il c.d. diritto all’oblio: collocato tra i diritti inviolabili menzionati dall’art. 2 Cost. (norma dinamica), è il diritto di un individuo ad essere dimenticato, o più correttamente, a non essere più ricordato per fatti che in passato furono oggetto di cronaca. La terminologia trae origine dalla traduzione della formula “droit à l’oubli”, coniata dalla dottrina francese nel 1965. La giurisprudenza di legittimità lo ha definito come “interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata” (Cass. sez. III, 9 aprile 1998, n. 3679). In base all’esercizio del diritto di cronaca vengono narrati alcuni fatti considerati di interesse della collettività nel momento in cui accadono, con conseguente, e legittima, restrizione della sfera della riservatezza e della reputazione dei soggetti coinvolti negli avvenimenti di interesse pubblico. Quando però i fatti risultano acquisiti definitivamente dalla collettività, i protagonisti di questi possono nutrire il giusto desiderio di rientrare nell’anonimato ed essere dimenticati dal pubblico, una volta che tutto ciò che poteva essere detto in quanto socialmente utile è stato detto. In questi casi infatti non vi è più una notizia e la nuova diffusione sarebbe non solo inutile, visto che non sussisterebbe un reale interesse del pubblico ad essa, ma anche dannosa per i protagonisti della vicenda;la lesione della loro reputazione pertanto, anche se inizialmente è scriminata, non lo è più una volta che la collettività sia stata ampiamente informata. A partire dalla completa acquisizione della notizia, sorge dunque il presupposto del diritto all’oblio, consistente nell’affievolimento dell’interesse della collettività una volta che essa sia stata informata: la questione sta nello stabilire quale sia il momento a partire dal quale questo diritto possa ritenersi prevalente. Il diritto all’oblio è anch’esso di creazione giurisprudenziale, e il suo fondamento normativo può essere individuato tra i diritti inviolabili menzionati nell’art. 2 della Costituzione, ripercorrendo l’iter seguito per l’affermazione di altri diritti della personalità, quali quello alla riservatezza e quello all’identità personale. Intendendo l’art. 2 Cost. quale clausola aperta infatti, è possibile farvi rientrare non solo i diritti espressamente elencati, ma anche tutti quelli che costituiscono esigenze fondamentali della persona umana, le quali emergono di un passo con l’evoluzione dei costumi e della sensibilità sociale, e trovano tutela venendo ricondotti nell’alveo di tale articolo, tramite un procedimento c.d. di costituzionalizzazione successiva. Il diritto all’oblio viene ricondotto anche all’art. 27, terzo comma, della Costituzione in base al quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, poiché contribuisce a renderne effettivo l’esercizio: le pene non devono avere soltanto la funzione di punire, ma anche (e soprattutto) quella di favorire il reinserimento sociale del condannato, la sua restituzione alla società civile. In quest’ottica la riproposizione di un fatto remoto inciderebbe negativamente sulla funzione rieducativa della pena, rinsaldando nella collettività il ricordo di quanto il condannato ha fatto, anche una volta espiata la sua pena; chi ha scontato una condanna, chi ha già patito la riprovazione della società e sta faticosamente cercando di reinserirsi in essa, ha un interesse specifico a che, ove ciò non corrisponda a un interesse pubblico alla conoscenza prevalente, fatti del passato non siano nuovamente divulgati senza giusta causa. Compito del diritto all’oblio è quindi anche quello di tutelare dalla riprovazione sociale evitando che avvenimenti del passato possano ostacolare la risocializzazione del reo. Per quanto riguarda le leggi ordinarie infine, nel Codice in materia di protezione dei dati personali, sono presenti due articoli tramite i quali si tutela il diritto all’oblio: l’art. 7, terzo comma, lett. b) tutela il diritto dell’interessato di richiedere al titolare del trattamento la cancellazione o la trasformazione in forma anonima delle sue informazioni personali, se trattate in violazione alla legge o se non è più necessaria la loro conservazione in base agli scopi perseguiti; l’art. 11, primo comma, lett. e), stesso Codice prevede che le informazioni non siano conservate in una forma che consenta l’individuazione dell’interessato per un periodo superiore a quello necessario al raggiungimento degli scopi per i quali erano state raccolte. Indicazioni giurisprudenziali Dati personali – Anche in caso di memorizzazione in Internet, deve riconoscersi, al soggetto cui pertengono i dati personali oggetto di trattamento, il diritto all'oblio come controllo a tutela della propria immagine sociale, idoneo a tradursi nella pretesa alla contestualizzazione e aggiornamento dei medesimi e, se del caso (avuto riguardo alla finalità della conservazione nell'archivio e al'interesse che la sottende), alla relativa cancellazione (Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525). Diritto all’informazione (bilanciamento) – Nel bilanciamento tra il diritto all'informazione ed il diritto all'oblio deve essere accordata maggiore tutela a quest'ultimo ogni qualvolta i fatti narrati nell'articolo oggetto di contestazione non corrispondano integralmente a verità, ed altresì difetti integralmente il requisito dell'interesse pubblico alla conoscenza della notizia (Tribunale Milano, sez. I, 26 aprile 2013). Lesione dell’onore e della reputazione – In tema di diffamazione a mezzo "mass media" fermo restando che la libertà di stampa, espressione del diritto di manifestazione del pensiero sancito dall'art. 21 Cost., comporta la compressione dei beni giuridici della riservatezza, dell'onore e della reputazione, peraltro, anch'essi, aventi dignità costituzionale, ex art. 2 e 3 Cost. - il riferimento a distanza di tempo, in sede di c.d. talk show televisivo, dello sviluppo di indagini di polizia giudiziaria, consentito in chiave storica dell'evento nonché di critica all'operato degli inquirenti, comporta che l'obbligo deontologico del giornalista deve parametrarsi a criteri di rigore ancora maggiori dell'ordinario, nel senso che, ove permanga o si riattualizzi l'interesse pubblico alla relativa propalazione - che, in tal caso, deve essere bilanciato con il diritto all'oblio - ed esigenze di ricostruzione storica o artistica lo richiedano, la notizia deve essere accompagnata dalla doverosa avvertenza che le tesi investigative rimaste a livello di mera ipotesi di lavoro, non hanno trovato alcuna conferma o addirittura sono state decisamente smentite dal successivo sviluppo istruttorio, in quanto incombe sul giornalista il dovere giuridico di rendere una informazione completa e di effettuare, all'uopo, tutti i controlli necessari per verificare gli esiti di una data indagine (Cass. pen., sez. V, 17 luglio 2009, n. 45051). Archivio storico della rete internet – L'editore di un quotidiano che memorizzi nel proprio archivio storico della rete internet le notizie di cronaca, mettendole così a disposizione di un numero potenzialmente illimitato di persone, è tenuto ad evitare che, attraverso la diffusione di fatti anche remoti, possa essere leso il diritto all'oblio delle persone che vi furono coinvolte. Pertanto, quando vengano diffuse sul web notizie di cronaca giudiziaria, concernenti provvedimenti limitativi della libertà personale, l'editore è tenuto garantire contestualmente agli utenti un'informazione aggiornata sullo sviluppo della vicenda, a nulla rilevando che essa possa essere reperita "aliunde". (Nella specie, la società editrice di un noto quotidiano aveva messo "on line" il proprio archivio storico, nel quale era contenuta altresì la notizia dell'arresto, avvenuto venti anni prima, di un amministratore locale, poi assolto) (Cass. civ., sez. III, 5 aprile 2012, n. 5525). Intervento del Garante della privacy – Con una recente decisione il Garante della Privacy ha riconosciuto ad un operatore pubblicitario il diritto all'oblio, previsto dal Codice in materia di protezione dei dati personali, disponendo nei confronti di un ente pubblico gli opportuni accorgimenti per interrompere quella che il ricorrente riteneva una perpetua "gogna" elettronica. In particolare sul sito internet istituzionale dell'ente pubblico sono presenti le decisioni sanzionatorie riguardanti l'interessato ormai risalenti nel tempo. Il Garante ha stabilito che le pagine web del sito contenenti le decisioni in questione dovranno essere escluse dalla diretta reperibilità dei comuni motori di ricerca, per evitare che, come lamentato dal ricorrente, i primi risultati della ricerca riferiti al proprio nominativo non riguardino le notizie sulla sua attuale o più recente attività professionale, ma i datati provvedimenti (Garante Privacy, newsletter 21 marzo 2005). Atto giudiziario di diritto penale Traccia Il 25 giugno 2011 Tizio, a bordo del ciclomotore Honda, percorre la SS1 in direzione Roma mantenendo una velocità costante di 100 km/h, superiore di 40 km/h rispetto al limite previsto per quel tratto stradale. Giunto in prossimità del Km 21, Tizio si accorge della presenza, in una piazzola di sosta, di agenti della Polizia stradale i quali, in divisa e con l’auto di ordinanza, rilevata l’elevata velocità mediante telelaser dotato di microdigicam per l’acquisizione delle immagini (ultima omologazione del 30 luglio 2012), gli intimano l’“alt” al fine di contestargli l’infrazione. Tizio, tuttavia, temendo il ritiro della patente, non ottempera all’ordine di fermarsi impartito in particolare dall’agente Mevio, che, a tal fine, si era sporto sul ciglio della strada mostrando apposito segnale distintivo, e prosegue la propria marcia ad alta velocità, sottraendosi così al controllo di polizia. Le indagini successive, condotte sulla targa del motociclo Honda, consentono di pervenire alla individuazione di Tizio il quale, all’esito di giudizio immediato, viene condannato alla pena di mesi due di arresto per il reato di cui all’art. 650 cod. pen. per non aver adempiuto all’ordine di arrestarsi impartito dall’agente Mevio. Tizio si rivolge pertanto al suo legale di fiducia al quale chiede di proporre impugnazione avverso la sentenza di condanna. Il candidato, assunte le vesti del legale, rediga l’atto giudiziario ritenuto più opportuno. Istituto di riferimento IL CONCORSO APPARENTE DI NORME SOMMARIO: 1. Il concorso apparente tra norme e il principio del ne bis in idem sostanziale. – 2. Il principio di specialità e gli altri criteri volti a identificare i casi di concorso apparente tra norme. 1. Il concorso apparente tra norme ed il principio del ne bis in idem sostanziale Si ha concorso apparente tra norme nelle ipotesi in cui una o più condotte materiali appaiano, prima facie, astrattamente riconducibili a diverse fattispecie sanzionatorie, pur risultando poi in concreto applicabile una sola di esse (si pensi al caso del comproprietario che, per procurare a sé o ad altri un profitto, si impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene, il cui contegno sembrerebbe indifferentemente riconducibile alla fattispecie del furto comune di cui all’art. 624 cod. pen. ovvero a quella della sottrazione di cose comuni di cui all’art. 627 cod. pen.). Il fondamento normativo del concorso apparente tra norme è costituito dall’art. 15 cod. pen. che contempla il c.d. principio di specialità: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. Per quanto previsto dall’art. 15 cod. pen., dunque, qualora più disposizioni regolino la stessa materia, deve prevalere, salvo che sia diversamente stabilito, la norma speciale che descrive la condotta con maggiori particolari. In sostanza, il principio di specialità è espressione del divieto per cui uno stesso fatto possa essere posto a carico dell’agente più di una volta (così, nell’esempio fatto, il comproprietario risponderà del solo delitto di sottrazione di cose comuni e non anche del furto comune, in quanto il primo delitto è speciale rispetto al secondo). Invero, esigenze di equità sostanziale e di certezza giuridica impongono di evitare che l’autore del fatto debba rispondere dello stesso mediante l’applicazione di due o più norme incriminatrici e ciò in ossequio al principio generale del ne bis in idem sostanziale. Si tratta, cioè, di una esigenza razionale ed equitativa di non proliferazione della risposta punitiva dello Stato che, anche in relazione ai principi di proporzionalità e di finalità rieducativa della pena, sarebbe nociva. D’altronde, l’alternativa tra concorso apparente tra norme e concorso (reale) di reati ruota proprio attorno alla suddetta esigenza ed il legislatore, con la codificazione del principio di specialità, se n’è fatto carico, anche se il criterio logico della specialità si è mostrato, per certi versi, insoddisfacente, inducendo la dottrina prevalente all’elaborazione di criteri di valore utilizzati, peraltro, anche in ambito giurisprudenziale. Si è così passati da una concezione monistica a una concezione pluralistica dei criteri per risolvere il problema della suddetta alternativa tra concorso apparente e concorso reale tra norme incriminatrici. Secondo la teoria monistica, per stabilite se il concorso è apparente o reale, è sufficiente il solo criterio di specialità espressamente codificato dal legislatore. Nondimeno i fautori di tale teoria, consci dell’inadeguatezza del solo criterio logico in discussione a risolvere le questioni applicative relative alla riconducibilità di un dato fatto storico a una ovvero a due o più norme incriminatrici, ampliano il concetto di specialità, contaminandolo con soluzioni che prescindono dalla sussistenza tra le norme di un rapporto di genere a specie. Secondo la teoria pluralistica, invece, l’insufficiente criterio logico della specialità va integrato con criteri di valore che, sintetizzando le varie posizioni emerse in argomento, possono ricondursi a quelli di sussidiarietà e assorbimento o consunzione. 2. Il principio di specialità e gli altri criteri volti ad identificare i casi di concorso apparente tra norme Le relazioni intercorrenti tra le norme penali, soprattutto quelle inerenti ai loro rapporti nell’ambito sanzionatorio, sono regolate certamente dal criterio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen. Questo criterio, tuttavia, come appena visto, non è l’unico, in quanto un rapporto apparente tra norme, come si avrà modo di studiare, è ipotizzabile anche tra disposizioni magari del tutto diverse tra loro per struttura oggettiva ed elemento soggettivo, che tutelino però lo stesso interesse giuridico. È importante, quindi, analizzare in modo distinto i criteri impiegati per la regolamentazione dei diversi casi di concorso tra norme, tenendo separati quelli che tengono conto di eventuali relazioni logiche tra norme da quelli improntati su rapporti di valore. Il principio di specialità valorizza il rapporto di genere a specie tra norme. Ne costituisce immediato precipitato logico la prevalenza della norma speciale rispetto a quella generale (lex specialis derogat legi generali). Detto principio postula che una determinata norma incriminatrice (speciale) presenti in sé tutti gli elementi costitutivi di un’altra (generale), oltre a quelli c.d. specializzanti. È necessario, cioè, che le due disposizioni appaiano come due cerchi concentrici, di diametro diverso, per cui quello più ampio contenga in sé quello minore, e abbia, inoltre, un settore residuo, destinato ad accogliere i requisiti aggiuntivi della specialità. Gli elementi possono essere specializzanti per aggiunta ovvero per specificazione. Nel primo caso si parla di specialità per aggiunta, poiché la norma speciale prevede un elemento ulteriore rispetto al o agli elementi comuni con la norma generale, mentre nel secondo caso si parla di specialità per specificazione, poiché l’elemento specializzante si caratterizza non per aggiungere un ulteriore elemento rispetto alla norma generale ma per specificare un concetto generale contenuto in tale ultima norma. Il principio di specialità, dunque, esige una pluralità di norme regolatrici della stessa materia – intendendo per stessa materia non l’identità del bene giuridico tutelato, bensì il settore o l’aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e, nel contempo, la presenza in una di esse di elementi peculiari che, per la loro specificità e per la loro immediata riferibilità al caso concreto, siano da ritenere prevalenti rispetto a quelli della norma concorrente che resta esclusa o assorbita. In applicazione del principio di specialità sancito dall’art. 15 cod. pen. e del principio secondo cui lo stesso fatto non può essere posto a carico dell’agente una seconda volta, la violenza o minaccia adoperata dopo la sottrazione di una cosa mobile altrui, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l’impunità, è elemento costitutivo del reato di rapina impropria, di cui all’art. 628, primo capoverso, cod. pen. valutato dal legislatore per configurare tale fattispecie di reato, e pertanto non può essere valutata una seconda volta a titolo di circostanza aggravante del nesso teleologico prevista dall’art. 576, n. 1, cod. pen. in relazione all’art. 61, n. 2, cod. pen. Si pensi, altresì, alla fattispecie di infanticidio di cui all’art. 578 cod. pen. che sanziona un fatto (l’infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale) riconducibile, in astratto, anche sotto la norma sanzionatoria generale di cui all’art. 575 cod. pen., la quale però, nel limitarsi a punire la semplice condotta di chi cagiona la morte di un uomo, non prende in considerazione una serie di elementi, che connotano invece la norma speciale [elementi specializzanti della fattispecie di cui all’art. 578 cod. pen. individuabili nel soggetto attivo (la madre), nelle particolari condizioni in cui agisce (condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto), nelle circostanze di tempo in cui ha luogo la condotta (immediatamente dopo il parto .. o durante il parto), nel soggetto passivo (il neonato, immediatamente dopo il parto o il feto, durante il parto)]. Analogamente, in tema di falsità materiale in atto pubblico, si realizza un concorso apparente di norme tra le disposizioni di cui agli artt. 469 cod. pen. (contraffazione delle impronte di pubblica autenticazione e certificazione) e 476 stesso codice (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici) nel caso in cui la falsificazione concerna un atto notarile. Questo perché la fattispecie ex art. 476 cod. pen., avendo carattere più generale, coinvolge quella di cui all’art. 469 cod. pen. che ha per oggetto solo un aspetto del documento falsificato e cioè l’impronta del sigillo notarile. Per il principio di specialità di cui all’art. 15 cod. pen., non è configurabile il delitto di violenza privata qualora la violenza (fisica o morale) sia stata usata per uno dei fini particolari previsti da altre ipotesi di reato, come il sequestro di persona, posto che il reato di cui all’art. 610 cod. pen., avente carattere sussidiario, non è applicabile se il fatto ricade sotto altro titolo delittuoso specificamente previsto dalla legge. Sempre in forza del principio di specialità il delitto di ricettazione deve ritenersi assorbito nel reato previsto dall’art. 453, n. 3, cod. pen., che punisce la condotta di chi, senza essere concorso nella falsificazione, detenga monete falsificate di concerto con l’autore della stessa o con un intermediario. L’elemento specializzante può anche essere costituito da una circostanza. Al riguardo, esempi ricorrenti sono forniti dalla disciplina del reato di furto ex art. 624 cod. pen. rispetto alle ipotesi speciali di cui all’art. 624-bis e 625 cod. pen., le quali ne ripetono la fattispecie, aggiungendo ulteriori elementi che ne connotano la condotta aumentandone il grado di disvalore. Superata è la concezione per cui, ai fini dell’applicazione della disciplina del concorso di norme, ex art. 15 cod. pen. (con la conseguente necessità di individuare la norma speciale che deroga a quella generale), è l’identità della natura delle norme, nel senso che si deve trattare di norme penali. Si è, infatti, autorevolmente sostenuto che il rapporto di specialità intercorre anche tra norme penali incriminatici e norme penali c.d. “di liceità” . Inoltre, l’art. 9 della L. 24 novembre 1981, n. 689, disciplina il concorso di norme tra fattispecie penali e violazioni amministrative. In base a tale norma, se uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa si applica la disposizione speciale. Quindi, la relazione di specialità tra norme eterogenee, penali da un lato e sanzionatorie amministrative dall’altro, non è preclusa, anzi è prevista espressamente dal legislatore. È stato così fugato ogni dubbio sull’ammissibilità del concorso tra sanzione penale e violazione amministrativa. La norma in esame non prevede la clausola di riserva prevista, invece, dall’art. 15 cod. pen. La diversa formulazione, rispetto a tale ultima disposizione, non preclude comunque al legislatore di prevedere espressamente la clausola nei singoli casi (si veda, ad esempio, l’art. 214, comma 8, D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, nuovo codice della strada), ma vale sicuramente a dettare un criterio interpretativo restrittivo in quelli che potrebbero essere considerati casi di riserva implicita ampliando inevitabilmente l’area del concorso apparente in un percorso di valorizzazione di questo principio che certamente il legislatore ha voluto perseguire con l’eliminazione del riferimento alla clausola di riserva. Altra differenza tra le citate norme è nel testo. L’art. 9, invece, di parlare di “stessa materia”, fa riferimento allo “stesso fatto”. Non è, però, da ritenere, come affermato da parte della dottrina, che con questa formula il legislatore abbia inteso fare riferimento alla specialità in concreto dovendosi, al contrario, ritenere che il richiamo sia fatto alla fattispecie tipica prevista dalle norme che vengono in considerazione evitando quella genericità che caratterizza l’art. 15 cod. pen. con il riferimento al concetto di materia. Secondo l’opinione preferibile, infatti, nel caso di concorso tra fattispecie penali e violazioni di natura amministrativa, il confronto deve avvenire tra fattispecie tipiche astratte e non tra le fattispecie concrete. Il che, del resto, è confermato dal tenore dell’art. 9 che, facendo riferimento al “fatto punito”, non può che riferirsi a quello astrattamente previsto come illecito dalla norma e non certo al fatto naturalisticamente inteso. Indicazioni giurisprudenziali Concorso apparente di norme e concorso di reati – Perché si possa configurare un concorso apparente di norme, risolvibile con l’applicazione di una sola di esse, è necessario che vi sia una stessa situazione di fatto cui corrisponda una convergenza delle singole norme ciascuna delle quali apparentemente la regola, e ciò perché la situazione di fatto, negli stessi suoi dati, è capace di integrare gli estremi di più fattispecie legali. Quando invece una situazione di fatto corrisponda per parti diverse a più fattispecie è esclusa la ipotizzabilità del concorso apparente di norme e si ha concorso di reati (Cass. pen., 8 giugno 1982, n. 5669). Individuazione della stessa materia – Il requisito della stessa materia ricorre in primis quando, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., due norme qualifichino uno stesso contesto fattuale nel senso che una delle suddette comprenda in sé gli elementi dell’altra oltre ad uno o più dati specializzanti: in questo caso dovrà prevalere, salvo che sia altrimenti stabilito, la previsione speciale ossia quella che descrive la situazione con maggiori particolari. Poiché il citato criterio presuppone una relazione logico-strutturale tra norme, ne deriva che la locuzione “stessa materia” va intesa come fattispecie astratta – ossia come settore, aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare – e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile in più norme, indipendentemente da un rapporto di genere a specie tra queste. All’uopo, il richiamo alla natura del bene protetto – effettuato, con divergente valutazione, sia dalle sentenze che affermano una situazione di specialità, sia da quelle che la negano - non pare decisivo (Cass. pen., sez. un., 7 novembre 2000, n. 27). Il criterio strutturale – Sussiste concorso fittizio di norme qualora una pluralità di disposizioni sia apparentemente applicabile nei confronti di una determinata condotta, mentre in effetti una sola di esse può operare perché altrimenti verrebbe addebitato più volte un accadimento unitariamente valutato dal punto di vista normativo, in contrasto col principio del ne bis in idem sostanziale posto a fondamento degli artt. 15, 68, 84 cod. pen. Una tale convergenza ricorre in primis quando, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., due norme regolino la “stessa materia”, ossia qualifichino un identico contesto fattuale nel senso che una delle suddette comprenda in sé gli elementi dell’altra oltre ad uno o più dati specializzanti: in questo caso dovrà prevalere, salvo che sia altrimenti stabilito, la previsione speciale ossia quella che la situazione con maggiori particolari. Poiché il citato criterio presuppone una relazione logico-strutturale tra norme ne deriva che la locuzione “stessa materia” va intesa come fattispecie astratta - ossia come settore, aspetto dell’attività umana che la legge interviene a disciplinare - e non quale episodio in concreto verificatosi sussumibile un più norme, indipendentemente da un astratto rapporto di genere a specie tra queste (Cass. pen., sez. un., 9 gennaio 2001, n. 23427). Rapporto tra illeciti penali e illeciti amministrativi: l’impossessamento abusivo di acque – In virtù dell’art. 23 del D.Lgs. n. 152 del 1999, che ha sostituito l’art. 17 del R.D. n. 1775 del 1933 - integra esclusivamente un illecito amministrativo ed è attualmente punito solo con la sanzione amministrativa di cui al predetto art. 23 e non anche a titolo di furto, ex art. 624 cod. pen. Tra le norme in considerazione (art. 23 D.Lgs. n. 152 del 1999 e 624 cod. pen.) sussiste, infatti, un’ipotesi di concorso apparente - a fronte dell’omogeneità della materia regolata (sottrazione e impossessamento di un bene altrui per proprio vantaggio), il predetto art. 23 presenta carattere speciale rispetto alla disposizione codicistica disciplinata dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981, che afferma anche nell’ipotesi di concorso tra norme penali ed amministrative il principio per il quale la norma speciale prevale su quella generale (Cass. pen., 7 marzo 2007, n. 25548). Tutela del diritto d’autore – La condotta di chi acquista supporti audiovisivi fonici o informatici o multimediali non conformi alle prescrizioni legali, se non costituisce concorso in uno dei reati previsti dagli artt. 171, 171 octies, legge 22 aprile 1741, n. 633, integra l’illecito amministrativo di cui all’art. 16, legge 18 agosto 2000, n. 248, che in virtù del principio di specialità previsto dall’art. 9, legge n. 689 del 24 novembre 1981, prevale sulla disposizione penale che punisce lo stesso fatto (Cass. pen., 3 marzo 2005, n. 8761). Formula Al ................... di .................. ATTO DI APPELLO Il sottoscritto Avv. ..................., del foro di ..................., con studio in ..................., via ….., n. …., nella qualità di difensore di fiducia, giusta nomina in atti, di..................., nato il …, a ................... e residente in …., alla via …., n. ….., imputato nell’ambito del procedimento penale recante n. ................... R.G.N.R. - n. …. R.G. Dib., per il reato di cui all’art. ..................., PREMESSO CHE il proprio assistito è stato condannato, dal ...................di ..................., con sentenza n. ..................., emessa in data ................... e depositata in data ..................., alla pena di ................... per il reato innanzi indicato; tale decisione appare censurabile in quanto viziata per i seguenti MOTIVI (indicare le ragioni di diritto e di fatto sulle quali si fonda il gravame, specificando i capi ed i punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione); I) ASSOLUZIONE DELL’IMPUTATO PERCHÉ ................... II) RIDETERMINAZIONE DEL TRATTAMENTO SANZIONATORIO In ogni caso, la pena applicata appare assolutamente eccessiva e sproporzionata rispetto all’effettivo disvalore delle contestate condotte penali, atteso che ................... tanto premesso, con il presente atto PROPONE APPELLO avverso la sentenza di condanna n. ..................., emessa dal ................... di ................... in data ................... e per l’effetto CHIEDE che ..................., sulla base di quanto esposto in premessa e con riserva di meglio precisare ed approfondire in sede di giudizio le argomentazioni riportate, voglia assolvere il sig. ................... dal reato ascrittogli perché ................... (indicare la formula di assoluzione più appropriata), ovvero, in via del tutto subordinata, voglia rideterminare la pena irrogata determinandola nella maniera seguente: ................... (riduzione pena, applicazione circostanza attenuanti, ecc.). N.B.: La richiesta in via subordinata deve essere formulata solo se dalla traccia emergono elementi che consentono di motivarla. Luogo e data Avv. ...................