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L’età di Padova
1222-1309
Negli anni venti del xiii secolo l’Italia si presentava agli osservatori divisa fondamentalmente in tre grandi aree geografiche: un Sud legato alla casa di Hohenstaufen e governato da quel Federico II di Svevia che aveva eletto proprio Palermo
a sua residenza principale (giusto al centro di un Impero che idealmente si estendeva dalla Germania alla Terra Santa); i possedimenti della Chiesa nell’Italia centrale, da Roma a Bologna, passando per l’Umbria e le Marche; e la parte restante della
penisola, dalla Toscana all’arco alpino: anch’essa formalmente sotto la giurisdizione dell’imperatore, ma frammentata in una miriade di entità politiche di fatto indipendenti.
L’instabilità politica sembrava la cifra di queste terre. Osservate dall’esterno, dal
resto della cristianità occidentale come dalla Palermo di Federico (in teoria il legittimo reggitore dell’intero ecumene), le città del Nord d’Italia formavano una costellazione sfuggente. La tradizione le collocava tra i domini imperiali, sebbene con una
loro identità specifica: quella del regno d’Italia, appunto. Tuttavia, la lotta per le investiture aveva mostrato già più volte come le comunità urbane oscillassero volentieri tra l’obbedienza ghibellina all’imperatore e la fedeltà guelfa al pontefice, con
le consuete e dolorose ondate di esili a ogni rivolgimento. Osservate dall’interno, poi,
quelle comunità in cui nobili e mercanti erano forzati a convivere entro le stesse mura apparivano concordi su un unico punto: la rivendicazione della propria autonomia dai grandi poteri universali.
Almeno dal punto di vista letterario non mancavano tuttavia tratti unitari: a cominciare da una capillare influenza della cultura francese e provenzale, quest’ultima diffusasi anche in seguito alla crociata contro gli albigesi (1224-28), che aveva
condotto in Italia non meno di quaranta trovatori in fuga. Il vecchio adagio secondo cui la Germania era la sede dell’Impero, l’Italia del papato e la Francia delle lettere corrispondeva ancora al vero al principio del xiii secolo, facendo delle regioni
a sud delle Alpi un vero e proprio territorio di conquista. Dal francese si volgarizzava ma, soprattutto, in francese (e in provenzale) si leggeva e, cosa ancora più importante, si scriveva: specialmente, anche se non solo, in Lombardia, in Veneto e
nell’Emilia. Con il risultato di avvicinare – attraverso la materia di Francia e di Bretagna, o magari per mezzo del ciclo di Troia o delle romanzatissime imprese di Alessandro – ambienti socialmente remoti quali un libero comune veneto o toscano e
una corte principesca, nel nome di una medesima etica ed estetica feudale della
cortesia.
Importatrice e non esportatrice di poesia – a parte il caso davvero unico del grande trovatore Sordello da Goito –, al principio del Duecento l’Italia letteraria continuava dunque a gravitare nell’orbita della Francia e della Provenza, avendo il suo
punto di forza unicamente nella diffusa e originalissima cultura giuridica sviluppa-
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tasi a partire da una copia del Corpus Iuris di Giustiniano ricomparsa a Bologna alla
fine dell’xi secolo, e da allora sottoposta a un costante lavorio di interpretazione e
chiosatura. La penetrazione del francese (per l’epica, la prosa e la lirica) e del provenzale (per la sola lirica) non intaccava infatti il primato indiscusso del latino. Il latino rimaneva la lingua della giurisprudenza, con cui quotidianamente si formalizzavano e si regolavano i rapporti sociali oltreché quelli politici, ma era anche l’idioma di tutte le altre professioni più elevate e della trasmissione del sapere: dalla medicina alla filosofia alla teologia. Quanto alla sfera privata, se di passioni amorose e
di avventure cavalleresche si leggeva in volgare (per quanto un volgare straniero), i
testi letterari, religiosi o precettistici che aiutavano a mutare l’animo in profondità,
a trasformarsi e a imparare dal passato continuavano a parlare la lingua delle Sacre
Scritture.
Entro un tale contesto il volgare italiano occupava l’angolo dell’ultimo arrivato.
Ma anche la sua ora si stava avvicinando e i modi in cui era destinato ad affermarsi avrebbero influenzato a lungo le sorti della nostra letteratura: a cominciare da una
precisa specificità geografica. Favorita da una intensa attività di volgarizzamenti
tanto dal latino quanto dal francese, a partire dagli anni sessanta del Duecento la
Toscana avrebbe cominciato a distinguersi per un’intensa produzione poetica in volgare, da Bonagiunta Orbicciani e Guittone d’Arezzo a Brunetto Latini, sino alla fioritura del così detto «dolce stil novo», con Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti e Dante Alighieri. E tuttavia – a voler evitare ogni pericoloso teleologismo – tale produzione si segnala, nel contesto duecentesco, per la sua anomalia e per l’incapacità di fare breccia fuori dalla regione (con l’eccezione, pur notevolissima, della Bologna di
Guido Guinizzelli) più ancora che per l’indiscutibile valore delle diverse voci poetiche. È significativo, in questo senso, che persino l’unica altra area di copiosa produzione volgare, vale a dire l’Appennino umbro-marchigiano, sia rimasta completamente estranea agli impulsi toscani. Iacopone da Todi in testa, questa letteratura
avrebbe recato piuttosto lo stigma della maggiore esperienza spirituale del xiii secolo: la predicazione di Francesco d’Assisi, che proprio in quei luoghi aveva avuto
il suo primo impatto.
La migliore conferma di questa minorità dell’opzione tosco-emiliana si ricava
però forse dalla constatazione che il centro culturalmente più vivace del periodo,
cioè Padova, si colloca fuori dall’area in cui il volgare italiano avrebbe dato di lì a
qualche decennio le sue prove migliori. Con una popolazione pari a circa un quarto
di quella di Firenze, la città veneta si trovava nella principale terra d’adozione della letteratura francese in Italia: «una zona di polivalenza linguistica ai fini letterari», come ha scritto Carlo Dionisotti. La regione possedeva inoltre una innegabile
importanza strategica nella geopolitica del tempo, e i numerosi contatti politici e diplomatici favorivano ulteriormente la sua apertura verso le novità letterarie. Nel corso degli anni trenta del Duecento Federico II aveva più volte percorso l’Italia, da
sud a nord, accompagnato da un solenne e variopinto corteo di armati, funzionari e
cortigiani, per visitare personalmente i suoi alleati nelle terre dell’antico Regnum Italiae. Appunto dai ripetuti incontri con la fertile letteratura franco-veneta è probabile che sia venuto l’impulso a promuovere la scuola di poesia in volgare (la prima
nel nostro paese) fiorita in Sicilia grosso modo negli ultimi due decenni di vita dell’imperatore svevo, importando (e riadattando all’idioma dell’isola) le forme e i temi dei trovatori transalpini. Tuttavia, proprio perché praticata unicamente dai cancellieri e dai notai della corte fredericiana, da Cielo d’Alcamo a Stefano Protonotaro e da Giacomo da Lentini a Pier della Vigna, la scuola siciliana era destinata a non
sopravvivere alla morte del suo ispiratore (1250).
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Tra gli eventi che scandiscono il proporsi di Padova come centro egemone della
cultura italiana nel Duecento, è necessario ricordare innanzitutto la nascita dell’università, nel 1222, da una migrazione di studenti e professori insoddisfatti delle condizioni accordate loro a Bologna. Nello stesso torno di anni il regno d’Italia era andato popolandosi a poco a poco di nuove sedi (Modena e Reggio Emilia già alla fine del xii secolo, Vicenza nel 1204, Parma nel 1214, Arezzo nel 1215…), ma la scelta dei fuggitivi sottintende la certezza di trovare in riva al Brenta un ambiente particolarmente favorevole agli studi. Se l’università era un organismo relativamente
nuovo, essa si veniva a collocare in un sistema di istituzioni di insegnamento superiore assai radicato in quelle zone d’Italia. Più che altrove, nelle comunità urbane
dove si produceva e si consumava letteratura si erano diffusi, da tempo accanto alle scuole cattedrali e monastiche, centri di istruzione laica: scuole cittadine e notarili, insegnamenti privati e pubblici che fornivano gli strumenti tecnici necessari per
governare in quei comuni che già ai tempi di Federico Barbarossa (1155-90) avevano rivendicato la loro autonomia dall’Impero. Tali nozioni servivano principalmente
a trovare un mestiere e a far funzionare la macchina amministrativa; allo stesso tempo, però, avevano consentito la crescita di un pubblico abbastanza vasto in grado di
formare i propri gusti letterari sui poeti, gli storici e i pensatori dell’Antichità senza passare per la mediazione ecclesiastica. Così che – contrariamente a quanto era
avvenuto nel resto d’Europa – in Italia la letteratura in latino prodotta prima del
Duecento era stata soprattutto opera di laici.
Nel 1237, l’imporsi a Padova della signoria di Ezzelino da Romano portò alla
chiusura dell’ateneo, mal visto dal potente vicario imperiale. E tuttavia, a riprova di
quanto l’ambiente patavino fosse propizio alla cultura, dopo la caduta dei Da Romano (1257) la vita degli studi sarebbe ripresa quasi contemporanemente al regime
comunale: già nel 1259. Così, come Federico non era riuscito a impiantare saldamente una scuola di poesia in un contesto poco disposto a riceverla, allo stesso modo il suo principale alleato nel Veneto, appunto Ezzelino, non era stato capace di frenare lo slancio dell’università. Anche quando nel 1328 i Carraresi avrebbero imposto definitivamente la loro dinastia su Padova, nessuno avrebbe più pensato di chiudere una istituzione che – assieme alle reliquie di sant’Antonio, alla presunta tomba
di Antenore e alla cappella degli Scrovegni dipinta da Giotto nei primi anni del Trecento – era divenuta nel frattempo uno dei massimi motivi di orgoglio municipale.
Curiosamente, però, il primato di Padova nel xiii secolo non è legato tanto all’università, quanto a un nuovo movimento letterario che proprio della lotta contro
la tradizione scolastica e aristotelica fiorente negli studia avrebbe fatto uno dei suoi
caratteri distintivi: l’umanesimo. Il culto di Roma e del mondo classico aveva caratterizzato le più diverse esperienze artistiche lungo tutto il Medioevo, ma nella
Padova di fine Duecento nel giro di pochi anni si affermò un modo assolutamente
inedito di guardare agli antichi e di imitare le loro opere. Dopo la fine dell’unità politica di Roma i dotti dell’intero continente non avevano mai smesso di scrivere (e di
parlare) latino, e per questo si erano potuti facilmente illudere che non si fosse consumata una vera cesura, malgrado le metamorfosi e l’impoverimento che la lingua di
Cicerone aveva subito nei secoli. Fu proprio a Padova, invece, che la consapevolezza di una chiara differenza rispetto al mondo classico – una differenza innanzitutto
linguistica – riemerse per la prima volta con chiarezza. L’idioma degli antichi non
era lo stesso, corrotto e impoverito, che si usava per la liturgia, le lezioni universitarie o i documenti ufficiali: si avvaleva di un lessico più ampio e sfumato, ma soprattutto organizzava il ritmo della frase e del verso secondo principî prosodici completamente diversi. Ed era soltanto a quella bellezza perduta che occorreva rifarsi.
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Più o meno negli stessi anni in cui – da Lucca, Arezzo e Bologna – Bonagiunta,
Guittone e Guinizzelli si scontravano sul tipo di volgare che andava adoperato nelle composizioni poetiche, a Padova interrogativi non meno urgenti venivano rivolti ai testi di Ovidio o di Seneca, alla ricerca di uno speciale dettato classico che era
andato perduto con l’andare dei secoli. Poeti-giuristi come Lovato Lovati o (una generazione dopo) il suo discepolo Albertino Mussato dedicarono le loro vite a studiare con minuzia le regole metriche, il lessico e la sintassi del latino così come le si
potevano ricavare dalle opere dei soli poeti antichi, con l’obiettivo di creare a loro
volta una letteratura originale e attenta ai problemi del presente. E per questa strada, grazie all’imitazione formale dei classici, si dotarono di una lingua in grado di
esprimere sentimenti e riflessioni con una precisione e una ricchezza di sfumature
negate al latino ecclesiastico o universitario.
Questi nuovi testi risultavano molto più difficili da comprendere rispetto al latino semibarbaro utilizzato normalmente nei testi ufficiali, ma anche per coloro che
li intendevano solo a metà emanavano il fascino supremo dell’antico. Lovato e Mussato erano consapevoli che la loro autorevolezza si fondava interamente su tale capacità di parlare “come i classici”. E proprio l’incoronazione di Mussato da parte
dei suoi concittadini dopo la lettura pubblica, nel 1315, della sua tragedia sulla tirannide di Ezzelino, l’Ecerinis, costituisce la prova migliore che quel latino tanto
ostico per gli uomini del tempo poteva fare della propria alterità un decisivo punto di forza.
Perché proprio a Padova? La nascita improvvisa di un movimento destinato a
cambiare per sempre la storia letteraria dell’Occidente – appunto l’umanesimo – resiste a qualsiasi ipotesi riduzionista. Tuttavia è probabile che nessuno si sia avvicinato alla risposta altrettanto di Ronald Witt, quando ha attirato l’attenzione sulla
specificità di una regione tanto segnata dalla poesia in francese e provenzale, ipotizzando che sia stata proprio l’estrema complessità linguistica del Veneto a dare il
«contributo fondamentale all’arte di comporre in stile classicheggiante, poiché abituò gli scrittori a cercare di esprimersi in modo letterario servendosi delle lingue straniere». In altre parole, costretti a calarsi di volta in volta negli schemi grammaticali ora del francese, ora del provenzale, ora del latino, ora del volgare italiano, gli umanisti padovani finirono per affinare la propria sensibilità nei confronti delle forme
sintattiche peculiari ad altre lingue, imparando a replicarle artificialmente come nessuno aveva saputo fare prima di loro.
Come quei miracolosi anni a cavallo tra Due e Trecento segnarono per i secoli a
venire l’indirizzo dell’università di Padova, con la sua inclinazione per un aristotelismo radicale, al limite della miscredenza e dell’eresia (cominciando da Pietro d’Abano, il grande medico-astrologo-filosofo che insegnò in città dal 1306), così il Veneto rimase a lungo il cuore della nuova cultura classicheggiante. Soltanto negli anni quaranta del Trecento la leadership sarebbe passata a Firenze, dove una sistematica politica di volgarizzamenti aveva favorito la nascita di un vasto pubblico di lettori desiderosi, se non di apprendere, di far apprendere ai figli la lingua di Roma
nella sua forma più pura e incontaminata: e pronti a pagare copiosamente per questo. Ma ancora Francesco Petrarca, vale a dire il principale teorico del grande movimento di recupero dell’antico che aveva avuto in Lovati e Mussato i suoi primi
maestri, dovendo eleggere una dimora per i suoi ultimi anni non avrebbe avuto dubbi e nel 1360 si sarebbe stabilito ad Arquà, giusto una ventina di chilometri a sudovest di Padova. Là dove tutto era cominciato.
gabriele pedullà
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eventi
sistemi
Melfi, settembre 1231. L’imperatore Federico II fa pubblicare
ufficialmente il Liber augustalis
Pier della Vigna e le scritture
del potere
Pordenone, maggio 1232. L’imperatore Federico II incontra Alberico da Romano
La letteratura francese e provenzale nell’Italia medievale
Roncisvalle, primi di settembre 1260. Appresa la sconfitta dei
guelfi fiorentini a Montaperti, Brunetto Latini decide di
stabilirsi in Francia
Scrivere le regole: l’Italia degli
statuti
reti
Parigi, 1266. Il capitolo generale dei francescani ordina la distruzione delle biografie di san Francesco d’Assisi
Bologna, 2 giugno 1274. I Lambertazzi e i loro amici fuggono
dalla città
Lontano da casa: una costellazione di letterati in esilio
Padova, 1275. Durante gli scavi per lavori pubblici viene ritrovata la tomba di Antenore
I luoghi della cultura a Padova
fra Due e Trecento
Firenze, 1283 circa. Dante invia ai «fedeli d’amore» il sonetto A ciascun’alma presa e gentil core
Bologna, 1287. Cino da Pistoia e Dante Alighieri si incontrano durante i loro studi
Milano, 1288. Bonvesin da la Riva scrive l’elogio di Milano
Genova, 1298. Il veneziano Marco Polo detta in carcere il Milione al pisano Rustichello
Roma, 22 febbraio 1300. Papa Bonifacio VIII proclama il primo giubileo
Poesia e musica nel tardo Medioevo
Le scritture dei giuristi
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1309
1222
L’età di Padova
Pagina 7
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L’età di Avignone
L’età di Firenze
Parigi
Pordenone
Milano
Roncisvalle
Genova
padova
Bologna
Firenze
Roma
Melfi
Le dimensioni dei cerchi sono proporzionali al numero di “eventi” che si svolgono in quel luogo.
In maiuscoletto sono indicate le città per le quali si offre un approfondimento nelle “reti”.
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L’età di Venezia