SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Saverio Mauro Tassi LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO IL CORSARO editore 1 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’ORIZZONTE ANTICO 2 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE IL MAPPAMONDO L’ORIZZONTE ANTICO LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME ORDINE NATURALE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ ETA’ GRECA ARCAICA (VIII-VI sec. a.C.) MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA I VIAGGIO – L’ORDINE COME PRINCIPIO FISICO UNICO ROTTA SU... I COSMOLOGI MONISTI VITE DI CAPITANI: TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE Tappa 1: TALETE: L’ACQUA E’ NATURA DI TUTTE LE COSE Tappa 2: ANASSIMANDRO: IL PRINCIPIO E’ ILLIMITATO MAPPA MAPPA Tappa 3: ANASSIMENE: IL PRINCIPIO E’ IL SOFFIO MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSIMENE E LA TERMODINAMICA Tappa 4: LA TERRA E’ FERMA AL CENTRO DEL COSMO MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSIMANDRO E IL MULTIVERSO LO SCRIGNO PAUL DAVIES: FARE SCIENZA SIGNIFICA UNIFICARE PAUL DAVIES: ESISTONO MOLTI E DIFFERENTI UNIVERSI 3 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ALL’ARREMBAGGIO IL DUELLO ROTTA SU... I COSMOLOGI RAZIONALISTI VITE DI CAPITANI: ERACLITO, PITAGORA, FILOLAO, PARMENIDE, ZENONE Tappa 1: ERACLITO: IL PRINCIPIO E’ UNA LEGGE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: IL FUOCO E LA RELATIVITA’ RISTRETTA Tappa 2: I PITAGORICI: IL PRINCIPIO SONO I NUMERI VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: I PITAGORICI E LA FORMULA E=MC2 Tappa 3: PARMENIDE: LA REALTA’ E’ SOLO ESSERE Tappa 4: ZENONE: LA MOLTEPLICITA’ E IL MOTO SONO ASSURDI VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ZENONE, IL CALCOLO INFINITESIMALE E IL PRINCIPIO DI RELATIVITA’ Tappa 5: LA SCIENZA DEI COSMOLOGI RAZIONALISTI LO SCRIGNO AMIR D. ACZEL: LA SCOPERTA DEL CONTINUO GEOMETRICO KARL POPPER: LE FASI LUNARI COME “GIOCO DI LUCE E OMBRA” II VIAGGIO - L’ORDINE COME INTERAZIONE DI PIÙ PRINCIPI FISICI ROTTA SU... – I COSMOLOGI PLURALISTI VITE DI CAPITANI: EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO Tappa 1: EMPEDOCLE: I PRINCIPI SONO LE “RADICI”, AMICIZIA E CONTESA 4 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: EMPEDOCLE E LA TEORIA DEL BIG BANG Tappa 2: ANASSAGORA: I PRINCIPI SONO I SEMI E L’INTELLIGENZA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSAGORA, LA CHIMICA E LA FISICA Tappa 3: DEMOCRITO: I PRINCIPI SONO GLI “INDIVISIBILI” VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ATOMISMO ANTICO E ATOMISMO MODERNO Tappa 4: LA SCIENZA DEI COSMOLOGI PLURALISTI LO SCRIGNO ALEX VILENKIN: LA SCOPERTA DELLA GRAVITA’ REPULSIVA 5 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME RAZIONALITA’ UMANA Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE: L’ETA’ GRECA CLASSICA (V sec. a.C.) MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA III VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ STRUMENTALE DELL’UOMO ROTTA SU... I SOFISTI VITE DI CAPITANI: PROTAGORA E GORGIA Tappa 1: PROTAGORA: LA RAZIONALITA’ E’ UMANA E RELATIVA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PROTAGORA E LA NUOVA RETORICA Tappa 2: GORGIA: LA PAROLA E’ IPNOTICA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: GORGIA TRA SCETTICISMO E NICHILISMO LO SCRIGNO LA COSTITUZIONE ITALIANA: IL DIRITTO-DOVERE DI VOTO 6 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE IV VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ SOSTANZIALE DELL’UOMO ROTTA SU... IL RAZIONALISMO CRITICO VITA DI UN CAPITANO: SOCRATE Tappa 1: SOCRATE: LA RAZIONALITA’ E’ DIALOGO ARGOMENTATIVO Tappa 2: SOCRATE. VIVE BENE SOLO CHI SA Tappa 3: SOCRATE: DIO E’ RAZIONALITA’, L’UOMO IL FINE DEL COSMO VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: SOCRATE E IL PRINCIPIO ANTROPICO LO SCRIGNO JOHN D. BARROW-FRANK J. TIPLER: L’UNIVERSO E’ FATTO PER L’UOMO 7 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME RAZIONALITA’ METAFISICA Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE: LA DECADENZA GRECA (431-323 a.C.) MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA V VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ IDEALE ROTTA SU... L’IDEALISMO TRASCENDENTE VITA DI UN CAPITANO: PLATONE Tappa 1: PLATONE: LA VITA E’ UN VIAGGIO DAL BUIO ALLA LUCE LA MAPPA Tappa 2: PLATONE: LA SCIENZA SI BASA SULL’INTUIZIONE DELLE IDEE LA MAPPA Tappa 3: PLATONE: LE IDEE SONO I MODELLI RAZIONALI DI TUTTE LE COSE LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA TEORIA DELLE IDEE E ROGER PENROSE Tappa 4: PLATONE: IL MONDO FISICO E’ UNA COPIA DEL MONDO DELLE IDEE LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA “CHORA” E IL CAMPO DI HIGGS Tappa 5: PLATONE: CONOSCERE E’ RICORDARE LA PRIMA VISIONE DELLE IDEE LA MAPPA Tappa 6: PLATONE: LA SCIENZA DELLE IDEE E’ LA DIALETTICA LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: L’INNATISMO DI PLATONE E DI CHOMSKY 8 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tappa 7: PLATONE: L’AMORE E’ IL SENTIMENTO CHE PORTA ALLE IDEE LA MAPPA Tappa 8: PLATONE: LA GIUSTIZIA E’ LA VIRTU’ SUPREMA LA MAPPA Tappa 9: PLATONE: LO STATO GIUSTO DEVE BASARSI SULLA SCIENZA LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLATONE E LA COSTITUZIONE ITALIANA Tappa 10: PLATONE: LA SCIENZA DEVE BASARSI SULLA MATEMATICA LA MAPPA LO SCRIGNO ROGER PENROSE: LA MATEMATICA GUIDA LA RICERCA SCIENTIFICA VI VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ ESSENZIALE ROTTA SU... L’IDEALISMO IMMANENTE VITA DI UN CAPITANO: ARISTOTELE Tappa 1: ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ ESSENZA E ACCIDENTE Tappa 2: ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ POTENZIALITA’ E ATTUAZIONE Tappa 3: ARISTOTELE: DIO E’ LA CAUSA FINALE DEL COSMO VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: FINALISMO E PRINCIPIO VITALE Tappa 4: ARISTOTELE: IL COSMO E’ DIVISO IN CELESTE E TERRESTRE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LE FISICHE DI ARISTOTELE E DI EINSTEIN FINALISMO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISMO Tappa 5: ARISTOTELE: L’ESPERIENZA E’ INDISPENSABILE ALLA SCIENZA 9 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tappa 6: ARISTOTELE: LA SCIENZA E’ RAGIONAMENTO Tappa 7: ARISTOTELE: LA VERITA’ SI BASA SULLA VALIDITÀ DEL RAGIONAMENTO Tappa 8: ARISTOTELE: LA MASSIMA FELICITA’ STA NEL CONOSCERE Tappa 9: ARISTOTELE: LO STATO DEVE GARANTIRE PACE E TEMPO LIBERO LO SCRIGNO PAUL DAVIES: LA TEORIA DEL FINALISMO INTRINSECO DELL’UNIVERSO MICHELE SARA’: GLI ORGANISMI SI SVILUPPANO IN MODO FINALISTICO FRITJOF CAPRA: L’ORGANISMO E’ SCHEMA, STRUTTURA E PROCESSO 10 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA: IL PRIMATO DELLA VITA PRATICA Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETÀ ELLENISTICA MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA VII VIAGGIO – ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ TERRENA ROTTA SU… LA FELICITA’ COME RIFIUTO DELLA CIVILTA’: CINISMO ED EPICUREISMO VITE DI CAPITANI: ANTISTENE, DIOGENE, EPICURO Tappa 1: I CINICI: LA FELICITA’ E’ LA LIBERTA’ INDIVIDUALE Tappa 2: EPICURO: LA FELICITA’ E’ IL PIACERE QUIETO VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: EPICURO E LA FISICA QUANTISTICA ROTTA SU… LA FELICITA’ COME ADATTAMENTO AL DESTINO RAZIONALE: LO STOICISMO VITE DI CAPITANI: ZENONE, CLEANTE, CRISIPPO Tappa 1: STOICI: IL COSMO E’ MATERIA RAZIONALE E DIVINA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: COSMOLOGIA STOICA E FISICA CONTEMPORANEA Tappa 2: STOICI: LA FELICITA’ E’ L’IMPASSIBILITA’ Tappa 3: STOICI: IL RAGIONAMENTO DEVE ESSERE PROPOSIZIONALE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: I PARADOSSI NELLA LOGICA DEL ’900 11 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… LA FELICITA’ COME ACCETTAZIONE DEL NON-SENSO DELLA VITA: LO SCETTICISMO VITE DI CAPITANI: PIRRONE Tappa 4: GLI SCETTICI: LA FELICITA’ E’ INDIFFERENZA E CONFORMISMO LO SCRIGNO LEON LEDERMAN: L’“EFFETTO TUNNEL” NORMAN DOIDGE: ECCITAZIONE E APPAGAMENTO VITO MANCUSO: L’ENERGIA CONTIENE UN PRINCIPIO ORDINATORE IMPERSONALE VIII VIAGGIO – LA FELICITA’ DELLA RICERCA SCIENTIFICA ROTTA SU… LA I RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? VITE DI CAPITANI: GLI SCIENZIATI ELLENISTICI Tappa 1: LA RICERCA MATEMATICA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: MATEMATICA ELLENISTICA E MATEMATICA MODERNA Tappa 2: LA RICERCA ASTRONOMICA Tappa 3: LA RICERCA FISICA Tappa 4: LA RICERCA NELLE SCIENZE EMPIRICHE 12 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA: LA REALTA’ CREAZIONE DI UN DIO INFINITO Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETA’ ROMANA L’ORIZZONTE SCIENTIFICO DELL’ETA’ ROMANA L’ORIZZONTE FILOSOFICO DELL’ETA’ ROMANA IX VIAGGIO – DIO COME INFINITA’ IMPERSONALE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA ROTTA SU... IL NEOPLATONISMO VITA DI UN CAPITANO: PLOTINO Tappa 1: PLOTINO: TUTTO E’ UNO INFINITO E IMMATERIALE LA MAPPA Tappa 2: PLOTINO: L’UNO E’ INEFFABILE LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLOTINO E GLI INSIEMI INFINITI DI CANTOR Tappa 3: PLOTINO: L’UNO SI AUTOCREA LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLOTINO E L’ORIGINE DEL BIG BANG Tappa 4: PLOTINO: L’UNO CREA IL COSMO FISICO LA MAPPA Tappa 5: PLOTINO: L’AUTOCOSCIENZA DELL’UNO E’ LA MENTE LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA MENTE E LA TEORIA DELL’AUTOCOSCIENZA 13 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tappa 6: PLOTINO: L’INDIVIDUALIZZAZIONE DELL’UNO E’ L’ANIMA LA MAPPA Tappa 7: IL MASSIMO DEPOTENZIAMENTO DELL’UNO E’ LA MATERIA LA MAPPA VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: L’ANIMA, ENTANGLEMENT E OLOGRAFIA Tappa 8: PLOTINO: L’UOMO E’ UN’ANIMA CADUTA LA MAPPA Tappa 9: PLOTINO: LA MASSIMA FELICITA’ E’ L’ESTASI LA MAPPA LO SCRIGNO ALEX VILENKIN: L’UNIVERSO E’ CONTRADDITTORIO X VIAGGIO – DIO PERSONA ONNIPOTENTE E AMOREVOLE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA ROTTA SU... NEOPLATONISMO ED ESISTENZIALISMO CRISTIANI VITA DI UN CAPITANO: AGOSTINO DI TAGASTE Tappa 1: AGOSTINO: LA VERITA’ E’ ILLUMINAZIONE DIVINA Tappa 2: AGOSTINO: LA CREAZIONE DEL MONDO E’ UN ATTO D’AMORE DI DIO Tappa 3: AGOSTINO: IL TEMPO E’ UNA CREAZIONE DELLA MENTE UMANA Tappa 4: AGOSTINO: IL MALE E’ COLPA DELL’UOMO Tappa 5: AGOSTINO: SOLO LA GRAZIA DIVINA CI LIBERA DAL MALE Tappa 6: AGOSTINO: LA STORIA UMANA PROCEDE VERSO LA SALVEZZA Tappa 7: AGOSTINO: LA FELICITA’ STA NELL’AMARE 14 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’ORIZZONTE MEDIOEVALE XI VIAGGIO – LA REALTA’ COSTRUZIONE RAZIONALE DI DIO CANNOCCHIALE SU… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DEL MEDIOEVO L’ORIZZONTE SCIENTIFICO DEL MEDIOEVO L’ORIZZONTE FILOSOFICO DEL MEDIOEVO MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA ROTTA SU... LA SCOLASTICA VITA DI UN CAPITANO: ANSELMO D’AOSTA Tappa 1: ANSELMO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ DIMOSTRARE VITA DI UN CAPITANO: TOMMASO D’AQUINO Tappa 2: TOMMASO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A POSTERIORI Tappa 3: TOMMASO: DIO ESISTE PER ESSENZA Tappa 4: TOMMASO: DIO HA CREATO UN COSMO AUTONOMO Tappa 5: TOMMASO: LA VERITA’ E’ ASSIMILAZIONE DELLA MENTE ALLE COSE Tappa 6: TOMMASO: LA FELICITA’ E’ LA CONTEMPLAZIONE DI DIO Tappa 7: TOMMASO: LO STATO MIGLIORE E’ UNA REPUBBLICA PRESIDENZIALE LO SCRIGNO GERARD SCHROEDER: LA NATURA POSSIEDE UN’INTELLIGENZA 15 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO: JOHANNES ECKHART Tappa 8: ECKHART: DIO E’ “QUIETE DESERTA”, OVVERO IL NULLA VITA DI UN CAPITANO: WILLIAM OF OCKHAM Tappa 9: OCKHAM: C’E’ UN ABISSO TRA DIO E IL MONDO Tappa 10: OCKHAM: GLI UNIVERSALI SONO SEGNI MENTALI E LINGUISTICI Tappa 11: OCKHAM: LA SCIENZA DEVE ESSERE PROBABILISTICA E PLURALISTICA Tappa 12: OCKHAM: LA CHIESA DEVE ESSERE COMUNITARIA E POVERA 16 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA LA REALTÀ COME ORDINE NATURALE 17 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE L’ETA’ GRECA ARCAICA (VIII-VI sec. a.C.) Dall’antichità per tradizione e oggi per convenzione, la nascita della filosofia – cioè del pensiero di tipo razionale – viene fatta coincidere con la vita e l’opera di Talete di Mileto, nato nel 626 e morto nel 548 a.C. Mileto era una città greca situata sulla costa egeica dell’Anatolia, antica Asia Minore, attuale Turchia. In altre parole, la filosofia cominciò e si sviluppò nel VI secolo a.C. in seno alla nazione greca, che però allora era stanziata non solo sul territorio dell’attuale Grecia, ma anche sulla costa egeica dell’Anatolia, nella Magna Grecia (l’attuale Sud Italia), in Sicilia, e, benché in misura minore, anche sulle coste del Mar Nero, dell’Africa settentrionale e della Francia meridionale. La civiltà greca arcaica era il prodotto finale di una serie di migrazioni – e quindi di sovrapposizioni e fusioni – di diverse popolazioni, tutte appartenenti però al ceppo linguistico indoeuropeo: i minoici, risalenti al 3600 a.C.; i micenei (gli achei dell’Iliade) insediatisi tra il 1400 e il 1200; infine i dorici, che emigrarono nell’Ellade a partire dal 1100 a.C. A queste invasioni-migrazioni, seguirono circa tre secoli di decadenza culturale, il cosiddetto medioevo ellenico (XI-IX secolo), durante i quali, però, si diffuse la tecnica di lavorazione del ferro. Già in questi secoli “medievali”, inoltre, i greci, sull’onda di una forte crescita demografica, emigrarono verso l’Est e colonizzarono progressivamente le coste occidentali dell’Anatolia. Il successivo inizio del periodo arcaico (VIII-VI secolo a.C.) fu caratterizzato politicamente dalla nascita e dalla diffusione delle poleis, cioè di un nuovo tipo di Stato. La polis non fu propriamente uno Stato cittadino. Soprattutto inizialmente, e anche successivamente nella maggior parte dei casi, la polis era un’organizzazione politica unitaria, uno Stato appunto, comprendente più villaggi e i territori rurali circostanti. Solo più tardi, e solo in alcuni casi, per esempio quello di Atene, la polis ebbe una connotazione prevalentemente urbana, benché includesse pur sempre anche aree rurali. Tuttavia, le poleis, benché in misura diversa, erano caratterizzate: da un’economia non solo agricola ma anche, e in certi casi e periodi soprattutto, commerciale e industriale; da una notevole diversificazione sociale (grandi proprietari terrieri aristocratici, contadini piccoli o medi proprietari, mercanti, artigiani, schiavi) e da una gestione collettiva del potere politico, inizialmente di tipo aristocratico, successivamente, almeno in molti casi, di tipo oligarchico e perfino democratico, anche se si trattò sempre di democrazie unicamente maschili. Tra l’VIII e il VII secolo, dalle poleis greche partirono nuove ondate migratorie dirette questa volta verso l’Ovest, cioè verso l’Italia meridionale e la Sicilia, che portarono alla fondazione di decine di nuove poleis, tutte indipendenti, ma con forti legami con le poleis da cui erano partiti i colonizzatori. In tal modo, all’inizio del VI secolo, la Grecia comprendeva: 18 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1. una parte centrale originaria, la parte meridionale della penisola balcanica; 2. una parte orientale, che includeva le coste anatoliche del Mar Egeo, le coste del Mar Nero, Creta e un breve tratto della costa mediterranea africana; 3. una parte occidentale, che andava dalla Sicilia, all’Italia meridionale, alla costa mediterranea dell’attuale Francia. Ma a metà del VI secolo, l’espansione della civiltà greca subì una battuta d’arresto e i greci rischiarono anzi di perdere la loro indipendenza. In Oriente, infatti, era in corso un’altra potente espansione culturale e politica, quella dell’impero persiano, che dal 546 a.C. riuscì a sottomettere le colonie ioniche dell’Asia minore. Mezzo secolo dopo, però, nel 499, le colonie ioniche si ribellarono al dominio persiano e trovarono il sostegno della polis di Atene, che, dopo la tirannide di Pisistrato, con la riforma di Clistene (509-507) aveva dato avvio a un processo di democratizzazione. Così, nella prima metà del V secolo, scoppiarono e si svolsero le guerre persiane (490-478) nel corso delle quali le maggiori poleis greche (alcune poleis si accordarono con i persiani) si allearono sotto la guida di Atene e Sparta e riuscirono a sconfiggere e ricacciare indietro la grande potenza persiana. Favorita dal ritiro finale e dall’isolazionismo di Sparta, non disposta a garantire la difesa militare anche delle colonie ioniche, Atene emerse dalle guerre persiane come la polis dominante e con la costituzione della Lega di Delo (478) impose la propria egemonia imperialistica sulle poleis situate sulle coste occidentale e orientale dell’Egeo. I Greci, dunque, erano stanziati su un’ampia parte del bacino del Mediterraneo ed erano politicamente divisi in una miriade di poleis indipendenti. Tuttavia, i Greci, pur non facendo parte di un unico Stato, costituivano una nazione, cioè una popolazione omogenea per lingua, costumi, tradizioni storico-culturali. Per quanto riguarda queste ultime, una particolare importanza rivestiva la religione, sebbene fosse tutt’altro che unica e uniforme. I Greci, infatti, praticavano due culti religiosi diversi, benché compatibili e progressivamente integrati tra loro: 1) quello ufficiale degli dei olimpici o celesti (Zeus, Atena, Apollo, Era, Afrodite, ecc.), di origine dorica e strettamente legato all’aristocrazia, o comunque alla classe dominante e dirigente, e dunque alla gestione del potere e allo svolgimento della vita politica delle poleis; 2) quello spontaneo degli dei terreni o agresti (Demetra, Persefone o Core, Dioniso), retaggio delle civiltà elleniche predoriche, legato prevalentemente alla popolazione contadina, e dunque alla vita agricola delle campagne; un culto spesso caratterizzato da rituali basati su travestimenti, danze sfrenate, stati d’ebbrezza alcolica, rapporti sessuali orgiastici, ma anche dai “misteri”, riti che dovevano essere tenuti segreti (di qui il nome) durante i quali ai fedeli erano svelate, spesso con rappresentazioni mimico-teatrali, verità relative alla vita individuale successiva alla morte. 19 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In effetti, a livello dottrinale, la principale differenza tra le due tradizioni religiose greche concerneva proprio il destino umano post mortem: per la religione olimpica, dopo la morte, sopravviveva soltanto un’ombra dell’individuo nell’Ade, una sorta di mondo sotterraneo, in una condizione tutt’altro che felice; invece, per la religione agreste dopo la morte l’anima individuale era destinata a una seconda vita più felice della prima. A questo dualismo, va poi aggiunto che ogni polis aveva una propria divinità privilegiata differente da quelle venerate dalle altre. Ciononostante i Greci si riconobbero gradualmente in un comune pantheon, composto dall’insieme di tutte le diverse divinità venerate nelle varie poleis, giungendo anche a integrare dei celesti e dei terreni, come è attestato dall’introduzione ad Atene nel VI secolo delle feste dionisie nei cerimoniali ufficiali della polis. In tal modo emersero dei templi comuni a tutti i Greci, come quello di Apollo a Delfi, quello di Zeus a Olimpia, quello di Demetra a Eleusi. Inoltre, a partire dal 776 a.C. a Olimpia ogni quattro anni si svolgevano i Giochi olimpici, cerimonia religiosa in onore di Zeus, cui partecipavano atleti di ogni polis greca. Per completare il quadro della religiosità greca, però, alle due principali tradizioni religiose, quella celeste e quella terrestre, va aggiunto un movimento religioso particolare, di origini orientali: l’orfismo, che prese il nome dal leggendario cantore Orfeo, il protagonista del famoso mito di Orfeo ed Euridice. Come la religione demetro-dionisiaca, la religione orfica puntava alla salvezza individuale dopo la morte, ma diversamente da quella per l’orfismo l’obiettivo poteva essere conseguito soltanto seguendo rigorose prescrizioni comportamentali di tipo ascetico. In particolare, la dottrina orfica sosteneva che la natura umana originaria è divina, immateriale e immortale, che l’uomo è diventato corporeo e mortale per punizione di una colpa commessa e che la sua missione è purificarsi dalla fisicità per riconquistare la propria condizione divina originaria. L’altra grande sorgente della cultura greca, benché fortemente intrecciata con quella religiosa, era costituita dalla tradizione artistica, quella poetico-letteraria, che includeva anche la musica (la musica greca era tutt’uno con la poesia), e quella delle arti plastiche (scultura, pittura, architettura). Tutta la produzione artistica greca affondava le sue radici in un sostrato comune, quello dell’antico patrimonio mitico, costituito da miriadi di racconti, molti dei quali in diverse versioni a seconda delle comunità e dei tempi. I miti greci, la cui origine si perde nella notte dei tempi, erano il frutto dell’inventiva popolare, erano stati tramandati e arricchiti oralmente per secoli dagli aedi – cantori professionisti che si accompagnavano con la cetra – ed erano imperniati sulle relazioni tra le divinità, tra gli uomini e tra le divinità e gli uomini. L’ingente e variegato patrimonio mitico greco orale confluì, a partire forse dall’VIII secolo a. C. (ma per alcuni studiosi addirittura dall’XI), in tre principali filoni letterari: a) nei poemi Iliade e Odissea, attribuiti all’aedo Omero; b) nei poemi Teogonia e Opere e giorni del poeta Esiodo (VII secolo a.C.); 20 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE c) nelle poesie liriche (così chiamate perché cantate accompagnata dal suono della lira, una cetra di dimensioni più piccole) di numerosi poeti (Alceo, Saffo, Pindaro, ecc.) vissuti nei secoli VII e VI a.C. Furono soprattutto i grandi poemi di Omero e Esiodo a contribuire alla formazione della cultura greca arcaica. I personaggi di questi poemi, e i loro comportamenti, infatti, costituirono per i Greci successivi altrettanti modelli da imitare, ovvero un vero e proprio repertorio di valori e regole etiche. In questo senso, anche la tradizione poetico-letteraria greca presentava un dualismo corrispondente a quello religioso tra religiosità celeste e religiosità terrena. I poemi omerici rappresentavano e propagandavano un modello aristocratico di uomo – il guerriero-eroe, l’individuo superiore – basato sui valori della forza, dell’onore e dell’orgoglio (soprattutto nell’Iliade) cui però si aggiungevano (soprattutto nell’Odissea) quelli dell’intelligenza e della capacità di parlare in modo persuasivo (vedi l’episodio di Odisseo e Polifemo), nonché quelli “pacifici” dell’amministrazione dell’economia domestica e della gestione dei rapporti familiari (vedi il ritorno di Odisseo a Itaca). Al contrario, i poemi esioidei riflettevano e diffondevano un modello contadino d’uomo – il piccolo/medio proprietario terriero, l’uomo comune – offrendo, da un lato, una sintesi organica e completa dei miti Greci – ovvero una visione/spiegazione mitologica complessiva della natura e dei suoi principi divini – e, dall’altro, una nuova tavola dei valori, incentrata sul principio egualitario della giustizia (dìke). A sua volta la poesia lirica, più tarda, e composta per essere cantata nelle cerimonie ufficiali delle poleis, veicolava i valori sociali connessi alla loro nascita e al loro sviluppo, e di conseguenza tradusse il valore cosmico della giustizia in quelli politici della legge (nòmos) e del buon governo (eunomìa). Pari importanza rispetto all’arte letteraria ebbe quella plastico-architettonica. Già negli ultimi secoli del Medioevo ellenico, l’arte scultorea e pittorica greca si caratterizzò per lo stile geometrico presente sia nelle forme dei vasi o delle anfore sia nei loro disegni ornamentali. All’inizio dell’età arcaica (VII secolo a.C.) l’arte plastica greca subì l’influenza delle tradizioni artistiche orientali egiziana, cipriota, siro-palestinese, diventando più naturalistica e cominciando così a rappresentare anche fiori, animali, uomini e divinità antropomorfe. A metà del VII sec. iniziò a diffondersi anche la rappresentazione di episodi mitologici, e così anche le arti plastiche contribuirono alla trasmissione dell’antica tradizione mitologica. Tuttavia, l’arte greca mantenne la sua originaria impronta geometrica, in quanto le nuove raffigurazione naturalistiche e antropomorfiche, a differenza dei loro modelli orientali, furono caratterizzate da un maggior ordine compositivo e dalla ricerca delle proporzioni tra le parti. Lo stesso criterio fu applicato all’arte architettonica, realizzata soprattutto nella edificazione dei templi, i quali nello 21 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE stesso periodo, per l’influenza orientale, cominciarono a essere monumentalizzati, ovvero ad assumere dimensioni e forme maggiori e differenziate rispetto agli edifici abitativi. Nel VI secolo a.C. le tendenze della seconda metà del VII si radicalizzarono: le raffigurazioni umane, sia maschili sia femminili, sia scultoree sia pittoriche, aumentarono di numero e allo stesso tempo assunsero forme sempre più realistiche e più morbide; si moltiplicarono le rappresentazioni pittoriche e scultoree di scene mitologiche, fino a dar luogo a vere e proprie narrazioni plastiche; l’architettura templare si fece sempre più monumentale e assunse i due elementi fondamentali della trabeazione e della colonna. Tuttavia, la matrice geometrica dell’arte greca si conservò nei principi di equilibrio, simmetria, proporzione e armonia che innervarono l’arte greca del periodo arcaico. In questo senso l’arte greca arcaica riflesse e al tempo stesso diffuse il nuovo modello di uomo che si stava affermando nelle poleis, un uomo meno eroico-divino, più “normale”, addirittura uguale agli altri. Si trattava di un’eguaglianza non di capacità naturali e nemmeno di tipo economico, ma giuridica, detta isonomìa, che letteralmente significa “uguale legge”. In altre parole, i Greci si considerarono uguali perché tutti, in quanto membri della polis, erano soggetti alle stesse leggi, senza alcuna discriminazione. Questa nuova autoconcezione dell’uomo greco si forgiò anche e forse soprattutto nelle frequenti guerre tra poleis rivali, in particolare grazie alla nuova tecnica bellica basata sulla falange oplitica, che esigeva la massima collaborazione e la massima disciplina collettive, niente a che vedere con le azioni militari impulsive e individualistiche degli antichi guerrieri aristocratici (quelli dell’Iliade, per intenderci). Riguardo all’isonomìa dei Greci, va però ribadito che, anche nel migliore dei casi, cioè nelle poleis democratiche, essa valeva solo per i maschi adulti originari della polis, il che significa che escludeva le donne, i minorenni, gli stranieri e soprattutto gli schiavi. Seppur limitatamente a una élite intellettuale, la cultura greca dell’età arcaica è caratterizzata anche da una tradizione scientifica importata dalle grandi civiltà antiche del Medio Oriente (Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia). In questo senso, non va dimenticato, innanzitutto, che anche l’alfabeto greco, ovvero il “greco scritto”, era nato dall’importazione di quello fenicio con l’aggiunta originale di segni/lettere delle vocali (che nel fenicio non esistevano). I Greci da secoli commerciavano, e in modo via via sempre più intenso, con il Medio Oriente, e, come sempre nella storia, gli scambi commerciali si intrecciavano agli scambi culturali. Oltre a “importare” l’alfabeto fenicio, i Greci importarono anche il patrimonio di conoscenze “scientifiche” delle civiltà mediorientali: osservazioni, nozioni, tecniche e principi di tipo astronomico, matematico e medico. Una particolare importanza rivestì l’importazione della tecnica di ragionamento chiamata “dimostrazione per assurdo”, che può essere considerata la matrice del metodo argomentativo/dimostrativo il quale, come vedremo, è lo strumento fondamentale delle scienze e della filosofia (teniamo presente che, nell’antichità, ma ancora almeno fino al XVI 22 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE secolo, le scienze erano concepite e praticate come ricerche particolari all’interno della filosofia). Come nel caso dell’alfabeto, però, fin dall’inizio e soprattutto a partire dal VI secolo, gli intellettuali greci (che cominciarono a chiamarsi e a essere chiamati “filosofi”) svilupparono in modo originale e potenziarono il patrimonio di conoscenze scientifiche ereditato dai popoli del Medio Oriente. 23 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia , perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Infatti gli uomini, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia attraverso la meraviglia. Da principio esercitarono la meraviglia sulle difficoltà che avevano a portata di mano; poi, progredendo così poco alla volta, arrivarono a porsi questioni intorno a cose più grandi, per esempio su ciò che accade alla Luna, al Sole e agli astri e sulla nascita del tutto. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere; perciò anche colui che ama i miti è in una certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia. Sicché, se gli uomini filosofarono per fuggire l’ignoranza, è evidente che cercarono il sapere per il conoscere, e non per trarne un utile. Ne è prova ciò che è accaduto: infatti quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza. E’ chiaro dunque che noi non cerchiamo questo sapere per nessun altro uso, ma come dell’uomo diciamo che è libero quando esiste per se stesso e non per un altro uomo, così cerchiamo questa scienza come quella che è l’unica tra le scienze a essere libera, perché è l’unica che ha come fine se stessa. Perciò giustamente si potrebbe pensare che il possesso di essa non è umano, perché in molti sensi la natura dell’uomo è serva, sicché, secondo Simonide1, “Dio soltanto avrebbe questo privilegio”. […] Come abbiamo detto, tutti gli uomini incominciano con il meravigliarsi che le cose sono come sono, per esempio a proposito degli automi che si muovono da sé, o dei solstizi o dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato (del fatto che non esiste un’unità così piccola con la quale si possa misurare la diagonale e il lato, si meravigliano soltanto quelli che non ne hanno mai considerata la causa). Ma bisogna arrivare al contrario della meraviglia iniziale, e, come dice il proverbio, a ciò che è migliore. Del resto così avviene nei casi citati, quando si è imparato: infatti la cosa che più meraviglierebbe un uomo che conoscesse la geometria sarebbe proprio la commensurabilità del lato e della diagonale. Aristotele, Metafisica, I, 2-5, a cura di C.A. Viano, UTET Da dove infatti tutte le cose traggono origine, là trovano la loro distruzione secondo necessità: poiché esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. Anassimandro, frammento DK 12 B 1 1 Poeta greco vissuto tra il VI e il V secolo a.C. 24 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE I VIAGGIO L’ORDINE COME PRINCIPIO FISICO UNICO 25 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… I COSMOLOGI MONISTI Occorre prima di tutto un’avvertenza generale. Di tutti i filosofi greci antecedenti a Platone non ci è pervenuta alcuna opera, ma solo frammenti – più o meno numerosi e significativi a seconda dei casi – e testimonianze indirette di filosofi, cronisti o storici della filosofia successivi. Pertanto il loro pensiero è una ricostruzione affinata nel tempo, il più possibile completa, fedele e sorvegliata, ma pur sempre ipotetica e non esaustiva. Filosofia deriva dall’unione di due termini greci: philòs e sophìa, che rispettivamente significano amore e conoscenza. Dunque, letteralmente filosofia significa amore della conoscenza. Ma ciò che si ama lo si cerca. Pertanto, possiamo meglio tradurre filosofia con ricerca della conoscenza. All’inizio, e fino almeno al XVI secolo, la filosofia è strettamente legata a quelle ricerche conoscitive che oggi chiamiamo “scienze” (i Greci per “scienza” intendevano “conoscenza” nel senso forte di conoscenza vera). Nell’antichità esse si differenziano dalla filosofia perché la filosofia è considerata ricerca conoscitiva della realtà nel suo insieme, cioè nella sua totalità; mentre le scienze sono considerate ricerche conoscitive di settori particolare della realtà (l’astronomia dei corpi celesti e dei loro moti, la meteorologia dei fenomeni atmosferici terrestri, la fisica dei moti terrestri, la biologia degli esseri viventi terrestri, ecc.). In tal senso filosofia e scienze, nell’antichità, si praticano insieme, e, seppur in misure e modi diversi, i filosofi sono anche scienziati e gli scienziati anche filosofi. La nascita, almeno ufficiale, della filosofia è tradizionalmente individuata nel pensiero di un intellettuale di nome Taléte, nato e vissuto a Mileto tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. Sempre la tradizione storiografica ci ha tramandato che Talete avrebbe avuto un discepolo, Anassimàndro, e questo a sua volta un altro discepolo, Anassìmene. Questi tre filosofi vengono pertanto considerati altrettanti esponenti di un’unica “scuola”, cioè di una corrente di pensiero omogenea, detta “scuola di Mileto”. Ciò significa che Talete, Anassimandro e Anassimene, benché abbiano elaborato filosofie originali e differenti, condividono una medesima impostazione di fondo, una stessa visione complessiva della realtà. Per tutti e tre, innanzitutto, la realtà, ossia tutto ciò che esiste, è solo fisica, ovvero materiale, e quindi sensibile, cioè conoscibile solo a partire dei nostri cinque sensi. In secondo luogo, la realtà è “natura” (in greco physis, da cui fisica), ovvero qualcosa che nasce (“natura” viene dal latino nascor/natus) e quindi muore. Ciò implica che la realtà è concepita dai filosofi di Mileto come materia vivente, come vita. Questa concezione della materia è tradizionalmente denominata “ilozoismo” (dal greco hyle=materia e zóion=essere vivente), ma possiamo anche chiamarla “organicismo”, riferendoci alla differenza attuale tra natura meccanica e natura organica (o vivente o biologica). Oggi, però, consideriamo natura organica solo gli esseri vegetali e animali, non quelli minerali. I filosofi di Mileto, invece, ritenevano che i minerali fossero dei viventi con un basso grado di vitalità, basandosi forse sulla considerazione che gli esseri viventi presentano 26 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE diversi gradi di vitalità (p.e., i vegetali sono meno vitali degli animali) e su alcuni fenomeni magnetici (la calamita che attrae schegge di ferro) ed elettrici (l’ambra che attrae i capelli) che erano creduti altrettante manifestazioni della forza vitale. In terzo luogo, e soprattutto, la realtà fisica per tutti e tre i filosofi di Mileto è ordinata, costituisce un ordine. In greco antico ordine si diceva còsmos, ossia cosmo, parola che poi è diventata sinonimo di universo. In questo doppio senso, i primi filosofi sono chiamati, oltre che “fisici” (da physis=natura), “cosmologi”. La loro tesi fondamentale – la realtà è còsmos, cioè ordine – costituisce il presupposto necessario della filosofia e delle scienze (astronomia, matematica, fisica, medicina, ecc.). La filosofia e le scienze, infatti, consistono proprio nella ricerca conoscitiva dell’ordine della realtà, in quanto questa si presenta immediatamente disordinata, apparentemente priva di qualsiasi ordine. Per i milesii cercare l’ordine della realtà fisica significa individuare il suo “principio” (arché in greco) unico: la sua scaturigine, ovvero la sua causa prima, la sostanza di cui è fatta, la legge che la governa. Talete, Anassimandro e Anassimene qualificano in tre modi diversi il principio – rispettivamente, come Acqua, come Illimitato e come Soffio (aria che si muove) – ma per tutti e tre esso è ciò che dà l’esistenza a ogni cosa (cioè che fa essere la realtà fisica, che la rende reale) proprio in quanto la ordina. E la ordina in quanto, essendo unico, la unifica, ne costituisce cioè il denominatore comune al di là delle innumerevoli differenze. Ma per cercare occorre uno strumento. Lo strumento della ricerca conoscitiva è il “metodo” razionale, ossia argomentativo: una procedura logico-linguistica in base alla quale ogni conoscenza che ambisca a (im)porsi come vera, cioè come un’effettiva descrizione/spiegazione della realtà, deve essere giustificata/provata con uno o più argomenti, in modo tale che possa essere controllata e messa alla prova da tutti ed eventualmente criticata e cambiata. In altre parole, la proprietà decisiva del metodo razionale (o razionalità o ragione), proprio della filosofia e delle scienze, è quello di essere criticabile, è la criticabilità, perché la criticabilità permette di perfezionare le conoscenze, cioè di renderle sempre più vere. Il valore della scienza contemporanea sta essenzialmente nella sua capacità di cambiare, di innovarsi continuamente, perché è grazie a questa capacità che godiamo di un progresso scientifico, cioè che la nostra conoscenza della realtà si amplia e si approfondisce. A sua volta la criticabilità implica la discussione e quest’ultima l’esistenza di una comunità di intellettuali in comunicazione tra loro. Quindi il metodo razionale/argomentativo è anche un metodo dialogico o dibattimentale. Come vedremo, però, il metodo razionale o argomentativo – ovvero la ragione o razionalità – può essere concepito e praticato in modo diversi. In questo senso, la filosofia e le scienze sono anche ricerca e dibattito critico intorno a quale sia il metodo razionale migliore per cercare, e possibilmente trovare, la conoscenza della realtà, cioè il suo ordine nascosto. 27 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE La culla della filosofia occidentale fu la Grecia del VII-VI secolo a.C. e in particolare la città di Mileto, sulle coste egee dell’attuale Turchia, che allora faceva parte delle colonie ioniche in Anatolia, ovvero della parte più orientale della nazione greca. Le colonie ionicoanatoliche, e soprattutto Mileto, erano città commerciali, floride e all’avanguardia per mentalità e costumi, in stretto rapporto economico e culturale con le civiltà mediorientali: Fenici, Egiziani, Babilonesi, Israeliti, Persiani. Fu a Mileto che nacque e visse Talete (640-550 c.ca), di origine fenicia (come il greco scritto), che la tradizione considera il primo filosofo, ovvero il fondatore dell’impresa filosofica. Questo suo primato e la distanza temporale lo hanno avvolto in un’aura leggendaria – egli era considerato uno dei mitici Sette Sapienti dell’antica Grecia – che ci impone di dubitare di almeno alcune delle informazioni che ci sono state tramandate sulla sua vita. Per esempio, che viaggiò in Egitto (che per i Greci era il Paese dei sapienti), dove avrebbe calcolato l’altezza delle piramidi in base alla proporzionalità con le loro ombre), e in Mesopotamia (un altro Paese di sapienti per i Greci antichi). Queste notizie si connettono alla sua attività di matematico: gli sono attribuiti 3 teoremi relativi ai triangoli, alle rette parallele e alla circonferenza. Platone, nel dialogo Teeteto, riporta un anedotto allegorico della sua vita: camminando all’aperto con gli occhi fissi al cielo, cioè immerso nello studio degli astri, non vide una grande buca e vi ci cadde dentro, suscitando le fragorose risate di scherno di una sua serva tracia (i traci erano considerati ignoranti e rozzi). Il significato allegorico dell’aneddotto è chiaro: il filosofo è un uomo “con la testa tra le nuvole”, cioè un uomo dedito alla “theorìa” (in greco, contemplazione, cioè osservazione concentrata), disinteressato alla realtà immediata e, pertanto, poco o per niente pratico e quindi incompreso e dileggiato dalla gente comune. Aristotele, invece, ci riporta un episodio di tenore diverso, se non opposto, della vita di Talete: osservando gli astri e gli eventi meteorologici, Talete predisse un’eccezionale raccolta di olive, affittò tutti i frantoi di Mileto e, dopo il raccolto, impose un prezzo altissimo ai contadini per il loro uso, arricchendosi incredibilmente. Forse fu da Talete che il termine “speculazione” (dal termine latino che traduce il greco “theorìa”), che inizialmente significava “pensiero astratto”, assunse il secondo significato di operazione economica che consegue alti guadagni. Scherzi a parte, l’episodio raccontato da Aristotele attesta che il filosofo è capace di sfruttare utilitaristicamente la sua conoscenza e pertanto sa essere più pratico degli uomini comuni. In questo senso, ci è stato anche tramandato che Talete avrebbe permesso all’esercito di Creso, re della Lidia, di guadare un fiume facendo costruire un canale che, dividendone le acque, ne dimezzava la profondità e la corrente. Infine, sappiamo anche che Talete previde l’eclissi solare del 585 (che aveva a tal punto atterrito Lidi e Medi da far loro sospendere una battaglia). Ma Talete non si limitò alle previsioni astronomiche. Previde 28 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE infatti anche l’espansionismo persiano e consigliò le poleis ioniche (quelle dell’Asia Minore e dell’Attica) di prevenirlo costituendo una lega politico-militare. Quanto alle relazioni personali di Talete, non ci è invece stato tramandato un granché: visse da solitario e non si sposò, ma adottò il figlio di una sorella. Alla madre che lo sollecitava a sposarsi e ad avere figli, da giovane avrebbe risposto che c’era ancora tempo, dopo una certa età, che era ormai troppo tardi. Secondo altri, non avrebbe voluto generare figli per effettivo amore paterno. Allievo di Talete e suo successore fu Anassimandro (610-545 c.ca), nativo di Mileto. Della sua vita sappiamo molto poco. Ci è stato tramandato che mentre cantava fu deriso da dei bambini e allora esclamò che avrebbe dovuto cantare ancora meglio per farsi apprezzare anche dai bambini. L’aneddotto si può interpretare come un’allegoria dell’impegno del filosofo a farsi comprendere anche dai più ignoranti utilizzando uno stile comunicativo accattivante. In questo senso, esso si può collegare al fatto che Anassimandro fu il primo filosofo che espose per scritto la sua filosofia (anche in seguito da alcuni filosofi la filosofia fu identificata con il discorso orale) adottando, inoltre, una forma poetica. Gli si attribuisce, infatti, un poema filosofico intitolato Sulla natura, di cui ci è pervenuto un solo frammento: “Da dove infatti tutte le cose traggono origine, là trovano la loro distruzione secondo necessità: poiché esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. A livello scientifico gli sono stati attribuiti la determinazione dei solstizi e degli equinozi, una teoria della generazione degli astri e una teoria evoluzionistica dell’origine della specie umana. Ci è stato tramandato che previde un terremoto a Sparta e che fece evacuare la città prima che esso si verificasse, salvando molte vite umane. Anassimandro fu anche tecnico: costruì uno gnomone, cioè uno strumento per misurare il moto apparente di rivoluzione annuale del Sole, e un orologio solare e inoltre disegnò una carta geografica della Terra. Discepolo e successore di Anassimandro, e ultimo filosofo della scuola di Mileto, fu Anassìmene (588-528), della cui vita sappiamo ancora meno che di quella del suo maestro. Anch’egli nativo di Mileto, espose la sua filosofia nell’opera Sulla natura, scritta però in prosa, cioè in uno stile più semplice e accessibile. Di questa opera ci resta un unico frammento: “Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero”. A livello scientifico, Anassìmene si occupò di meteorologia, cioè studiò le nuvole, le precipitazioni atmosferiche, il regime dei venti e l’arcobaleno. Tutti i filosofi di Mileto, inoltre, ebbero importanti incarichi di governo nella loro città. 29 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 TALETE: L’ACQUA E’ NATURA DI TUTTE LE COSE Talete, iniziatore di questo tipo2 di filosofia, dice che il principio è l’acqua (per questo afferma anche che la terra galleggia sull’acqua) desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che tutti i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide. Aristotele, Metafisica, I, 3, 983 b 20-27 Ogni tesi filosofica deriva dalla scoperta di un problema La tradizione ci riporta la tesi fondamentale di Talete: L’acqua è la “natura” di tutte le cose. Ma saremmo superficiali se pensassimo che questa tesi sia stata il primo vagito della filosofia. Ogni tesi infatti presuppone una domanda, ogni soluzione un problema. La filosofia è innanzitutto capacità di vedere, e quindi porsi, un problema. Di conseguenza è plausibile congetturare che Talete inaugurò l’impresa filosofica innanzitutto chiedendosi: Qual è l’origine di tutte le cose? Di primo acchitto questa domanda può sembrare scontata e poco interessante. Ma non è così. Infatti, in generale, le grandi scoperte della filosofia e delle scienze sono nate da chi ha saputo vedere e porsi problemi originali che altri non hanno saputo vedere e porsi. Se porsi un problema nuovo non implica necessariamente riuscire a risolverlo, di certo aver risolto un problema implica aver saputo rilevarlo o, quanto meno, ben impostarlo. 2 Quella che assume che la realtà sia physis (natura) e che lo scopo della filosofia sia trovare la causa naturale di tutte le cose. 30 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La filosofia ricerca la causa unica di tutte le cose La risposta, infatti, dipende dalla domanda, ossia, per l’appunto, la soluzione di un problema è strettamente legata al modo in cui il problema viene posto. In questo senso, la domanda di Talete contiene già due caratteri costitutivi della filosofia: a) il riferimento a “tutte le cose”, ossia la ricerca della totalità o dell’intero: la filosofia è tale perché punta a conoscere cos’è la realtà nel suo insieme e nella sua unità, non solo una sua parte o un suo aspetto, p.e. il cielo stellato o la luce; b) il carattere neutro, impersonale, del soggetto: “qual è l’origine?” anziché “chi ha dato origine?”, il che indica la rottura con la sapienza mitico-religiosa la quale partiva da quest’ultima domanda e quindi rispondeva rimandando a una o più divinità personali, p.e. Gaia e Urano, oppure Oceano e Teti. L’acqua come origine, ingrediente e regola di tutte le cose Chiarito questo, possiamo rivolgere la nostra attenzione alla tesi, cioè alla risposta/soluzione che Talete diede alla sua domanda/problema: L’acqua è la “natura” di tutte le cose. Affermando che l’acqua è la “natura” di tutte le cose, Talete stabilisce implicitamente una distinzione fondamentale tra: • la molteplicità degli enti naturali che nascono e muoiono, p.e. i fiori, gli animali, le montagne; • un elemento eterno, cioè che non nasce né muore, appunto l’acqua, che è il fondamento unitario di tutti gli enti naturali. Ma cosa intende per “natura” Talete? Per rispondere, bisogna innanzitutto dire che il termine italiano “natura” deriva dal latino n a t u r a (traduzione del greco physis=generazione, da cui “fisica”), legato al verbo nascor, che significava la realtà fisica in quanto composta da esseri che nascono e quindi mutano e muoiono. Nell’italiano corrente “natura” indica la realtà materiale non prodotta dall’attività umana. Ma ancora oggi usiamo “natura” anche per significare la costituzione fondamentale, ovvero l’identità profonda, di qualcosa, come nelle espressioni: • “non è nella tua natura comportarsi così”; • “abbaiare fa parte della natura del cane”. Talete usa “natura” (physis ) in quest’ultima accezione. Più precisamente, assumendo che la “natura” è la costituzione fondamentale di tutte le cose, Talete vuol dire che l’acqua è: a) ciò che dà origine a tutte le cose, che le genera, ossia le fa esistere; 31 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE b) l’ingrediente di base delle diverse sostanze materiali (legno, ferro, roccia, ecc.) di cui sono fatte tutte le cose, nel senso che tutte le altre sostanze sono trasformazioni dell’acqua; c) ciò che regola la crescita, la trasformazione e la dissoluzione di tutte le cose. Una spiegazione fisica e laica, alternativa a quella mitico-religiosa In questo modo, grazie alla sua ricerca filosofica, Talete arriva a dare una risposta alla sua domanda iniziale. Egli afferma di aver scoperto che la natura di tutte le cose è l’acqua. Questa è la prima tesi conoscitiva conseguita dalla filosofia. Si tratta di una tesi rivoluzionaria. Infatti, prima di Talete, in base alla conoscenza mitico-religiosa tradizionale, si pensava che il mondo fisico fosse stato generato e fosse governato da una pluralità di divinità (Gea, Urano, Crono, Zeus, Poseidone, ecc.). Talete invece afferma che la causa prima dell’universo è una sola e che inoltre non è un dio personale ma è un elemento naturale, del tutto impersonale, l’acqua appunto. L’invenzione dell’argomentazione razionale Ma Talete introduce anche una seconda innovazione rivoluzionaria. La conoscenza miticoreligiosa descriveva l’esistenza e le azioni delle divinità in base all’immaginazione e in forma narrativa (mythos=parola, racconto). Talete invece arriva a scoprire che la natura di tutto è l’acqua attraverso il ragionamento ed espone la sua scoperta utilizzando la forma dell’argomentazione razionale. Il ragionamento, o argomentazione razionale, è un procedimento del pensiero e, insieme, del linguaggio che consiste nel collegare logicamente più fatti/concetti/parole in modo da giungere a una conclusione che ha la pretesa di essere veritiera, cioè di dover essere condivisa da tutti. Talete ha “inventato” il metodo dell’argomentazione razionale, forse anche sulla base della sua ricerca e delle sue scoperte in campo matematico, che egli considerava un settore della filosofia. Infatti l’argomentazione è il corrispettivo nel linguaggio verbale della dimostrazione matematica, la quale a sua volta è un’argomentazione che utilizza i simboli logici e quantitativi propri del linguaggio matematico. Le argomentazioni dell’acqua come “natura” di tutte le cose Nei limiti di quello che ci è stato tramandato, sono tre le argomentazioni razionali elaborate da Talete per scoprire e sostenere la tesi “la natura di tutto è l’acqua”: 32 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE a) la Terra (intesa sia come terraferma sia come astro) galleggia sull’acqua, cioè è sostenuta - e quindi non precipita ma è stabile e vivibile - grazie all’acqua; b) l’acqua è ciò che nutre - cioè mantiene in vita - tutte le cose (sottintendendo che tutte le cose che esistono, in un modo o in un altro, si alimentano, cioè traggono dall’esterno ciò che è necessario alla loro esistenza); c) l’acqua è il componente principale ed essenziale dei semi che a loro volta sono i numerosi e diversificati composti (seme vegetale, spermatozoo, ovulo, germi cristallini, ecc.) che generano ogni cosa. Il modello fisico-empiristico della razionalità Con queste tre argomentazioni, Talete dà inizio alla filosofia come conoscenza “razionale”, cioè come conoscenza basata sulla “ragione”. Ma cosa si intende per “ragione”? In quanto primo filosofo, Talete ha elaborato la prima concezione della ragione, ovvero di ciò che i Greci chiamavano l ò g o s (parola/discorso collegato, a differenza di mythos=parola/discorso slegato, senza vincoli, libero). La ragione è dunque, in prima battuta, il pensiero/discorso in quanto usa il metodo dell’argomentazione. Ma le tre argomentazioni di Talete hanno il loro punto di partenza nell’osservazione della realtà basata sull’uso dei sensi (vista, udito, odorato, gusto, tatto), cioè sulla “esperienza sensibile”. Dunque, in seconda istanza, la ragione per Talete è l’argomentazione che si fonda sull’esperienza sensibile. A sua volta tale tipo di argomentazione conduce a riconoscere come reali, davvero esistenti, e quindi veri, solo elementi naturali, cioè fisico-materiali. Quindi, in terzo luogo, la ragione per Talete è l’argomentazione che, fondandosi sull’esperienza sensibile, arriva alla conclusione che la realtà ha una natura fisico-materiale. Questa conclusione ha la pretesa di essere vera, cioè di dover essere condivisa da tutti gli uomini, in quanto alla ragione, basata sull’argomentazione a partire dai sensi, è attribuita la capacità di rispecchiare la realtà fisica, cioè di conoscere ciò che davvero è, ossia l’ordine cosmico e il suo principio fondamentale (ciò che dà ordine), l’acqua. Ma questa pretesa può essere contestata. Infatti proprio l’essenza del metodo argomentativo – esporre chiaramente le motivazioni delle proprie opinioni – rende possibile la verifica e quindi la contestazione di una tesi. In conclusione, la ragione è anche, e soprattutto, quella forma di pensiero/discorso che permette a tutti di mettere alla prova, criticare e discutere le opinioni di ognuno in modo da poter stabilire se e quanto sono effettivamente veritiere. A partire da Talete, la storia della filosofia è un’interminabile e avvincente discussione critica. 33 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 ANASSIMANDRO: IL PRINCIPIO È ILLIMITATO Tutte le cose sono o principio o dal principio: e dell’Illimitato non c’è principio, perché avrebbe un limite. Poi, come principio, è ingenerato e imperituro: perché ciò che è generato deve avere una fine, e la fine è propria di ogni dissolvimento. Perciò, noi diciamo, di esso non può esserci principio, ma esso sembra essere principio delle altre cose, e abbracciarle tutte e tutte reggerle […]. Aristotele, Fisica, III, 4, 203 b 6 Anassimandro riformula il problema da cui parte Talete, e con lui la filosofia. Egli infatti si chiede: Qual è il “principio” (arché) di tutte le cose? E’ lo stesso Anassimandro a coniare il significato filosofico del termine “principio”, scegliendo per esprimerlo il termine greco archè (dal greco archèin=“essere primo, essere capo, comandare”) attribuendogli queste accezioni: 1. inizio, origine (p.e.: “in principio c’era il Caos”, “questo è solo il principio”); 2. matrice, causa prima di qualcosa (“il principio da cui è tratta questa tesi”, “la scintilla è il principio del fuoco”); 3. l’elemento costitutivo di qualcosa (“il perborato è principio attivo del detersivo”); 4. regola, legge (“è un uomo di principi”, “non hai rispettato il principio di non contraddizione”, “gli uomini agiscono in base al principio del piacere”). In questo modo Anassimandro distingue, e quindi chiarisce meglio, i molti significati con cui Talete aveva usato il termine “natura”: attribuendo una parte di essi al termine “principio”, Anassimandro lascia al termine “natura” il significato con il quale da allora in poi sarà usato in filosofia, quello di “insieme delle cose fisiche o materiali in quanto vengono generate, cambiano, si muovono, generano a loro volta e si dissolvono”. 34 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Per Anassimandro il principio (archè) della natura è l’“Illimitato” (àpeiron). Con questa parola Anassimandro intende: 1. sia l’indefinitezza qualitativa, cioè qualcosa di indeterminato, che è privo di forma e caratteristiche precise. 2. sia l’infinitezza quantitativa, cioè qualcosa che possiede una vastità e una durata senza fine. Tradizionalmente, l’Illimitato è stato interpretato, per lo più, come una via di mezzo tra aria e fuoco. Recentemente, in base a nuove indagini etimologiche, si è avanzata l’ipotesi che per Anassimandro consistesse in una sorta di fango, cioè in un misto di acqua e terra. Di certo si tratta di qualcosa che, in quanto “misto”, si differenzia radicalmente da ogni elemento specifico e proprio per questo può assumere tutte le forme e le caratteristiche. Secondo Anassimandro, l’Illimitato è l’unico principio, cioè l’unica cosa esistente capace di generare tutte le cose, proprio in quanto è eterno, di grandezza infinita e privo di una forma e di proprietà determinate. Usando delle metafore esemplificative, si potrebbe dire che l’Illimitato è come una miniera inesauribile ricca di ogni tipo di minerali; oppure che è come un enorme ammasso di creta che può automodellarsi in tutti i modi possibili e immaginabili. Si può sensatamente congetturare che la nuova configurazione del principio da parte di Anassimandro sia la soluzione di un problema che egli si era posto a proposito della filosofia di Talete: com’è possibile pensare che un elemento limitato e definito, l’acqua, possa generare cose molto differenti o addirittura contrarie, p.e. la terra, i metalli, e soprattutto il fuoco? In altre parole, Anassimandro criticò la tesi fondamentale di Talete, cioè ne argomentò la falsità, e propose un’alternativa che egli considerava effettivamente veritiera. Ma come avviene per Anassimandro la trasformazione dell’Illimitato in tutte le cose? Per spiegare il passaggio dal principio ai suoi derivati, cioè la formazione dell’universo, Anassimandro attribuisce all’Illimitato la proprietà intrinseca del movimento rotatorio. In quanto è una sorta di vortice, o di gigantesca centrifuga, l’Illimitato si separa al suo interno 35 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dividendosi e determinandosi nei contrari (caldo-freddo, secco-umido), cioè nelle proprietà più generali di tutte le cose. Dalla combinazione dei contrari derivano quattro elementi-basi – acqua, aria, terra, fuoco –, da cui si generano infine tutte le cose per ulteriori processi di divisione e combinazione. In altre parole, tutte le cose sono composti di parti dei quattro elementi naturali. Anassimandro non propone la sua tesi come una semplice opinione personale. Come Talete, egli usa il metodo dell’argomentazione per rendere la sua opinione una verità, cioè una tesi conoscitiva che tutti gli uomini devono condividere. La sua argomentazione parte dall’assunzione che ogni cosa che esiste: • o è un principio, ovvero ciò che dà origine a qualcos’altro; • o è un derivato, cioè ciò che è prodotto da qualcos’altro. In termini logici, Anassimandro stabilisce tra principi e derivati una disgiunzione esclusiva, tale per cui se qualcosa è principio non può essere derivato e viceversa. Ma se qualcosa è principio, argomenta Anassimandro, non può essere limitato. Infatti, se avesse un limite, p.e. nel tempo, allora avrebbe un inizio, quindi sarebbe originato da qualcos’altro, ma allora sarebbe un derivato. Pertanto, conclude Anassimandro, il principio deve essere non-limitato, ossia non può che essere l’Illimitato. L’argomentazione di Anassimandro è diversa da quella di Talete. Infatti Talete partiva dall’esperienza sensibile immediata di alcuni fenomeni naturali per arrivare a delle conclusioni generali, cioè relative a tutti i fenomeni. Egli usava cioè il procedimento logico che oggi chiamiamo “induzione”. Il riferimento di Anassimandro all’esperienza sensibile, invece, è indiretto e sfumato: si riduce alla distinzione di tutti i fenomeni in principi e derivati, cioè a una classificazione, che è già un’operazione di astrazione teorica rispetto all’esperienza. Il fulcro dell’argomentazione di Anassimandro è la relazione logica tra i concetti di principio, derivato e illimitato. In questo senso Anassimandro parte da affermazioni generali, relative alla definizione di alcuni concetti, e ricava logicamente da esse delle conseguenze più specifiche. La strategia argomentativa di Anassimandro è dunque teorica ed è basata sul procedimento logico che chiamiamo “deduzione”. Anassimandro, però, elabora anche un’altra argomentazione a favore dell’Illimitato, che si differenzia dalla prima per il suo marcato carattere etico, cioè relativo alle nostre azioni, ed 36 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE escatologico, cioè relativo al destino finale di tutti gli esseri viventi. Essa, infatti, offre una spiegazione e una giustificazione della sofferenza propria dell’esistenza individuale e della sua conclusione ultima: la morte. Anassimandro afferma che in origine esiste solo l’unità indifferenziata dell’Illimitato, in cui tutto è unito e fuso con tutto. L’individualità di ogni cosa e degli uomini nasce da una rottura e da un distacco rispetto all’unità primigenia dell’Illimitato. Rottura e distacco costituiscono una “colpa”. Si tratta però di una colpa oggettiva, cioè non volontaria ma necessaria, in quanto conseguenza del moto rotatorio, cioè di una proprietà essenziale dell’Illimitato stesso. Tuttavia, per quanto involontaria, si tratta pur sempre di una colpa e quindi comporta la necessità di espiare scontando una “pena”. Ma anche la pena è oggettiva. Essa, infatti, consiste nella stessa vita individuale, cioè nel fatto che la scissione dell’unità in una molteplicità di cose individuali, diverse e contrarie, comporta necessariamente la loro competizione e il loro conflitto, e quindi l’infliggersi dolore a vicenda. Tale conflitto si manifesta come “legge del tempo”, cioè come progressivo logoramento reciproco che conduce inesorabilmente ogni individuo alla vecchiaia e alla morte. Eppure proprio grazie a questa “pena”, la “colpa” viene espiata, cioè cancellata. In altre parole, il dolore purifica l’individuo e soprattutto, in questo modo, lo rende degno di rifluire nell’unità dell’Illimitato. La morte quindi, secondo Anassimandro, non è un male ma è il ripristino della condizione migliore dei viventi, quella della loro fusione nell’Illimitato. Infatti, non essendoci nell’Illimitato divisioni, in esso non c’è nemmeno conflitto e quindi non c’è dolore, ma solo pace e serenità. Inoltre, poiché non ha un inizio, l’Illimitato non ha neanche una fine, cioè non muore, non è soggetto alla legge del tempo, bensì è eterno. La morte individuale pertanto permette l’ingresso nella dimensione dell’eternità, cioè segna paradossalmente la liberazione dalla stessa morte. 37 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 ANASSIMENE: IL PRINCIPIO E’ IL SOFFIO Come l’anima nostra che è aria tiene insieme noi, così il soffio e l’aria circondano tutto il cosmo […]. Frammento citato in Aezio, I, 3, 4 L’aria è prossima all’incorporeo; e poiché noi nasciamo per il suo flusso, è necessario ch’essa sia infinita e ricca, per non venir mai meno. Frammento citato in Olimpiodoro, De arte sacra, c. 25 Anassìmene fa propria, senza modificarla, la formulazione del problema filosofico fondamentale data da Anassimandro: qual è il principio (arché) di tutto? Tuttavia egli accoglie solo in parte la soluzione di Anassimandro. Per comprendere il perché, è sensato ipotizzare che Anassimene abbia rinvenuto un nuovo problema all’interno della teoria del suo maestro: è possibile pensare che l’assolutamente Illimitato generi il limitato, ossia che qualcosa produca la sua negazione? La risposta per Anassimene è negativa, perché altrimenti vi sarebbe una frattura – ontologica3 e logica – tra il principio e i suoi derivati tale per cui è impossibile pensare a una produzione dei secondi da parte del primo. E’ plausibile che Anassimene abbia criticato con questo argomento la teoria di Anassimandro e da questa critica abbia preso le mosse per riformarla in modo originale. La nuova teoria filosofica di Anassimene si basa sulla distinzione tra i due aspetti che erano fusi insieme nel concetto di Illimitato di Anassimandro: 1) l’estensione senza limiti, cioè l’infinitezza estensiva o quantitativa; 3 Che riguarda l’essere, cioè l’esistenza, delle cose. 38 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 2) l’indeterminatezza o indefinitezza, cioè l’infinitezza intensiva o qualitativa. Per Anassimene, il principio è illimitato estensivamente, ma limitato intensivamente. Infatti Anassìmene sostiene che il principio di tutte le cose è il soffio, ovvero aria che spira, che si diffonde dinamicamente e che circola continuamente avvolgendo e impregnando ogni cosa. Questo flusso aeriforme è: • di dimensione quantitativa infinita e quindi onnipresente; • ma qualitativamente determinato, cioè con una propria identità, una specifica configurazione. Tale configurazione, comunque, si differenzia da quelle di tutti gli altri elementi e di tutte le cose proprio perché è incomparabilmente più sfumata, ovvero perché è “incorporea”. Ciò significa che il soffio è qualcosa di fisico, ma che la sua materialità è talmente fine, microscopica, impalpabile, dilatata che non si può dire che esso sia un “corpo”, cioè un oggetto materiale visibile e palpabile, fatto di materia concentrata e di dimensioni finite. In questo modo il soffio, possedendo il grado minimo di determinazione, si differenzia comunque – non solo per grandezza ma anche qualitativamente – da tutte le cose naturali. Tuttavia, la sua differenza non è assoluta, perché è pur sempre determinato, e dunque non implica la sua incompatibilità con le cose finite. Il soffio per Anassimene possiede il moto in quanto sua proprietà costitutiva. Come per Anassimandro, anche per Anassimene questo moto originario è rotatorio ma si articola e si manifesta in prima battuta in due modalità opposte e complementari: • la rarefazione, cioè un moto di dilatazione o espansione, che produce il caldo; • la condensazione, cioè un moto di concentrazione o riduzione, che produce il freddo. Poiché il soffio, in quanto principio estensivamente infinito e incorporeo, è notevolmente rarefatto, esso è anche costitutivamente caldo. In base all’ulteriore rarefazione il soffio si trasforma in fuoco, l’elemento più caldo; in base alla sua condensazione il soffio si trasforma in acqua e terra, gli elementi freddi. Così vengono prodotti gli elementi fondamentali e, insieme, gli opposti caldo/freddo. Essi, essendo intrinsecamente dinamici, devono necessariamente scontrarsi e mischiarsi. In questo modo danno luogo a tutte le cose individuali che dunque altro non sono che diversi tipi di combinazione degli elementi, ovvero diversi livelli di rapporto o equilibrio tra rarefazione e condensazione del soffio. 39 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Corollario della nuova teoria dell’origine dell’universo di Anassìmene è che tutte le caratteristiche qualitative delle cose naturali sono una conseguenza delle loro caratteristiche quantitative, ovvero del loro grado di rarefazione/condensazione, cioè della loro temperatura. In altri termini: i colori, gli odori, i sapori, tutte le molteplici sfumature qualitative dei fenomeni naturali sono spiegabili in base a variazioni di una scala quantitativo-numerica. Si tratta del primo “riduzionismo” della storia della filosofia che ovviamente implica una formidabile semplificazione conoscitiva. Ci è stata tramandata una sola argomentazione della propria teoria da parte di Anassìmene: quando stringiamo le labbra ed espiriamo, il fiato che ne esce è freddo; quando allarghiamo la bocca ed espiriamo, il fiato che ne esce è caldo. Nel primo caso comprimiamo l’aria, nel secondo la dilatiamo; ciò attesta che la condensazione produce freddo, la rarefazione caldo. La tipologia di questa argomentazione è, in prima approssimazione, la stessa delle argomentazioni di Talete, cioè un’argomentazione basata sull’esperienza sensibile. Possiamo, però, notare una piccola ma decisiva differenza. Anassìmene non si limita a osservare fenomeni naturali, ma ne organizza e ne produce uno in proprio, in quanto è lui stesso che prova a chiudere o aprire le labbra e a soffiare. Seppur in modo minimo questa esperienza è “artificiale”, perché attuata in base a una progettazione razionale e a un’azione intenzionale del ricercatore. Essa si può perciò considerare l’antenata di ciò che oggi chiamiamo “esperimento”. Altre argomentazioni, a sostegno del soffio caldo come principio, non ci sono pervenute, ma è possibile ipotizzarle con sufficiente plausibilità. Per esempio l’osservazione che molti esseri viventi, gli uomini innanzitutto, quando muoiono emettono un ultimo respiro e poi smettono di respirare. In altre parole la vita è connessa al respirare, cioè alla presenza del soffio caldo, la morte all’apnea, cioè alla perdita del soffio caldo. Dunque il soffio caldo è il criterio della vita e della morte. Bisogna ricordare, a questo proposito, che i Greci chiamavano l’anima – cioè il principio della vita – psyché (da cui “psiche”) che letteralmente significa “alito” o “fiato”. In questo senso l’ “alito” è la porzione di “soffio” che spira nell’uomo e gli dà la vita. Un altro plausibile argomento è invece quello che parte dall’identificazione del soffio con il cielo, ovvero con la spazio che circonda la Terra. Il ciclo della pioggia sarebbe così una prova che l’acqua deriva dal soffio e torna nel soffio; il fenomeno del fulmine, del fatto che il soffio si trasforma in fuoco per poi tornare al suo stato originario. 40 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI ANASSIMENE E LA TERMODINAMICA Considerando che per Anassìmene il moto di rarefazione coincide con il caldo e quello di condensazione con il freddo, la sua teoria dell’universo si può avvicinare alla moderna teoria termodinamica. Innanzitutto per entrambe caldo e freddo sono l’effetto di un movimento. In secondo luogo, per entrambe le teorie tutti i fenomeni fisici sono legati alla correlazione caldo/freddo, per esempio le grandi correnti marine, gli uragani, la germinazione, ecc. La termodinamica, però, ha scoperto il principio di entropia, secondo il quale l’energia termica è irreversibile e si basa sul passaggio a senso unico freddocaldo. P.e., versando acqua calda e acqua fredda in una bacinella, l’acqua fredda acquista calore e quella calda lo cede, mai il contrario. Ciò comporta la progressiva diminuzione dell’energia termica fino alla “morte termica” a causa del progressivo amalgamarsi del caldo e del freddo. P.e., dopo un certo intervallo di tempo l’acqua della bacinella ha la stessa temperatura e al suo interno non c’è più possibilità di movimento macroscopico, perché non c’è più contrasto/passaggio tra una parte più fredda e una più calda. Le molecole di H2O si limitano a vibrare su sé stesse. Se dunque l’universo fosse un sistema chiuso, sarebbe destinato alla morte termica. Ma è ancora tutto da stabilire se lo sia e anche se non ci siano delle forze fisiche antitetiche in grado di impedire che l’entropia conduca alla stasi totale. 41 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 LA TERRA E’ FERMA AL CENTRO DEL COSMO Alcuni di essi dicono che il mare è residuo dell’umidità primitiva; perché, mentre da principio lo spazio intorno alla Terra era tutto umido, poi una parte dell’umidità fu fatta ed è fatta evaporare dal Sole, e se ne formano i venti e ne sono causati i rivolgimenti del Sole e della Terra, come se anche questi girassero a causa di tali evaporazioni ed esalazioni, muovendosi in quei luoghi dove possono trovare abbondanza di umidità; e che perciò il mare, essendo disseccato dal Sole, diminuisce e alla fine sarà tutto secco. Furono di tale opinione, secondo che testimonia Teofrasto, Anassimandro e Diogene. Alessandro, Meteorologia, 67, 3 La nascita della filosofia coincide con la gestazione della scienza, ovvero del processo di elaborazione delle sue basi teoriche e metodologiche. Per i primi filosofi, infatti, e anche per molti dei filosofi successivi fino e oltre l’età moderna, dire filosofia equivaleva a dire scienza, cioè conoscenza vera. Insomma, le due attività conoscitive non si erano ancora specializzate e quindi separate in due settori autonomi di ricerca. In questo senso, si deve senz’altro dire che i filosofi della scuola di Mileto – Talete, Anassimandro, Anassìmene – svolsero anche ricerca e attività di tipo scientifico, sebbene non possano essere considerati scienziati nel senso attuale del termine. Questo perché, almeno fino all’età ellenistica, nessun filosofo greco riuscì a elaborare e a praticare la conoscenza scientifica in base a una teorizzazione sistematica e a una metodologia compiutamente sperimentale. La tradizione attribuisce a Talete la scoperta di tre teoremi matematici (quelli delle rette parallele che intersecano due trasversali, dei triangoli uguali, della circonferenza). Ma Talete è anche e soprattutto il primo filosofo a dare il suo contributo alla nascita della cosmologia, cioè di una teoria dell’universo puramente speculativa, che a sua volta costituisce la premessa per la successiva nascita della scienza astronomica greca, cioè di una teoria dell’universo formulata matematicamente ed empiricamente argomentata. Della cosmologia di Talete abbiamo però una sola breve testimonianza, secondo la quale la Terra è appoggiata sull’acqua. In base a questa testimonianza, è ragionevole ipotizzare che Talete, a partire dall’osservazione del cielo diurno e notturno, nonché dall’esperienza immediata della stabilità della Terra, si sia chiesto come mai essa possa stare sospesa e immobile nell’immensità dello spazio, e si sia risposto che la Terra “galleggia” su 42 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE un’immensa distesa d’acqua che riempie l’universo. Sulla base di questa tesi, possiamo anche ipotizzare che Talete attribuisse alla Terra una forma adatta al galleggiamento, cioè pensasse che fosse piatta. Anassimandro dà una risposta parzialmente diversa al problema posto da Talete. Per lui, la Terra ha forma di cilindro schiacciato (con altezza pari a un terzo del diametro della base) e sta immobile al centro dell’universo in quanto soggetta alla stessa pressione in ogni sua parte, cioè in quanto sottoposta a forze esterne in equilibrio fra loro. Inoltre, in base alle testimonianze di cui disponiamo, Anassimandro fu il primo a teorizzare che il Sole si muove intorno alla Terra, in base all’osservazione del suo moto apparente durante il giorno. Egli, dunque, per quel che sappiamo, è l’inventore del geocentrismo, cioè della teoria secondo la quale la Terra è ferma al centro del cosmo e tutti gli astri le ruotano intorno. Ancora più importante è però la tesi anassimandrea secondo cui l’universo è infinito non solo nel senso che le sue dimensioni sono sconfinate ma anche e soprattutto in quello che è propriamente un “multiverso”, cioè un insieme di miriadi di mondi diversificati. Questa tesi si basa, da un lato, sull’infinitezza estensiva del Soffio, principio di tutto; dall’altro, presumibilmente, sull’osservazione notturna delle innumerevoli stelle del firmamento. Inoltre Anassimandro è il primo filosofo/scienziato che affianca alla cosmologia una cosmogonia, cioè una teoria speculativa dell’origine e della formazione dell’universo. Egli sostiene che all’inizio l’universo è un vortice il cui moto produce la separazione del caldo dal freddo. Il freddo genera terra, acqua e aria, il caldo il fuoco. A causa del moto rotatorio i primi elementi, più pesanti, si dispongono al centro, il fuoco, più leggero, ai bordi, formando una specie di guaina sferica. Sempre sotto l’azione del movimento vorticoso, tale guaina infuocata si frantuma in tante schegge sferiche, che costituiscono il Sole, la Luna, i pianeti e le stelle. Anassìmene, a sua volta, sostiene che la Terra ha una forma discoidale (il che avvalora la supposizione che già lo pensasse Talete) e che è ferma nel centro dell’universo in quanto circondata e pressata dal soffio aeriforme. Egli si pone un nuovo problema astronomico a partire dall’osservazione notturna del moto apparente – circolare e uniforme, da est verso ovest – delle stelle del firmamento: perché le stelle sono sospese nello spazio e come mai hanno un moto regolare continuo? Anassimene si risponde che il cielo è come una ruota di mulino che gira circolarmente intorno alla Terra e che le stelle sono corpi infuocati confissi su questa ruota, cioè nella volta celeste. 43 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Oltre alle indagini e alle scoperte specialistiche in determinati settori scientifici, i pensatori di Mileto diedero un contributo alla formazione della scienza con le loro stesse teorie filosofiche. Questo vale per almeno due aspetti: • perché cercando di dimostrare che tutte le cose derivano da un principio unico, hanno elaborato e diffuso il modello della scienza come riconduzione di una molteplicità di fenomeni a una legge causale unitaria; • perché le loro pur diverse concezioni del principio (acqua, illimitato, soffio) sono sensatamente interpretabili come un tentativo di concepire e definire ciò che la fisica contemporanea chiama “energia”. Infatti acqua, illimitato e soffio hanno un dichiarato comune denominatore: essere il principio unico che spiega ogni fenomeno fisico ed essere una sostanza il più possibile amorfa, cioè senza caratteristiche nette, in modo tale da poter divenire polimorfa, cioè da poter assumere tutte le forme possibili, da potersi trasformare in tutte le cose. Avendo presente la celebre formula in cui culmina la teoria della relatività ristretta di Einstein (E=mc2), è facile notare che ciò che i milesii chiamavano “principio” è il corrispettivo dell’attuale concetto scientifico di energia. Infatti, che l’energia sia uguale alla massa (ovvero alla materia) moltiplicata per il quadrato della velocità della luce equivale a dire che l’energia è il principio base di tutto capace di trasformarsi in tutto. Ciò non significa, naturalmente, che la teoria della relatività di Einstein sia uguale alla teoria della natura della scuola di Mileto. In questo senso vanno rilevate, tra le numerose altre dovute al secolare accumulo di conoscenze scientifiche, tre decisive differenze: • la concezione animistica del principio, secondo cui acqua o illimitato o soffio penetrano e animano ogni cosa, perfino i minerali (la calamita era considerata da Talete una prova che anche i minerali sono animati); • la conseguente concezione organicistica della natura, secondo cui non vi è una natura inorganica, ma tutta la natura è organica, vivente, cioè ogni cosa, anche un minerale, nasce, muore, respira, ha sensibilità (benché in modi e gradi diversificati); • la mancanza (almeno per quello che ci è stato tramandato) di una concezione e di una formulazione matematica del principio in quanto legge di natura. 44 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Da questo punto di vista, si può dire che i filosofi di Mileto – con la parziale eccezione, forse, di Anassìmene - hanno operato una riduzione della fisica alla biologia, riduzione che la scienza attuale non ritiene valida e anzi tende semmai a rovesciare a favore della fisica. Un’ulteriore rilevante differenza tra scienza contemporanea e filosofia milesia è data dal fatto che Talete, Anassimandro e Anassimene considerano il loro principio di natura divina. In altre parole essi non erano: • né teisti, cioè non credevano in dei personificati, creatori e governatori della natura, • né atei, cioè convinti dell’esistenza della sola materia inerte, priva di vita; • bensì “panteisti”, pensavano cioè che “il divino” fosse il principio fisico che permea ogni cosa e quindi coincide con la natura stessa, le sue forze e i suoi fenomeni. In questo senso è possibile sostenere che i filosofi di Mileto elaborarono per primi una teologia naturale o “scientifica”. La maggior parte degli scienziati contemporanei si attiene invece a una netta separazione tra teologia e scienza. Tuttavia, soprattutto negli ultimi anni, non mancano autorevoli eccezioni, in particolare tra i fisici (p.e. Paul Davies o Frank J. Tipler). 45 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI ANASSIMANDRO E IL MULTIVERSO La teoria anassimandrea dei molteplici mondi ebbe grande seguito nella storia della filosofia e della scienza. Come vedremo, nell’antichità, fu ripresa p.e. dai fisici “atomisti” Democrito e Epicuro, e nell’età moderna da Giordano Bruno. Attualmente essa è stata rilanciata, nell’ambito della fisica delle particelle subatomiche (elettroni, protoni, neutrini, quark, ecc.), dalla teoria quantistica. Questa teoria afferma che in linea di principio una particella è dappertutto nello spaziotempo. Una delle interpretazioni teoriche generali di questa incredibile ma plurisperimentata proprietà è appunto quella che sostiene l’esistenza di infiniti universi paralleli, ognuno dei quali conterrebbe uno degli infiniti stati/posizioni di ogni particella elementare. Per approfondimenti: Brian Greene, La realtà nascosta, Einaudi 2012. 46 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO PAUL DAVIES: FARE SCIENZA SIGNIFICA UNIFICARE L’intera impresa scientifica è una ricerca di unificazione. La scienza come la conosciamo oggi ebbe inizio quando Newton, Galileo e altri scoprirono dei legami tra il moto dei corpi sulla Terra e il movimento della Luna e dei pianeti. Altri momenti decisivi furono la scoperta che magnetismo ed elettricità sono in relazione tra loro e con la luce, e la formula di Einstein E=mc2, che mostrò l’equivalenza tra massa ed energia. La capacità di identificare legami nascosti tra fenomeni apparentemente disparati è ciò che rende il metodo scientifico così potente e convincente. La caratteristica peculiare della scienza è di essere a un tempo ampia e profonda: ampia per come affronta tutti i fenomeni fisici e profonda per come li intreccia, in modo economico, in uno schema esplicativo comune che richiede sempre meno presupposti. P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 134 PAUL DAVIES: ESISTONO MOLTI E DIFFERENTI UNIVERSI Una quota minoritaria, ma in crescita, degli scienziati oggi sostiene la teoria del multiverso in una versione o nell’altra. I moderni modelli cosmologici depongono con forza a favore dell’esistenza di una molteplicità di domini cosmici (per esempio, universi-bolla, universi-tasca, regioni cosmiche differenziate) come configurazione naturale e generica in cui il big bang che ha dato origine al nostro universo è soltanto uno tra i molti “bang” (probabilmente in numero infinito) che generano una molteplicità di “universi”. Inoltre, molte teorie che cercano di unificare la fisica predicono qualche specie di variabilità di alcune almeno delle costanti di natura – i parametri che entrano nel modello standard della fisica delle particelle –, e in alcune di queste teorie c’è anche una variazione nella forma delle leggi della fisica a bassa energia, il che rende verosimile che esse varino da un dominio cosmico all’altro allorché gli universi si raffreddano uscendo dal crogiolo delle loro origini. Il modello di unificazione preferito – ma potrebbe trattarsi di più modelli – noto come teoria delle corde/M, sembra implicare un paesaggio di innumerevoli possibili universi a bassa energia, senza nulla di ovvio che ne possa selezionare uno in particolare. P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 332. 47 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ALL’ARREMBAGGIO! 1. Scrivi la definizione (o le definizioni) dei seguenti termini: Filosofia: Sperimentale: Natura: Cosmologia: Argomentazione: Astronomia: Empirico: Cosmogonia: Principio: Geocentrismo: Induzione: Multiverso: Deduzione: 2. Leggi il brano di Aristotele e sottolinea con colori diversi: la tesi principale su cui si impernia l’argomentazione di Talete (rosso); la definizione del suo concetto fondamentale (verde); i 3 argomenti (ossia le 3 prove) in base ai quali Talete sostiene la sua tesi (blu); la definizione del loro concetto fondamentale (nero); la tesi secondaria ricavata da quella principale (giallo). Talete sostiene che il principio [di tutte le cose] è l’acqua; per questo asseriva che anche la Terra galleggia sull’acqua. Forse questa sua opinione gli fu suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta e che anche il caldo nasce dall’umidità e sopravvive per mezzo di essa. Del resto il principio di tutte le cose è ciò da cui traggono l’origine. E non soltanto in base a questo egli ha concepito una tale teoria, ma anche in base al fatto che hanno natura umida i semi di tutte le cose; e l’acqua è appunto il principio naturale delle cose umide. 3. Riempi il diagramma di flusso che ricostruisce l’argomentazione di Talete: Utilizzando i 7 asserti isolati nell’esercizio precedente, incasellali in modo logicoconsequenziale nella seguente griglia basata sul nesso AB, avvero “dato A ne segue B”, in cui A è detto “antecedente” e B “conseguente”. Tieni presente che la sequenza è di tipo induttivo (cioè procede dal particolare al generale), dal momento che Talete parte dall’osservazione di alcune caratteristiche della realtà fisica, ma che si conclude con una deduzione (dal generale al particolare), dal momento che Talete ricava dal principio generale raggiunto per induzione una nuova caratteristica generale della realtà fisica. 48 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 49 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 4. Sviluppa i seguenti ragionamenti relativi alla tesi di Talete: Per Talete il principio di tutte le cose è l’acqua. Tenendo presente che l’acqua, come già i greci antichi sapevano, è l’unico elemento naturale che possiamo osservare in stati fisici diversi, enuncia quanti e quali sono gli stati fisici dell’acqua e quindi ipotizza il ragionamento in base al quale Talete può essere giunto all’identificazione del principio nell’acqua, anziché nella terra, nell’aria o nel fuoco. *** Hai mai osservato l’orizzonte da un punto elevato di un’isola oppure di una nave in alto mare? In particolare quando l’atmosfera è satura di vapore, ovvero un po’ nebbiosa? Spiega in base a quale ragionamento un’osservazione di questo genere avrebbe potuto offrire lo spunto a Talete per argomentare una delle funzioni che egli attribuisce all’acqua. 5. Riempi lo schema con i significati che Anassimandro attribuisce all’arché: 1. CIO’ DA CUI TUTTE LE COSE ...................................... 2. CIO’ IN CUI TUTTE LE COSE............................. L’ARCHE’ E’ 3. CIO’ CHE E’ ................... IN TUTTE LE COSE. 4. CIO’ CHE ..................... LA TERRA E TUTTE LE COSE. 5. CIO’ CHE ..................... L’INTERO UNIVERSO. 6. Ricostruisci il ragionamento che connette le filosofie dei milesii I filosofi di Mileto, pur condividendo il concetto di principio, lo configurano in modo diverso: Talete come acqua, Anassimandro come àpeiron, Anassimene come aria. Eppure ci sono buone ragioni per ritenere che queste differenze non siano casuali, ma collegate da un percorso logico. Prova a ricostruire questo percorso, considerando che: tutti e tre scartano l’elemento terra, in quanto meno duttile, evidentemente allo scopo di conferire all’arché la maggiore polimorficità possibile; 50 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE tutti e tre si pongono, per primi, uno dei problemi cruciali della filosofia, ossia quello di far derivare da un principio, come tale omogeneo e superiore, tutte le cose, eterogenee e inferiori in quanto derivati; tutti e tre, di conseguenza, cercano di evitare un doppio e opposto pericolo: far somigliare troppo il principio alle cose, rendendo poco credibile che possa trasformarsi in tutte le cose nonché governarle; oppure differenziare troppo il principio dalle cose, rendendo poco credibile che le cose possano derivare da esso. 7. Ricostruisci i ragionamenti di Anassimandro: “Quello da cui ha luogo la nascita per le cose che sono, è anche ciò in cui si estinguono, secondo la legge e la natura. Esse infatti, a mano a mano che scorre il tempo, pagano l’una all’altra giusta pena e ammenda della loro ingiustizia.” 1. Suddividi il frammento di Anassimandro (in una diversa traduzione) in 4 enunciati semplici relativi ai 4 concetti fondamentali che esso contiene. 2. Poni i 4 enunciati in ordine consequenziale (antecedenteconseguente), notando come la congiunzione “infatti”, nel linguaggio naturale (cioè non in quello logicoformale), serva a segnalare che l’antecedente è stato postposto al conseguente (p.e.: “Sono maggiorenne; infatti, ho compiuto 18 anni” = “Ho compiuto 18 anni; quindi sono maggiorenne”). *** “Ogni cosa o è principio o è derivato. Il principio non può essere finito altrimenti sarebbe un derivato. Il principio è infinito.” Secondo una testimonianza pervenutaci, questa è l’argomentazione con la quale Anassimandro ha sostenuto la sua tesi “il principio è l’àpeiron”. Esplicita e chiarisci in modo ampio: 1. il significato del primo enunciato, tenendo presente che la “o” (congiunzione con valore disgiuntivo) in italiano ha un significato logico sia esclusivo (aut-aut = una cosa esclude l’altra) sia inclusivo (vel-vel = una cosa può includere anche l’altra) e precisando, dunque, in quale dei 2 significati va assunta. 2. l’argomento decisivo del secondo enunciato, ossia la ragione per cui è escluso che il principio possa essere finito. In quali accezioni (spaziale o temporale o qualitativa?) sono usati i termini “finito” e “infinito”. 51 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 8. Metti alla prova e cerca di confutare l’argomento di Anassimene Secondo alcune testimonianze, Anassimene sosteneva che l’aria è perennemente in movimento in quanto è caratterizzata da due processi opposti e complementari: la condensazione, che la raffredda facendola diventare acqua e terra, e la rarefazione, che la riscalda, trasformandola in fuoco. Per argomentare la corrispondenza condensazione/freddo e rarefazione/caldo ci è stato tramandato che Anassimene invitava a inspirare e poi a espirare sul palmo della mano, posto a distanza ravvicinata davanti alla bocca, una prima volta con le labbra socchiuse e una seconda volta con le labbra spalancate: nel primo caso infatti, quando il soffio è più compresso, avvertiamo sul palmo una sensazione di fresco; nel secondo, quando il soffio è più dilatato, avvertiamo sul palmo una sensazione di caldo. Sempre che la testimonianza sia veritiera, si tratterebbe di un proto-esperimento, cioè non di una semplice esperienza sensibile, fatta casualmente e comunque basata unicamente sulla registrazione passiva di un fenomeno naturale, ma di una forma rudimentale di esperimento, cioè di progettazione e riproduzione attiva di un fenomeno naturale. Rispetto agli esperimenti moderni e contemporanei mancherebbe, però, l’uso della tecnologia per potenziare i sensi. Basti pensare al Large Hadron Collider (LHC), la lunghissima galleria ad anello, costruita nelle vicinanze di Ginevra, nella quale macchinari potentissimi producono particelle elementari e le fanno accelerare e scontrare a velocità vicine a quelle della luce. Prova a rifare anche tu il proto-esperimento di Anassimandro e verifica se effettivamente attesta la doppia equivalenza condensazione/freddo e rarefazione/caldo, considerando la possibilità che la sensazione di caldo o freddo che si avverte sul palmo della mano sia dovuta non alla condensazione o alla rarefazione del soffio ma a qualche altro fattore. 9. Confronta teorie filosofiche antiche e teorie scientifiche moderne “L’intera impresa scientifica è una ricerca di unificazione. La scienza come la conosciamo oggi ebbe inizio quando Newton, Galileo e altri scoprirono dei legami tra il moto dei corpi sulla Terra e il movimento della Luna e dei pianeti. Altri momenti decisivi furono la scoperta che magnetismo ed elettricità sono in relazione tra loro e con la luce, e la formula di Einstein E=mc2, che mostrò l’equivalenza tra massa ed energia. La capacità di identificare legami nascosti tra fenomeni apparentemente disparati è ciò che rende il metodo scientifico così potente e convincente. La caratteristica peculiare della scienza è di essere a un tempo ampia e profonda: ampia per come affronta tutti i fenomeni fisici e profonda per come li intreccia, in modo economico, in uno schema esplicativo comune che richiede sempre meno presupposti.” P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 134 52 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il brano sopra riportato è di un famoso fisico inglese vivente, autore di numerosi libri sulle nuove frontiere della ricerca scientifica contemporanea. Individua e spiega le concordanze tra le tesi sostenute da P. Davies e le filosofie dei primi filosofi ionici, anche tenendo presente che, seppur non esplicitamente, Davies collega la “ricerca di unificazione” della scienza con la scoperta delle leggi della natura (p.e. la legge gravitazionale di Newton o la legge dell’equivalenza di massa ed energia di Einstein). *** E=mc2 è la famosa formula della legge dell’equivalenza tra energia e massa (cioè materia). Essa rappresenta il coronamento e al contempo la sintesi della teoria della relatività ristretta che A. Einstein rese nota nel 1905 e che costituisce un pilastro della scienza contemporanea. Individua e illustra la possibile analogia tra la legge di Einstein e le concezioni del principio dei filosofi ionici, specificando a quali di esse può essere maggiormente avvicinata e per quali motivi. Successivamente, individua e illustra le differenze che intercorrono tra la legge di Einstein e le filosofie degli ionici. *** Svolgi una breve ricerca sulle teorie scientifiche contemporanee dell’origine della vita e dell’evoluzione degli esseri viventi e, in base ai suoi risultati, individua e spiega le loro affinità e le loro divergenze rispetto alla teoria biologica di Anassimandro. 10. Qual è la risposta giusta? Che rapporto intercorre nella filosofia greca antica tra filosofia e scienze? La filosofia esclude le scienze in quanto mentre ogni scienza si occupa di un aspetto della realtà la filosofia si occupa solo della realtà nella sua totalità. La filosofia è una delle scienze, precisamente quella che si occupa dell’origine e della formazione del cosmo, cioè la cosmologia. La filosofia e le scienze sono due tipi di ricerca conoscitiva indipendenti, ma che possono influenzarsi a vicenda. La filosofia include le scienze ma è più di esse in quanto ogni scienza si occupa di un aspetto della realtà mentre la filosofia si occupa della realtà nella sua totalità. La filosofia e le scienze sono due tipi di ricerca conoscitiva indipendenti che non si influenzano reciprocamente. 53 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Qual è la sequenza corretta dell’argomentazione di Talete? Tutte le cose sono generate da “semi”. Tutti i “semi” sono umidi. Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. Tutte le cose sono generate dall’acqua. Tutte le cose sono generate da “semi” Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. Tutti i “semi” sono umidi. Tutte le cose sono generate dall’acqua. Tutte le cose sono generate da “semi”. Tutti i “semi” sono umidi. Tutte le cose sono generate dall’acqua. Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. Tutte le cose sono generate dall’acqua Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. Tutti i “semi” sono umidi . Tutte le cose sono generate da “semi”. Tutti i “semi” sono umidi Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. Tutte le cose sono generate dall’acqua. Tutte le cose sono generate da “semi”. In cosa consiste il discorso razionale (o la razionalità o la ragione)? Nell’argomentare una tesi in base all’esperienza sensibile. Nel dare una spiegazione della realtà di tipo fisico, ossia che non si basa su divinità ma su elementi e forze esclusivamente naturali. Nel fornire almeno un argomento a sostegno della propria tesi. Nel sostenere una tesi certamente vera. Nel sostenere la propria tesi con un argomento non criticabile. Perché Anassimandro sostituisce l’acqua con l’àpeiron? Perché ritiene illogico concepire le moltissime cose fisiche come trasformazioni di un unico principio. Perché pensa che l’acqua sia così diversa dalle cose che dovrebbe generare da rendere illogico concepire le cose come suoi derivati. Perché ritiene illogico pensare che un elemento determinato possa trasformarsi in elementi aventi proprietà opposte alle proprie. Perché effettua ulteriori osservazioni e scopre che i semi e gli alimenti non sono composti solo da acqua. Perché pensa che l’acqua sia troppo poca rispetto alla vastità del cosmo che da essa dovrebbe derivare. 54 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Qual è la sequenza valida dell’argomentazione di Anassimandro? Ogni cosa o è principio o è derivato. Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo. Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato. Il principio è illimitato. Il principio non può avere un limite. Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo. Ogni cosa o è principio o è derivato. Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato. Il principio non può avere un limite. Il principio è illimitato. Ogni cosa o è principio o è derivato. Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo. Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato. Il principio non può avere un limite Il principio è illimitato. Ogni cosa o è principio o è derivato. Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo. Il principio è illimitato. Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato. Il principio non può avere un limite. Ogni cosa o è principio o è derivato. Il principio è illimitato. Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo. Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato. Il principio non può avere un limite. Come spiega e giustifica Anassimandro il dolore umano? A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini sono separati dall’unità originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare nell’Illimitato. A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini decidono di separarsi dall’unità originaria dell’Illimitato e di diventare una molteplicità di individui, logorandosi necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter evitare di tornare nell’Illimitato. A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini sono separati dall’unità originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi per libera scelta a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare nell’Illimitato. A causa di una colpa volontaria ed evitabile, gli uomini sono separati dall’unità originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare nell’Illimitato. A causa di una colpa volontaria ed evitabile, gli uomini sono separati dall’unità originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter evitare di tornare nell’Illimitato. 55 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Secondo Anassimene quali sono le 2 proprietà fondamentali del soffio aeriforme? Infinitezza e indeterminatezza. Finitezza e determinatezza. Infinitezza e determinatezza. Finitezza e indeterminatezza. Resilienza e malleabilità. Perché Anassìmene sostituisce l’àpeiron con il soffio/aria? Perché ritiene illogico pensare che un elemento determinato possa generare elementi e cose ad esso opposti. Perché ritiene logico pensare che un elemento quantitativamente finito possa generare elementi e cose ad esso opposti. Perché pensa che un principio assolutamente indeterminato non possa spiegare razionalmente la derivazione da esso di cose determinate. Perché pensa che un principio di estensione infinita non possa spiegare razionalmente la derivazione da esso di cose di estensione finita. Perché giudica illogico pernsare che che un principio di grandezza infinita possa generare cose qualitativamente determinate. Qual è la causa prima e fondamentale delle differenze tra tutte le cose secondo Anassimene? Diversi versi e gradi del movimento del soffio. Diversi gradi di temperatura del soffio. I tre diversi stati fisici del soffio: solido, gassoso, liquido. Diverse percentuali di miscelazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco). Le separazioni di caldo e freddo e di umido e secco. Quale di queste inferenze è un’induzione? Gli equini sono quadrupedi, dunque gli asini sono quadrupedi. Rose, margherite, papaveri e ciclamini hanno i petali, dunque i fiori hanno i petali. Gli animali sono mortali, dunque gli uomini sono mortali. I filosofi sono uomini, dunque Talete è un uomo. Questo è un triangolo, dunque la somma dei suoi angoli interni è 180°. 56 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cosa afferma il principio di relatività ottica? Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, allora vuol dire che siamo noi che ci stiamo muovendo. Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, siamo sicuri che il moto appartiene solo a quell’oggetto. Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è possibile tanto che sia quell’oggetto a muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso, quanto che siamo noi in moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi. Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è più probabile che siamo noi in moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi, piuttosto che sia quell’oggetto a muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso. Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è più probabile che sia quell’oggetto a muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso, piuttosto che siamo noi in moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi. Come spiega Anassimandro la formazione degli astri? Moto rotatorio dell’àpeiron. Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi. Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina. La pressione interna rompe la guaina. I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron. Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi. Moto rotatorio dell’àpeiron. Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina. La pressione interna rompe la guaina. I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron. Moto rotatorio dell’àpeiron. Gli elementi pesanti sono centrifugi, quelli leggeri centripeti. Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina. La pressione interna rompe la guaina. I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron. Moto rotatorio dell’àpeiron. Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina. Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi. La pressione interna rompe la guaina. I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron. Moto rotatorio dell’àpeiron. Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi. Il soffio si dispone sui bordi e forma una guaina. La pressione interna rompe la guaina. I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron. 57 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Come spiega Anassìmene l’osservazione visiva dei moti degli astri? La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica del cielo, la quale si muove in modo uniforme da ovest verso est facendo compiere a ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore. La Terra si muove intorno al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest facendo compiere a ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore. La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest facendo compiere a ogni astro una circonferenza completa ogni 12 ore. La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest facendo compiere a ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore. La Terra ruota intorno al proprio asse da ovest verso est compiendo una rotazione completa ogni 24 ore e pertanto a un osservatore terrestre sembra che gli astri ruotino da est verso ovest intorno alla Terra compiendo una rotazione circolare completa ogni 24 ore. Qual è la convergenza corretta tra la filosofia/scienza milesia e la formula E=mc2? Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo e capace, proprio per questo, di assumere le forme di tutti i diversi elementi e le differenti cose che esistono. Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo e capace, proprio per questo, di provocare una reazione nucleare di enorme potenza distruttiva. Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo ed equivalente, proprio per questo, alla materia quando gli viene sottratta una quantità di moto pari a quella della velocità della luce elevata al quadrato. Tutta la realtà è ricondotta a due soli principi considerati amorfi e capaci, proprio per questo, di assumere le forme di tutti i diversi elementi e le differenti cose che esistono. Ad eccezione dei fotoni, privi di massa a riposo, nessun corpo può raggiungere la velocità della luce (300.000 km/sec.) perché, avvicinandosi alla velocità della luce, la sua massa tenderebbe a diventare infinita e pertanto occorrerebbe un’energia infinita per accelerarla ulteriormente. 58 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Quali tra queste NON è una delle tesi sostenute da Paul Davies nei brani dello Scrigno? Tutti gli scienziati contemporanei condividono la teoria del multiverso. La scienza consiste nello scoprire relazioni nascoste tra diverso elementi fisici. La più accreditata teoria del multiverso è la variante detta M della teoria delle corde (o delle stringhe). Alcune teorie fisiche contemporanee ammettono la variabilità delle costanti di natura. Alcune teorie fisiche contemporanee includono la variabilità delle leggi della fisica a bassa energia. 59 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… I COSMOLOGI RAZIONALISTI Nella seconda metà del VI secolo a.C., mentre Anassìmene prosegue e conclude il percorso filosofico della scuola di Mileto, emergono nuove filosofie nella stessa Ionia, cioè sulle coste dell’Asia Minore, ma soprattutto nella Magna Grecia, cioè nelle colonie greche occidentali. Queste nuove filosofie, pur nella loro diversità, sono accomunate da una configurazione più astratta del principio del cosmo. Esse, cioè, non identificano la causa prima di tutte le cose con un elemento naturale (Talete, Anassìmene) o con un misto di due elementi naturali (Anassimandro) ma con un principio pur sempre fisico ma più teorico, ossia con una maggiore e più esplicita connotazione razionale. Gli autori di queste nuove filosofie furono Eraclìto, Pitagora e Filolao, Parmenide e Zenone. Per Eraclìto il principio di tutte le cose è il lògos. Questo termine, da cui non a caso è derivato il nostro “logica”, in greco antico significava “parola ordinata”, quindi discorso, ragione, regola, legge. Per Eraclìto, insomma, la causa prima del cosmo è una legge razionale. Questa legge consiste nella complementarità di tutte le cose, anche se apparentemente opposte, e quindi nell’unità profonda di tutta la realtà. Essa, però, è contenuta nell’elemento fuoco, coincide con esso. Anche Eraclìto, come i filosofi di Mileto, si dedicò a ricerche scientifiche, in particolare di tipo astronomico e meteorologico. Pitagora, invece, sostiene per primo che il principio di tutte le cose sono i numeri e che pertanto la natura è organizzata matematicamente. A livello scientifico, si occupa soprattutto di matematica e di teoria matematica della musica. Gli si attribuiscono la scoperta e la dimostrazione del famoso teorema che porta il suo nome, nonché quella dell’ottava musicale. Si occupa anche di ricerche astronomiche, sicuramente continuate e sviluppate da Filolao e da altri discepoli con notevoli risultati. Gli astronomi pitagorici, infatti, elaborano una teoria astronomica dapprima “pirocentrica” (al centro dell’universo c’è un grande fuoco sacro di cui il Sole è un riflesso) e poi “eliocentrica”. Per Parmenide il principio di tutte le cose è l’ “essere”, cioè l’esistere in sé stesso e per sé stesso. E l’essere, secondo lui, è unico, omogeneo e privo di movimento. Zenone sostiene la tesi del suo maestro con una serie di famose argomentazioni che mirano a dimostrare che la realtà sensibile è un’illusione e che l’unica realtà autentica è appunto l’essere. A livello scientifico Parmenide si occupa di astronomia, in particolare delle eclissi lunari. 60 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI ERACLITO, PITAGORA, FILOLAO, PARMENIDE, ZENONE Eraclìto (540-476 c.ca) nacque a Efeso, città sulla costa egea dell’Anatolia ionica (attuale Turchia), poco più a nord di Mileto. Di famiglia aristocratica, nonostante le sue origini altolocate, rifiutò sia la ricchezza sia il potere sia la fama e visse una vita ritirata e solitaria nel tempio di Artemide, al quale donò anche la sua unica opera filosofica, intitolata Sulla natura. Ci è stato tramandato che il re di Persia Dario, dopo averla letta, lo invitò alla sua corte prospettandogli grandi onori, ma Eraclitò declinò l’invito. Benché non aspirasse al potere, Eraclito era un sostenitore dell’antico regime aristocratico e un fiero oppositore della democrazia che si era imposta ad Efeso, poiché riteneva che la massa non potesse che essere ignorante e che la sapienza fosse raggiungibile solo da pochi individui. A loro volta gli abitanti di Efeso lo detestavano, anche e soprattutto perché rigettavano il suo modello di vita improntato alla sobrietà. Di Sulla natura ci sono rimasti circa cento frammenti. Si tratta di un’opera in stile aforistico, cioè una raccolta di frasi brevi contenenti ciascuna un pensiero compiuto espresso con parole e con un ordine sintattico volutamente ambigui o comunque di non facile comprensione. L’adozione dello stile aforistico, sicuramente coerente con la visione elitaria di Eraclìto, attesta anche il suo legame con la tradizione religiosa di tipo oracolare. Ci sono, però, buone ragioni per pensare che Eraclito finalizzasse la comunicazione aforistica a suscitare nei suoi lettori una lettura attiva, cioè basata sul loro ragionamento autonomo. Pitagora (580-490 c.ca) nacque a Samo, un’isola dell’Egeo che si trova di fronte a Mileto ed Efeso, attualmente territorio della Grecia. Le vicende della vita di Pitagora sono incerte, alcuni storici ritengono perfino che sia un personaggio leggendario, non realmente esistito. La tradizione antica ci riporta che fu allievo di Anassimandro, soggiornò a scopo di studio in Egitto e in Mesopotamia, fu un oppositore politico della tirannia impostasi a Samo, e per questo a circa quarant’anni emigrò a Crotone, colonia dorica della Calabria, dove era nato e si stava sviluppando un importante centro di cure e studi medici che ebbe il suo massimo esponente in Alcmeone. A Crotone Pitagora fondò una scuola filosofica, aperta anche alle donne, che era al tempo stesso una comunità spirituale. Infatti, i suoi discepoli – detti matematici (“addottrinati”) – mettevano in comune le loro proprietà e convivevano in base a rigorose regole ascetiche, che comprendevano numerosi divieti pratici come non mangiare carne o non attizzare il fuoco con un coltello o non toccare le fave. Lo scopo della regola di vita pitagorica era dedicare la maggior parte della propria vita alla ricerca conoscitiva. La conoscenza, infatti, per i pitagorici era il mezzo atto a purificare il “respiro” (psyché), considerato la parte razionale e immortale dell’uomo, e a conseguire così la massima felicità nella dimensione terrena e la vita eterna nell’aldilà. Nella sua scuola Pitagora finì con l’essere divinizzato: in riferimento a lui fu coniata l’espressione autòs épha (ipse dixit, l’ha detto lui), che implicava la credenza che fosse depositario della verità 61 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE assoluta e come tale non potesse mai sbagliare; ma gli furono attribuiti anche una discendenza da Apollo e poteri taumaturgici. Pitagora non scrisse nulla. Fu il suo discepolo Filolao (470-400 c.ca) a esporre la sua dottrina in tre opere (Sulla natura, Sul governo delle città, Sull’educazione), che Filolao stesso attribuì al maestro tramandandole dunque come opere di Pitagora. Di tendenza politica aristocratica, la comunità pitagorica fu cacciata da Crotone dagli avversari democratici e si diffuse in seguito in altre città della Magna Grecia (Taranto, Siracusa) ma anche della madrepatria greca. Filolao infatti si stabilì a Tebe e lì fondò e diresse una scuola pitagorica. Parmenide (515-440 c.ca), di famiglia aristocratica, nacque a Elea (oggi Velia), colonia greca sulla costa meridionale della Campania (Italia). Alcune fonti antiche attestano che fu discepolo del filosofo Senofane, il quale aveva rigettato le immagini tradizionali degli dei, perché inventate dagli uomini a propria somiglianza, e aveva loro contrapposto l’idea di un unico dio del tutto astratto, cioè privo di forme sensibili. Nella maturità Parmenide scrisse un poema filosofico, intitolato Sulla natura, che si apre con un proemio nel quale il filosofo di Elea racconta di essere stato portato dalle “figlie del sole” al cospetto della dea Giustizia che gli avrebbe rivelato la verità. In altre parole, Parmenide sosteneva che la sua filosofia possedeva un’origine divina. In questo modo, egli da un lato si pose in continuità con lo stile degli antichi poemi di Omero ed Esiodo, dall’altro però lo innovò sostituendo all’ispirazione poetica delle Muse quella razionale di una dea. Nel corso della sua vita, Parmenide non si occupò solo di filosofia ma contribuì anche alla legislazione di Elea. Già anziano, pare si sia recato ad Atene, vi abbia incontrato il giovane Socrate e si sia confrontato filosoficamente con lui. Il suo discepolo e amico Zenone (500-430 c.ca) nacque anch’egli a Elea e scrisse un’opera intitolata sempre Sulla natura ma in prosa. Secondo Platone, tra Parmenide e Zenone intercorreva un rapporto d’amore, ma altre testimonianze antiche sostengono invece che Zenone fosse il figlio adottivo di Parmenide. Ci è stato anche tramandato che Zenone fu un fiero oppositore del tiranno di Elea e che, arrestato, affrontò impavidamente la tortura e l’estremo supplizio. Gli elementi biografici comuni ai cosmologi razionalisti attestano che le loro nuove filosofie nacquero da un maggior legame con l’antica tradizione culturale greca di stampo aristocratico e mitico-religioso. Alcuni storici della filosofia per questo li hanno catalogati come “filosofi del tempio” in contrapposizione ai “filosofi dell’agorà”, di origine borghese, tra cui rientrerebbero Talete, Anassimandro e Anassìmene. 62 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 ERACLITO: IL PRINCIPIO E’ UNA LEGGE Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi. Eraclìto, 22 B 53 Diels-Kranz Ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto. Eraclìto, 22 B 8 Diels-Kranz Questo ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne. Eraclìto, 22 B 30 Diels-Kranz Dallo studio della filosofia della scuola di Mileto, Eraclìto ricava la convinzione che il carattere più generale della natura, quello che cogliamo immediatamente con i nostri sensi, è il “divenire”. Il concetto eracliteo di divenire ha tre aspetti distinti ma strettamente correlati: 1. “divenire” significa innanzitutto che tutte le cose, in quanto naturali, nascono, muoiono, si muovono, cambiano incessantemente. Eraclìto esemplifica questo aspetto con l’immagine di un fiume. La natura, cioè, è come un fiume le cui acque scorrono perennemente. A rigore, bisognerebbe dire che “non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume”, cioè che la natura non è mai la stessa cosa, perché in ogni istante muta rispetto all’istante precedente. I discepoli di Eraclìto sintetizzarono questo primo significato del divenire nell’espressione “pànta rèi” (“tutto scorre”), che diventò così lo slogan della filosofia eraclitea. 2. “Divenire” significa, in secondo luogo, molteplicità differenziata. La natura è fatta di “individui”4, cioè di elementi singoli indipendenti (cose, proprietà, stati di fatto) e come tali costitutivamente diversi tra loro. P.e. leoni e gazzelle, bianco e nero, giovinezza e vecchiaia, sono in casa e sono fuori casa. Questo secondo significato concettuale è condizione necessaria del primo, perché mutare significa sempre passare da un “individuo” a un altro, p.e. dai capelli neri ai capelli bianchi o dalla vita 4 Dal latino individuum: non-divisibile, cioè non-aggregato di più cose, ma cosa o proprietà singola. 63 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE alla morte o da un luogo a un altro, e perciò se non ci fosse la molteplicità individuale non ci potrebbe essere alcun divenire. 3. “Divenire” significa, infine, lotta, conflitto, guerra, perché dire individui differenti significa dire individui opposti, cioè tra loro costitutivamente in competizione, in maniera più o meno intensa a seconda dei casi. Dunque, sostiene Eraclìto, in base alla conoscenza sensibile, la natura – in quanto divenire – ci si presenta come mutevole, molteplice, conflittuale. Si tratta di una nozione intuitiva, condivisa da tutti, considerata perfino ovvia. Ma Eraclìto va oltre questa ovvietà, scorgendovi un problema: se le opposizioni che costituiscono la natura come divenire fossero assolute si distruggerebbero a vicenda e vi sarebbe solo il nulla; ma così non è; per quale ragione? La soluzione raggiunta da Eraclìto è che la natura è “divenire” solo in prima approssimazione. In altre parole, secondo lui, cambiamento, molteplicità e conflitto sono solo “apparenza”. Ciò non significa che non esistono, che non hanno un’effettiva consistenza reale. Significa però che sono solo lo strato superficiale e secondario – oggi si direbbe “emergente” – della natura, sotto il quale si nasconde – “la natura ama nascondersi”, scrive Eraclìto – il suo strato primario e fondamentale, cioè il principio profondo della natura. Questo principio è la Legge (lògos5) secondo cui tutti gli individui sono sì opposti ma anche complementari, ovvero compongono un’unica grande e armonica Unità (“da tutte le cose l’uno e l’uno da tutte le cose”, scrive ancora Eraclìto). In parole semplici, la Legge che governa tutte le cose consiste nel fatto che tutto è Uno. Per esemplificare questa concezione, si può usare la similitudine con un puzzle: all’inizio, cioè quando spargiamo i pezzi sul tavolo, il puzzle ci appare come un mucchio disordinato di frammenti tutti diversi gli uni dagli altri; ma, alla fine, cioè quando siamo riusciti a unire ordinatamente tutti i frammenti, comprendiamo che essi sono tutti complementari gli uni agli altri e così il puzzle ci si svela come un’unica cosa, ci mostra un disegno unitario. Eraclìto argomenta la sua tesi “tutto è Uno” esibendo alcuni casi empirici da lui considerati paradigmatici, cioè modelli generali di tutti le cose. Tali casi empirici si possono raggruppare in quattro tipologie: 5 Dal greco lògos che significa originariamente connessione-legge, poi parola-discorso, ovvero insieme di parole collegate in un discorso ordinato, e di qui “ragione”, cioè appunto ordine della mente, del pensiero. 64 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE • “Il mare è potabile per i pesci, imbevibile per l’uomo”: questo argomento si basa sulla relatività degli opposti, cioè sul fatto che una stessa cosa può essere letale per un individuo e invece vitale per un altro. In altre parole, le opposizioni dipendono da diversi punti di vista. • “Nel cerchio principio e fine coincidono”: questo argomento non si riferisce a una proprietà di un individuo relativa ad altri, ma all’essere in sé dell’individuo: il cerchio in sé stesso è tutt’uno, non ha né principio né fine, stabilirli è una convenzione. Insomma l’opposizione inizio/fine è solo apparente, a un livello più profondo sono la stessa cosa, coincidono. • “Le cose fredde si scaldano, il caldo si raffredda”: gli individui/proprietà si trasmutano l’uno nel proprio opposto e non potrebbero farlo se non avessere qualcosa in comune, se non fossero uniti nella loro matrice. • “La malattia rende dolce la salute, la fame la sazietà”: questo argomento ha un taglio etico/antropologico e fa leva sul fatto che per noi uomini il benessere (o felicità) si percepisce e si gode sempre e solo in relazione ai malesseri che si evitano, ai quali si scampa. Secondo Eraclìto, il principio della natura, cioè la Legge (o Ragione) dell’unità degli opposti si identifica con una sostanza fisica, il Fuoco. Il Fuoco infatti è la sostanza più mobile e mutevole, è in sé stesso scisso in più parti (fiamme, scintille) che sembrano in lotta tra loro, ma essendo al contempo una cosa sola è la rappresentazione concreta dell’unità degli opposti. Soprattutto il Fuoco, più di ogni altro elemento, è in grado di spiegare l’opposizione primaria e più dolorosa della natura, quella tra vita e morte. Infatti a seconda della sua misura il Fuoco dà calore, e quindi genera, infonde la vita, oppure brucia, e quindi distrugge, dà la morte. In un ciclo continuo, afferma Eraclìto, raffreddandosi e condensandosi il fuoco diventa progressivamente prima aria, poi acqua, infine terra; scaldandosi e rarefacendosi terra, acqua e aria ritornano fuoco. Il primo processo coincide con formazione dell’universo, il secondo con la sua dissoluzione. Il Fuoco, dunque, secondo Eraclito, genera e distrugge l’universo per poi rigenerarlo e ridistruggerlo, e così via all’infinito. In quanto principio regolatore del tutto, unico ed eterno, il Fuoco è il Divino. Eraclìto dice esplicitamente che corrisponde a Zeus e al simbolo della sua regalità, cioè il fulmine. Ma 65 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dice anche che pensarlo tradizionalmente come Zeus, anziché filosoficamente come Fuoco, è un modo ingenuo e fuorviante di concepire il Divino. Secondo Eraclito, dunque, tutte le cose sono una specifica trasformazione del Fuoco. A differenza di tutte le altre cose, però, l’uomo possiede anche una scintilla di Fuoco puro e divino. Questa scintilla è il “respiro” (psyché), che quindi è intelligenza, razionalità. L’uomo, in altre parole, diversamente dagli altri enti naturali, ha la Legge razionale che governa tutte le cose dentro di sé. Solo l’uomo, pertanto, può divenire cosciente della Legge razionale universale e può attuarla volontariamente. Ma, afferma Eraclìto, solo pochi uomini – gli unici davvero “svegli” – mettono a frutto questa possibilità, cioè la conoscenza razionale, e riescono a comprendere che tutto è Uno. I più, anche quando hanno gli occhi aperti, rimangono in realtà dei “dormienti”, cioè si basano solo sulla conoscenza sensibile e dunque credono che la realtà sia solo divenire, cioè mutamento, molteplicità e conflitto. In questo senso, per Eraclìto, il fine ultimo della vita umana consiste nel comprendere completamente la Legge razionale che governa l’universo e nell’agire conformemente ad essa. Per fare ciò, più che osservare le cose esterne occorre scrutare dentro sé stessi – dal momento che la Legge razionale è presente nell’uomo come “respiro” – e utilizzare il pensiero razionale, ovvero la teoria, anziché l’esperienza sensibile immediata. Infine, poiché il “respiro” umano è una scintilla del Fuoco divino eterno, secondo Eraclito, esso è immortale e destinato a un’altra vita dopo la morte del corpo. 66 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI IL FUOCO E LA RELATIVITA’ RISTRETTA A proposito dei filosofi di Mileto ho proposto un collegamento tra i loro concetti del principio della natura (acqua, illimitato, soffio) e l’attuale concetto scientifico di energia, reso celebre e fondamentale dalla famosa formula nella quale Einstein ha sintetizzato la sua teoria della relatività ristretta: E=mc2. Il collegamento mi sembra ancora più calzante nel caso del Logos/Fuoco di Eraclìto. Ma in questo caso l’analogia più significativa non è di tipo fisico, ma di tipo razionale. Infatti, come il principio di Eraclìto, la formula di Einstein è proprio una “legge”, cioè non consiste in una cosa o in un elemento ma esprime una relazione razionale valida per ogni cosa/elemento fisico. In altre parole, la Legge eraclitea “tutto=Uno” ha la stessa forma logica di E=mc2, benché i loro contenuti siano naturalmente molto diversi. Mentre con i loro principi i milesii non avevano evidenziato questo aspetto determinante, Eraclìto distingue e al tempo stesso connette la sostanzialità fisica (Fuoco) con la legalità razionale (Legge dell’unità degli opposti), facendo un altro passo avanti verso la formula di Einstein, cioè verso il concetto scientifico di “legge naturale”. 67 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 I PITAGORICI: IL PRINCIPIO SONO I NUMERI Tutte le cose sono necessariamente o limitanti o illimitate, o insieme limitanti e illimitate. Solamente cose illimitate oppure solamente cose limitanti non potrebbero esserci. Poiché, dunque, risulta chiaro che le cose che sono non possono essere costituite né solamente di elementi limitanti né solamente di elementi illimitati, è evidente che l’universo e le cose che sono in esso sono costituite dall’accordo di elementi limitanti e di elementi illimitati. Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, 21, 7 a I pitagorici sono i primi filosofi a elaborare una compiuta teoria dualistica della natura. Per essi infatti non c’è u n principio della natura, ma una coppia di principi opposti e complementari: 1) un principio limitante o Unità; 2) un principio illimitato o Molteplicità. Di tale coppia di principi, i pitagorici danno innanzitutto una descrizione cosmogonica. Secondo i pitagorici, in origine esistono solo: l’Illimitato/Molteplicità, consistente in un immenso Vuoto, il Limitante/Unità, che consiste in un punto pieno e compatto. Il Limitante inspira in sé l’Illimitato e così si genera il cosmo in quanto composto di Illimitato/Vuoto e Limitante/Unità. Infatti, da un lato l’Illimitato/Vuoto, infiltrandosi nel pieno assoluto del Limitante/Unità, lo suddivide in molteplici parti; dall’altro il Limitante/Unità riempie l’Illimitato/Vuoto, dandogli un contenuto e dunque una configurazione definita. Da questa teoria dell’origine del cosmo possiamo ricavare che il Limitante/Uno è il principio della determinazione e dell’identità individuale di ogni cosa naturale, mentre l’Illimitato/Vuoto è il principio dell’estensione spaziale e della varietà delle cose naturali. Benché i pitagorici li considerino entrambi “principi”, essi attribuiscono la superiorità al Limitante/Uno e per questo lo chiamano anche Dio. Per i pitagorici l’interazione tra Limitante e Illimitato genera innanzitutto i numeri. Per comprendere questa tesi, basta considerare che ogni numero da un lato è una grandezza precisa, p.e. 3, e in tal senso è limitato, cioè finito; dall’altro lato, però, il significato di ogni 68 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE numero si basa sulla sua relazione con l’infinita serie numerica, cioè con l’illimitato: p.e. il 3 indica una grandezza precisa solo in rapporto al 2, al 4, al 5, e così via all’infinito. In questo senso, i pitagorici sostengono che ogni numero rappresenta un grado di mescolanza di Limite e Illimite, un certo livello delle loro diverse e infinite dosi reciproche di combinazione. Così concepiti, i numeri, affermano i pitagorici, non sono enti astratti ma sono gli elementi fisici primi di tutte le cose. L’Uno/Limite, infatti, è un punto di sostanza fisica, l’unità minima di materia; il due è la linea e quindi la lunghezza; il tre il triangolo e cioè il piano bidimensionale; il quattro la piramide e quindi lo spazio tridimensionale. I solidi tridimensionali, a loro volta, aggregandosi generano gli elementi naturali secondari, cioè fuoco, aria, terra, acqua. Infatti: • il tetraedro, la piramide a base triangolare, è la porzione/forma minima di materia di cui è fatto il fuoco; • l’ottaedro, o doppia piramide a base quadrangolare, è la porzione/forma minima di materia di cui è fatta l’aria; • il cubo, è la porzione/forma minima di materia di cui è fatta la terra; • l’icosaedro, il poligono regolare con 20 facce triangolari, è la porzione/forma minima di materia di cui è fatta l’acqua. Mischiandosi tra loro in varie proporzioni quantitative i quattro elementi terrestri – fuoco, aria, acqua, terra – danno luogo a tutte le cose. In base a questa teoria dell’origine di tutte le cose, i pitagorici sostengono per primi una tesi di enorme importanza per la filosofia e la scienza di ieri e ancor più di oggi: tutti i fenomeni naturali dipendono da proprietà quantitativo-matematiche e dunque si possono e anzi si devono spiegare usando la matematica. Per esempio la proprietà di scaldare e bruciare del fuoco è considerata un effetto delle misure aritmetiche, della forma geometrica e in generale delle caratteristiche matematiche del tetraedro. Quindi la temperatura può e deve essere descritta matematicamente, cioè misurata, e fenomeni come la combustione o la fusione possono e devono essere spiegati con leggi matematiche. Grazie a questa concezione matematica della realtà, i pitagorici per primi chiamano l’universo “cosmo”. Questo termine in greco significa ordine, armonia. Per i pitagorici l’universo è un cosmo, perché è costituito da un ordine quantitativo-matematico che governa il divenire universale come un direttore d’orchestra i suoi musicisti. Anzi, in questo senso, per essi gli astri coi loro moti suonano e al contempo sono mossi da una vera 69 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE e propria sinfonia cosmica che le nostre orecchie non odono perché adatte solo a percepire i suoni terrestri. L’argomentazione pitagorica dell’ordine matematico dell’universo è in gran parte legata proprio ai fenomeni acustico-musicali. I pitagorici comprendono e dimostrano, infatti, che la diversa altezza dei suoni degli strumenti a percussione dipende dal loro peso; quella degli strumenti a corda, dalla lunghezza delle corde; e che i rapporti armonici di ottava, quinta e quarta dipendono da ben precise proporzioni matematiche (rispettivamente: 2 a 1, 3 a 2, 4 a 3) tra le lunghezze di due corde che vengano pizzicate insieme. Dal momento che questa argomentazione, formalmente induttiva, si basava sull’uso intenzionale e mirato di strumenti musicali, cioè di prodotti della tecnica umana, essa può essere considerata un’anticipazione dell’argomentazione sperimentale sulla quale si fonda la scienza attuale. Altri argomenti, benché molto più approssimativi, i pitagorici li ricavano dall’esperienza dei fenomeni naturali: l’anno dura 365 giorni, le stagioni sono 4, i giorni durano 24 ore, la gestazione di un neonato dura 9 mesi, ecc. E’ plausibile che tutte queste esperienze abbiano stimolato i pitagorici a porsi il seguente problema: com’è possibile che i fenomeni naturali abbiano una regolarità così precisa o delle relazioni quantitative così esatte? La filosofia pitagorica nasce dalla soluzione di questo problema. I pitagorici utilizzano i numeri anche per spiegare le diversità e le opposizioni che caratterizzano il mondo naturale. Stante che tutti i numeri sono un misto di Limite e Illimite, i pitagorici infatti ritengono che i dispari contengano più Limite e i pari più Illimite. La ragione di questa tesi è che i pari possono essere divisi in altri due numeri interi, i dispari no. L’opposizione dispari (Limite)/pari (Illimite) è così assunta dai pitagorici come modello generale di tutte le opposizioni naturali, come p.e. uomo/donna, destra/sinistra, bene/male, luce/tenebra, retto/curvo, ecc. Poiché il Limite è superiore all’Illimite, i dispari sono superiori ai pari e di conseguenza in ogni coppia di opposti naturali uno dei due membri è migliore dell’altro. Questa teoria è estesa dai pitagorici anche al mondo sociale dell’uomo e costituisce così il fondamento della loro scelta politica a favore di forme di governo aristocratiche. 70 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tuttavia, il fine ultimo della filosofia, secondo i pitagorici, non è di tipo politico, ma di genere religioso, cioè la liberazione del “respiro” individuale (psyché) di ogni uomo dalle sofferenze dovute al corpo. Riprendendo, infatti, l’antica dottrina religiosa dell’orfismo, i pitagorici credono che i “respiri” individuali siano immortali e che la loro presenza dentro i corpi umani sia l’espiazione di una colpa originaria. Secondo i pitagorici, infatti, in origine, noi uomini eravamo Titani, ovvero solo “respiri” immortali, ma, come tali, abbiamo ucciso e divorato Dioniso, figlio di Zeus. Per punizione, Zeus ci ha condannati a passare da un corpo all’altro in molte vite successive. Dunque i pitagorici credono nella teoria della reincarnazione (o della metempsicosi) e si pongono come fine ultimo l’uscita dal ciclo delle rinascite e la riacquisizione di una condizione di puri “respiri”. Per raggiungere questo fine ogni uomo deve purificare il proprio “respiro” conducendo una vita ascetica – basata su una dieta vegetariana e sulla rinuncia ai piaceri fisici – e dedicata completamente alla conoscenza. La ricerca scientifica e filosofica assume così per i pitagorici il valore religioso di strumento di liberazione dell’uomo dal dolore e dalla morte. 71 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI I PITAGORICI E LA FORMULA E=MC2 A proposito di Eraclìto si è detto che ha scoperto il carattere legale del principio, cioè il fatto che esso non consiste solo e tanto in una sostanza, ma in una Legge, in un ordine regolare. In questo senso abbiamo rilevato una nuova affinità tra il concetto di “principio” e la legge della relatività ristretta di Einstein: E=mc2. Ora possiamo dire che la concezione pitagorica del principio si avvicina ancora di più alla legge di Einstein. Questa, infatti, è espressa in termini matematici, cioè è una “formula” che indica un preciso e permanente rapporto numerico-quantitativo tra energia, massa e velocità della luce. E i pitagorici, muovendosi oltre Eraclìto, non solo affermano che il principio che governa il cosmo è una Legge ma appunto che questa Legge ha una forma matematica, cioè è una “formula”. 72 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 PARMENIDE: LA REALTA’ E’ SOLO ESSERE Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio voleva mi accompagnarono, dopo che mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che mi porta per tutti i luoghi che l'uomo sa. Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via. L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi – in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall’altra –, quando affrettavano il corso dell’accompagnarmi, le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti. Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi, produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta, diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle. E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra prese, e incominciò a parlare così e mi disse: «O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tutto tu apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisogna che veramente siano, essendo tutte in ogni senso». Parmedide, Sulla natura, frammento 1 Ora, io ti dirò – e tu ascolta e accogli la mia parola – 73 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare: l’una che è, e che non è possibile che non sia (è il sentiero della Persuasione, che deriva dalla Verità) l’altra che non è, e che è necessario che non sia, io ti dichiaro che questa è una strada del tutto inesplorabile: perché ciò che non è non lo puoi pensare (è infatti impossibile) e non lo puoi nemmeno esprimere. Infatti il pensare coincide con l’essere. Parmedide, Sulla natura, frammenti 2 e 3 Parmenide chiama “Essere” – cioè l’esistere, l’esistenza – ciò che i filosofi precedenti avevano considerato “principio” della natura e chiamato Acqua o Fuoco o Aria, ecc. In altri termini, secondo Parmenide l’aspetto comune e fondamentale di tutte le cose fisiche, ovvero della realtà o natura, è la proprietà dell’esistenza, il fatto di esistere. E’ plausibile che questa nuova tesi filosofica sia il risultato finale della riflessione di Parmenide su un problema filosofico di estrema radicalità che lui per primo si pone, per lo meno apertamente e chiaramente: perché esiste una realtà fisica (la natura, il cosmo) anziché il niente? perché, cioè, non c’è il nulla al posto di tutte le cose? In linea di principio, infatti, che il mondo esista oppure che ci sia il nulla sono due possibilità equivalenti, con pari probabilità di realizzarsi. Perché allora c’è qualcosa? Per puro caso? Parmenide risponde di no. Secondo lui, che ci sia la realtà fisica è necessario ed è necessario che non ci sia il nulla – cioè le cose non potrebbero essere altrimenti da come effettivamente sono. Perché? Come argomenta Parmenide questa potente tesi? L’argomento fondamentale di Parmenide è che la proprietà dell’esistenza è attribuibile solo alla realtà dal momento che tra il nulla e l’esistere c’è una incompatibilità di principio, di tipo logico. Infatti, la proposizione “esiste il nulla” equivale a “esiste ciò che non esiste”. In altre parole, pensare e dire “il nulla è (=esiste)” è assurdo, è un nonsense, perché tra il nulla e l’esistere intercorre una contraddizione assoluta tale per cui se si pensa il nulla non si può pensare che esista e viceversa. Pertanto Parmenide conclude che si deve pensare – e dire – solo: 74 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE • • che il nulla non esiste né può esistere; e che quindi l’Essere deve esistere per necessità. Dunque, per Parmenide, il mondo naturale non può mai andare distrutto, cioè che c’è sempre stato e continuerà a esserci in eterno. Parmenide fonda in questo modo un nuovo settore della ricerca filosofica, l’ “ontologia”, cioè la teoria della realtà in quanto “Essere”, stabilendone la legge fondamentale: l’Essere (la realtà) è necessario che esista mentre il non-essere (il nulla) è impossibile che esista. Allo stesso tempo Parmenide sancisce la regola fondamentale dell’argomentazione filosofica, ovvero della scienza intesa come conoscenza vera dell’Essere: è vietato pensare e affermare che esiste il non-essere (ossia il nulla) e non solo in modo esplicito ma anche solo implicitamente. Il presupposto logico di questa regola è il “principio di non-contraddizione” secondo il quale non è possibile pensare/affermare che una stessa cosa è e insieme non è, p.e. “Parmenide vive e non vive”. In questo senso si può dire che Parmenide fu il primo filosofo a focalizzare il principio di non-contraddizione. Egli però non lo pensò come un criterio della mente umana, cioè logico, bensì come una legge della natura, cioè ontologica, la legge che impone appunto di considerare l’essere come principio fondamentale e necessario della realtà e nega di conseguenza ogni possibilità di esistenza al non-essere o nulla. Un corollario di questa legge, secondo Parmenide, è la coincidenza Essere-pensierolinguaggio. Infatti se solo l’Essere esiste, il pensiero e il linguaggio possono avere come oggetto solo l’Essere. In altri termini, possiamo pensare solo ciò che esiste e parlare solo di ciò che esiste. Per questo, l’Essere per Parmenide è il criterio di verità del pensiero e del linguaggio. Una volta argomentato che l’Essere è il fondamento di ogni cosa, Parmenide passa ad argomentare le sue caratteristiche. Utilizzando la sua legge ontologica – “esiste solo l’Essere, il non-essere non può esistere” – Parmenide inventa un nuovo tipo di argomentazione razionale, che in filosofia verrà chiamata “dialettica” e in matematica “dimostrazione per assurdo”. Si tratta di un’argomentazione deduttiva indiretta in quanto consiste nell’argomentare una tesi dimostrando che la sua antitesi (cioè la tesi opposta) è assurda, ovvero che implica una contraddizione. In base alle dialettica Parmenide argomenta che l’Essere è: 75 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1. ingenerato e indistruttibile: infatti se fosse generato e distruttibile dovrebbe nascere dal non-essere e dovrebbe finire nel non-essere: nel primo caso il non-essere diverrebbe Essere e nel secondo l’Essere diverrebbe non-essere, ma ciò è assurdo perché trasgredisce la legge ontologica, cioè perché è contraddittorio; 2. privo di passato e futuro, cioè eternamente presente: infatti l’Essere passato, cioè l’Essere che fu, non esisterebbe più ora; e l’Essere futuro, cioè l’Essere che sarà, in questo momento non esisterebbe ancora. In entrambi i casi l’Essere n o n esisterebbe, ma ciò è contraddittorio per gli stessi motivi indicati al punto precedente; 3. unico, indifferenziato e omogeneo: infatti se fosse diviso in parti queste potrebbero distinguersi solo in base a qualcosa che fosse diverso dall’Essere, cioè in base al nonessere; e se avesse dei vuoti al proprio interno o dei punti di minore concentrazione essi implicherebbero la presenza del non-essere, ma il non-essere non può esistere; 4. immobile e immodificabile: se si muovesse da A a B, se fosse in A non esisterebbe in B e viceversa; se da verde diventasse giallo, prima non esisterebbe giallo poi non esisterebbe verde: in tutti i casi l’Essere includerebbe il non-essere, ma ciò è assurdo, quindi inammissibile. 5. finito ma non limitato: l’Essere è finito, nel senso che è una totalità conclusa e compiuta, perché altrimenti mancherebbe di qualcosa, cioè conterrebbe non-essere; ma non ha un confine, non è limitato da qualcosa, in quanto potrebbe essere limitato solo dal non-essere, ma il non-essere non esiste. Infine Parmenide attribuisce all’Essere una forma sferica. Infatti, afferma, l’Essere è del tutto compatto e omogeneo e pertanto esercita la stessa pressione in tutte le direzioni. La sfera è appunto la figura geometrica che deriva da una forza che a partire da un punto si espande omogeneamente in tutte le direzioni (le bolle di sapone ne sono un facile esempio). Date queste sue caratteristiche, l’Essere di Parmenide non è a rigore il “principio” (archè), bensì il “fondamento” divino di tutte le cose. Secondo i filosofi precedenti, infatti, il “principio” si trasforma e da unico diventa duplice e poi molteplice. L’Essere invece è immutabile e indifferenziato. Ma allora come spiega Parmenide il mondo naturale mutevole e differenziato, ovvero il divenire? In prima approssimazione, egli afferma che il mondo naturale è un’illusione della conoscenza sensibile, cioè sostiene che i nostri sensi ci 76 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE fanno percepire un’immagine distorta dell’unica vera realtà, l’Essere. La ragione, cioè la conoscenza puramente razionale, invece, ci permette di capire che il divenire naturale – implicando il continuo passaggio dal non-essere all’essere (nascita) e dall’essere al nonessere (morte) – infrange la legge secondo cui il non-essere non può esistere, e dunque non è reale. D’altra parte la conoscenza umana riflette sempre l’Essere e dunque anche l’illusione del divenire naturale deve derivare dall’Essere. Ma in che modo? Come può l’Essere produrre l’illusione dell’esistenza del non-essere senza negarsi? La legge suprema di Parmenide non afferma solo che l’Essere deve esistere ma insieme nega che il non-essere possa esistere. In altre parole l’Essere non consiste solo nella propria autoaffermazione ma anche nella negazione del suo opposto contraddittorio, cioè il non-essere. Ma nel momento in cui lo nega deve in qualche modo conferirgli una sorta di esistenza virtuale, evanescente, fantasmatica: appunto il divenire. Per comprendere meglio questa argomentazione, possiamo considerare un tipico miraggio del deserto, quello di un’oasi, ovvero di un bacino d’acqua. Nel momento stesso in cui capiamo che è un miraggio, neghiamo col ragionamento la realtà effettiva dell’oasi che vediamo, la giudichiamo un’illusione ottica, ma per farlo dobbiamo avere l’esperienza sensibile dell’oasi, cioè dobbiamo ammettere la sua esistenza virtuale, apparente. In conclusione, per Parmenide dobbiamo accettare l’illusione della realtà naturale essendo però consapevoli che esiste solo l’Essere e che pertanto tutti i cambiamenti, le opposizioni e le diversità sono in realtà sempre e solo le maschere di un unico e immutabile Essere/Dio che coincide con il cosmo stesso. 77 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 ZENONE: MOLTEPLICITA’ E MOTO SONO ASSURDI […] Zenone di Elea, il quale faceva al sofista Protagora le seguenti domande: “Dimmi, Protagora, fa rumore cadendo un chicco di grano oppure la decimillesima parte di un chicco di grano?” E avendo Protagora risposto che la decimillesima parte di un chicco di grano non fa rumore, quegli soggiunse: “Ma un medimno6 di chicchi di grano fa rumore o no, quando cade?” E avendo Protagora risposto che fa rumore, Zenone incalzò: “Ma non c’è forse una proporzione fra un medimno di chicchi di grano e un singolo chicco e fra il chicco e la sua decimillesima parte?” E avendo Protagora ammesso che c’è, di rimando disse Zenone: “E non dovranno esserci le stesse reciproche proporzioni anche tra i suoni? Come c’è proporzione tra le cose che producono i suoni, così ci deve essere proporzione fra i suoni; ma se è così, se il medimno di grano fa rumore, anche il chicco da solo fa rumore e anche la sua decimillesima parte”. Così argomentava Zenone. Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele Discepolo di Parmenide, Zenone non si propone di elaborare una nuova filosofia e nemmeno di modificare quella del suo maestro anche solo per perfezionarla. La sua attività filosofica si concentrata completamente su un obiettivo: smontare tutte le critiche alla filosofia di Parmenide per dimostrare che essa è inattaccabile e insuperabile. Ora, Parmenide aveva sostenuto che la vera realtà è unica, indifferenziata e immobile, ovvero che il divenire – molteplicità più cambiamento – è un’illusione dei sensi. Gli avversari di Parmenide erano arrivati a irridere questa tesi in quanto del tutto contraria al senso comune. Per loro, in altre parole, era ovvio che Parmenide avesse torto. Zenone mette in discussione questa ovvietà e ribalta il senso comune. Egli infatti proclama provocatoriamente che non l’unità e la fissità, ma proprio la molteplicità e il cambiamento sono assurdi. La maestria filosofica di Zenone non consiste però in questa tesi ma nel modo in cui l’argomenta per renderla convincente. Egli si avvale di una particolare strategia di argomentazione – già usata da Parmenide ma da Zenone sviluppata in tutte le sue articolazioni ed esplicitata nella sua forma logico-linguistica: la dialettica (in matematica “dimostrazione per assurdo”). L’argomentazione dialettica non adduce ragionamenti o 6 Unità di misura dei volumi corrispondente a c.ca 52 litri. 78 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE prove empiriche a favore della propria tesi ma fa leva su ragionamenti e prove empiriche che smantellano la tesi contraria. Per questo aspetto essa è una confutazione, cioè un’argomentazione negativa, che non argomenta la verità di una tesi, bensì la sua falsità. Attraverso la confutazione però la dialettica pretende di dimostrare indirettamente la tesi opposta a quella confutata. Il presupposto di tale strategia argomentativa è che date due tesi opposte (p.e. “è giorno”/“è notte”) la falsificazione di una delle due comporti automaticamente la convalida dell’altra. Pertanto per Zenone la confutazione della molteplicità della realtà è un argomento a favore della sua unità e la confutazione del mutamento della realtà un argomento a favore della sua fissità. Tra i numerosi argomenti dialettici contro la molteplicità, due hanno particolare rilevanza. Il primo si svolge così: • la molteplicità minima è la dualità; • perché ci siano 2 enti ci dev’essere qualcosa che li distingua/divida; • dunque ci devono essere almeno 3 enti; • ma allora ci vogliono altri 2 enti per distinguerli/dividerli; • dunque ci devono essere almeno 5 enti; • e così via all’infinito, dimodoché la molteplicità risulta indefinita. Zenone scopre così la “progressione (o regressione) all’infinito”, cioè un’argomentazione razionale condannata a proseguire senza mai giungere a una conclusione, il che comporta l’assurdità o insensatezza del suo presupposto: in questo caso l’esistenza della molteplicità. Il secondo argomento contro la molteplicità si dipana in questo modo: • se la realtà fosse molteplice ogni cosa dovrebbe essere divisibile in parti più piccole; • ognuna di queste parti più piccole, avendo comunque una grandezza, può a sua volta essere divisa in parti ancora più piccole, e così via; • in questo modo possiamo arrivare a parti infinitamente piccole; • ma queste parti essendo a loro volta divisibili all’infinito sarebbero composte da infinite sottoparti tutte dotate di una grandezza, seppure minima; • dunque sarebbero infinitamente grandi; • ma ciò è assurdo perché vorrebbe dire che qualcosa è allo stesso tempo infinitamente piccolo e infinitamente grande, il che è contraddittorio. Contro il moto, Zenone elaborò quattro famose argomentazioni dialettiche: 79 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1. Se il moto esiste noi possiamo percorrere uno stadio in tutta la sua lunghezza. Ma per farlo dobbiamo prima raggiungere la sua metà, poi la metà della metà, poi la metà della metà della metà, e così via all’infinito perché vi sono infinite metà. Pertanto non possiamo mai arrivare in fondo. Dunque il moto è solo un’illusione. 2. Se due uomini attraversano uno stadio partendo da lati opposti e muovendosi alla stessa velocità, ognuno di loro ha una velocità V rispetto al fondo dello stadio e 2V rispetto all’altro uomo che si muove nella direzione opposta alla sua. Ciò è assurdo perché significa che una stessa quantità è uguale al suo doppio (V=2V). 3. Se il piè veloce Achille ingaggia una gara di corsa con una tartaruga concedendole una distanza D di vantaggio non vincerà mai la gara. Infatti nel tempo che Achille impiega per percorrere la distanza D, la tartaruga percorre la distanza D1 (<D) e dunque si trova ancora davanti a Achille; nel tempo in cui Achille percorre la distanza D1 la tartaruga percorre la distanza D2 (<D1) e dunque si trova ancora davanti ad Achille; e così via all’infinito. In altre parole, Achille accorcia sempre più la sua distanza dalla tartaruga ma non può mai raggiungerla e superarla. Dunque Achille si muove e non si muove, il che è assurdo perché contraddittorio. 4. Una freccia lanciata da un arco verso un bersaglio percorre una traiettoria. In ognuno degli istanti compresi tra il lancio e l’arrivo al bersaglio la freccia deve occupare un segmento definito di questa traiettoria. Ma appunto se nell’istante T occupa il segmento S compreso tra due punti A e B ciò significa che è ferma. Dunque la freccia dovrebbe al tempo stesso essere ferma e muoversi. Il che è assurdo perché contraddittorio. 80 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI ZENONE, IL CALCOLO INFINITESIMALE E IL PRINCIPIO DI RELATIVITA’ Le argomentazioni dialettiche di Zenone avevano numerose e importantissime implicazioni matematiche e scientifiche. Il loro principale presupposto era infatti la tesi dell’infinita divisibilità dello spazio. Tale tesi spinse i matematici antichi a superare la concezione pitagorica del punto dotato di spessore a favore della concezione del punto privo di dimensioni. In questo modo infatti era possibile ammettere l’infinita divisibilità di un segmento in quanto composto da infiniti punti. Per questa via già nel V sec. a.C. Eudosso arrivò alla scoperta del “metodo di esaustione”, che, sviluppato da Archimede nel III sec. a.C., divenne poi la base dell’invenzione del calcolo infinitesimale alla fine del 1600 ad opera di Newton e Leibniz. L’argomentazione dei due uomini che percorrono uno stadio implicava invece il pricipio di relatività dei moti, che fu poi enunciato da Galilei nel 1600 e quindi fu ampliato e ridefinito da Einstein nella sua teoria della relatività ristretta (1905), diventando un caposaldo della scienza contemporanea. Secondo il principio di relatività i moti inerziali (cioè rettilinei uniformi) sono relativi gli uni agli altri, per cui la loro velocità cambia al mutare del sistema di riferimento. P.e., camminando su un tram io vado a un certa velocità rispetto a un albero esterno e a un’altra velocità rispetto a un passeggero seduto all’interno del tram. Zenone, dunque, aveva intuito il principio di relatività dei moti, ma lo giudicava assurdo, e dunque una prova dell’impossibilità del moto, mentre in seguito fu riconosciuto come una proprietà reale dei moti. Ma anche al senso comune odierno il principio di relatività continua a sembrare assurdo, come dimostrano le reazioni immediate all’affermazione einsteiniana che per la fisica si può descrivere un’auto in viaggio lungo una strada sia dicendo che quell’auto si muove su un nastro d’asfalto fermo sia dicendo che il nastro d’asfalto si muove (nel verso opposto) sotto l’auto ferma. 81 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 LA SCIENZA DEI COSMOLOGI RAZIONALISTI I cosiddetti pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche, facendole progredire; e poiché trovarono in esse il proprio nutrimento, furono del parere che i principi di queste si identificassero con i principi di tutte le cose. […] Essi individuavano, inoltre, nei numeri le proprietà e i rapporti delle armonie musicali e, insomma, pareva loro evidente che tutte le cose modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico. Aristotele, Metafisica, I, A, 5, 985b-986a La scuola pitagorica ha un’enorme importanza per il processo di formazione della scienza. I suoi maggiori contributi alla ricerca scientifica riguardano la matematica, l’acustica e l’astronomia. In campo matematico, i pitagorici fondano innanzitutto l’aritmetica come teoria dei numeri razionali e discreti. Per essi infatti i soli numeri ammissibili sono quelli interi e quelli frazionari (o decimali, periodici compresi), ovvero solo i numeri divisibili tra loro. Di conseguenza i numeri, per i pitagorici, sono discreti, cioè discontinui, ossia ogni numero è una grandezza a sé stante distinta e separata dalle altre. In altre parole, da ogni numero (p.e. il 3) non “si scivola”, ma “si salta” all’altro (p.e. il 4). In base a questa concezione discontinua del numero i pitagorici sostengono la corrispondenza e la traducibilità reciproca di aritmetica e geometria. Una volta stabilito che il numero uno corrisponde a un punto geometrico dotato di grandezza, per quanto minima, diventa possibile far corrispondere a ogni numero un ente geometrico e viceversa. Ciò comporta che tutte le figure geometriche siano concepite come formate da un numero finito di punti. In questo senso la matematica pitagorica è stata definita “aritmogeometria”. In ambito geometrico, poi, si attribuisce a Pitagora il famoso teorema che porta il suo nome: “in ogni triangolo rettangolo la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa”. E’ quasi certo che già egizi e assiro-babilonesi avessero scoperto questa equivalenza almeno nel caso di un triangolo rettangolo con i cateti di valore 3 e 4 e l’ipotenusa di valore 5 (nonché in altri casi particolari analoghi). La scoperta di Pitagora consiste nell’aver compreso e dimostrato che si tratta di una proprietà generale, cioè nell’essere passato dal rilevamento della presenza di una proprietà 82 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE in alcuni casi alla formulazione e alla dimostrazione di una legge certamente valida per tutti i casi di triangoli rettangoli. Si tratta di una riconduzione di una molteplicità differenziata a una unità omogenea che per i pitagorici attesta la potenza ordinatrice della matematica. L’acustica, ovvero la parte della musica che studia i suoni, è considerata dai pitagorici un’applicazione dell’aritmetica al mondo fisico, così come l’astronomia un’applicazione della geometria al mondo fisico. In campo acustico, la tradizione attribuisce a Pitagora la teoria matematica degli intervalli musicali di ottava (tra un do e quello successivo di più alta tonalità), di quinta (tra un do e il sol successivo) e di quarta (tra un do e il fa successivo). Pitagora comprende infatti che l’ottava corrisponde al rapporto matematico 2 a 1, la quinta a quello di 3 a 2, la quarta a quello di 4 a 3. Ciò significa, per esempio, che per passare da un do a quello più alto o più basso bisogna dimezzare o raddoppiare il peso di un martello da percussione oppure la lunghezza di una corda di chitarra. Analogamente negli altri due casi. Di fondamentale importanza l’apporto che i pitagorici danno all’astronomia. Essi, infatti, in contrasto con i filosofi di Mileto, sostengono che il cosmo è finito e sferico, che il suo centro è occupato non dalla Terra ma da un Fuoco sacro (Hestìa), manifestazione fisica del Limite. Per i pitagorici, intorno a questo fuoco centrale ruotano 10 corpi celesti, tutti sferici (dal più vicino al più lontano): l’Antiterra (considerata invisibile), la Terra (sferica anch’essa), la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e il cielo delle stelle fisse. L’inserimento dell’Antiterra si spiega sia con l’esigenza di rispettare il numero 10, cui i pitagorici attribuivano un valore sacro, sia con la soluzione del problema astronomico della maggiore frequenza, relativamente allo stesso punto di osservazione terrestre, delle eclissi di Luna rispetto alle eclissi di Sole. I moti dei corpi celesti per Pitagora sono ordinati matematicamente e proprio per questo producono una musica che però l’udito umano non è in grado di percepire. Filolao sviluppa la teoria astronomica pitagorica originaria sostenendo che il fuoco/limite centrale ha prodotto l’intero cosmo dapprima inspirando l’illimitato caotico circostante e poi espirandolo ordinatamente intorno a sé. Filolao, inoltre, afferma che il Sole è solo uno specchio che riflette il fuoco centrale o Hestìa. 83 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La matematica della scuola pitagorica entra in crisi a causa della scoperta delle grandezze incommensurabili, ovvero dei numeri irrazionali. Secondo la tradizione, questa scoperta, opera degli stessi pitagorici, era stata dichiarata un segreto che era proibito divulgare pubblicamente. Ma il divieto fu infranto dal pitagorico Ippaso di Metaponto, che per questo sarebbe stato cacciato dalla scuola come “traditore”. La scoperta degli incommensurabili nasce dall’applicazione del teorema di Pitagora ai due triangoli rettangoli isosceli in cui si può dividere un quadrato. Attribuendo ai cateti (cioè ai lati del quadrato) una lunghezza 1, la lunghezza dell’ipotenusa risulta essere uguale alla radice quadrata di 2, che è un numero irrazionale, di cui i pitagorici negavano e aborrivano l’esistenza. Ciò significa che lato e diagonale di un quadrato non sono divisibili tra loro in quanto non possiedono un sottomultiplo comune, cioè una grandezza, per quanto minima, che stia un numero intero e finito di volte m nel lato, e un numero intero e finito di volte n nella diagonale. In una parola, lato e diagonale del quadrato sono appunto grandezze incommensurabili, cioè che non si possono misurare insieme, con la stessa unità di misura. Così stando le cose, non è più possibile pensare che lato e diagonale, e quindi in generale tutte le grandezze geometriche, siano composti da un numero finito di punti. In questo caso infatti almeno un punto, cioè una grandezza minima, dovrebbe essere presente un numero intero e finito di volte m nel lato e un numero intero e finito di volte n nella diagonale. Di conseguenza diventa necessario concepire le grandezze geometriche come composte da infiniti punti senza dimensioni. Ma ciò a sua volta comporta la rottura della corrispondenza tra aritmetica e geometria. Eraclìto fu forse il primo filosofo a fornire una teoria delle fasi lunari e delle eclissi di Sole e di Luna. Secondo lui, questi fenomeni astronomici sono la conseguenza del fatto che Luna e Sole sono fuochi contenuti in sfere, probabilmente di metallo, ruotanti intorno alla Terra. Alcune parti della superficie di queste sfere sono opache e quando esse sono rivolte verso la Terra noi vediamo oscurarsi in parte o completamente il Sole o la Luna. Parmenide confuta la teoria di Eraclìto e le contrappone una teoria alternativa. Secondo Parmenide, i fenomeni delle fasi lunari e delle eclissi solari e lunari sono illusori, in quanto prodotti da un gioco di luce e ombra. In altre parole, le fasi lunari dipendono dalle diverse prospettive in cui dalla Terra possiamo osservare la metà illuminata della Luna; le eclissi dall’anteporsi della Luna al Sole e dal frapporsi della Terra tra il Sole e la Luna. Zenone, invece, con i suoi paradossi dà un contributo agli sviluppi della matematica, in particolare della geometria. Infatti, le sue argomentazioni dialettiche contro il moto e la molteplicità si imperniano sulla concezione delle grandezze geometriche come composte da infiniti punti senza dimensioni e pertanto infinitamente divisibili. In questo modo 84 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Zenone evidenzia tutta la spinosa problematicità del concetto di infinito. Riflettendo sui paradossi di Zenone, i matematici Greci successivi arrivano a stabilire la distinzione tra infinito potenziale (p.e. una retta) ed infinito attuale (p.e. l’insieme di tutti i numeri interi), accettando il primo come reale e rifiutando il secondo come impossibile e dunque irreale. La scienza medica greca comincia a formarsi nel V sec. nella città di Cnido, sulle coste dell’Asia Minore. La scuola medica di Cnido concepisce e pratica la medicina solamente come patologia, cioè diagnostica e terapia, e segue un’impostazione decisamente empiristica, preoccupandosi unicamente di registrare e accumulare innumerevoli casi di malattia e i loro sintomi. Un ulteriore e più significativo sviluppo della medicina si ha a Crotone, la città dove si trasferì Pitagora, soprattutto grazie a Alcmeone. Questi dà inizio alla pratica della dissezione, giungendo a comprendere che le sensazioni, pur partendo dagli organi di senso, fanno capo al cervello, che per lui è l’organo della comprensione e della coscienza. Alcmeone, inoltre, allarga la medicina alla fisiologia e alla biologia del corpo umano. Egli, infine, non si limita a registrare i dati dell’esperienza ma li unifica in base a ipotesi teoriche. In questo senso, Alcmeone elabora una teoria generale della malattia come rottura dell’equilibrio tra le varie componenti del corpo a causa della prevalenza di una di esse facilitata dall’influenza di fattori ambientali. E’ evidente la connessione tra questa nuova impostazione più teorica della medicina e lo sviluppo delle filosofie fisico-razionaliste di Eraclìto, Pitagora e Parmenide. 85 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO AMIR D. ACZEL: LA SCOPERTA DEL CONTINUO GEOMETRICO In un certo senso, l’idea pitagorica della divinità degli interi morì con Ippaso, per essere sostituita dal più ricco concetto di continuo: infatti, la geometria greca nacque dopo che il mondo venne a conoscenza dell’esistenza dei numeri irrazionali. La geometria ha a che fare con linee, piani e angoli, che sono tutte entità continue. I numeri irrazionali sono gli abitatori naturali del mondo del continuo (sebbene anche i numeri razionali “vivano” in quel mondo) dal momento che costituiscono la maggioranza dei numeri presenti in esso. Amir D. Aczel, Il mistero dell’Alef, Net/il Saggiatore 2002, pp. 23-24 KARL POPPER: LE FASI LUNARI COME “GIOCO DI OMBRA E LUCE” Parmenide era un filosofo della natura (nel senso della philosophia naturalis di Newton). Un’intera serie di importantissime scoperte astronomiche viene attribuita a lui: che la stella del mattino e quella della sera siano una sola identica stella7, che la Terra sia sferica (anziché a forma cilindrica o di colonna, come pensava Anassimandro). Più o meno della stessa importanza è la sua scoperta che le fasi lunari sono dovute al cambiamento del modo in cui la metà illuminata della Luna viene vista dalla Terra. Prima di questa la più ingegnosa teoria delle fasi lunari era dovuta a Eraclito. Egli spiegava che le fasi lunari e le eclissi di Luna e di Sole erano tutte da interpretare partendo dall’assunzione che questi corpi fossero fuochi contenuti in sfere (di metallo?) che ruotavano attorno alla Terra: essi potevano volgere le loro zone oscure in parte, o del tutto, verso di noi. Secondo questa teoria, la Luna non starebbe più crescendo o calando, ma le sue fasi sarebbero invece il risultato di un vero e proprio movimento all’interno della Luna. Ma, in accordo con la nuova scoperta di Parmenide, le fasi della Luna non erano affatto dovute a motivi di questo genere. Esse non coinvolgevano alcun tempo di mutamento e di movimento effettivo della Luna. Erano, piuttosto, un’illusione – l’ingannevole effetto di un gioco di luce e di ombra. K. Popper, The classical Quarterly (1992), numero di dicembre 1995 della rivista Reset 7 Venere, chiamata rispettivamente “Fosforo” (in greco “porta-luce”, equivalente di Lucifero, di origine latina) e “Espero” (in greco “della sera”, equivalente di Vespero in latino) 86 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE II VIAGGIO L’ORDINE COME INTERAZIONE DI PIÙ PRINCIPI FISICI 87 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… I COSMOLOGI PLURALISTI Dal confronto argomentativo tra i fisici monisti (Talete, Anassimandro, Anassìmene) e i fisici razionalisti (Eraclìto, Pitagora, Filolao, Parmenide, Zenone) emerge alla metà del V secolo a.C. una nuova tendenza filosofica che ha i suoi principali esponenti in Empedocle, Anassagora e Democrito. Questi nuovi filosofi cercano di valorizzare la realtà fisico-naturale, anche e soprattutto in quanto divenire, cioè molteplicità e mutamento, rispettando però la legge parmenidea dell’inammissibilità del nulla (o non-essere). Per raggiungere la difficile conciliazione tra il divenire e l’essere, i fisici pluralisti teorizzano la derivazione di tutte le cose naturali non da un unico principio fisico e dalle sue mutazioni, bensì da una pluralità (ecco perché “pluralisti”) di principi fisici immutabili che continuamente si aggregano e si disgregano in modi diversi generando tutte le cose naturali. Data questa impostazione, il processo di aggregazione/disgregazione dei principi assume un ruolo centrale. In questo senso, i fisici pluralisti individuano, accanto ai principi, delle “forze”, sempre fisiche ma distinte dai principi, che ne causano perennemente, secondo una regola immutabile ed eterna, le combinazioni e le suddivisioni. Tuttavia, le filosofie di Empedocle, Anassagora e Democrito concepiscono e configurano in modi divergenti sia i principi che costituiscono tutte le cose sia le forze che ne governano la continua generazione e dissoluzione. I “cosmologi (o fisici) pluralisti”, dunque, non costituiscono una “scuola”. Secondo Empedocle, i principi sono i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco – da lui chiamati “radici” – e le forze che ne governano combinazioni e ricombinazioni sono l’amicizia (attrazione) e la contesa (repulsione). Anassagora, invece, ritiene che i principi siano infiniti, li chiama “semi” e li identifica con le innumerevoli proprietà qualitative di tutte le cose. Secondo lui, i semi sono governati dall’ “Intelletto”, una forza razionale dotata di una materialità finissima. Nonostante le loro diversità, Empedocle e Anassagora condividono una concezione organicistica della natura, cioè pensano che tutti gli esseri naturali siano viventi, e di conseguenza ritengono primarie le loro proprietà qualitative (odori, colori, sapori, ecc.). Democrito, invece, si differenzia nettamente da entrambi perché ritiene che la natura sia meccanica, ossia che tutti gli esseri naturali siano delle “macchine”. Secondo Democrito, infatti, tutto è composto di infiniti “indivisibili” (in greco àtoma), cioè di particelle materiali microscopiche, e dunque invisibili, prive di vita e caratterizzate unicamente da proprietà quantitative (volume, lunghezza, larghezza, velocità, ecc.). La forza che, per Democrito, governa l’aggregazione e la disgregazione degli indivisibili è il loro moto, considerato una loro proprietà originaria. 88 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI EMPEDOCLE, ANASSAGORA E DEMOCRITO I fisici pluralisti coprono geograficamente tutta la Grecia – madrepatria, Grecia italica occidentale e Grecia ionica orientale – sia per la posizione delle loro città di nascita sia perché soggiornarono in molte città diverse da quelle di nascita e in taluni casi vi si stabilirono definitivamente. In particolare, fu Atene il polo di attrazione principale di molti filosofi. Atene, infatti, nel corso del V sec. diventò la polis economicamente, politicamente e culturalmente più sviluppata e al tempo stesso il simbolo della massima fioritura dell’intera civiltà greca. Nato ad Agrigento, in Sicilia, da famiglia aristocratica, Empedocle (490-430 c.ca) fu il leader del partito democratico della sua città e per questo fu esiliato nel Peloponneso. Scrisse due poemi filosofici: Sulla natura, di argomento cosmologico; Purificazioni, di argomento morale ed escatologico (relativo cioè al destino ultraterreno dell’uomo). Di entrambi i poemi ci restano un centinaio di versi. Ricercatore scientifico a livello fisico, biologico e medico, esperto di tecniche, preferì però proporsi come guaritore e mago, e addirittura come un dio fattosi uomo. Questa immagine fece nascere le più disparate leggende sul suo conto: gli vengono attribuiti dalla tradizione dei veri e propri miracoli, tra cui addirittura la resurrezione di una donna, e ci viene tramandato che non morì di morte naturale ma, secondo una fonte, che fu rapito da una luce celeste oppure, secondo un’altra fonte, che si buttò nel cratere dell’Etna per riunirsi al fuoco sacro e riacquisire il proprio rango divino. Anassagora (496-428 c.ca) nacque a Clazòmene, colonia ionica dell’Asia Minore sul mar Egeo, situata poco più a nord di Efeso, ma si trasferì ad Atene, aprendovi una scuola e introducendovi così per primo la filosofia. Ad Atene trascorse la maggior parte della sua vita, diventando maestro, consigliere e amico di Pericle. Ciò nonostante, intorno al 430, venne condannato a morte per ateismo dal tribunale popolare della democratica Atene in seguito all’accusa di aver negato il carattere divino del Sole e degli astri. Solo grazie all’intervento di Pericle la condanna a morte gli viene commutata in esilio. Morì a Lampsaco, sul Bosforo, lasciando un’unica opera in prosa, intitolata Sulla natura, di cui ci rimangono alcuni frammenti. Democrito (460-370 c.ca) nacque ad Abdera, città della costa egeica della Tracia, regione del Nord-est della Grecia, situata tra il Mar Nero e il mare Egeo. Probabilmente di estrazione sociale altolocata, rinunciò al godimento delle sue ricchezze per dedicarsi alla ricerca scientifica. Si formò soprattutto nella scuola di Leucippo (480 ca.-?), fondatore del cosiddetto “atomismo”, nato a Mileto, ma trasferitosi ad Abdera in seguito alla presa del potere da parte del partito aristocratico. Dell’indirizzo atomistico Democrito è il continuatore e il principale esponente. La tradizione gli attribuisce molti viaggi: in Egitto, Persia, Etiopia e addirittura in India. Di sicuro soggiornò ad Atene più volte nella sua vita, pur tornando sempre ad Abdera. Visse molto a lungo, morì novantenne, ma negli ultimi 89 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE anni di vita divenne cieco anche a causa dell’intensa attività di lettura, di scrittura ma anche di osservazione dei cieli. Gli sono attribuiti più di cinquanta trattati che spaziano in tutto lo scibile umano: cosmologia, matematica, etica, musica, medicina, biologia, agricoltura, linguistica, storia. Alcuni di essi (Grande cosmologia, Sull’intelletto) è però probabile che siano del suo maestro Leucippo. Purtroppo non ce ne sono giunti che pochi frammenti, anche a causa della censura che la sua opera subì per le sue implicazioni ateistiche. 90 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 EMPEDOCLE: I PRINCIPI SONO RADICI, AMICIZIA E CONTESA Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate, ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini. […] E queste cose continuamente mutando non cessano mai, una volta ricongiungendosi tutte nell’uno per Amicizia, altra volta portate in direzioni opposte dall’inimicizia della Contesa. Empedocle, Sulla natura Il problema fondamentale che Empedocle si pone e affronta è quello di come conciliare l’essere, cioè l’immutabilità della realtà, con il divenire, cioè il mutamento della realtà. Empedocle, infatti, riconosce la fondatezza dell’argomentazione con la quale Parmenide aveva dichiarato inammissibile il non-essere, ma non quella del suo corollario, il carattere del tutto illusorio e ingannevole del divenire. In altre parole il problema di Empedocle è: come si deve pensare il divenire senza implicare l’esistenza del non-essere, in modo tale che esso risulti pienamente reale e veritiero? La soluzione offerta da Empedocle parte dalle tesi secondo cui il cosmo naturale ha quattro “radici” (rìzai), cioè quattro principi fisici originari: la terra, l’acqua, il fuoco, il soffio (aria). Questi elementi per Empedocle sono eterni, immutabili e divini, in quanto non si generano, non si distruggono e ognuno è sempre uguale a se stesso, cioè non subisce alcuna trasformazione. Essi costituiscono pertanto l’essere, la realtà suprema e fondamentale. Ma come si forma allora il cosmo naturale? L’originalità di Empedocle sta proprio nella risposta a questa domanda. Egli infatti inventa una nuova cosmogonia secondo cui il cosmo nasce dalla suddivisione delle quattro radici in miriadi di frammenti e dall’aggregazione di frammenti dell’una con i frammenti di una, di due o di tutte e tre le altre. Ma la combinazione di soli quattro elementi come può spiegare l’esistenza di miriadi di cose tra loro diverse? La grande varietà degli enti naturali, risponde Empedocle, è dovuta all’intreccio delle qualità e delle quantità delle radici. Ogni Radice è infatti 91 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE qualitativamente diversa dalle altre e ciò costituisce il fondamento qualitativo della diversità. In secondo luogo, le parti qualitativamente differenziate di ogni Radice si combinano con le parti delle altre in proporzioni quantitative sempre diverse. In altre parole ogni specie di enti naturali è una miscela di parti delle quattro radici basata su un peculiare rapporto quantitativo. Ciò spiega le proprietà distintive di ogni specie naturale. Ma cosa provoca la frammentazione delle quattro radici e la ricombinazione dei frammenti di una con quelli delle altre? E in che modo ciò avviene? Per risolvere questi problemi, Empedocle affianca alle quattro radici due forze cosmiche, distinte da esse ma agenti al loro interno: 1) Amicizia (Philìa), cioè la forza attrattiva che unifica le parti delle radici; 2) Contesa (Nèikos), cioè la forza repulsiva che separa le parti delle radici. Amicizia e Contesa, eterne e qualitativamente immutabili come le radici, interagiscono sempre tra di loro, ovvero si contrappongono e si bilanciano in proporzioni quantitativamente diverse. Le proporzioni dell’interazione Amicizia-Contesa, in continuo e ciclico mutamento, sono il fondamento delle proporzioni di combinazione, anch’esse in ciclico mutamento, delle radici. In questo senso il cambiamento ciclico dell’interazione Amicizia-Contesa costituisce la Legge che governa il cosmo e spiega il suo divenire. Essendo ciclica, tale Legge si scandisce e si attua in quattro fasi principali, che si ripetono eternamente, cosicché nessuna di esse va considerata né origine né fine: a) la fase in cui Amicizia raggiunge la massima intensità e Contesa quella minima: tutte le parti delle radici sono completamente unificate in un essere unico di forma sferica, omogeneo e indifferenziato; b) la fase in cui Contesa aumenta progressivamente la sua intensità e Amicizia la diminuisce: è una delle due fasi in cui il cosmo si forma, esiste propriamente e si evolve passando dal massimo ordine al massimo disordine; c) la fase in cui Contesa raggiunge la massima intensità e Amicizia quella minima: tutte le quattro radici sono completamente divise e separate l’una dall’altra; d) la fase in cui Amicizia aumenta progressivamente la sua intensità e Contesa la diminuisce: è la seconda delle due fasi in cui il cosmo si forma, esiste propriamente e si evolve, ma questa volta procede dal massimo di disordine al massimo di ordine. Con la sua nuova cosmogonia Empedocle riabilita dal punto di vista razionale la molteplicità e il mutamento – cioè il divenire – di cui Parmenide e Zenone avevano 92 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE argomentato l’assurdità in quanto, secondo loro, il divenire implica l’esistenza del nonessere, cioè una palese contraddizione. Infatti, in base alla teoria di Empedocle: • la generazione o nascita non è il passaggio dal non-essere all’essere, ma l’aggregazione di parti dell’essere unico ed eterno (le radici); • la dissoluzione o morte non è il passaggio dall’essere al non-essere, ma la separazione di parti dell’essere unico ed eterno; • il mutamento non è la distruzione di una proprietà e la formazione di un’altra proprietà che sostituisce la prima – p.e. la perdita dei capelli bruni e la loro sostituzione con i capelli bianchi – ma è sempre un processo di scombinazione e ricombinazione di parti delle radici che esistono eternamente. In questo modo Empedocle può legittimare la realtà del divenire senza affermare l’esistenza del nulla, cioè senza infrangere la legge filosofica della non-contraddizione che Parmenide e Zenone aveva imposto grazie alla loro rigorosa argomentazione razionale. Per raggiungere tale risultato, Empedocle però presuppone la molteplicità originaria dell’essere (Amicizia, Contesa, radici), anch’essa contraddittoria secondo Parmenide, senza offrire una confutazione della tesi parmenidea secondo cui anche la diversità implica l’ammissione del nulla (p.e. l’Aria è non-essere del Fuoco, dunque il suo annullamento). In base alla sua visione ciclica del cosmo, Empedocle spiega anche e anzi soprattutto i fenomeni biologici. A questo proposito, egli sostiene, per esempio, che gli esseri viventi si formano gradualmente per progressive combinazioni. Inizialmente, per congiunzione di membra separate, si generano esseri mostruosi, come i minotauri, i quali, però, non essendo in grado di sopravvivere, sono poi sostituiti dai viventi esistenti, nati da aggregazioni armoniose e quindi capaci di sopravvivere. Di particolare interesse, nell’ambito della biologia empedoclea, è la spiegazione e soprattutto l’argomentazione della respirazione. Secondo Empedocle, gli animali aerobici respirano attraverso i pori della pelle e l’aria inspirata circola all’interno del corpo attraverso i vasi sanguigni. Per giustificare la duplice circolazione di sangue e aria nei vasi sanguigni Empedocle teorizza un meccanismo capace di alternare al loro interno flussi di aria (inspirazione) e flussi di sangue (espirazione). L’argomentazione di questa teoria della “corrente alternata” consiste in una sorta di esperimento: Empedocle sostiene che se prendiamo una clessidra ad acqua (una specie di vaso-imbuto con un piccolo foro alla base) vuota, ne tappiamo con la mano l’entrata e la immergiamo nell’acqua, essa non si riempie (a causa della pressione dell’aria); se, invece, togliamo la mano, la immergiamo nell’acqua, la lasciamo riempire e poi la tiriamo fuori dall’acqua tappando l’entrata, allora l’acqua non esce dal foro della base (sempre per la pressione dell’aria). In altre parole: i pori della pelle, aprendosi e chiudendosi, fanno scorrere nei vasi sanguigni o solo sangue o solo aria. 93 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Abbiamo già incontrato in Anassìmene (Rotta A, tappa 3) e nei pitagorici (Rotta B, tappa 1) alcuni esempi di protoesperimenti. Questo di Empedocle, come quelli dei pitagorici, a differenza di quello di Anassimene, sembra avvicinarsi ancora di più all’esperimento in senso proprio in quanto anziché usare solo il corpo umano usa degli oggetti artificiali (la clessidra). Tuttavia, esso diverge dall’esperimento della scienza moderna perché non è diretto, ma indiretto, cioè non utilizza l’oggetto della teoria da controllare – cioè la pelle, il sangue e il respiro – ma un oggetto diverso – una clessidra, l’acqua e l’aria. In altri termini, l’argomentazione sperimentale di Empedocle si basa sull’assunzione di un’uguaglianza, tutta da provare, tra il funzionamento della pelle e dei vasi sanguigni e quello della clessidra. In realtà, l’argomentazione empedoclea è di tipo analogico, cioè fa leva sulla somiglianza tra il fenomeno biologico e la sua ricostruzione sperimentale. In questo senso possiamo dire che, a livello di strategia argomentativa, Empedocle scopre appunto l’argomentazione analogica. La ciclicità del cosmo per Empedocle si manifesta anche nel destino esistenziale dell’uomo legato al ciclo delle reincarnazioni. Da questo punto di vista Empedocle condivide la teoria della metempsicosi di orgine orfica e già ripresa dai pitagorici. Egli però la personalizza e insieme la radicalizza affermando che ogni uomo in origine è un “dèmone”, cioè un dio minore, una divinità di rango inferiore rispetto ai massimi dei olimpici (Zeus, Era, Ares, Afrodite, ecc.) ma pur sempre un essere superiore e immortale come gli dei olimpici e, come loro, consistente in un puro “respiro” (psyché), ovvero privo di corpo. In seguito a un atto di violenza aggravato da un falso giuramento di innocenza, entrambi dovuti alla relativa prevalenza in lui di Contesa, il dèmone-uomo è condannato dagli dei sommi a perdere la sua condizione divina, ad acquisire un corpo e a reincarnarsi in numerose vite successive, non solo umane ma anche animali e vegetali, per un periodo lunghissimo benché pur sempre finito. Da questa dottrina del destino esistenziale dell’uomo Empedocle fa discendere un’etica consistente in regole di purificazione, tra cui il vegetarianesimo e la non-violenza nei confronti non solo degli uomini ma anche degli animali. Attraverso l’autopurificazione, infatti, ogni individuo può reincarnarsi in forme sempre più elevate di esistenza umana fino a ripristinare il proprio rango divino originario. 94 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI EMPEDOCLE E LA TEORIA DEL BIG BANG La cosmogonia di Empedocle è collegabile alla teoria contemporanea del Big bang secondo la quale l’universo si è formato circa 14 miliardi di anni fa in seguito all’esplosione di una “singolarità” cioè di un grumo superconcentrato ed omogeneo di energia/materia con dimensioni nulle. Amicizia e Contesa possono essere avvicinate a due delle grandi forze dell’universo individuate dalla teoria del Big bang: la forza centrifuga repulsiva derivante dall’esplosione/espansione originaria e la forza centripeta attrattiva, o forza gravitazionale, prodotta dalla materia presente nell’universo. Inoltre la concezione empedoclea del ciclo cosmico di formazione-distruzioneriformazione dell’universo è affine a una delle tre ipotesi scientifiche attuali sul decorso futuro dell’universo: quella del cosiddetto “big crunch” secondo cui – data la possibile prevalenza della forza gravitazionale centripeta su quella espansiva centrifuga – l’espansione dell’universo si fermerà ed esso imploderà su sé stesso fino a tornare una singolarità che poi riesploderà nuovamente per dare origine di nuovo all’universo. 95 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 ANASSAGORA: I PRINCIPI SONO I “SEMI” E L’INTELLIGENZA Insieme erano tutte le cose, illimiti per quantità e per piccolezza, perché anche il piccolo era illimite. E stando tutte insieme, nessuna era discernibile, a causa della piccolezza: su tutte predominavano l’aria e l’etere, essendo entrambi illimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per quantità e per grandezza. DK 59 B 1 Bisogna supporre che in tutti gli aggregati ci siano molte cose e di ogni genere, cioè semi di tutte le cose con forme e colori e sapori di ogni tipo. […] Mentre tutte le altre cose sono parti di ogni altra cosa, l’Intelligenza è illimitata, si autogoverna, non è mescolata ad alcuna cosa ma è autonomamente in sé. Se non fosse in se stessa, ma fosse mescolata ad altro, prenderebbe parte a tutte le cose […] In tutto si trova infatti parte di ogni cosa […] e le cose mischiate con essa la limiterebbero impedendole di dominarle […] E’ infatti la più sottile e la più pura di tutte le cose e possiede piena conoscenza di tutto […]; e su quante cose hanno vita, quelle più grandi e quelle più piccole, su tutte domina l’Intelligenza. Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros Per Anassagora il cosmo naturale possiede infiniti elementi costitutivi, corrispondenti alle proprietà qualitative di tutte le cose. Anassagora li denomina “semi” (spèrmata) per significare appunto che essi sono i principi generativi di tutti gli enti naturali. I semi sono infiniti in un duplice senso: • il loro numero totale è infinito • i loro tipi sono infiniti. Insomma, per Anassagora vi sono infinite differenze qualitative originarie che danno ragione dell’immensa varietà di enti e caratteristiche presente nel cosmo. Esempi di semi, cioè di queste infinite qualità originarie, sono: il legno, il granito, la carne, l’erba, la piuma, l’oro, ecc. Secondo Anassagora, ogni seme è invisibile, perché di dimensioni infinitamente piccole. I semi, infatti, sono infiniti anche in un ulteriore senso: essi possono essere divisi all’infinito. Però, ognuna delle parti in cui un seme viene diviso rimane qualitativamente identica ad esso in quanto mantiene la sua stessa composizione. 96 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In quanto infinitamente divisibili e quindi capaci di contenere infiniti aspetti, ogni seme contiene al suo interno tutti gli altri, cioè anche ogni altro tipo di qualità. Da questo punto di vista, afferma Anassagora, ogni seme è del tutto omogeneo a tutti gli altri semi. Ma allora come fanno a essere diversi? Anassagora chiarisce che ogni tipo di semi si differenzia dagli altri perché in ognuno di essi prevale quantitativamente quell’aspetto qualitativo che ne costituisce l’identità propria. Per esempio, nel seme dell’oro c’è anche il legno, il granito, la carne, ecc., ma le parti auree prevalgono quantitativamente su tutte quelle di altro tipo. I semi, per Anassagora, sono eterni. Essi non si generano, non si distruggono e non mutano. Gli enti naturali non sono altro che dei composti di semi. La loro generazione, la loro dissoluzione e il loro cambiamento sono la conseguenza dell’aggregazione e della disgregazione parziale o totale dei semi che li compongono. Il mutamento, pertanto, è razionalmente accettabile perché non implica l’ammissione dell’esistenza del nulla. Ogni seme contiene tutti gli altri, seppure in numero minore, e a sua volta ogni cosa contiene ogni tipo di seme, benché in numero e quindi in proporzioni diverse rispetto alle altre cose. In questo senso Anassagora afferma che “tutto è in tutto”, cioè che ogni cosa ha in sé gli stessi elementi con cui sono fatte tutte le altre, ovvero tutte le cose sono tra loro qualitativamente omogenee. Anassagora può così conseguire tre importanti risultati: 1) legittimare razionalmente non solo il mutamento ma anche la molteplicità degli enti naturali, ovvero argomentare in modo stringente che ammettere la molteplicità non significa ammettere il non-essere: infatti, dal momento che ogni cosa contiene le stesse qualità di ogni altra, seppur in proporzioni differenti nessuna cosa non è un’altra, cioè la negazione assoluta di un’altra cosa diversa; 2) concepire le qualità opposte come complementari, cioè fondamentalmente unite, ovvero mai contraddittorie: infatti, per esempio, il caldo non è l’opposto contraddittorio del freddo, ma una quantità minore di freddo, così come il freddo è una quantità minore di caldo. In altre parole, gli opposti apparentemente contraddittori sono solo livelli quantitativi diversi di una stessa qualità. 3) spiegare il fenomeno biologico dell’alimentazione e altri fenomeni naturali analoghi (che oggi chiamiamo “reazioni chimiche”) nei quali alcune sostanze si trasformano in altre completamente diverse (per esempio il pane mangiato dall’uomo si trasforma in capelli, ossa, muscoli). Il processo bio-chimico della digestione diventa, così, per Anassagora un argomento empirico, e dunque di tipo induttivo, a sostegno della sua teoria dei semi: il fatto che le sostanze che mangiamo si trasformino in tessuti del nostro corpo prova che tutto è costituito dai semi. 97 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma come avviene il passaggio dai semi originari al cosmo? In origine, infatti, sostiene Anassagora, tutti i semi sono condensati in una sorta di caotico magma. In questo stato le loro qualità non sono differenziate e perciò non possono manifestarsi, rendersi visibili, essere pienamente reali. Il magma originario, insomma, è, per così dire, come una nebbia uniformemente grigia. Per spiegare il passaggio dal magma al cosmo, Anassagora introduce un nuovo principio, l’Intelligenza. Si tratta di un principio pur sempre fisico, ma eterno, immutabile e quindi divino, dotato di una fisicità finissima e illimitata che gli permette di avvolgere e compenetrare tutte le cose. Esso non ha carattere personale, cioè non possiede coscienza, intenzionalità e volontà, ma non è nemmeno soltanto una forza cosmica. E’ piuttosto una legge razionale e dinamica che governa tutte le cose. Come tale è presente in ogni cosa ma senza mescolarsi con nessuna. In questo modo non è limitata da niente e quindi è del tutto indipendente e può pertanto imporre il suo ordine a tutti gli enti naturali. L’Intelligenza dà origine al cosmo imprimendo al magma primordiale un movimento rotatorio che a sua volta provoca la separazione: • dei semi più pesanti, quelli più densi, freddi, umidi e opachi, in origine fusi nell’aria; • dai semi più leggeri, quelli più rarefatti, caldi, secchi e luminosi, fusi nell’etere (dal greco aìthein=ardere, brillare), la sostanza di cui è fatto il cielo. Per effetto della forza centrifuga prodotta dalla rotazione, infatti, i semi più pesanti si dispongono nel centro, quelli più leggeri si dislocano ai bordi. A partire da questa distinzione, l’Intelligenza orchestra il processo di continua aggregazione, disgregazione e riaggregazione dei semi in base al quale il cosmo naturale prende forma e muta. In questo modo dall’etere si formano gli astri e dall’aria tutti gli elementi terrestri (acqua e terra). Il processo di formazione e trasformazione del cosmo si configura per Anassagora come un’evoluzione lineare, cioè come un processo di progressivo e continuo perfezionamento. Con la teoria dei semi Anassagora spiega e norma anche la conoscenza umana. Secondo Anassagora, la conoscenza, per essere veritiera, deve partire dalle sensazioni, cioè dall’esperienza sensibile. I dati sensibili al loro volta sono conservati, ma anche collegati e ordinati per tipi, dalla facoltà della memoria. In base ai dati sensibili l’intelligenza umana elabora delle ipotesi teoriche di spiegazione dei fenomeni. Quando le teorie trovano conferma in un gran numero di dati sensibili accumulatisi nella memoria allora diventano scienza, cioè conoscenza veritiera e quindi affidabile. In questo senso, Anassagora sostiene una strategia argomentativa di tipo empirico-induttivo. 98 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tuttavia, le conoscenze scientifiche per Anassagora hanno anche uno scopo pratico. In altre parole, esse devono tradursi in tecniche applicabili alla realtà naturale e capaci di trasformarla in modo da permettere all’uomo di produrre ciò di cui ha bisogno. In questa prospettiva, l’applicazione tecnica efficace di un’ipotesi scientifica costituisce un’ulteriore, importante conferma della sua verità. Anassagora introduce così una nuova strategia argomentativa, l’argomentazione pragmatica, che è induttiva come quella empirica, ma non fa leva sulla corrispondenza tra una tesi e numerose osservazioni sensibili ma sulla capacità di quella tesi di tradursi in tecniche che producono effetti efficaci e vantaggiosi per l’uomo. Inoltre l’attività tecnica, per Anassagora, è occasione a sua volta di nuove e più approfondite esperienze sensibili e contribuisce così al progresso della scienza. In questa prospettiva, Anassagora ritiene che l’intelligenza dell’uomo sia strettamente connessa e direttamente proporzionale alla sua abilità manuale. 99 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI ANASSAGORA E LA CHIMICA E LA FISICA La chimica contemporanea ha accertato l’esistenza di 104 elementi di base, di cui 90 naturali e 14 artificiali. La fisica subnucleare è giunta (forse solo per il momento) a individuare come parti minime della materia gli elettroni, i muoni, i tau, 3 tipi di neutrini (elettronico, muonico e tau) e 6 tipi di quark (up, down, bottom, top, strange, charme). Ma ci sono anche le particelle che costituiscono le 4 forze fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale, nucleare debole e nucleare forte), e cioè fotoni, gravitoni, bosoni Z°,W-,W+, e gluoni. Insomma 28 tipi di particelle elementari, che diventano 56 considerando le rispettive antiparticelle di antimateria. Dunque, molti tipi di elementi chimici e di particelle elementari fisiche ma certo non infiniti come i semi secondo Anassagora. 100 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 DEMOCRITO: I PRINCIPI SONO GLI “INDIVISIBILI” Democrito ritiene che la materia di ciò che è eterno consiste in piccole sostanze infinite di numero; e suppone che queste siano contenute in altro spazio, infinito per grandezza; e chiama lo spazio coi nomi di “vuoto” e di “niente” e di “infinito”, mentre dà a ciascuna delle sostanze il nome di “ente” e di “solido” e di “essere”. Egli reputa che le sostanze siano così piccole da sfuggire ai nostri sensi; e che esse presentino ogni genere di figure e differenze di grandezza. […] Esse lottano e si muovono nel vuoto, a causa della loro diseguaglianza e delle altre differenze ricordate, e nel muoversi si scontrano e si legano in un collegamento tale che le obbliga a venire in contatto reciproco e a restare unite […]. Simplicio, In Aristotelis De caelo Secondo Democrito, la realtà è fatta esclusivamente di materia e la materia non è infinitamente divisibile, ma è composta da corpuscoli irriducibili da lui chiamati appunto “indivisibili” (in greco àtoma). Essi sono piccolissimi e quindi non possono essere percepiti dai sensi umani. Come è possibile allora affermarne l’esistenza? Democrito risponde che gli “indivisibili” sono “forme mentali”, cioè rappresentazioni concettuali la cui esistenza reale è ricavabile da un ragionamento puramente teorico. Per sostenere la sua tesi, Democrito usa la strategia argomentativa di tipo dialettico. Ci sono state tramandate due argomentazioni dialettiche dell’esistenza degli indivisibili, che partono entrambe dall’ipotesi che la materia sia divisibile all’infinito: 1) se così fosse, ogni corpo fisico potrebbe penetrare e attraversare ogni altro corpo fisico, per esempio un uomo potrebbe passare attraverso il tronco di un albero. Ma questo è assurdo perché l’esperienza attesta che i corpi solidi non possono attraversare altri corpi solidi, in quanto hanno proprietà di durezza, resistenza e impenetrabilità. 2) Sempre se la materia fosse divisibile all’infinito, ogni corpo sarebbe divisibile fino ad arrivare a parti di grandezza nulla, ovvero a punti geometrici privi di dimensioni. Se volessimo riaggregare tutte le parti ultime, cioè tutti i punti, non riusciremmo più a ricostituire il corpo originario, perché una somma di zero dà zero, ovvero una gradezza nulla. Ma ciò è assurdo. 101 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Pertanto, conclude Democrito, l’ipotesi dell’infinita divisibilità è confutata e quindi risulta dimostrato che la materia è composta da “indivisibili”. E’ proprio la loro irriducibilità che spiega, infatti, la durezza e la grandezza dei corpi. Democrito sostiene che gli “indivisibili” sono in numero infinito, eterni e immutabili e dotati costitutivamente di movimento uniforme. Ciò significa che il loro movimento non è l’effetto di un principio o di una forza esterna ad essi ma è un loro impulso fisico originario e inesauribile. Questa loro decisiva proprietà intrinseca presuppone, secondo Democrito, l’esistenza di un “vuoto”, cioè dello spazio in cui gli indivisibili si muovono. E poiché gli indivisibili, e il loro moto, sono infiniti, anche il vuoto-spazio dovrà necessariamente essere infinito e dunque anche del tutto omogeneo, cioè senza né centro né periferia, né alto né basso. Gli indivisibili, afferma Democrito, si differenziano per: la conformazione fisica, ovvero grandezza, volume, forma geometrica, posizione nello spazio (il peso dipende dalla relazione tra grandezza/volume e moto); l’ordine di disposizione delle loro caratteristiche fisiche: p.e., spigolo-conca-piano anziché conca-spigolo-piano. In origine, continua Democrito, gli indivisibili si muovono disordinatamente in modo simile alle particelle di pulviscolo atmosferico nella luce di un raggio di sole. Prima o poi, necessariamente, essi si urtano e si aggregano. In questo modo il loro moto disordinato si trasforma progressivamente in un moto rotatorio. Di conseguenza gli indivisibili e i primi aggregati di indivisibili, più voluminosi, e quindi più pesanti, si dispongono al centro del vortice, mentre quelli meno voluminosi e quindi meno pesanti si dislocano ai bordi. Il moto rotatorio produce aggregati di indivisibili sempre più grandi fino alla formazione degli astri. Poiché lo spazio e gli indivisibili sono infiniti, l’universo per Democrito è composto da infiniti mondi. Tutti gli esseri naturali – minerali, vegetali o animali che siano – sono aggregati di indivisibili. La loro incredibile varietà si spiega sia con le differenze sussistenti tra gli indivisibili sia con quelle sussistenti tra le loro diverse catene di aggregazione, in modo analogo a come le diverse parole dipendono sia dalle diverse lettere dell’alfabeto sia dalle diverse sequenze che le lettere possono comporre. Ogni fenomeno naturale dell’universo, ovvero il divenire naturale, dipende per Democrito dal moto incessante degli indivisibili che, dopo essersi aggregati una prima volta, 102 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE incessantemente si disgregano e si riaggregano urtandosi gli uni gli altri. In questo modo Democrito elabora una concezione della natura nuova, che si può definire: meccanicistica, in quanto concepisce ogni fenomeno naturale come effetto del moto e degli urti di particelle materiali, senza ricorrere a nessuna altra forza né ad alcuna altra legge razionale esterna; deterministica, in quanto tutti i fenomeni naturali sono concepiti come rapporti necessari di causa-effetto, cioè non possono non avvenire né possono avvenire diversamente da come avvengono. Poiché tutti gli enti naturali sono aggregati di “indivisibili” e poiché gli indivisibili hanno caratteristiche unicamente quantitative, secondo Democrito, le uniche reali proprietà della natura sono quelle quantitative. Ma allora come mai la natura sembra possedere soprattutto proprietà qualitative come colori, odori, sapori, suoni, caldo e freddo, umido e secco? Le proprietà qualitative, risponde Democrito, sono solo nostre illusioni sensoriali. Esse dipendono cioè dalla natura e dalle modalità di funzionamento dei sensi dell’uomo. Infatti, la conoscenza sensibile nasce dall’urto dei corpi naturali con gli organi di senso del nostro corpo. Questo urto nel caso del tatto e del gusto è diretto, nel caso di udito, odorato e vista è indiretto, ovvero è mediato da altri corpi. Per esempio, noi udiamo perché i suoni sono vibrazioni dell’aria che colpiscono il nostro orecchio, mentre odoriamo e vediamo perché tutti i corpi esterni rilasciano continuamente delle loro “immagini” (èidola), cioè delle loro copie microscopiche – dei microagreggati di indivisibili identici ai macroaggregati dai cui si distaccano – i quali entrano nel naso o nell’occhio. Di conseguenza, secondo Democrito, la percezione sensibile è sempre un misto delle caratteristiche del corpo esterno e di quelle del nostro organo di senso. Ciò equivale a dire che i nostri sensi modificano le proprietà dei corpi esterni, ovvero trasformano le loro proprietà quantitative in proprietà qualitative e quindi le percepiscono come tali. Per esempio, il gusto trasforma la rotondità degli atomi dello zucchero nella sensazione del dolce, la vista trasforma l’ampiezza dell’angolo di riflessione della luce sugli atomi dei petali delle rose nel colore rosso, ecc. Dato il carattere illusorio delle sensazioni, per Democrito la scienza – cioè la conoscenza vera, certa, oggettiva – non può affidarsi alla conoscenza sensibile. Essa deve fondarsi sulla ragione pura, cioè sull’elaborazione di modelli teorici di spiegazione razionale dei dati empirici. In questa prospettiva, il principio teorico fondamentale della scienza è che la natura possiede una costituzione geometrico-quantitativa. Ne consegue che fare scienza significa spiegare tutti i fenomeni naturali in base alle sole proprietà geometricoquantitative (lunghezza, volume, peso, velocità, ecc.), astraendo completamente da quelle 103 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE qualitative (colore, sapore, odore, ecc.). Tuttavia, afferma Democrito, l’esperienza sensibile va considerata e usata come il banco di prova di ogni spiegazione teorica. In altre parole una teoria scientifica non deve fondarsi sulla conoscenza dei sensi, ma non può comunque contraddirla. Se dunque l’esperienza sensibile contraddice una teoria, questa teoria deve essere considerata falsa. Anche l’etica, cioè la dottrina del miglior comportamento umano, deve basarsi sulla razionalità. L’etica di Democrito propone infatti a ogni uomo di perseguire la sua felicità individuale considerando come massimo valore quello della serenità interiore e come strumento fondamentale per raggiungerlo la ragione intesa come capacità di negare o almeno moderare i desideri sensibili e le passioni. 104 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI ATOMISMO ANTICO E ATOMISMO MODERNO “Indivisibile” in greco antico si diceva àtomos. Quando, all’inizio dell’Ottocento – nell’ambito delle ricerche chimiche di Proust, Dalton e Avogadro – si ebbero le prime conferme sperimentali della natura corpuscolare della materia, in onore di Democrito gli scienziati chiamarono “atomo” la parte minima di materia. In realtà non avevano ancora scoperto gli atomi, bensì le molecole, ma da quelle prime ricerche si giunse in breve all’isolamento dell’atomo e, nel 1911, al modello atomico di Rutherford, quello secondo il quale ogni atomo è composto da un nucleo centrale con carica elettrica positiva intorno al quale ruotano uno o più elettroni con carica elettrica negativa. La ricerca scientifica successiva, però, scoprì che il nucleo atomico era a sua volta divisibile in protoni e neutroni, questi ultimi a loro volta in quark e oggi molti e accreditati fisici (ma non tutti) ipotizzano che i quark siano formati da filamenti elastici chiamati “stringhe” o “corde”. Insomma, non solo nella scienza attuale ciò che viene chiamato “atomo” non corrisponde all’“indivisibile” di Democrito (semmai vi corrispondono i quark), ma non si può fare a meno di nutrire almeno un ragionevole dubbio sul fatto che la materia sia effettivamente composta da “indivisibili”. Inoltre, benché l’antica teoria “atomistica” di Democrito abbia dato un contributo insigne allo sviluppo della scienza dal XVII al XIX secolo, attestando ancora una volta quanto la filosofia sia funzionale al progresso scientifico, a partire dal XX secolo, la scoperta della teoria quantistica delle particelle elementari (gli “indivisibili” di Democrito) ha confutato la concezione meccanicistico-deterministica democritea (fatta propria da molti scienziati dell’Ottocento). Infatti, per la sempre più confermata e quindi attuale teoria dei quanti, il moto delle particelle elementari è caotico e quindi imprevedibile e, a rigore, in tal senso, non è più adeguato il concetto stesso di “causalità”. 105 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 LA SCIENZA DEI COSMOLOGI PLURALISTI A me dunque questa malattia [l’epilessia] non pare affatto essere più divina delle altre, bensì ha una base naturale comune a tutte, e una causa razionale dalla quale ciascuna dipende: ed è curabile, per nulla meno delle altre. Quanti si sono accinti a parlare o a scrivere di medicina, fondando il proprio discorso su un postulato, troppo semplificando la causa originaria delle malattie e della morte degli uomini, a tutti i casi attribuendo la medesima causa, costoro sono palesemente in errore. Ippocrate, Corpus Hippocraticum Empedocle svolge ricerca scientifica a livello medico-biologico – studiando per esempio il battito del cuore, il funzionamento della respirazione, lo sviluppo delle uova – e anche a livello fisico, studiando per esempio la riflessione della luce, l’evaporazione dell’acqua, il ciclo stagionale. Egli conduce, inoltre, una ricerca tecnica contribuendo per esempio al miglioramento delle tecniche di travaso dei liquidi, di fabbricazione dei vasi e di miscelazione dei colori. Come “scienziato”, Empedocle fa leva sull’osservazione empirica e sulla generalizzazione di fenomeni e proprietà. La sua, però, non è una generalizzazione induttiva, ossia basata sulla ricorrenza di molti casi uguali (p.e. l’osservazione che molti cani hanno quattro zampe, da cui si ricava che tutti i cani sono quadrupedi), ma analogica, cioè fondata sul presupposto della somiglianza di ogni cosa con ogni altra cosa. Per esempio, in base all’analogia Terra/corpo umano, Empedocle sostiene che il mare è il sudore che si sprigiona dalla Terra a causa dell’azione del suo calore interno. In questo senso la “scienza” di Empedocle costituisce un esempio di magia naturalistica, cioè di un sapere empirico che, a differenza della scienza vera e propria, si basa sui seguenti principi: • • • il carattere organico, vivente, animato di tutta la natura; l’isomorfismo, cioè una comune struttura, di tutte le cose naturali; la possibilità da parte dell’uomo di sfruttare le somiglianze/dissomiglianze tra tutte le cose naturali per far loro produrre effetti prodigiosi utili alla vita pratica. Ben diverso dalla magia fantastica o superstiziosa, il sapere magico-naturalistico rappresenta una componente ricorrente del processo di costruzione e sviluppo della scienza. 106 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La produzione scientifica di Anassagora si basa invece sull’uso della generalizzazione induttiva a partire dall’esperienza. In questo modo egli giunge a elaborare le seguenti innovative tesi astronomiche: • • • • le stelle sono rocce infuocate; le comete sono pianeti incendiati che sprigionano scintille; le dimensioni del Sole, data la sua distanza dalla Terra, sono molto maggiori di quelle che vediamo a occhio nudo; la Luna brilla di luce solare riflessa, ha una superficie simile a quella terrestre ed è abitata, come del resto molti altri corpi celesti. Le prime due tesi sono basate sull’osservazione di un meteorite caduto sulla superficie terrestre che aveva permesso di appurarne le caratteristiche geologiche. Anassagora inoltre abbozza una teoria evoluzionistica della formazione della specie umana secondo la quale i primi uomini nacquero dall’umidità e poi cominciarono a riprodursi sessualmente incrementando continuamente la propria intelligenza fino a raggiungere un primato su tutti gli enti naturali. Il progredire dell’intelligenza umana si deve, secondo Anassagora, alla manualità dell’uomo, cioè alla capacità umana di usare le mani per fabbricare oggetti artificiali. In questo senso Anassagora esalta la tecnica e la utilizza anche come strumento di verifica delle ipotesi scientifiche. Egli non fa solo esperienze ma anche esperimenti – cioè esperienze progettate razionalmente e attuate con strumenti artificiali –, come quello della compressione di un otre di pelle senza liquidi ma tappato, che, opponendo resistenza, evidenzia la pressione esercitata dall’aria, attestando la sua materialità e l’inesistenza del vuoto. Una delle più importanti innovazioni scientifiche del V secolo è lo sviluppo della medicina a opera di Ippocrate (460-370 a.C.) di Cos (isola ionica). Ippocrate è innanzitutto il primo medico che, pur non negando l’esistenza di divinità, afferma il carattere esclusivamente naturale delle malattie ed espelle dalla terapia medica tutti i residui di concezioni e pratiche religiose. E’ emblematica in questo senso la sua confutazione del cosiddetto “male sacro”, cioè dell’epilessia in quanto creduta malattia di origine divina. Secondo Ippocrate, l’epilessia è invece una malattia del cervello, da lui ritenuto organo della sensazione e del pensiero. 107 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In secondo luogo, Ippocrate elabora un nuovo metodo scientifico basato sull’interazione e sul reciproco controllo di osservazione empirica e teorizzazione razionale. Egli arriva al nuovo metodo partendo dalla critica ai metodi tradizionali della scuola medica di Cnido (isola vicina a Cos) e della scuola medica italica ( viaggio B, tappa 5). Alla prima Ippocrate rimprovera di aver valorizzato solo la casistica individuale, cioè la descrizione e la registrazione dei sintomi specifici delle malattie di singoli malati, senza cercare di individuarne gli aspetti e le cause comuni; alla seconda di aver ricondotto i casi individuali a cause comuni troppo generali e astratte – quali caldo, freddo, secco, umido – senza tener conto a sufficienza della loro effettiva corrispondenza all’esperienza concreta, cioè a componenti reali del corpo umano. Per superare questi due opposti difetti, Ippocrate concepisce e pratica la scienza medica come individuazione delle modalità e delle cause generali delle malattie – cioè come loro descrizione e spiegazione sulla base di modelli teorici generali – fondata però su una stretta corrispondenza ai casi empirici individuali così come emergono dall’osservazione. In questa prospettiva, Ippocrate considera i suoi modelli teorici delle congetture, cioè delle conoscenze parziali e provvisorie, basate su passate esperienze, che devono essere costantemente verificate e modificate alla luce di nuove esperienze. Il principio più generale della teoria ippocratica della malattia è che essa sia la rottura dell’equilibrio tra le diverse componenti del corpo umano. Tra queste le più importanti sono il catarro, la bile e il sangue. Si tratta di liquidi organici che possiedono delle proprietà attive (p.e. l’acidità, l’astringenza, la diureticità) capaci di modificare il funzionamento dell’organismo. La malattia, in questo senso, consiste nell’eccesso di una o più qualità attive a sua volta conseguenza della prevalenza di un umore sugli altri. L’eccesso che rompe l’equilibrio, cioè lo stato di salute, è dovuto a una causa esterna al corpo. Su questa base, Ippocrate stabilisce tre tipi generali di cause delle malattie: 1) ambientali, legate al luogo geografico e al clima ma anche al contesto sociale; 2) di stile di vita, connesse alle modalità della condotta individuale di vita (alimentazione, tipo di lavoro, relazioni con gli altri, ecc.); 3) traumi, cioè lesioni fisiche come ferite di guerra o rotture di arti ma anche lesioni psichiche dovute a conflitti emotivi. La terapia medica per Ippocrate deve basarsi su tre momenti: 108 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 1) l’anàmnesi (in greco ricordo), cioè la ricostruzione della storia della salute di un individuo a partire dalla nascita; 2) la diagnosi, cioè la comprensione del tipo di malattia di cui il malato è affetto e l’individuazione delle sue cause; 3) la prognosi, cioè la previsione del decorso della malattia ovvero sulla possibilità o meno di guarigione e sui suoi eventuali modi e tempi. In base ad anàmnesi, diagnosi e prognosi, secondo Ippocrate può essere stabilita la terapia adeguata che consiste in: a) b) c) d) e) farmaci di origine vegetale, dieta alimentare appropriata, comportamenti funzionali (riposo, ginnastica, bagni, massaggi), soggiorni o trasferimenti in luoghi salubri, interventi sull’ambiente in cui si vive per garantirne l’igiene. 109 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO ALEX VILENKIN: LA SCOPERTA DELLA GRAVITA’ REPULSIVA Così stavano le cose [la gravità era considerata una forza solamente attrattiva, ndr] fino al 1998 quando due gruppi di ricerca indipendenti annunciarono una scoperta sensazionale. Essi misurarono la luminosità delle esplosioni di supernova in galassie lontane, e utilizzarono i dati per calcolare l’evolversi dell’espansione cosmica. Con loro grande sorpresa, trovarono che, anziché essere rallentata dalla gravità, l’espansione sta in realtà accelerando. Questa scoperta fa pensare che l’Universo sia pieno di una qualche materia a gravità repulsiva. La possibilità più semplice è che il vero vuoto, in cui noi ora abitiamo, abbia una densità di massa diversa da zero. Come sappiamo, il vuoto possiede gravità repulsiva, e se la sua densità è superiore a 1/2 del valore di densità media di materia, il risultato è una forza repulsiva. Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, Cortina 2007, p. 126-127 110 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA LA RAZIONALITA’ UMANA 111 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE L’ETA’ GRECA CLASSICA (V sec. a.C.) Nella prima metà del V secolo, le principali poleis greche, alleatesi sotto la guida di Sparta e Atene, riuscirono, nel corso di due guerre successive (490-478 a.C.), a sconfiggere l’impero persiano, che aveva tentato di conquistarle. Fu un evento storico epocale, in quanto in questo modo i Greci (benché non tutti, perché alcune poleis si allearono con i persiani) non solo difesero la loro indipendenza e la loro libertà, ma salvarono la loro cultura – che altrimenti sarebbe stata soffocata da quella orientale dei persiani – e con essa la futura cultura occidentale, dal momento che l’antica cultura greca ne costituì la prima e fondamentale pietra. Nell’immediato, l’esito vittorioso delle guerre persiane confermò e rafforzò il primato delle due maggiori poleis greche, Sparta e Atene. Ma mentre Sparta tornò a una politica estera isolazionistica, paga del suo dominio sul Peloponneso, e mantenne la propria organizzazione politica interna e la propria tradizione culturale, Atene sfruttò appieno il proprio successo militare con la costituzione della lega delio-attica in funzione antipersiana e impose progressivamente la propria egemonia imperialistica sulle poleis del mar Egeo e della Grecia continentale (nel 425 superarono le 400), garantendosi un’enorme entrata in tributi e dando il via a un sempre più radicale processo interno di democratizzazione politica e di innovazione culturale. In questo contesto, a partire dal 462, iniziò l’ascesa politica di Pericle – membro dell’antica famiglia aristocratica degli Alcmeonidi ma leader del “partito” democratico – e con essa la riforma delle istituzioni ateniesi: l’antico Areopago fu esautorato di ogni potere tranne quello di giudicare i delitti di sangue; all’Ecclesìa (l’assemblea di tutti i cittadini) venne affidato il potere decisionale sulle questioni politiche e giudiziarie; alla Bulè (un consiglio di 500 cittadini, scelti a rotazione tra tutti) fu attribuito il potere di governare; soprattutto fu introdotta un’indennità giornaliera per tutti i cittadini che partecipavano alle nuove istituzioni democratiche cosicché anche gli ateniesi meno abbienti potessero permettersi il lusso di fare politica in prima persona. Dal 443 al 427 (anno della sua morte), Pericle fu sempre eletto stratega e grazie a questa carica ufficiale ma soprattutto alla sua abilità politica e al suo carisma umano, riuscì a dirigere il governo ateniese. Due furono le sue più importanti realizzazioni governative: il finanziamento e la promozione dell’arte, della cultura e dell’istruzione; e il miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle classi inferiori. Per il primo aspetto, Pericle fece costruire il Partenone e molti altri edifici pubblici e monumenti, e accolse e sostenne artisti, poeti, filosofi, storici, organizzando nella propria dimora, insieme alla colta e brillante moglie Aspasia, un circolo di intellettuali che comprendeva, tra gli altri, lo storico 112 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Erodoto, il tragediografo Sofocle, lo scultore Fidia, il filosofo Anassagora, l’architetto e urbanista Ippodamo. Per quanto riguarda la sua politica sociale, Pericle, grazie al suo grande programma di costruzione di opere pubbliche, incrementò notevolmente i posti di lavoro manuali, e inoltre nei territori conquistati o in quelli delle poleis alleate istituì colonie ateniesi dando in usufrutto terre da coltivare ai teti (i nullatenenti) che così potevano diventare zeugiti (la classe dei piccoli proprietari) e combattere come opliti. Quella di Atene durante l’età di Pericle fu, dunque, un tanto raro quanto significativo esempio storico di democrazia diretta e di Stato sociale. Esso ebbe però tre grandi, e gravi, limiti: 1) a livello di risorse finanziarie statali, si reggeva sul dominio imperialistico che Atene esercitava sulle poleis della Lega di Delo, costrette a versarle tributi; 2) a livello politico, i cittadini ateniesi, cioè quelli che potevano votare e ottenere cariche o benefici statali, erano solo i maschi adulti figli di genitori ateniesi e liberi, ossia le donne, gli immigrati (anche di seconda o terza generazione), i minorenni e naturalmente gli schiavi non avevano diritti politici; 3) a livello economico, la ricchezza prodotta si basava in gran parte sullo sfruttamento spietato degli schiavi, anche e soprattutto nelle numerose miniere dell’Attica. In ambito culturale, il V secolo rappresenta l’età classica della civiltà greca, da molti considerata non solo quella della sua massima fioritura ma perfino uno dei periodi di massimo splendore culturale dell’intera storia della civiltà umana. Nell’ambito della letteratura, fu l’età del trionfo della creatività teatrale, sia di tipo tragico sia di tipo comico. Il teatro greco era già nato ad Atene nella seconda metà del VI secolo per volontà del tiranno Pisistrato, che aveva istituito le feste Dionìsie, sette giorni primaverili, tra marzo e aprile, in cui si celebrava il dio agreste Dioniso con riti, processioni, vere e proprie baldorie o addirittura orge, ma anche e soprattutto con rappresentazioni teatrali di tragedie e commedie dall’alba al tramonto. Trattandosi di una ricorrenza civico-religiosa, a spese dei cittadini più ricchi, tutti gli ateniesi erano tenuti a parteciparvi e addirittura i cittadini più poveri ricevevano un contributo affinché potessero permettersi di non lavorare per un settimana. Ma alle Dionìsie erano invitati anche gli stranieri residenti o di passaggio. Il loro scopo politico erano, infatti, sia la coesione sociale interna sia la propaganda della superiorità culturale e civile di Atene tra tutti i Greci. Fu però nel corso del V secolo che la produzione teatrale ateniese raggiunse l’acme artistico, grazie alle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide e alle commedie di Aristofane. Le tragedie greche attingevano all’antichissimo patrimonio dei miti ma lo attualizzavano sia elaborandone nuove versioni sia soprattutto con la loro rappresentazione teatrale. Infatti, prima della nascita della tragedia i miti Greci erano cantati dagli aedi, mentre dalla seconda metà del VI secolo vennero trasmessi attraverso l’azione scenica (dràma in greco antico significava azione), fermo restando che le battute dei protagonisti erano in versi, cioè in forma poetica, e che addirittura il coro, che aveva un ruolo fondamentale, cantava e 113 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE danzava (in questo senso la tragedia greca assomigliava più a un’odierna opera lirica che a un attuale spettacolo teatrale). I temi al centro della tragedia greca antica furono: innanzitutto il carattere conflittuale della vita, non solo e non tanto nel senso che ogni individuo si scontra inevitabilmente con altri individui, e non solo uomini ma perfino dei, ma anche e soprattutto che ogni individuo è diviso in se stesso, è fondamentalmente doppio, sempre scisso e combattuto nella scelta tra ragioni e valori che si escludono a vicenda (p.e. l’amore per il fratello e il rispetto delle leggi della pòlis); in secondo luogo, il fondo misterioso, incomprensibile, dell’esistenza, che si manifesta nelle insolubili alternative tra scelta o destino, colpa o innocenza, responsabilità o irresponsabilità, nel senso che l’agire individuale appare sia determinato sia voluto, e quindi l’individuo al tempo stesso innocente e colpevole, irresponsabile e responsabile; infine, la presenza di un’enigmatica legge della vita, legata alla correlazione tra l’übris (la tracotanza, l’eccesso), propria di ogni individuo, e la némesis (la giustizia), ovvero la forza divina che punisce prepotenze ed eccessi ma attraverso le azioni di altri individui (p.e. Agamennone, a causa del sacrificio umano della figlia Ifigenia, si è macchiato di übris e per némesis viene ucciso da sua moglie Clitennestra). In questo senso la tragedia greca, da un lato, è l’espressione più alta e profonda del rapido e radicale mutamento della civiltà greca, e in particolare di Atene, nel corso del V secolo, cioè del contrasto tra valori e concezioni vecchie e nuove; dall’altro, si intreccia con la riflessione filosofica, cioè ne è influenzata e a sua volta la influenza. Da questo punto di vista, il passaggio da Eschilo e Sofocle a Euripide rappresentò una ulteriore, netta accelerazione. Mentre, infatti, Eschilo aveva dato la preminenza agli dei e Sofocle ai protagonisti umani ma intesi come eroi, cioè come superuomini, Euripide, intriso di filosofia sofistica, umanizzò la tragedia, attribuendo ai protagonisti sentimenti e comportamenti propri degli uomini comuni e denunciando l’irrazionalità e l’immoralità degli dei. La commedia, invece, che raggiunge un altissimo vertice con Aristofane, ebbe prevalentemente una funzione di satira delle vicende e dei personaggi politici, ma anche della nuova mentalità e dei nuovi vezzi degli ateniesi. Anche la poesia lirica ebbe nel V secolo una funzione civile in quanto “lirica corale”, cioè poesia celebrativa di dei ed eroi che veniva cantata in cerimonie e feste pubbliche. I più grandi poeti lirici dell’età classica furono Simonide, Bacchilide e soprattutto Pindaro, particolarmente significativo perché la sua opera si caratterizza per la fede negli dei tradizionali, considerati assolutamente giusti e buoni, tanto da negare la fondatezza degli episodi mitici in cui essi commettevano azioni immorali e da offrirne delle diverse versioni. Sempre a livello letterario, ma insieme anche scientifico, un’altra novità del V secolo fu la nascita della storiografia (che includeva anche la geografia, l’antropologia e l’etnografia) ad opera di Erodoto, autore dei 9 libri delle Storie. Con quest’opera, infatti, dedicata alle guerre greco-persiane, Erodoto innanzitutto non si limitò alla registrazione dei fatti storici, ma cercò di individuare le loro cause; e, in secondo luogo, proprio a tale scopo, allargò la 114 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE sua indagine ai diversi ambienti naturali, alle diverse mentalità e ai diversi costumi delle popolazioni greche e persiane. Nell’ambito delle arti plastiche e urbanistico-architettoniche, il V secolo fu caratterizzato dal succedersi del periodo “severo” (480-450 a.C.) e di quello classico (450-430 a.C). Nel primo da evidenziare innanzitutto il maggior uso del bronzo (vedi p.e. i famosi “bronzi di Riace”), indice del progresso nella tecnica metallurgica. Ma soprattutto l’arte “severa” fu caratterizzata dall’abbandono della frontalità arcaica e dall’adozione di forme più realistiche, morbide e anatomicamente dettagliate nella rappresentazione delle figure umane (vedi p.e. il Discobolo di Mirone). Nacque inoltre la grande pittura murale (p.e. la stoà poikìle, cioè il portico dipinto, di Atene) o su cavalletto, che influenzò anche la ceramografia; l’urbanistica assunse lo schema ortogonale, codificato e imposto da Ippodamo di Mileto; e l’architettura ebbe la sua massima espressione nel grande tempio dorico di Zeus a Olimpia. Il successivo periodo classico fu caratterizzato dall’imporsi della “sezione aurea” (il rapporto tra due segmenti in cui la somma sta al maggiore come il maggiore al minore), ovvero del “numero aureo” (1,6180, il numero che esprime quel rapporto), e più in generale dall’adozione di rigorosi criteri di proporzionalità, armonia e simmetria. Il numero aureo fu applicato sia alla raffigurazione scultorea (p.e. il Doriforo di Policleto) sia all’architettura (p.e. nel Partenone di Fidia). A livello scultoreo, le rappresentazioni del corpo umano acquistarono ancor più flessibilità e dinamicità, mentre in pittura si passò dai grandi affreschi ai dipinti di piccole dimensioni e fu inventata la tecnica del chiaroscuro. A livello scientifico, nella seconda metà del V secolo vi fu un notevole sviluppo delle tecniche artigianali e dei relativi saperi tecnici (metallurgia, cantieristica, strumenti di navigazione, agricoltura, culinaria, ceramica, ecc.), favorito dalla diffusione dell’uso della scrittura che ne permetteva una trasmissione più precisa e completa. Tra le scienze vere e proprie, cioè non unicamente pratico-empiriche, ma anche e soprattutto teoriche, i maggiori progressi si ebbero nella matematica con Ippocrate di Chio, che scoprì il calcolo dell’area delle lunole e introdusse nella logica matematica la dimostrazione per assurdo, e nella medicina con Ippocrate di Cos, che elaborò una nuova sintesi tra osservazioni individuali e regole generali. 115 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA “C’era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali. Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro generazione, nell’interno della terra gli dei le plasmarono, facendo una mescolanza di terra e di fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col fuoco e con la terra. E quando si trovarono nel momento di farle venire alla luce, affidarono a Prometeo e ad Epimeteo il compito di fornire e di distribuire le facoltà a ciascuna razza in modo conveniente. Ma Epimeteo chiese a Prometeo di poterle distribuire lui da solo: ‘Quando avrò finito la distribuzione – soggiunse – tu verrai a vedere’. E, così persuasolo, si accinse all’opera di distribuzione. Ad alcune razze diede la forza senza la velocità, e fornì invece le razze più deboli di velocità. Ad altre assegnò armi di difesa e di offesa, mentre per altre ancora, cui aveva dato una natura inerme, escogitò altre facoltà, per garantire la loro salvezza. Infatti, a quelle razze che egli rivestì di piccolezza, diede la capacità di fuggire con le ali, oppure di celarsi sotto terra; invece a quelle cui fornì la grandezza, diede la possibilità di salvarsi appunto con questa. E anche le altre facoltà distribuì in questo modo, in maniera che si equilibrassero. Ed escogitò queste cose facendo attenzione che nessuna razza si potesse estinguere. E, allorché ebbe premunite le varie razze dei mezzi per sfuggire alle distruzioni reciproche, escogitò un espediente perché si difendessero contro le intemperie delle stagioni che manda Zeus, rivestendole di folti peli e di spesse pelli, capaci di difenderle dal freddo e in grado di proteggerle dalle calure, e tali che, quando si coricavano nei loro giacigli, queste servissero da coltri naturali, proprie a ciascuna di esse. E ad alcune fornì cibi diversi per le diverse razze: ad alcune assegnò le erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici. E vi sono razze cui concesse di divorare altre razze di animali per nutrirsi; e provvide che le prime avessero una scarsa prole, e che quelle che dovevano essere divorate da queste avessero invece una numerosa prole, assicurando la conservazione della razza. Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di aver esaurito tutte le facoltà per gli animali: e a questo punto gli restava ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la distribuzione, e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano convenientemente fornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e inerme. E ormai s’avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l’uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l’uomo, ruba ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona 116 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita, ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli, dimora di Zeus; per giunta, c’erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque furtivamente nella officina di Atena e di Efesto, in cui essi praticavano insieme la loro arte, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la dona all’uomo. Di qui vennero all’uomo le sue risorse per la vita. Ma Prometeo, a causa di Epimeteo, in seguito, come si narra, subì la pena per il furto. “E, poiché l’uomo divenne partecipe di sorte divina, in primo luogo, in virtù di questo legame di parentela che venne ad avere col divino, unico fra gli animali credette negli dei, e intraprese a costruire altari e statue di dei. In secondo luogo, rapidamente con l’arte sciolse la voce ed articolò le parole, inventò abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra. Provvisti in questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non esistevano Città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto meno potenti di esse: l’arte che essi possedevano era per loro un adeguato aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli uomini la giustizia e il rispetto: ‘Devo distribuire questi come sono state distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche per gli altri che posseggono un’arte. Ebbene, anche la giustizia e il rispetto debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a tutti quanti?’. E Zeus rispose: ‘A tutti quanti. Che tutti quanti ne partecipino, perché non potrebbero sorgere Città, se solamente pochi uomini ne partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso come un male della Città’. “Così, o Socrate, e appunto per queste ragioni, gli Ateniesi, e anche gli altri, allorché sia in questione l’abilità dell’arte di costruire o di qualche altra arte, ritengono che pochi debbano prender parte alle deliberazioni. E se qualcuno che non sia di questi pochi vuol dare consigli, non lo sopportano, come tu dici: e di buona ragione, aggiungo io. Ma quando si radunano in assemblea per 117 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino il consiglio di chiunque, convinti che tutti, di necessità, partecipino di questa virtù, altrimenti non esisterebbero Città. Questa, o Socrate, ne è la ragione”. Platone, Protagora, in Tutti gli scritti a cura di G. Reale, Rusconi, pp. 818-820. 118 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGIO LA RAZIONALITA’ STRUMENTALE DELL’UOMO 119 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… I SOFISTI In ambito filosofico, nel V secolo si attua una duplice svolta: da un lato Atene diventa il centro della ricerca filosofica e scientifica, dall’altro una nuova generazione di filosofi assume come oggetto privilegiato della propria indagine l’uomo. Questa duplice svolta avviene nel periodo di massimo sviluppo economico, sociale e politico della civiltà greca ed è connessa in particolare alla supremazia di Atene, ovvero della polis simbolo della democrazia antica. In questo contesto nasce e si espande il movimento filosofico dei “sofisti”. In greco antico “sofista” significa letteralmente “sapiente”. Ma nell’Atene della seconda metà del V secolo il termine acquista l’accezione di “insegnante”, in quanto viene usato per designare uomini di cultura che trasmettono a pagamento le loro conoscenze ai giovani ateniesi. In questo modo, la filosofia, che precedentemente era stata appannaggio di una élite, si diffonde tra una cerchia sociale più ampia. Ciò accade perché molti giovani, sia aristocratici sia borghesi, vogliono acquisire strumenti per poter partecipare alla vita politica e per poter conseguire le più ambite cariche politiche e militari. Di conseguenza l’insegnamento e l’indagine conoscitiva dei sofisti si concentrano sulla retorica (l’arte del parlare, comprendente conoscenze grammaticali, lessicali, stilistiche e logico-argomentative), sulla letteratura, sulla storia, sull’etica, sul diritto e sulla politica. In questo senso, i sofisti possono essere considerati i fondatori delle “scienze umane”, o “scienze storico-sociali”, ovvero delle scienze che studiano le produzioni storico-culturali dell’uomo. In base alla loro ricerca nell’ambito delle scienze umane, i sofisti elaborano un nuovo modello di razionalità, alternativo e perfino antitetico rispetto a quello teorizzato dai filosofi precedenti, ossia dai cosmologi o fisici. I sofisti, infatti, rigettano la nozione di verità oggettiva e assoluta, a favore di una concezione soggettiva e relativa della verità. In questo senso per i sofisti la razionalità è la capacità logico-linguistica dell’uomo di argomentare in modo convincente una tesi che ha comunque sempre un valore conoscitivo parziale e temporaneo. In altre parole, per i sofisti in primo luogo la razionalità è una proprietà unicamente umana, in secondo luogo essa è solamente strumentale o “tecnica”, ovvero è solo uno strumento per sostenere con successo una tesi, non il metodo per selezionare l’unica tesi certamente vera. I più importanti sofisti furono Protagora e Gorgia, ma vi furono molti altri sofisti di notevole levatura intellettuale, come Antifonte, Crizia, Ippia, Callicle, Prodico, Trasimaco. 120 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI CAPITANI PROTAGORA E GORGIA Protagora (485-410 a.C. ca.) nacque ad Abdera, città portuale della Tracia dove nel 460 era nato anche Democrito, ma abitò e operò a lungo in Atene, guadagnandosi da vivere come insegnante di retorica e scrittore di discorsi. Sostenitore della democrazia, amico di Pericle, dopo la sua morte, nel 411, fu accusato di empietà, a causa della sua posizione agnostica sugli dei, e costretto ad abbandonare Atene. Secondo la testimonianza dello storico Diogene Laerzio (II-III sec. d.C.), le autorità politiche ateniesi fecero sequestrare e bruciare pubblicamente le opere di Protagora. Altre testimonianze attestano che morì a causa del naufragio della nave su cui viaggiava. Si trattava di libri in prosa, di cui ci restano solo frammenti: Ragionamenti demolitori, Antilogie (“discorsi contrapposti”), Sulla verità, Sugli dei. In Antilogie Protagora esponeva e discuteva tesi contrapposte relativamente agli dei, all’essere, allo stato e alle leggi, alle tecniche. In Sulla verità illustrava la sua concezione strumentale della razionalità umana. Gorgia (480-372 a.C. ca.) nacque in Sicilia a Leontini, oggi Lentini, città della provincia di Siracusa. Inizialmente discepolo di Empedocle, si trasferì ad Atene, dove insegnò retorica e prese parte al circolo intellettuale di Pericle, ma viaggiò continuamente per tutta la Grecia, insegnando ed esibendo il suo talento retorico anche molte altre città. In particolare, si recò a Delfi e ad Olimpia dove tenne, su commissione, discorsi pubblici di enorme successo. Ebbe molti illustri allievi e divenne molto ricco, ma condusse sempre una vita sobria e alla sua morte la sua eredità monetaria si rivelò modesta. Peraltro morì ultracentenario. A chi, in precedenza, gli aveva chiesto il segreto della sua longevità pare avesse risposto: “Non ho mai fatto niente per compiacere un altro”. Le sue opere più importanti sono il saggio Intorno al non ente o intorno alla natura e famosi discorsi quali Encomio di Elena e Apologia di Palamede, in cui Gorgia, per esibire la sua abilità retorica, sfida il senso comune dei Greci argomentando a favore di tesi considerate assurde e addirittura scandalose dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Nel primo discorso, infatti, Gorgia tesse le lodi Elena, da tutti considerata adultera e traditrice; nel secondo immagina il discorso che l’acheo Palamede avrebbe potuto pronunciare per difendersi con successo dall’accusa di tradimento mossagli da Ulisse, cioè da colui che i Greci consideravano il più scaltro e abile degli uomini. 121 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 PROTAGORA: LA RAZIONALITA’ E’ UMANA E RELATIVA E per le donne, fare il bagno in casa è bello, ma nella palestra è brutto. (Invece per gli uomini tanto nella palestra che nel ginnasio è bello.) […] E ancora, l’accoppiarsi col proprio marito è bello, ma con un estraneo è bruttissimo; e così anche per l’uomo, accoppiarsi con la propria moglie è bello, con un’estranea è brutto. […] Per esempio, per gli Spartani, che le fanciulle facciano ginnastica e si esibiscano in pubblico sbracciate e senza tunica è bello; per gli Ioni, brutto. […] I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’esser sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi e terribili. […] Se analizzi a fondo, vedrai che è così l’altra legge dei mortali: nulla è mai assolutamente bello né brutto; ma le stesse cose, come il momento le afferri, le fa brutte; come si cambi, belle. Anonimo, Ragionamenti duplici (scritto sul modello delle Antilogie di Protagora) Il problema filosofico individuato da Protagora è quello della pluralità e della diversità irriducibile delle tesi. In altre parole, Protagora nota che non solo tutti gli uomini ma perfino tutti i filosofi, cioè i professionisti della ricerca della verità, sostengono tesi differenti e perfino antitetiche. Ma, poiché la verità per definizione è una sola, com’è possibile che esistano più e discordanti verità? La soluzione a questo problema offerta da Protagora è sintetizzata in una tanto lapidaria quanto pregnante sentenza: “L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono”. Questa affermazione di Protagora contiene diverse implicazioni filosofiche: 1. L’uomo è il criterio di giudizio, e quindi il principio della conoscenza, di ogni cosa. Ciò significa che dipende dall’uomo com’è una cosa, cioè quali proprietà ha, a cominciare da quella della sua stessa esistenza. 2. La natura non è conoscibile oggettivamente, in ciò che è veramente, e complessivamente, ma soltanto per ciò che ci appare e nel modo in cui ci appare, e 122 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE quindi solo soggettivamente e parzialmente. Questa posizione è denominata “fenomenismo” (dal greco “fàinomai” che significa mostrarsi, apparire, manifestarsi). 3. La conoscenza di cose, fatti e comportamenti e il giudizio sul loro valore sono relativi al soggetto conoscente e giudicante, cioè variano sia da individuo a individuo, sia da gruppo a gruppo, sia da popolo a popolo. Questa posizione filosofica è denominata “relativismo”. 4. La filosofia deve mettere al centro della sua indagine non il cosmo ma l’uomo, perché l’uomo può conoscere molto di più e molto meglio sé stesso piuttosto che il cosmo. La centralità filosofica dell’uomo sostenuta da Protagora non va però intesa come un’esaltazione acritica delle capacità conoscitive e pratiche umane. Al contrario, asserire, come fa Protagora, che ogni conoscenza è fenomenica e relativa significa affermare che la razionalità umana è limitata e che dunque non può risolvere tutti i problemi teorici e pratici. Questa tesi ha due conseguenze di grande rilevanza: • sul piano filosofico-scientifico, è impossibile risolvere tutti i problemi conoscitivi che l’uomo si pone e in particolare quelli relativi al cosmo: non è possibile, per esempio, sapere quali sono i suoi elementi costitutivi fondamentali né come abbia avuto origine né qual è il suo senso e se e come finirà; • sul piano religioso, è impossibile stabilire con certezza se gli dei esistono o non esistono e pertanto a livello razionale bisogna astenersi da qualsiasi giudizio a favore o contro la loro esistenza. La posizione di Protagora, sotto questo aspetto, è denominata “agnosticismo” (letteralmente significa “non-conoscibilismo”). Tuttavia, che la conoscenza razionale dell’uomo sia relativa, e quindi limitata, non significa per Protagora che essa non abbia valore. Al contrario, e paradossalmente, proprio il fatto che l’uomo non possa basarsi su verità e su valori oggettivi, e quindi universali, rende decisivo l’uso della sua razionalità. Per ogni individuo, infatti, si tratta di fare le scelte migliori unicamente sulla base del proprio giudizio e quindi delle proprie capacità di elaborazione razionale. Insomma, il fenomenismo e il relativismo di Protagora non sfociano in un invito all’arbitrio sconsiderato, cioè a pensare, dire e fare indifferentemente 123 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE qualsiasi cosa a seconda del proprio capriccio momentaneo, bensì nella proposta di una tecnica razionale di selezione delle conoscenze, dei valori e dei comportamenti più efficaci. Tale tecnica consiste nel seguire queste indicazioni: • assumere come riferimento conoscitivo l’esperienza diretta e individuale, cioè ciò che conosciamo in base alle nostre sensazioni e ai nostri ragionamenti relativi alle realtà particolari e circoscritte con cui abbiamo di volta in volta a che fare, ovvero il contesto naturale o sociale concreto in cui agiamo; • assumere come criterio di selezione delle alternative conoscitive e pratiche quello dell’utilità, innanzitutto quella individuale, e poi a partire da essa quella del gruppo sociale (famiglia, categoria professionale, classe sociale) o del popolo cui si appartiene; • utilizzare l’argomentazione razionale (ovvero il ragionamento) per individuare e motivare la scelta più efficace tra le alternative conoscitive e pratiche a disposizione, e soprattutto per convincere gli altri a condividere la propria scelta. La posizione di Protagora si può definire “pragmatismo”, termine che indica una condotta di vita basata sulla scelta delle opzioni conoscitive e pratiche più realistiche, convenienti ed efficaci a seconda del contesto e del momento. Il pragmatismo di Protagora, però, è un pragmatismo essenzialmente linguistico, in quanto si impernia sul linguaggio, concepito come strumento di valutazione razionale e di comunicazione persuasiva. In questa prospettiva la scienza più importante per Protagora è la retorica, la scienza che insegna a usare il linguaggio nel modo più efficace, cioè che insegna a pensare, parlare e comunicare nel modo più valido e convincente. E’ in questo senso che Protagora afferma con orgoglio di essere capace di trasformare il discorso più debole in quello più forte, e perfino quello “peggiore” in quello “migliore”. Il significato del pragmatismo linguistico di Protagora si fa più chiaro e preciso in relazione all’agire politico. Infatti, il problema di fare la scelta “migliore” in assenza di criteri oggettivi non si pone solo e tanto a livello individuale ma anche e soprattutto a livello collettivo dal momento che la relatività soggettiva delle conoscenze e dei valori rischia di produrre conflittualità e disgregazione. A questo riguardo, Protagora sostiene che la comunità politica, democraticamente organizzata, è il criterio per stabilire ciò che è vero e ciò che è giusto. In altre parole, secondo Protagora, deve essere considerato vero e giusto per tutti i cittadini ciò che viene deciso a maggioranza nelle assemblee rappresentative 124 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE competenti. Verità e giustizia, quindi, consistono nelle conclusioni delle discussioni collettive, in quanto queste garantiscono la concordia, cioè l’unità e la forza della comunità politica. Ma per Protagora ciò che viene deciso a maggioranza nelle assemblee rappresentative, e che quindi è da considerarsi vero e giusto, è a sua volta ciò che viene sostenuto dal discorso “più forte”, cioè quello meglio strutturato e pertanto più convincente. In questo senso, è la maggiore “forza” di un’argomentazione, ratificata dalla maggioranza che conseguentemente ottiene nella votazione, che fonda la maggior utilità della tesi che essa sostiene, non viceversa. Dunque, per Protagora la razionalità umana non consiste tanto nel contenuto intrinseco delle scelte, quanto nella loro modalità argomentativa. Ciò significa che una scelta è “migliore” di un’altra se e in quanto è argomentata meglio perché così può ottenere l’adesione della maggioranza e quindi diventare una scelta collettiva. In tal senso la razionalità per Protagora è “strumentale”, non “sostanziale”. Essa, cioè, è propria solo del mezzo retorico e della procedura politica con il quale si sostiene una scelta, ma non riguarda propriamente il suo contenuto, ovvero la sostanza (o il merito) di una scelta. 125 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI PROTAGORA E LA NUOVA RETORICA Protagora e più in generale i sofisti possono essere a buon diritto considerati i fondatori di quelle che oggi si chiamano “scienze umane” o “scienze storico-sociali”, cioè discipline come la linguistica, la retorica e la semiotica, ma anche l’antropologia, l’etnologia, la sociologia, la giurisprudenza, la politologia, l’economia e la stessa storia. In particolare la filosofia di Protagora è in sintonia con la “nuova retorica” del filosofo polacco C. Perelman (1912-1984) che ha analizzato e classificato le forme e le regole dell’argomentazione persuasiva. Esse costituiscono la ragionevolezza pratica – valida per le scelte etiche, giuridiche e politiche – che si distingue dalla razionalità teorica – propria delle scienze naturali e basata invece sulla dimostrazione logico-matematica – perché il suo criterio di verità non è la consequenzialità logica ma il consenso collettivo. Per un approfondimento: Perelman-Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione – La nuova retorica, Einaudi 1966 (edizione originale francese 1958). 126 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 GORGIA: LA PAROLA E’ IPNOTICA Passerò all’inizio del discorso che devo fare ed esporrò le ragioni per cui era naturale che avvenisse la partenza di Elena per Troia. Certo o per volere della sorte o per decisione divina e per decreto della necessità fece quello che ha fatto oppure trascinata con la forza, o persuasa con la parola, o presa da amore. […] Ma se invece fu la parola a persuaderla e a ingannarle la mente, neppure per questo aspetto è difficile scusarla e scioglierla dall’accusa nel modo seguente. La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione. […] Possiamo infatti vedere quale forza abbia la persuasione, che senza avere l’aspetto della costrizione, ne ha la potenza. E la parola che persuase l’anima costrinse l’anima, che persuase a prestar fede a quanto le veniva detto e ad approvare quanto era fatto. Dunque chi persuase ha commesso ingiustizia in quanto ha costretto, mentre l’anima persuasa, in quanto è costretta, ha cattiva fama ingiustamente. Gorgia, Encomio di Elena Gorgia condivide il problema individuato da Protagora: com’è possibile che esista la verità se ogni filosofo sostiene una verità diversa e antitetica da quelle degli altri filosofi? Ma la soluzione che Gorgia dà a questo problema è ancora più radicale di quella di Protagora. Essa consistente in tre tesi tanto lapidarie quanto provocatorie: 1. Nulla esiste. 2. Se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile. 3. Se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. La prima tesi – “nulla esiste” – non va interpretata in senso empirico-fenomenico, ovvero come affermazione dell’inesistenza delle cose fisiche oggetto dei nostri sensi. “Nulla esiste” ha un significato ontologico, cioè vuol dire che non c’è un principio razionale unico e fondamentale della realtà (che sia acqua, illimitato, soffio, fuoco-logos, essere, numeri o qualsiasi altra cosa) e quindi non c’è alcuna razionalità oggettiva, cioè inerente alla natura. La seconda e la terza tesi, da un lato, sono consequenziali alla prima: non esistendo principi razionali oggettivi nessuna conoscenza umana e nessun discorso umano possono essere universali e quindi comunicabili. Dunque, non vi è nemmeno alcuna razionalità 127 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE soggettiva, cioè propria dell’uomo. Da un altro lato, però, le due ultime tesi costituiscono anche un esempio di virtuosismo retorico-argomentativo sul modello delle arringhe giudiziarie. Esse infatti esibiscono argomenti supplementari, ad abundantiam, per rendere mirabolante e inattaccabile l’impianto argomentativo. In altre parole: sarebbe più che sufficiente l’argomentazione della prima tesi, e ancor più quella della seconda ma perfino ipotizzando per assurdo che una o tutte e due fossero false, la conclusione per Gorgia sarebbe comunque la stessa: la razionalità è impossibile. La prima tesi – “nulla esiste” – è sostenuta da Gorgia con una argomentazione dialettica che parte dall’assunto che se l’essere esistesse o sarebbe generato o sarebbe ingenerato. Ma: 1. Se fosse generato, sarebbe generato dall’essere o dal non-essere. Se fosse generato dall’essere, ciò implicherebbe una trasformazione dell’essere e dunque l’essere non sarebbe più tale, sarebbe divenire, cioè si autonegherebbe. Se fosse generato dal nonessere, ci sono due possibilità: o il non-essere non è – e allora non potrebbe generare l’essere perché “nulla può nascere dal nulla”; o il non-essere è – e allora non potrebbe generare l’essere perché ciò implicherebbe l’autonegazione del non-essere. 2. Se fosse ingenerato, l’essere sarebbe infinito. Ma, in quanto infinito, l’essere non potrebbe trovarsi in alcun luogo. Infatti per definizione il luogo è ciò che contiene. Ma l’infinito non può essere contenuto né da sé stesso né da qualcos’altro altrimenti vi sarebbero due infiniti, il che è assurdo. Non essendo in alcun luogo, l’essere è il nulla, in quanto non può esistere qualcosa che non abbia una collocazione spaziale. Dunque “nulla è”. Ma anche ammesso per assurdo che l’essere fosse, continua Gorgia, esso non sarebbe razionalmente conoscibile. Infatti, per conoscere l’essere, il nostro pensiero dovrebbe coincidere con tutto ciò che esiste. Se così fosse, allora dovrebbe essere vero che tutto ciò che pensiamo esiste. Ma noi possiamo pensare molte cose che non esistono – come un uomo che vola o bighe che solcano i mari. Dunque il pensiero non coincide con l’essere. Di conseguenza l’essere non è pensato, cioè è inconoscibile. Ma, prosegue implacabile Gorgia, anche ammesso per assurdo che l’essere fosse conoscibile, esso comunque non sarebbe comunicabile, cioè gli uomini non potrebbero scambiarsi informazioni o giudizi su di esso. Infatti per comunicare si usano le parole, le quali sono suoni. Ma se sono suoni solo l’udito può cogliere e conoscere le parole. Poiché i colori possono essere conosciuti solo dalla vista e i sapori solo dal gusto, ma non dall’udito, nessuna parola può trasmettere la conoscenza di un colore o di un sapore. Ma anche 128 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ammesso per assurdo che una parola possa contenere qualsiasi esperienza sensibile, chi la ascolta non potrebbe farsi la stessa rappresentazione mentale del suo contenuto di chi l’ha proferita. Infatti, le menti di chi parla e di chi ascolta sono diverse, altrimenti essi sarebbero la stessa persona. Dunque alla stessa parola corrispondono due contenuti mentali diversi. Per esempio uno può dire “tavolo” e pensarlo quadrato e un altro può udire “tavolo” e rappresentarselo tondo. Gorgia giunge così a confutare tutte le teorie filosofiche precedenti. Ma la sua grandezza filosofica consiste soprattutto nel fatto che egli le confuta utilizzando quelle stesse strategie argomentative razionali con le quali i filosofi precedenti, in particolare Parmenide e Zenone, le avevano sostenute. In questo modo Gorgia ottiene il suo risultato più clamoroso: mostrare che nessuna argomentazione è razionale – cioè assolutamente fondata e univoca – bensì che tutte le argomentazioni sono soltanto retoriche, cioè basate sul potere incantatorio, ovvero ipnotico, della parola orale. Questo significa che la parola può modificare i nostri sentimenti, può eliminare il dolore e infondere il piacere, può esercitare una coercizione pari se non superiore a quella basata sulla forza fisica. La parola, afferma Gorgia, ha queste capacità perché possiede il potere di persuadere, ovvero produce una sorta di ipnosi. La retorica è appunto la tecnica – sviluppata e insegnata da Gorgia – capace di rendere la parola il più persuasiva, cioè il più ipnotica, possibile. La tecnica retorica consiste nell’uso translato delle parole (le figure “retoriche”: metafora, sineddoche, metonimia, similitudine, ecc.), nella selezione di quelle più efficaci emotivamente, nell’ordine di successione e nella concatenazione degli argomenti, nell’uso del volume e dei toni della voce, ma anche nella scelta dei gesti e delle espressioni del viso. In questo senso per Gorgia tutte le tesi sono solo credenze individuali e come tali sono equivalenti. Ciò che rende una migliore dell’altra è solo la retorica, cioè la capacità dell’oratore di rendere alcune più persuasive delle altre. Insomma, per Gorgia è una questione di magia, benché linguistica, non di verità; di forza, benché verbale, non di ragione. 129 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI GORGIA TRA SCETTICISMO E NICHILISMO Gorgia può essere considerato il primo filosofo di rilievo che negò la possibilità della Verità ovvero della razionalità o scientificità, intesa come: a) conoscenza oggettiva, cioè capace di rappresentare la realtà, b) universale, cioè condivisa da tutti gli uomini, c) necessaria, cioè certa e univoca. Due secoli più tardi, la posizione di fondo di Gorgia fu ripresa e sviluppata da un movimento filosofico che prese il nome di “scetticismo” (da skèpsis, che significa “indagine”, intesa come ricerca perenne perché non può mai arrivare a una verità definitiva). Lo scetticismo sosteneva appunto che la verità, ammesso e non concesso che esista, è in ogni caso inconoscibile. Almeno limitatamente a quesa tesi, Gorgia fu il primo scettico della storia della filosofia, sebbene la denominazione “scettico” sia nata dopo di lui e sebbene, come si vedrà, lo scetticismo antico abbia sviluppato anche una dottrina etica del tutto originale e lontana dallo stile di vita di Gorgia. Ad ogni modo, lo scetticismo è una delle grandi e ricorrenti posizioni della storia della filosofia, condivisa da filosofi di epoche e personalità molto diverse, come Pirrone (III sec. a.C.), Sesto Empirico (II d.C.), David Hume (XVIII sec.), Friedrich Nietzsche (XIX sec.). Nei suoi esiti estremi lo scetticismo prende il nome di “nichilismo” che sta a significare la negazione totale di qualsiasi senso oggettivo e universale della realtà e della vita. Il nichilismo è una delle posizioni filosofiche più diffuse della nostra epoca. 130 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO LA COSTITUZIONE ITALIANA: IL DIRITTO-DOVERE DI VOTO Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. Costituzione della Repubblica italiana, art. 48, commi 1 e 2 131 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE IV VIAGGIO LA RAZIONALITA’ SOSTANZIALE DELL’UOMO 132 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… IL RAZIONALISMO CRITICO Tra tutti gli antropologi, cioè i filosofi greci che incentrano la loro ricerca sull’uomo, la figura di maggiore spessore umano e filosofico è quella di Socrate. Pur legato ai sofisti sia da rapporti di amicizia personale sia da affinità filosofiche, Socrate non si considera e non è un sofista. Oltre a insegnare gratuitamente, egli ritiene che la razionalità umana sia sì incapace di possedere verità complete e assolute ma anche che la verità, ovvero l’essere, esista e che la razionalità umana abbia la capacità di avvicinarsi sempre più e sempre meglio ad essa. Per Socrate, infatti, le tesi conoscitive pur essendo molte e diverse – e dunque parziali e relative – possono convergere e ridurre progressivamente la loro diversità e dunque la loro parzialità e relatività. Di conseguenza, Socrate non è un relativista in quanto, secondo lui, c’è sempre una tesi conoscitiva oggettivamente migliore delle altre, per quanto mai completa e dunque destinata a essere superata da una nuova tesi ancora migliore. La convergenza tra le diverse tesi può realizzarsi, secondo Socrate, solo nel “dialogo”, cioè nella discussione filosofica, e dunque costituisce un’impresa collettiva. Il dialogo però deve essere inteso e praticato come ricerca della definizione di un valore (p.e. il coraggio o l’amicizia). La definizione, infatti, è almeno tendenzialmente universale, perché astrae dalle particolarità delle diverse opinioni individuali ed evidenzia ciò che c’è di comune in tutte le possibili opinioni. In questo senso, la posizione filosofica di Socrate può essere denominata “razionalismo critico”, in quanto, da un lato, valorizza la ragione umana, attribuendole la capacità di una conoscenza oggettiva e universale sempre crescente; dall’altro lato, tuttavia, ritiene limitata, e dunque sempre incompleta, la capacità conoscitiva della ragione umana. Socrate può essere considerato a buon diritto il fondatore del razionalismo critico, un indirizzo filosofico fatto proprio da filosofi successivi di grande levatura come Immanuel Kant (1724-1804), Karl Popper (1902-1994) e il vivente Karl Otto Apel. 133 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO SOCRATE Socrate (469-399) nacque ad Atene, figlio di uno scultore e di un’ostetrica, dunque in una famiglia benestante, ma non aristocratica e nemmeno ricca. Da giovane fece il lavoro del padre ma, una volta raggiunta l’autosufficienza economica, si dedicò completamente alla filosofia. Subito prima e durante la guerra del Peloponneso (431-404), combatté come oplita nelle battaglie di Potidea (432), nella quale salvò la vita al giovane Alcibiade, Delio (424) e Anfipoli (422). Le testimonianze descrivono Socrate come un soldato ineccepibile, di grande resistenza, ma al contempo particolare, in quanto a volte si metteva in disparte a rimaneva immobile a lungo a meditare, come fosse in trance. Assolto il suo dovere militare, Socrate si sposò con Santippe, dalla quale ebbe tre figli. Secondo altre fonti, il terzo figlio l’avrebbe avuto da una seconda moglie o addirittura da una concubina. Tutte le fonti convergono, però, nel descrivere Santippe come una donna insopportabile – addirittura l’unico essere umano che Socrate non sarebbe mai riuscito a far ragionare – e il rapporto coniugale Socrate-Santippe come piuttosto burrascoso. Di certo, la totale dedizione di Socrate alla ricerca filosofica non doveva lasciargli molto tempo per occuparsi della famiglia ed è plausibile, oltre che comprensibile, che Santippe non ne fosse molto contenta. La formazione filosofica di Socrate si basò sul rapporto con diversi filosofi, quali Anassagora, Protagora e soprattutto Parmenide. Socrate, però, non fu mai propriamente discepolo di nessuno di essi e ben presto cominciò a intraprendere un nuovo e personale tipo di ricerca filosofica, che si differenziava da tutte le altre anche per le sue modalità pratiche. I luoghi dell’attività filosofica di Socrate, infatti, erano le piazze e le strade di Atene e la sua ricerca consisteva nel fermarsi a discutere con uno o più concittadini, in genere intellettuali come lui, ma anche militari o politici, e soprattutto con i giovani. Col tempo, da questi ultimi, emerse un folto gruppo di discepoli: il futuro generale Alcibiade, figlio adottivo di Pericle, l’aristocratico Platone, futuro filosofo idealista, l’aristocratico Senofonte, futuro generale e storico, l’aristocratico Crizia, futuro membro del governo dei trenta tiranni, Antistene, futuro filosofo cinico, e molti altri. Socrate attirava i giovani non solo per l’originalità della sua filosofia ma anche per il modo in cui viveva, del tutto coerente con le sue tesi filosofiche. Egli, infatti, pur non essendo povero, seguiva uno stile di vita sobrio, dimostrando di curarsi e di godere molto più della conoscenza che dei beni materiali. Tuttavia, non disdegnava i numerosi inviti, che riceveva da parte di ricchi aristocratici, a partecipare ai “simposi”, cioè a incontri conviviali in case private in cui si mangiava e soprattutto si beveva, passandosi di mano in mano un’unica coppa piena di vino e discutendo amabilmente di temi culturali, politici e filosofici. In questo senso, i simposi erano per Socrate altrettante occasioni per intavolare i suoi dialoghi e condurre la sua ricerca filosofica. In tali situazioni, egli era famoso perché, pur bevendo abbondantemente, non perdeva la sua lucidità. 134 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nel 423, il più grande commediografo greco, Aristofane, scrisse e fece rappresentare durante le Grandi Dionisie, ovvero davanti a tutti gli ateniesi, la commedia Le nuvole, una parodia di Socrate e della filosofia. Il Socrate aristofaneo, protagonista della commedia, è il maestro di una scuola (“il Pensatoio”) che passa la maggior parte del suo tempo a osservare gli astri dentro una cesta sospesa in aria, che afferma che gli dei non esistono e che il cosmo è stato prodotto da un vortice aeriforme e che insegna, a pagamento, ad argomentare efficacemente per poter vincere qualsiasi causa legale. Aristofane, in realtà, in questo modo volle rappresentare una beffarda caricatura non solo e non tanto di Socrate, ma di tutti i filosofi che operavano in Atene (Anassagora, Protagora, ecc.) e chiamò questa caricatura Socrate, perché questi era il filosofo più noto, più fastidioso e più eccentrico agli occhi degli ateniesi, che nella stragrandre maggioranza non conoscevano certo le diverse tesi dei vari filosofi e quindi non li differenziavano. Nel 406, Socrate fu sorteggiato come membro della bulè (o Consiglio dei 500) e come pritano, cioè come uno dei 50 governanti temporanei della democrazia ateniese, e come tale fu l’unico a opporsi all’illegale giudizio collettivo contro i comandanti militari accusati di non aver raccolto i naufraghi ateniesi durante la battaglia navale delle Arginuse. Nel 404, dopo l’instaurazione del governo oligarchico dei trenta tiranni, uno dei quali era l’ex discepolo Crizia, a Socrate venne chiesto di arrestare un politico democratico, ma Socrate rifiutò, pur sapendo che, per il suo rifiuto, avrebbe rischiato la morte. Ciò nonostante, dopo la restaurazione della democrazia con Trasibulo, nel 399 Socrate, considerato “antidemocratico” per la sua frequentazione di ambienti aristocratici e per le sue critiche alla democrazia, venne denunciato per empietà e corruzione dei giovani da parte del poeta Meleto e del politico democratico Anito. Di fronte alla bulè, riunita per giudicarlo, Socrate si difese, argomentando l’infondatezza delle accuse, ma fu ugualmente dichiarato colpevole dalla maggioranza (280 voti di colpevolezza su 500). A questo punto, per prassi la bulè doveva votare la pena dopo aver sentito il condannato, e Socrate chiese provocatoriamente che la sua pena consistesse nell’essere mantenuto a vita a spese della cittadinanza. Irritata, l’assemblea, che altrimenti ne avrebbe probabilmente votato l’esilio, votò invece con una maggioranza ancora più ampia (360) la comminazione della pena capitale. Incarcerato e in attesa dell’esecuzione della condanna, a Socrate fu offerta la possibilità di fuggire dal carcere e da Atene, ma rifiutò di farlo sostenendo che, in una democrazia, anche se alcune leggi sono ingiuste, bisogna ugualmente rispettarle dal momento che ognuno è responsabile o di averle lasciate approvare o di non essersi impegnato perché fossero abrogate. Socrate morì così nel 399 bevendo una tisana di cicuta, un’erba velenosa che provoca una morte lenta, e dialogando di filosofia fino all’ultimo con i suoi discepoli più fedeli. Non lasciò opere scritte. Egli infatti concepì e praticò il suo insegnamento filosofico unicamente come dialogo orale, rifiutandosi quindi di metterlo per scritto. Conosciamo, dunque, il suo pensiero solo indirettamente, grazie alle testimonianze di altri filosofi e intellettuali, soprattutto di Platone e Senofonte, suoi discepoli. 135 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma il pensiero di Socrate ebbe moltissimi e differenti seguaci. La tradizione storiografica li ha divisi in un “socratico maggiore”, cioè Platone, e in una miriade di “socratici minori” suddivisi a loro volta in tre scuole: la scuola megarica (nella polis di Megara, in Attica), comprendente Euclide di Megara, Eubulide, Stilpone, Diodoro Crono, di indirizzo soprattutto logico-gnoseologico, che scoprì e valorizzò i paradossi logici (p.e. “Epimenide il cretese afferma: ‘Tutti i cretesi mentono’ ”) evidenziando i limiti della conoscenza razionale; la scuola cirenaica (a Cirene, polis greca sulle coste dell’attuale Libia), fondata da Aristippo, che sosteneva un’etica del piacere controllato e dell’adattamento positivo a tutte le situazioni; la scuola cinica (nata nel ginnasio ateniese chiamato “Cinosarge”, cioè “cane agile”) fondata da Antistene e resa celebre da Diogene di Sinope, che proponeva un’etica della libertà basata su uno stile di vita naturale, alla maniera degli animali. 136 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 SOCRATE: LA RAZIONALITA’ E’ DIALOGO ARGOMENTATIVO Io vado esaminando […] me stesso per vedere se non si dia il caso che io sia una qualche bestia assai intricata e pervasa di brame più di Tifone, o se, invece, sia un essere più mansueto e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e senza fumosa arroganza. Platone, Fedro, 230 A, a cura di G. Reale, Rusconi 1991 SOCRATE - Allora, o Lachète, cominceremo a definire il coraggio; dopo di che indagheremo in che modo possa rendersi presente nei giovani, per quanto è possibile, attraverso l’esercizio e lo studio. Ma provati a dire che cos’è il coraggio. LACHETE – Per Zeus, o Socrate, non è difficile rispondere: chi, durante la battaglia, mantenendo la propria posizione, si difende dai nemici e non si dà alla fuga, questo è un uomo dotato di coraggio. SOCRATE – Dici bene, o Lachete, ma forse è colpa mia, del non essermi espresso con chiarezza, se tu hai risposto non a ciò che io avevo in mente, mentre ti interrogavo, ma a altro. LACHETE – Come puoi dire questo, o Socrate? SOCRATE – Te lo spiegherò se mi riesce. [191 A] Certamente ha del coraggio quest’uomo di cui parli e che, conservando la propria posizione, combatte contro i nemici. LACHETE – Per l’appunto! SOCRATE – Sono d’accordo; ma quello che, al contrario, non resta a piè fermo al proprio posto, ma combatte il proprio nemico indietreggiando? LACHETE – Come sarebbe indietreggiando? SOCRATE – Ma sì, come gli Sciiti che si dice sappiano combattere nella fuga non meno che nell’inseguimento; anche Omero, celebrando i cavalli di Enea ugualmente veloci di qua e di là, disse che sapevano tanto inseguire quanto fuggire, e, per il medesimo motivo, lodò Enea stesso, per la sua abilità a fuggire e lo definì maestro nella fuga. [B] LACHETE – E fece bene, o Socrate! E infatti parlava di carri; tu parli dei cavalieri Sciiti: la loro cavalleria combatte proprio così, mentre la fanteria greca, come dico io. SOCRATE – Tranne forse quella dei Lacedemoni, o Lachete. Dicono infatti che a Platea i Lacedemoni, quando si trovarono di fronte i gerrofori persiani [C] non vollero combattere da fermi, ma indietreggiarono e, dopo che le schiere persiane si sciolsero, ritornati sui loro passi combatterono come fa la cavalleria e, in questo modo, vinsero. LACHETE – E’ vero. 137 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE SOCRATE – Come dunque dicevo poco fa, se tu non hai risposto esattamente, la colpa è mia, poiché non ti ho posto in modo corretto la domanda; infatti volevo sapere da te non solamente chi fosse coraggioso nella fanteria, ma anche nella cavalleria [D] e in ogni genere di combattimento e non mi riferivo solamente a chi lo fosse in guerra, ma anche nell’affrontare i pericoli per mare e le malattie e la povertà ed i problemi politici, e ancora non solamente a chi è coraggioso davanti al dolore e alla paura, ma anche alle passioni, ai piaceri, sia restando fermo che volgendosi in fuga; ci sono infatti anche dei coraggiosi in tal senso, o Lachete. [E] LACHETE – E molto coraggiosi, o Socrate. […] [192 A, B] SOCRATE – Allora provati anche tu, o Lachete, a fare lo stesso a proposito del coraggio e a dire cos’è questa facoltà che si esercita nel piacere, nel dolore e in tutte le circostanze in cui l’abbiamo riconosciuta presente e a cui diamo questo nome. LACHETE – Mi pare che, se vogliamo parlare in generale della natura del coraggio, in tutte queste circostanze, [C] esso sia una sorta di forza d’animo. SOCRATE – Ma bisogna, se vogliamo rispondere al nostro interrogativo; ho l’impressione, però, che, per te, non ogni tipo di forza d’animo sia coraggio e lo deduco dal fatto di sapere che tu, o Lachete, annoveri il coraggio tra le realtà molto belle. LACHETE – Sta’ pur certo che è tra le più belle. SOCRATE – Ma la forza non è bella e buona quando è accompagnata dal senno? LACHETE – Certo. SOCRATE – E quando invece ne è priva? Non è forse, al contrario, malvagia e dannosa? [D] LACHETE – Sì. SOCRATE – Dirai allora che è bello ciò che è malvagio e dannoso? LACHETE – Non sarebbe giusto, o Socrate. SOCRATE – Non potrai certo chiamare coraggio questa forza che non è bella, mentre il coraggio lo è. LACHETE – Vero. SOCRATE – In base a quanto hai detto, dunque, il coraggio sarebbe una forza illuminata dall’intelligenza. LACHETE – Così pare. […] Platone, Lachete, 190 E-192 D, a cura di G. Reale, Rusconi 1991 138 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La domanda chiave da cui scaturisce la filosofia socratica è: “Chi è l’uomo?”. Si tratta di una domanda che ne sintetizza molte altre: qual è l’identità propria dell’essere umano? Qual è la proprietà che lo contraddistingue da ogni altro essere? Che poteri possiede l’uomo? I suoi poteri sono illimitati o limitati? La risposta fondamentale di Socrate è che la proprietà peculiare dell’uomo – il suo principio identitario – è la sua psychè. Con questo termine, il cui significato letterale è “fiato” o “respiro”, i filosofi precedenti avevano chiamato il principio della vita umana e in taluni casi, al tempo stesso, quella parte del principio del cosmo (Soffio o Fuoco-Logos o Intelligenza) che è presente nell’uomo e coincide con la sua intelligenza. In modo almeno parzialmente nuovo e originale Socrate afferma che la psychè è la capacità, propria solo dell’uomo: a) di conoscere le virtù, cioè i principi e le regole di comportamento che permettono di vivere nel modo migliore; b) di praticare le virtù, cioè di vivere effettivamente secondo quei criteri in modo da raggiungere la felicità. In questo senso possiamo dire che la psychè, per Socrate, è la coscienza morale razionale: • coscienza perché propria di ogni individuo e coincidente con la consapevolezza della propria identità individuale; • morale, perché ha come scopo finale il miglior comportamento pratico; • razionale, perché possiede la facoltà di ricercare e conoscere, seppur parzialmente, le virtù universali, cioè valide per tutti gli uomini. Per Socrate la razionalità umana consiste nell’uso di un metodo argomentativo particolare da lui battezzato “maieutica”, che letteralmente significa “ostetrìcia”, cioè “arte del far partorire”, ma che Socrate usa nel significato translato di “arte di far pensare o ragionare”, ovvero di indurre ogni uomo a ricercare in prima persona la verità. Dal punto di vista logico-argomentativo, la maieutica socratica è uno sviluppo e una rielaborazione originale dell’argomentazione dialettica. Infatti, come la dialettica mira a individuare le tesi false e a confutarle attraverso la loro riduzione all’assurdo. Diversamente dalla dialettica, però, non è un “monologo”, cioè un’argomentazione individuale, ma un “dialogo”, cioè un’argomentazione collettiva, frutto dell’interazione dei ragionamenti di due o più individui. Proprio perché dialogica, la maieutica utilizza la “brachilogia”, cioè la tecnica, per così dire, del “botta-e-risposta”. In altre parole perché si possa dialogare dialetticamente i dialoganti sono tenuti a fare interventi brevi e circoscritti a un unico aspetto del problema in discussione, per evitare la dispersione e garantire l’efficacia conoscitiva. 139 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il punto di partenza della maieutica è l’individuazione di un problema, cioè dell’oggetto della ricerca conoscitiva. Essa consiste nell’usare una formula interrogativa all’apparenza elementare, o addirittura banale: “che cos’è… ?”. Questa formula viene applicata da Socrate a diverse virtù – il coraggio, la giustizia, la pietà, l’amicizia, l’amore – dal momento che lo scopo della conoscenza è per lui pratico-morale. Un esempio ne è la domanda: “che cos’è il coraggio?”. Apparentemente semplice, o perfino banale, questa domanda comporta in realtà una ricerca profonda e difficile. Con essa, infatti, Socrate propone a sé e ai suoi interlocutori l’arduo obiettivo conoscitivo di scoprire ed enunciare il criterio universale – cioè valido per tutti gli uomini in tutti i luoghi e i tempi – in base al quale è possibile stabilire con certezza se un’azione è coraggiosa o no. Utilizzando un termine coniato non da Socrate ma dai filosofi successivi, e da noi comunemente usato, si può dire che Socrate cerca il “concetto” di coraggio (e delle altre virtù), cioè le proprietà comuni e quindi fondamentali di tutti i possibili comportamenti coraggiosi. Insomma, il “che cos’è… ?” socratico implica un notevole e complesso impegno intellettivo di generalizzazione e astrazione rispetto all’esperienza immediata. Il suo scopo pratico finale è però evidente: solo sapendo cos’è davvero una virtù è possibile essere certi di comportarsi moralmente, cioè nel migliore dei modi, in ogni situazione e circostanza. Dopo aver posto la fatidica domanda, Socrate lascia la parola ai suoi interlocutori. Poiché questi sono per lo più uomini di successo che si considerano “sapienti”, essi rispondono prontamente e con sicurezza, sottovalutando il significato della domanda socratica e sopravvalutando il valore conoscitivo della loro risposta. In una parola, presumono di sapere mentre in realtà non conoscono l’essenziale. Contro questa presunzione Socrate usa innanzitutto l’ironia (in greco, “finzione”, “dissimulazione”), elogiando l’apparente sapienza dei suoi interlocutori e dichiarandosi ignorante e inferiore rispetto a loro. L’ironia socratica è sicuramente una tattica argomentativa finalizzata a spiazzare gli avversari. Ma essa esprime anche una decisiva tesi filosofica di Socrate, il “sapere di non sapere”, cioè la convinzione che la più alta sapienza di un uomo sia la consapevolezza che la propria conoscenza è sempre limitata e che pertanto bisogna sempre essere disponibili a un’ulteriore ricerca conoscitiva. Una volta disorientato l’interlocutore con l’ironia, Socrate passa alla “confutazione”, cioè falsifica la tesi altrui dimostrando che essa implica conseguenze logiche assurde. Ma la sua tecnica confutativa è pur sempre maieutica e brachilogica, cioè consiste nel porre delle domande in modo tale che sia lo stesso interlocutore, rispondendo, ad autoconfutarsi e a giungere così ad ammettere a se stesso e a Socrate di essere ignorante. 140 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE A questo punto per Socrate può iniziare la parte costruttiva della maiuetica, cioè la ricerca della vera risposta alla domanda iniziale: “che cos’è… ?”. Il metodo non cambia: con domande o brevi interventi di correzione (brachilogia), Socrate induce (maieutica) il suo interlocutore ad argomentare in modo sempre più coerente e stringente, avvicinandolo alla comprensione del concetto della virtù oggetto della ricerca. Per esempio, nel caso del coraggio, si passa dalla sua prima definizione come “capacità di non indietreggiare di fronte al nemico”, a quella di “forza d’animo”, a quella di “scienza delle cose da temere e da osare”, infine a quella di “conoscenza dei beni e dei mali”. Eppure la conclusione del dialogo è negativa: Socrate afferma che anche la migliore delle definizioni elaborate non raggiunge l’obiettivo, cioè non riesce a rispondere pienamente alla domanda “che cos’è il coraggio?”. Ciò vale anche per i dialoghi intorno alle altre virtù. Perché? A cosa serve allora lo sforzo di ricerca se l’obiettivo rimane irraggiungibile? La risposta è duplice. In primo luogo, secondo Socrate, ogni individuo deve arrivare autonomamente alla verità, seppur dialogando con altri. In questo senso Socrate ritiene che il suo compito sia solo quello di avviare e di instradare il processo di ricerca, non quello di portarlo a termine. In secondo luogo, poiché la conoscenza umana, a differenza di quella divina, è per principio limitata, lo scopo della ricerca conoscitiva umana, e dunque della maieutica, non può essere la conquista completa e definitiva della verità, ma solo il sempre maggiore avvicinamento a essa. 141 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 SOCRATE: VIVE BENE SOLO CHI SA Diceva che la giustizia e ogni altra virtù era sapienza. Ogni cosa giusta e ogni altra forma di attività fondata sulla virtù erano, a suo parere, belle e buone: chi conosce il bello e il buono niente può preferirgli; invece, chi non lo conosce, non può farlo, e se lo tenta, sbaglia: dunque, chi sa compie cose belle e buone, chi non sa non può compierle, ma se vi mette mano sbaglia. E poiché le cose giuste e tutte le altre, belle e buone, si realizzano mediante la virtù, è chiaro che la giustizia e ogni virtù sono scienza. Senofonte, Memorabili, III, 9, trad. di R. Laurenti, Laterza Una volta Antifonte, volendo portargli via i compagni, avvicinatosi a Socrate mentre essi erano presenti, gli disse queste cose: “O Socrate, io pensavo che quelli che si dedicano alla filosofia dovessero diventare più felici; ma mi sembra che tu abbia ottenuto il contrario dalla filosofia. Tu davvero hai un tenore di vita che neppure uno schiavo tenuto a regime dal padrone potrebbe sopportare; mangi cibi e bevi bevande modestissimi, ed indossi una veste non solo da poco, ma la stessa d’estate e d’inverno, e vivi scalzo e senza chitone. E per di più non accetti denaro, che rallegra coloro che lo acquistano e rende la vita più libera e più piacevole a coloro che lo possiedono. Se dunque, come appunto i maestri delle altre discipline rendono i discepoli loro imitatori, così anche tu farai diventare i tuoi compagni simili a te, sappi che sei un maestro di infelicità”. E Socrate in risposta: […] “Mi sembra, o Antifonte, che la felicità consista, secondo te, nella dissolutezza e nel lusso: io, invece, pensavo che non aver bisogno di niente è divino, di pochissimo è vicino al divino: ora il divino è la perfezione stessa e quel che è più vicino al divino è più vicino alle perfezione”. Senofonte, Memorabili, I, 6 Io vado intorno facendo nient’altro che cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze né di alcuna altra cosa prima e con maggiore impegno che della psyché in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico. Platone, Apologia di Socrate, 30 A-B, a cura di G. Reale, Rusconi [Socrate] non poneva confini fra sapienza e saggezza, ma riteneva sapiente e saggio chi, conoscendo le cose belle e buone, sapesse usarne, conoscendo le brutte, sapesse guardarsene. Interrogato se reputasse sapienti e moralmente 142 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE deboli quelli che, pur sapendo quel che devono fare, facevano l’opposto, rispose: “No, non più che insipienti e moralmente deboli. Io credo che tutti gli uomini scelgono con ogni mezzo possibile quel che più giova ai loro interessi e questo compiono. E penso che quelli che seguono una strada sbagliata non sono né sapienti né saggi”. Diceva che la giustizia e ogni altra virtù era sapienza. Ogni cosa giusta e ogni altra forma di attività fondata sulla virtù erano, a suo parere, belle e buone: chi conosce il bello e il buono niente può preferirgli; invece, chi non lo conosce, non può farlo, e se lo tenta, sbaglia: dunque, chi sa, compie cose belle e buone, chi non sa, non può compierle, ma se vi mette mano, sbaglia. E poiché le cose giuste e tutte le altre, belle e buone, si realizzano mediante la virtù, è chiaro che la giustizia e ogni virtù sono scienza. Senofonte, Memorabili, III, 9, 4 sgg. L’obiettivo ultimo della ricerca filosofica, secondo Socrate, è di tipo squisitamente praticomorale, cioè è l’attuazione della migliore condotta di vita. Tale obiettivo è sintetizzato da Socrate in una sola parola: virtù. In greco antico “virtù” (areté) significava “qualità distintiva”, ovvero indicava quella proprietà o capacità per cui qualcosa o qualcuno eccelle. In questo senso i Greci potevano dire che il volo era la virtù degli uccelli oppure che l’arte militare era la virtù degli spartani o ancora che l’inossidabilità era la virtù dell’oro. Riferendosi alla specie umana, Socrate parla di una pluralità di virtù, quali il coraggio, l’amicizia, l’amore, la giustizia, l’onestà, ecc. Ma tutte queste virtù, per lui, altro non sono che aspetti particolari di un’unica virtù: l’intelligenza o razionalità. Infatti onestà, coraggio, amicizia, ecc. altro non indicano che il comportamento più razionale che ogni uomo deve seguire in relazione a un determinato aspetto o circostanza della vita. P.e., l’onestà è il comportamento razionale nei rapporti economici, il coraggio il comportamento razionale di fronte a un pericolo, ecc. Di conseguenza, Socrate può affermare che la virtù dell’uomo, cioè la capacità per cui eccelle e si distingue da ogni altro essere, consiste appunto nell’uso della sua razionalità, o intelligenza, ovvero nella scienza intesa come conoscenza praticomorale rigorosa e fondata. Infatti è grazie alla scienza che è possibile individuare e praticare un comportamento razionale per ogni aspetto della vita, cioè le diverse virtù. Ma in cosa consiste per Socrate la “razionalità” morale? Qual è per lui il comportamento virtuoso? Come si fa a stabilirlo? In sintonia con la natura dialogica e aperta del suo modo di concepire e di praticare la filosofia, Socrate non dà una una risposta sistematica e 143 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE compiuta a queste domande, ma si limita a offrire degli spunti, degli indizi. In particolare dalle testimonianze sui suoi dialoghi è possibile ricavare quattro criteri fondamentali: 1) l’utilità, intesa però soprattutto come utilità interiore, cioè come conservazione e potenziamento della propria intelligenza, dal momento che, per Socrate, l’essenza dell’uomo è la sua psiché, cioè la sua coscienza razionale; 2) l’autocontrollo, inteso come la condizione in cui la coscienza razionale governa i movimenti, le pulsioni istintive, i desideri e le emozioni del corpo; 3) l’ “autarchia”, intesa come la condizione di autosufficienza di ogni individuo che gli permette di essere autonomo e libero, cioè di non dipendere da niente e da nessuno; 4) la felicità, intesa come la condizione di benessere esteriore e interiore derivante dall’applicazione dei tre criteri precedenti e consistente nel vivere dando il maggior spazio possibile all’uso dell’intelligenza, cioè dedicando la maggior parte del proprio tempo alla ricerca conoscitiva che si svolge attraverso il dialogo filosofico. Sulla base di questi criteri, la morale razionale di Socrate si caratterizza innanzitutto per la sua contrapposizione alla morale comune basata sulle usanze e le abitudini. In questo senso la razionalità morale di Socrate si propone come antitesi e insieme alternativa della morale tradizionale: essa è cioè una morale elaborata in prima persona e liberamente scelta anziché passivamente appresa e rispettata per conformismo e convenienza sociale. L’antitradizionalismo della morale socratica si traduce nella preminenza dei valori interiori – cioè quelli legati all’esercizio dell’intelligenza – sui valori fisici e materiali. Questo significa, per esempio, che la riflessività mentale è superiore, per Socrate, all’agilità fisica. Ma questo significa anche, e in particolare modo, che la ricchezza, la gloria, il successo, la forza, la bellezza, ecc., di per sé non possono essere considerati valori o beni ma devono anzi essere giudicati potenziali disvalori e mali. Infatti, se non sono usati con intelligenza essi sono dannosi per l’individuo, lo rendono schiavo dei propri impulsi, degli oggetti materiali e degli altri, gli procurano solo infelicità. Insomma, i beni materiali sono tali solo se usati con intelligenza, cioè se subordinati ai valori intellettivi. Porre il problema del rapporto coi beni materiali comporta affrontare la questione della positività o della negatività del piacere, inteso nel suo senso comune, cioè come godimento fisico. In altri termini: il mezzo principale per raggiungere e conservare la felicità è il piacere? È dunque il piacere il criterio per stabilire se un’azione è buona, cioè moralmente 144 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE razionale, o cattiva, cioè moralmente irrazionale? La risposta di Socrate a queste domande è negativa. Socrate infatti afferma a chiare lettere il primato del piacere intellettivo – cioè del godimento mentale prodotto dal dialogo conoscitivo – rispetto al piacere fisico. D’altra parte Socrate non afferma nemmeno che il piacere fisico va totalmente rifiutato sempre e comunque, cioè non propone una morale di tipo ascetico. Tanto è vero che le testimonianze biografiche ce lo descrivono mentre partecipa a cene conviviali nel corso delle quali il dialogo filosofico si abbina al piacere dei buoni cibi e delle buone bevande, nonché dello scherzo, del riso e più in generale della buona e allegra compagnia. Il punto è che per Socrate il piacere fisico deve essere funzionale a quello intellettuale, cioè deve essere goduto quanto basta a rendere possibile e a stimolare la ricerca conoscitiva. Da quanto si è detto emerge una concezione circolare della razionalità. Infatti, da un lato Socrate pensa che la razionalità abbia un senso eminentemente pratico-morale, cioè consista nella ricerca conoscitiva del modo migliore di comportarsi. Dall’altro lato, Socrate ritiene che il comportamento migliore, quello più utile e più felice, sia praticare la razionalità come ricerca conoscitiva. Si tratta tuttavia, più che mai, di un circolo virtuoso, in quanto le due tesi si sostengono e si rafforzano a vicenda: i comportamenti migliori sono quelli razionalmente fondati proprio perché il modo migliore di vivere, e dunque il fine principale della vita, è la ricerca razionale. E viceversa. Il primato socratico della razionalità trova la sua glorificazione in un corollario del teorema socratico dell’uguaglianza virtù=scienza, ovvero moralità=razionalità: per comportarsi bene non è solo necessario ma è anche sufficiente conoscere il vero bene e dunque per comportarsi male è sufficiente ignorare qual è il vero bene. In parole semplici, il buono è il sapiente, il malvagio è l’ignorante. Dunque il male umano è una conseguenza dell’ignoranza e per eliminarlo basta eliminare l’ignoranza, cioè diffondere la conoscenza razionale. La morale razionale di Socrate, in quanto antitradizionale, è potenzialmente in conflitto con le leggi dello Stato, che sempre in misura maggiore o minore sono influenzate dalle usanze tradizionali di un popolo. In questo senso Socrate, pur evitando intenzionalmente l’impegno politico, nell’ambito della sua ricerca conoscitiva collettiva critica implicitamente e a volte esplicitamente le leggi e le decisioni dello Stato. Addirittura sostiene che un uomo giusto deve astenersi dalla politica attiva perché altrimenti in breve tempo, proprio in quanto giusto, sarebbe ucciso senza così poter giovare in alcun modo alla società. Socrate però sostiene anche che, in uno Stato democratico, il rifiuto di rispettare leggi e decisioni sbagliate non deve comportare la trasgressione della legalità statale, in quanto in 145 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE uno Stato democratico, e solo in esso, la responsabilità delle leggi è sempre collettiva. Pertanto, in democrazia, non solo non si deve ricorrere alla violenza rivoluzionaria per cambiare le leggi ma addirittura bisogna accettare le pene inflitte in base a leggi o sentenze ingiuste, perfino in caso di condanna a morte. In questo senso Socrate può legittimamente essere considerato il primo teorico (almeno occidentale) della disubbidienza civile e della non-violenza come unici metodi legittimi ed efficaci di lotta politica per il radicale, ma necessariamente graduale, miglioramento dello Stato. 146 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 SOCRATE: DIO E’ RAZIONALITA’, L’UOMO IL FINE DEL COSMO E tu credi di avere un po’ d’intelligenza? Interroga e risponderò. E ritieni che altrove non esista affatto l’intelligenza, soprattutto considerando che nel tuo corpo hai una piccola parte di terra, che pur è tanta, un’esigua parte d’acqua, che pur è tanta, e che il tuo corpo è stato messo insieme da qualcuno che ha preso dalla grande massa degli elementi una piccola parte di ciascuno? Se l’intelligenza non esistesse affatto, come puoi pensare che solo tu, per un caso fortunato, te la sei portata via, e che questi elementi, infiniti di numero e immensamente grandi, sono stati sistemati in bell’ordine, a quanto supponi, da una forza non intelligente? - Già, per Zeus, perché non vedo chi ne ha il potere, come vedo chi produce le cose quaggìù. - Ma nemmeno l’anima [psyché] tua vedi che ha il potere sul corpo, sicché, secondo il tuo ragionamento, puoi affermare di non compiere niente con la riflessione, ma tutto a caso. […] - E non è bastato a Dio di prendersi cura del corpo, ma, ciò che è più grande ancora, ha immesso nell’uomo un’anima [p s y c h é ] di meravigliosa potenza. C’è altra creatura la cui anima avverta l’esistenza degli dei che hanno disposto cose tanto grandi e tanto belle? Quale altra razza se non quella degli uomini venera gli dei? Quale anima, più dell’umana, è capace di evitare la fame o la sete, il freddo o il caldo, di curare i mali, di mantenere la salute, di sforzarsi ad apprendere, o è capace, infine, di ricordare quanto ha udito, visto, imparato? Non ti par chiaro che, rispetto agli altri animali, gli uomini vivono come dei, disposti da natura a dominare con il corpo e l’anima? […] - Rifletti, o caro, continuò, che l’intelligenza ch’è in te governa il tuo corpo a suo piacere. Conviene quindi credere che pure la sapienza che sta nell’universo dispone le cose come le aggrada, e non che la tua vista possa distendersi per molti stadi, l’occhio di Dio, invece, sia incapace a scorgere tutto insieme, non che l’anima tua riesca a pensare alle cose di qui, a quelle d’Egitto e di Sicilia, la sapienza di Dio, invece, non sia in grado di prendersi contemporaneamente cura di tutto […]. Senofonte, Memorabili, I, 4 - 147 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Dimmi, gli chiese, o Eutidemo, t’è mai accaduto di pensare con quanta premura gli dei hanno preparato agli uomini il necessario? - Mai, per Zeus, rispose quello. - Eppure, sai che la nostra prima e fondamentale necessità è la luce che gli dei ci concedono? - Certo: e se non l’avessimo saremmo simili a ciechi con tutti i nostri occhi. - Abbiamo anche bisogno di riposo: ed essi ci offrono la notte come ristoro dolcissimo. - Anche di questo s’ha da essere grati, e molto. - Inoltre, il sole col suo splendore illumina le varie ore del giorno e tutte le altre cose, mentre la notte con le sue tenebre è scura; e allora non fanno essi brillare le stelle, che ci rischiarano le ore della notte, e ci permettono di compiere molte operazioni, per noi indispensabili? - E’ così, disse. - E la luna, poi, ci fa conoscere non solo le parti della notte, ma anche del mese. - Senz’altro. - E siccome abbiamo bisogno di cibo, il farcelo crescere dal suolo e il darci stagioni adatte a procurarci in grande quantità ogni specie di cose non solo necessarie, ma anche dilettevoli? […] - Anche questo è una prova segnalata d’amore per gli uomini. - E che il sole dopo la rivoluzione invernale avanzi maturando certi prodotti e seccandone altri, di cui è passato il tempo, e, fatto ciò, non continui più ad accostarsi ma torni indietro, badando a non rovinarci con un calore eccessivo, e, quando poi, allontanandosi, ha raggiunto il punto che, se andasse più lontano, ci rattrappiremmo indubbiamente tutti pel gelo, compia una nuova conversione e cominci ad avvicinarsi e si volga in quella parte del cielo in cui, più che in altra, possa esserci utile? […] - Io, disse Eutidemo, mi sto già chiedendo se gli Dei non abbiano nessuna occupazione fuorché la cura degli uomini: unico ostacolo è che pure gli altri animali partecipano di questi beni. E non è chiaro, riprese Socrate, che anch’essi esistono e crescono per l’uomo? C’è una creatura che, quanto l’uomo, trae profitto dalle capre, dalle pecore, dai buoi, dai cavalli, dagli asini e dagli altri animali? […] Senofonte, Memorabili, IV, 3 - 148 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Socrate è un credente, ovvero un assertore dell’esistenza degli dei. Non solo, ma la sua stessa filosofia è nutrita da un’ispirazione dichiaratamente religiosa. Tuttavia Socrate propone e propugna una concezione del divino radicalmente diversa e innovativa rispetto a quella della tradizione politeistica greca. Riprendendo e sviluppando le tesi di Senofane8, Socrate critica e rigetta innanzitutto la visione volgarmente antropomorfica degli dei, quella cioè che attribuiva loro le fattezze fisiche e insieme le passioni e i vizi tipici di ogni uomo, per esempio l’ira, l’invidia, la dissolutezza alimentare e sessuale, ecc. Per Socrate gli dei non hanno aspetto umano e più in generale non sono “sensibili”, cioè non possono essere oggetto dei nostri sensi, insomma non si possono vedere, toccare, udire. In questa prospettiva, Socrate si impegna nella confutazione dell’obiezione tradizionalistica secondo cui ciò che non ha concretezza fisica non può essere creduto perché non esiste o perlomeno non si può provare che esista. A tal fine egli argomenta che il Sole non si lascia guardare bene e anzi abbaglia chi osa insistere a guardarlo, che il fulmine non si vede prima e dopo la sua fugace apparizione e che il vento si manifesta senza farsi vedere. Oltre a sostenere questi argomenti analogici, che hanno più che altro una funzione esemplificativa e preparatoria, Socrate soprattutto argomenta che anche l’intelligenza umana non si vede né si tocca, eppure esiste perché governa e muove il corpo. Allo stesso modo, afferma Socrate, l’intelligenza divina, pur invisibile e intoccabile, governa l’universo. Ma gli dei, secondo Socrate, differiscono dalla loro immagine popolare non solo e tanto perché sono del tutto immateriali ma anche e soprattutto perché sono razionali e morali. L’intelligenza, infatti, è la proprietà fondamentale del divino e ciò comporta che gli dei posseggano capacità e conoscenze razionali in sommo grado. Dal momento che la conoscenza per Socrate coincide con la virtù, in quanto sommamente razionali gli dei sul piano pratico sono anche sommamente morali. Dunque, anche da questo punto di vista, gli dei non sono come gli uomini, ma sono loro superiori sia a livello teorico sia a livello comportamentale. Di qui la concezione critica dell’uomo propria di Socrate: in quanto non è un dio, l’uomo è strutturalmente limitato e fallibile. Di conseguenza la più alta conoscenza umana è “sapere di non sapere”. Ovvero l’autoconsapevolezza critica, cioè appunto la coscienza dei limiti delle proprie capacità conoscitive, ossia la consapevolezza della propria fallibilità. 8 Filosofo vissuto tra il 570 e il 475 ca. a.C., nato nella Ionia ma emigrato a Elea, nella Magna Grecia. Criticò per primo la concezione antropomorfica degli dei propria della tradizione religiosa greca. 149 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Socrate, inoltre, concepisce la divinità in modo parzialmente monoteistico. Infatti, mentre per la religione greca tradizionale ogni dio rappresenta una potenza a sé stante e di pari dignità e Zeus è soltanto, per così dire, un primus inter pares, per Socrate, il divino è innanzitutto e fondamentalmente un’ “intelligenza ordinatrice” unica. Tuttavia l’Intelligenza divina, secondo Socrate, si articola in molteplici e diverse potenze razionali che, pur essendo manifestazioni di un unico intelletto, posseggono una loro autonomia e pertanto si possono rappresentare come singoli e particolari dei. Socrate dunque rifiuta il politeismo tradizionale, ma non teorizza un monoteismo assoluto bensì un monoteismo parziale, relativo. In altre parole, per lui il Divino non è un’unica persona ma una collettività di persone, ovvero un insieme unitario di principi e forze razionali, però complementari, coordinati e convergenti, in quanto manifestazioni e aspetti di una mente razionale unitaria. Ma forse l’aspetto più rivoluzionario della speculazione teologica di Socrate è costituito dalla sua argomentazione dell’esistenza di Dio. Essa è così schematizzabile: 1. Tutto ciò che mostra in modo evidente un ordine – cioè un’organizzazione delle sue parti finalizzata al raggiungimento di uno scopo – non può essere il prodotto del caso ma deve essere il prodotto di un’intelligenza ordinatrice che l’ha progettato e realizzato intenzionalmente e razionalmente. Per esempio, una sedia non può essersi prodotta casualmente, ma è il risultato del lavoro di un falegname che l’ha costruita allo scopo di far sedere comodamente qualcuno. 2. Il corpo umano mostra un ordine evidente dato dalla mirabile interazione di tutti i suoi organi finalizzata alla sua vita. 3. Il corpo umano non può che essere il prodotto di un’intelligenza superiore a quella umana, ovvero dell’Intelligenza divina. 4. Dunque Dio deve esistere, altrimenti non potrebbe esistere l’uomo. Il carattere rivoluzionario dell’argomentazione di Socrate consiste nel suo fare perno sull’uomo. In altri termini, l’esistenza di Dio è fondata da Socrate sulla centralità dell’uomo nel cosmo che a sua volta trova nell’esistenza di Dio la sua legittimazione. Socrate, infatti, in aggiunta alla precedente argomentazione antropologica, adduce un’ulteriore 150 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE argomentazione cosmologica che fa leva sull’ordine di tutta la natura e in questa prospettiva arriva a concludere che Dio ha prodotto e governa il cosmo per permettere all’uomo di vivere nel modo migliore possibile. Per esempio, argomenta Socrate facendo propria la teoria geocentrica del cosmo, il movimento del Sole intorno alla Terra produce un’alternanza di freddo e caldo, evitando eccessi dell’uno e dell’altro e offrendo così all’uomo le migliori condizioni ambientali. In questo modo, Socrate, da un lato, introduce l’idea che Dio abbia una particolare attenzione per l’uomo e, dall’altro, che l’uomo sia l’essere naturale superiore a tutti gli altri e per questo il fine ultimo del cosmo naturale. 151 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI E DI OGGI SOCRATE E IL PRINCIPIO ANTROPICO Lo sviluppo della ricerca scientifica nel ‘900, in particolare nell’ambito astrofisico, ha posto gli scienziati di fronte a una serie di dati sperimentali che attestano che l’esistenza della vita sul nostro pianeta, e ancor più di un essere intelligente quale l’uomo, è l’effetto di condizioni originarie estremamente restrittive, cioè di una gamma di coincidenze altissimamente improbabili nelle proprietà fondamentali della materia e di equilibri di improbabilissima precisione tra le forze fisiche fondamentali. Per esempio, mentre l’universo potrebbe in linea di principio avere una durata molto inferiore, esso ha raggiunto e superato la dimensione spaziotemporale di 10 miliardi di anni luce, ovvero la soglia minima necessaria alla produzione stellare del carbonio, elemento-base della vita terrestre; ancora, la massa del corpo umano è la media geometrica tra la massa di un pianeta e una massa atomica, la massa di un pianeta la media geometrica tra la massa atomica e la massa dell’universo ed entrambe queste coincidenze sono effetti dei valori matematici delle interazioni gravitazionale ed elettromagnetica; inoltre se le intensità relative di energia nucleare forte ed energia elettromagnetica fossero anche minimamente maggiori o minori la loro interazione renderebbe impossibile la formazione di atomi di carbonio e dunque della vita. In base a queste e a molte altre evidenze, alcuni scienziati contemporanei di chiara fama hanno teorizzato il “principio antropico”. Nella sua versione “debole” (PAD) esso stabilisce che l’eccezionalità dei dati osservativi astrofisici è relativa al fatto che l’universo abbia prodotto casualmente una forma intelligente di vita capace di rendersene conto. Nella sua versione “forte” (PAF) sostiene che l’universo deve possedere proprietà originarie che producano la vita intelligente, ovvero che l’universo è “progettato” al fine di generare “osservatori”. Chi volesse approfondire, può leggere Barrow-Tipler: Il principio antropico, Adelphi 2002 (The Anthropic Cosmological Principle, 1986). 152 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO JOHN D. BARROW-FRANK J. TIPLER: L’UNIVERSO E’ FATTO PER L’UOMO Che cos’è l’uomo perché l’universo debba preoccuparsi di lui? I telescopi portano fino a noi la luce di remote sorgenti quasi stellari vissute miliardi di anni prima della comparsa della vita sulla Terra, prima ancora che vi fosse una Terra. Le ceneri ancora calde della creazione ci sono note come “radioattività naturale”. Un termometro e l’attuale abbondanza relativa degli elementi leggeri ci svelano le correlazioni tra temperatura e densità esistenti nei primi tre minuti dell’universo. La fisica delle particelle elementari ci illumina su condizioni ancora più remote e ancora più estreme. In questa prospettiva di materia e di campi di tale energia, di tali escursioni di temperatura e pressione, di tali vastità di spazio e di tempo, che cosè l’uomo se non un insignificante granello di polvere su un irrilevante pianeta in una irrilevante galassia in una regione qualsiasi dell’immensità dello spazio? E invece no, l’antico filosofo aveva ragione! Il significato è importante, addirittura essenziale. Perché se da un lato l’uomo è adatto all’universo, dall’altro l’universo è adatto all’uomo. Si immagini un universo in cui questa o quella costante fondamentale differisse anche solo dell’un per cento dal valore numerico osservato. Un tale ambiente non vedrebbe mai la nascita dell’uomo. Questo è il significato del principio antropico. Secondo tale principio, al centro del meccanismo e del progetto del cosmo c’è un fattore capace di generare la vita. John D. Barrow-Frank J. Tipler, Il principio antropico, Adelphi, 2002, pp.13-14 153 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA LA REALTA’ COME RAZIONALITA’ METAFISICA 154 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE L’ETA’ DELLA DECADENZA GRECA (431-323 a.C.) Nella seconda metà del V secolo a.C., liberata dalla paura dell’invasione persiana, Atene trascorse il suo periodo di maggiore ricchezza economica e splendore culturale. Questo periodo fu politicamente dominato da Pericle, leader carismatico del partito democratico. In politica estera, Pericle attuò una sempre più radicale politica di espansione e rafforzamento dell’egemonia ateniese, trasformando le poleis alleate della Lega delo-attica in protettorati di Atene. In questo modo, Atene entrò in urto con Megara e Corinto, città della Lega del Peloponneso facente capo a Sparta. Ne scaturì la trentennale guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), che fu al tempo stesso una guerra tra poleis e una guerra civile all’interno delle poleis tra fazioni aristocratiche, favorevoli a Sparta, e fazioni democratiche, favorevoli ad Atene. Morto Pericle nel 429, a causa della peste scoppiata nell’Atene assediata, gli ateniesi persero una salda guida politica e il conflitto interno tra democratici e aristocratici divampò indebolendo la loro azione bellica. Atene uscì così sconfitta e devastata dalla guerra del Peloponneso, perdendo il suo impero e subendo un drastico ridimensionamento del suo livello di benessere. Una volta vinta Atene, fu Sparta ad esercitare l’egemonia sulla Grecia fino al 371 a.C., quando l’esercito spartano fu sconfitto da quello tebano nella battaglia di Leuttra. L’egemonia tebana scalzò così quella spartana. Nel 362, però, nella battaglia di Mantinea, i tebani, pur prevalendo su spartani e ateniesi alleati, persero il loro generale Epaminonda e con lui l’egemonia. Indebolite dalle continue guerre e dalle permanenti rivalità, nel corso della prima metà IV secolo tutte le poleis greche iniziarono a decadere, esponendosi sempre più alla conquista da parte del regno macedone. Infatti, nel 358 Filippo II di Macedonia riuscì a unificare tutta la sua regione, nel 352 conquistò la Tessaglia e nel 338 a Cheronea sconfisse la lega ellenica e stabilì la sua egemonia sull’intera Grecia. Il figlio Alessandro, detto il Grande, alla guida di un esercito greco-macedone, conquistò a sua volta l’intero impero persiano, giungendo fino al fiume Indo, e in seguitò si impegnò nella costruzione di un “impero universale” basato sulla fusione della cultura greca e di quella mediorientale. La sua impresa, che almeno in parte si realizzò, fu interrotta dalla morte improvvisa nel 323, in seguito alla quale il suo impero si divise in diversi regni. La cultura greca risentì fortemente sia della guerra del Peloponneso sia della successiva decadenza economico-politica delle poleis. Nell’ambito dell’architettura e delle arti plastiche, il sintomo più emblematico degli effetti prodotti dalla guerra furono la sospensione e in parte anche l’abbandono ad Atene del programma pericleo di abbellimento monumentale della città. Tuttavia nel corso del trentennio bellico, sull’Acropoli fu ancora costruito l’Eretteo, con la famosa loggia delle 155 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE cariatidi. A livello stilistico, l’arte postclassica fu caratterizzata da una sempre maggiore tendenza manieristica alla rottura dell’equilibrio e della sobrietà classica a favore di un’accentuazione del movimento, del dettaglio ornamentale (soprattutto nel panneggio) e dei giochi di chiaroscuro e di scorcio. I più significativi scultori furono Timoteo (Leda con il cigno), dallo stile fortemente espressivo; Prassitele (Afrodite Cnidia), importante per la sua umanizzazione delle figure divine; Scopa (Statua di menade danzante), che caratterizza le sue opere con movimenti violenti e forti torsioni, enfatizzandone il pathos; Lisippo (Apoxyomeno, Ritratto di Socrate, di Aristotele, di Alessandro Magno), scultore di corte del regno macedone, che impose un nuovo canone della figura umana, alternativo a quello classico di Policleto, caratterizzato da una maggiore longilineità e da una testa più piccola, e finalizzato a rappresentare gli uomini non come sono ma come appaiono alla vista; il pittore Apelle, che lavorò per Alessandro Magno (Ritratto di Alessandro in veste di Zeus con il fulmine in mano, Calunnia). Nell’ambito della letteratura, il genere drammatico seguì una parabola analoga a quella delle arti plastiche. I tragediografici successivi a Euripide, e suoi imitatori, si basarono sempre più su effetti violenti e patetici e su dialoghi sempre più artificiosi e retorici, estromettendo il coro dall’azione drammatica, con risultati artistici decisamente inferiori. I commediografi successivi ad Aristofane, classificati come “commedia di mezzo”, anch’essi di molto a lui inferiori per livello artistico, abbandonarono i temi di attualità politica, e con essi la satira e l’invettiva contro i contemporanei, e si rifecero sempre più a personaggi e vicende del mito, usando un linguaggio meno volgare e pungente e uno stile più raffinato e innocuo. La tradizione poetica di genere lirico, a sua volta, cambiò radicalmente per il prevalere dell’elemento musicale su quello letterario, liberandosi dai vincoli dei metri a favore dei versi liberi, finendo con l’adottare un linguaggio quasi prosaico e dando così, però, un forte impulso all’evoluzione degli strumenti e dell’arte musicale. Il genere storiografico, invece, non risentì, almeno inizialmente, della decadenza politica greca, cui esso anzi si alimentò. Tucidide, infatti, imperniò la sua grandiosa opera storica proprio sulla guerra del Peloponneso, proponendosi di descriverla in modo “verosimile”, basandosi sull’esperienza diretta e un’attenta selezione di fonti e testimonianze, e soprattutto di spiegarne le cause attribuendole esclusivamente a scelte umane, individuali o collettive. In questo senso, Tucidide fu un allievo e un continuatore dei sofisti e le sue Storie persero, rispetto a Erodoto, in piacevolezza artistica, ma guadagnarono in rigore scientifico tanto da poter a buon diritto considerarsi l’atto fondativo della storia come scienza umana. Senofonte in parte continuò l’opera di Tucidide, occupandasi della storia greca a partire dal 411, anno al quale si era interrotto Tucidide, quello della fine della guerra del Peloponneso, e rimanendo fedele alla sua impostazione scientifica; in parte, oltretutto prevalente, sia nell’Anabasi sia nella seconda metà delle Elleniche (dal 404 al 362) Senofonte si allontanò decisamente da Tucidide riprendendo e radicalizzando Erodoto, ossia puntando sulla piacevolezza letteraria e basandosi quindi su temi favolistici, ritratti di personaggi e interventi divini a tutto scapito della ricostruzione veritiera dei fatti. 156 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nell’insieme, la cultura greca classica si andava esaurendo e alla fine del secolo sarebbe stata rimpiazzata dalla nuova cultura ellenistica, frutto della contaminazione della cultura greca con le culture mediorientali resa possibile dalla formazione dell’impero di Alessandro Magno. 157 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE V VIAGGIO LA RAZIONALITA’ IDEALE 158 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA “Dopo di ciò – dissi – paragona a una condizione di questo genere la nostra natura per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in un’abitazione sotterranea a forma di caverna che abbia l’ingresso aperto verso la luce, estendendosi in tutta la sua ampiezza per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover stare fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a causa di catene e che, dietro di loro e più lontano, arda una luce di fuoco. Infine, immagina che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo la quale sia costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono fra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini”. “Vedo”, disse. “Immagina, allora, lungo questo muricciolo degli uomini portanti attrezzi di ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue e altre figure di viventi fabbricate in legno e pietra e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale, che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in silenzio”. “Tratti di cosa ben strana – disse – e di ben strani prigionieri”. “Sono simili a noi – ribattei –. Infatti credi innanzi tutto che vedano di sé e degli altri qualcos’altro, oltre alle ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta di fronte a loro?”. “E come potrebbero – rispose – se sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita?”. “E degli oggetti portati non vedranno pure la loro ombra?”. “E come no?”. “Se, dunque, fossero in grado di discorrere fra di loro, non credi che riterrebbero come realtà appunto quelle [ombre] che vedono?”. “Necessariamente”. “E se il carcere avesse anche un’eco proveniente dalla parete di fronte, ogni volta che uno dei passanti proferisse una parola, credi che essi riterrebbero che ciò che proferisce parole sia altro se non l’ombra che passa?”. “Per Zeus! – esclamò –. No di certo”. “In ogni caso – continuai – riterrebbero che il vero non possa essere altro se non le ombre di quelle cose artificiali”. “Per forza”, ammise lui. “Considera ora – seguitai – quale potrebbe essere la loro liberazione dalle catene e la loro guarigione dall’insensatezza e se non accadrebbero loro le seguenti cose. Poniamo che uno fosse sciolto e subito costretto ad alzarsi, a girare il collo, a camminare e a levare lo sguardo in su verso la luce e, facendo 159 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali prima vedeva le ombre; ebbene, che cosa credi che risponderebbe se uno gli dicesse che, mentre prima vedeva solo vane ombre, ora, invece, essendo più vicino alla realtà e rivolto a cose che hanno più essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse a rispondere facendogli la domanda ‘che cos’è?’ ? Non credi che egli si troverebbe in dubbio e che riterrebbe le cose che prima vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora? “Molto”, rispose. “E se uno poi lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può guardare, e non riterrebbe queste veramente più chiare di quelle mostrategli?”. “E’ così”, disse. Ed io di rimando: “E se di là uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato e, dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe più capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere?”. “Certo – disse – almeno non subito”. “Dovrebbe, invece, io credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E dapprima potrà vedere più facilmente le ombre e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque e, da ultimo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole”. “Come no?”. “Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue immagini nelle acque o in un luogo esterno ad esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è”. “Necessariamente”, ammise. “E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella regione visibile e che, in certo modo, è causa anche di tutte quelle realtà che lui e i suoi compagni prima vedevano”. “E’ evidente – disse – che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste conclusioni”. “E allora, quando si ricordasse della dimora di un tempo, della sapienza che qui credeva di avere e dei suoi compagni di prigionia, non crederesti che sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli?”. “Certamente”. 160 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “E se fra quelli c’erano onori ed encomi e premi per chi mostrava la vista più acuta nell’osservare le cose che passavano, e ricordava maggiormente quali di esse fossero solite passare per prime o per ultime o insieme e quindi mostrasse grandissima abilità nell’indovinare che cosa stesse per arrivare, credi che costui potrebbe provare ancora desiderio di ciò, o che invidierebbe coloro che sono onorati o che hanno potere presso quelli? Non pensi, invece, che accadrebbe quanto dice Omero e che di molto preferirebbero vivere sopra la terra a servizio di un altro uomo senza ricchezze, e patire qualsiasi cosa, anziché ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo?”. “E’ così – disse –. Io credo che egli soffrirebbe qualsiasi cosa piuttosto che vivere in quel modo”. “E rifletti anche su questo – aggiunsi –: se costui, di nuovo scendendo nella caverna, tornasse a sedere al posto che prima aveva, non si troverebbe forse con gli occhi pieni di tenebre, giungendovi all’improvviso dal sole?”. “Evidentemente”, disse. “E se egli dovesse di nuovo tornare a conoscere quelle ombre, gareggiando con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, fino a quando rimanesse con la vista offuscata e prima che i suoi occhi ritornassero allo stato normale, e questo tempo dell’adattamento non fosse affatto breve, non farebbe forse ridere e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che, dunque, non mette conto di cercare di salire su? E chi tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero?”. “Sicuramente”, ammise. Platone, Repubblica, 514 A -517 A, a cura di G. Reale, Rusconi 161 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… L’IDEALISMO TRASCENDENTE Il cuore della filosofia di Platone è la “teoria delle Idee”, cioè la teorizzazione e l’argomentazione dell’esistenza di un mondo “metafisico” – ossia trascendente, al di là di quello fisico, quindi non materiale – costituito da un insieme unitario, e quindi ordinato, di principi logici, matematici, etici, politici puramente razionali, perfetti ed eterni. Platone denomina questi principi “Idee”. Con il termine “Idea” Platone non intende, però, un contenuto della mente umana, ovvero un concetto, bensì un’entità reale, una cosa che esiste di per sé, indipendentemente dalla mente umana. Si tratta di una svolta epocale nella storia della filosofia: per la prima volta, viene pensata l’esistenza di una dimensione del tutto diversa da quella fisica, oggetto dei sensi. Questa nuova dimensione ideale, per Platone, è il modello, ossia la matrice, del mondo fisico e quindi la realtà naturale è da lui concepita come una copia materiale di una realtà superiore puramente razionale. Ne consegue che il mondo fisico è ambivalente: da un lato è positivo e ordinato in quanto imita la perfezione ideale; dall’altro, data l’insormontabile differenza ontologica tra la pura razionalità e la materia, non è una copia perfetta delle Idee è dunque include una quota di disordine, cioè di male. In quanto sono le matrici di tutte le cose fisiche, le Idee sono fondamenti dell’esistenza del mondo naturale, ovvero supremi principi ontologici. Come tali, secondo Platone, esse sono anche principi gnoseologici, cioè i criteri della scienza, intesa come conoscenza vera. In altre parole, per conoscere cos’è veramente un essere naturale – un animale, una pianta o un minerale – è necessario conoscere l’Idea di cui è un derivato. Di conseguenza, la scienza per Platone non può basarsi sulla conoscenza sensibile, ovvero sull’esperienza, ma deve fondarsi invece sulla conoscenza puramente razionale, ovvero sulla teoria. Tale conoscenza è innata in ogni uomo dal momento che ogni uomo possiede un’anima razionale immortale che, originariamente, fa parte del mondo delle Idee. Il desiderio di piaceri fisici provoca la “caduta” delle anime razionali, ovvero la loro incarnazione. Imprigionate nel corpo le anime dimenticano la visione delle Idee ma poi possono progressivamente ricordarla sempre meglio e acquisire così una sempre più ampia scienza della realtà. Le Idee, infatti, in quanto impresse nell’anima, cioè nella mente, e in quanto poi ricordate, cioè rese coscienti, costituiscono i concetti e le loro relazioni logiche, che per Platone sono gli elementi fondamentali della conoscenza vera. Ma le Idee sono anche i modelli dell’agire umano individuale e collettivo, cioè i supremi principi dell’estetica, della morale e della politica. In questo senso, per Platone, a mano a mano che ogni uomo accresce la sua scienza, potenzia anche la sua vita estetico-amorosa, si perfeziona moralmente ed elabora e mette in pratica la forma migliore di costituzione statale. In questo modo l’uomo può conseguire il suo fine ultimo: ripristinare la sua conformazione originaria di pura anima razionale e ricongiungersi al mondo delle Idee. 162 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In tal modo Platone assume nella storia della filosofia occidentale il ruolo di fondatore dell’idealismo, una posizione filosofica che sarà in seguito sviluppata da molti altri filosofi in molte varianti, dando corpo a una delle più importanti e durature correnti della storia della filosofia. Rispetto alla sua successiva evoluzione, l’idealismo platonico si caratterizza per il suo carattere oggettivo e trascendente, ovvero perché, come abbiamo visto, le Idee sono concepite come enti reali esterni sia al “soggetto”, ossia alla mente umana, sia alla dimensione spazio-temporale. Infine, a proposito dell’importanza di Platone per la filosofia occidentale, non si può fare a meno di conoscere il giudizio del filosofo inglese novecentesco A. N. Whitehead: “Tutta la filosofia occidentale è un commento in margine all’opera di Platone”. Forse si tratta di un’iperbole, ma non per questo la dice meno lunga. 163 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO PLATONE Platone – il cui vero nome era Aristocle, ma fu così soprannominato dal suo maestro di ginnastica per l’ampiezza (in greco plàtos) delle spalle – nacque ad Atene nel 428 o nel 427 a.C., cioè uno o due anni dopo la morte di Pericle, da genitori appartenenti ad antiche stirpi aristocratiche: il padre vantava la sua discendenza da Codro, l’ultimo re di Atene, secondo la tradizione leggendaria; la madre annoverava tra i suoi antenati Solone, il famoso legislatore ateniese. Ancora bambino rimase orfano di padre e venne allevato da Pirilampo, anch’egli aristocratico ma amico di Pericle, che gli impartì un’educazione improntata ai valori della democrazia. Da giovane si dedicò alla pittura e alla poesia (compose ditirambi, liriche e tragedie), ma poi fu introdotto alla filosofia da Cratilo, discepolo di Eraclito. Forse prese parte a tre campagne militari, dal 409 al 407, nell’ambito della guerra del Peloponneso. Nel 407 conobbe Socrate, di cui divenne fedelissimo e appassionato seguace, e rinunciò alla poesia per darsi completamente alla filosofia. Ma ancora in quegli anni Platone concepiva la filosofia socratica come la formazione indispensabile a diventare un politico giusto. In altre parole, Platone credeva che la sua vocazione fosse l’attività politica, come egli stesso scrisse nella sua Lettera VII. Le esperienze degli anni seguenti lo convinsero ad abbandonare questo proposito. Dapprima, nel 404, la sua vocazione alla politica fu posta in crisi dalle violenze e dalle ingiustizie del governo aristocratico dei Trenta Tiranni – tra cui vi erano Carmide e Crizia, due suoi parenti – cui inizialmente aveva dato il suo appoggio ideale. Poi, in seguito alla restaurazione della democrazia, Platone subì una delusione ancora maggiore a causa dell’esecuzione capitale per volontà popolare del suo maestro Socrate. Egli comprese che, data la degenerazione morale degli ateniesi, era diventato impossibile fare politica in modo onesto e giusto, e che pertanto il suo compito era quello di promuovere una riforma morale e culturale degli individui. Scioccato dall’assassinio del venerato maestro, in pericolo di vita in quanto suo discepolo, Platone fuggì da Atene. Secondo le fonti antiche, soggiornò dapprima a Megare, ospite di Euclide, un altro seguace di Socrate; poi a Cirene presso il matematico Teodoro; quindi a Eliopoli, uno dei centri della sapienza sacerdotale egizia; successivamente a Taranto dove fu iniziato al pitagorismo dal filosofo e matematico Archita; e infine a Siracusa, invitato dal tiranno Dionìgi (o Dionìsio) il Vecchio, su suggerimento del cognato Dione, ammiratore della filosofia di Platone, in particolare sostenitore della sua tesi politica fondamentale, quella secondo la quale i governanti devono essere “filosofi”, ovvero devono apprendere la scienza politica. Ma a causa delle critiche che Platone rivolse al suo modo arbitrario di governare, Dionigi il Vecchio lo fece vendere come schiavo alla città di Egina, in guerra con Atene. Grazie al riscatto pagato dall’amico Anniceride di Cirene, Platone potè tornare ad Atene, dove nel 387 acquistò un terreno nel giardino dedicato all’eroe Academo e vi fece costruire un edificio, fondando così una sua scuola filosofica, l’Accademia, che divenne un istituto di 164 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE formazione culturale e morale della classe dirigente greca e, al tempo stesso, un centro di ricerca scientifica soprattutto a livello matematico e astronomico. In questa prospettiva, l’Accademia di Platone rappresentava l’alternativa alla scuola fondata nel 391 dall’oratore Isocrate, contrapponendo la formazione filosofica a quella retorica. Giuridicamente, l’Accademia era un’associazione religiosa dedita al culto di Apollo e delle Muse. Sul modello delle comunità pitagoriche, nell’Accademia maestri e discepoli non solo insegnavano e studiavano, ma convivevano. Però, a differenza che nelle comunità pitagoriche, nell’Accademia non c’erano donne. Lo stesso Platone non prese moglie né risulta ebbe mai relazioni sentimentali, e tanto meno sessuali, con donne. Come confermano i suoi scritti, in particolare i dialoghi Simposio e Fedro, Platone era omosessuale, e teorizzava la superiorità dell’amore omosessuale su quello eterosessuale, ma considerava amore omosessuale, quindi moralmente lecito, solo quello che intercorreva tra un adulto e un adolescente e solo se aveva un preminente scopo di formazione morale e culturale dell’adolescente. Questo genere, e solo questo genere, di relazione omosessuale è da lui valorizzato per i suoi frutti intellettuali e chiamato “amicizia” in contrapposizione all’amore eterosessuale e all’amore omosessuale tra coeteanei, puramente o prevalentemente carnali. Inoltre, benché considerasse “amici” anche gli amanti che avevano rapporti sessuali, Platone sosteneva che la vera “amicizia” fosse puramente spirituale e quindi perorava l’astensione dai rapporti sessuali. Da qui è derivata l’espressione “amore platonico” che, dunque, non implica la proibizione della sessualità, ma certamente la valorizzazione dell’amore asessuale come forma superiore di amore. Dopo il 387, nonostante l’impegno della direzione dell’Accademia e l’età sempre più avanzata, Platone tornò ancora a Siracusa per altre due volte, su richiesta di Dione e del nuovo tiranno Dionigi il Giovane. Ma in entrambi i casi il tentativo di formare filosoficamente Dionigi il Giovane fallì e alla fine Platone rischiò addirittura di essere condannato a morte. Tornato definitivamente ad Atene nel 360 si dedicò completamente all’insegnamento nell’Accademia e vi morì novantenne nel 348 o nel 347. Platone è il primo filosofo greco di cui ci è pervenuta l’opera completa, anzi addirittura in sovrabbondanza. Infatti alcune delle opere tramandateci a suo nome sono apocrife, ovvero non sono state scritte da lui ma da altri. Gli scritti sicuramente autentici sono: 3 lettere, un discorso – Apologia di Socrate, ovvero l’autodifesa di Socrate di fronte al tribunale popolare ateniese –, 27 dialoghi (su 34 tramandatici a suo nome). Questi ultimi - in base alla loro cronologia ma anche all’evoluzione della filosofia platonica - possono essere così suddivisi: 1) dialoghi giovanili (cioè anteriori alla fondazione dell’Accademia): Critone (tema: il rispetto delle leggi statali), Carmide (la temperanza), Lachete (il coraggio), Liside (l’amicizia), Ione (la poesia), Eutifrone (la pietà intesa come devozione religiosa), 165 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Protagora (l’insegnabilità della virtù), Ippia minore (l’inconsapevolezza del comportamento malvagio), Gorgia (le doti del politico); 2) dialoghi della maturità (tra la fondazione dell’Accademia e il secondo viaggio a Siracusa): Menesseno (critica della retorica), Menone (la conoscenza innata), Eutidemo (le fallacie dei sofisti), Ippia maggiore (il bello), Cratilo (il linguaggio), Fedone (l’immortalità dell’anima), Simposio (l’amore), Fedro (la bellezza), Repubblica (la giustizia e lo stato ideale); 3) dialoghi della tarda maturità e vecchiaia (dopo il secondo viaggio a Siracusa): Teeteto (conoscenza), Parmenide (la teoria delle idee), Sofista (la dialettica), Politico (la migliore forma di governo), Filebo (la dottrina morale), Timeo (la cosmologia), Crizia (lo stato ideale), Leggi (la costituzione politica migliore), Epinomide (lo Stato). Platone adotta il genere letterario del dialogo per fedeltà al metodo filosofico socratico. In questo modo, infatti, benché, a differenza di Socrate, accetti la scrittura come strumento di elaborazione e trasmissione della filosofia, egli può renderla il più simile possibile allo stile della comunicazione orale. Inoltre il protagonista della maggior parte dei dialoghi platonici è Socrate stesso. In altre parole Platone presenta la sua filosofia come una trascrizione della filosofia socratica. Questo pone lo spinoso problema di stabilire fino a dove arrivi il pensiero di Socrate e da dove cominci quello originale di Platone. In questo senso, si può dire, in linea di massima, che i dialoghi giovanili sono un’esposizione fedele del pensiero di Socrate, per quanto attraverso l’inevitabile filtro interpretativo di Platone; che i dialoghi della maturità contengono invece la prima versione della teoria delle Idee, cioè della filosofia platonica originale nata dallo sviluppo del pensiero socratico; e infine che i dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia espongono la revisione critica e una nuova versione della teoria delle Idee, più lontana dal pensiero socratico e più vicina al pitagorismo. A quest’ultima fase del pensiero platonico sono legati anche i cosiddetti “insegnamenti non scritti”, ossia un insieme di dottrine che Platone ha esposto solo oralmente ai membri interni dell’Accademia e che costituiscono il livello più profondo e complesso della sua filosofia. Tali “insegnamenti non scritti” sono stati ricostruiti in modo sufficientemente attendibile, ma pur sempre incompleto, grazie alle testimonianze e alle trascrizioni lasciateci dai discepoli di Platone, innanzitutto da Aristotele. 166 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 PLATONE: LA VITA E’ UN VIAGGIO DAL BUIO ALLA LUCE “Caro Glaucone – dissi –, questa metafora nel suo complesso va adattata a quanto si è affermato in precedenza e così questo luogo [la caverna] che ci appare alla vista deve paragonarsi al luogo del carcere, e la luce del fuoco che brilla in esso alla forza del sole. Se poi tu paragonassi l’ascesa verso l’alto e la contemplazione delle realtà superne all’elevazione dell’anima al mondo intellegibile non mancheresti di sapere quello che è il mio intendimento, dato che è appunto questo che tu desideri conoscere; ma se poi esso sia vero solo iddio lo sa. Ad ogni buon conto, questa è la mia opinione: nel mondo delle realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta non si può fare a meno di dedurre, in primo luogo, che è la causa universale di tutto ciò che è buono e bello – e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce e il signore della luce, e in quello intellegibile procura, in virtù della sua posizione dominante, verità e intelligenza – e, in secondo luogo, che ad essa deve guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e privata”. “Sono d’accordo con te – ammise – almeno nella misura in cui mi riesce di seguirti”. “Allora – aggiunsi io – concordi con me che non vi sia nulla di strano che persone che si sono elevate fino a tali vertici non vogliano più impegnarsi in imprese umane, ma che nel loro animo sempre siano attratti e sollecitati a tornare lassù. E ciò è perfettamente logico, se ci si deve attenere alla metafora sopra illustrata [il mito della caverna]”. “Certo, è logico”, convenne. “E poi – dissi – ti sembrerebbe strano se qualcuno che discende dalla contemplazione delle realtà divine ai fatti umani rischia di far una brutta figura, di apparire del tutto ridicolo, quando, muovendosi a tentoni, prima ancora di esser riuscito ad abituarsi alla presente oscurità è costretto nei tribunali o in altro luogo a scendere in lizza solo per un’ombra di giustizia o per quel simulacro che proietta quell’ombra e a stare a discutere sul modo in cui queste apparenze debbano essere interpretate da chi non ha mai visto la Giustizia in sé?” “Non ci sarebbe proprio nulla da meravigliarsi”, disse. “Ma – ripresi – se uno ha un po’ di senno dovrebbe ricordare che ci sono due tipi di disturbi degli occhi con due cause diverse: quel disturbo che affligge la 167 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE vista quando si passa dalla luce al buio e quello che l’affligge quando si passa dal buio alla luce […]”. Platone, Repubblica, VII, a cura di G. Reale, Rusconi Il problema centrale di Platone è quello del suo maestro Socrate – “Che cos’è l’uomo?” – ma è da lui riproposto più ampiamente e radicalmente: “Qual è il senso dell’esistenza umana?”. La risposta di Platone a questa domanda coincide con l’intera sua filosofia, quanto mai vasta e articolata, ma è anche sintetizzata in un mito platonico, il “mito della caverna”. Infatti, per esporre il suo pensiero, Platone ricorre spesso a “miti”, cioè a racconti immaginari da lui stesso inventati. Essi svolgono due funzioni fondamentali nell’ambito della sua filosofia: esemplificare, chiarire e rendere più incisivo e avvincente il suo pensiero; alludere simbolicamente alle verità più profonde e complesse che sfuggono alla comprensione logico-concettuale. Il “mito della caverna” è il più famoso e importante dei miti di Platone. Esso può essere interpretato e utilizzato come una mappa allegorica di tutta la filosofia platonica, o perlomeno delle sue tesi fondamentali. Il titolo del mito deriva dall’ambiente in cui il racconto prende il via e dove si conclude: una caverna, appunto, o meglio una grande cavità sotterranea, giacente a una certa profondità sotto il livello del suolo terrestre, e dunque fredda, umida e buia. Intorno alla parete di fondo, quella più lontana dalla sua apertura sulla superficie terrestre, sono seduti degli uomini. Sono prigionieri – dunque la caverna è un carcere – e giacciono lì, in catene e in una fitta penombra, fin dalla nascita. Le catene gli impediscono non solo di alzarsi e di camminare, ma anche solo di girare la testa all’indietro. Essi pertanto sono costretti a guardare unicamente verso la parete in fondo alla caverna. Su questa parete i prigionieri vedono un agitarsi e avvicendarsi di forme indistinte e confuse, e da essa sentono provenire suoni che attribuiscono a quelle forme confuse e ai loro movimenti. Descritta la situazione interna alla caverna, Platone fa partire l’azione: accade che un prigioniero viene liberato dalle sue catene, costretto ad alzarsi e a girarsi all’indietro e infine spinto a camminare nella direzione opposta a quella della parete di fondo. Chi sia il liberatore e perché liberi un prigioniero Platone non lo dice. E’ plausibile che sia un enigma 168 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE voluto, quasi una suspense da giallo, che Platone usa per pungolare il lettore a cercarne una soluzione leggendo gli altri suoi dialoghi e quindi apprendendo l’intera sua filosofia. (Ciò che effettivamente faremo giungendo così a sciogliere, almeno ipoteticamente, l’enigma.) Fatto sta che, in seguito all’intervento del misterioso liberatore, il prigioniero liberato si gira e prova un forte dolore agli occhi a causa della luce che lo abbaglia. I suoi occhi infatti sono assuefatti alla penombra e perciò ora non sono in grado di sostenere immediatamente un livello più intenso di luce. Tuttavia, il liberato resiste al dolore e col tempo i suoi occhi si adattano e cominciano a scorgere un muricciolo sopra il quale si muovono avanti e indietro oggetti di varie fogge e dimensioni: animali, piante, rocce, montagne, nubi, uomini, ecc.. Il liberato si avvicina al muro, scorge un spiraglio tra la parete laterale della caverna e il muro e, così, infilandovisi dentro lo oltrepassa. Riesce così a vedere che, parallelamente al retro del muro, corre un sentiero lungo il quale camminano avanti e indietro degli uomini che trasportano sulla testa riproduzioni scultoree di ogni genere di cose. Il liberato capisce che il muro, alto come i portatori, quando lui gli era davanti, li copriva alla sua vista facendogli credere che le statuette si muovessero da sole, nello stesso modo in cui i teatrini dei burattinai coprono il burattinaio dando l’illusione che i burattini si muovano come persone reali. Inoltre il liberato sente parlare i portatori e comprende che i suoni che prima aveva creduto provenire dalla parete di fondo altro non erano che l’eco delle loro voci. Sempre più incuriosito, il liberato volge il suo sguardo ancora oltre e si accorge che dietro i portatori, vicino alla parete opposta a quella dove giaceva imprigionato, brilla una luce più intensa. Avvicinatosi lentamente, per permettere nuovamente ai suoi occhi di abituarsi e di superare il dolore, scopre un fuoco di legna e finalmente capisce che le forme confuse che egli vedeva agitarsi sulla parete di fondo della caverna, quando era imprigionato, altro non erano che le ombre delle statuette mosse dai portatori, proiettate dalla luce del fuoco sul fondo della caverna. A questo punto il liberato crede di aver concluso il suo cammino di esplorazione e scoperta. Invece è di nuovo spinto dal suo misterioso liberatore a scalare la parete ruvida e scoscesa della caverna fino ad arrivare al livello del suolo terrestre e all’uscita all’aperto. Naturalmente, una volta fuori il liberato rimane nuovamente abbagliato dalla luce solare in modo molto più intenso e doloroso di prima. Per molto tempo vaga come un cieco sul suolo terrestre. Poi lentamente i suoi occhi cominciano a sopportare la vista delle ombre delle cose naturali, quindi delle loro immagini riflesse in stagni o ruscelli. Venuta la notte, il liberato può alzare gli occhi al cielo e vedere la luna e le stelle. All’alba del giorno successivo finalmente può guardare direttamente le cose naturali – alberi, fiori, animali, montagne, ecc. – e alla fine perfino il sole stesso. Egli comprende così che il sole è la fonte prima e più potente di ogni luce e di ogni calore, e se ne gode l’effetto benefico. 169 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nel nuovo mondo che ha raggiunto, il liberato, inebriato di luce e di calore, si sente al colmo della beatitudine. Ma, ricordando la sua dolorosa vita nella caverna, prova compassione per i suoi compagni prigionieri e decide allora di tornare nel mondo sotterraneo per rivelargli la sua scoperta e per convincerli a salire all’aperto e permettere anche a loro di godere della luce e del calore del sole. Tuttavia, una volta ridisceso, i suoi compagni non gli credono, pensano che la sua vista si sia guastata, e, di fronte alle sue proteste, decidono di metterne alla prova la capacità di vedere sfidandolo a riconoscere le ombre sul fondo della caverna. Ma gli occhi del liberato, ormai abituati alla luce solare, non riescono più a vedere nitidamente nella penombra della caverna. Egli pertanto sbaglia a identificare le ombre e i suoi compagni credono di avere così la prova definitiva che la sua vista è difettosa e che quindi il suo racconto non è attendibile. Il liberato allora cerca di scioglierli dalle loro catene per trascinarli fuori, ma i suoi compagni, adirati per la sua insistenza, finiscono per ucciderlo. Fin qui il racconto di Platone. Trattandosi di un’allegoria occorre ora decifrarlo. Di primo acchito, è facile rilevare l’elemento simbolico più appariscente del mito platonico, cioè la coppia luce/vista che rappresenta la conoscenza nei suoi due aspetti complementari: quello oggettivo, ovvero l’esistenza di una verità in sé (la luce solare ci permette di vedere le cose naturali così come la verità ci permette di conoscere la realtà); e quello soggettivo, cioè la capacità umana di recepire la verità (la vista). In questo senso il mito della caverna è innanzitutto e fondamentalmente un mito di iniziazione alla conoscenza, ovvero alla filosofia. Un secondo simbolo evidente del mito della caverna è quello del cammino di ascesa, potremmo anche dire del viaggio, che rappresenta il carattere processuale e insieme progressivo della conoscenza. In altre parole, Platone vuole dirci che la conoscenza non la si possiede né la si può conquistare istantaneamente, bensì può solo essere acquisita gradualmente, in misura sempre maggiore, attraverso una lunga e costante ricerca. Oltretutto, come vedremo meglio in seguito, il cammino conoscitivo per Platone è composito, presenta almeno quattro sfaccettature, tra loro strettamente intrecciate: quella teoretica o scientifica; quella estetico-amorosa; quella morale o etica; 170 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE quella politica. Ma il cammino narrato da mito è al tempo stesso una fuga, un’evasione. Non dobbiamo dimenticare infatti che la caverna è una prigione. Ciò significa che il cammino equivale a un processo di liberazione, ovvero che il senso ultimo della ricerca conoscitiva, che connette scienza, morale, estetica e politica, è la conquista della libertà. In terzo luogo, nella decifrazione del mito della caverna, si può rinvenire un’altra coppia simbolica, quella basso/alto, che coincide con quella chiuso/aperto. Fuor di metafora, il mito si basa sulla contrapposizione verticale tra un mondo inferiore e chiuso, quello della caverna, e un mondo superiore e aperto, quello della superficie terrestre. La caverna rappresenta così il mondo fisico mentre la superficie terrestre un mondo superiore diverso da quello fisico, cioè metafisico. Tale mondo, la scoperta filosofica fondamentale di Platone, è un mondo privo di materia, costituito da puri principi razionali e come tale conoscibile solo attraverso la ragione e non attraverso i sensi. A questo punto risulta chiaro che per Platone la liberazione dell’uomo, e quindi in ultima analisi la sua felicità, consiste nel trascendere la dimensione fisica per raggiungere il mondo metafisico. Infine, la parte finale del cammino/viaggio, non più in ascesa ma in discesa, cioè il ritorno del prigioniero liberato nella caverna, rappresenta la missione propria di ogni uomo in quanto filosofo: diffondere la conoscenza a tutti gli altri uomini per aiutarli a liberarsi e a conseguire la felicità. In questo senso, l’uccisione del liberato simboleggia il rischio mortale insito nella missione filosofica dovuto al fatto che gli uomini sono attaccati alla fisicità, cioè ai piaceri materiali (le catene della prigionia), e dunque tendono a rifiutare e perfino a voler eliminare chi vuole distoglierli dal godimento dei beni materiali. Abbiamo così analizzato cosa vuol dire il mito della caverna. Deve, però, essere chiaro che questa decifrazione del mito della caverna è ben lontana dall’essere completa, esaustiva. Essa ne comprende solo i significati più generali, e quindi certamente fondamentali, ma non unici. L’opera di decifrazione del mito della caverna dovrà dunque proseguire, entrando nei dettagli, in tutte le successive tappe di esplorazione del pensiero platonico. 171 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 1 Nel fondo di una caverna sotterranea, buia, fredda ed umida, giacciono dei prigionieri incatenati. La vita fisica dell’uomo è una prigionia dolorosa dovuta all’attaccamento ai piaceri sensibili. Un prigioniero viene liberato, costretto ad alzarsi, a girarsi e a camminare: vede il muro, le statuette, i portatori, il fuoco di legna. L’uomo si libera dalla dolorosa prigionia della vita fisica intraprendendo la ricerca conoscitiva e scoprendo così nuove realtà fisiche. Il liberato scala la parete della caverna, esce all’aperto e vede le cose naturali, le stelle, la Luna. Approfondendo la sua indagine conoscitiva, l’uomo scopre la vera realtà, quella razionale, eterna e perfetta delle Idee. Il liberato scopre il Sole in quanto fonte prima della luce solo grazie alla quale può vedere, e ne gode il calore. L’uomo conosce la Verità in sé, ovvero il principio primo di ogni conoscenza e che è anche Bene perché gli infonde benessere. Il liberato si ricorda dei compagni ancora prigionieri e torna nella caverna per annunciargli la sua scoperta e condurli all’aperto. Il filosofo ha il compito di annunciare agli uomini la Verità e di aiutarli a liberarsi, ma gli uomini tendono a rifiutarlo. 172 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 PLATONE: LA SCIENZA SI BASA SULL’INTUIZIONE DELLE IDEE Io allora continuai in questi termini: “Considera, pertanto, come dicevamo, che due sono le realtà e una domina sul genere e sul mondo intelligibile, l’altra sul visibile […]. Hai ben colto queste due forme, il visibile e l’intelligibile?”. “Le ho colte”. “Prendi una linea divisa in due parti disuguali e dividila ulteriormente sia in una parte che nell’altra – ovvero nel genere visibile e in quello intelligibile –, secondo la stessa proporzione. In seguito, se ti atterrai al criterio della rispettiva chiarezza e oscurità, una delle parti del genere visibile sarà costituita dalle immagini; e per immagini intendo in primo luogo le ombre, poi i riflessi – sia quelli sull’acqua che quelli sulle superfici solide, lisce e brillanti – e infine tutti gli altri fenomeni del genere. Mi segui?”. “Ti seguo”. “Per quanto concerne l’altra sezione, ponivi i modelli di queste immagini, ossia gli animali che ci circondano, ogni tipo di vegetale, nonché i prodotti dell’uomo”. “Va bene, la riserverò a queste cose”. “E non saresti tentato di dire – suggerii – che questa parte sia divisa in vero e in falso e che l’immagine sta al modello come l’oggetto dell’opinione sta all’oggetto della conoscenza?”. “Sì che lo dico”, affermò. “Considera, dal canto suo, anche la sezione dell’intelligibile, in quale modo si debba dividere”. “In che modo?”. “In questo: una parte di essa, l’anima è costretta a indagarla servendosi delle cose di prima come delle immagini, e procedendo via via di postulato non verso il principio ma verso le conclusioni; l’altra parte, invece – poggiante su un principio che non è più solo un postulato – l’anima la indaga procedendo da postulati e senza immagini riferentesi all’altra sezione, seguendo un procedimento con le Idee e per mezzo delle Idee”. “Quest’ultimo punto – confessò – non l’ho ben compreso”. “E allora – dissi – incominciamo di bel nuovo, perché premettendo queste considerazioni certo il problema ti risulterà più comprensibile. Non puoi ignorare, io credo, che chi si occupa di geometria, di matematica e di scienze affini dà per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli nonché altri elementi della medesima natura, variabili da disciplina a disciplina. 173 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “Queste cose, dunque, gli scienziati le fissano come ipotesi, dopo di che non ritengono più necessario rimetterle in discussione né fra sé né con altri, appunto perché assolutamente evidenti; invece, prendono le mosse da questi principi e, passando a trattare quel che resta, con la massima coerenza finiscono per arrivare a quella verità che s’erano prefissi di raggiungere”. “Questo lo so bene”, disse. “E allora sai anche che essi usano modelli visibili e costruiscono su di essi delle dimostrazioni; ma nel ragionamento non hanno per oggetto tali realtà, bensì le realtà a cui queste assomigliano, sicché quando ragionano hanno di mira il quadrato in quanto tale, e non quel quadrato, quella diagonale o quella data figura che vanno disegnando. Delle figure che compongono e tracciano, le quali corrispondono alle ombre e alle immagini che si formano sull’acqua, si servono come di immagini per cercare di vedere le realtà in sé che non si possono cogliere altrimenti che con l’intelligenza”. “Dici il vero”, convenne. “Ora quest’ultimo genere di realtà l’ho chiamato intelligibile; e tuttavia l’anima nella ricerca di eso è costretta a ricorrere a ipotesi, non già per risalire ai principi – dato che la ricerca non può andar oltre le ipotesi –, ma servendosi come immagini di quelle realtà che corrispondono alle copie della parte più bassa della linea. Resta il fatto, comunque, che in confronto con queste copie, quelle realtà sono ritenute e valutate come oggetti evidenti.” “Capisco – disse – che tu fai riferimento alla geometria e alle arti affini ad essa”. “Sappi, dunque, che io considero l’altra parte dell’intelligibile, quella che il ragionamento stessa attinge con la potenza della dialettica, non trasformando i postulati in principi, ma procedendo dai postulati per quello che essi sono, ossia dei punti di appoggio e di partenza, per arrivare a ciò che non è più solo un postulato, al Principio di tutto. Raggiunto questo e attenendosi a ciò che ad esso consegue, il ragionamento prosegue verso il termine e, senza far uso in alcun modo di alcuna cosa sensibile, ma solo delle Idee stesse con se stesse e per se stesse, termina nelle Idee”. “Capisco – disse – ma non quanto basta. Mi sembra, infatti, che tu vada disegnando un’operazione complicata, con la quale vuoi chiarire che quella parte dell’essere e dell’intelligibile che è colta dalla scienza dialettica è di gran lunga più evidente di quella colta dalle altre cosiddette arti per le quali le ipotesi fungono da principi. “In effetti, per quanto coloro che scrutano l’essere per mezzo di queste arti siano tenuti a coglierlo tramite l’intelligenza e non i sensi, tuttavia, poiché lo contemplano non risalendo al suo principio ma a partire dalle ipotesi, ti sembra che costoro non abbiano piena conoscenza di tali oggetti, per quanto, per via della loro connessione coi principi, essi pure siano degli intelligibili. E 174 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE mi pare che la condizione propria dei geometri e quella di coloro che sono simili ai geometri tu la chiami d i a n o i a [pensiero discorsivo] e non intelligenza, come se la dianoia fosse un alcunché di intermedio fra l’opinione e l’intelligenza”. “Hai compreso perfettamente – dissi –. E ora ammetti che ai quattro segmenti della linea corrispondano le seguenti quattro funzioni dell’anima: l’intellezione al più elevato, la dianoia quello che segue, la credenza al terzo segmento e al quarto la congettura [o immaginazione]. Platone, Repubblica, VII, 509 D-511 E, a cura di G. Reale, Rusconi Come abbiamo visto, Platone sintetizza l’intera articolazione della sua filosofia nel mito della caverna, un racconto allegorico da lui stesso inventato. L’oggetto del mito è l’evasione di un uomo dal carcere sotterraneo in cui è tenuto da sempre prigioniero. Tale evasione è articolata in due cammini ognuno dei quali a sua volta si suddivide in due tappe: 1. il cammino all’interno della caverna: a) visione delle ombre sulla parete di fondo; b) visione degli oggetti artificiali e del fuoco; 2. il cammino fuori della caverna sulla superficie terrestre: a) visione delle ombre e delle immagini riflesse sulle superfici d’acqua delle cose naturali; b) visione delle cose naturali terrestri e celesti. I due cammini sono rappresentazioni allegoriche dei due fondamentali mondi in cui, secondo Platone, è articolata la realtà e, al contempo, dei due corrispettivi tipi generali di conoscenza: 1. il mondo fisico (o sensibile) che è oggetto della conoscenza sensibile; 2. il mondo ideale (o intelligibile) che è oggetto della conoscenza razionale. Le quattro tappe, a loro volta, sono rappresentazioni allegoriche dei tipi specifici di conoscenza degli oggetti dei due diversi mondi: 1) l’immaginazione (o congettura), che conosce le immagini superficiali delle cose fisiche; 2) la credenza, che conosce le cose fisiche; 3) il ragionamento (o pensiero discorsivo/dimostrativo), che conosce gli enti razionali matematici (figure geometriche, numeri, operazioni aritmetiche, ecc.); 4) l’intellezione (o intuizione intellettiva) che conosce gli enti razionali supremi, cioè le Idee. 175 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il cammino della conoscenza comincia, secondo Platone, dal più basso grado della conoscenza sensibile, cioè della conoscenza basata unicamente sui cinque sensi: la “immaginazione”. Essa, nel mito della caverna, è rappresentata dalla visione delle ombre sulla parete di fondo. La simbologia platonica esprime il carattere superficiale, oscuro e confuso, ovvero parziale e approssimativo, di questo tipo di conoscenza. In altri termini, per Platone l’ “immaginazione” ha il valore di una congettura, cioè è una sorta di azzardo conoscitivo, quasi un tirare a indovinare. Il suo fondamento è infatti labile: si tratta dell’analogia sensibile, cioè la percezione di somiglianze qualitative immediate tra singoli e parziali aspetti di più cose o di più eventi. Per esempio (mio, non platonico), “si immagina” l’unicorno, sulla base della somiglianza tra un rinoceronte e un cavallo, oppure “si immagina” che un alano è un vitello solo per la somiglianza delle loro dimensioni e forme; o ancora “immaginare” significa attribuire, in base all’analogia tra emozioni umane e fenomeni naturali, le tempeste marine all’ira di Poseidone o l’inverno al dolore di Demetra per il rapimento della figlia Persefone; ma anche, riferendoci a noi oggi, pensare che il freddo sia la causa del raffreddore, come suggerisce il nome stesso, solo perché è più diffuso in inverno, ovvero per una mera concomitanza temporale. Insomma, l’“immaginazione” platonica rimanda a quella vasta e variegata gamma di pseudoconoscenze che costituiscono gli ingredienti di miti, fiabe, proverbi, superstizioni, credenze magiche e astrologiche. Considerando la sua situazione storico-culturale, è plausibile che Platone intendesse riferirsi soprattutto alla tradizione mitico-religiosa greca, e più in generale alle false conoscenze popolari. Il successivo grado di conoscenza sensibile è costituito dalla “credenza”. Nel mito della caverna essa è rappresentata sia dagli oggetti artificiali – cioè le statuette delle cose naturali, che misteriosi portatori fanno muovere al di sopra di un muricciolo – sia dal fuoco di legna che con la sua luce proietta le ombre degli oggetti artificiali visibili sulla parete di fondo. La simbologia platonica esprime, da un lato, la maggiore profondità, consistenza e chiarezza della “credenza”, dall’altro, il suo carattere “artificiale”, derivato, secondario, ovvero la sua incapacità di arrivare al fondamento della realtà. In questo senso è ragionevole ritenere che Platone con la “credenza” si riferisca alla filosofia/scienza cosmologica da Talete a Democrito. Infatti il sapere filosofico-scientifico di tipo naturalistico, a differenza dell’ “immaginazione”, non si basa sulla vaga somiglianza di singoli aspetti delle cose e dei fatti, ma considera le cose nella loro interezza, ovvero tiene conto dell’insieme delle loro proprietà, e ricerca le cause più generali e profonde dei fatti in base a ripetute e accurate osservazioni. In altre parole, la credenza non si affida, come l’immaginazione, a una o poche casuali osservazioni, ma si basa sull’ “esperienza”, cioè sull’accumulo e il confronto ragionato di molte sensazioni. Tuttavia l’esperienza è limitata alla dimensione fisica e pertanto rinviene solo proprietà e cause fisico-naturali. Ma poiché la dimensione fisica è caratterizzata dal 176 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE divenire, proprietà e cause fisiche sono indefinatamente molteplici e variano continuamente, e di conseguenza la “credenza”, secondo Platone, non è in grado di arrivare a una conoscenza universale completa e quindi certamente vera. Facendo un esempio odierno, la “credenza”, basandosi su ripetute e metodiche osservazioni empiriche, può arrivare alla conclusione che l’oro sia inossidabile. Si tratta di una conclusione attendibile, credibile, perché fondata su prove. Ma non arrivando alla causa razionale dell’inossidabilità, cioè la struttura atomica dell’oro, in base alla semplice credenza non si può escludere che ci sia dell’oro ossidabile o che un pezzo d’oro possa diventare prima o poi ossidabile. Per questo motivo, la “credenza”, e più in generale la conoscenza sensibile, rimane un’ “opinione”, cioè una conoscenza relativa, che può anche essere vera ma senza che si possa essere certi di tale verità. (D’altronde anche un orologio fermo due volte al giorno batte l’ora esatta.) Il terzo livello della conoscenza – il “ragionamento” – costituisce la prima forma di conoscenza razionale. Nel mito della caverna il passaggio dalla conoscenza sensibile alla conoscenza razionale è rappresentato dalla scalata del prigioniero liberato fino all’uscita all’aria aperta e il ragionamento dalla visione delle immagini delle cose naturali riflesse negli specchi d’acqua, cioè da una visione solo indiretta dovuta all’impossibilità per gli occhi di abituarsi immediatamente alla maggiore intensità della luce solare. La simbologia platonica sta a significare che il cammino conoscitivo è finalmente arrivato agli oggetti fondamentali, primari, cioè ai modelli originali, di cui le statuette dei portatori sono copie e le ombre copie delle copie; ma anche che tali oggetti primari, cioè le fondamenta della realtà, non sono ancora conoscibili completamente ma solo parzialmente. Infatti il “ragionamento” consiste per Platone nelle scienze matematiche – aritmetica, geometria, astronomia, musica – le quali giungono a conoscere le proprietà e le cause razionali delle cose e dei fatti naturali, in quanto scoprono che tutti i fenomeni naturali sono la manifestazione fisica di enti matematici e di relazioni matematiche. Poiché tali enti e tali relazioni sono determinati e invariabili, il “ragionamento” è una conoscenza certa e stabile. Tale conoscenza consiste nella dimostrazione logico-deduttiva, la quale a partire da alcuni principi primi (assiomi e postulati) arriva, in base a una serie di inferenze deduttive, a una conclusione necessaria e pertanto dotata di una verità certa. Un esempio paradigmatico, che anche Platone avrebbe potuto fare, può essere quello della dimostrazione del teorema di Pitagora. Disegnando e misurando molti triangoli rettangoli di diverse dimensioni, si può verificare empiricamente che l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree costruite sui cateti. Ma in base all’osservazione empirica non si può avere la certezza che tale legge valga per tutti i triangoli rettangoli. La dimostrazione del teorema di Pitagora, invece, attesta con certezza proprio questo, che tale legge vale per tutti i possibili triangoli rettangoli, anche se non 177 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE possiamo misurarli tutti – dal momento che sono infiniti – e anzi senza bisogno di misurarne nemmeno uno. Però, Platone rileva che tutte le scienze matematiche partono da principi primi non dimostrati razionalmente, e che pertanto sono solo delle “ipotesi”. Dunque i principi delle scienze matematiche non sono fondati e pertanto, basandosi solo sulle scienze matematiche, non è possibile garantire completamente che le loro inferenze deduttive giungano a conclusioni certamente vere. Inoltre le scienze matematiche si servono di rappresentazioni grafiche (p.e. le figure geometriche) che sono un residuo del mondo fisico-sensibile. A causa di questi limiti le scienze matematiche, secondo Platone, non sono autosufficienti ma devono fondarsi su un livello ulteriore di conoscenza. Tale superiore grado di conoscenza è l’ “intellezione” e, per Platone, costituisce il traguardo del cammino conoscitivo. Nel mito della caverna è rappresentato dalla visione degli enti naturali terrestri (animali, piante, minerali), degli enti naturali celesti notturni (stelle e Luna) e infine del Sole. La simbologia platonica esprime la conoscenza diretta e completa degli oggetti primari, e quindi fondanti, di tutta la realtà nella loro stratificazione gerarchica. L’ “intellezione” è infatti l’atto mentale intuitivo con cui l’intelletto conosce direttamente le “Idee”, gli oggetti puramente razionali, cioè del tutto privi di proprietà fisico-sensibili, che costituiscono il fondamento dei principi delle scienze matematiche e i modelli originali e immutabili di tutti gli enti e di tutti i fenomeni naturali. Come vedremo, l’intellezione è alla base della scienza suprema, che Platone denomina “dialettica”. Il cammino conoscitivo pertanto giunge a compimento con la scoperta che le Idee sono i principi primi di tutta la realtà che, come tali, garantiscono una conoscenza completa e certamente vera, cioè rendono possibile la scienza. Ma cosa sono le Idee? 178 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 2 VIAGGIO NELLA CAVERNA CONOSCENZA SENSIBILE DEL MONDO FISICO Visione delle ombre sul fondo della caverna e ascolto degli echi delle voci dei portatori dietro al muro. IMMAGINAZIONE (o congettura): conoscenza delle proprietà qualitative più immediate e superficiali delle cose fisiche Sapere miticoreligioso e superstizioni e leggende popolari Visione delle statuette trasportate sulle spalle dei portatori e del fuoco di legna che arde nella caverna CREDENZA: conoscenza empirica, basata su osservazioni ripetute e accurate, delle cose fisiche La filosofia cosmologica basata su principi primi di tipo fisico VIAGGIO FUORI DELLA CAVERNA, SULLA SUPERFICIE TERRESTRE CONOSCENZA RAZIONALE DEL MONDO METAFISICO Visione delle ombre degli enti naturali e dei loro riflessi in stagni e ruscelli. RAGIONAMENTO: conoscenza ipotetico-deduttiva degli enti matematici (figure geometriche, numeri, ecc.) Scienze: aritmetica, geometria, musica, astronomia Visione degli enti naturali, delle stelle e della Luna, infine del Sole INTELLEZIONE: intuizione dei principi primi degli enti matematici e di tutte le cose, ossia delle Idee La scienza suprema, ovvero la “dialettica” 179 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 PLATONE : LE IDEE SONO I MODELLI RAZIONALI DI OGNI COSA “[…] Diciamo noi che il giusto è qualcosa per se stesso, oppure no?” “Sì, lo diciamo, per Zeus!” “E anche il bello e il buono?” “E come no?” “E hai mai vista qualcuna di queste cose con gli occhi?”. “No, affatto”, rispose. “E le hai mai colte, forse, con altro senso del corpo? Non parlo solo delle cose nominate sopra, ma anche della grandezza, della salute, della forza, e, in una parola, dell’essenza di tutte le altre cose, ossia di ciò che ciascuna di quelle cose è. Ebbene, forse che si conosce ciò che in esse c’è di più vero mediante il corpo? O le cose stanno invece così: solamente chi di noi si è preparato a considerare con la mente nella maniera più precisa ciascuna cosa di cui fa ricerca, solamente costui può giungere più vicino possibile alla conoscenza di ciascuna di queste cose?”. “Certamente”. Platone, Fedone, 65 D, a cura di G. Reale, Rusconi “Ma chiamare ‘causa’ cose come queste [gli elementi naturali: aria, acqua, ecc.] è troppo fuori luogo. “Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare, direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza, ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande leggerezza. “Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la causa stessa. “Ed è questo il motivo per cui qualcuno, ponendo intorno alla terra un vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo, mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la migliore posizione che potessero avere, questo né cercano né credono che abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente, 180 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme. “Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri; ebbene, vuoi che ti esponga, o Cebete, la seconda navigazione [quella a remi, quando non c’è vento] che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?”. “Altro che se voglio!”, rispose. E Socrate allora disse: “Dopo questo, poiché ero stanco di indagare le cose, mi parve di dover star bene attento che non mi capitasse quello che capita a coloro che osservano e studiano il sole quando c’è l’eclissi, perché alcuni si rovinano gli occhi, se non guardano la sua immagine rispecchiata nell’acqua, o in qualche altra cosa del genere. “A questo pensai, ed ebbi paura che anche l’anima mia si accecasse completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con ciascuno degli altri sensi. “Perciò, ritenni di dovermi rifugiare in certi postulati e considerare in questi le verità delle cose che sono. “Forse il paragone che ora ti ho fatto in un certo senso non calza, giacché io non ammetto di certo che chi considera le cose alla luce di questi postulati le consideri in immagini più di chi le considera nella realtà. Comunque, io mi sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel postulato che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico non vero […]”. Platone, Fedone, 99 A-100 A, a cura di G. Reale, Rusconi Come abbiamo visto, la forma più alta e completa di conoscenza, secondo Platone, è l’intuizione intellettiva o intellezione. Essa è l’atto puramente mentale e immediato, e quindi infallibile, con il quale conosciamo le “Idee”, cioè gli oggetti fondamentali della realtà. Nel mito della caverna l’ “intuizione” è rappresentata allegoricamente dalla visione diretta e totale delle cose naturali (piante, animali, minerali, stelle, Luna, Sole) sulla superficie terrestre. Le cose naturali sono dunque il simbolo delle Idee. Ma cosa sono allora le Idee per Platone? Non è facile capirlo perché nel nostro linguaggio per “idea” intendiamo una rappresentazione della mente umana, un pensiero, un concetto. Nel greco antico, invece, “idea” (idéa, ma anche eìdos) significava “aspetto”, “figura”, “forma”. Platone usa il termine greco antico attribuendogli il significato filosofico di “forma razionale”, “essenza 181 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE intelligibile”. In questo senso, l’Idea platonica corrisponde in parte a ciò che noi intendiamo con “concetto”, cioè l’insieme delle proprietà fondamentali che accomunano un gruppo di cose e che si sintetizzano linguisticamente nella “definizione”. P.e., il concetto di triangolo, ovvero “poligono con tre lati e tre angoli”, oppure il concetto di gatto, ovvero “felino di piccole dimensioni che miagola”. L’Idea platonica, però, a differenza del concetto, non è una rappresentazione mentale, bensì un oggetto reale. P.e., per Platone l’Idea di gatto è la forma razionale unica e universale di tutti i possibili gatti, che esiste fuori della nostra mente e indipendentemente da ogni gatto esistente nel mondo fisico. Ciò premesso, vediamo quali sono le caratteristiche di questi strani oggetti chiamati da Platone Idee. Secondo Platone le Idee sono: puramente razionali, ossia metafisiche, cioè non posseggono alcuna materialità, non appartengono alla dimensione fisica, e quindi non si possono vedere, toccare, odorare, ma soltanto intuire mentalmente; universali, in quanto ognuna è costituita dalle caratteristiche comuni a una molteplicità di cose individuali (c’è unica Idea di gatto per tutti i gatti fisici presenti, passati e futuri); eterne, in quanto, non essendo fisiche, le Idee non si generano né si distruggono; immutabili, in quanto, non essendo fisiche, non sono soggette al divenire; perfette, poiché ognuna di esse è l’essenza totale e piena di qualcosa; divine, perché tutte le precedenti caratteristiche sono proprio quelle che contraddistinguono il divino. Date queste caratteristiche, per Platone, benché metafisico e non esperibile sensibilmente, il mondo delle Idee costituisce la realtà suprema, la Realtà con la maiuscola. Solo le Idee, infatti, posseggono davvero l’esistenza, cioè esistono in virtù di sé stesse, non essendo generate da qualcos’altro, ed esistono in modo pieno, totale, dal momento che sono eterne. Ma se le Idee non sono empiricamente conoscibili e dunque provabili, come può Platone sostenerne l’esistenza? La principale argomentazione platonica dell’esistenza delle Idee si impernia sul concetto di uguaglianza, intesa come completa coincidenza/collimanza di due cose. Platone sostiene che è evidente che tutti gli uomini possiedono tale concetto, in quanto esso è il criterio in base al quale valutiamo continuamente se due oggetti sono simili o diversi. Però, osserva Platone, nel mondo fisico, caratterizzato dalla molteplicità individuale illimitata, non esistono due o più cose perfettamente uguali, p.e. due abeti uguali. Dunque è impossibile che gli uomini abbiano ricavato il concetto di uguaglianza dal mondo fisico tramite l’esperienza sensibile. L’unica spiegazione plausibile del fatto che 182 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE possediamo il concetto di uguaglianza è pertanto, secondo Platone, che esista l’Idea di uguaglianza – cioè l’Uguaglianza in sé, l’Uguaglianza perfetta – e che le nostre menti siano in grado di intuirla. Come si è detto, le Idee nel mito della caverna sono simboleggiate dagli oggetti naturali presenti sul suolo terrestre. Tali oggetti nel mito sono divisi , in base ai diversi momenti in cui il prigioniero liberato le vede, in tre gruppi: 1. gli oggetti terrestri, quali piante, animali, minerali; 2. gli oggetti celesti notturni: le stelle e la Luna; 3. gli oggetti celesti diurni: il Sole. E’ plausibile che Platone rappresenti così, allegoricamente, l’articolazione gerarchica del mondo delle Idee: 1. al livello più basso, le Idee delle cose naturali, p.e. l’Idea di cane o l’Idea di metallo o ancora l’Idea di temporale; 2. a un livello superiore le Idee delle cose astratte, cioè dei valori etico-civili - p.e. l’Idea di coraggio o l’Idea di onestà –, dei principi logici più generali, p.e. l’Idea di uguaglianza o l’Idea di causa e, ancora, le Idee dei numeri e la Diade (la Luna); 3. al massimo e supremo livello, il principio di tutte le Idee, cioè l’Uno (il Sole). Ma cosa sono l’Uno e la Diade? Secondo Platone, tutte le Idee sono costituite dell’interazione di due principi opposti, ma originariamente correlati l’uno all’altro: l’Uno, ovvero il principio della deliminazione, della determinazione, dell’ordine, ossia dell’organizzazione; la Diade, ovvero la dualità di infinitamente grande e infinitamente piccolo, cioè la molteplicità infinita costituita dalle illimitate gradazioni comprese tra un limite tendente all’infinitamente grande e uno tendente all’infinitamente piccolo. L’interazione tra Uno e Diade genera una molteplicità determinata, unitaria, cioè ordinata, per l’appunto il mondo delle Idee. La Diade e più ancora l’Uno sono dunque al di là e al di sopra delle stesse Idee, in quanto ne sono i Principi generatori. Le prime Idee a essere costituite dall’interazione di Uno e Diade sono i “numeri ideali”, cioè la decade, i primi dieci numeri, in base ai quali poi si formano tutte le altre Idee. Ciò significa che vi sono Idee monadiche, Idee diadiche, Idee triadiche, ecc., e, più in generale, che ogni Idea è la manifestazione e la realizzazione di uno specifico valore numerico e dunque che le relazioni logiche tra le Idee sono fondamentalmente di tipo matematico. In questo senso, l’Uno è definito da Platone la “misura esatta”, ovvero il “metro”, il criterio supremo di misurazione di ogni Idea. In altre parole, l’Uno è il parametro che stabilisce gli esatti valori numerici di tutte le Idee facendo sì che ognuna sia pienamente sé stessa e al 183 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE contempo intrattenga rapporti di armonica integrazione e proficuo equilibrio con le altre. Il principio dell’Uno, aggiunge Platone, coincide a sua volta con il Bene in sé, la Verità in sé e la Bellezza in sé. Il Bene è infatti misura/ordinamento dei nostri istinti, delle nostre emozioni, dei nostri sentimenti e di conseguenza dei nostri comportamenti. La Verità è misura/ordinamento delle nostre conoscenze empiriche e dei nostri ragionamenti. La Bellezza misura/ordinamento degli aspetti fisico-sensibili dei nostri corpi e in generale delle cose. Dal momento che Bene, Verità e Bellezza hanno l’Uno come denominatore comune essenziale, secondo Platone ciò che è davvero bello è anche vero e buono, ciò che è vero è anche buono e bello, ciò che è buono è anche vero e bello. Insomma, al vertice del mondo delle Idee sta l’equazione multipla Uno=Bene=Vero=Bello. In questo senso tutte le Idee sono buone, vere e belle, ovvero ognuna di esse è un modo specifico di realizzare il Bene, il Vero e il Bello, e tutte insieme costituiscono il Bene-Vero-Bello compiuto e totale. 184 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 3 UNO = Bene = Bello = Vero Principio finito di determinazione e ordine, misura esattissima DIADE=dualità infinitamente grande/infinitamente piccolo Principio infinito di molteplicità disordinata NUMERI IDEALI della decade IDEE dei principi logico-matematici, dei valori etici e di tutte le cose fisiche oggetti puramente razionali, cioè non fisici, che esistono fuori della mente umana universali, in quanto sintesi delle proprietà comuni di un insieme di cose eterne e immutabili, in quanto non nascono, non muoiono e non cambiano perfette, perché complete e compiute divine, perché posseggono il massimo grado di realtà ed esistenza 185 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI LE IDEE PLATONICHE E ROGER PENROSE Alcuni grandi scienziati contemporanei condividono la teoria delle Idee di Platone, benché limitatamente alle Idee logico-matematiche. Il caso più significativo è quello del fisico Roger Penrose, professore emerito dell’università di Oxford, autore insieme a Stephen Hawking della teoria dei buchi neri, il quale sostiene che i concetti e le relazioni matematiche, in quanto oggettivamente veri, sono delle Idee proprio nel significato platonico del termine. Penrose argomenta la sua tesi utilizzando l’insieme di Mandelbrot. Si tratta di un frattale, cioè di una figura matematica divisibile all’infinito in cui ogni parte, sempre più piccola che sia, ha la stessa configurazione, e la stessa grandezza infinita, dell’insieme. B. Mandelbrot è il matematico della seconda metà del ‘900 che scoprì i frattali ed elaborò la loro teoria geometrica. L’insieme di Mandelbrot, afferma Penrose, esiste oggettivamente, è un’Idea platonica, in quanto è impossibile che possa esistere nella mente umana o in un computer, per quanto potente sia. Infatti, pur scaturendo da una regola matematica molto semplice, l’insieme di Mandelbrot è infinito e, come tale, non può per principio essere riprodotto completamente né nella mente di un uomo né sul video o nei tabulati di un computer. “La sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche”, conclude. E, per chiarire la sua tesi, aggiunge: “Le forme matematiche del mondo platonico non hanno evidentemente lo stesso tipo di esistenza dei comuni oggetti fisici, come tavoli o sedie. Non hanno una posizione spaziale e non esistono nel tempo. Si deve pensare che le nozioni matematiche oggettive siano entità atemporali, che non devono essere considerate come esistenti soltanto nel momento in cui sono percepite dagli esseri umani per la prima volta” (R. Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, 2005, p. 17). Su questa base, Penrose sostiene che la realtà è costituita dall’interazione di 3 “mondi”: 1. il mondo delle idee matematiche; 2. il mondo mentale dell’uomo; 3. il mondo fisico. In che modo i tre mondi possano comunicare tra loro, data la loro eterogeneità, secondo Penrose, è ancora in gran parte un mistero. Tuttavia che il mondo fisico sia governato da leggi matematiche, e cioè dal mondo delle Idee, per Penrose è attestato da molte e robuste prove. Infine, un ultimo punto di contatto tra la filosofia di Platone e il pensiero di Penrose è la tesi della bellezza del mondo delle Idee matematiche. Scrive Penrose: “[…] i criteri estetici sono fondamentali per lo sviluppo delle Idee matematiche in sé e per sé, fornendo sia lo stimolo verso la scoperta sia una potente guida verso la verità. Supporrei addirittura che un importante elemento nella comune convinzione del matematico che un mondo platonico esterno abbia un’esistenza realmente indipendente da noi provenga dalla 186 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE straordinariamente inaspettata bellezza nascosta che le idee stesse così spesso rivelano.” (ed. cit., p. 22). A chi vuole saperne di più non resta che leggere il già citato libro di Penrose: La strada che porta alla realtà, Rizzoli, 2005. 187 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 PLATONE : IL MONDO FISICO E’ UNA COPIA DEL MONDO DELLE IDEE “Che cos’è ciò che è sempre e non ha generazione? E che cos’è ciò che si genera perennemente e non è mai essere? Il primo è ciò che è concepibile con l’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nelle medesime condizioni. Il secondo, al contrario, è ciò che è opinabile mediante la percezione sensoriale irrazionale, perché si genere e perisce, e non è mai pienamente essere. “Inoltre, ogni cosa che si genera, di necessità viene generata da qualche causa. Infatti, è impossibile che ogni cosa abbia generazione, senza avere una causa. “E quando l’Artefice di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo stesso modo e servendosene come di esemplare, ne porta in atto l’Idea e la potenza, è necessario che, in questo modo, riesca tutta quanta bella; quella cosa, invece, che l’Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato, non sarà bella. […] “Ma è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno: infatti l’universo è la più bella delle cose che sono state generate e l’Artefice è la migliore delle cause. “Se, pertanto, l’Universo è stato generato così, fu realizzato dall’Artefice guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l’intelligenza e che è sempre allo stesso modo. “Stando così le cose, è assolutamente necessario che questo cosmo sia immagine di qualche cosa”. Platone, Timeo, 27 D-29B, a cura di G. Reale, Rusconi “Il principio che nuovamente riguarda l’universo si basi su una distinzionepiù ampia di quella di prima. Infatti allora distinguemmo due generi, ed ora bisogna spiegare un terzo e differente genere. […] Quale potenza e natura dobbiamo pensare che abbia? Questa soprattutto: di essere il ricettacolo di tutto ciò che si genera, come una nutrice. […] Bisogna dire che essa è sempre una medesima cosa, perché essa non esce mai dalla propria potenza. Infatti, per natura essa sta come materiale da impronta per ogni cosa, mossa e modellata dalle cose che entrano in essa, e appare per causa di esse ora in un modo e ora in un altro. E le cose che entrano e che escono sono imitazioni delle cose che sono sempre, improntate da esse in un certo modo difficile da spiegarsi e meraviglioso, di cui più avanti faremi ricerca. […] 188 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Dunque, allo stesso modo, anche a ciò che deve ricevere molte volte e bene in ogni parte di sé le immagini di tutti gli esseri eterni conviene essere per sua natura al di là di tutte le forme. Perciò la madre e il ricettacolo di ciò che si genera ed è visibile e interamente sensibile, non diciamola né terra né acqua né fuoco né aria, né altre delle cose che nascono da queste o da cui queste nascono. Ma dicendola una specie invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto, e che partecipa in un modo assai complesso dell’intelligibile e che è difficile da concepirsi, non ci inganneremo. […] E a sua volta bisogna ammettere che c’è un terzo genere, quello dello spazio, che è sempre e che non è soggetto a distruzione, e che fornisce sede a tutte le cose che sono soggette a generazione. E questo è coglibile senza i sensi con un argomento spurio ed è a mala pena oggetto di persuasione. Guardando ad esso noi sogniamo e diciamo che è necessario che ogni cosa che è, sia in qualche luogo e occupi uno spazio, mentre ciò che non è in terra né in qualche luogo in cielo, non è nulla. […] E prima di questo tutte le cose si trovano senza ragione e senza misura. Ma quando Dio incominciò a ordinare l’Universo, il fuoco in primo luogo e la terra e l’aria e l’acqua, avevano bensì qualche traccia di sé, ma si trovavano in quella condizione in cui è naturale si trovi ogni cosa, quando Dio è assente. Queste cose, dunque, che allora si trovavano in questo stato, egli in primo luogo le modellò con forme e con numeri. Che Dio abbia costituito queste cose nel modo più bello e migliore che fosse possibile, muovendo da una loro condizione che non era affatto così, anche questo per ogni cosa resti saldo come detto una volta per tutte. Platone, Timeo, 49 A - 53 B, a cura di G. Reale, Rusconi Secondo Platone il mondo fisico – la caverna/prigione del suo mito – è una immagine, ovvero una copia, del mondo delle Idee. Più precisamente, il mondo fisico è la concretizzazione materiale degli enti matematici (numeri, proprietà aritmetiche, figure geometriche piane e solide, teoremi, ecc.) che sono immagini o copie dirette delle Idee. Nel mito della caverna questa tesi è espressa simbolicamente dal fatto che gli oggetti artificiali di legno o pietra (=enti naturali) sono copie artigianali delle immagini riflesse (=enti matematici) sugli specchi d’acqua delle cose naturali (=Idee). Ciò significa che per Platone il mondo delle Idee è la causa primaria e fondamentale del mondo fisico. In questo senso, le Idee sono i modelli originari – compiuti e quindi perfetti – di tutte le cose naturali e queste ultime altro non sono che molteplici imitazioni – incompiute e quindi imperfette – delle Idee. P.e. l’Idea di gatto è il modello universale perfetto da cui derivano tutti i gatti fisici e questi ultimi sono molteplici imitazioni individuali e imperfette dell’unica Idea di gatto. 189 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma in che modo le cose fisiche sono derivate dalle Idee? Chi o cosa ha prodotto le copie fisiche delle Idee? La risposta di Platone è affidata a un altro mito di sua invenzione, il mito del Demiurgo (che in greco antico significava “artigiano”, “artefice”). In questo caso, Platone ci avverte esplicitamente che il suo mito non contiene una spiegazione vera della genesi del cosmo fisico, ma solo una sua descrizione verosimile, dal momento che è impossibile spiegare in modo compiutamente razionale ciò che è fisico, poiché la fisicità nasce anche da un principio in sé disordinato, dunque irrazionale. Infatti, perché un modello ideale possa essere imitato occorre qualcosa con la quale e nella quale sia possibile imitarlo. Questo qualcosa è identificato da Platone come “spazialità”, ma anche come “recipiente”. In altri termini, la “spazialità” è il “recipiente” che ospita gli enti matematici, cioè le immagini delle Idee, che diventano così tridimensionali, cioè acquistano una apparenza fisica, ovvero la proprietà apparente della consistenza materiale. Ciò significa che per Platone la materia non è un principio originario ma un effetto derivato (gli scienziati odierni direbbero un fenomeno “emergente”). La spazialità, afferma Platone, è ingenerata ed eterna. Tuttavia, essa di per sé, nel suo stato originario, costituisce una molteplicità illimitata e caotica, una sorta di impensabile nonessere che è, ovvero qualcosa di autocontraddittorio. La spazialità, in tal senso, è un’entità amorfa composta da una quantità indefinita di elementi disposti in modo squilibrato e da una quantità indefinita di forze che li agitano disordinatamente. Per questo, Platone sostiene che la spazialità rappresenta una “causa irregolare”, ovvero una realtà dominata dal cieco caso, e che pertanto non può essere razionalmente conosciuta in modo completo. Idee e spazialità per Platone costituiscono originariamente due realtà indipendenti, eterogenee e antitetiche che, come tali, non posso interagire direttamente tra loro. A rendere possibile la loro interazione interviene, narra Platone, una terza causa, il Demiurgo. Con questo nome, Platone designa il dio supremo inteso come il dio che ha prodotto il mondo fisico, e anche gli altri dei, con la sua opera consapevole e intelligente. Il Demiurgo, infatti, è un essere personale privo di fisicità, totalmente razionale e quindi ingenerato ed eterno. In altre parole, egli fa parte del mondo delle Idee, dunque le conosce pienamente e sulla base di questa conoscenza ordina la spazialità infondendole l’ordine razional-matematico proprio delle Idee e trasformandola così nel cosmo fisico. L’opera di ordinamento del Demiurgo comincia con la plasmazione dei quattro elementi fisici fondamentali: terra, fuoco, aria, acqua. In origine, sostiene Platone, nella spazialità vi sono solo tracce confuse di questi elementi. Il Demiurgo trasforma queste tracce in veri e 190 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE propri elementi dando a ognuna di esse una forma geometrica precisa. Ciò significa che egli produce ogni elemento dandogli una struttura corpuscolare di tipo geometrico, ovvero dividendolo in parti minime invisibili e modellando ognuna di esse come un solido regolare. Precisamente: 1. la terra è costituita di particelle cubiche; 2. il fuoco è costituito di particelle a forma di tetraedro; 3. l’aria è costituita di particelle a forma di ottaedro; 4. l’acqua è costituita di particelle a forma di icosaedro. Le proprietà fisico-chimiche degli elementi dipendono dunque dalle proprietà matematiche delle particelle che li compongono. Poiché tutti gli enti naturali sono combinazioni in proporzioni diverse di particelle dei quattro elementi, ciò comporta che il mondo fisico ha una costituzione matematica, ovvero che tutti i fenomeni naturali sono una manifestazione di relazioni matematiche. Il Demiurgo, però, secondo Platone, non produce solo il “corpo” dell’universo ma anche la sua “anima”. Si tratta dell’Anima del mondo, cioè di un principio puramente razionale che pervade la natura fisica infondendole vita e movimento. L’Anima del mondo è plasmata dal Demiurgo mescolando secondo precise proporzioni matematiche l’uguaglianza, la diversità e il loro misto o intermedio. Dal momento che anche l’Anima del mondo ha una struttura razional-matematica, anche i movimenti del mondo fisico sono governati da leggi matematiche. Ma perché il Demiurgo ordina la spazialità e produce il cosmo fisico? Qual è il movente della sua opera di ordinamento della spazialità? Ovvero qual è lo scopo ultimo per il quale ha prodotto il mondo fisico? La risposta di Platone è: il Bene. Infatti, facendo parte del mondo delle Idee, il Demiurgo ne venera il principio primo, cioè l’Uno-Bene. In altri termini, essendo buono, il Demiurgo vuole il bene della spazialità e quindi vuole migliorare la sua condizione. L’ordine, cioè la molteplicità unitaria e determinata, è migliore del disordine, cioè della molteplicità illimitata e caotica. Il Bene, infatti, coincide con l’Uno, cioè con l’unità e la determinazione ed entrambi sono alla base dell’essere, ovvero dell’esistenza effettiva. Il Demiurgo, pertanto, conferendo un ordine unitario alla molteplicità illimitata e caotica della spazialità, e conferendole così un vero essere, agisce a fin di bene. Ciò, a sua volta, comporta che il mondo fisico è organizzato finalisticamente, cioè che ogni cosa e ogni fenomeno naturale si spiegano in quanto contribuiscono a realizzare un unico fine, il Bene appunto. Tuttavia il mondo fisico per Platone contiene costitutivamente un ineliminabile grado di imperfezione. Ciò non dipende dall’opera del Demiurgo, che è perfetta, ma dalla differenza 191 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ontologica irriducibile tra le Idee e la spazialità. Infatti, mentre le Idee, in quanto puramente razionali, hanno una costituzione unitaria, cioè sono ordinate nella loro stessa essenza, la spazialità, come si è visto, ha una costituzione molteplice, cioè possiede un’essenza disordinata, ovvero è costitutivamente e originariamente irrazionale. Di conseguenza, secondo Platone, benché l’opera ordinatrice del Demiurgo sia magistrale, essa non può giungere a rendere la spazialità uguale alle Idee. Pertanto, mentre il mondo delle Idee è perfetto, il mondo fisico è imperfetto, anche se non assolutamente ma solo relativamente. Questa strutturale imperfezione relativa del mondo fisico ha due importanti conseguenze: 1. il mondo fisico non può essere conosciuto scientificamente, cioè non permette una conoscenza vera, ma solo una conoscenza verosimile, cioè approssimata alla verità, ovvero una conoscenza non completa e certa ma solo parziale e probabile; 2. il mondo fisico implica il male, il cui fondamento ontologico è appunto lo scarto, lo iato, il divario incolmabile tra mondo fisico e mondo ideale. Ciò non significa che il mondo fisico sia male. In quanto migliore copia possibile della perfezione ideale, il cosmo è pur sempre soprattutto bene. Però è un bene inferiore a quello totale delle Idee. Il male, insomma, è costituito dalla differenza quantitativa tra il Bene totale delle Idee e il Bene parziale del cosmo. 192 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 4 MONDO DELLE IDEE puramente razionale e unitario quindi dotato di piena esistenza e modello perfetto di ordine Guardando il DEMIURGO = dio artefice del cosmo fisico Ordina la SPAZIALITA’ dimensione tridimensionale molteplice e caotica basata sul caso e quindi dotata di un’esistenza meramente virtuale In base al CUBO distingue e produce l’elemento TERRA In base al TETRAEDRO distingue e produce l’elemento FUOCO In base all’ OTTAEDRO distingue e produce l’elemento ARIA In base all’ ICOSAEDRO distingue e produce l’elemento ACQUA CORPO del mondo ANIMA del mondo principio razionale di vita e movimento COSMO FISICO = grande e ordinato animale vivente 193 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI LA “CHORA” PLATONICA E IL CAMPO DI HIGGS Come abbiamo visto, per Platone il principio fisico originario e fondamentale è la “spazialità” (in greco chòra), cioè la tridimensionalità, e la materia è un’apparenza, cioè un effetto secondario prodotto dalla spazialità. In tale senso, Platone sostiene anche che la realtà fisica, così come la osserviamo in base ai nostri sensi, equivale a un sogno. Questa tesi platonica trova punti di contatto con una importante teoria fisica contemporanea, quella del “campo di Higgs” (detto scherzosamente “oceano di Higgs”), o del “bosone di Higgs” (detto scherzosamente “la particella di Dio”), che prende il nome dal suo autore, Peter Higgs, attualmente fisico emerito all’Università di Edimburgo. Secondo la teoria di Higgs, l’intero universo è pervaso da un “campo” formato da un particolare “bosone”. Un bosone è una particella elementare il cui scambio costituisce le 4 forze/energie fondamentali: elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole, gravitazionale. Il bosone di Higgs interagisce con quasi tutte le altre particelle elementari (p.e. neutrini, elettroni, quarks, ma non con i fotoni) conferendo a ognuna una propria massa (a riposo). Usando una metafora, è un po’ come se lo spazio fosse pervaso da un fluido vischioso che conferisce resistenza e durezza alle particelle elementari, le quali originariamente sono tutte prive di massa, ovvero sono energia pura. In origine, cioè nei primi attimi successivi al big bang, secondo Higgs, ma questo vale per tutti i fisici contemporanei, lo spazio-tempo era pervaso solo da energia pura simmetrica, cioè omogenea, non differenziata. Con il successivo abbassamento della temperatura sarebbe emerso il “campo di Higgs” e con esso l’energia unica originaria si sarebbe differenziata nelle 4 forze fondamentali e nelle diverse particelle elementari che costituiscono i mattoni dei corpi. I fotoni, invece, secondo la teoria di Higgs, sono privi di massa, e viaggiano nello spazio alla massima velocità possibile, proprio perché non interagiscono con i bosoni di Higgs e quindi hanno conservato la loro natura fisica originaria di energia pura. Insomma, per Higgs, così come per Platone, la materia (che i fisici chiamano tecnicamente massa) non è originaria ma il prodotto derivato di qualcosa di originario, che per Platone era la “spazialità” e per Higgs il campo che prende il suo nome e che è sì un concetto diverso, decisamente più specifico e ricco, ma che comunque coincide con l’estensione spaziale. Per concludere, è indispensabile sapere che Higgs avanzò l’ipotesi dell’esistenza del campo che porta il suo nome nel 1964, in base soltanto a calcoli matematici e ragionamenti puramente teorici. Fino all’estate del 2012 la teoria di Higgs non ebbe alcuna conferma sperimentale. Infatti, prima del 2008, non esistevano apparecchiature sperimentali in grado di produrre, intercettare e “osservare” un oggetto così piccolo e veloce come dovrebbe essere il bosone di Higgs secondo i calcoli teorici. Soltanto nel 2012 sono cominciati i primi tentativi di “acchiappare” i bosoni di Higgs grazie alla 194 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE costruzione e alla messa in funzione (2008), nel sottosuolo di Ginevra, del Large Hadron Collider (LHC), un potente acceleratore di particelle, ad opera del CERN, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare. Nell’estate 2012, finalmente, si ebbe il primo “avvistamento”, confermato nel marzo del 2013 poi da altri avvistamenti (benché siano necessari ulteriori controlli soprattutto per stabilire la massa esatta del bosone di Higgs). In questo modo la teoria di Higgs è stata ufficialmente confermata e Higgs è uno dei candidati più accreditati al prossimo Nobel per la Fisica. Soprattutto, però, anche per questo aspetto – la teorizzazione puramente matematica – la scoperta di Higgs costituisce un forte argomento a favore della teoria della conoscenza di Platone, basata appunto sul primato del ragionamento matematico sull’osservazione sensibile. 195 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 PLATONE: CONOSCERE E’ RICORDARE LA PRIMA VISIONE DELLE IDEE “Si pensi, dunque, l’anima come simile a una forza per sua natura composta da un carro a due cavalli e di un auriga. “I cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e derivati da buoni, invece quelli degli altri sono misti. “In primo luogo, in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, dei due cavalli, uno è bello e buono e derivante da belli e buoni; l’altro, invece, deriva da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità, per quel che ci riguarda, è la guida del carro. […] “La potenza dell’ala per sua natura tende a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo là dove abita la stirpe degli dei, e in certo senso partecipa del divino più di tutte le cose che riguardano il corpo. […] “Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tien dietro un esercito di dei e di dèmoni ordinato in undici schiere. […] “Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo procedono per l’ascesa fino a raggiungere la sommità della volta del cielo. “Là i veicoli degli dei, che sono ben equilibrati ed agili da guidare, procedono bene; gli altri, invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo quell’auriga che non abbia saputo allevarlo bene. “Qui all’anima si presenta la fatica e la prova suprema. “Infatti, allorché le anime che sono dette immortali pervengono alla sommità del cielo, procedendo al di fuori, si posano sulla volta del cielo, e la rotazione del cielo le trasporta così posate, ed esse contemplano le cose che stanno al di fuori del cielo. “L’Iperuranio, il luogo sopraceleste, nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò mai, né mai lo canterà in modo degno. “La cosa sta in questo modo, perché bisogna avere veramente il coraggio di dire il vero, specialmente se si parla della verità. “L’essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che può essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia dall’intelletto, e intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo. “Ora, poiché la ragione di un dio è nutrita da una intelligenza e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene, quando vede dopo un certo tempo l’essere, si allieta, e, contemplando la verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del cielo non l’abbia riportata allo stesso punto. 196 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “Nel giro che essa compie vede la Giustizia stessa, vede la Temperanza, vede la Scienza, non quella connessa col divenire, né quella che è differente in quanto si fonda su quelle cose alle quali noi ora diamo il nome di esseri, ma quella che è veramente scienza in ciò che è veramente essere. […] “Quanto alle altre anime, invece, una, seguendo il dio nel modo migliore possibile e rendendosi simile a lui, solleva il capo dall’auriga verso il luogo che sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli. “Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poiché i cavalli le fanno violenza, vede alcuni esseri, mentre altri no. “Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma, non essendo capaci di farlo, vengono sommerse e trascinate nel moto di rotazione, urtandosi l’una con l’altra, accalcandosi e tentando di passare l’una davanti all’altra. Nasce, dunque, un tumulto e una lotta con un estremo sudore, e, per l’ignavia degli aurighi, molte anime rimangono storpiate, e molte riportano molte delle loro penne spezzate. “Tutte, poi, oppresse da grande fatica, se ne allontanano senza aver fruito della contemplazione dell’essere; e, una volta che si siano allontanate, si nutrono del cibo dell’opinione. “Il motivo per cui esse mettono tanto impegno per vedere la Pianura della Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell’anima proviene dal prato che è là, e la natura dell’ala con cui l’anima può volare si nutre proprio di questo.” Platone, Fedro, 246A-248C Le Idee, secondo Platone, sono i modelli oggettivi, e quindi le cause prime, di tutte le cose e anche di tutti i fatti/comportamenti fisici. P.e., l’Idea di rosa è il modello di tutte le rose, l’Idea di rosso quello di tutti i rossi, l’Idea di combustione quello di tutti gli incendi, l’Idea di coraggio quello di tutti gli atti coraggiosi, ecc. In altre parole tutte le cose e gli eventi fisici sono riproduzioni o imitazioni delle Idee. Poiché conoscere scientificamente, cioè in modo veritiero, qualcosa significa per Platone conoscerne la causa prima, ne segue che per conoscere le cose/azioni fisiche è necessario conoscere le Idee da cui ognuna deriva. Detto in termini filosofici, le Idee in quanto supremi principi ontologici del mondo fisico ne sono di conseguenza anche i supremi principi gnoseologici, cioè conoscitivi. Le Idee, però, sono forme universali puramente razionali, del tutto prive di qualsiasi proprietà fisica, e pertanto, come si è visto, Platone sostiene che non possono essere conosciute attraverso l’esperienza sensibile. Ma allora come può conoscerle l’uomo? E come è possibile quindi raggiungere una conoscenza di tipo scientifico, cioè completa e invariante? 197 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La risposta di Platone, in prima battuta, è affidata ancora una volta a un mito, il mito della biga alata (chiamato anche mito dell’auriga). Esso ha come protagoniste appunto delle bighe alate, cioè capaci di volare, ognuna guidata da un auriga e tirata da due cavalli, uno bianco e docile e l’altro nero e ribelle. La biga alata rappresenta l’ “anima” (psyché9), cioè il principio individuale della vita e del movimento di ogni cosa. L’anima, secondo Platone, non è materiale, è puramente razionale, e, in quanto tale, è immortale. Infatti, argomenta Platone, la morte consiste nella disgregazione di un corpo, in quanto questo, essendo fisico, è composto di più elementi (terra, acqua, fuoco, aria); ma l’anima è una sostanza semplice, cioè unica, non composta, dunque non può digregarsi, ovvero morire. Inoltre, l’anima è il principio della vita del corpo e sarebbe contraddittorio che il principio della vita fosse soggetto alla sua negazione, cioè alla morte. L’auriga, il cavallo bianco e il cavallo nero rappresentano le tre componenti fondamentali dell’anima immortale: rispettivamente l’intelligenza, l’aggressività, il desiderio. Platone racconta che in origine le bighe alate volano fino ad avvicinarsi alla volta del cielo, concepito come una sfera rotante che racchiude l’intero cosmo. Al di là della sfera celeste si estende la “pianura della verità” o “iperuranio”, cioè il mondo delle Idee. Le bighe alate puntano a posarsi sulla volta celeste e a lasciarsi trasportare dal moto di rotazione della sfera celeste in modo da poter contemplare tutte le Idee da ogni punto di vista. Ma solo le bighe divine, dotate di due cavalli entrambi bianchi, cioè docili, riescono nella difficile impresa. Le bighe umane, invece, a causa della resistenza del cavallo nero, riescono a rimanere per un tempo limitato sulla volta celeste e quindi hanno una visione limitata delle Idee. Inoltre i tempi di permanenza delle bighe umane variano e quindi alcune hanno una visione più ampia delle Idee, altre una più ristretta. Tutte però prima o poi sono trascinate verso il basso dal cavallo nero, cioè dalla loro componente desiderante. Le bighe/anime cadono così nella dimensione terrena e si incarnano, cioè sono ricoperte da un corpo. Infine, altre bighe ancora, narra Platone, si scontrano prima di poter raggiungere la volta celeste e di conseguenza cadono sulla Terra addirittura senza aver avuto alcuna visione delle Idee, incarnandosi così come animali, vegetali e minerali. 9 Come sappiamo, psyché significava in greco fiato, respiro. Ma, poiché Platone è il primo filosofo (di Socrate non possiamo essere certi) a sostenere che la psyché è del tutto immateriale, ciò giustifica la sua traduzione con “anima”, che in italiano indica anche l’identità non fisica e immortale di ogni uomo. 198 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il corpo, afferma Platone, imprigiona l’anima umana nello stesso modo in cui le valve della sua conchiglia rinserrano l’ostrica. Questa chiusura corporea opprime l’anima a tal punto da diventarne la prigione, anzi perfino la tomba, cioè da soffocarla e spegnerla. Fuor di metafora, in seguito all’acquisizione di una dimensione fisica, l’anima umana dimentica la visione delle Idee e quindi perde perfino la coscienza di sé stessa. In altre parole, l’uomo si trova nella situazione descritta simbolicamente da Platone nel mito della caverna-prigione, attraverso l’allegoria dei prigionieri incatenati fin dalla nascita che guardano le ombre che si agitano sulla parete di fondo. In questo senso il mito della biga alata può essere considerato l’antefatto del mito della caverna. Ciò significa che dopo la caduta e l’incarnazione dell’anima, tutti gli uomini sono come prigionieri incatenati, ovvero che ogni uomo nella fase iniziale della sua vita si basa solo sui sensi, non è capace di usare l’intelligenza e addirittura ignora di esserne dotato. Nel mito della caverna, però, uno dei prigionieri viene liberato dalle catene da qualcuno o da qualcosa la cui identità non è esplicitata da Platone. Il significato razionale di questa liberazione è che, durante la sua esistenza, ogni uomo ha la possibilità di diventare cosciente della propria intelligenza e quindi di farne uso. Ma chi o cosa libera il prigioniero? Ovvero, come avviene il passaggio dall’incoscienza alla coscienza? La risposta è contenuta nella spiegazione platonica del mito della biga alata: l’anima rinchiusa nel corpo si ridesta nel momento in cui ricorda per la prima volta l’Idea della bellezza. In altre parole, il misterioso liberatore del prigioniero incatenato è la Bellezza in sé. Fuor di metafora, quando l’uomo fa l’esperienza della Bellezza, cioè prova il piacere estetico, si accende in lui il ricordo delle Idee, ovvero comincia il processo di riscoperta e di fruizione della propria intelligenza. Ma perché il ricordo delle Idee dovrebbe essere innescato dalla Bellezza e non invece dal Bene o dalla Giustizia o dalla Uguaglianza, cioè da un’altra delle Idee di livello superiore? La risposta di Platone è affidata ancora una volta a una metafora: la Bellezza è l’Idea più luminosa e come tale riesce, per così dire, a filtrare e a trasparire attraverso la cortina opaca della fisicità. L’uomo allora può scorgerla con il più raffinato dei suoi sensi, quello più vicino all’intelligenza: la vista. La metafora platonica sta a significare che l’Idea della bellezza è quella che più di ogni altra si manifesta nel mondo fisico e può pertanto essere oggetto di una speciale esperienza sensibile, si potrebbe dire di un’esperienza sensibile estrema, cioè ai confini della realtà fisica; ovvero di un’intuizione che è al tempo stesso sia sensibile sia razionale. In questo senso – fermo restando che il mondo naturale nel suo insieme è solo simile alle Idee in quanto è ontologicamente diverso dalle Idee – si può dire che la bellezza sensibile è per Platone la quota del mondo fisico che rispecchia completamente le Idee, ovvero ciò che nella natura c’è di assolutamente uguale alle Idee, la sua parte puramente razionale. 199 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’esperienza della Bellezza, però, non fa ricordare immediatamente all’anima tutte le Idee che l’anima aveva contemplato in origine. Essa, secondo Platone, dà solo il via a un lungo processo di graduale rimemorazione delle visioni razionali avute e poi obliate. Tale processo – rappresentato simbolicamente nel mito della caverna dal cammino ascendente del prigioniero liberato – si basa per Platone su due fattori: 1. la forte somiglianza e lo stretto collegamento che sussistono tra tutte le Idee per cui dalla conoscenza di ognuna di essere si può passare razionalmente alla conoscenza di quelle più vicine; 2. la somiglianza delle cose sensibili alle Idee in base alla quale – una volta che si sia riacquistata la coscienza dell’esistenza delle Idee – è possibile usare l’esperienza sensibile come stimolo e strumento della conoscenza razionale delle Idee. Il primo di tali fattori si impernia sull’ordine matematico unitario del mondo delle Idee, il secondo si fonda sullo stretto rapporto che intercorre, pur nella loro differenza, tra mondo delle Idee e mondo fisico. Platone caratterizza questo rapporto in vari modi e a vari livelli: l’imitazione: il mondo fisico imita il mondo delle Idee, cioè gli rassomiglia; la partecipazione: gli enti naturali prendono parte alle loro rispettive Idee; la comunanza: le cose fisiche hanno qualcosa di comune con le Idee; la presenza: le Idee sono parzialmente presenti nelle cose fisiche. Questi diversi aspetti della relazione Idee/cose fisiche sono tutti riconducibili a un comune denominatore: le Idee sono i modelli originari, ovvero le cause fondamentali, di tutte le cose fisiche. 200 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 5 La biga alata composta da un auriga, un cavallo bianco e docile e un cavallo nero e ribelle L’anima umana, immateriale e dunque capace di conoscere le Idee, articolata in una parte razionale, una aggressiva e una desiderante. Le bighe alate volano verso l’alto nel tentativo di raggiungere la sommità della volta celeste per poter contemplare la Pianura della Verità che si estende al di là. La tendenza della parte superiore dell’anima, quella intelligente, a staccarsi dall’esperienza sensibile per cogliere le Idee, cioè i principi razionali della realtà. Alcune bighe umane riescono a posarsi sulla volta celeste e a guardare bene le Idee, altre le guardano da lontano e in parte. Gli uomini posseggono gradi diversi di intelligenza, solo alcuni sono capaci di conoscere la struttura razionale della realtà. Tutte le bighe umane, prima o poi, sono trascinate verso il basso dal cavallo nero, cadono sulla terra e sono coperte da un corpo. L’anima umana ha una pulsione insopprimibile verso il piacere sensibile che spiega perché l’uomo è un essere fisico. Il corpo racchiude l’anima come le valve di un’ostrica, o come una prigione, o come una tomba, facendole dimenticare le Idee. I sensi e la conoscenza sensibile impediscono all’intelligenza umana di scoprire la struttura razionale del mondo fisico. L’Idea di bellezza, capace di filtrare attraverso la cortina della fisicità, riaccende il ricordo delle Idee e ne avvia la rimemorazione. L’esperienza estetica, che fonde sensibilità e razionalità, avvia la ricerca conoscitiva dei principi razionali del mondo fisico. 201 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 6 PLATONE: LA SCIENZA DELLE IDEE E’ LA DIALETTICA “Eppure, Glaucone – osservai –, non è proprio questo il canto che il procedimento dialettico esegue? E benché tale canto sia di natura intelligibile la facoltà della vista può imitarlo, nella misura in cui, si diceva, essa riesce a guardare agli animali in carne ed ossa, agli astri in quanto tali e, da ultimo, al sole medesimo. Allo stesso modo, come essa è giunta al vertice del sensibile, così uno può giungere fino al vertice dell’intelligibile solo quando, per mezzo del procedimento dialettico e prescindendo totalmente dall’apporto delle sensazioni, incomincia, con la sola forza della ragione, a tendere a ciò che è l’essere di ciascuna realtà, senza cedere mai, almeno finché non ha colto con la pura intelligenza l’essenza stessa del Bene”. “Non c’è il minimo dubbio”, riconobbe. “Ebbene, non è forse questo quello che tu chiami procedimento dialettico?”. “Come no?”. “E la liberazione dalle catene – dissi – e il voltare lo sguardo dalle ombre alle statuette e alla luce, e ancora l’elevarsi dalla caverna al sole, e giunti qui, l’impossibilità a vedere gli animali, le piante e lo stesso splendore del sole, e invece la capacità di vedere le immagini divine riflesse nell’acqua e le ombre degli oggetti reali – nota, non più ombre di statue prodotte da una luce diversa da quella del sole, la quale andrebbe giudicata al più come un semplice riflesso di essa –; insomma, tutto questo lavorio che è frutto delle scienze che abbiamo preso in considerazione, ha appunto la funzione di elevare la parte superiore dell’anima alla visione della parte suprema dell’essere, come poc’anzi la facoltà più perspicace del corpo si elevava verso la parte più splendente del mondo fisico e visibile”. “Sono d’accordo – disse lui –. E tuttavia mi sembra, da un lato, terribilmente difficile concedere il proprio assenso a queste cose, dall’altro ugualmente difficile il non concederlo. Ad ogni modo – tenuto anche conto del fatto che tali discorsi non vanno ascoltati solo ora, ma bisognerà tornarci sopra molte volte –, dando per scontato che le cose stiano nel modo che si è appena detto, passiamo pure alla canzone vera e propria e andiamone a fondo, così come si è fatto per il proemio. Dicci, dunque, di che tipo sia la forza di questa dialettica, e in quali generi si divide e quali siano le sue vie. Queste vie, se non erro, dovrebbero essere quelle che conducono là dove chi giunge troverà riposo del cammino e fine del viaggio”. “Caro Glaucone – dissi –, oltre questo punto non sarai più in grado di seguirmi, nonostante io ci metta tutto il mio impegno. Qui non vedresti più l’immagine di quel che trattiamo, ma il suo vero essere, o per lo meno quello 202 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE che a me sembra tale. Che poi lo sia veramente o no, non è questo problema su cui valga la pena insistere; ma che si debba assurgere a un tale livello di comprensione, questo va ribadito. O non sei dell’avviso?”. “Come no?”. “E non ti pare che solo la pratica della dialettica potrebbe aprire a una tale comprensione chi è già esperto nelle discipline sopra indicate, mentre nessun’altra scienza lo potrebbe?”. “Anche di ciò – ammise – si può essere certi”. “Ed ecco allora – continuai – un ulteriore punto che nessuno potrebbe contestarci: non esiste altro procedimento che possa pretendere di cogliere sistematicamente e universalmente l’essenza di ciascun essere individuale. Tutte le altre arti, in effetti, o sono rivolte alle opinioni degli uomini o ai loro desideri, oppure agli esseri che si generano o a quelli che si costruiscono, ovvero per custodire tutte le realtà che si producono in natura o ad opera dell’uomo. Le restanti discipline, quelle che dicevamo cogliere in qualche misura l’essere, come la geometria e le scienze derivate, le vediamo muoversi in un certo senso come sonnambuli nei confronti dell’essere, di modo che per esse è impossibile vederlo così com’è, in uno stato di veglia, finché almeno si servono di assiomi che lasciano indimostrati, solo perché non sanno darne ragione. “Effettivamente, a chi assume come punto di partenza un principio sconosciuto capita che anche il corpo del discorso e le sue conclusioni siano sempre intimamente intrecciate con questa ignoranza; sicché come sarebbe possibile che da una tale artificiosa convenzione scaturisca una scienza?”. “Non c’è alcuna possibilità”, ribadì. “Pertanto – continuai –, solo il metodo dialettico procede per questa via, togliendo le ipotesi fino a raggiungere il principio in quanto tale per conferire solidità, e solleva e porta in alto l’occhio dell’anima invischiato in un pantano barbaro, facendo uso delle arti che abbiamo descritto come ausiliarie per aiutare nella conversione. […]”. Platone, Repubblica, 532 A-553 D Sulla base della teoria del ricordo, espressa allegoricamente nel mito della biga alata, Platone sostiene che tutti gli uomini nascono con una conoscenza innata, sebbene maggiore o minore a seconda degli individui. Infatti, le anime razionali, cioè le menti umane, hanno contemplato le Idee e ne conservano la memoria, cioè le hanno riprodotte in sé generando così i concetti. In altre parole, i concetti per Platone sono le rappresentazioni 203 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE mentali delle Idee, ovvero sono le Idee in quanto concepite dall’intelletto umano, e le menti umane, fin dalla nascita, sono, per così dire, piene di concetti. Platone è pertanto il primo filosofo a teorizzare esplicitamente che la conoscenza ha un fondamento puramente razionale “a priori”, cioè anteriore a ogni sensazione e quindi indipendente dall’esperienza sensibile. Ciò significa che, secondo Platone, la scienza, cioè la conoscenza vera, completa e definitiva, non deve basarsi sull’esperienza sensibile ma deve imperniarsi sui concetti razionali che la nostra mente possiede fin dalla nascita grazie alla sua originaria contemplazione (in greco theorìa) delle Idee. Usando termini più attuali, Platone sostiene una epistemologia, cioè una filosofia della scienza, caratterizzata dal primato della teoria rispetto all’osservazione sperimentale. Come prova dell’innatismo dei concetti, Platone riporta un episodio emblematico dell’insegnamento maieutico di Socrate. Egli racconta che Socrate, dialogando con Menone, un giovane aristocratico esperto di matematica, coinvolge nella discussione un suo schiavo e, attraverso una serie ben congegnata di domande, riesce a portarlo alla soluzione di un problema di geometria facendogli scoprire e utilizzare il teorema di Pitagora. In altre parole, Socrate dimostra che, benché lo schiavo non avesse ricevuto alcuna istruzione, la sua mente conteneva i principi logico-matematici indispensabili a scoprire il teorema di Pitagora e ad applicarlo. Ma perché allora lo schiavo di Menone non era già consapevole del teorema di Pitagora e dei concetti logico-matematici in esso impliciti? Più in generale, perché, se fin dalla nascita li possediamo, non ne siamo coscienti già da bambini e invece dobbiamo apprenderli? La risposta di Platone si basa sulla sua teoria della memoria e del ricordo, sempre connessa al mito della biga alata: l’anima umana, quando cade sulla Terra e si incarna, viene imprigionata e offuscata dal corpo e per questo dimentica la visione delle Idee. In questo modo, cioè usando un linguaggio simbolico, Platone vuol dire che la mente umana possiede sì dei concetti innati, ma inizialmente essa non ne è consapevole, non è cosciente di possederli. Di conseguenza, la conoscenza per Platone consiste nel “ricordare”, cioè nel portare alla coscienza i concetti inconsci da sempre presenti nella nostra mente. Ma anche il termine “ricordare” è usato da Platone in senso metaforico. Fuor di metafora, dunque, cosa significa ricordare? Significa – risponde Platone – che i concetti innati, copie mentali delle Idee, si conoscono in base a un’intuizione intellettiva, cioè attraverso un atto intramentale immediato in cui l’intelletto scopre dentro di sé e conosce i propri concetti innati, ri-conoscendo in essi le Idee oggetto della sua contemplazione originaria. Come abbiamo visto, per Platone la scintilla che accende il ricordo è costituita dall’esperienza estetica, ossia dalla visione della Bellezza. Ma con questa tesi Platone non 204 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE vuole affatto suggerire che l’uomo possa acquisire ogni conoscenza istantaneamente. Al contrario Platone chiarisce non solo che l’esperienza estetica è soltanto l’avvio di un lungo e graduale processo di rimemorazione, ossia di acquisizione conoscitiva, ma anche che tale processo può svilupparsi se e solo se si serve di un ben preciso metodo di ricerca. Tale metodo è chiamato da Platone “dialettica”. Poiché il metodo dialettico è quello che ci fa (ri)conoscere le Idee esso è il metodo scientifico supremo; e poiché ciò che la dialettica ci fa (ri)conoscere sono le Idee, la dialettica è al tempo stesso la scienza delle Idee, dunque la scienza suprema, anzi l’unica scienza in senso proprio, cioè l’unica conoscenza vera, completa e invariabile. In cosa consiste dunque il metodo dialettico? Abbiano già detto che è lo strumento conoscitivo per individuare l’Idea di qualcosa. Dunque, si deve partire da una cosa, p.e. un uomo (l’esempio non è di Platone che ne fa un altro più desueto e complicato: la pesca con la lenza). In altre parole si comincia ponendosi una domanda/problema: che cos’è un uomo, ovvero qual è l’Idea di uomo? Per rispondere alla domanda, secondo Platone bisogna svolgere due operazioni intellettive: la “sintesi” (letteralmente: unificazione) che consiste nell’individuare l’Idea più generale di cui un’Idea più specifica o un oggetto fisico individuale sono derivazioni; la “analisi” (letteralmente: divisione) che consiste nel dividere l’Idea generale individuata nelle sue parti, e nelle parti delle sue parti, fino a arrivare all’Idea o all’oggetto da cui si è partiti. Applicando la sintesi a un uomo individuiamo l’Idea di animale in quanto Idea generale (ossia genere) in cui è inclusa quella dell’uomo. A questo punto applichiamo l’analisi all’Idea di animale, cioè la dividiamo nelle sue sottoidee (le specie) fino a giungere, per divisioni successive, all’Idea dell’uomo. Innanzitutto possiamo dividere l’idea di animale in vertebrato e invertebrato. Effettuata questa prima divisione dobbiano selezionare le due sottoidee, ossia scartare quella da cui l’Idea dell’uomo non deriva – invertebrato – e dividere ulteriormente l’altra, cioè vertebrato. Abbiamo: pesce, rettile, anfibio, uccello, mammifero. Di nuovo selezioniamo l’idea di mammifero e la dividiamo in roditore, marsupiale, equino, bovino, ecc., primate. Ancora selezioniamo l’idea di primate e la dividiamo in “capaci di comunicare con suoni e gesti” e “capaci di comunicare con la parola”. Selezioniamo la seconda sottoidea e a questo punto ci fermiamo perché siamo arrivati all’Idea di uomo. In cosa consiste, dunque? Nell’insieme delle Idee che abbiamo selezionato a partire da quella di animale. In altre parole, l’Idea di uomo è: animale vertebrato, mammifero, primate, capace di comunicare con la parola. E’ facile notare che il risultato coincide con la definizione del concetto di uomo. 205 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ora che dovrebbe essere chiaro in cosa consiste per Platone la dialettica, possiamo comprendere meglio, innanzitutto, perché Platone l’ha chiamata “dialettica”. Essa, in particolare nella fase analitica, la più lunga e complessa, si basa sulla scelta di un’Idea per eliminazione di altre Idee parallele diverse da essa, ovvero con essa contraddittorie (p.e. vertebrato rispetto a invertebrato). In altre parole, il metodo dialettico platonico è una ripresa del metodo argomentativo inventato da Parmenide, e battezzato “dialettica” dal suo discepolo Zenone, ovvero dell’argomentazione che arriva a corroborare una tesi partendo dalla confutazione della sua antitesi (un tipo di argomentazione che poi era stata fatta propria dai matematici i quali però l’avevano ribattezzata “dimostrazione per assurdo”). Ma Platone non si limita a “copiare” Parmenide. In realtà a partire da Parmenide elabora una versione ben più articolata e sofisticata della dialettica. Infatti, in primo luogo, come abbiamo visto, le antitesi per Platone possono essere ben più di una; in secondo luogo, e soprattutto, la relazione dialettica in Platone diventa la connessione logica che lega unitariamente tutte le Idee, che ne fonda l’ordine armonico, ovvero è, per così dire, la rete razionale che unifica e mette in comunicazione ogni Idea con ogni altra Idea. In altri termini, ciò che rende il mondo delle Idee effettivamente tale. Senza nessi dialettici con tutte le altre Idee, un’Idea non potrebbe essere ciò che è, ossia l’essenza di un determinato insieme di cose. P.e., l’Idea di quadrupede si determina in relazione all’Idea di bipede e di apode, e queste in relazione a quella. Per questo, in quanto scienza delle Idee, e dunque scienza suprema, la dialettica non consiste solo e tanto nella conoscenza di ogni singola Idea, ma anche e soprattutto nella conoscenza delle relazioni che legano ogni Idea alle altre, ovvero nella conoscenza dell’ordine armonico che caratterizza il mondo delle Idee e che fa sì che esso sia una perfetta sintesi di unità e molteplicità. Ma in cosa consiste questo ordine ideale? E ancora, quali sono le relazioni dialettiche che unificano le Idee? In prima approssimazione, si può rispondere che le Idee sono ordinate gerarchicamente, ovvero in base a una derivazione piramidale dalle più generali alle più specifiche. In questo senso, il mondo delle Idee è articolato nei seguenti livelli gerarchici dal più alto al più basso: Uno (=Bene=Verità=Bellezza) o Limite o Misura. Diade o Illimitato. Numeri ideali o Idee-numeri: Triade, Tetrade, ecc., fino alla Decade. Generi supremi: Essere, Identità, Diversità, Quiete, Movimento. Idee dei principi logici: Proporzione, Intelligenza, Relazione, Causa, ecc. Idee dei valori etico-politici: Giustizia, Coraggio, Onestà, Sincerità, Amicizia, ecc. Idee degli enti fisici: Spazio, Tempo, Mammifero, Conifera, Ferro, Cane, Granito, ecc. Enti matematici: figure geometriche, numeri, relazioni e operazioni aritmetiche, ecc. 206 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In secondo luogo, e soprattutto, ogni Idea è al tempo stesso: una parte/aspetto specifico di un’Idea superiore/più generale l’unità del gruppo di Idee, ad essa subordinate, in cui si articola e si specifica. P.e. l’Idea di gatto è una parte dell’Idea di felino e a sua volta si articola nelle Idee di persiano, soriano, certosino, ecc. In questo senso si potrebbe dire che le Idee si diramano le une dalle altre secondo uno schema ad albero genealogico tale per cui ogni Idea è figlia di un’altra e madre di altre ancora. Utilizzando invece il linguaggio della logica contemporanea, possiamo dire che ogni Idea è una sottoclasse (o sottoinsieme) di un’Idea superiore ed è la classe (o l’insieme) di una Idea inferiore. La conclusione è la stessa: ogni Idea è contenuta, insieme ad altre Idee-sorelle, in un’Idea-madre e al contempo contiene in sé altre Idee-figlie. In questo modo tutte le Idee più specifiche sono contenute in quelle via via più generali fino ad essere tutte contenute nell’unica Idea dell’Essere. Dell’Essere, non dell’Uno, perché l’Uno trascende le Idee. Ma l’Essere è un Uno parziale e così anche ogni Idea, seppure a un livello inferiore, in quanto è l’unità di un gruppo di Idee oppure di una molteplicità di enti fisici. Grazie alla connessione dialettica di tutte le Idee, Platone riesce a fondare filosoficamente, e quindi a valorizzare scientificamente ed eticamente, sia l’unità sia la molteplicità, meglio ancora a rendere l’una condizione dell’altra e viceversa. In altre parole, l’Essere – la realtà vera, davvero esistente –, ossia il mondo delle Idee, non è omogeneo e indifferenziato, ma articolato e variegato. E, infatti, le Idee immediatamente subordinate a quella di Essere sono Identico, Diverso, Quiete, Movimento. Ciò significa che l’Essere non è solo identico a se stesso, ma anche differenziato in molte parti/aspetti, e che l’Essere, e insieme ogni altra Idea, non si relaziona solo a se stesso (Quiete), non è cioè solo autoreferenziale, ma si rapporta e rinvia a tutte le altre Idee (Movimento), ovvero comunica con esse. A questo punto possiamo rilevare quanto sia ampia la distanza tra la dialettica parmenidea e quella platonica. La dialettica di Parmenide non ammetteva il non-essere e quindi cancellava ogni diversità e molteplicità dall’Essere, lo rendeva un’unità monotona, autoreferenziale, statica. La dialettica di Platone ammette il non-essere e quindi riabilita diversità e molteplicità, configurando l’Essere in modo ricco, variopinto, dinamico. Ma allora Platone rifiuta la legge parmenidea che stabilisce l’inesistenza e l’inammissibilità del nulla? La risposta è no. Come può allora ammettere la molteplicità? Platone scopre che il termine “essere” implica un omonimia e quindi può produrre un errore logico. Infatti “essere” significa: sia “esistere”, come nell’enunciato “Ci sono molte specie di alberi”, e in tal caso costituisce un predicato verbale; 207 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE sia “appartenere a” oppure “ha la proprietà di”, come negli enunciati “il cavallo è un equino” e “il cavallo è veloce”, e in questo caso costituisce un predicato nominale. Ora, se io dico “L’Essere non è”, nego l’esistenza dell’essere e affermo l’esistenza del nulla, il che è contraddittorio e dunque inaccettabile. Dunque, in tal senso Platone concorda con le argomentazioni dialettiche con cui Parmenide aveva sostenuto la non generazione, l’eternità, l’immutabilità e l’atemporalità dell’Essere dal momento che in caso contrario si sarebbe ammessa l’esistenza del nulla. Tuttavia, se io dico “Il cavallo non è una pecora”, oppure “Il gatto non è un rettile”, piuttosto che “La tartaruga non è veloce”, in questi casi, rileva Platone, il non-essere non equivale al nulla bensì al diverso. “Il cavallo non è una pecora” non significa che il cavallo non esiste, ma che è diverso dalla pecora, ovvero che l’Idea di cavallo non è inclusa in quella di pecora. Dunque, per Platone, Parmenide era caduto nella trappola di un equivoco logico-linguistico quando aveva argomentato dialetticamente l’omogeneità e l’indifferenziazione dell’Essere perché altrimenti, anche in tal caso, si sarebbe ammessa l’esistenza del non-essere. Su questa base Platone riabilita parzialmente il concetto di non-essere. Egli infatti da un lato riafferma che il non-essere assoluto, cioè il nulla, è inesistente e impensabile, ma dall’altro sostiene che esiste ed è pensabile il non-essere relativo nel senso di diversità. Dunque il mondo delle Idee comprende il non-essere come diversità e pertanto esso ammette e valorizza la molteplicità. Ma qual è il senso filosofico profondo della parziale riabilitazione del non-essere in quanto diversità? La valorizzazione, almeno parziale, del mondo fisico. Questo, infatti, è caratterizzato dalla molteplicità. Se l’Essere, cioè il mondo delle Idee, non fosse molteplice, non potrebbe in alcun modo essere la matrice/modello del mondo fisico, ovvero il mondo fisico non possederebbe alcun ordine, ossia alcuna esistenza effettiva, sarebbe solo illusione e inganno, e l’esistenza fisica non avrebbe alcun senso, come aveva appunto sostenuto Parmenide. In ultima analisi, dunque, Platone, legittimando filosoficamente il non-essere relativo, ridà dignità e senso – benché relativi, non assoluti – alla dimensione terrena e alla vita corporea dell’uomo. 208 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 6 L’anima/mente umana originariamente ha contemplato le Idee, cioè i principi primi della realtà fisica La mente umana possiede fin dalla nascita dei concetti innati, cioè le copie mentali delle Idee. La conoscenza per essere scientifica, cioè vera, deve basarsi su concetti a priori, cioè indipendenti dall’esperienza sensibile, puramente razionali Tali concetti possono essere intuiti dall’intelletto utilizzando il metodo dialettico che dunque è il metodo scientifico fondamentale di ogni conoscenza. DIALETTICA = scienza delle Idee SINTESI: cogliere l’Idea generale cui fa capo l’Idea della cosa individuale che vogliamo conoscere, p.e. “animale” in relazione a un individuo umano. ANALISI: dividere l’Idea generale in tutte le sue sottoidee (p.e. “vertebrato”/”invertebrato”) fino ad arrivare all’Idea di “uomo”. 209 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI L’INNATISMO DI PLATONE E DI CHOMSKY La teoria innatistica platonica delle idee, intese come concetti, è sostenuta ancora oggi, seppur con consistenti varianti, da molti scienziati cognitivisti, psicologi, linguisti. Uno dei casi più significativi è quello del linguista statunitense Noam Chomsky, attualmente professore emerito di Linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston. Chomsky è autore di una teoria dell’origine e del funzionamento del linguaggio umano incentrata sul concetto di “grammatica generativo-trasformazionale”. Secondo Chomsky, ogni individuo umano è dotato fin dalla nascita, e prima di qualsiasi esperienza, di un programma linguistico – la grammatica generativa – costituito da principi e regole generali da lui addirittura matematicamente formalizzati. Questo programma, e dunque la capacità linguistica, si sviluppa con la crescita, in modo omogeneo allo sviluppo del corpo e di tutte le altre capacità fisico-organiche (p.e. camminare). L’ambiente, ovvero l’esperienza, ha solo una funzione di stimolo e modulazione, ovvero può favorirne uno sviluppo maggiore o minore, producendo differenti livelli di abilità linguistica, e può far sì che si configuri in un certo modo piuttosto che in un altro, producendo le diverse lingue (inglese, cinese, ecc.) in cui gli uomini parlano. In tale senso Chomsky chiama la sua “grammatica” originaria e universale “generativa” e “trasformazionale”, in quanto cioè genera le lingue parlate attraverso la propria trasformazione, ossia adattandosi ai diversi contesti sociali. Il possesso di questa grammatica generativo-trasformazionale da parte di ogni uomo è corroborato, secondo Chomsky, dalla rapidità con la quale i bambini apprendono la lingua-madre (ma eventualmente anche altre lingue). Infatti, gli input dell’esperienza infantile, cioè l’ascolto delle voci degli adulti, non sarebbero per Chomsky sufficienti a permettere a un bambino di cominciare a parlare alla fine del primo anno di vita sulla base della semplice imitazione e riproduzione delle parole udite e dell’applicazione delle regole dedotte dalle frasi. Solo il possesso innato di una struttura linguistica di base permette al bambino di capire quasi immediatamente e di immagazzinare ordinatamente le parole e i loro significati nonché di scoprire le regole sintattiche e di rispettarle. Chomsky nei suoi libri si richiama esplicitamente a Platone, sostenendo che il filosofo ateniese aveva completamente ragione quando affermava che ogni uomo nasce con un patrimonio conoscitivo innato. Tuttavia, per Chomsky, la conoscenza innata dell’uomo non deriva, come per Platone, dal possesso di un’anima razionale immortale che in origine ha contemplato il mondo delle Idee. Divergendo da Platone, Chomsky fonda la sua teoria innatistica del linguaggio sulla teoria dell’evoluzione: la grammatica generativo-trasformazionale costituisce una parte del nostro genoma, ovvero è insita in alcuni dei nostri geni i quali si sono formati e selezionati nel corso dell’evoluzione della specie umana in base al rapporto con l’ambiente naturale e sociale. 210 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In questo senso, più in generale, oggi tutti gli psicologi, i cognitivisti, i linguisti ammettono che le capacità mentali di ogni uomo dipendono almeno in parte dal suo genoma, e dunque sono in tal senso innate. Le differenze dipendono dalle diverse stime dell’importanza del fattore genetico rispetto al fattore ambientale: alcuni danno più peso al primo, altri al secondo. 211 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 7 PLATONE: L’AMORE E’ IL SENTIMENTO CHE PORTA ALLE IDEE “Quando nacque Afrodite, gli dei tennero banchetto, e fra gli altri c’era Poros (l’Espediente), figlio di Metis (la Perspicacia). Dopo che ebbero tenuto il banchetto, venne Penia (la Povertà) a mendicare, poiché c’era stata una grande festa, e se ne stava vicino alla porta. Successe che Poros, ubriaco di nettare, dato che il vino non c’era ancora, entrato nel giardino di Zeus, appesantito com’era, fu colto dal sonno. Penia, allora, per la mancanza in cui si trovava di tutto ciò che ha Poros, escogitando di avere un figlio da Poros, giacque con lui e concepì Eros. Per questo divenne seguace e ministro di Afrodite, perché fu generato durante le feste natalizie di lei; ad un tempo è per natura amante di bellezza, perché anche Afrodite è bella. “Dunque, in quanto Eros è figlio di Penia e Poros, gli è toccato un destino di questo tipo. Prima di tutto è povero sempre, ed è tutt’altro che bello e delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si sdraia sempre per terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o in mezzo alla strada e, poiché ha la natura della madre, è sempre accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso, straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di saggezza, pieno di risorse, filosofo per tutta la vita, straordinario incantatore, preparatore di filtri, sofista. E per sua natura non è né mortale né immortale, ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive, quando riesce nei suoi espedienti; talora, invece, muore, ma poi torna in vita, a causa della natura del padre. E ciò che si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è mai né povero di risorse, né ricco. “Inoltre, sta in mezzo fra sapienza e ignoranza. Ed ecco come avviene questo. Nessuno degli dei fa filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento che lo è già. E chiunque altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia, né desiderano diventare sapienti. Infatti, l’ignoranza ha proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né saggio, ritiene invece di esserlo in modo conveniente. E, in effetti, colui che non ritiene di essere bisognoso, non desidera ciò di cui non ritiene di aver bisogno”. […] “E, allora, io dissi: ‘E sia, o straniera! Infatti, tu dici bene. Ma se Eros è di questo tipo, che vantaggio porta agli uomini?’ ”. “ ‘Questo punto, o Socrate, cercherò di spiegartelo – disse – dopo queste altre cose. Dunque, Eros è di questo tipo, è nato in questo modo, ed è amore delle cose belle, come tu affermi. Ma se qualcuno ci domandasse: perché, o Socrate 212 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE e Diotima, Eros è amore delle cose belle? O, per dirla in modo ancora più chiaro: chi ama le cose belle, ama; ma che cosa ama?’ ”. “Ed io risposi: ‘Che le cose belle diventino sue’ ”. “ ‘Ma la tua risposta – disse – comporta questa domanda: che vantaggio avrà colui che verrà in possesso delle cose belle?’ ”. “E io risposi di non avere ancora a disposizione una risposta per tale domanda.” “ ‘Ma – disse – è come se qualcuno usando il termine bene in luogo di quello di bello, ti domandasse: Socrate, chi ama le cose buone ama; ma che cosa ama?’ ”. “ ‘Che diventino sue’, risposi io. “ ‘E che vantaggio avrà dal venire in possesso delle cose buone?’. “ ‘A questo – dissi io – mi è più facile fornirti una risposta: sarà felice’. “ ‘Infatti – disse – è appunto per il possesso delle cose buone che sono felici quelli che sono felici, e non c’è più bisogno di fare questa ulteriore domanda: Chi vuol essere felice a che scopo vuol essere felice? Perché la risposta ha ormai raggiunto il suo fine’. “ ‘Dici il vero’, risposi. “ ‘Questa volontà e questo amore credi che siano una cosa comune a tutti gli uomini, e che tutti vogliano possedere? O come dici?’. “ ‘Proprio così – dissi –, che sia una cosa comune a tutti”. Platone, Simposio, 203 B-205 A, a cura di G. Reale, Longanesi Come ormai sappiamo, secondo Platone, la scienza, cioè la conoscenza assolutamente vera, si fonda sulla capacità di “ricordare” le Idee che l’anima di ogni uomo ha osservato originariamente. Abbiamo anche appreso che, fuor di metafora, “ricordare” le Idee per Platone significa intuire e portare alla coscienza i concetti razionali che sono presenti nella mente umana fin dalla nascita e che costituiscono l’intelligenza. Infine, come abbiamo ancora già visto, l’intuizione dei concetti a sua volta si attua usando il metodo dialettico e in questo senso la Dialettica costituisce la scienza per eccellenza. Ma l’acquisizione della Dialettica, cioè della conoscenza delle Idee, per Platone non è un’attività solamente intellettuale – nel linguaggio di oggi si direbbe “cerebrale” –, bensì è anche e indispensabilmente un’esperienza sentimentale, ovvero emotiva. Platone afferma, infatti, che il “ricordare”, ovvero il processo dialettico, è, per così dire, innescato dalla visione sensibile dell’Idea della Bellezza, ovvero dalla Bellezza in sé, in quanto questa è l’Idea che riesce a manifestarsi più chiaramente nel mondo fisico. Ma l’esperienza estetica della Bellezza in sé è strettamente intrecciata con quella dell’Amore. Infatti, secondo Platone: 213 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE da un lato, la percezione gratificante della bellezza di qualcosa provoca necessariamente l’innamoramento, cioè un’attrazione affettiva, per quella cosa stessa; dall’altro, l’Amore è un bisogno emotivo fondamentale dell’uomo che trova il suo appagamento nell’esperienza estetica della Bellezza e pertanto, al contempo, è la forza psicofisica che spinge ogni uomo alla ricerca del Bello. Dunque, tra Bellezza e Amore sussiste per Platone una correlazione necessaria, un’interdipendenza indissolubile tale per cui l’una rimanda all’altro e viceversa. Ma già sappiamo che la Bellezza è una delle facce del principio ideale supremo, l’Uno, e che tutte le Idee partecipano della Bellezza, cioè sono tutte belle. Pertanto, ogni uomo per Platone, almeno potenzialmente, è innamorato delle Idee, ovvero si sente attratto dalla Bellezza del mondo delle Idee. Di conseguenza ogni scienza, ma al massimo grado la scienza dialettica, possiede una componente di tipo emotivo-sentimentale, rappresentata appunto dall’Amore. In tal senso si può dire che per Platone l’Amore, inteso come ricerca della Bellezza, è il propellente emotivo della scienza che a sua volta è una delle modalità di appagamento dell’Amore. Infatti, poiché la scienza è conoscenza delle Idee e poiché tutte le Idee sono manifestazioni della Bellezza, la ricerca scientifica, secondo Platone, permette un godimento sempre più ampio e intenso della Bellezza. Ma qual è l’origine dell’Amore? E perché l’Amore è un impulso fondamentale della vita umana? In prima battuta, la risposta è affidata a un nuovo mito – il mito dell’androgino – che Platone fa raccontare al commediografo Aristofane, per segnalare che si tratta solo di una prima approssimazione alla verità. Secondo questo mito, in origine la specie umana era composta da individui doppi, ovvero dotati di due volti su un’unica testa, quattro braccia, quattro gambe e due sessi, o entrambi maschili o entrambi femminili oppure uno maschile e uno femminile. A causa della loro maggiore potenza, racconta Platone per bocca di Aristofane, questi uomini doppi si lasciarono ottenebrare dalla superbia e tentarono di dare l’assalto all’Olimpo per sostituirsi agli dei. Zeus allora per punirli ordinò ad Apollo di dividerli in due, dando così luogo alla specie umana attuale. Da quel momento nacque l’Amore, ovvero l’impulso nostalgico di due individui, inizialmente uniti e in seguito scissi, a ricomporre la loro unità originaria. E poiché gli esseri umani originari erano o un maschio e una femmina o entrambi maschi o entrambi femmine, l’amore può essere sia eterosessuale sia omosessuale. Nel primo caso esso è finalizzato alla riproduzione della specie; nel secondo, invece, ma solo nella sua variante maschile, il suo scopo è la fusione delle anime e la vita comune. 214 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il mito degli uomini doppi è integrato e completato da un secondo mito, quello dell’Amore figlio di Povertà (penìa) e Acquisizione (pòros), che Platone fa raccontare da Socrate a significare che esso contiene la vera concezione dell’Amore. Secondo questo mito, al termine di un banchetto divino in onore della nascita di Afrodite, Povertà, arrivata lì per mendicare, si accoppiò con il dio Acquisizione, e dalla loro unione nacque Amore. Questa allegoria significa, in primo luogo, che Amore non è un dio, ma un “démone”, cioè un semidio, un essere metà divino, e quindi immortale, e metà fisico, e quindi mortale, in quanto suo padre è il simbolo della razionalità e dell’immortalità mentre sua madre l’emblema della fisicità e della mortalità. Più in generale, ciò significa che l’Amore, secondo Platone, è costituito dall’interazione di due caratteristiche fondamentali di ogni essere umano: 1. la mancanza, cioè la limitezza, l’imperfezione, l’incompletezza; 2. il bisogno/desiderio e al tempo stesso la capacità di superare la mancanza, cioè di migliorarsi e completarsi, grazie al rapporto con un altro. In sintesi, l’Amore è per Platone l’impulso emotivo dell’essere umano a perfezionarsi mettendosi in relazione con un altro essere umano diverso da lui. In secondo luogo, l’allegoria platonica significa anche che Amore è bisogno e desiderio di Bellezza, in quanto il suo concepimento è legato ad Afrodite, dea-simbolo della Bellezza. In altre parole, l’altro-da-sé con cui l’Amore mette in relazione deve possedere il requisito della Bellezza. Perché? La risposta di Platone è duplice. Da un parte, la Bellezza è l’aspetto visibile del Bene e quindi coincide con il Bene. Dato che il Bene procura la felicità, mettersi in relazione con il Bello significa conseguire la felicità. Dunque Amore cerca il Bello perché cerca la felicità. Dall’altra parte, poiché è naturale che ogni uomo desideri possedere la felicità per sempre, l’Amore è desiderio e, al tempo stesso, capacità di conseguire l’immortalità. In che modo? Due sono per Platone le vie amorose all’immortalità: 1. la riproduzione sessuale: in questo senso l’Amore è desiderio/capacità di procreare figli nel Bello, perché Bellezza significa armonia e ordine, e dunque senza la Bellezza la procreazione sarebbe difettosa; 2. la creazione spirituale: in questo senso l’Amore è desiderio/capacità di conseguire gloria e fama imperiture attraverso la produzione di opere poetiche e artistiche, ma anche di costituzioni politiche, di teorie filosofiche e scientifiche, nonché l’attuazione di imprese eroiche, cioè di azioni in cui si sacrifica la propria vita per il bene degli altri. 215 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma c’è un altro aspetto fondamentale della concezione platonica dell’Amore, ovvero la sua processualità. In altre parole, l’Amore non è un sentimento statico, sempre uguale a se stesso, bensì un sentimento che ogni uomo deve migliorare e intensificare nel corso della sua vita. Più precisamente, per Platone l’esperienza erotico-estetica dell’uomo è un cammino ascendente, cioè un processo dinamico di maturazione e perfezionamento. Tale processo è scandito da Platone in 6 tappe: 1. l’amore per la bellezza del corpo di un’unica persona; 2. l’amore per la bellezza di tutti i corpi, cioè della corporeità umana in generale; 3. l’amore per la bellezza dell’anima di un’altra persona, cioè per la sua interiorità; 4. l’amore per la bellezza delle opere dell’ingegno umano e in particolare delle leggi; 5. l’amore per la bellezza delle scienze matematiche; 6. l’amore per la Bellezza in sé, cioè per l’Uno-Bello-Bene-Verità. Platone, dunque, concepisce l’Amore come un processo di elevazione spirituale che partendo dal livello più basso della fisicità arriva gradualmente al traguardo del massimo livello, quello puramente e totalmente ideale. In questo senso egli definisce ancora l’Amore come il mediatore e il ponte tra sensibilità e razionalità, tra il mondo fisico e il mondo delle Idee, e lo identifica con la filosofia stessa, da lui intesa come ricerca della conoscenza, cioè appunto come slancio verso le Idee. In particolare, la quarta tappa, cioè quella dell’amore per la bellezza delle opere dell’ingegno umano, include anche le opere d’arte (poesie, sculture, pitture, musiche, ecc.), ossia le opere che costituiscono l’oggetto dell’estetica, cioè della filosofia dell’arte. Dato il rilievo che ha la bellezza nella sua filosofia, Platone non può esimersi dall’elaborare una sua estetica. E naturalmente l’estetica platonica è un’estetica idealistica e dunque antinaturalistica. In altre parole la vera arte, per Platone, non è quella che cerca di riprodurre la realtà fisica così com’è. Infatti, l’arte naturalistica, quella appunto che cerca di imitare la natura, non è altro che una copia della copia della vera realtà, ossia del mondo delle Idee, l’unica realtà che è veramente bella. Pertanto l’arte naturalistica appanna e sminuisce ulteriormente la bellezza del mondo fisico che è già inferiore a quella del mondo delle Idee. La vera arte, dunque, è l’arte che circoscrive, astrae e mette in evidenza la bellezza delle Idee che traspare nel mondo fisico e che in questo modo riesce a produrre delle opere veramente belle. E, dal momento che il mondo delle Idee, possiede un ordine fondato sulla misura, la proporzione, la simmetria, un’opera d’arte per essere tale deve basarsi su questi stessi criteri. Ma, come abbiamo visto, per Platone la Bellezza coincide con la Verità e con il Bene. Dunque per Platone, la vera arte deve avere sempre un contenuto veritiero e deve sempre trasmettere dei valori morali. In altri termini, secondo Platone, un’opera d’arte che rappresenti il falso o sostenga il vizio non è un’autentica opera d’arte, perché non può possedere il requisito essenziale dell’arte, cioè la bellezza. 216 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In conclusione, ricolleghiamoci al mito della caverna. Sulla base di quanto ulteriormente acquisito a proposito dell’amore, risulta evidente che il cammino di fuga dal carcere del prigioniero liberato, al centro del mito della caverna, è il simbolo non solo dell’ascesa conoscitiva ma anche simultaneamente della maturazione amorosa e, più in generale, della crescita emotiva e sentimentale dell’uomo. L’una infatti non è possibile per Platone senza l’altra. 217 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 7 POVERTA’ L’essere umano non è completo, è carente, difettoso, e quindi ha bisogno dell’altro. ACQUISIZIONE L’essere umano ha la capacità di acquisire ciò di cui è carente, e dunque di perfezionarsi, attraverso un altro. AMORE = rapporto sentimentale di scambio e arricchimento reciproco. DESIDERIO DI BELLEZZA = qualità di chi si ama e che suscita l’amore per lui. DESIDERIO DI BENE, cioè di FELICITA’ PERMANENTE DESIDERIO DI IMMORTALITA’ PROCREAZIONE DEI FIGLI, in quanto sono prolungamenti dei genitori nel tempo. CREAZIONE DI OPERE INTELLETTUALI, in quanto conferiscono gloria imperitura. 218 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 8 PLATONE: LA GIUSTIZIA E’ LA VIRTU’ SUPREMA “Invero, come sembra, la giustizia era qualcosa di analogo; solo che essa non riguarda l’azione esterna delle facoltà dell’individuo, ma quella interiore che concerne lui stesso e le cose che gli competono. In tal modo l’individuo non permette che ciascuna sua parte compia uffici che sono propri di altre, o che le differenti specie dell’anima invadano l’una il campo dell’altra, ma disponendo in buon ordine le proprie cose e prendendo il comando di sé, dandosi un equilibrio e interiormente rappacificandosi – ovvero raccordando le tre parti dell’anima come se fossero tre suoni di un’armonia: l’alto, il basso e il medio e altri ancora intermedi, se mai ce ne fossero –, legati insieme tutti questi elementi e diventando interamente uno di molti, temperato ed equilibrato, così d’ora innazi operi, quando decida di operare, o per l’acquisto di ricchezze, o per la cura del corpo, o per qualcosa riguardante la vita pubblica, o per i commerci privati”. Platone, Repubblica, IV, 443 C-E a cura di G. Reale, Longanesi Ed io così iniziai: “Non ti farò certo il discorso di Alcinoo, ma di un uomo di valore, Er figlio di Armenio, panfilo di origine. Questi a suo tempo morì in combattimento, e mentre, dopo dieci giorni, si raccoglievano i cadaveri ormai decomposti, lui fu raccolto ancora intatto. In seguito, riportato a casa per essere seppellito, quando già era adagiato sulla pira, ritornò a vivere, e, ripresa la vista, raccontò quello che aveva visto nell’aldilà. “Disse che, come l’anima si era separata da lui, si era messa in viaggio insieme a molte altre, finché non giunsero in un luogo meraviglioso, nel quale si aprivano, a poca distanza l’una dall’altra, due voragini sulla terra e, in perfetta corrispondenza, altrettante su nel cielo. “In mezzo sedevano dei giudici, i quali, ad ogni loro sentenza, ordinavano ai giusti di dirigersi in alto a destra, attraverso il cielo – non prima, però, di aver appeso davanti a loro il referto del giudizio –, e agli ingiusti di muovere verso la parte sinistra in basso, avendo anch’essi il resoconto di tutte le loro azioni appeso di dietro. Come fu il suo turno, gli fu comunicato che avrebbe dovuto essere per gli uomini relatore delle cose di laggiù, e per questo gli ordinarono di osservare e ascoltare tutto quanto avveniva in quel posto. In tale maniera poté assistere al dipartirsi delle anime appena giudicate da due delle voragini del cielo e della terra. “Invece, per quanto concerne le altre due voragini, da una sbucavano anime sudicie ddi terra e di polvere, dall’altra scendevano anime diverse, del tutto pure provenienti dal cielo. E quelle che continuamente arrivavano davano 219 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’impressione di aver concluso un lungo viaggio e nel giungere sul prato avevano l’aria felice come se si dessero convegno per una festa di paese. Così le anime che già si conoscevano si salutavano cordialmente, e quelle reduci dalla terra si informavano, chiedendo notizie della vita di là, mentre le altre, provenienti dal cielo, chiedevano informazioni della vita di qua. In tal modo, ognuna raccontava alle altre la sua vicenda. Le une, ricordando quali e quante sofferenze avevano patito e visto patire nel millenario viaggio sotto terra, sconsolatamente piangevano, le altre, quelle che venivano dal cielo, raccontavano di esperienze e visoni di straordinaria bellezza. “Erano a tal punto numerose, Glaucone, che a raccontarle tutte ci vorrebbe troppo tempo; tuttavia, il succo della vicenda è il seguente. Per quante colpe ciascuno avesse commesso o per quanti uomini avesse offeso, per tutto ciò, puntualmente, doveva subire una pena decupla per ogni capo d’accusa. Siccome ogni volta l’unità di misura della pena era cento anni – in quanto tale si considera la durata della vita umana – le anime risultavano pagare il fio della loro colpa dieci volte. […] “E dopo la permanenza di una settimana in quel prato, l’ottavo giorno ciascuna anima doveva levarsi da lì e mettersi in cammino, per giungere, in seguito a un viaggio di quattro giorni, in una località da cui si poteva vedere una luce dritta, a forma di colonna, che si protendeva dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra: queta era molto simile all’arcobaleno, ma ancor più splendente e pura. […] “Come giunsero in quel luogo dovettero presentarsi a Lachesi. Qui un interprete del dio per prima cosa le dispose in ordine, e poi, dopo aver raccolto dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradgmi delle vite, montato su un palco rialzato, parlò in questo modo: ‘Parola della vergine Lachesi, figlia di Necessità. Anime cadute, eccovi giunte all’inizio di un altro ciclo di vita di genere mortale, in quanto si conclude con la morte. Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita alla quale sarà tenuto di necessità. Non ha padroni la virtù; quanto più ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa’. ”. Platone, Repubblica, 614 B-617 E, a cura di G. Reale, Longanesi Abbiamo visto perché e come il cammino del prigioniero liberato del mito della caverna rappresenti allegoricamente sia la crescita conoscitiva sia la maturazione esteticosentimentale di ogni individuo umano nel corso della sua vita. Ora vedremo come e perché esso simboleggi anche, al tempo stesso, lo sviluppo della moralità di ogni uomo. 220 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Per arrivare a comprenderlo, bisogna innanzitutto premettere che la moralità per Platone consiste nel praticare le virtù, ovvero nell’agire in modo virtuoso. Ma cos’è allora la virtù? Per Platone, come per tutti gli antichi Greci, la virtù è in generale la proprietà per cui qualcosa eccelle, ovvero la qualità grazie alla quale raggiunge la sua perfezione. P.e., la virtù dell’usignolo è il canto, la virtù dell’oro è l’inossidabilità, ecc. In particolare, secondo Platone, la virtù dell’uomo è la sua anima, in quanto questa è la parte migliore e superiore dell’essere umano. L’anima umana, però, secondo Platone, è suddivisa in tre parti. Platone le rappresenta simbolicamente nel mito della biga alata, in base alle tre componenti della biga: 1. l’auriga alla guida è il simbolo dell’anima razionale (ossia dell’intelligenza), cioè della facoltà di pensare e conoscere, che ha sede nella testa; 2. il cavallo bianco e docile è il simbolo dell’anima volitiva, che risiede nel petto e consiste nell’aggressività naturale che permette di attuare con determinazione le proprie scelte e di opporsi a chi cercasse di impedirle; 3. il cavallo nero e ribelle è il simbolo dell’anima desiderante, che risiede nell’addome e consiste nell’insieme dei bisogni istintivi del corpo (mangiare, bere, dormire, ecc.) il cui soddisfacimento procura il piacere fisico. Poiché l’anima è articolata in tre parti, ognuna di esse, secondo Platone, possiede una sua specifica virtù: 1. la virtù dell’anima razionale è la Sapienza, intesa come capacità di raggiungere la conoscenza totale delle Idee e del Bene-Uno, cioè del criterio della “misura esatta”; 2. la virtù dell’anima volitiva è il Coraggio, inteso come capacità di non recedere da una propria decisione o da una propria azione per il timore di subire un danno materiale e, al limite, di morire; 3. la virtù dell’anima desiderante è la Temperanza, intesa come capacità di limitare il soddisfacimento dei bisogni istintivi del corpo e quindi il godimento dei piaceri fisici. Tuttavia, dal momento che l’anima, pur avendo tre parti, è anche qualcosa di unitario, per Platone essa deve avere una ulteriore virtù complessiva. Questa virtù è la Giustizia, la quale consiste nella capacità dell’anima come insieme di stabilire il giusto equilibrio tra le sue tre parti, ovvero di relazionarle in modo armonico e ordinato. A sua volta l’ordinamento equilibrato e armonico dell’anima consiste in un rapporto gerarchico, anzi in una vera e propria “catena di comando”, tale per cui l’anima razionale comanda l’anima volitiva che a sua volta comanda l’anima desiderante. In questo modo, la “misura esatta”, cioè l’Uno-Bene, che viene conosciuta dall’anima razionale, è imposta dall’anima volitiva all’anima desiderante così che questa possa esercitare la sua virtù, cioè 221 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE autolimitarsi. La temperanza, infatti, consiste appunto nel soddisfare un bisogno istintivo nella sua “giusta misura”, ovvero né troppo né troppo poco, in modo tale che i diversi bisogni istintivi si armonizzino tra loro e soprattutto non danneggino le due parti superiori dell’anima. Il che implica per Platone un forte autocontrollo e una drastica limitazione del godimento dei piaceri fisici. In conclusione, dunque, secondo Platone essere morali significa agire sulla base di un equilibrio interiore, cioè stabilire un ordine armonico tra i propri valori ideali, i propri sentimenti, le proprie emozioni e i propri desideri istintivi, dosando ognuna delle componenti dell’anima in modo diverso a seconda della sua importanza. Ma, come abbiamo visto, questo ordine per Platone si incardina sul criterio della “giusta misura”, ovvero sul principio sommo dell’Uno-Bene. Ciò significa che il comportamento morale si fonda in ultima istanza sulla conoscenza. D’altra parte, solo la moralità, in particolare la virtù della Temperanza, permette all’anima razionale di dedicarsi alla ricerca conoscitiva e così di potenziarsi al massimo grado. Dunque, per Platone conoscenza e moralità si rafforzano reciprocamente. Ma la conoscenza, come abbiamo considerato, è promossa anche dall’elevazione estetico-amorosa e, a sua volta, rafforza quest’ultima. Pertanto, per Platone la vita umana è costituita da una triplice interazione di rafforzamento reciproco tra conoscenza, moralità e amore. Ecco spiegato perché il cammino ascensivo di liberazione del prigioniero nel mito della caverna rappresenta al tempo stesso la crescita conoscitiva, quella estetico-sentimentale e quella morale. Tanto è vero che il suo traguardo – simbolicamente il Sole – è il principio ideale supremo dell’Uno che è, al contempo, Verità, Bellezza e Bene, cioè rispettivamente le mete finali della conoscenza, dell’amore e della moralità. Secondo Platone, però, la fuga dalla caverna-carcere, cioè appunto il ritorno dell’anima al mondo delle Idee, nell’arco di una sola vita è una possibilità riservata solo ai filosofi. Gli altri uomini sono costretti a metterci molto di più, ossia fino a dieci vite consecutive, e devono purificarsi tra una vita e l’altra subendo una pena per le azioni malvagie che hanno commesso in vita. In altre parole, la morale di Platone è connessa alla teoria della metempsicosi, ovvero della reincarnazione delle anime in più corpi/personalità nel corso di più vite successive. Platone riprende tale teoria dai pitagorici, ma ne elabora una versione personale esposta in un nuovo mito, quello di Er, un guerriero gravemente ferito in battaglia che ha avuto la possibilità eccezionale di soggiornare nell’aldilà e poi di tornare a vivere. 222 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Er narra che dopo la morte il comportamento in vita di ogni uomo viene giudicato e, in caso di azioni immorali, l’anima deve scontare una pena per mille anni per purificarsi dalle sue colpe. Al termine dei mille anni a ogni anima viene attribuito a caso un numero che stabilisce il suo turno per scegliere la sua nuova vita tra una serie di possibili modelli. Chi ottiene dalla sorte i primi numeri ha più possibilità di scelta, dunque sembra avvantaggiato, tuttavia in realtà non è così perché ha più probabilità di scegliere i modelli più attraenti ma in realtà peggiori, come per esempio quello del tiranno. Utilizzando ancora una volta un’allegoria, Platone afferma, in tal modo, che, nonostante un coefficiente di casualità, ogni uomo è libero, cioè è padrone e artefice della propria vita, e che, proprio per questo, è interamente responsabile delle proprie azioni. Tale libertà e tale conseguente responsabilità sono il fondamento della moralità, cioè della capacità di ogni individuo di perfezionare il proprio comportamento. Una volta effettuata la scelta tutte le anime dimenticano quanto successo bevendo l’acqua del fiume Amelete e quindi rinascono nella dimensione terrena. Come anticipato, ciò può ripetersi per dieci volte, fino a coprire un lasso di tempo di diecimila anni (la quantità è simbolica come quella dei mille anni di ogni periodo di pena). Al termine tutte le anime arrivano finalmente all’uscita dalla caverna, ovvero rimettono le ali e tornano nella Pianura della verità, salvo cadere di nuovo e ricominciare un nuovo ciclo di reincarnazioni. 223 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 8 ANIMA (simboleggiata dalla biga alata) RAZIONALE, (simboleggiata dall’auriga) VOLITIVA (simboleggiata dal cavallo bianco e docile) DESIDERANTE (simboleggiata dal cavallo nero e ribelle) FUNZIONE CONOSCITIVA E DIRETTIVA FUNZIONE COERCITIVA E DIFENSIVA FUNZIONE DI AUTOCONSERVAZIONE MATERIALE Virtù della SAPIENZA Virtù del CORAGGIO Virtù della TEMPERANZA Virtù della GIUSTIZIA Armonia delle 3 parti dell’anima basata sul comando dell’anima razionale su quella aggressiva e di questa su quella desiderante. 224 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 9 PLATONE: LO STATO GIUSTO DEVE BASARSI SULLA SCIENZA Da giovane anch’io feci l’esperenza che molti hanno condiviso. Pensavo, non appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica. […] Avvenne però che alcuni potentati coinvolgessero in un processo quel nostro amico Socrate, accusandolo del più grave dei reati, e, fra l’altro, di quello che meno di tutti si addiceva ad uno come Socrate. Insomma, lo incriminarono per empietà, lo ritennero colpevole e lo uccisero; e pensare che proprio lui si era rifiutato di prender parte all’arresto illegale di uno dei loro amici, quando erano banditi dalla Città e la malasorte li perseguitava. Di fronte a tali episodi, a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costumi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. […] Ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le Città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia. Platone, Lettera VII, 323 B-326 B, a cura di G. Reale, Longanesi “Ora, quando di una cosa più grande e di una più piccola si dice che sono la stessa cosa, per il fatto d’essere dette ‘la stessa cosa’, sono disuguali o sono uguali?”. “Uguali”, rispose lui. “Di conseguenza, in rapporto all’Idea di giustizia, l’uomo giusto e la Città giusta non differiranno in nulla, ma saranno uguali”. “Uguali”, ribadì. “Ma la Città ci parve essere giusta quando in essa le tre funzioni originarie che la costituiscono [economia, difesa, governo] assolvono ciascuna al proprio compito; invece ci è sembrata temperante, coraggiosa e sapiente sempre per questi suoi tipi, ma in relazione a certe altre attitudini e abitudini”. “E’ vero”, disse. […] 225 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “E allora da ciò viene pure un’altra conseguenza necessaria: che i motivi e i modi che fanno sapiente una Città, fanno nello stesso tempo sapiente anche il singolo cittadino”. “Come no?”. “E i motivi e i modi che fan sì che il singolo cittadino sia coraggioso, non sono poi gli stessi che determinano il coraggio della Città? Così riguardo a questi aspetti l’uno con l’altra stanno nel medesimo rapporto”. “Di necessità”. “E così, o Glaucone, io credo che si possa dire giusto un uomo allo stesso titolo con cui si dice giusta una Città”. “E anche ciò con assoluto rigore”. “Questo punto però non c’è passato di mente: che la Città era giusta perché ciascuna delle tre classi di cui è composta svolgeva in essa il compito che le spettava”. “Non mi par proprio che l’avessimo scordato”, disse. […] “E allora, non è forse vero che alla facoltà razionale spetta, dunque, il compito di comandare, in quanto è sapiente e ha la responsabilità di tutta l’anima e a quella irascibile [volitiva] tocca il compito di obbedirle e di darle man forte?”. “Indubbiamente”. “E non sarà per caso, come già prima si diceva, la fusione di ginnastica e musica a creare fra esse questa intesa, l’una dando tono e alimento con belle parole e nozioni, e l’altra conferendo calma, quiete e una certa grazia in virtù dell’armonia e del ritmo?”. “E’ evidente”, rispose. “Ora queste due facoltà, così nutrite e messe in grado di assolvere davvero bene al proprio compito per via dell’educazione, devono comandare sulla facoltà concupiscibile [cioè desiderante]. Essa, invero, costituisce in ciascun uomo la parte maggiore dell’anima ed è per sua natura mai sazia di ricchezze; per tale motivo va tenuta d’occhio perché non si riempia dei cosiddetti piaceri del corpo, e, aumentata di forza e di dimensioni, non rinunci ad assolvere al proprio compito e cerchi invece di assoggettare e di sopraffare le altre due facoltà che non hanno nulla a che vedere con il suo genere, in tal modo sovvertendo il sistema di vita di tutti”. “Va bene”, disse. “E poi – aggiunsi – non è forse vero che queste facoltà farebbero l’interesse dell’anima e del corpo custodendoli dai nemici esterni nel modo migliore, l’una con la sua capacità di decidere, e l’altra con la sua capacità di combattere e la disponibilità ad obbedire alla parte che comanda, dando coraggiosamente esecuzione alle sue deliberazioni?” “E’ davvero così”. Platone, Repubblica, 435 A-442 B, a cura di G. Reale, Longanesi 226 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “ATENIESE: Ascoltami bene. Fra i vari generi di costituzione, due sono simili a delle madri, in quanto non sarebbe errato sostenere che gli altri tipi traggono origine proprio da essi. Di questi l’uno indubbiamente si può chiamare monarchia; e l’altro democrazia. E il prototipo del primo genere è la costituzione dei Persiani, mentre quello del secondo è il nostro modello di costituzione. Come ho detto, le altre forme di governo, quasi per intero, sono variazioni di queste. Ora, se si vuol salvaguardare la libertà e la concordia insieme alla saggezza, è assolutamente necessario che lo stato abbia parte di ambedue le forme: ed è esattamente questa la tesi che il nostro discorso vuole sostenere quando afferma che mai una città potrebbe essere ben amministrata se prescinde da tali tipi di governo. CLINIA: Certo, e come potrebbe? ATENIESE: Una società ha prediletto la forma monarchica, l’altra ha scelto la libertà; ambedue, però, sono andate oltre il segno, al punto che nessuna ha saputo mantenere la giusta misura.” Platone, Leggi, III, 693 D-E, a cura di G. Reale, Longanesi Nel mito della caverna il prigioniero liberato, una volta giunto al traguardo del suo cammino ascendente e aver goduto del Sole, decide di ridiscendere nella caverna per rivelare la sua scoperta ai suoi compagni, liberarli e portarli all’aria aperta. Il ritorno del prigioniero nella caverna è il simbolo dell’impegno politico. In altre parole, per Platone, è dovere di tutti gli uomini, e soprattutto di chi tra loro si è più elevato interiormente, impegnarsi per rendere più giusta la propria “Città”, cioè lo Stato di cui si fa parte. Ma perché l’impegno politico è un dovere? Per rispondere a questa domanda Platone si pone, innanzitutto, un’altra domanda preliminare: perché ci sono gli Stati? Come sono nati? Perché, risponde Platone, gli individui umani nascono con una serie di bisogni materiali (mangiare, bere, dormire, coprirsi, ecc.) e non sono in grado di soddisfarli individualmente, o quantomeno da soli potrebbero soddisfarli in modo molto più limitato e precario. Di conseguenza gli uomini si associano in base alla regola sociale della divisione del lavoro: un uomo coltiva, un secondo alleva, un terzo produce il pane, un altro ancora costruisce le case, ecc. e poi tutti si scambiano tra loro i diversi prodotti del lavoro di ognuno. Una volta che si è così formata una vasta comunità, sorge la necessità di regolamentare tutti i 227 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE rapporti reciproci tra gli uomini che ne fanno parte e quindi di decidere quali regole di convivenza adottare, ovvero nasce lo Stato. A questo punto, Platone si chiede: cosa permette il miglior funzionamento dello Stato?, e risponde: la giustizia. In altre parole, uno Stato per conservarsi e funzionare bene deve basarsi su regole/leggi giuste. Dunque, ogni cittadino deve impegnarsi politicamente per fare sì che il proprio Stato sia sempre più giusto altrimenti lo Stato verrebbe meno e con esso la possibilità di sopravvivenza materiale. Ma in cosa consiste allora lo Stato giusto e in che modo si realizza? Per risolvere questo problema, Platone ritiene che si debba innanzitutto delineare chiaramente il modello ideale di Stato giusto, ossia l’Idea di Stato, lo Stato perfetto. A tale scopo, Platone individua la prima condizione dello Stato giusto nel suo isomorfismo con l’individuo umano. In altre parole, poiché lo Stato è un insieme di individui, dovrà avere in grande la struttura interna che ogni individuo ha in piccolo. Insomma, lo Stato deve essere un macrouomo. Ora, poiché, come si è visto, ogni uomo è costituito da un’anima tripartita (razionale, volitiva, desiderante) anche lo Stato dovrà avere un’analoga tripartizione, cioè dovrà essere diviso – sulla base dell’anima prevalente in ogni individuo, cioè della sua dell’indole naturale – in tre classi: 1. quella dei governanti, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima razionale e che dunque possono eccellere nella sapienza; 2. quella dei militari, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima volitiva e che dunque possono eccellere nel coraggio; 3. quella dei produttori, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima desiderante e che dunque possono eccellere nella temperanza. I doveri, cioè le funzioni, di ogni cittadino, secondo Platone, devono differenziarsi a seconda della classe di appartenenza, ossia della propria indole: 1. I governanti devono elaborare le leggi, poiché possedendo la sapienza, cioè la scienza delle Idee, sono i cittadini che possono prendere le decisioni più equilibrate ed efficaci. 2. I militari devono difendere la città dalle aggressioni esterne e devono garantire il rispetto delle leggi e la pacifica convivenza al suo interno, dal momento che possedendo il coraggio sono i più capaci nell’uso della forza. 3. I produttori devono provvedere al soddisfacimento di tutti i bisogni materiali della società, poiché, limitando i loro consumi grazie alla temperanza, sono i più efficienti ed efficaci nella produzione dei beni materiali. 228 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Alla diversità dei doveri deve corrispondere, prosegue Platone, una diversità dei diritti individuali. I produttori possono possedere beni individuali, una famiglia propria e una vita privata. I governanti e i guerrieri, invece, hanno diritto a essere mantenuti sobriamente a spese dello Stato, ma non a possedere beni individuali, una famiglia e una vita privata. Essi possono e anzi devono riprodursi, ma devono allevare ed educare in comune i bambini, senza sapere quali di loro sono i propri figli, allo scopo di evitare la benché minima possibilità di favoritismi. In tal modo, chi ha più doveri, e quindi poteri, deve godere di minori diritti individuali e viceversa. In sintesi, per Platone uno Stato è giusto, e quindi forte, quando ogni suo membro svolge soltanto le funzioni che è più capace di svolgere e gode unicamente dei diritti derivanti dalla funzione che svolge. Solo in questo caso, infatti, le tre classi che lo compongono si integrano e cooperano tra loro nel migliore dei modi, ovvero raggiungono l’armonia. Si tratta, però, di un’armonia basata su un’organizzazione nettamente gerarchica, su una catena di comando che parte dai governanti per giungere ai produttori passando per i militari. A maggior ragione per questo, il cardine della giustizia dello Stato è costituito dal criterio di attribuzione dei diversi individui alle diverse classi. In ultima analisi, uno Stato è giusto, piuttosto che ingiusto, a seconda di come decide se un individuo deve essere governante, militare o produttore. Ribadito che il criterio della scelta devono essere le effettive doti individuali, Platone afferma che spetta ai governanti, sempre in ragione della loro sapienza, il compito di vagliare le doti e quindi di stabilire la funzione di ogni cittadino. Ma egli precisa anche che la scelta dei governanti deve avvenire al termine di una fase di educazione e istruzione pubbliche, basate sulla ginnastica e la musica, di tutti i bambini della città. In altre parole la divisione nelle tre classi, per Platone, deve basarsi sulle attitudini e le vocazioni appurate dai governanti durante un periodo di studio, senza alcuna discriminazione né di nascita né di sesso. Insomma, anche i figli dei produttori o le donne possono entrare nelle prime due classi. Ma per diventare governanti occorre un ulteriore iter di studi – 10 anni di scienze (aritmetica, geometria, astronomia, musica) più 5 anni di dialettica – seguito da un tirocinio di 15 anni. Solo non prima dei 50 anni, e solo se è arrivato al termine dell’iter formativo, superando positivamente tutte le prove, un cittadino può essere ammesso all’esercizio del governo. 229 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In conclusione, secondo Platone, uno Stato è giusto quando tutti i suoi cittadini hanno le stesse opportunità, grazie a un sistema d’istruzione pubblica e obbligatoria per tutti, di comprendere e sviluppare le proprie migliori capacità e, su questa base, di svolgere poi la funzione sociale per la quale sono portati. Ma, come sappiamo, uno Stato così organizzato è l’Idea di Stato. In questo senso, Platone la definisce una utopìa (in greco: in nessun luogo), ovvero uno Stato realizzabile solo se gli uomini fossero dei, dunque di fatto irrealizzabile. Ma allora che senso ha averlo delineato? L’obiettivo della politica non è costruire uno Stato giusto reale, effettivo? Platone risponde che solo sulla base di un modello ideale di Stato giusto è possibile costruire uno Stato giusto reale, in quanto lo Stato giusto reale è quello più simile allo Stato giusto ideale. In base a questa impostazione, Platone, in due tappe successive, elabora delle versioni realistiche dello Stato ideale. Egli sostiene, in prima battuta, che lo Stato reale migliore sarebbe quello basato sul potere discrezionale, cioè non vincolato a regole generali, di un vero “politico”, cioè di un leader carismatico dotato di “virtù e scienza” e capace pertanto di equilibrare secondo “giusta misura” le varie componenti sociali, allo stesso modo di un abile tessitore che intreccia i fili di diverso colore della sua tela fino a comporre un insieme unitario e armonico. Platone però ammette che l’esistenza di un “politico” di questo genere è un evento storicamente più unico che raro. Pertanto, egli arriva a sostenere che è preferibile che gli Stati si basino sul primato delle costituzioni, cioè su insiemi di leggi scritte che limitino e orientino i governanti. Su questa base Platone individua tre possibili forme di governo costituzionali, tanto più positive quanto più i rispettivi governanti rispettano le leggi: 1. la monarchia, cioè il governo di un solo individuo; 2. l’aristocrazia, cioè il governo di pochi più ricchi, ma per questo più istruiti; 3. la democrazia, cioè il governo di tutto il popolo. Quando invece le leggi vengono trasgredite queste forme di governo degenerano nelle loro corrispettive varianti negative: la tirannide, l’oligarchia e l’anarchia. Su queste basi, Platone sostiene che la migliore costituzione realistica è quella monarchica e la peggiore è la tirannide. La prima infatti è la più vicina al modello ideale del “politico”, la seconda la più lontana. In un secondo e ultimo tempo, Platone conclude la sua riflessione politica proponendo un nuovo modello di Stato, ancora più realistico e praticabile, ma anche migliore, della 230 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE monarchia. Si tratta di una città basata su una costituzione mista, cioè sull’equilibrio di tre istituzioni fondamentali, ognuna corrispondente alle tre forme di governo costituzionali, cioè monarchia, aristocrazia e democrazia: 1. un re, che garantisca il principio dell’unità della città; 2. un consiglio dei cittadini migliori, cioè più esperti, che garantisca un governo razionale; 3. un’assemblea di tutti i cittadini, che garantisca la libertà individuale. Il baricentro della costituzione mista è il consiglio “aristocratico”, composto cioè dagli uomini più sapienti, necessariamente una ristretta élite. Pur nello sforzo di aderenza alla realtà storica, Platone conferma così da un lato il sommo criterio della “giusta misura”, ovvero dell’Uno-Bene-Verità-Bellezza, e dall’altro il primato relativo dei sapienti come condizione necessaria della, seppur parziale, realizzazione politica della giustizia. 231 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 9 GOVERNANTI: cittadini in cui prevale l’anima razionale e dunque la virtù della sapienza STATO IDEALE UTOPICO STATO COSTITUZIONALE Decidono ma non possono possedere niente né avere famiglia MILITARI: cittadini in cui prevale l’anima volitiva e dunque la virtù del coraggio Difendono ma non possono possedere niente né avere famiglia PRODUTTORI: cittadini in cui prevale l’anima desiderante e dunque la virtù della temperanza Producono e possono avere proprietà e famiglia MONARCHIA antitesi della GIUSTIZIA = Ogni cittadino deve svolgere solo il suo compito TIRANNIDE ARISTOCRAZIA OLIGARCHIA DEMOCRAZIA ANARCHIA Un RE, che garantisce l’unità STATO BASATO SU COSTITUZIONE MISTA Un CONSIGLIO di esperti, che garantisce la competenza governativa GIUSTIZIA = EQUILIBRIO DEI POTERI DEI 3 ORGANI Un’ASSEMBLEA eletta dal popolo che garantisce la libertà 232 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI PLATONE E LA COSTITUZIONE ITALIANA Il concetto platonico di “costituzione mista” è ancora oggi, seppur solo parzialmente, alla base di tutte le Costituzioni liberal-democratiche, in quanto queste si basano sia sulla compresenza di più organi istituzionali, ognuno dei quali assolve una distinta funzione, sia sul principio della tripartizione dei tre poteri fondamentali (esecutivo, legislativo, giudiziario), secondo il quale ogni potere deve essere autonomo dagli altri due e non interferire con essi. Prendendo come esempio la Costituzione italiana, essa prevede: un Presidente della Repubblica che rappresenta l’unità dello Stato; un Consiglio dei ministri, che svolge la funzione governativa in base alle competenze dei suoi diversi componenti; un Parlamento, eletto dal popolo in sua rappresentanza e dotato del potere di approvare o respingere le leggi, di scegliere, attraverso il voto di fiducia, il Consiglio dei ministri e anche di eleggere il Presidente della Repubblica. E’ facile notare le affinità con la concezione platonica della “costituzione mista”, a maggior ragione perché anche la Costituzione italiana sottolinea la necessità di un equilibrio armonico tra gli organi istituzionali fondamentali e in tal senso attribuisce al Presidente della Repubblica il compito di essere arbitro super partes e moderatore, ovvero di garantire l’equilibrio istituzionale. Tuttavia, non vanno messe in secondo piano le differenze: non solo e tanto quella tra Presidente e Re, dal momento che anche i Re greci erano eletti; quanto quella tra il ruolo preponderante che, secondo la Costituzione italiana, deve avere il Parlamento, e il ruolo preponderante che, invece, per Platone deve svolgere il Consiglio “aristocratico” degli esperti, corrispettivo del Consiglio dei ministri. Inoltre, per quanto riguarda il principio della tripartizione dei poteri, canonizzato da Montesquieu nella prima metà del ‘700 e divenuto presupposto di tutte le costituzioni liberal-democratiche dall’800 in poi, Platone lo abbozza nella sua costituzione mista attribuendo all’assemblea popolare quello legislativo e di controllo, e quello esecutivo al Re e al Consiglio. Platone, però, non separa il potere giudiziario da quello esecutivo, e per questo indubbiamente il suo modello di Stato non può essere considerato, almeno pienamente, quello di uno Stato liberale di diritto, cioè di uno Stato che garantisce il rispetto dei diritti individuali dei suoi cittadini. In tal senso, al contrario, la Costituzione italiana prevede altre due organi istituzionali fondamentali, entrambi di tipo giudiziario: il CSM (Consiglio superiore della magistratura) che deve garantire l’indipendenza dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), e la Corte costituzionale, che deve controllare e giudicare la costituzionalità di tutte le leggi e di tutti gli atti amministrativi, proprio per impedire che siano lesi i diritti individuali e collettivi dei cittadini sanciti dalla Costituzione. 233 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 10 PLATONE: LA SCIENZA DEVE BASARSI SULLA MATEMATICA E [il Demiurgo] diede ad esso [l’universo] una forma che gli era conveniente e affine. Infatti, al vivente che deve comprendere in sé tutti i viventi è conveniente quella forma che comprende in sé tutte quante le forme. Perciò lo tornì arrotondato, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in modo eguale da ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile a sé medesima, ritenendo il simile più bello del dissimile. E lo fece perfettamente liscio di fuori tutto intorno, per molte ragioni. Infatti, non aveva alcun bisogno di occhi, perché al di fuori non era rimasto nulla che fosse visibile; né aveva bisogno di udito, perché non c’era neppure nulla che fosse udibile. […] In effetti, colui che lo costituì pensò che il mondo, con l’essere sufficiente a se stesso, sarebbe stato migliore che non se avesse avuto bisogno di altre cose. Pertanto non credette di dovere inutilmente attaccare mani, con le quali non c’era alcun bisogno di prendere o respingere qualcosa, né piedi, né, in generale, quanto fornisse un servizio per camminare. In effetti, gli assegnò un movimento conveniente al suo corpo: dei sette movimenti gli assegnò quello che soprattutto conviene all’intelligenza e alla saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e, nello stesso luogo e in sé medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare. […] Ora, abbiamo notato che la natura del Vivente è eterna, e questa non era possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Pertanto Egli pensò di produrre una immagine mobile dell’eternità, e, mentre costituisce l’ordine del cielo, dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo. […] Dunque, in base a tale pensiero e ragionamento intorno alla generazione del tempo, ossia affinché il tempo si generasse, furono fatti il sole e la luna e cinque altri astri, che hanno il nome di pianeti, per la distinzione e la conservazione dei numeri nel tempo. E formati i corpi di ciascuno di essi, Dio li collocò nelle orbite nelle quali si muoveva il circuito circolare del Diverso. Essendo sette gli astri, sette sono le orbite. Pose la Luna nella prima intorno alla terra, il Sole nella seconda al di sopra della terra. Lucifero [Venere] e quello che è detto sacro ad Ermes [Mercurio] li fece procedere in un ciclo per velocità pari a quello del Sole, ma avendo in sorte direzione contraria ad esso. Per questo il Sole, il pianeta di 234 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ermes e Lucifero raggiungono il Sole e sono raggiunti l’uno dall’altro nella stessa maniera. […] La maggior parte dell’Idea del divino la realizzò di fuoco, affinché fosse luminosissima e bellissima a vedersi. E facendola simile all’universo la produsse ben rotonda e la pose nell’intelligenza del cerchio più potente [cioè la sfera massima] come suo seguace, e la distribuì in circolo per tutto il cielo, perché fosse un vero ornamento ad esso e vario nella sua totalità. E a ciascuno di questi, poi, assegnò due movimenti: l’uno in sé stesso e nel medesimo modo, in quanto ciascuno pensa sempre in sé le medesime cose; l’altro movimento, invece, in avanti, in quanto ciascuno è dominato dal moto circolare dell’Identico e Simile. E rispetto agli altri cinque movimenti, poi, Egli fece ciascuno immobile e fisso, affinché ciascuno diventasse ottimo in sommo grado. Da questa causa furono generati quegli astri [le stelle del firmamento] che non sono erranti [cioè che differiscono dai pianeti], viventi divini ed eterni, i quali allo stesso modo e nello stesso luogo ruotando stanno sempre immobili. Invece quelli che ruotano ed hanno un siffatto corso errabondo sono stati generati nel modo che s’è detto prima. La Terra, poi, nostra nutrice, stretta intorno all’asse che si estende attraverso l’Universo, Egli la costruì custode ed artefice della notte e del giorno, la prima e la più antica fra gli dei, quanti sono stati generati dentro al cielo. Platone, Timeo, 33B-40 C, a cura di G. Reale, Longanesi Nell’ambito della sua riflessione filosofica a 360° gradi, Platone non solo si occupa di ricerca scientifica, confrontandosi con molti grandi scienziati della sua epoca, ma inaugura quel settore della filosofia che oggi si chiama “epistemologia”, cioè teoria della scienza. Epistème è appunto il termine greco che Platone usa per designare la scienza in contrapposizione a dòxa (opinione). Mentre la prima è conoscenza vera per necessità razionale, e quindi è sempre certa, la seconda è solo possibile che sia vera, in particolare se è basata su un’esperienza metodica, e dunque rimane sempre incerta, cioè solamente probabile. P.e., secondo Platone è scienza che la somma degli angoli interni di tutti i triangoli sia 180°, mentre è opinione che l’oro sia inossidabile. In questa prospettiva, le conoscenze empiriche – fisica, chimica, biologia, ecc. - per Platone sono solo tèchnai, cioè arti pratiche, saperi tecnici (oggi diremmo know how), ovvero non sono vere ma “verosimili”, cioè approssimate al vero. La scienza per eccellenza, la scienza 235 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE suprema, è invece la dialettica, ovvero la scienza delle Idee. Essa è infatti la conoscenza intuitiva totale delle Idee, i principi razionali stabili e perfettamente ordinati di tutta la realtà. Ma, in questo senso, la dialettica come sapere universale, enciclopedico e soprattutto metafisico coincide con la filosofia in senso stretto. Di conseguenza in Platone le scienze vere e proprie, nel significato che oggi diamo a questo termine, sono quelle “dimostrative” – l’aritmetica, la geometrica, l’astronomia e la musica – che pur non basandosi sull’esperienza, si riferiscono però al mondo fisico e si occupano di un oggetto particolare. Il denominatore comune delle quattro scienze platoniche è la matematica: aritmetica e geometria sono matematica pura, cioè indipendente dal mondo fisico, astronomia e musica sono matematica applicata rispettivamente agli astri e ai suoni, cioè a qualcosa di fisico. Ciò significa che per Platone la matematica è il modello della razionalità scientifica, il linguaggio stesso della scienza. Il fondamento metafisico di questa concezione epistemologica è l’organizzazione matematica del mondo delle Idee, dovuta alla derivazione di tutte le Idee da sommi principi dell’Uno, della Diade e dei Numeri ideali (Triade, Tetrade, ecc.). La conseguenza di questa visione è duplice: da un lato per Platone sono scientifiche solo le conoscenze che sono organizzabili matematicamente, cioè che hanno una concatenazione logica interna e una precisione di tipo matematico; dall’altro lato, è possibile matematizzare, e cioè conoscere scientificamente, solo quelle parti della realtà fisica che sono più simili al mondo ideale – ovvero il cielo, che proprio per questo è il luogo degli dei, e i suoni armonici anch’essi connessi alla dimensione celeste. Per il primo aspetto, Platone dà un contributo di enorme importanza al futuro sviluppo della cultura scientifica occidentale, incentrato appunto sull’utilizzo e lo sviluppo della matematica. Sotto il secondo aspetto, invece, oppone un forte limite allo sviluppo della ricerca scientifica. Egli infatti diffonde la convinzione che le conoscenze “terrestri” – fisica, chimica, biologia, ecc. – non sarebbero mai potute diventare scientifiche a causa dell’intrinseca irriducibilità alla matematica dei loro rispettivi oggetti. In parole più semplici, Platone sostiene che, poiché il mondo fisico terrestre è troppo diverso dal mondo delle Idee, in esso domina l’irregolarità e dunque non può essere conosciuto matematicamente, ovvero non se ne può fare scienza. Pertanto la fisica, la chimica, la biologia non potranno mai basarsi sulla matematica e assurgere così al rango di scienze. 236 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Tuttavia, più in generale, Platone favorì il successivo sviluppo della scienza moderna proprio grazie alla sua teoria delle Idee, cioè diffondendo la tesi che un concetto mentale può essere più vero di un’osservazione sensibile, ossia che l’elaborazione teoricomatematica deve prevalere sull’esperienza dei sensi. Infatti, come avrebbe potuto altrimenti Galileo Galilei – solo per fare un esempio – intuire e sostenere che una piuma e una roccia cadono con la stessa accelerazione? E sostituire, per provarlo, l’esperienza naturale con l’esperimento, cioè con l’osservazione di una realtà artificiale, razionalmente progettata, e quindi molto diversa da quella percepibile solo con i sensi? Nell’ambito delle scienze platoniche, basate sulla matematica, assume un particolare rilievo l’astronomia, che di fatto assurge a modello della scienza platonica. Essa infatti appare a Platone sia come la più significativa possibilità di matematizzare la realtà, e quindi di costruire una scienza fisica, sia come il miglior modo di confermare la natura divina degli astri sulla base della regolarità matematica dei loro moti. In questo senso, Platone elabora innanzitutto una sua cosmologia rifacendosi sia alla cosmologia della scuola pitagorica sia a quella della scuola di Mileto. Dai pitagorici Platone riprende la forma sferica del cosmo, della Terra e dei pianeti, e insieme la circolarità dei moti celesti. Ma mentre i pitagorici avevano sostenuto che tutti gli astri ruotano intorno a un fuoco sacro centrale, una specie di super-Sole, Platone fa proprio il geocentrismo dei filosofi milesii. Secondo Platone, pertanto, il cosmo è composto dalla Terra, immobile al centro, da 7 “pianeti” (in greco “erranti, vagabondi”) – Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno – e dalle stelle del firmamento che sono infisse nel cielo, cioè nella parte interna della grande sfera che racchiude l’intero universo. Tutti i corpi celesti ruotano intorno alla Terra. Il loro moto è finalizzato all’esistenza e alla misurazione del tempo. In più, il moto del Sole causa l’alternanza del giorno e della notte e quella delle stagioni. Il tempo scandito dai moti astrali, e dunque circolare come loro, a sua volta, secondo Platone, è l’imitazione da parte del mondo fisico dell’eternità propria del mondo ideale. Sulla base di questa impostazione cosmologica Platone si propone di costruire un’astronomia scientifica. Egli chiede agli scienziati dell’Accademia di elaborare una 237 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE descrizione matematica dei moti astrali mantenendo fermo il postulato della circolarità e dell’uniformità – cioè della velocità costante – di tutti i moti celesti. L’impresa risulta facile per quanto riguarda i moti stellari. Infatti, osservando il cielo stellato notturno è possibile verificare che ogni stella presenta un moto circolare e uniforme da est verso ovest, che dura 24 ore, simile cioè a quello giornaliero del Sole10. La faccenda si complica invece per quanto riguarda i “pianeti”. Questi, infatti, oltre al moto giornaliero da est verso ovest, presentano anche un altro moto di durata annuale da ovest verso est, che non sembra affatto né circolare né uniforme. In particolare ciclicamente essi (a eccezione del Sole e della Luna) sembrano rallentare, fermarsi, tornare indietro curvando, fermarsi e, infine, riprendere accelerando la direzione originaria.11 Proprio per questo i Greci li avevano chiamati “vagabondi”, perché ciclicamente nel corso dell’anno solare “uscivano” dalla loro orbita circolare e si muovevano in modo irregolare. La sfida lanciata da Platone è raccolta e vinta dal matematico Eudosso, autore della prima teoria matematica del funzionamento del cosmo, ovvero il padre dell’astronomia come scienza vera e propria. Ogni pianeta, secondo Eudosso, è incastonato su un punto della circonferenza maggiore di una grande sfera trasparente che ruota su se stessa e il cui asse è infisso su una seconda sfera più grande, anch’essa ruotante su se stessa e con asse infisso su una terza sfera ruotante più grande con asse infisso su un’ancora più grande quarta ed ultima sfera ruotante. In questo modo l’orbita di ogni pianeta, secondo Eudosso, è la risultante della combinazione dei moti uniformi di quattro sfere concentriche e tra loro collegate, aventi però ognuna un’inclinazione dell’asse e un periodo di rotazione differenti. In questo modo Eudosso, utilizzando unicamente moti circolari uniformi, riesce a descrivere matematicamente i moti orbitali irregolari di Sole, Luna e pianeti, utilizzando in tutto 27 sfere (3 per il Sole e 3 per la Luna, 4 per ogni altro pianeta, più la sfera massima delle stelle fisse). In realtà le orbite descritte dal modello di Eudosso non coincidono perfettamente con quelle osservabili, soprattutto nei casi di Venere e Marte, ma la buona approssimazione complessiva consentiva di considerare la teoria più che soddisfacente. Dobbiamo, inoltre, considerare che l’epistemologia contemporanea ha raggiunto la consapevolezza che nessuna teoria scientifica è mai in grado di coincidere perfettamente con la realtà. Una teoria scientifica è sempre “approssimata”, il suo valore dipende dal grado di approssimazione. 10 Oggi sappiamo che è un moto apparente dovuto alla rotazione della terra da ovest verso est. Oggi sappiamo che ciò è dovuto al fatto che percorrendo le loro orbite ciclicamente i pianeti sorpassano la Terra o sono sorpassati da essa. 11 238 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In questo senso, la teoria astronomica di Eudosso, benché molto meno approssimata alla realtà dell’attuale teoria della relatività di Einstein, risulta pienamente scientifica in quanto la sua struttura di fondo è la stessa della teoria della relatività di Einstein: un insieme di figure geometriche e relazioni aritmetiche applicabili alla descrizione dei movimenti osservabili di corpi in modo tale da isolarne e coglierne l’ordine, che altrimenti rimane nascosto dall’apparente irregolarità della sola osservazione sensibile. In altre parole, la teoria astronomica di Eudosso è scienza in quanto cerca – come qualsiasi teoria scientifica attuale – di ricondurre la realtà osservabile a regolarità di tipo teoricomatematico. 239 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 10 Tutti gli astri sono sferici Tutti gli astri hanno moti circolari uniformi La Terra è ferma al centro del cosmo Il cosmo è racchiuso da una grande sfera che ruota intorno al proprio asse da est ad ovest a velocità costante Le stelle “fisse” sono attaccate alla sfera e questo spiega il loro moto giornaliero da est a ovest, circolare e uniforme I 7 “pianeti” (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno) sono attaccati sull’equatore di sfere trasparenti concentriche che hanno direzioni, velocità e assi differenti I 7 pianeti hanno 2 moti: 1) quello giornaliero circolare uniforme come le stelle fisse; 2) quello annuale non circolare né uniforme che però è la risultante dei moti di più sfere che girano sul proprio asse a velocità costante. 240 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO ROGER PENROSE: LA MATEMATICA GUIDA LA RICERCA SCIENTIFICA Il motivo di questo convincimento è che quanto più sondiamo i fondamenti del comportamento fisico tanto più scopriamo che esso è accuratamente controllato dalla matematica. Inoltre, questa matematica non è solo di diretta natura computazionale (cioè fatta di calcoli, ndr), ma ha un carattere profondamente sofisticato, in cui è possibile scorgere una sottigliezza e una bellezza non visibili nella matematica che è importante per la fisica a un livello meno fondamentale. Quindi, il progresso verso una più profonda comprensione fisica, se non può essere guidato dettagliatamente dall’esperimento, deve basarsi sempre più sull’abilità di apprezzare la rilevanza fisica e la profondità della matematica, e di “fiutare” le idee appropriate per mezzo di una valutazione di estetica matematica profondamente sensibile. R. Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, 2005, p. 1026 241 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VI VIAGGIO LA RAZIONALITA’ ESSENZIALE 242 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… L’IDEALISMO IMMANENTE La filosofia aristotelica si può considerare una riforma in senso immanentistico dell’idealismo di Platone. Aristotele, infatti, da un lato, tiene ferma la svolta metafisica del suo maestro – cioè la tesi secondo cui esiste una realtà puramente razionale fondamento di quella fisica –, dall’altro lato, avvicina e integra, almeno parzialmente, realtà razionale e realtà fisica. In questo senso, il punto di partenza di Aristotele è senz’altro la critica alla trascendenza assoluta delle Idee platoniche. Queste, secondo Aristotele, non sono in grado di fornire una spiegazione razionalmente soddisfacente del mondo fisico: in primo luogo, perché, essendo del tutto separate da esso, non possono esserne il principio generativo e, in secondo luogo, perché, essendo fisse e immutabili, non sono in grado di rendere conto del suo mutamento, cioè della caratteristica fondamentale del mondo fisico. Non a caso, Platone, per spiegare la generazione del mondo fisico, era dovuto ricorrere a un “mito”, cioè a un racconto verosimile, e, di conseguenza, aveva dovuto negare la possibilità di costruire una scienza del mondo fisico. Aristotele, al contrario, pensa che si possa e si debba fare scienza anche del mondo fisico e cioè spiegare razionalmente la sua esistenza e il suo mutamento. Per raggiungere questo obiettivo, Aristotele immanentizza le Idee, trasformandole in “essenze”, cioè in principi di organizzazione razionale interni a tutte le cose fisiche e dunque tutt’uno con esse. D’altra parte, come si vedrà, egli non rinuncia del tutto alla razionalità metafisica, teorizzando l’esistenza di un intelletto divino trascendente, che, però, in quanto meta finale irraggiungibile di tutte le cose fisiche, non solo interagisce con esse ma costituisce la spiegazione ultima della loro esistenza e del loro divenire. In questo modo, grazie al suo idealismo immanentistico, Aristotele valorizza e promuove – a differenza di Platone – la ricerca scientifica anche a livello della fisica, della chimica, della geologia, della meteorologia e della biologia. Egli però svaluta la matematica non considerandola più, come il suo maestro, un requisito indispensabile di ogni vera scienza. Pur con questo limite, Aristotele riuscì a dare alla sua filosofia una ampiezza e una profondità enciclopediche – spaziando dalla metafisica alle scienze della natura, dall’etica alla politica, dalla psicologia alla logica, dalla retorica all’estetica – imponendosi nella storia del pensiero filosofico e scientifico come uno dei riferimenti fondamentali. 243 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO ARISTOTELE Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, piccola colonia ionica al confine con il regno di Macedonia, a circa 55 km dall’odierna città greca di Salonicco. Suo padre Nicomaco era un medico di talento, tanto da diventare il medico di corte di Aminta re di Macedonia, padre di Filippo II. Da ragazzo, pertanto, Aristotele visse a Pella, capitale del regno di Macedonia, e fu stimolato dal padre ad interessarsi agli studi medico-biologici. Rimasto orfano ancora adolescente, Aristotele fu affidato a un parente che, a diciotto anni, lo fece entrare nell’Accademia, diretta in quel momento da Eudosso, poiché Platone era andato per la seconda volta a Siracusa. La scuola platonica era ormai diventata il più importante centro culturale della Grecia dove si incontravano e dibattevano tra loro tutti i più importanti filosofi, scienziati e intellettuali greci, e non solo quelli di orientamento platonico. Aristotele vi rimase venti anni, fino alla morte di Platone, formandosi in base a contributi enciclopedici e diversificati, emergendo ben presto come il più brillante tra i giovani allievi (tanto da meritarsi l’appellativo di “mente”) e imponendosi poi come il più intelligente e determinato critico della teoria platonica (tanto che le sue critiche riecheggiano in uno dei più importanti dialoghi di Platone, il Parmenide, dedicato appunto alla verifica e alla revisione della teoria delle idee). Lasciata l’Accademia, Aristotele soggiornò e insegnò prima a Asso (vicino a Troia) poi a Mitilene (isola di Lesbo), dove si dedicò anche a ricerche scientifiche, soprattutto di tipo biologico. In questi primi anni di insegnamento autonomo, Aristotele sposò Pizia, nipote di Ermia, tiranno di Atarneo che apprezzava la filosofia platonica, ed ebbe da lei una figlia. Strinse inoltre amicizia con Teofrasto che divenne il suo più stretto discepolo. Dal 343 al 338, Aristotele visse a Pella, alla corte di Filippo II il Macedone, in qualità di precettore del figlio Alessandro. Rimasto vedovo di Pizia, ebbe un figlio, Nicomaco, dalla più giovane Erpillide, forse sua seconda sposa, sicuramente sua convivente fino alla morte. Nel 335 tornò ad Atene dove fondò, grazie al sostegno di Alessandro Magno, una sua scuola, il Liceo (il nome deriva dal tempio di Apollo Licio, che si trovava vicino al ginnasio sede della scuola; “licio” significava “dei lupi”, nel senso di “uccisore dei lupi”), che di lì a poco divenne più importante dell’Accademia fino a oscurarla. Poiché Aristotele usava insegnare passeggiando con i suoi discepoli nei prati circostanti alla scuola, questa prese anche il nome di Peripato (“passeggiata”) e i discepoli di Aristotele quello di peripatetici. Nel 323, in seguito alla morte di Alessandro Magno, Aristotele subì la reazione politica del partito antimacedone: accusato pretestuosamente di empietà si tramanda che abbia dichiarato: “Non voglio che gli ateniesi commettano un secondo crimine contro la filosofia”. Veritiero o meno che sia questo aneddoto, è certo che, a differenza di Socrate, Aristotele si sottrasse al processo fuggendo a Calcide (in Eubea) e lasciando la direzione del Liceo all’affezionato discepolo Teofrasto. 244 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Morì nel 322, un anno dopo il suo pupillo Alessandro. Le opere di Aristotele sono suddivisibili innanzitutto in due tipi: 1) opere destinate alla pubblicazione: ce ne rimangono solo alcuni titoli (Grillo o Sulla retorica, Protrettico, Sulla Filosofia, Sulle idee, Intorno al Bene, Eudemo o Sull’anima) e alcuni frammenti; 2) opere destinate all’insegnamento all’interno del Liceo, ovvero appunti di lezioni orali: ci sono pervenute quasi tutte e gran parte di esse furono scritte quando ancora Aristotele era nell’Accademia, ovvero contemporaneamente ai dialoghi della maturità e della vecchiaia di Platone. Queste ultime sono: • • • • • • • • Metafisica, in 14 libri, esposizione della “filosofia prima”, chiamata “metafisica” (in senso letterale “dopo la fisica”, perché libro successivo a quello dedicato alla Fisica; in senso metaforico, “al di là del mondo fisico”, perché tratta della realtà puramente razionale) nel I secolo a.C. da Andronico di Rodi, primo curatore della sua pubblicazione; Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche, tutti trattati di argomento logico, che dalla tarda antichità furono pubblicati insieme con il titolo di Organon (“strumento”); La fisica, Il cielo, La generazione e la corruzione, La meteorologia, contenenti la teoria fisica; Sull’anima, trattato di psicologia, contenente la teoria dell’anima e della conoscenza; Etica nicomachea, Etica eudemia, Grande etica; Politica; Poetica, Retorica; Storia degli animali, Le parti degli animali, Il moto degli animali, La generazione degli animali. 245 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ ESSENZA E ACCIDENTE L’essente si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento a una unità e a una realtà determinata. L’essente, quindi, non si dice per mera omonimia12, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in cui diciamo “medico” tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto possiede la medicina o in quanto a essa è per natura ben disposto, o in quanto è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che si dicono nello stesso modo di queste. Così, dunque, anche l’essente si dice in molti sensi, ma tutti in riferimento a un unico principio. Aristotele, Metafisica, IV, 2 Il problema da cui prende avvio la filosofia di Aristotele è quello, di origine platonica, di come connettere l’essere puramente razionale, inteso come fondamento unitario e immutabile di tutto il reale, con il divenire, cioè con il mondo fisico in quanto molteplice e in perenne mutamento. Per affrontare questo problema, Aristotele innanzitutto articola la ricerca filosofica in due branche: la “filosofia prima”, che in seguito fu chiamata “metafisica”, ovvero teoria della realtà sovrannaturale: essa è indagine conoscitiva dei principi fondamentali generali della realtà nella sua totalità; le “filosofie seconde”, che corrispondono a ciò che noi oggi chiamiamo “scienze”: esse sono le indagini conoscitive dei principi fondamentali particolari di singoli aspetti della realtà. La filosofia prima indaga l’ “essente” (o essere), cioè ogni cosa esistente solo in quanto dotata della proprietà dell’esistenza, senza considerare nessun’altra proprietà specifica. In questo senso, la domanda fondamentale della filosofia prima è: “che cos’è l’essente in quanto essente?”. 12 “Essente” ( o “essere”) non è solo una medesima parola che si attribuisce a cose del tutto diverse, come nel caso di più persone che si chiamano Mario Rossi. 246 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Secondo Aristotele, l’ “essente”, cioè tutto ciò che esiste, è molteplice e diversificato. Eppure, al tempo stesso, tutte le innumerevoli e differentissime cose esistenti hanno un denominatore comune, condividono cioè una stessa proprietà fondamentale. Aristotele chiama tale proprietà “essenza” (ousìa, tradotto impropriamente in latino “substantia” e quindi altrettanto impropriamente in italiano “sostanza”). Dunque, l’essente in quanto essente per Aristotele è l’essenza. Ma, a sua volta, cos’è l’essenza di ogni cosa? In cosa consiste? Aristotele risponde: l’essere un’unione di forma e di materia. In altre parole, ogni “essente” è diverso da ogni altro, ma tutti gli essenti possiedono una stessa costituzione o struttura di base in quanto sono tutti dei composti di un principio formale e di un elemento materiale. Per esempio, una goccia d’acqua è diversissima da un elefante, ma entrambi questi essenti, in quanto essenti, sono composti di un certo tipo di materia e di un certo tipo di forma. In quanto composto di due elementi, l’essenza, per Aristotele, si definisce a tre livelli: 1. come materia (hyle, hypokeìmenon): è il supporto o il riempimento dell’essenza, ovvero l’elemento di per sé passivo, amorfo, meramente virtuale che, lasciandosi modellare dalla forma, le conferisce una concretezza spazio-temporale; 2. come forma (eìdos, morphé): è la modalità di determinazione dell’essenza, ovvero il principio attivo, organizzativo, puramente intellegibile che, modellando la materia in un certo modo, le conferisce un ordine razionale; 3. come intero (synolon, letteralmente “tutto insieme”): è l’essenza nella sua totalità e completezza, cioè l’essenza in quanto compenetrazione e fusione di forma e materia, ovvero come “essente” reale, cioè come una singola cosa realmente esistente. Facciamo degli esempi attuali: riguardo a un atomo, la materia per Aristotele sarebbe la sua massa/energia; la forma il numero di protoni, neutroni ed elettroni, la loro disposizione e le loro proprietà e relazioni matematiche; l’intero il loro insieme, cioè appunto un singolo atomo di un certo elemento chimico, p.e. il ferro. Oppure, in una cellula del corpo umano la materia sarebbe il protoplasma, la forma il suo DNA, l’intero la cellula stessa come protoplasma organizzato dal DNA. I 3 livelli dell’essenza benché tutti indispensabili, non hanno la medesima importanza ontologica, cioè non danno lo stesso contributo alla sua esistenza. Secondo Aristotele tra di essi vige la seguente gerarchia ontologica: la materia è essenza al grado minimo, dal momento che è la sua componente passiva e irrazionale, cioè meno qualificata e qualificante; 247 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’intero è essenza a un grado intermedio, perché, pur rappresentando la totalità concretamente individuale dell’essenza, non ne è il principio determinante; la forma è essenza al massimo grado in quanto, grazie alla sua razionalità, è il principio di determinazione, cioè di organizzazione/ordinamento, senza il quale non ci sarebbero “essenti”. Ma, stabilito che l’essenza è per eccellenza “forma”, anche la risposta alla domanda “che cos’è l’essenza” ripropone una nuova domanda: in cosa consiste la forma e quali sono i diversi tipi di forme? Aristotele classifica le forme in tre gruppi, da quelle più generali a quelle più particolari: 1. le 10 categorie: qualità (p.e. liscio), quantità (pesa 1 chilo), relazione (l’abbronzatura è un effetto della luce solare), l’agire (io parlo), il subire (io sono urtato), il luogo (in casa), il tempo (alle 16), l’avere (ho due mani), lo stare (sono in piedi) e infine la stessa essenza, che è la categoria principale, in quanto tutte le altre si riferiscono a essa (p.e.: il tavolo è liscio, la borsa pesa 1 chilo, ecc.); 2. i generi: p.e. animale, vegetale, minerale, vivente, mortale, etico, politico, colore, ecc.; 3. le specie: p.e. rosa, uomo, razionale, inossidabile, quadrupede, sincerità, monarchia, verde, ecc. In questo senso, per fare ancora un esempio, Socrate è: l’essenza come intero, in quanto singolo individuo diverso da Platone o Democrito, che è necessariamente caratterizzato dalle 10 categorie (esiste, è alto 1,70 m, pesa 70 kg, ha la barba, cammina, è marito di Santippe, è condannato a morte, ecc.); l’essenza come materia in quanto muscoli, sangue, ossa, ecc.; l’essenza come forma, in quanto “uomo”, cioè “animale mammifero bipede a deambulazione eretta, ecc., dotato di ragione”. Da quanto detto, e in particolare dall’ultimo esempio, risulta con maggiore evidenza il primato dell’essenza formale. Infatti, in primo luogo, la conformazione della materia dell’uomo, cioè il suo corpo, dipende dalla sua forma di “animale mammifero...”, così come il fatto che la materia dell’albero sia legno e non granito dipende dalla sua specifica forma. In secondo luogo, la forma “animale dotato di ragione” è la componente fondamentale dell’uomo, e quindi anche di Socrate, perché ne costituisce l’elemento identitario decisivo, ciò che lo distingue da tutti gli altri tipi di essenti. Lo stesso ragionamento vale, p.e., per l’oro in quanto “metallo inossidabile di colore giallo”, e per ogni altro essente. 248 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Risulta ancora più chiaro che cos’è l’essenza e perché la forma è la sua parte più rilevante, considerando ciò che costituisce l’opposto dell’essenza. Aristotele lo chiama “accidente”, volendo intendere una caratteristica casuale e accessoria di qualcosa. P.e., è essenziale che Socrate sia intelligente, è accidentale che abbia o non abbia i capelli o la barba; è essenziale che abbia un’altezza, è accidentale che sia alto 1.65 piuttosto che 1.70; è essenziale che abbia i polmoni, accidentale che li usi per parlare o per suonare la tromba. Le forme essenziali di qualcosa sono necessarie e invarianti nel senso che, p.e., senza l’intelligenza o la circolazione sanguigna doppia un uomo non sarebbe un uomo. Gli accidenti di qualcosa, invece, sono possibili e variabili nel senso che, p.e., senza la barba o con un naso piccolo anziché grande un uomo sarebbe comunque un uomo. Dunque, l’essente (o essere), cioè la realtà, per Aristotele si suddivide in essenze e accidenti. Benché, in quanto casuali e accessori, possiedano un grado inferiore di essere, gli accidenti nella filosofia aristotelica svolgono una funzione importante perché sono ciò che dà alle forme e alle materie una configurazione individuale, ovvero che le rende degli “interi”. Infatti, la differenza fondamentale tra l’essenza come intero e l’essenza come forma o come materia è che la prima è individuale, cioè è un essente unico e irripetibile (p.e., Socrate), la seconda è universale, cioè è una proprietà comune a tutti gli individui di uno stesso tipo (p.e. bipede). In questo senso Aristotele distingue: le “essenze prime” gli interi, cioè le essenze unite alla materia e individualmente configurate grazie all’aggiunta degli accidenti; le “essenze seconde” le forme, cioè le essenze pure e universali. Le essenze seconde, tuttavia, per Aristotele non esistono come tali, cioè non sono realtà universali trascendenti rispetto alla materia e ai singoli essenti, cioè alle “essenze prime”. Le forme, insomma, esistono solo nell’unione con la materia e dunque all’interno di un intero (o essenza prima) che, come tale, è sempre configurato individualmente tramite l’aggiunta di una molteplicità di accidenti. D’altra parte, sostiene Aristotele, se non sono universali reali, le forme sono universali mentali, cioè concetti, in quanto, come si vedrà meglio più avanti, l’intelletto umano ha la capacità di astrarle dagli essenti e di isolarle mentalmente nella loro razionalità pura e universale. 249 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ POTENZIALITA’ E ATTUAZIONE E’ attuazione l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come diciamo che l’oggetto è potenzialità. Noi diciamo che una cosa è potenziale nel senso che, per esempio, Ermete [inteso come la statua del dio Ermete] è presente potenzialmente nel legno o la semiretta è presente potenzialmente nella retta intera, perché può essere staccata da essa. Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048ab Secondo Aristotele, il mutamento è una proprietà fondamentale e universale della realtà. In altre parole, tutte gli essenti non sono mai identici a se stessi, ma cambiano in ogni istante e incessantemente. Compito decisivo della filosofia prima, ovvero della metafisica, deve essere comprendere e spiegare il continuo cambiamento della realtà. Aristotele comincia ad affrontare questo compito distinguendo quattro modalità di mutamento: 1. il mutamento essenziale, cioè quello che consiste nel cambiamento dell’intera essenza individuale di qualcosa: la nascita e la morte, la generazione e la distruzione; 2. il mutamento qualitativo, cioè quello che consiste nel cambiamento delle proprietà qualitative di qualcosa: il trascolorare delle foglie in autunno, l’innamorarsi di qualcuno, la trasformazione del bruco in farfalla, ecc. 3. il mutamento quantitativo, cioè quello che consiste nel cambiamento delle proprietà quantitative di qualcosa: diminuzione del peso, aumento dell’altezza, crescita della conoscenza, potenziamento della forza muscolare, ecc. 4. il mutamento spaziale, cioè quello che consiste nel cambiamento del luogo in cui qualcosa si trova: tutti i tipi di movimento di ogni cosa. Dopo aver così analizzato e approfondito i diversi aspetti del mutamento, Aristotele affronta il problema decisivo: perché tutto muta? Che cosa fa mutare tutti gli essenti? La soluzione di Aristotele si basa sulla sua teoria dell’essenza, e segnatamente dell’essenza come forma. Ogni essente possiede una sua forma essenziale, cioè un principio organizzativo che lo contraddistingue, ovvero che ne costituisce l’identità più propria. P.e.: “animale razionale” per un individuo umano, “metallo inossidabile” per l’oro, “insetto volante con ali colorate” per la farfalla, ecc. Ma la forma essenziale di ogni cosa non è una proprietà statica, ovvero non è una caratteristica che qualcosa possiede nello stesso modo 250 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE fin dalla nascita e che conserva invariata fino alla morte. Al contrario la forma essenziale è una proprietà dinamica, ovvero è una caratteristica che ogni essente acquisisce gradualmente nel corso di un lungo processo. In questo senso, afferma Aristotele, i principi fondamentali del mutamento sono i corrispettivi dinamici dei tre principi dell’essenza, i quali, reciprocamente, sono i corrispettivi statici dei tre principi del movimento. In altre parole per Aristotele l’essenza è: dal punto di vista statico Materia Intero Forma dal punto di vista dinamico Potenzialità Attuazione Compimento Ciò significa che l’essenza di ogni cosa: in un determinato istante, cioè astraendo dal suo mutamento nel tempo, consiste nella sua materia, nella sua forma e nel suo intero di forma e materia; intesa come processo che si svolge nel tempo, consiste nella sua potenzialità, nella sua attuazione e nel suo compimento finale. In cosa consistono precisamente i 3 principi dell’essenza da un punto di vista dinamico? La risposta aristotelica è la seguente: 1. la potenzialità, cioè la materia in senso dinamico, indica innanzitutto lo stato di privazione di una forma, cioè di un tipo/grado di ordine, ma anche, in secondo luogo, la possibilità/capacità di conseguire tale forma, cioè un’organizzazione razionale di tipo/grado più elevato; 2. l’attuazione, cioè l’intero (materia + forma) in senso dinamico, è lo svolgimento del processo di formazione - cioè di sempre maggiore e migliore organizzazione - di un singolo essente, che consiste nell’acquisizione in successione di una serie di forme di grado progressivamente superiore che superano le carenze della potenzialità; 3. il compimento, cioè la forma in senso dinamico, è il raggiungimento da parte di un singolo essente della sua forma massima, cioè del suo grado di organizzazione più elevato, che coincide con la piena acquisizione di quella forma peculiare che ne costituisce l’identità e che coincide al contempo con la sua perfezione relativa. 251 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Prendiamo come esempio un uomo. L’ovulo materno e lo spermatozoo paterno sono la materia/potenzialità dello zigote (cioè della prima cellula nata dalla fusione dei cromosomi materni e paterni) che ne è la forma/attuazione; lo zigote, a sua volta, è la materia/potenzialità dell’embrione che ne è forma/attuazione; e così via allo stesso modo per le coppie successive di embrione/neonato, neonato/bambino, bambino/adolescente, ecc. Questo esempio permette di evidenziare che ogni stadio del processo è al tempo stesso attuazione/forma del precedente e potenzialità/materia del successivo. Naturalmente ogni stadio successivo, inteso come forma/attuazione, implica l’acquisizione di una molteplicità di proprietà formali (p.e. respirare, succhiare, camminare, parlare, leggere, ecc.) e di proprietà accidentali (p.e. peso 3 chili, poi 5, poi 10, fino a 70) che sono proprio ciò che costituiscono il fenomeno del mutamento. Poiché la forma essenziale dell’uomo per Aristotele è l’intelligenza, il compimento di un uomo è l’adulto nel momento in cui raggiunge il suo più alto livello di conoscenza. Il massimo sviluppo dell’intelletto è la perfezione relativa dell’uomo, ovvero è la capacità per cui la specie umana è migliore di tutte le altre specie di animali. Secondo Aristotele, però, il mutamento presuppone un “fondamento” invariabile. Infatti il mutamento è sempre relativo a una permanenza, cioè può esistere e manifestarsi solo per differenza rispetto a qualcosa che non muta. Per Aristotele, il fondamento immutabile del mutamento è la materia in quanto supporto o sostrato (hypokeìmenon, substantia) delle forme. Inoltre, afferma Aristotele, ogni processo di mutamento è programmato in modo necessario dalla forma ultima o compimento, che, come tale, è fisso e permanente. In altre parole, il compimento precede e preordina le forme che via via vengono acquisite per arrivare ad esso. P.e., il mutamento dell’individuo umano dallo zigote all’adulto intelligente è fin dall’inizio organizzato e programmato nella successione, nei modi e nei tempi dal suo compimento che dunque ne costituisce un fondamento invariante. Su queste basi, Aristotele può confutare la tesi di Parmenide secondo la quale il divenire non è razionalmente accettabile perché implica l’esistenza del nulla. Secondo Aristotele, infatti, l’essenza, sia come materia sia come compimento, in quanto fondamento immutabile rende l’essere permanente. Dunque il divenire implica sì un non-essere relativo – la potenzialità in quanto non-essere completo, cioè in quanto essere carente – ma mai un non-essere assoluto, cioè assenza completa di essere, in quanto è sempre un non-ancora-essere completo, ossia qualcosa che sta diventando essere completo e deve necessariamente diventare essere completo. 252 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Aristotele sintetizza la sua teoria del mutamento sostenendo che tutti i mutamenti si spiegano in base a 4 tipi di cause: 1) la causa formale; 2) la causa materiale; 3) la causa efficiente; 4) la causa finale. Le prime due si riferiscono alla forma e alla materia, ovvero all’essenza dal punto di vista statico, e come tali sono le condizioni di sussistenza di ogni cosa. La terza e la quarta causa sono i corrispettivi della potenzialità e dell’attuazione/compimento. Infatti per Aristotele: • la causa efficiente – ciò che noi intendiamo per “causa”, ovvero l’azione fisica che provoca un mutamento – è il presupposto materiale o condizione di base che rende possibile un cambiamento, p.e. il concepimento per un neonato; • la causa finale – ciò che costituisce lo scopo di un mutamento – è il fattore causale determinante perché fa sì che un cambiamento potenziale si realizzi, cioè diventi reale, p.e. il conseguimento dell’intelligenza per il neonato. In conclusione, secondo Aristotele, la causa fondamentale di ogni mutamento è il fine per cui esso avviene e, insieme, ogni mutamento avviene sempre per conseguire un fine. E poiché i fini coincidono con le attuazioni e i compimenti ciò implica che l’attuazione/compimento preceda e sia più importante della potenzialità. Utilizzando un comune modo di dire, per Aristotele la gallina viene prima ed è più importante dell’uovo non solo e non tanto perché è la gallina che fa l’uovo ma soprattutto perché l’uovo viene prodotto ed esiste per diventare gallina, cioè di raggiungere la sua perfezione relativa. 253 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 ARISTOTELE: DIO E’ LA CAUSA FINALE DEL COSMO Ma, sebbene esista una causa motrice e produttrice, se essa non è in attuazione non ci sarà movimento, poiché ciò che ha la potenzialità di passare all’attuazione può anche non passare all’attuazione. […] Ma c’è di più: pur ammettendo che la causa sia in attuazione, non ci sarà ugualmente attuazione se questa causa sia per essenza potenzialità: infatti, in questo caso, sarebbe impossibile l’eternità del mutamento, perché ciò che è potenziale può anche non essere. Ecco perché è indispensabile che ci sia un principio la cui stessa essenza sia l’attuazione. Aristotele, Metafisica, XII Come si è visto, secondo Aristotele, il mutamento è un carattere fondamentale della realtà. Infatti, l’essenza – il principio universale e determinante di tutte le cose – consiste in un processo di autoperfezionamento di tutti gli essenti che si svolge nel tempo come continuo passaggio dalla potenzialità all’attuazione fino al compimento finale. Ciò spiega, per Aristotele, perché tutto muta in ogni istante, continuamente. L’essenzialità e la perennità del mutamento, a loro volta, permettono di comprendere perché c’è il tempo e che cos’è il tempo. Esso, afferma Aristotele, è “la misura del mutamento secondo il prima e il poi”. In altre parole il tempo è, per così dire, il “metro” del mutamento, cioè lo strumento che ci permette di misurare, e quindi pensare, il mutamento. In questo senso il “prima” e il “poi”, cioè la successione cronologica, sono i criteri fondamentali del tempo come “metro” del mutamento. Per esempio posso pensare la crescita di un bambino solo sapendo che un anno fa (prima) era alto 1.20 e ora (poi) è alto 1.26. Se conoscessi solo le due misure della sua altezza ma non il loro ordine di successione nel tempo, ovvero la loro relazione di continuità cronologica, non potrei concepire il loro mutamento, ma solo la loro differenza. Aristotele, dunque, connette strettamente mutamento e tempo. Su questa base egli si chiede: il mutamento, e quindi anche il tempo, è finito o infinito, cioè eterno? La sua risposta è che il mutamento e il tempo sono eterni. Perché? Perché, argomenta Aristotele, se il mutamento/tempo avesse un inizio non potremmo fare a meno di pensare al “prima” del suo inizio; se inoltre avesse una fine non potremmo fare a meno di pensare al “dopo” la sua fine. Ma ciò comporta che ci debba essere un 254 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE mutamento/tempo prima del suo inizio e dopo la sua fine, il che è assurdo. Dunque il mutamento e il tempo sono eterni. Ciò stabilito, Aristotele si chiede se c’è una causa prima del mutamento eterno e, se ci fosse, come e cosa potrebbe essere. Per rispondere Aristotele prende in considerazione un tipo particolare di mutamento, quello spaziale, ovvero il moto. Egli sostiene che il moto di tutti gli essenti ha sempre una causa esterna, cioè un “motore”. In questo senso tutti i moti possono essere pensati come una lunghissima catena di motori e mossi, ossia di cause ed effetti, in cui ogni causa è l’effetto di una causa precedente e ogni effetto la causa di un effetto successivo: p.e., il sole è motore/causa dell’evaporazione, l’evaporazione delle nuvole, le nuvole delle piogge, le piogge delle frane, le frane della fuga degli abitanti di un villaggio, ecc. Aristotele si chiede: percorrendo a ritroso, cioè di effetto in causa, la catena causale dei moti, possiamo o non possiamo arrivare a una causa iniziale di tutti i moti? La questione può essere esemplificata ipotizzando un tentativo di ricostruzione dell’albero genealogico di tutta l’umanità, ovvero: risalendo di figlio in padre/madre arriveremmo a una coppia iniziale da cui è derivata tutta l’umanità oppure no? La risposta di Aristotele è: sì, ci deve essere necessariamente una causa iniziale ovvero un “motore” cosmico (nell’esempio, una coppia padre/madre di tutta l’umanità). Perché? Perché, risponde Aristotele, in caso contrario bisognerebbe ipotizzare una risalita all’infinito di effetto in causa senza mai fermarsi. Ma per Aristotele ammettere un tale regressus ad infinitum equivale a sostenere che non c’è alcuna causa iniziale e quindi che nessun moto fisico è possibile, il che è assurdo perché smentito dall’esperienza. In questo modo Aristotele ritiene di aver dimostrato che deve esserci una causa prima, ovvero un primo motore, di tutti i moti cosmici. Il problema, a questo punto, è comprendere quali caratteristiche deve avere questo primo motore per essere tale. Aristotele argomenta che esso deve essere: • eterno: poiché il mutamento, e quindi anche il movimento, è eterno, la sua causa prima deve essere eterna, ovvero deve svolgere eternamente la sua azione causante; • immobile: perché se si muovesse dovrebbe essere mosso da qualcos’altro, ovvero essere l’effetto di un’altra causa, ma allora sarebbe un motore “secondo”, il che è contraddittorio; • attuazione/compimento totali: dal momento che se fosse anche potenzialità a) si dovrebbe muovere, ma ciò sarebbe in contraddizione con la sua necessaria immobilità; b) non eserciterebbe da sempre la sua azione motrice ma ciò sarebbe in contraddizione con l’eternità dei moti; 255 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE pura forma, cioè un’essenza immateriale: poiché dire che non possiede potenzialità equivale a dire che non possiede materia; • perfezione assoluta: perché solo qualcosa che è assolutamente perfetto non ha bisogno di passare dalla potenzialità all’attuazione/compimento, cioè non ha bisogno di migliorarsi. Tirando le somme di questa serie di argomentazioni, Aristotele arriva a concludere che il primo motore è “Dio”, in quanto perfezione, eternità, immaterialità sono le caratteristiche proprie della divinità. Dio dunque, per Aristotele, esiste necessariamente in quanto causa prima o motore primo del mutamento cosmico. • Ma, si chiede ancora Aristotele, in che modo Dio può essere motore del mutamento cosmico se, come si è visto, è immobile e immutabile? Se fosse causa “efficiente” dovrebbe appunto fare qualcosa, cioè mutare e muoversi, il che non è possibile. Dunque non può essere causa efficiente. Però può essere causa finale, perché, in quanto perfezione assoluta, Dio costituisce la condizione che tutti gli essenti vorrebbero raggiungere. Dio, afferma Aristotele, attira a sé tutte le cose come l’amato attrae l’amante. In altre parole, tutte le cose desiderano essere come Dio e dunque tendono a lui. Questa tensione spiega il loro continuo ed eterno mutamento, spiega cioè perché c’è un mondo fisico e perché tutte le cose fisiche passino incessantemente dalla potenzialità all’attuazione per raggiungere il loro compimento. Ciò significa che secondo Aristotele il senso dell’universo fisico è la tendenza a migliorarsi per imitare il più possibile la perfezione divina. Non ancora pago dei risultati raggiunti dalla sua riflessione, Aristotele si chiede ancora in che cosa consista la perfezione divina, cioè il compimento assoluto di Dio. Più semplicemente: che cos’è Dio? La risposta di Aristotele è: puro pensiero, pura attività pensante, intelligenza totale, razionalità assoluta. Ma cosa pensa allora Dio? E’ assurdo, afferma Aristotele, che pensi qualcosa di meno perfetto e meno completo di lui. Chi infatti si occuperebbe di cose vili potendo occuparsi di cose eccelse? Di conseguenza Dio può solo pensare sé stesso, cioè è “pensiero di pensiero”. Ciò, però, non significa che la sua intelligenza sia, per così dire, tautologica, cioè non faccia altro che replicare sé stessa. Aristotele, infatti, precisa che l’intelligenza divina pensandosi si coglie come intellegibile ovvero come essenza. In altri termini, pensandosi, Dio si distingue in pensante e pensato, atto conoscitivo e contenuto della conoscenza. Il pensato, pur essendo l’altra faccia del pensante, cioè pur essendo tutt’uno con esso, tuttavia se ne differenzia come “essenza”, cioè come il principio che struttura il cosmo naturale, essendo il denominatore comune di tutti gli essenti. E poiché l’essenza in Dio può essere solo essenza seconda, cioè forma, in quanto Dio non ha nulla di materiale, Dio è pensiero completo e immediato della totalità 256 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE delle essenze seconde o forme che, organizzando la materia, costituiscono l’universo naturale. Al termine della sua indagine, dunque, la filosofia prima o metafisica giunge a scoprire che esiste un essere perfetto immateriale e che le essenze formali non esistono solo in unione con la materia ma anche allo stato puro in quanto contenuti del pensiero divino. 257 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI FINALISMO ARISTOTELICO E TEORIA DEL “PRINCIPIO VITALE” Uno dei maggiori problemi, per non dire enigmi, della scienza contemporanea è quello dell’origine della vita. Per quanto fino a ora sappiamo, la vita è emersa sul nostro pianeta tra 4,4 miliardi di anni fa, quando la Terra fu ricoperta d’acqua, e 2,7 miliardi di anni fa, età cui risale la prima prova della fotosintesi. Non solo, come è noto, nessun scienziato è finora riuscito a produrre artificialmente in laboratorio un organismo vivente, ma non esiste attualmente nemmeno una teoria condivisa dell’origine della vita dal momento che la comunità scientifica ha elaborato molte e assai differenti ipotesi (compresa quella della “panspermia”, cioè dell’arrivo della vita da altri pianeti), nessuna delle quali è ritenuta soddisfacente. In compenso, sono ritenute attendibili le stime sull’ordine di non probabilità della nascita della vita sulla Terra: le probabilità contrarie ad essa sarebbero dell’ordine di 10 elevato a 40.000. E’ abbastanza nota, a questo riguardo, la battuta del fisico Fred Hoyle: “Le probabilità che un processo casuale metta insieme un essere vivente sono analoghe a quelle che una tromba d’aria, spazzando un deposito di robivecchi, produca un Boeing 747 perfettamente funzionante”. Benché numerosi scienziati non si lascino impressionare da questa stima e sostengano che, dato un periodo sufficientemente lungo di tempo, risorsa di cui certo l’universo non sembra scarseggiare, la vita è nata per combinazioni casuali di elementi chimici, vi sono altri scienziati che la pensano diversamente. Questi pensano che, anche concedendo un lasso di tempo pari all’età dell’universo (13,7 miliardi di anni), l’origine casuale della vita sia ampiamente improbabile. Come alternativa, essi ipotizzano che l’universo includa, fin dal suo inizio, un “principio vitale”, cioè una legge specifica (accanto alle altre leggi fisiche, come quella gravitazionale o quella quantistica) che lo fa evolvere verso la vita. In altre parole, per questi scienziati, come per Aristotele, lo sviluppo dell’universo sarebbe finalistico, salvo che il fine ultimo dell’universo non sarebbe un Dio immutabile e trascendente ma la vita mutevole e del tutto immanente. Va chiarito che l’ipotesi del “principio vitale” non ha nulla a che vedere con quella del cosiddetto “disegno intelligente”, che invece, avvicinandosi maggiormente ad Aristotele, sostiene che la vita si può spiegare soltanto con un finalismo teologico, dovuto cioè all’azione creatrice consapevole di un Dio trascendente. I sostenitori del “principio vitale”, infatti, ritengono che il finalismo biologico dell’universo sia una legge impersonale intrinseca all’universo stesso. Per approfondire: P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007. 258 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 ARISTOTELE: IL COSMO E’ DIVISO IN CELESTE E TERRESTRE Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e incorruttibili, esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano della generazione e della distruzione. Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver minor conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su quanto aneliamo di sapere. Quanto invece alle cose corruttibili, piante e animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di ambiente. […] Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza. […] Non si deve dunque nutrire un disgusto infantile verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali c’è qualcosa di meraviglioso. Aristotele, De partibus animalium, 15 La “fisica” aristotelica, o “filosofia seconda”, è la scienza del cosmo fisico, ovvero la “scienza della natura” (physis in greco significa natura). Essa comprende tutte le scienze empiriche particolari, come astronomia, meteorologia, chimica, botanica, zoologia, ecc. Per Aristotele due sono i principi costitutivi del cosmo fisico: • la materia, intesa come una sostanza tridimensionale amorfa e disorganizzata; • Dio, inteso come intelligenza immateriale e perfezione assoluta. Sia Dio sia la materia sono eterni, cioè senza inizio e senza fine, e interagiscono dall’eternità. Ciò comporta, secondo Aristotele, che anche il cosmo sia eterno e immutabile nel suo insieme, ovvero che sia sempre stato e che sempre persista così com’è, cioè con lo stesso ordine complessivo. Infatti, la materia da sempre e per sempre è attratta dalla perfezione divina e dunque si dà una forma, ovvero un’organizzazione razionale, passando incessantemente dalla potenzialità all’attuazione/compimento. Il cosmo per Aristotele è una sfera. Per lui, dunque, lo spazio è di dimensioni finite ed è assoluto, cioè costituisce un sistema di riferimento univoco per stabilire le posizioni, le direzioni e le velocità dei movimenti di tutti i corpi. I punti cardinali di tale sistema sono il centro della sfera – ovvero il punto più basso – e la superficie della sfera cosmica (la volta celeste) – ovvero l’insieme dei punti più alti. In relazione ad essi è possibile determinare l’altezza/bassezza di ogni luogo e la posizione di qualsiasi cosa per qualsiasi osservatore. Nel Cielo – la superficie interna della sfera che racchiude il cosmo – sono infisse le stelle del firmamento. La sfera celeste contiene al suo interno altre 55 sfere concentriche 259 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE trasparenti. Sull’equatore di 7 di esse sono infissi i 7 pianeti, tutti sferici, nel seguente ordine ad altezza crescente: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Il centro del cosmo è occupato dalla Terra, sferica anch’essa, il cui punto centrale coincide con il punto centrale, e dunque più basso, del cosmo. L’intero cosmo è spazialmente diviso in due regioni, caratterizzate da elementi naturali e leggi fisiche diverse: • la regione celeste, ovvero divina, che va dalla sfera della Luna al Cielo; • la regione terrestre, ovvero umana, che va dalla sfera della Luna al centro della Terra. La regione celeste è costituita da un solo elemento naturale, l’etere, e non è caratterizzata da alcun tipo di mutamento (nascita-morte, alterazione, accrescimento-diminuzione), ad eccezione del movimento circolare uniforme, causato dall’attrazione verso Dio/motore immobile, immateriale e quindi “al di là” del Cielo. Più precisamente, le sfere celesti ruotano intorno al proprio asse perché sono mosse da divinità/motori immobili, in successione gerarchica dall’alto verso il basso. Esse cercano di imitare la perfezione di Dio/primo motore, producendo il moto relativamente più perfetto, perché più simile alla immobilità di Dio. Il moto circolare uniforme, infatti, è un movimento fisso, che avviene cioè nello stesso luogo. In questo senso, Aristotele chiama “fisse” le stelle del firmamento perché attribuisce loro un moto giornaliero circolare e uniforme senza alcuna variazione di posizione/distanza di ognuna rispetto alle altre. Chiama invece “pianeti” (“erranti”, “vagabondi”) la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno perché dotati anche di un moto annuale non circolare e non uniforme, benché spiegabile come prodotto della combinazione dei moti circolari uniformi di più sfere trasparenti interdipendenti (secondo la teoria di Eudosso III viaggio, tappa 10). La regione terrestre, per Aristotele, comincia sotto la sfera della Luna (per questo è detta anche sub-lunare) e comprende l’atmosfera, la superficie e il sottosuolo terrestri. Ogni corpo terrestre è composto da 4 elementi: terra, acqua, aria, fuoco, che possono combinarsi ma anche trasformarsi l’uno nell’altro. Di conseguenza nella regione terrestre vi sono tutti i tipi di mutamento: nascita/morte, alterazione, accrescimento/diminuzione, movimento. La causa di fondo di ogni mutamento è sempre la tensione ad avvicinarsi alla perfezione divina. I moti dei corpi terrestri, a differenza di quelli celesti, hanno velocità variabile, sono in origine rettilinei (si incurvano a causa del contatto con altri corpi) con direzione dall’alto verso il basso o dal basso verso l’alto. La velocità originaria di ogni corpo in moto è proporzionale al suo peso, da cui dipende anche la sua direzione verso l’alto o verso il basso. 260 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il peso a sua volta è connesso al fatto che ogni elemento ha un proprio “luogo naturale” e tende quindi a muoversi verso di esso: il fuoco ha il suo luogo naturale sotto la sfera lunare, l’aria nell’atmosfera, l’acqua sulla superficie terrestre, la terra nel suolo e nel sottosuolo. Pertanto, la terra è più pesante dell’acqua, questa dell’aria e l’aria del fuoco. Aristotele, inoltre, distingue i moti terrestri in “naturali” e “violenti”. I primi sono quelli che si dirigono verso il luogo naturale, i secondi quelli che vi si allontanano. I moti “violenti” sono dovuti alle combinazioni/trasformazioni dei quattro elementi che producono gli esseri naturali. P.e. l’acqua, che il calore solare trasforma in vapore, sale verso l’alto e poi torna al suo luogo naturale cadendo come pioggia. In base a questa impostazione, la condizione naturale di ogni elemento, e quindi di ogni corpo, è la quiete. Un corpo/elemento si muove perché e finché è mosso per contatto diretto da un altro corpo. Se un sasso lanciato da un uomo continua a “volare” per un po’, anche quando si è staccato dalla mano umana, è solo perché è temporaneamente “spinto” dall’aria che sposta. Benché sostenga la superiorità ontologica del mondo celeste su quello terrestre, Aristotele attribuisce pari dignità alla conoscenza di entrambi. In altri termini, per Aristotele non solo è possibile elaborare una fisica terrestre come scienza, ma essa ha lo stesso valore conoscitivo della fisica celeste. Anzi, per un aspetto la fisica terrestre è superiore a quella celeste: essa infatti dispone di un numero maggiore di osservazioni empiriche. Nell’ambito della fisica terrestre, Aristotele predilige la biologia, cioè la scienza degli esseri viventi. In particolare, egli può essere considerato il fondatore della biologia, in quanto, da un lato, raccoglie una messe enorme di dati empirici, attingendo sia ai filosofi precedenti sia ai resoconti di cacciatori, pescatori, macellai e allevatori; dall’altro, e soprattutto, per primo li inquadra e lo ordina teoricamente, individuando dei criteri razionali sia di classificazione delle specie sia di spiegazione delle loro diverse morfologie. Il cardine dell’ordinamento teorico aristotelico dei fatti biologici è il concetto di “specie” biologica, chiaramente improntato ai concetti metafisici di “forma” e di “essenza seconda”. Secondo Aristotele, le specie animali non sono classi mentali, cioè astrazioni, ma insiemi reali, cioè esistono come tali, e sono fisse e separate, cioè immutabili nel tempo e non trasformabili l’una nell’altra. Ogni specie è costituita da un insieme peculiare e distinto di forme che ordinano i corpi degli animali facendo in modo che ogni loro parte sia funzionale all’intero. L’insieme di forme che caratterizza ogni specie a sua volta dipende dalla formacompimento della specie, quella finale che rappresenta il raggiungimento della sua perfezione relativa. In questo senso, la teoria biologica aristotelica è più finalistica che mai, perché è appunto la causa finale (la forma-compimento) che spiega non solo nascita, crescita e riproduzione 261 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE di ogni animale, ma anche la sua morfologia. Infatti, per Aristotele, è la funzione che sviluppa l’organo, p.e. è la capacità di volare (una forma) che fa sviluppare le ali delle aquile. In parole semplici, ogni animale ha un certo corpo dotato di certi organi al fine di poter svolgere determinate funzioni (volare, correre, nuotare, arrampicarsi sugli alberi, nascondersi sottoterra, ecc.). Aristotele, inoltre, inventa un criterio semplice per la classificazione delle specie in base alla loro definizione: indicare il loro genere e la loro forma specifica, p.e., l’equino è un mammifero (genere) che cammina poggiando sul suolo un solo dito degli arti (forma specifica). In questo quadro, la matematica per Aristotele è la scienza che studia gli aspetti quantitativi della realtà. Ma, poiché la realtà è anche e soprattutto qualitativa, la matematica è una scienza settoriale come tutte le altre e la sua adozione non è il requisito fondamentale della scientificità della conoscenza. Inoltre, gli enti matematici come tali (linea, triangolo, prisma, ecc.) sono mere astrazioni mentali. I corpi fisici, di conseguenza, non collimano con gli enti matematici ma possono solo esser loro approssimati. Dunque, le misurazioni matematiche degli oggetti reali sono sempre approssimative. Insomma, per Aristotele le scienze possono e devono fare un uso parziale della matematica, ma non possono né devono basarsi solo e soprattutto su essa. 262 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI LA FISICA DI ARISTOTELE E DI EINSTEIN Le divergenze tra la teoria della relatività di Einstein e la cosmologia di Aristotele sono numerose e radicali: per il primo l’universo è omogeneo, le leggi della fisica sono invarianti, ogni corpo è sempre in moto, non vi può essere nessun centro assoluto perché tutti i moti e tutti i luoghi sono relativi, lo spaziotempo è unico e varia per ogni sistema di riferimento, i moti di rivoluzione dei pianeti sono ellittici e accelerati; per il secondo il cosmo è diviso in due regioni differenziate, le leggi della fisica sono duplici, ogni corpo tende alla quiete, vi è un centro assoluto (coincidente col centro della Terra) perché vi sono uno spazio e un tempo distinti e assoluti, i moti dei pianeti sono circolari e a velocità uniforme. A maggior ragione, tuttavia, sono interessanti le convergenze che possiamo notare tra la fisica einsteiniana e quella aristotelica: anche per Einstein, come per Aristotele, l’universo, benché enormemente più grande, è finito e quasi-sferico; inoltre, per entrambi i moti di rivoluzione dei pianeti dipendono da una proprietà dello spazio: per Aristotele dalle sfere concentriche che riempiono lo spazio e trasportano i pianeti, per Einstein dal fatto che la massa solare (come tutte le masse ma maggiormente data la sua maggiore grandezza) incurva lo spazio circostante costringendo i pianeti a seguire una traiettoria curvilinea; infine, a lungo Einstein condivise e difese la teoria dell’universo stazionario, analoga a quella aristotelica dell’universo eterno, contro l’ipotesi della nascita e dell’evoluzione nel tempo dell’universo, e cambiò idea solo di fronte alle prove sperimentali a favore della nuova teoria del big bang. FINALISMO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISMO Per Aristotele le specie biologiche sono eterne come il cosmo: esse sono sempre state così e tali rimaranno sempre, senza nessuna possibilità di una trasformazione di una specie in un’altra. Questa posizione nella storia della biologia si denomina “fissismo”. Come abbiamo visto, abbozzi di teorie evoluzionistiche delle specie viventi sono presenti in Anassimandro, Empedocle e Anassagora. Tuttavia, l’evoluzionismo biologico moderno nasce con Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), il quale teorizzò, con il sostegno di numerose prove empiriche, che gli organismi si mutano nello sforzo di adattarsi all’ambiente in cui vivono e poi trasmettono alla loro prole le mutazioni acquisite in modo tale che, con il passare delle generazioni, una specie può dare origine a un’altra nuova specie. Famoso da questo punto di vista l’esempio-prova delle giraffe, che per Lamarck derivano dall’evoluzione di precedenti equini che nel corso del tempo hanno sempre più 263 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE allungato il loro collo al fine di mangiare le foglie più alte degli alberi, disponibili in quantità più abbondante. Data questa impostazione, benché antitetico al fissismo aristotelico, l’evoluzionismo lamarckiano condivideva la concezione finalistica della natura, e in particolare dei viventi, propria di Aristotele, in particolare la tesi secondo cui è la funzione che sviluppa l’organo (p.e. è l’alimentazione che ha sviluppato il collo delle giraffe). Salvo che per Lamarck, a differenza che per Aristotele, il fine verso cui tende l’evoluzione è l’adattamento sempre maggiore all’ambiente, ovvero la sopravvivenza più duratura e prolifica. Ma la teoria evoluzionistica contemporanea – il cosiddetto “neodarwinismo” – non si basa tanto su Lamarck, quanto appunto su Charles Darwin e la sua famosa opera L’origine delle specie, pubblicata nel 1859. Darwin, infatti, propose, sulla base di una vasta messe di prove empiriche, una teoria dell’evoluzione antitetica a quella di Lamarck perché di impianto non finalistico ma meccanicistico. Secondo Darwin, le specie si evolvono perché la riproduzione dà origine ad alcuni individui caratterizzati da mutazioni casuali rispetto ai loro genitori: se le mutazioni sono vantaggiose nella lotta per la sopravvivenza, gli individui che ne sono portatori si riproducono maggiormente e col tempo danno origine a una nuova specie; se le mutazioni sono svantaggiose, gli individui portatori si estinguono. L’esempio paradigmatico della teoria darwiniana è quello della farfalla Biston betularia nell’Inghilterra dell’800: prima della rivoluzione industriale erano quasi tutte bianche perché si mimetizzavano meglio sul tronco bianco delle betulle salvandosi dai predatori; in seguito all’industrializzazione, i tronchi delle betulle si annerirono e progressivamente le farfalle divennero in maggioranza nere, perché quelle bianche venivano predate mentre le “mutanti” nere, inizialmente rarissime, sopravvivevano e si riproducevano. E’ chiaro che per Darwin l’evoluzione non dipende da un fine, ma solo da variazioni casuali dei caratteri genetici e dalla loro “selezione naturale” di tipo causalistico. In altre parole, caso e necessità anziché finalità. In questo senso, la teoria dell’evoluzione di Darwin è, al contempo, antilamarckiana e antiaristotelica, e rovescia anche la tesi “la funzione sviluppa l’organo”: per Darwin è l’organo, derivato da una mutazione casuale, che sviluppa la funzione (se poi questa è efficace l’individuo sopravvive, altrimenti soccombe). Tuttavia, la teoria darwiniana conferma la tesi aristotelica secondo cui il divenire naturale è un processo di perfezionamento (benché non ciclico ma lineare). Anche l’evoluzionismo darwiniano, infatti, teorizza che le specie si evolvono nella direzione di una maggiore efficacia di adattamento all’ambiente e di migliori prestazioni (fitness). In questo senso, l’evoluzionismo darwiniano mantiene un certo finalismo, salvo che lo considera solo un’apparenza, meglio un’emergenza di una legge più profonda e diversa: è infatti la combinazione di mutazioni casuali e di selezione naturale che produce il perfezionamento delle specie e quindi l’apparente finalismo dell’evoluzione. Come scrive un famoso biologo neodarwinista, Richard Dawkins, la natura è un “orologiaio cieco”. Per saperne di più: R. Dawkins: Il più grande spettacolo della Terra, Mondadori, 2010. 264 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 ARISTOTELE: L’ESPERIENZA E’ INDISPENSABILE ALLA SCIENZA E c’è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c’è un intelletto attuato in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori potenziali colori attuati. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti ciò che agisce è sempre superiore a ciò che subisce e il principio è superiore alla materia […] Separato, esso è solamente ciò che appunto è, e questo solo è immortale ed eterno. Aristotele, L’anima, 5, 430 Per Aristotele, ogni essere vivente, da una margherita a un uomo, possiede un’anima. L’anima è, infatti, l’attuazione della potenzialità di vivere propria del corpo, ovvero il tipo di forma che rende vivente la materia. In altri termini, essa è il principio organizzativo proprio della vita, in sé puramente razionale ma inseparabile dalla fisicità corporea. Aristotele distingue tre tipi di anima, corrispondenti alle tre partizioni fondamentali del mondo biologico: 1. l’anima vegetativa, propria dei vegetali, dotata delle funzioni del nutrimento, della crescita e della riproduzione; 2. l’anima sensitiva, propria degli animali, dotata delle funzioni dell’anima vegetativa e inoltre della conoscenza sensibile, del desiderio e del movimento; 3. l’anima razionale o intellettiva, propria degli uomini, dotata delle funzioni delle anime vegetativa e sensitiva e inoltre di quella della conoscenza razionale, cioè del pensiero. Secondo Aristotele animali e uomini condividono la capacità della conoscenza sensibile. Essa ha il suo presupposto fisiologico nei cinque sensi, ognuno dei quali è preposto a ricevere uno specifico contenuto sensibile: l’udito i suoni, il gusto i sapori, ecc. Ma Aristotele sostiene l’esistenza anche di un “senso comune”, dato dall’interazione simultanea di due o più sensi. Esso registra contenuti sensibili generali legati a più sensi, come il moto, la quiete, la forma esterna, la grandezza. Ogni senso ha la potenzialità di sentire ma questa diventa attuazione del sentire, cioè una sensazione effettiva, se, e solo se, l’organo di senso entra in contatto con un oggetto esterno - direttamente (tatto, gusto) o attraverso un elemento intermedio (la luce per la vista, l’aria per olfatto e udito). La sensazione consiste nella ricezione da parte del senso non dell’oggetto come tale ma della sua forma sensibile. In altre parole sentire significa ricevere 265 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’impronta di una cosa – così come la neve, o la sabbia bagnata, riceve l’impronta/forma della scarpa –, ma non la cosa stessa intesa come oggetto materiale. La forma sensibile viene trasformata in un’immagine mentale dalla facoltà dell’immaginazione. A sua volta l’immagine può essere conservata dalla facoltà della memoria. L’accumulo di immagini memorizzate costituisce l’ “esperienza”. Aristotele afferma che la sensazione è infallibile, cioè certamente vera, quando si basa sul rapporto tra un senso e un suo contenuto specifico immediato, p.e. la vista e la proprietà “giallo”; è invece probabile che sia vera quando si riferisce a un essente come intero cui ineriscono molteplici proprietà oltre a quella del “giallo”, p.e. un girasole; è infine solo possibile che sia vera quando concerne i caratteri sensibili comuni, p.e. il movimento. Per Aristotele, dunque, la conoscenza deve partire dall’esperienza sensibile e non può fare a meno di essa. Ciò significa che senza l’esperienza sensibile la mente umana non può attivarsi e non può dunque avere nessun tipo di conoscenza. D’altra parte la conoscenza sensibile è solo condizione necessaria ma non sufficiente della verità, cioè della scienza. Per arrivare alla verità scientifica la conoscenza deve passare dal livello sensibile a quello razionale, cioè deve entrare in funzione una facoltà mentale superiore, l’intelletto. La funzione dell’intelletto è quella di conoscere la forma razionale della forma sensibile/immagine ricevuta dalla sensazione. L’intelletto, cioè, è la facoltà capace di isolare le forme razionali di ogni cosa, astraendole dagli interi, cioè depurandole e separandole dalla materia e dalle caratteristiche accessorie/accidentali. La forma razionale, ovvero l’essenza formale, isolata a livello mentale, costituisce il concetto. Dunque la conoscenza razionale è conoscenza dei concetti, cioè degli elementi e dei caratteri universali e necessari della realtà. Ciò significa che la verità, ovvero la scienza, consiste per Aristotele nella conoscenza delle proprietà generali, regolari e permanenti delle cose. La materia in sé, cioè priva di forma, e le proprietà individuali, irregolari e variabili delle cose (gli “accidenti”) non possono essere conosciute scientificamente in quanto in se stesse irrazionali. Ma in che modo l’intelletto svolge la raffinata operazione di ricavare la forma razionale dalla forma sensibile? Aristotele afferma che la forma sensibile/immagine ha la potenzialità di offrire la sua forma razionale e che l’intelletto a sua volta ha la potenzialità di riceverla. Ma questa doppia potenzialità non può attuarsi se non grazie all’intervento di una facoltà intellettiva superiore che Aristotele chiama “intelletto attuato”. Esso è conoscenza compiuta, ma non immediatamente cosciente, di tutte le forme razionali/essenze di tutta la realtà. Grazie al suo intervento, l’intelletto potenziale, inferiore 266 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ma autocosciente, attua la sua potenzialità di cogliere la forma razionale/essenza, ovvero isola e conosce il concetto corrispondente a una certa forma sensibile. L’intelletto attuato è comune a tutti gli uomini e dunque nelle menti di tutti gli uomini sono presenti le stesse forme razionali/essenze. Se dunque la conoscenza sensibile è soggettiva e relativa, cioè non scientifica, perché legata all’esperienza di oggetti individuali e pertanto differenti per ogni uomo, la conoscenza razionale è assoluta e oggettiva, cioè scientifica, proprio perché si basa su forme razionali presenti identicamente nella mente di ogni uomo e che inoltre sono le stesse che ordinano e strutturano la realtà naturale. Facciamo un esempio. Guardiamo una penna. In realtà noi non vediamo immediatamente una penna. “Penna”, infatti, è già un concetto, cioè un prodotto della conoscenza razionale, ovvero il risultato finale del processo conoscitivo. A livello di sensazione, quello che noi effettivamente vediamo è un oggetto cilindrico molto allungato, lungo circa 10-15 cm, di diametro inferiore a 1 cm, di colore nero, ecc. In base a questo grappolo di sensazioni la nostra mente, secondo Aristotele, elabora l’immagine o forma sensibile dell’oggetto, cioè una specie di disegno mentale che rappresenta unitariamente le caratteristiche sopra elencate. Questa immagine/forma sensibile viene collegata dall’intelletto potenziale ad altre analoghe conservate dalla memoria e derivate da altre sensazioni di oggetti dello stesso tipo. In questo modo l’intelletto potenziale stimola l’intelletto attuato a fornirgli la corrispondente forma razionale/essenza. L’intelletto potenziale entra in attuazione ricevendo e cogliendo la forma razionale/essenza fornita dall’intelletto attuato. In questo modo l’intelletto conosce il concetto di “penna” e pensa “quella è una penna”. Secondo Aristotele, come si è detto, l’intelletto attuato conosce tutte le essenze formali di tutta la realtà. Poiché l’intelletto potenziale corrisponde alla coscienza individuale, l’intelletto attuato rappresenta una specie di metacoscienza, cioè una coscienza superiore e sovraindividuale, cioè universale. Essendo tale, la coscienza individuale non può averne una consapevolezza immediata e totale. L’intelletto attuato, inoltre, essendo solo attuazione e compimento, è pensiero puro, privo di potenzialità/materia, e dunque ontologicamente distinto dal corpo. In altri termini, mentre l’intelletto potenziale è vincolato al corpo, l’intelletto attuato è separato e indipendente da esso. Ciò significa, sostiene Aristotele, che l’intelletto attuato non è soggetto al deperimento del corpo. Se una persona anziana sembra perdere capacità di conoscenza e pensiero, ciò non è dovuto, secondo Aristotele, all’indebolimento dell’intelletto attuato ma a quello degli organi di senso, cioè del corpo. L’intelletto attuato dunque non è soggetto al divenire e pertanto non solo non muore ma è eterno. Esso è la 267 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE componente divina dell’uomo. Il divino umano, dunque, per Aristotele non consiste nella sua personalità individuale, ma nella sua razionalità universale. 268 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 6 ARISTOTELE: LA SCIENZA E’ RAGIONAMENTO Sillogismo è un discorso (cioè un ragionamento) in cui, posti alcuni dati (cioè le premesse), segue di necessità qualcos’altro distinto da essi, per il solo fatto che questi sono stati posti. E con l’espressione “per il fatto che questi sono stati posti” intendo il conseguire in forza di essi, e ulteriormente con l’espressione “conseguire in forza di essi” intendo il non aver bisogno di alcun termine estraneo in aggiunta perché abbia luogo la necessità. Aristotele, Analitici primi, I, 4 Per quanto siano plurime e diversificate, tutte le scienze, secondo Aristotele, si basano su uno stesso procedimento del pensiero. Aristotele lo chiama “sillogismo”, che in greco letteralmente significa “discorso collegato” o “pensiero concatenato” e che corrisponde a ciò che noi chiamiamo genericamente “ragionamento” e più precisamente “inferenza”. Con questi termini si intende l’operazione logico-linguistica con la quale si ricava una conseguenza da una premessa. P.e., dato un triangolo ne consegue che la somma dei suoi angoli interni sia 180°. Aristotele elabora una scienza degli elementi e modalità del ragionamento che egli chiama “analitica” (in greco, scomposizione in elementi) e che corrisponde a ciò che noi chiamiamo “logica”. L’obiettivo della logica aristotelica è stabilire le regole in base alle quali il ragionamento può conseguire la verità. Dunque la logica, in quanto scienza del ragionamento, è la scienza della verità, più precisamente è la scienza degli elementi e delle regole mentali che ci permettono di conoscere la verità. Ma cos’è per Aristotele la verità? La risposta è semplice: la verità è la copia mentale dell’essente. In tal modo, dopo aver stabilito che l’essente in quanto essente è l’essenza, Aristotele afferma che l’essente in quanto essente è il vero. Ma le due asserzioni non sono discordanti, poiché per Aristotele il vero non è altro che la conoscenza dell’essenza, ossia è il concetto in quanto configurazione mentale dell’essenza. Dunque, gli elementi di base del ragionamento per Aristotele sono i concetti a livello mentale e i termini che li designano a livello del linguaggio. Concetti e termini si corrispondono e insieme corrispondono a loro volta alle essenze seconde (uomo, metallo, bipede, ecc.) cioè alle forme della realtà. In altre parole per Aristotele vi è una corrispondenza tra pensiero, linguaggio ed essere. Questa corrispondenza è colta dalla 269 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “definizione”. Per elaborare la corretta definizione di un termine, afferma Aristotele, bisogna indicare il suo genere prossimo, cioè più vicino, e la sua caratteristica specifica, cioè distintiva. P.e.: la rosa è un arbusto (genere prossimo) fornito di spine ricurve, foglie pennato-composte e fiori profumati e variamente colorati (caratteristiche specifiche). Aristotele, inoltre, distingue ulteriormente i concetti/termini in base a due criteri comuni a ognuno di essi: • l’estensione (o denotazione), cioè l’ampiezza quantitativa dei suoi elementi/casi, ovvero il suo grado di generalità; • l’intensione (o connotazione), cioè il numero e la dettagliatezza delle sue proprietà, ovvero il suo grado di determinazione/specificazione. P.e. “animale” ha più estensione e meno intensione di “canarino” e viceversa. E’ evidente che estensione e intensione sono inversamente proporzionali. La connessione di due o più concetti/termini costituisce a livello mentale un giudizio cui corrisponde a livello linguistico una proposizione. La connessione può essere una congiunzione (“ogni uomo è bipede”) oppure una disgiunzione (“gli uomini non hanno branchie”). In questo senso i giudizi/proposizioni possono essere divisi, dal punto di vista qualitativo, in affermativi e negativi. Inoltre, a seconda dell’estensione del soggetto, dal punto di vista quantitativo, i giudizi/proposizioni si dividono in 3 tipi: 1. universali: quando il soggetto comprende tutti gli elementi di un concetto/termine (p.e. “tutti gli uomini sono bipedi”); 2. particolari: quando il soggetto comprende una parte degli elementi di un concetto/termine (p.e. “alcuni uomini sono calvi”); 3. singolari: quando il soggetto coincide con un solo elemento di un concetto/termine (p.e. Socrate è un filosofo”). I giudizi/proposizioni – a differenza dei termini/concetti – possono essere veri o falsi. Il criterio più generale per stabilire se sono veri o falsi è sempre quello della loro corrispondenza all’essenza formale. In altre parole un giudizio/proposizione è vero se la connessione che stabilisce tra due concetti/termini corrisponde alla connessione delle corrispettive forme reali. P.e.: “ogni uomo è bipede” è vera perché la congiunzione mentale di “uomo” e “bipede” corrisponde alla loro congiunzione reale nell’essenza dell’uomo. 270 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In relazione ai giudizi/proposizioni, Aristotele enuncia la prima regola della logica: il principio di non-contraddizione. Esso è così formulato: non è possibile pensare e affermare, nello stesso tempo e nello stesso senso, che una cosa esista e non esista, né che abbia e non abbia una medesima proprietà. Così definitolo, Aristotele usa il principio di non-contraddizione per classificare 4 tipi di giudizi/proposizioni, così rappresentabili schematicamente: “Tutti gli uomini sono magri” “Nessun uomo è magro” contrarie A subalterne E contraddittorie I subalterne O subcontrarie “Alcuni uomini sono magri” magri” “Alcuni uomini non sono (Le lettere A, I, E, O come contrassegno di ognuno dei 4 giudizi/proposizioni sono una convenzione stabilita dai filosofi medievale, derivante da “A-df-I-rmo” e “n-E-g-O”.) Aristotele stabilisce i seguenti rapporti logici tra i 4 tipi di giudizi da lui individuati: tra giudizi/proposizioni contraddittori : se uno è vero l’altro è necessariamente falso (“Tutti gli uomini sono magri”/”Alcuni uomini non sono magri”; “Nessun uomo è magro”/“alcuni uomini sono magri”); tra giudizi/proposizioni contrari: possono essere uno vero e uno falso (“Tutti gli uomini sono bipedi”/“Nessun uomo è bipede”), ma anche entrambi falsi (come nell’esempio della tabella: A-E); tra giudizi/proposizioni sub-contrari: possono essere uno vero e uno falso (“Alcuni uomini sono bipedi”/“Alcuni uomini non sono bipedi”), ma anche entrambi veri (come negll’esempio della tabella: I-O) tra giudizi/proposizioni subalterni: possono essere o entrambi veri o entrambi falsi (vedi gli esempi della tabella: A-I e E-O). 271 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma come è possibile assicurarsi che un giudizio/proposizione rispecchi l’essenza della realtà e quindi sia vero? In altre parole, in che modo possiamo essere certi che un giudizio/proposizione sia vero? Aristotele risponde che il mezzo per accertarsi della verità di un giudizio/proposizione è il “sillogismo” (letteralmente: “concatenazione”, “collegamento”). Con questo nome Aristotele designa ciò che noi chiamiamo ragionamento (a livello mentale) e argomentazione (a livello linguistico). Secondo Aristotele, un ragionamento/argomentazione deve constare di 3 giudizi/proposizioni che concatenino 3 concetti/termini secondo l’ordine così esemplificato: A. B. C. Tutti gli uomini (b) volano (a) [PREMESSA MAGGIORE - PM] Socrate (c ) è un uomo (b) [PREMESSA MINORE - pm] Socrate (c) vola (a) [CONCLUSIONE – C] Dove: (a) è detto estremo maggiore (EM), (c) estremo minore (Em) e (b) termine medio (TM). Il “termine medio” è così chiamato da Aristotele perché è il termine/concetto che unisce e concatena razionalmente le due premesse e, così facendo, connette i due termini/concetti “estremi”, generando la conclusione, ovvero producendo – si potrebbe dire “partorendo” – una conoscenza aggiuntiva rispetto alle due conoscenze contenute nelle due premesse. In questo senso, per Aristotele le due caratteristiche fondamentali del “sillogismo”, perlomeno di quello “apodittico” (dimostrativo), ossia del sillogismo per eccellenza, sono: la consequenzialità (o coerenza), ovvero la non-contraddittorietà: nell’esempio indicato, non posso concludere “Socrate non vola”, perché questa conclusione sarebbe in contraddizione con le premesse, ossia perché “Tutti gli uomini volano” e “Socrate non vola” sono contraddittorie (in base a quanto stabilito dal “quadrato degli opposti”, tenendo presente che i giudizi/proposizioni singolari sono casi-limite di quelli particolari); la necessità, ovvero la certezza assoluta della conclusione, che proprio per questo, afferma Aristotele, è “apodittica”, cioè indubitabilmente dimostrativa. 272 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La consequenzialità riguarda il contenuto della conclusione, cioè la sussistenza di un rapporto di congiunzione, anziché di disgiunzione (o viceversa) tra i due concetti/termini che la costituiscono. La necessità concerne la modalità della conclusione, ossia il suo grado di certezza, che altrimenti potrebbe anche essere solo quello della probabilità (“E’ probabile che Socrate voli”) o addirittura della mera possibilità (“Forse Socrate vola”, “E’ possibile che Socrate voli”). 273 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 7 ARISTOTELE: LA VERITA’ SI BASA SULLA VALIDITA’ DEL RAGIONAMENTO Chiamo principi in ciascun genere quelli dei quali non è possibile dimostrare che sono. Si assume quindi che cosa significhino i primi principi e ciò che da essi discende; ma necessariamente si deve assumere che i principi sono, e dimostrare invece il resto. Per esempio: si assume che cosa significhino unità o retto e triangolo; ma necessariamente si deve assumere che l’unità o la grandezza sono, e il resto dimostrarlo. Aristotele, Analitici secondi, I, 10 Principio è la premessa immediata di una dimostrazione, ed è immediata la premessa della quale non c’è un’altra premessa che sia anteriore. Premessa è una delle due alternative di un enunciato nel quale un termine è predicato di un altro. E’ dialettica la premessa che assume allo stesso modo qualsivoglia dei due termini [predicabili]; è invece dimostrativa la premessa che assume uno dei due termini in modo definitivo, in quanto vero. Aristotele, Analitici secondi, I, 2 Abbiamo visto che “Gli uomini volano, Socrate è un uomo, dunque Socrate vola” è un sillogismo valido, cioè la cui conclusione è logicamente necessaria, ossia univoca e certa. Ma, ci si potrebbe sensatamente chiedere, se il sillogismo è lo strumento per accertarci della verità di un giudizio/proposizione, com’è possibile che ci porti a concludere che “Socrate vola”, tesi notoriamente falsa, in quanto non rispecchia un’azione reale di Socrate? Aristotele risponde che per comprendere in che modo il sillogismo ci porti alla verità, dobbiamo innanzitutto preoccuparci della sua validità. Cosa intende per validità? La validità di un sillogismo riguarda la sua forma logica pura, cioè consiste nella consequenzialità e nella necessità della conclusione rispetto alle premesse, del tutto indipendentemente dalla loro verità, cioè dai loro contenuti. In questo senso il sillogismo può essere meglio formulato con simboli astratti, in questo modo (utilizzando le lettere dell’alfabeto come simboli dei concetti/termini come indicato convenzionalmente nell’esempio iniziale): B⊂A C∈B C∈A A ..C C B 274 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Questa per Aristotele è la forma perfetta del sillogismo – da lui chiamata “I figura” – in quanto dà sempre luogo ha una conclusione valida. Ma Aristotele considera anche altre due possibilità: quella in cui il termine medio (B) sia predicato in entrambe le premesse (II figura) e quella in cui il termine medio sia soggetto in entrambe le premesse (III figura). Un esempio del sillogismo di II figura è il seguente: A. Tutti gli equini (A) sono quadrupedi (B). B. Tutti i cavalli (C) sono quadrupedi. C. Tutti i cavalli sono equini. Questo sillogismo sembra valido, ma solo perché premesse e conclusione sono vere. In realtà, è invalido perché la conclusione non è consequenziale rispetto alle premesse (cioè è un “non sequitur”). Per comprenderlo consideriamo la formulazione simbolica del sillogismo di II figura e la sua rappresentazione grafico-insiemistica: A⊂B C⊂B C⊂A B A ..C C Le premesse non ci impongono di inserire l’insieme C nell’insieme A, ma solo nell’insieme B. Dunque la conclusione C⊂A è invalida. Tuttavia quando la PM è universale affermativa (p.e.: “Tutti gli equini sono quadrupedi”) e la pm universale negativa (“Nessun uomo è quadrupede”) anche il sillogismo di II figura è valido perché in tal caso la sua conclusione universale negativa (“Nessun uomo è equino”) è consequenziale (basta farne la rappresentazione grafico-insiemistica per vederlo). Invece, un esempio di sillogismo di III figura può essere il seguente: 275 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE A. Tutti i filosofi (B) sono bipedi (A). B. Tutti i filosofi sono uomini (C). C. Tutti gli uomini sono bipedi. Anche in questo caso la conclusione è un non sequitur, cioè è invalida, a dispetto della sua verità. Vediamo perché: A B⊂A B⊂C C⊂A C BB Anche il sillogismo di III figura può essere valido, ma la conclusione deve essere particolare anziché universale (“Alcuni uomini sono bipedi”). Il sillogismo di III figura, però, è particolarmente interessante perché include come sottospecie il ragionamento induttivo, quello che dall’osservazione di un consistente numero di casi singolarti inferisce una proprietà generale. Consideriamo questo esempio: Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele… sono bipedi. Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele… sono uomini. Gli uomini sono bipedi. Da quanto sappiamo, la conclusione universale è invalida. L’unica conclusione valida è particolare: “Alcuni uomini sono bipedi”, e il fatto che il numero dei casi riscontrati aumenti non cambia nulla, a meno che sia possibile osservare e considerare effettivamente tutti i casi (passati e futuri compresi), il che è impossibile perché di numero indefinito. Per questo motivo, secondo Aristotele, un’induzione non può mai arrivare a una conclusione universale ma solo particolare. Questo, però, se ci si attiene alla modalità della necessità, come Aristotele imponeva almeno per i giudizi scientifici. E’ chiaro, però, che i sillogismi sia di II sia di III figura possono essere universalmente validi se rimodulati in base alla possibilità: p.e. “Tutti i cavalli potrebbero essere equini” o “Tutti gli uomini potrebbero essere bipedi”. 276 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Così stabilite le regole di validità del sillogismo scientifico, Aristotele passa a individuare le regole della sua verità, cioè a risolvere il problema: come fa un sillogismo ad essere vero? Naturalmente, la prima regola della verità di un sillogismo è che sia valido. In altre parole, per Aristotele, la validità è condizione necessaria della verità di un sillogismo, ovvero di un sillogismo scientifico. Nessun sillogismo può essere vero se non è valido. Tuttavia, la validità di un sillogismo non è condizione sufficiente perché la sua conclusione sia vera. Qual è allora la seconda condizione della verità di un sillogismo? Perché un sillogismo valido sia anche vero, risponde Aristotele, le sue premesse devono essere entrambe vere. Dunque, sintetizzando entrambe le precedenti regole, secondo Aristotele un giudizio/proposizione è vero quando è la conclusione di un ragionamento valido basato su premesse vere. In questo modo, però, sembra che il problema non sia risolto, ma solo spostato. Infatti come assicurarsi che le premesse siano vere? Basta, risponde Aristotele, che siano conclusioni di altri ragionamenti validi basati su premesse vere. P.e. la premessa “tutti gli uomini sono mortali” è la conseguenza di un ragionamento le cui premesse sono “tutti gli animali sono mortali” e “tutti gli uomini sono animali”. Anche in questo caso, però, sembra si tratti di un ulteriore spostamento sempre più a monte del problema, non una sua effettiva risoluzione. Anzi, addirittura sembra che Aristotele proponga un rimando all’infinito di premessa in premessa. Ma non è così, perché, secondo Aristotele, esistono dei principi primi (definizioni, assiomi, postulati), diversi per ogni scienza, che costituiscono il punto di partenza dei ragionamenti. P.e., per la biologia: “tutti i viventi sono mortali”, ovvero la mortalità è una proprietà essenziale degli esseri viventi. Ma su cosa si fonda la verità dei principi primi? Sull’azione congiunta, chiarisce Aristotele, dell’induzione e dell’intuizione intellettiva. L’induzione (epagoghè), come abbiamo visto, è quel particolare tipo di ragionamento che a partire dall’esperienza di vari elementi/casi singolari inferisce una conclusione generale. P.e. “Parmenide, Socrate, Platone… sono morti”, “Parmenide, Socrate, Platone… sono uomini”, dunque “gli uomini sono mortali”. L’induzione, però, secondo Aristotele, non può mai arrivare a una conclusione davvero universale, cioè vera per tutti gli elementi/casi di una classe di cose. Infatti, per quanto numerose siano le osservazioni, gli elementi/casi osservati sono sempre “alcuni”, mai “tutti”. Ma per Aristotele l’induzione può e deve essere integrata dall’intuizione intellettiva, cioè dalla capacità dell’intelletto umano di cogliere immediatamente e infallibilmente la forma 277 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE essenziale di qualcosa sulla base dello stimolo dell’esperienza. Grazie all’intuizione il giudizio/proposizione particolare “molti uomini sono morti” può trasformarsi in quello universale “tutti gli uomini sono mortali”, che a sua volta, insieme ad altri analoghi, può portare a stabilire che “tutti i viventi sono mortali”. Da questo principio primo possono poi partire le deduzioni, ovvero i ragionamenti che da un giudizio/proposizione universale inferiscono un giudizio/proposizione particolare. Le scienze dunque, secondo Aristotele, consistono in un metodico intreccio di intuizioni, induzioni e deduzioni. Tuttavia, questa impostazione generale, per Aristotele, va diversamente modulata a seconda del tipo di scienza. Le scienze, infatti, afferma Aristotele, si suddividono in due generi: 1. le scienze del necessario – Filosofia prima, Fisica e Matematica – così definite perché il loro oggetto è invariante e che, pertanto, possono utilizzare i sillogismi apodittici (=dimostrativi) e arrivare così a conclusioni univoche e certe; 2. le scienze del possibile – che a loro volta si suddividono in poietiche (retorica, poesia e in genere tutte le arti e le tecniche) e pratiche (etica e politica) – così definite perché il loro oggetto è mutevole, in quanto dipendente dai bisogni e dalle decisioni degli uomini che variano nel tempo, e le quali, di conseguenza, si basano su sillogismi dialettici che permettono conclusioni plurime e solo possibili o probabili. Ma cos’è un sillogismo dialettico? E’ un sillogismo, risponde Aristotele, che, a differenza di quello apodittico, non parte da un’unica premessa certamente vera, bensì da una premessa duplice – p.e. “l’ornitornico è un uccello” e “l’ornitorinco è un mammifero” – in quanto nessuna delle sue due versioni alternative è in grado di escludere la verità dell’altra. In questo senso la duplice premessa dialettica non è necessaria ma solamente “possibile”. Stando così le cose, afferma Aristotele, il sillogismo dialettico si basa sulla scelta della premessa più probabile, cioè quella considerata più attendibile dalla maggioranza degli uomini, oppure dai più esperti. Ma, poiché parte da una premessa solo probabile, il sillogismo dialettico giunge a conclusioni che non sono universali e necessarie, ma particolari e probabili, cioè che possono essere vere in alcuni o molti casi ma non è detto che lo siano in molti o quantomeno in tutti. Per questa loro caratteristica, i sillogismi dialettici per Aristotele sono propri dei contesti conoscitivi dibattimentali, quelli cioè in cui si confrontano tesi (premesse) diverse per metterne alla prova la maggiore o minore attendibilità e scegliere così quella migliore, cioè la più probabile. Benché non nasconda la sua preferenza per il sillogismo apodittico, Aristotele attribuisce tuttavia una funzione importante al sillogismo dialettico in quanto esso per lui non costituisce solo il nerbo metodologico delle scienze pratiche e poietiche ma anche uno 278 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE strumento ausiliario – e, in certi casi, perfino indispensabile – per accertare i principi primi, in particolare le definizioni, delle stesse scienze del necessario o apodittiche. 279 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 8 ARISTOTELE: LA MASSIMA FELICITA’ STA NEL CONOSCERE Ritorniamo al bene che è oggetto della nostra ricerca. Che cosa mai può essere? Infatti appare come una cosa in un’azione e in un’arte, come un’altra in un’altra azione e in un’altra arte: infatti è altro in medicina, in strategia e così di seguito nelle restanti arti. Che cos’è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista del quale si compie il resto? Questo in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in ingegneria la casa, in un’arte una cosa, in un’altra un’altra; ma in ogni azione e scelta è il fine. Infatti è in vista di questo che tutti cpmpiono il resto. Di conseguenza, se qualcosa è fine di tutto ciò che è oggetto d’azione, questo sarà il bene realizzabile nella prassi; e se vi sono più cose, saranno queste. […] Poiché i fini sono manifestamente molteplici e di questi noi scegliamo alcuni a motivo di altro (ad esempio la ricchezza, i flauti e in generale gli strumenti), è evidente che non sono tutti perfetti; invece il bene supremo è manifestamente qualcosa di perfetto. Di conseguenza, se vi è un fine soltanto che è perfetto, questo sarà il bene che cerchiamo; se sono molti, il più perfetto di questi. Ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso diciamo che è più perfetto di ciò che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a motivo di altro diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili e per se stesse e a motivo di altro; pertanto diciamo che è perfetto in senso assoluto ciò che è sempre sceglibile per se stesso e mai a motivo di altro. Ora, una tale cosa tutti ritengono che è soprattutto la felicità. Questa infatti noi scegliamo sempr4 per se stessa e mai a motivo di altro; invece l’onore, il piacere, l’intelligenza ed ogni virtù li scegliamo sì anche per se stessi (infatti sceglieremmo ciascuno di essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio), ma li scegliamo anche in vista della felicità, supponendo che mediante essi saremo felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi beni, né, in generale, a motivo di altro. Aristotele, Etica Nicomachea, I 5 Ora, va detto che ogni virtù, per la cosa di cui è virtù, ha per effetto che essa sia in una buona condizione, e compie bene l’opera di quella cosa. Ad esempio la virtù dell’occhio e rende valido l’occhio e rende valida la sua opera: infatti è grazie alla virtù dell’occhio che vediamo. Parimenti la virtù del cavallo e rende un cavallo valido e lo rende buono a correre ed a portare il cavaliere e a resistere ai nemici. Pertanto, se così stanno le cose in tutti i casi, anche la 280 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE virtù dell’uomo sarà la disposizione da cui un uomo diventa buono e da cui compirà bene la sua opera. Come questo sarà, già l’abbiamo detto, ma in più sarà chiaro anche in questo modo: se consideriamo di che specie è la natura della virtù. Ora, in tutto ciò che è continuo, vale a dire divisibile, si può prendere il più, il meno e l’uguale; e queste determinazioni possono essere o secondo l’oggetto stesso o in relazione a noi. L’uguale è una sorta di medio tra l’eccesso e il difetto. Chiamo medio della cosa il punto che dista ugualmente da ciascuno dei due estremi, punto che è unico ed identico per tutti; chiamo invece medio rispetto a noi ciò che né eccede né difetta. Questo non è unico né identico per tutti. Ad esempio, se il dieci è troppo e il due è poco, si prende il sei come medio secondo la cosa: infatti supera ed è superato di uguale quantità. Questo medio è secondo la proporzione aritmetica. Ma il medio rispetto a noi non va preso così: infatti se per un uomo mangiare dieci mine è troppo e due mine è poco, il maestro di ginnastica non gli prescriverà sei mine; forse infatti anche questa quantità è troppa, o poca per la persona che l’assorbe. Per Milone [famoso atleta] infatti è poca, ma per un principiante di esercizi ginnici è troppa. Parimenti è per la corsa e per la lotta. Così pertanto ogni persona che ha conoscenza fugge l’eccesso e il difetto; invece è il giusto mezzo che cerca ed è questo che sceglie: il mezzo non dell’oggetto, ma in rapporto a noi. Pertanto, se ogni scienza così esegue bene il suo compito, fissando lo sguardo sul mezzo ed indirizzando ad esso le sue opere (donde siamo soliti dire per le opere ben riuscite che non vi è nulla da togliere e nulla da aggiungere, supponendo che eccesso e difetto rovinino la perfezione, mentre la via di mezzo la salvaguardaq, e i buoni artigiani, come diciamo, lavorano fissando lo sguardo sul medio); e se la virtù è più esatta di ogni arte ed è migliore, come pure la natura, allora essa tenderà al medio. Intendo la virtù etica: questa infatti ha per oggetto le passioni e le azioni, e in queste vi sono eccesso, difetto e il mezzo. Ad esempio, avere paura, esser coraggiosi, desiderare, adirarsi, avere pietù, in generale provare delle sensazioni e provare dolore ammettono un troppo e un poco, ed ambedue non vanno bene. Ma provare queste passioni quando si deve e nelle circostanze in cui si deve e verso le persone che si deve e in vista del fine che si deve e come si deve, è realizzare il medio e al tempo stesso l’eccellenza: il che è proprio della virtù. […] La virtù è dunque una disposizione che orienta la scelta deliberata, consistente in una via di mezzo rispetto a noi determinata dalla razionalità, cioè nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio. E’ una medietà tra due vizi, uno per eccesso e l’altro per difetto. E lo è, inoltre, per il fatto che alcuni 281 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE vizi difettano, altri eccedono ciò che si deve sia nel campo delle emozioni sia in quello delle azioni, mentre la virtù è ricerca e sceglie deliberatamente il medio. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 5-6 Il presupposto della teoria etico-politica aristotelica è la tesi secondo cui “l’uomo per natura è un animale comunitario”. La natura comunitaria dell’uomo si realizza innanzitutto nella famiglia, poi nel villaggio e, al più alto livello, nello Stato. Lo scopo dello Stato è realizzare il bene dell’uomo. Poiché la “politica” è la scienza della forma migliore di Stato, essa ha il compito di individuare il tipo di Stato capace di realizzare al massimo grado il bene dell’uomo. Ma poiché l’uomo è innanzitutto un individuo e poiché lo Stato è una unione di individui, la politica dovrà stabilire in primo luogo in cosa consiste il bene di ogni individuo. In altre parole, l’etica (o morale), cioè la scienza del miglior modo di agire individuale, è concepita e sviluppata da Aristotele come premessa della politica, cioè in funzione di essa. Ogni individuo, afferma Aristotele, nel corso della sua vita persegue molti beni, p.e. vincere una gara atletica, sposarsi, fare un viaggio, comprarsi una casa, ecc. Tutti questi beni, però, sono relativi, in quanto da un lato sono obiettivi dell’agire individuale, dall’altro sono mezzi per ottenere altri beni, per esempio vincere una gara per ottenere un premio, sposarsi per avere dei figli, ecc. In questo senso ogni bene si fonderebbe su un altro in un rimando infinito. Poiché tale rimando equivale alla mancanza di qualsiasi fondamento, occorre un bene assoluto, ovvero un fine ultimo di tutti i beni relativi: la felicità. Dunque l’etica è la scienza di che cos’è e di come si consegue la felicità. Poiché l’essenza dell’uomo è la razionalità, la felicità dell’uomo consiste nella virtù intesa come perfezionamento della sua razionalità. Ciò significa che la virtù è il comportamento che permette all’individuo di sviluppare la sua intelligenza al massimo grado. Su questa base Aristotele distingue innanzitutto due generi di virtù: • le virtù pratiche: sono quelle che consistono nel controllo razionale dei desideri sensibili, delle emozioni e dei sentimenti che sono alla base dell’agire quotidiano; • le virtù teoretiche: sono quelle che consistono nell’esercizio dell’intelligenza in quanto tale, ovvero sono le attività razionali fondamentali. 282 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il criterio unico e generale di tutte le virtù pratiche è il “giusto mezzo”. Ciò significa che per Aristotele vi sono due tipi, opposti ma convergenti, di comportamenti sbagliati, cioè di vizi: quello sbagliato per eccesso e quello sbagliato per carenza. P.e., la spericolatezza è un eccesso, la vigliaccheria una carenza. La virtù consiste invece nel comportamento “mediano”, cioè intermedio, p.e. il coraggio in quanto via di mezzo tra spericolatezza e vigliaccheria. Insomma il principio dei vizi è l’esagerazione, quello delle virtù la moderazione. Il criterio del giusto mezzo, per Aristotele, si applica anche e innanzitutto al rapporto tra razionalità e fisicità. Poiché l’uomo è per eccellenza un essere intelligente, ma è pur sempre un animale, cioè è per essenza anche corporeo e sensibile, il comportamento virtuoso include la valorizzazione dei beni materiali. P.e., sul piano economico, è virtù l’agiatezza, intesa come giusto mezzo tra la povertà e la ricchezza. In questo senso Aristotele legittima eticamente anche i piaceri fisici purché naturalmente siano moderati. Le virtù pratiche sono comportamenti adeguati in quanto finalizzati a rendere possibile il miglior esercizio delle virtù teoretiche. In questo senso il criterio della moderazione coincide con quello della funzionalità allo sviluppo dell’intelligenza. Tale sviluppo si attua, secondo Aristotele, a 5 livelli, corrispondenti ad altrettante virtù teoretiche: 1) l’arte: è la capacità razionale di produrre, ovvero la creatività artigianale e artistica, che si manifesta p.e. nella produzione di un vaso, di un tempio, di una poesia, ecc. 2) la saggezza: è la capacità razionale di controllare e guidare desideri, emozioni e sentimenti, dando luogo a comportamenti virtuosi, ovvero è la razionalità che produce le virtù pratiche; 3) l’intelletto: è l’intuizione intellettiva, cioè la capacità razionale di conoscere i principi primi di tutte le scienze; 4) la scienza: è la capacità razionale di dedurre le conseguenze dei principi primi, cioè di trarre da essi delle conoscenze universali e necessarie. 5) la sapienza: è la fusione di intelletto e scienza e come tale è la virtù teoretica più alta, coincidente con la conoscenza totale, ovvero con la conoscenza di tutte le “filosofie seconde”, cioè le scienze, sul fondamento della “filosofia prima”, cioè la metafisica. L’esercizio delle virtù teoretiche, afferma Aristotele, e soprattutto della sapienza, procura all’uomo il massimo grado di felicità in quanto coincide con l’attuazione e il compimento 283 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE della sua eccellenza, cioè la razionalità. In questo senso la vita teoretica, cioè dedita alla conoscenza, è la vita migliore per l’uomo, quella che lo rende simile a Dio. 284 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 9 ARISTOTELE: LO STATO DEVE GARANTIRE PACE E TEMPO LIBERO Guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio, anche in questo campo, come negli altri, si otterranno risultati migliori. Prima di tutto è necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente, per esempio la femmina e il maschio in quanto strumenti di generazione (e tali non sono perché se lo propongono, ma perché è naturale per l’uomo come per gli altri animali e piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a sé), chi è naturalmente disposto al comando e chi è naturalmente disposto ad essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono sopravvivere, perché chi per le sue qualità intellettuali è in grado di prevedere per natura comanda e per natura è padrone, mentre chi, per le doti inerenti al corpo, è in grado di eseguire deve essere comandato ed è naturalmente schiavo, sicché la stessa cosa è vantaggiosa al padrone e allo schiavo. Per natura dunque son distinti la femmina e il servo, perché la natura non fa nulla con la povertà con la quale gli artigiani fabbricano il coltello di Delfi, ma destina ogni cosa a una sola funzione […]. Da queste due comunità sorge prima di tutto la famiglia, sicché giustamente Esiodo disse poetando “innanzitutto la casa, la donna e il bue che ara” […]. La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio. […] La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono, in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine […]. Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo […]. E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quanto non ha legami ed è come una pedina isolata. Perciò è chiaro che l’uomo è animale più socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che viva in greggi. Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è l’unico animale che abbia la favella: la voce è segno del piacere e del dolore e perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore. Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser 285 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così via. È proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la città. […] È dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altri parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma o una belva o un dio. Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, 2003, libro I, capp. 1-2, pp. 71-79 Una volta stabilito qual è e come si raggiunge il fine ultimo di ogni individuo, è possibile per Aristotele affrontare il problema centrale della politica: qual è il miglior tipo di Stato? Per risolvere tale problema Aristotele elabora innanzitutto la seguente classificazione degli Stati storici: obiettivo del governo Fa l’interesse dei governati Fa l’interesse dei governanti n° dei governanti uno alcuni tutti Monarchia Aristocrazia Civicrazia Tirannide Oligarchia Democrazia Tra le forme di governe classificate, Aristotele naturalmente ritiene preferibili monarchia, aristocrazia e civicrazia ma afferma che nessuna di queste tre si può giudicare la migliore in assoluto, bensì che ognuna può essere migliore relativamente a una specifica situazione storico-sociale, p.e. a seconda del grado di civiltà di un popolo o della presenza di uno o più uomini di grande levatura intellettuale ed etico-politica. Tuttavia, Aristotele afferma che per i popoli più sviluppati, in condizioni normali, la forma di Stato mediamente migliore è la “civicrazia”, cioè il governo della comunità civica o cittadinanza, ovvero lo Stato in cui tutti gli individui maschi e proprietari sono considerati cittadini “liberi e uguali” e quindi partecipano alle decisioni e concorrono a pari titolo alle cariche pubbliche. Come tale, la civicrazia rappresenta, secondo Aristotele, il giusto mezzo tra la democrazia e l’oligarchia. Infatti, mentre la democrazia è il governo dei più poveri e l’oligarchia quello dei più ricchi, la civicrazia è il governo della classe media. Mentre poveri e ricchi, essendo classi estreme, 286 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE non possono che avere rapporti conflittuali e sono quindi socialmente portati a governare nel loro esclusivo o preminente interesse, la classe media, essendo una classe intermedia, che quindi intrattiene rapporti economici sia con i ricchi sia con i poveri, è socialmente portata a governare nell’interesse di tutti, perché il suo interesse di classe coincide con gli interessi delle altre due classi. La civicrazia, dunque, secondo Aristotele, realizza al massimo grado la funzione dello Stato che è quella di rendere effettivamente possibile la felicità di ogni individuo. Infatti, per Aristotele, sebbene lo Stato sia un’unione di individui e debba pertanto assumere come proprio fine il fine etico di ogni individuo, cioè la felicità, è la felicità collettiva, garantita dallo Stato, la condizione della felicità individuale e non viceversa. L’individuo isolato, o anche in un piccolo gruppo, non sarebbe in grado di conseguire la felicità, sia perché ha bisogno di una efficace difesa militare e di un’ampia cooperazione socio-economica per raggiungere le migliori condizioni materiali sia perché necessita di leggi e pubblici ufficiali che lo pungolino alla pratica continua delle virtù. Queste, infatti, afferma Aristotele, si acquisiscono soltanto con l’esercizio sistematico, cioè con l’abitudine. Lo Stato dunque ha un primato sull’individuo, analogo a quello del tutto sulla parte. Ma allora cosa deve fare il governo dello Stato per realizzare la felicità collettiva, condizione di quella individuale? Poiché, come ha stabilito l’etica, il grado più intenso di felicità individuale deriva dall’attività conoscitiva, il governo dello Stato, afferma Aristotele, deve rendere possibile la vita teoretica a tutti i cittadini, cioè deve permettere loro di dedicarsi alla conoscenza. Per raggiungere questo scopo lo Stato deve garantire due condizioni fondamentali, strettamente connesse: la pace e il tempo libero. La guerra dunque deve essere finalizzata e limitata alla sola difesa; e i tempi di lavoro devono essere ridotti il più possibile. Se, per questo aspetto, la proposta politica aristotelica appare attuale, va evidenziata invece la sua inattualità per quanto riguarda il principio dell’uguaglianza. Aristotele, infatti, non solo esclude dalla cittadinanza, cioè dal godimento di ogni diritto politico, i residenti non ateniesi (oggi diremmo gli immigrati, anche di seconda o terza generazione), le donne e gli schiavi, ma addirittura teorizza che i “barbari” (cioè gli uomini non greci), le donne e gli schiavi sono inferiori “per natura”. In tal modo Aristotele fornisce una giustificazione scientifica al razzismo, al sessismo e allo schiavismo. 287 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO PAUL DAVIES: LA TEORIA DEL FINALISMO INTRINSECO DELL’UNIVERSO In questa teoria, il carattere propizio alla vita dell’universo deriva da una legge o principio di vasto respiro che costringe l’universo/multiverso a evolvere verso la vita e la mente. La teoria ha il vantaggio di “prendere sul serio la vita”, non trattandola né come una bella sorpresa completamente priva di spiegazione [...], né come un mezzo di selezione puramente passivo [...]. Essa evita la sensazione di “intrigo” che si avverte in D [la teoria del “disegno intelligente” facente capo a un dio personale, ndr], sostituendo a un dio manipolatore (naturale o soprannaturale) un principio finalistico più sottile. In breve, introduce la finalità nei meccanismi del cosmo a un livello fondamentale (invece che accidentale), senza postulare un agente preesistente privo di spiegazione che immetta la finalità in modo miracoloso. P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 335 MICHELE SARA’: GLI ORGANISMI SI SVILUPPANO IN MODO FINALISTICO L’ordine che regola la vita dell’organismo è in primo luogo il risultato di un programma genetico che si trova per intero nello zigote o uovo fecondato, e che è solo parzialmente e diversamente attivato nelle cellule differenziate dell’organismo pluricellulare, a causa della sua modulazione da parte delle reti interattive d’informazione. L’attuazione di un programma prefissato nello sviluppo dell’organismo rappresenta un tipo di finalismo al quale si dà il nome di teleonomico per distinguerlo dal teleologico che presuppone un’intenzione che è tipica delle azioni umane. M. Sarà, L’evoluzione costruttiva, Utet 2005, p. 121 FRITJOF CAPRA: L’ORGANISMO E’ SCHEMA, STRUTTURA E PROCESSO E’ mia convinzione che la chiave per una teoria completa dei sistemi viventi stia nella sintesi di questi due approcci: lo studio dello schema (ovvero di forma, ordine, qualità), e lo studio della struttura (ovvero di sostanza, materia, quantità). […] Per schema di organizzazione intendiamo quella configurazione di relazioni che conferisce a un sistema le sue caratteristiche essenziali. La struttura di un sistema è la materializzazione fisica del suo schema di organizzazione. 288 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Per illustrare la differenza tra schema e struttura, consideriamo un sistema non vivente noto a tutti: una bicicletta. Perché possiamo dare a un oggetto il nome di bicicletta bisogna che esista un certo numero di relazioni funzionali fra componenti che chiamiamo telaio, pedali, manubrio, ruote, catena, corona eccetera. La configurazione completa di tali relazioni funzionali costituisce lo schema di organizzazione della bicicletta. […] La struttura della bicicletta è la materializzazione fisica del suo schema di organizzazione in componenti dotati di una forma specifica, costruiti con materiali specifici. […] In una macchina come la bicicletta le varie parti sono state progettate, costruite e assemblate per formare una struttura di componenti fissi. In un sistema vivente, al contrario, i componenti cambiano di continuo. Un flusso incessante di materia attraversa gli organismi viventi. […] C’è crescita, sviluppo ed evoluzione. […] Questa straordinaria proprietà dei sistemi viventi suggerisce di utilizzare il processo come terzo criterio per una descrizione completa della natura della vita. Il processo della vita è l’attività necessario alla continua materializzazione dello schema di organizzazione del sistema. Dunque il criterio di processo costituisce il legame fra schema e struttura. Nel caso della bicicletta, lo schema di organizzazione è rappresentato dai disegni del progetto che vengono utilizzati per la costruzione, la struttura è l’oggetto materiale costituito da una specifica bicicletta e il legame tra schema e struttura è nella mente del progettista. Nel caso di un organismo vivente, invece, lo schema di organizzazione è sempre materializzato nella struttura dell’organismo, e il legame fra schema e struttura consiste nel continuo processo di materializzazione. Fritjof Capra, La rete della vita, Rizzoli, 1997, pp. 178-179-180 (ed. BUR) 289 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA IL PRIMATO DELLA VITA PRATICA 290 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE CANNOCCHIALE SU… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETA’ ELLENISTICA (323-168 a.C.) Lo sfaldamento dell’impero alessandrino e i nuovi regni ellenistici Il biennio 323-322 a.C., gli anni delle morti successive di Alessandro Magno e di Aristotele, rappresenta lo spartiacque simbolico tra l’età greca classica e la nuova età ellenistica. Sul piano politico, il vasto ma effimero impero di Alessandro si divise in quattro regni principali: il regno di Macedonia (comprendente la Grecia), il regno d’Egitto, il regno dei Seleucidi (Siria, Palestina, Mesopotamia, Persia), il regno di Pergamo (Anatolia occidentale). I nuovi Stati erano monarchie dispotiche in cui gli uomini erano sudditi, cioè erano privi di diritti politici. Anche le poleis greche, pur mantenendo un certo grado di autonomia, persero definitivamente l’indipendenza effettiva e i Greci smisero di essere cittadini e diventarono sempre più sudditi. Se questo, da un lato, comportò una perdita di libertà e di protagonismo politico, dall’altro favorì il superamento della dimensione particolaristica dei Greci a vantaggio di un’apertura cosmopolitica. A questa riorganizzazione verticistica e autoritaria del potere corrispose, tuttavia, una vera e propria rivoluzione culturale. Le dinastie monarchiche dei nuovi regni rivaleggiarono tra loro in mecenatismo, finanziando e promuovendo l’aumento dell’alfabetizzazione e lo sviluppo culturale a tutti i livelli, da quello artistico a quello filosofico, da quello letterario a quello scientifico, da quello religioso a quello tecnologico. Lo scopo di questa politica era duplice: garantirsi il consenso delle élites intellettuali e rafforzare i propri apparati militari. In particolare il mecenatismo delle nuove dinastie monarchiche si manifestò nella costruzione e nella gestione di grandi biblioteche, le maggiori delle quali furono quelle di Alessandria (che arrivò a contenere da 500.000 a 700.000 opere) e di Pergamo, i cui funzionari erano inviati in ogni parte del mondo civile conosciuto allo scopo di procacciarsi i testi che venivano trascritti su fogli di papiro o di pergamena (da Pergamo, dove si produceva) e raccolti in rotoli. La nascita di una nuova cultura cosmopolita Anche grazie al sostegno economico statale, la cultura greca si diffuse in tutto il Medio Oriente contaminandosi e fondendosi con le più antiche culture dell’Egitto, della Palestina, della Siria, della Mesopotamia e della Persia. Il greco divenne così la lingua internazionale degli intellettuali della vasta area geografica che andava dal Mediterraneo orientale all’Indo. Di conseguenza gli intellettuali egiziani, ebrei, babilonesi, persiani cominciarono a tradurre in greco gli scritti religiosi, filosofici, scientifici e letterari facenti parte delle loro tradizioni culturali. Emblematica, in tal senso, fu la traduzione in greco della Bibbia effettuata dagli ebrei. In questo modo, da un lato gli intellettuali Greci assorbirono i patrimoni culturali mediorientali, dall’altro gli intellettuali mediorientali incamerarono il 291 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE patrimonio culturale greco. Da questa contaminazione e da questa fusione tra la cultura greca classica e la più antica culturale mediorientale nacque una nuova cultura, chiamata “ellenistica”, o anche “alessandrina”, forse meno originale ma certo non meno ricca ed alta di quella ellenica. Un’arte realistica e d’intrattenimento Nell’ambito letterario, l’età ellenistica fu caratterizzata innanzitutto dall’estinzione della tragedia, che aveva rappresentato il vertice della letteratura classica greca. Si conservò e fiorì, invece, la commedia, ma in base a una radicale trasformazione: il coro diventò marginale mentre centrali diventarono la vicenda e l’intreccio, i dialoghi e la caratterizzazione psicologica dei personaggi, che sempre più si configurarono come tipi umani (p.e. l’avaro, il misantropo, ecc.). Quanto ai contenuti, nella commedia sparì la satira politica, a favore della descrizione della vita quotidiana, caratterizzata da passioni e ambizioni materialistiche ed edonistiche, da comportamenti istintivi, e quindi immorali, macchinazioni, sotterfugi, equivoci, eventi sorprendenti. In questo senso, la fine della tragedia e il fiorire della “commedia nuova” furono il sintomo dell’abbandono di ogni ideale eroico e di ogni problematica esistenziale, di cui rimangono solo gli echi in singoli personaggi, unici e isolati, vere eccezioni alla regola, che soli conservano alcuni valori ideali e il rispetto delle norme morali. Il principale commediografo ellenistico fu Menandro (342291 a.C.), le cui commedie furono poi tradotte dal romano Terenzio (185-159 a.C.) e diventarono così i modelli della commedia latina. Anche il genere poetico, nell’età ellenistica, abbandonò i temi storico-civili a favore di quelli quotidiani e individuali, in particolare di carattere amoroso, e soprattutto a favore della cura dello stile, sempre più ricercato e raffinato nonché infarcito di erudizione per lo più mitologica ma a volte anche scientifica. Tra i poeti ellenistici, detti anche “alessandrini”, emersero Callimaco, Teocrito e Apollonio Rodio. Sebbene la maggior parte degli storici ellenistici cedesse alla sofisticazione retorica e al gusto del meraviglioso, la storiografia ellenistica si sviluppò anche in controtendenza grazie all’opera di Polibio. Nelle sue Storie, infatti, che trattano delle guerre puniche e della conquista romana della Grecia, Polibio si attenne rigorosamente al criterio dell’accertamento dei fatti reali e, al contempo, li generalizzò allo scopo di individuare delle “leggi” dello sviluppo storico. L’arte ellenistica ebbe caratteristiche analoghe alla letteratura. L’architettura fu improntata alla monumentalità e al decorativismo, finalizzati a manifestare, rispettivamente, la potenza e la magnificenza delle dinastie regnanti. La scultura puntò sempre più alla spettacolarità, cioè a suscitare forti reazioni emotive di meraviglia o di compassione (Galata morente, Marsia legato, Menelao e Patroclo) o di paura e orrore (Laocoonte). Le divinità furono ancor più umanizzate e in tal senso le dee cominciarono a essere rappresentate nude o comunque discinte (Afrodite accovacciata di Doidalsas, Afrondite di Milo). Più in generale, le opere scultoree si fecero più dinamiche (Il fanciullo fantino), impreziosite di dettagli (Nike di Samotracia), più realistiche, arrivando a rappresentare 292 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE anche figure umane brutte o grottesche (Vecchio pescatore, Vecchia ubriaca). Parallelamente, nella pittura si accentuarono il colorismo e gli effetti di luce, con esiti di tipo “impressionistico”. La rivoluzione scientifica fallita In ambito scientifico, l’età ellenistica fu caratterizzata da uno sviluppo senza precedenti, favorito dal mecenatismo delle dinastie monarchiche che stipendiarono gli scienziati e misero a loro disposizione strutture e strumenti di ricerca innovativi. Il più significativo esempio fu il Museo (= casa delle muse) di Alessandria, una sorta di grande università fornita di un osservatorio astronomico, sale di dissezione anatomica, un giardino zoologico, un orto botanico, oltre alla già citata immensa Biblioteca. Nel Museo scienziati di tutto il mondo ellenistico insegnavano e facevano ricerca scientifica. Anche grazie a queste funzionali condizioni pratico-materiali, gli scienziati alessandrini – come Euclide, Aristarco di Samo, Archimede, Eratostene – fecero notevoli progressi in matematica, astronomia, fisica, medicina, biologia, geografia nonché nella meccanica, anticipando, per esempio con l’eliocentrismo, teorie che si sarebbero affermate con la rivoluzione scientifica moderna, cioè più di 1800 anni dopo. In questo senso si può parlare di una semirivoluzione scientifica ellenistica in quanto essa si avviò ma si arrestò in corso d’opera, rimanendo così incompiuta ( VIII viaggio – La felicità come ricerca scientifica). La svolta etico-immanentistica della filosofia In questo contesto, la filosofia perse parte della sua centralità a favore delle arti e soprattutto della ricerca scientifica, ma da un lato approfondì come mai prima la ricerca etica e dall’altro, anche grazie a questa specializzazione, ebbe una diffusione assai più larga. Dopo la devastazione della guerra del Peloponneso, la conquista macedone e il declassamento della polis da Stato sovrano a organo amministrativo, l’uomo greco si considerò sempre meno un “animale politico”, un elemento di una comunità civica, secondo la famosa definizione di Aristotele. In altre parole, già alla fine dell’età classica e durante l’età ellenistica avvenne una mutazione antropologica: l’uomo greco si sentì innanzitutto e soprattutto un “individuo”, scoprì la dimensione “privata”, la privacy. Questa mutazione antropologica, che è tutt’uno con la rivoluzione culturale ellenistica, produsse una nuova domanda di etica, ovvero di criteri e modelli di comportamento individuale e interindividuale. In questo modo, l’etica, che nell’età classica faceva blocco con la politica, venne a costituirsi come dottrina autonoma e addirittura ad acquisire il primato nell’ambito della ricerca filosofica. Ciò non significò la riduzione della filosofia all’etica ma certamente la finalizzazione etica delle altre branche della filosofia (fisica, logica) e soprattutto la rinuncia alla metafisica. In altre parole, la filosofia ellenistica, in quanto centrata sull’etica, fu altresì una filosofia dell’immanenza, una filosofia che individuava la realizzazione dell’uomo nella dimensione terrena dell’individuo e del piccolo gruppo di amici. 293 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il privilegiamento della dimensione individuale si abbinò all’esaltazione dell’interiorità razionale, ovvero della “spiritualità”, e alla svalutazione dell’esteriorità corporea e materiale. Ciò portò i filosofi ellenistici a elaborare per primi una tesi rivoluzionaria, quella dell’uguaglianza spirituale – cioè soltanto interiore – di tutti gli uomini. Corollari di questa tesi furono il cosmopolitismo – ovvero il considerarsi “cittadini del mondo” al di là di tutte le differenze etnico-politiche –, l’antischiavismo e l’emancipazione femminile. Questi nuovi valori etici sono indici quanto mai emblematici della radicalità della rivoluzione culturale ellenistica. 294 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA Meneceo, non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di essere felice, o che ormai è passata l’età. Da giovani come da vecchi è giusto che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla. Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice. Prima di tutto considera l’essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha. Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità. Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita, togliendo l’ingannevole desiderio dell’immortalità. Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più. Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive. Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. 295 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma perché una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta dell’Ade. Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che assolutamente s’avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita. Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia. Una volta raggiunto questo stato ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno. Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del piacere e del dolore. E’ bene primario e naturale per noi, per questo non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono sempre da fuggire. Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l’indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile. 296 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a non soffrire e l’animo a essere sereno. Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili. Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili, che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d’uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode. Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere, invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi beni o mali. Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia. Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale l’uomo che vive fra beni immortali. Epicuro, Lettera a Meneceo 297 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VII VIAGGIO ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ TERRENA 298 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… LA FELICITA’ COME RIFIUTO DELLA CIVILTA’: CINISMO ED EPICUREISMO A partire dal IV secolo a.C., in Grecia nascono e si affermano nuove correnti filosofiche accomunate dal concepire la filosofia come ricerca della felicità individuale. Per questo, nella periodizzazione della filosofia antica, il lasso di tempo che va dal III secolo a.C. al III d.C., comprendente l’età ellenistica e l’età romana, è stato denominato “periodo etico”. Ciò non significa che i pensatori di questi secoli, con l’eccezione parziale dei cinici, smisero di occuparsi di fisica, conoscenza, logica, bensì significa che essi subordinarono la ricerca in campo fisico, gnoseologico e logico alla ricerca etica, cioè alla ricerca del modo di vivere e dei comportamenti capaci di garantire la felicità all’uomo in quanto individuo. In altre parole, le teorie fisiche, gnoseologiche e logiche furono concepite come strumenti della teoria etica in nome del primato della vita pratica sulla vita teoretica. Tuttavia, rispetto al periodo precedente, quello di Platone e Aristotele, i nuovi filosofi etici archiviarono la ricerca metafisica, in quanto convinti dell’inesistenza di una realtà razionale separata dal mondo fisico, ovvero trascendente. In questo senso il primato della vita pratica, da loro sostenuto, si abbina alla tesi dell’unicità della dimensione materiale, cioè immanente, e la felicità viene concepita come un obiettivo conseguibile soltanto nel corso della vita terrena, dal momento che l’uomo è ritenuto un essere unicamente corporeo e dunque del tutto mortale. Il movimento cinico, nato già nel IV secolo a.C. come “scuola socratica”, cioè come interpretazione autentica dell’insegnamento di Socrate, fu cronologicamente il primo movimento etico e il più anticonformista. Esso, infatti, da un lato, concepisce la filosofia come stile di vita, e dunque il filosofare non tanto come pensare e parlare, ma come agire e comportarsi; dall’altro, segue e diffonde uno stile di vita decisamente controcorrente – rispetto alle tradizioni, alle convinzioni sociali e perfino alle leggi statali – ispirato al comportamento degli animali e imperniato su una vita povera, vagabonda, sregolata e politicamente del tutto disimpegnata. In tal senso i cinici pensano che il segreto della felicità sia l’assoluta libertà individuale. La scuola epicurea condivide il rifiuto cinico della civiltà, ma lo declina in modo più moderato. Gli epicurei, innanzitutto, valorizzano, seppur parzialmente e strumentalmente, la vita teoretica, e quindi anche la ricerca scientifica, e, in secondo luogo, propongono e praticano un modello di vita basato su piccole comunità residenziali e sul soddisfacimento moderato e razionalmente guidato dei bisogni e dei desideri. Infatti, per gli epicurei, la felicità coincide con il piacere autentico. 299 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI ANTISTENE, DIOGENE, EPICURO Fondatore della scuola cinica fu Antistene, figlio di un ateniese e di una tracia (cioè di una “barbara”), vissuto tra la fine del V sec. e l’inizio del IV, che fu inizialmente discepolo di Gorgia e poi di Socrate, da cui riprese e di cui radicalizzò il motivo conduttore del cinismo, ovvero l’autosufficienza individuale come fondamento della libertà. La denominazione di “cinismo” (da kunismós, “imitazione dei cani”) pare sia nata dal fatto che Antistene insegnava nel ginnasio detto Cinosarge (cane agile). In seguito, lui e i suoi discepoli furono chiamati “cinici” perché rifiutavano la civiltà e proponevano di vivere in modo del tutto naturale, come i cani. Ma il più significativo e famoso rappresentante del cinismo antico fu Diogene che fece proprio apertamente e provocatoriamente l’appellativo “il Cane” e fu anche chiamato “il Socrate pazzo”. Nato a Sinope, figlio di un banchiere, forse banchiere egli stesso, fuggì dalla sua città per evitare la condanna come falsario. Visse ad Atene, dove divenne discepolo di Antistene, e a Corinto, dove morì forse nel 323 a.C., nello stesso anno di Alessandro il Grande. Di Diogene è stato tramandato che viveva in una botte e di giorno andava in giro con una lanterna accesa dicendo: “Cerco l’uomo”. Ma l’aneddoto più rappresentativo della sua filosofia di vita è quello del suo incontro con Alessandro il quale, attirato dalla sua fama di sapiente, volle avvicinarlo e gli offrì di dargli tutto quello che avrebbe chiesto, al che Diogene, che stava prendendo il sole, rispose: “Lasciami il mio sole”, ovvero: “Togliti di lì, che mi fai ombra”. Nessuno degli scritti di Diogene ci è pervenuto. Epicuro, fondatore ed eponimo dell’epicureismo, nacque a Samo da padre ateniese. Allievo di filosofi prima platonici e poi democritei, intorno al 307 a.C. fondò la sua scuola chiamata “il Giardino” perché si trovava nella compagna fuori porta di Atene - aperta a tutti compresi schiavi, donne e perfino ex prostitute. Il Giardino fu una comunità di vita e un modello sociale alternativo ed Epicuro più che un filosofo fu ben presto considerato una sorta di profeta o di “salvatore” dell’umanità (in modo simile all’indiano Gothama Siddharta, chiamato Buddha, cioè “risvegliato”). Si tramanda che scrisse circa 300 opere, ma –anche a causa dell’anatema culturale scagliato contro di lui dalla chiesa cristiana – a noi sono giunti soltanto alcuni frammenti, 3 lettere (A Meneceo, A Erodoto, A Pitocle) e 2 raccolte di massime. 300 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 I CINICI: LA FELICITA’ E’ LIBERTA’ INDIVIDUALE Talvolta [i cinici] si cibano soltanto di erbaggi e in ogni modo bevono soltanto acqua fresca; ogni alloggio è buono, anche una botte, in cui viveva Diogene, il quale era solito dire che è proprio degli dèi non aver bisogno di nulla, di chi è simile agli dèi aver bisogno di poco. Diogene Laerzio, VI, 66 Lodava [Diogene] quelli che stavano per sposarsi e non si sposavano, quelli che stavano per intraprendere un viaggio e vi rinunciavano, quelli che stavano per dedicarsi alla vita politica e non vi si dedicavano, quelli che volevano crearsi una famiglia e non se la creavano, e quelli che si accingevano a vivere insieme con i potenti e poi se ne astenevano. Diogene Laerzio, VI, 29 Ammetteva [Diogene] la comunanza delle donne, non riconosceva il matrimonio, la convivenza concordata fra uomo e donna. In conseguenza, anche i figli dovevano essere comuni. Diogene Laerzio, VI, 72 Alla base del cinismo vi è una duplice rivoluzione filosofica. In primo luogo, i cinici concepiscono la filosofia come “miglior modo di vivere”, cioè come modello di vita effettivamente praticato. In altre parole, per i cinici, la filosofia non è teoria ma pratica, un insieme coerente di comportamenti, e la stessa comunicazione filosofica altro non è che descrizione verbale e argomentazione razionale di un modo di vivere. L’unico che permetta di conseguire il vero bene: la felicità. Anzi, in questa prospettiva, il linguaggio filosofico più appropriato è quello gestuale e l’argomentazione filosofica più coerente ed efficace è l’esempio comportamentale: possedere solo un mantello, una bisaccia e un bastone, abitare in una botte, girare di giorno con la lanterna, entrare a teatro al termine dello spettacolo, sbeffeggiare o addirittura maltrattare i ricchi e i potenti. Il secondo aspetto rivoluzionario del cinismo è il rifiuto della civiltà e della cultura in nome del ritorno alla dimensione di vita naturale. Questa drastica posizione è la conseguenza 301 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE della scelta della libertà individuale come valore fondamentale e anzi assoluto dell’uomo. In altri termini, secondi i cinici l’uomo si realizza solo se è un individuo assolutamente libero, ossia la libertà individuale è sinonimo di felicità e viceversa. Ma come si fa allora a essere individui assolutamente liberi? La risposta dei cinici è: conseguendo l’autarchia, l’autosufficienza, ovvero bastando a se stessi e facendo sì che nulla di esterno a sé sia indispensabile alla propria vita. In questo senso, Diogene sostiene che bisogna assumere come modello gli animali, e più precisamente un topo che corre qua e là senza alcuna meta. Ciò significa rifiutare la civiltà a un duplice livello: 1. sia nei suoi aspetti materiali, dai cibi cotti e dal vino alle abitazioni, ai letti, alle calzature, insomma a tutte le invenzioni e le tecniche con cui gli uomini si sono resi la vita più comoda e agiata; 2. sia nei suoi aspetti sociali, politici, religiosi e ideali, dal matrimonio allo Stato, ai doveri civici, al galateo, ai riti religiosi, all’avere un scopo. Per i cinici, infatti, questi aspetti della civiltà sono altrettante catene che imprigionano l’individuo e gli impediscono di essere libero e quindi felice. Apparentemente lo agevolano e gli rendono la vita più piacevole, ma in realtà alla lunga l’individuo ne viene fiaccato e debilitato, si assuefà ad essi e ne diventa dipendente, non ne può più fare a meno e in questo modo perde la sua libertà diventando sempre più infelice. Proprio la condizione di assuefazione agli agi e ai piaceri, e quindi di infiacchimento e schiavizzazione, cui la civiltà ha condotto gli uomini, rende necessarie l’adozione e la pratica sistematica di un metodo di autoliberazione imperniato sull’esercizio della fatica. In altre parole, per raggiungere l’autarchia, e con essa la libertà/felicità, l’individuo deve allenarsi in modo continuo e progressivo a “faticare”, cioè a fare a meno degli agi e dei piaceri fisici e psichici, ad apprezzare la frugalità e la rudezza della vita naturale e a sopportarne le asprezze. In questo senso, il cinismo nega l’esistenza di virtù innate e di predisposizioni elettive, ovvero di qualsiasi forma di superiorità congenita, per nascita. Per i cinici, insomma, campioni si diventa, non si nasce, ossia ogni uomo può realizzarsi grazie all’ “esercizio”, cioè all’impegno e al merito personali. Ciò è comprovato, sostengono i cinici, dal fatto che i bravi artigiani, così come i grandi artisti o anche gli atleti più valenti sono tali unicamente grazie ad anni e anni di assiduo e intenso esercizio. Il metodo di decondizionamento dai vincoli della civiltà ha come obiettivo il raggiungimento di una pratica completa della libertà individuale. Da questo punto di vista, 302 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE secondo i cinici la libertà autentica ha due aspetti essenziali: la libertà di parola e la libertà d’azione. La “libertà di parola” consiste, per così dire, nel non aver peli sulla lingua, ossia nell’essere sempre schietti e franchi, anche e soprattutto quando si deve comunicare qualcosa di spiacevole per l’altro. E’ evidente che la libertà di parola implica a monte, e quindi include, la libertà di pensiero, la libera opinione, ovvero la capacità di pensare in modo personale, originale, anticonformistico e critico. Si tratta di un principio che acquista tanto più significato e spessore in quanto, per i cinici, deve essere praticato senza lasciarsi limitare dal pietismo nei confronti degli altri e soprattutto senza lasciarsi intimidire qualora colpisca sapienti, ricchi o potenti. La “libertà d’azione” consiste, invece, nel comportarsi, per così dire, anarchicamente, ossia senza rispettare alcuna regola o convenzione sociale. Ciò può significare, per esempio, mangiare nella piazza del mercato così come orinare, defecare, masturbarsi o anche avere rapporti sessuali quando e dove si vuole, anche in un luogo pubblico. La libertà d’azione, dunque, ha per i cinici un significato radicale, per non dire estremo, che si fonda e si giustifica, da un lato, in base al modello del comportamento istintivo, spontaneo e deregolamentato degli animali; e, dall’altro, in nome della critica all’artificialità e al relativismo delle norme e delle convenzioni sociali. Obiettivo polemico privilegiato della libertà di parola e d’azione dei cinici è l’amore. Secondo i cinici, infatti, non solo bisogna rifiutare il matrimonio, in quanto istituzione imposta dalla società in contrasto con gli istinti naturali, ma anche lo stesso sentimento amoroso, in quanto illusione generata dal bisogno di piacere sessuale e causa della dipendenza nei confronti di un altro individuo, ovvero in entrambi i casi fonte di schiavitù e quindi di infelicità. Riguardo alla pratica del rapporto tra uomini e donne, i cinici, però, si differenziano. Alcuni praticano la rinuncia a qualsiasi rapporto stabile con un’altra donna; altri accettano un rapporto continuativo, ma non esclusivo, con una donna, purché questa aderisca al cinismo, cioè viva in tutto e per tutto da cinica; altri ancora, infine, praticano il rapporto sessuale come mero soddisfacimento di un bisogno naturale, privo di qualsiasi componente sentimentale. Il rifiuto dell’amore da parte del cinismo è emblematico della sua posizione riguardo alla sfera psichico-emotiva. Le emozioni sono considerate potenziali “passioni”, ovvero forze psichiche capaci di rendere l’individuo dipendente da oggetti o da persone o anche da credenze e ideali. In questo senso, il cinismo identifica la libertà con l’ “apatia” – cioè con l’impassibilità, l’assenza di passioni – e considera l’apatia condizione necessaria e ingrediente essenziale della felicità. 303 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma come si mantengono i cinici? Escluso il lavoro, in quanto innaturale, mero prodotto della civiltà, i cinici vivono dei frutti spontanei della natura e soprattutto di elemosina. Ma essi considerano le elargizioni ricevute come qualcosa di loro dovuto. Infatti, da un lato le ritengono il giusto riconoscimento della propria funzione filosofica di modelli viventi di vita; dall’altro sostengono che ogni cosa appartiene agli dei e che i filosofi, in quanto amici degli dei, possono disporre di ogni cosa. In questo senso, la maggior parte dei cinici, pur rigettando riti e credenze religiosi, non negano l’esistenza di divinità. Tra questi, alcuni credono in un unico dio. Tuttavia, altri cinici sostengono, più o meno apertamente, l’ateismo. 304 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 EPICURO: LA FELICITA’ E’ IL PIACERE QUIETO Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento – come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente –, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono, infatti, le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e rifiuto, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime. Epicuro, Epistola a Meneceo Epicuro concepisce e pratica la filosofia come una terapia psicologica finalizzata a conseguire la felicità individuale. In questo senso la filosofia epicurea si propone come un “quadrifarmaco”, cioè come una cura delle quattro fondamentali malattie della mente umana: 1) la paura degli dei; 2) la paura della morte; 3) la paura del dolore; 4) la paura della frigidità, cioè dell’incapacità di provare piacere. Dunque, la filosofia, per Epicuro, è l’attività teorica e pratica capace di liberare l’uomo dalle paure infondate e di permettergli così di provare il piacere, condizione necessaria e suffciente della felicità. Per Epicuro, la realtà è totalmente materiale. La materia è composta da infiniti “indivisibili” (àtoma), cioè da particelle minime non riducibili, che si muovono a causa del loro peso, ovvero “cadono” nello spazio vuoto infinito. Di conseguenza i loro moti sono originariamente rettilinei e paralleli. Tuttavia, essi si scontrano tra loro perché talvolta deviano casualmente dalla loro traiettoria rettilinea. Gli scontri tra indivisibili provocano la loro aggregazione che porta alla formazione di infiniti mondi e di infiniti esseri naturali. Tutti i processi fisici sono effetti di moti di aggregazione, disgregazione e riaggregazione degli indivisibili. Dunque, l’universo si è formato e funziona in modo del tutto autonomo, cioè in base a leggi causali di natura. Queste, però, non sono non di tipo deterministico, dal 305 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE momento che le catene di rapporti di causa ed effetto a volte sono interrotte da eventi casuali. Nonostante non abbiano alcun ruolo nella formazione e nel funzionamento dell’universo, gli dei esistono, afferma Epicuro. Secondo lui, infatti, tutte le immagini presenti nella mente umana derivano dall’esperienza sensibile. Questa è infallibile, in quanto consiste nell’impronta che gli oggetti esterni producono sui nostri sensi. Tale impronta o è diretta, come quando tocchiamo qualcosa, o è indiretta, come quando vediamo qualcosa. In questo caso l’organo di senso è colpito dagli invisibili micromodelli materiali che tutte le cose emanano in continuazione. Poiché tutti gli uomini hanno immagini mentali degli dei esse derivano necessariamente dall’impronta dei micromodelli degli dei sui nostri sensi. Dunque gli dei esistono e sono materiali. La materia di cui sono fatti è capace di rigenerarsi e dunque sono esseri immortali. Però gli dei non governano il cosmo né si occupano in alcun modo degli uomini. Infatti, sostiene Epicuro, in caso contrario, l’esistenza del dolore umano comporterebbe che gli dei siano o malvagi o impotenti, il che è assurdo in quanto in contraddizione con la nozione di dio. Da questa concezione fisica, conseguono due decisive verità: a) nessun uomo deve temere punizioni divine e nemmeno aspettarsi favori da parte degli dei; b) la vita di ogni uomo non è determinata né dagli dei, né dalle leggi fisiche, ma soltanto dalla libera scelta di ogni individuo, che quindi, in qualsiasi momento, ha la facoltà di modificare la propria condizione esistenziale per conquistare la felicità. Per riuscirci, secondo Epicuro, l’uomo, una volta liberato dalla paura degli dei, deve liberarsi anche dalla paura della morte. La terapia della paura della morte parte dalla tesi della materialità di tutto ciò che esiste, compresa l’anima (psyché), cioè il principio della vita, anch’essa composta di indivisibili che differiscono da quelli corporei solo perché sono più piccoli e mobili. Dunque anche l’anima nasce per aggregazione di indivisibili e muore per la loro disgregazione. Di conseguenza, con la morte del corpo, l’anima non inizia una seconda vita ultraterrena ma smette completamente di esistere. Morire, pertanto, sostiene Epicuro, non può significare soffrire. Infatti, per soffrire dobbiamo essere sensibili e coscienti. Ma nel momento in cui moriamo, sensibilità e coscienza si annullano, in quanto la morte consiste nella disgregazione degli indivisibili che compongono tutte le parti dell’individuo, compresa l’anima, ossia la coscienza. In questo senso Epicuro dichiara che fin quando esistiamo la morte non c’è e quando arriva non esistiamo più noi. In altre 306 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE parole, secondo Epicuro la morte è per definizione un’esperienza impossibile, ossia una non-esperienza, e dunque è del tutto insensato temerla. Ancora più semplice, per Epicuro, è liberarsi dalla paura del dolore. Basta infatti considerare che il dolore può essere o leggero o intenso. Nel primo caso è facile sopportarlo; nel secondo non può che essere breve. Infatti un forte dolore non può che essere conseguenza di un grave stato patologico del corpo. Pertanto o l’organismo si rimette rapidamente oppure muore. In entrambi i casi il dolore cessa presto, e dunque è facilmente sopportabile. L’eliminazione delle paure degli dei, della morte e del dolore è la condizione necessaria ma non sufficiente per il conseguimento della felicità. Per essere felici, afferma Epicuro, occorre procurarsi il piacere. Sembrerebbe un obiettivo facile da raggiungere, ma in realtà non è così perché la maggior parte degli uomini si lascia ingannare da piaceri apparenti che in realtà sono dolori mascherati. Qual è allora il piacere autentico e come si può riconoscerlo? Chiarito preliminarmente che qualsiasi tipo di piacere ha un fondamento fisico-sensibile, Epicuro risponde stabilendo innanzitutto i due requisiti indispensabili del vero piacere: a) l’analgesia, cioè l’assenza di dolore fisico; b) l’imperturbabilità, cioè l’assenza di dolore psichico. In secondo luogo, Epicuro distingue 2 modalità di piacere: 1) il piacere movimentato (o dinamico), cioè il piacere che si prova nel momento in cui si soddisfa un bisogno/desiderio, p.e. mentre si beve un bicchiere d’acqua o si mangia una fetta di torta; 2) il piacere quieto (o statico), cioè il piacere che si prova dopo aver completamente soddisfatto un bisogno/desiderio, ovvero la condizione dell’appagamento, p.e. sentirsi dissetati o sazi. Su queste basi, Epicuro sostiene che il piacere autentico è il piacere quieto, in quanto esso possiede al massimo grado i requisiti dell’analgesia e dell’imperturbabilità. Infatti, il piacere movimentato da un lato comporta sempre un certo grado di bisogno e dunque di sofferenza psico-fisica; dall’altro tende a prolungare illimitatamente il godimento danneggiando l’equilibrio psico-fisico. P.e., mentre mangio la fame non si è ancora del tutto placata e se proseguo a mangiare illimitatamente non potrò che stare male. 307 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE D’altra parte senza il piacere movimentato non si può raggiungere il piacere quieto. Dunque, afferma Epicuro, il piacere movimentato va perseguito ma considerandolo e godendolo solo come mezzo per conseguire il fine del piacere quieto. In questo modo il piacere movimentato viene limitato e reso funzionale al raggiungimento della condizione di appagamento, cioè di assenza di dolore. Ma come si fa a finalizzare il piacere movimentato al piacere quieto? Epicuro risponde fornendo una ricetta dettagliata sulla base della seguente classificazione dei bisogni umani: 1) bisogni naturali e necessari, cioè i bisogni psico-fisici fondamentali, indispensabili alla sopravvivenza, p.e. mangiare, dissetarsi, vestirsi, ripararsi, avere amici, ecc.; 2) bisogni naturali ma non necessari, cioè i bisogni psico-fisici superflui, derivanti dalla sofisticazione dei bisogni naturali, p.e. mangiare cibi raffinati e gustosi, bere vini pregiati, indossare bei vestiti, avere rapporti sessuali, ecc. 3) bisogni artificiali, cioè bisogni che non hanno alcun legame con la nostra costituzione psico-fisica, ma che sono indotti dalle convenzioni sociali, p.e. la ricchezza, la fama, la gloria, il potere politico, l’immortalità, ecc. Per conseguire e mantenere il piacere quieto, ovvero l’analgesia e l’imperturbabilità, secondo Epicuro, bisogna sodddisfare sempre e completamente i bisogni naturali e necessari; raramente e in modo controllato i bisogni naturali ma non necessari; mai e in nessuna misura i bisogni artificiali. Tra i bisogni artificiali spicca quello di immortalità. Epicuro si impegna in modo particolare a dimostrarne l’insensatezza. Egli sostiene che il vero piacere, cioè il piacere quieto, ovvero l’appagamento, è qualcosa di finito, limitato, non suscettibile di incremento. In altre parole, quando l’individuo raggiunge il piacere quieto lo prova immediatamente al massimo grado possibile e dunque non può goderne di più né quantitativamente né qualitativamente. A un piacere e quindi a una felicità finiti non può che corrispondere una vita finita. La vita mortale infatti è più che sufficiente a permetterci di gustare tutto il piacere possibile, mentre una esistenza infinita sarebbe inutile e insensata dal momento che non potrebbe farci raggiungere un grado di felicità maggiore. Il bisogno di immortalità è dunque per Epicuro un falso bisogno, un bisogno artificiale, del quale ogni uomo deve liberarsi. 308 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI EPICURO E LA FISICA QUANTISTICA Secondo Epicuro, gli “indivisibili”, di cui sono composte tutte le cose, sono dotati di un movimento rettilineo che, tuttavia, del tutto casualmente e quindi imprevedibilmente, a volte può avere una improvvisa deviazione. Per questo la fisica materialisticomeccanicistica di Epicuro, a differenza di quella di Democrito, si può, a buon ragione, definire indeterministica. In questo senso, la fisica epicurea ha trovato una conferma con la fisica quantistica, nata all’inizio del 1900 e sviluppatasi nel corso del secolo successivo fino ai giorni nostri. Essa sostiene che l’energia, che costituisce la materia, è composta da unità minime – dette “quanti” di energia – le quali si muovono in modo irregolare e imprevedibile, tanto da poter essere considerate in più luoghi contemporaneamente. In particolare, sulla base degli esperimenti relativi al comportamento dei quanti, il fisico quantista Heisenberg nel 1927 formulò il principio di indeterminazione, secondo il quale la precisione nella misurazione della posizione di un quanto è inversamente proporzionale a quella nella misurazione della sua velocità, per cui è impossibile calcolare precisamente lo stato fisico di un quanto. In seguito il principio di indeterminazione fu interpretato da alcuni scienziati come una proprietà oggettiva dei quanti – ovvero in sintonia con la fisica epicurea – da altri, tra cui Einstein, come un limite soggettivo delle capacità conoscitive dell’uomo. Gli esperimenti più recenti hanno avvalorato l’interpretazione oggettivistica. Va tuttavia chiarito che il comportamento quantistico è attribuito solo alle particelle elementari, non ai corpi macroscopici, benché questi siano aggregati di particelle elementari. Come questo sia possibile è l’enigma principale della fisica contemporanea. Per approfondimenti: Robert Gilmore, Il quanto di Natale, Cortina 1999 309 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… FELICITA’ COME ADATTAMENTO AL DESTINO RAZIONALE: LO STOICISMO Rispetto agli epicurei e ai cinici, gli stoici assumono un atteggiamento di accettazione, seppur condizionata, della civiltà, ovvero delle tradizioni, delle convenzioni sociali e delle leggi statali. Essi, infatti, rivisitando le filosofie dei primi cosmologi, in particolare di Eraclìto, pensano che ogni aspetto e ogni evento della realtà siano determinati in modo necessario da una legge razionale divina che realizza un bene sempre maggiore fino al raggiungimento della perfezione. Poiché è dotato di una mente razionale, l’uomo è l’unico essere che può e deve comprendere la legge razionale divina e adattarsi intenzionalmente ad essa. Data questa impostazione, è evidente che gli stoici valorizzano la condizione civile dell’umanità e quindi prescrivono di ottemperare a tutti i doveri sociali e politici. Tuttavia, gli stoici ammettono che la razionalità della legge divina include eventi momentanei irrazionali, ossia ingiusti o dolorosi, benché comunque positivi nel lungo periodo in quanto mezzi necessari per raggiungere un maggior grado di razionalità. Come antidoto all’ingiustizia e al dolore momentanei, essi propugnano il rifugio nell’interiorità della mente, cioè il libero esercizio del pensiero, che niente e nessuno può impedire e che è immune alle sofferenze corporali. Sviluppando questo atteggiamento, gli stoici praticano l’adattamento alle convenzioni sociali e alle leggi statali come mera rappresentazione teatrale, cioè come finzione, affermando che lo stoico deve recitare il suo ruolo sociale come un attore, cioè mantenendo un completo distacco interiore dalla parte recitata. In questo modo, gli stoici sono convinti che si possano accettare impassibilmente anche le peggiori disgrazie. D’altra parte, in condizioni di estrema e improduttiva sofferenza, gli stoici proclamano il ricorso al suicidio. 310 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI ZENONE, CLEANTE, CRISIPPO La prima scuola stoica, cioè lo stoicismo antico, ebbe tre maestri: Zenone, Cleante e Crisippo. Zenone, il fondatore, nacque a Cizio, sull’isola di Cipro, intorno al 335 a.C. da genitori fenici e si trasferì ad Atene poco più che ventenne. Ci è stato tramandato che in una bottega di libri, udì leggere un passo dei Memorabili di Senofonte sul comportamento di Socrate. Ammaliato, Zenone chiese dove poteva trovare uomini come Socrate e gli fu indicato il cinico Cretete, di cui effettivamente si fece discepolo. Intorno al 300, Zenone aprì la propria scuola, collocata nella stoà poikìle (“portico dipinto”), il grande portico pubblico vicino all’agorà (piazza centrale) ateniese. Anche con questa collocazione nel centro della più grande città greca, Zenone si differenziò da Epicuro, che aveva scelto di vivere fuori delle mura, e dai cinici, che vagabondavano senza fissa dimora. Vittima di un male incurabile e doloroso, Zenone si diede volontariamente la morte nel 262 a.C. Nonostante fosse straniero, in onore alla sua filosofia, fu seppellito nel cimitero di Atene, a spese della pòlis e con una cerimonia pubblica ufficiale. Delle sue opere, andate tutte perdute, ci rimangono solo testimonianze indirette. Cleante nacque a Asso, nella Troade. Una testimonianza ci ha tramandato che inizialmente svolse l’attività di pugile. Trasferitosi ad Atene divenne allievo di Zenone e si mantenne lavorando di notte come portatore d’acqua. Alla morte di Zenone, Cleante gli successe come caposcuola, ma volle continuare a lavorare per mantenersi. Nel 232, a 99 anni, decise di lasciarsi morire digiunando, a causa, sembra, di una grave ulcera. Della sua opera ci rimangono 40 versi dell’Inno a Zeus, nel quale, in forma poetica, aveva sintetizzato la filosofia stoica. Dei numerosi trattati che scrisse ci sono rimasti solo frammenti e testimonianze. Crisippo nacque a Soli, nei pressi di Tarso, sulla costa meridionale dell’Anatolia, verso il 277. Forse in seguito a un dissesto economico, si traferì ad Atene dove fu prima allievo e poi successore di Cleante. Morì tra il 208 e il 204. Ci è stato tramandato che sarebbe morto per le risate vedendo che il suo asino, cui aveva dato del vino, cercava di mangiare dei fichi. Delle sue numerosissime opere, circa 700, ci rimangono solo alcuni frammenti. 311 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 GLI STOICI: IL COSMO E’ MATERIA RAZIONALE E DIVINA O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus, signore della natura, che con la legge governi ogni cosa, Salve; perché sei tu che i mortali han diritto d'invocare. Da te infatti siam nati, provvisti dell'imitazione che esercita la parola, Soli tra tutti gli esseri che vivono e si muovono sulla terra; Così io ti celebrerò e senza sosta canterò la tua potenza. E’ a te che tutto il nostro universo, girando attorno alla terra, Obbedisce ovunque lo conduci, e volentieri subisce la tua forza; Così grande é lo strumento che tieni tra le tue mani invitte, Il fulmine a due punte, fiammeggiante, eterno. Sotto i suoi colpi, tutto si rafferma; Per suo mezzo reggi la Ragione universale, che attraverso tutte le cose Circola, mista al grande astro e ai piccoli; Grazie ad esso sei diventato così grande ed eccoti re sovrano attraverso i [tempi. Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra, Né nel divino etere del cielo, né nel mare, Tranne che quel che ordiscono i malvagi nella loro follia. Ma tu sai riportare gli estremi alla misura, Ordinare quel che é senz'ordine, e i tuoi nemici ti divengono amici. Perché tu hai armonizzato così bene insieme il bene e il male Che vi é per ogni cosa una sola Ragione eterna, Quella che fuggono e abbandonano i perversi tra i mortali, Disgraziati, che desiderano senza sosta il possesso dei (pretesi) beni, E non badano alla legge universale di Dio, né l'ascoltano, Mentre, se le obbedissero con intelligenza avrebbero una nobile vita; Da se stessi si gettano, insensati, da un male all'altro; Questi, spinti dall'ambizione, alla passione delle contese; Quelli, volti al guadagno, senza alcun principio; Altri, sfrenati nella licenza e nei piaceri del corpo, (Insaziabili) vanno da un male all'altro E fan di tutto perché succeda loro proprio il contrario di quel che desiderano. Ah! Zeus, benefattore universale, dai cupi nembi, signore della folgore, Salva gli uomini dalla loro funesta ignoranza; Dissipa questa, o padre, lungi dalle loro anime; e concedi loro di scorgere Il pensiero che ti guida per governare tutto con giustizia, Affinché, onorati da te, ti rendiamo anche noi grande onore, 312 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cantando continuamente le tue opere, come si conviene A un mortale, poiché né per gli uomini é più grande privilegio Né per gli dèi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale. Cleante, Inno a Zeus Come ben sai i nostri Stoici sostengono questo: in natura esistono due realtà dalle quali tutto deriva, la causa e la materia. La materia giace immobile, come un essere pronto a ogni trasformazione, e però di per sé sarebbe inerte se qualcosa non la muovesse. Invece, la causa, cioè la Ragione, dà forma alla materia e la trasforma in tutto ciò che vuole, producendo a partire da essa gli esseri più diversi. Deve esistere, quindi, un “ciò da cui” le cose si generano, e un “ciò a causa di cui” le cose si generano: quest’ultimo è la causa, il primo è la materia. Seneca, Epistole, 106, 2 Secondo gli stoici, il cosmo è una realtà unicamente materiale organizzata, governata e perennemente trasformata da una legge razionale unica, la Ragione. Infatti la materia che costituisce ogni cosa possiede due aspetti, opposti ma complementari: 1) un aspetto passivo, irrazionale e informe che costituisce il sostrato ovvero la consistenza fisica di ogni cosa; 2) un aspetto attivo, razionale e formativo che costituisce il principio dell’organizzazione e del mutamento di ogni cosa. L’aspetto attivo, o Ragione, è ulteriormente connotato dagli stoici come Soffio infuocato, cioè come una sorta di vento caldo. In questo modo gli stoici, pur ribadendone la natura materiale, ne evidenziano la specificità, ovvero il carattere per così dire microscopico, e quindi impercettibile. In altre parole il Soffio consiste in una materia talmente sottile e rarefatta da renderlo invisibile, impalpabile e imponderabile. Il principio del cosmo, in senso proprio, è il Soffio/Ragione. Il Soffio/Ragione è infatti eterno e, in origine, è l’unico essente, a uno stato puro, concentrato e indifferenziato. In questo senso il Soffio/Ragione è chiamato dagli stoici Dio, benché non sia da loro inteso come una persona ma come una legge impersonale. Il cosmo, dunque, secondo gli stoici, è il prodotto della trasformazione di Dio/Soffio/Ragione. Una sua parte, infatti, rarefacendosi ed espandendosi, diventa materia passiva. Poiché la materia passiva è 313 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE infinitamente divisibile, il Soffio razionale e divino è in grado di penetrarla e permearla totalmente fino ad amalgamarsi completamente con essa. In questo modo, il Soffio ordina e trasforma la materia passiva dal suo interno, differenziandola innanzitutto nei quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco) e poi in tutte le cose individuali. Il passaggio dall’unità omogenea alla molteplicità eterogenea, per gli stoici, è mediato dalle “ragioni seminali”, le parti unitarie del Dio/Soffio/Ragione, che sono al contempo i principi generativo-organizzativi di tutte le specie di cose. Esse infatti stabiliscono le proporzioni delle mescolanze dei 4 elementi che danno origine a ogni tipo di essere naturale. La compenetrazione totale di Dio/Soffio/Ragione e della materia passiva implica che l’aspetto attivo e l’aspetto passivo della materia sono due facce della stessa medaglia, ossia che essi sono ontologicamente una cosa sola e che il cosmo dunque è essenzialmente unitario e omogeneo. Da questo punto di vista, la distinzione tra Dio/Soffio/Ragione e materia passiva ha un valore soltanto conoscitivo, cioè è solo un’astrazione mentale finalizzata alla comprensione scientifica della realtà. Insomma, gli stoici sostengono un rigoroso panteismo, cioè pensano che Dio e cosmo/natura coincidano: ogni cosa è dunque una parte di Dio e Dio non è altro che la totalità di tutte le cose. L’espansione/trasformazione del Dio/Soffio/Ragione, affermano gli stoici, produce un cosmo sferico e finito, oltre il quale c’è un vuoto infinito coincidente con il nulla. Poiché gli elementi naturali più pesanti tendono al centro, questo è occupato dalla Terra, composta prevalentemente di terra e acqua. La Terra è circondata dall’aria e la restante parte del cosmo, la regione celeste, è composta unicamente di fuoco, l’elemento naturale più simile al Soffio divino e razionale. In questo senso tutti gli astri (pianeti e stelle fisse) sono esseri intelligenti e divini, cioè divinità minori. Esse corrispondono agli dei politeistici tradizionali, interpretati però filosoficamente come aspetti e articolazioni dell’unico grande Dio cosmico. Secondo gli stoici, l’alternanza di costruzione e distruzione, nascita e morte, espansione e contrazione, è una legge naturale che si manifesta in tutte le cose. Essa è dunque una proprietà del Soffio divino e razionale. Pertanto, l’intero cosmo, sostengono gli stoici, dopo la sua generazione ed espansione, al termine del “grande anno”, è destinato all’esplosione e alla contrazione. In altri termini, il cosmo tornerà alla sua condizione originaria, cioè alla concentrazione, alla purezza e alla totale omogeneità del Dio/Soffio/Ragione. Ma cosa avverrà dopo l’esplosione e il ritorno alla condizione originaria? Tutto ricomincerà da capo, rispondono gli stoici. Insomma, all’esplosione/contrazione del cosmo seguirà una sua nuova generazione/espansione fino a una nuova esplosione/contrazione e così via in 314 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE eterno. Soprattutto, però, secondo gli stoici, ogni nuova fase di generazione/espansione si realizzerà allo stesso modo di tutte quelle precedenti e successive. In altre parole ogni volta si genereranno le stesse cose e si ripeteranno per filo e per segno gli stessi eventi. P.e., rinascerà lo stesso Socrate, che comincerà a chiedere a tutti gli ateniesi “che cos’è … ?”, che sarà processato e infine morità bevendo la cicuta tra i suoi più fedeli discepoli. Ma come argomentano gli stoici la loro tesi dell’infinito ripetersi degli stessi avvenimenti? Essi affermano innanzitutto che il cosmo e il suo divenire sono perfetti, in quanto sono costituiti e governati dal Dio/Soffio/Ragione. Ciò significa che il numero e la varietà degli esseri naturali e insieme il concatenarsi e il susseguirsi degli avvenimenti sono generati e organizzati in modo tale da concorrere a un unico fine positivo, cioè producono il massimo bene. In questa prospettiva ogni cosa e ogni evento sono dominati da un destino ineluttabile, ovvero sono necessari e immodificabili. Ma tale destino è razionale, e come tale è non solo finalistico ma anche provvidenziale, ovvero si attua sempre in modo tale da produrre alla fine il maggior bene possibile per ogni essere. Gli eventi negativi, in questo senso, sono solo apparentemente tali, in quanto sono solo mezzi transitori per realizzare un bene maggiore. Dunque, tutti gli eventi cosmici devono ripetersi eternamente in quanto anche il minimo cambiamento per gli stoici equivarrebbe a un peggioramento, cioè sarebbe irrazionale. L’ordine finalistico necessario del cosmo si manifesta e al contempo si basa su un criterio gerarchico. Ciò significa che il regno minerale, il regno vegetale e il regno animale costituiscono una scala gerarchica caratterizzata dal grado decrescente della materia passiva e dal grado crescente di materia attiva, ovvero da un sempre maggiore livello di organizzazione razionale. Alla gerarchia dei 3 regni corrisponde la gerarchia delle varie specie all’interno di ognuno di essi. In questa prospettiva la specie umana rappresenta il vertice dell’ordine gerarchico di tutte le specie del mondo terrestre. La gerarchia cosmica si connette al finalismo in quanto questo consiste nel fatto che ogni specie gerarchicamente inferiore è finalizzata a quella superiore, cioè ha come scopo l’esistenza di quest’ultima. Dal momento che la specie umana occupa il primo posto della gerarchia terrena, ciò comporta che tutte le altre specie naturali siano finalizzate alla sua esistenza. Il determinismo finalistico degli stoici ha dunque un carattere decisamente antropocentrico. L’antropocentrismo stoico, tuttavia, trova un limite negli astri che, in quanto divini, sono superiori all’uomo. 315 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI LA COSMOLOGIA STOICA E LA FISICA CONTEMPORANEA Ancor più dei principi dei primi filosofi ionici, il concetto stoico di Soffio si avvicina al concetto fisico contemporaneo di energia, segnatamente per quanto riguarda il principio einsteiniano della reciproca trasformabilità della massa ( materia passiva) e dell’energia ( materia attiva). Ancor più significativa è l’analogia tra la cosmogonia stoica e la teoria del big bang e non solo perché entrambe sostengono l’origine nel tempo dell’universo sulla base di un moto espansivo. Infatti la teoria stoica dell’esplosione/contrazione finale del cosmo corrisponde a una delle tre ipotesi che i fisici contemporanei hanno elaborato a proposito del futuro dell’universo, quella cosiddetta del big crunch. Secondo questa ipotesi l’universo raggiunto un certo livello di espansione imploderebbe su se stesso a causa del fatto che la forza gravitazionale attrattiva diverrebbe superiore a quella centrifuga espansiva derivata dal big bang. Le altre due ipotesi prevedono invece o che continui a espandersi all’infinito, disperdendosi nello spazio, o che raggiunga un equilibrio e si stabilizzi. Attualmente, però, è quest’ultima l’ipotesi di decorso futuro più accreditata. 316 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 GLI STOICI: LA FELICITA’ E’ L’IMPASSIBILITA’ Per questo motivo il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo. Ed in ciò consiste la virtù dell’uomo felice e il facile corso della vita, quando tutte le azioni compiute mostrino il perfetto accordo del demone che è in ciascuno di noi col volere del signore dell’universo. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VII Gli Stoici proclamano la comunanza delle donne tra i sapienti, sì che ogni uomo possa avere relazione con ogni donna [...]. Ameremo così tutti i bambini di uguale amore paterno e avrà fine la gelosia derivata dall’adulterio. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, 1976 Secondo gli stoici tutto il cosmo è permeato e guidato da Dio/Soffio/Ragione. Per essi dunque natura e ragione, leggi naturali e leggi razionali coincidono. In altri termini la natura è in sé stessa razionale. Da questo punto di vista, per gli stoici qualsiasi essere si comporta bene quando segue la natura, cioè quando agisce in base al principio natural/razionale dell’ “appropriazione”. Con questo concetto gli stoici intendono al tempo stesso: l’agire che si conforma alla natura cosmica, cioè a Dio/Soffio/Ragione; l’agire che realizza effettivamente la natura propria di ogni essere, come specie e come singolo. Questi due aspetti dell’appropriazione, quello individuale e quello universale, sono condizione e insieme conseguenza l’uno dell’altro. In altre parole, l’appropriazione, in generale, è la tendenza di ogni cosa a conservarsi e accrescersi in rapporto all’ambiente di cui è parte. Tale rapporto comporta sia un adattamento passivo, cioè un conformarsi agli elementi e alle leggi dell’ambiente, sia un adattamento attivo, cioè un utilizzo/sfruttamento dell’ambiente. Il primo è condizione del secondo. Il principio comportamentale dell’appropriazione si declina nelle specifiche leggi naturali di ogni regno e di ogni specie di esseri. P.e., negli animali l’appropriazione si manifesta e si 317 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE attua nella modalità dell’istinto. Da questo punto di vista, la specie umana si differenzia da tutte le altre perché in essa l’appropriazione si realizza in modo coscientemente razionale. La natura peculiare dell’uomo infatti coincide con la sua intelligenza e pertanto appropriarsi di sé stesso per l’individuo umano significa appropriarsi innanzitutto e soprattutto della sua intelligenza. La condizione generale perché l’uomo possa appropriarsi della sua intelligenza è l’appropriarsi, cioè il rendersi conforme, alla ragione universale, cioè al destino. In altre parole l’uomo deve far coincidere la propria ragione individuale con la ragione universale che governa tutte le cose e tutti gli eventi. Per chiarire questa loro concezione, gli stoici utilizzano l’allegoria di un cane legato a un carro in movimento. Il cane può muoversi volontariamente nella stessa direzione del carro, oppure può cercare di muoversi in altre direzioni piuttosto che rimanere inerte. Qualunque cosa faccia si muoverà comunque nella direzione imboccata dal carro. Nel primo caso però starà bene, nel secondo soffrirà o addirittura morirà. E’ appena il caso di precisare che il carro rappresenta il destino e insieme la natura/ragione, mentre il cane l’uomo e più in generale ogni essere naturale. L’allegoria del carro e del cane è sintetizzata da Seneca nella massima “il destino accompagna chi lo vuole, trascina chi gli si oppone” (Ducunt volentem fata, nolentem trahunt). L’indicazione pratica conseguente è che ogni uomo deve comprendere con la sua ragione quale sia il corso del destino e scegliere di assecondarlo, cioè di contribuire alla sua attuazione. Insomma la libertà umana per gli stoici consiste nell’aderire volontariamente e attivamente al destino. Su queste basi, a giudizio degli stoici l’appropriazione umana si realizza in due modi fondamentali: 1) il vizio; 2) la virtù. Vizio e virtù rappresentano rispettivamente il minimo e il massimo grado di appropriazione. Il vizio consiste nel comportamento irrazionale, cioè nel comportamento che non si basa sulla ragione individuale e non si conforma alla Ragione universale. Il comportamento vizioso infatti è guidato dalle passioni, cioè dalle emozioni istintive che l’uomo appunto patisce, ossia subisce passivamente, in quanto implicano la rinuncia all’uso della ragione e quindi alla libera scelta volontaria. In parole semplici le passioni rendono l’uomo schiavo, o burattino, dei suoi istinti e quindi l’uomo vizioso o malvagio è l’uomo che si comporta meccanicamente e sotto coercizione. Al tempo stesso l’azione viziosa o malvagia è quella più erronea e inefficace, ovvero quella che conduce prima o poi all’infelicità. La virtù, cioè l’appropriazione massima, coincide invece con l’uso e l’attuazione della razionalità, cioè con il comportamento più razionale. In questo senso la virtù coincide con l’impassibilità, cioè con uno stato d’animo lucidamente sereno perché non offuscato né agitato da alcuna passione. Il comportamento virtuoso è dunque l’unico comportamento 318 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE davvero libero, dal momento che si basa sulla scelta consapevole e volontaria della ragione che sottrae l’uomo alla schiavitù nei confronti delle passioni. Esso è al contempo il comportamento più efficace, cioè quello capace di garantire all’uomo la felicità. Queste definizioni generali della virtù e del vizio, nello specifico, portano gli stoici ad accogliere le virtù filosofiche tradizionali (prudenza, moderazione, giustizia, coraggio, ecc.) e a respingere i vizi filosofici tradizionali (viltà, ingiustizia, intemperanza, spericolatezza, ecc.), a cui, tuttavia, aggiungono la compassione, l’umiltà e l’amore (cui contrappongono la virtù dell’amicizia). Tra i comportamenti virtuosi e quelli viziosi esiste, però, secondo gli stoici, una terza specie intermedia di comportamenti che sono eticamente neutri, cioè di per sé né viziosi né virtuosi. Tali comportamenti sono quelli relativi alle diverse condizioni materiali possibili, p.e. la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, ecc. Tutte le condizioni materiali, affermano gli stoici, sono eticamente “indifferenti”, nel senso che la scelta tra virtù e vizio non dipende da esse. In altre parole può esserci un vizioso povero tanto quanto un vizioso ricco, così come un virtuoso malato tanto quanto in perfetta salute fisica. Tuttavia, una volta stabilito che l’uomo può e deve essere virtuoso quali che siano le sue condizioni materiali, gli stoici sostengono anche che beni indifferenti quali la bellezza, la forza, la ricchezza, la salute, la fama, il piacere, la nobiltà sono da preferire; mentre indifferenti quali la bruttezza, la debolezza, la povertà, la malattia, il dolore, il disonore, la volgarità sono da evitare. Di conseguenza, gli stoici chiamano “convenienti” i comportamenti volti a conseguire, conservare e accrescere gli indifferenti preferibili e “sconvenienti” i comportamenti opposti. Tra i comportamenti convenienti gli stoici annoverano anche e innanzitutto i doveri sociali e politici, cioè amare i genitori e la patria, obbedire alle leggi, svolgere le proprie funzioni civiche, ecc. In questo senso, l’etica stoica si caratterizza come un’etica del dovere (contrapposta all’etica del piacere epicurea e all’etica della licenza cinica). L’ideale etico degli stoici è rappresentato dalla figura del saggio, cioè dell’uomo stabilmente virtuoso che agisce sempre perfettamente. Il saggio gode della massima felicità in quanto la felicità è, per così dire, una proprietà intrinseca della virtù. In altre parole la virtù è condizione necessaria e sufficiente della felicità. Ciò comporta, da un lato, che la felicità non può essere conquistata se non grazie alla virtù; dall’altro, che il comportamento virtuoso non ha bisogno di alcun premio né terreno né ultraterreno. Naturalmente ciò vale anche, simmetricamente, per il vizio: esso è la punizione di se stesso, in quanto procura l’infelicità, e dunque non c’è bisogno per punire il malvagio di alcun castigo né umano né divino. 319 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nella loro valorizzazione della virtù, gli stoici giungono ad affermare che il saggio gode di una condizione divina. Dio, infatti, è razionale, impassibile e libero, e quindi felice, non più di quanto possa esserlo un uomo che raggiunga la virtù perfetta. Gli stoici stabiliscono una netta linea di demarcazione tra i pochi uomini saggi e la maggioranza degli uomini stolti. In questo senso essi sostengono una sorta di elitarismo intellettuale ed etico che ha il suo rovescio nello sprezzo dell’uomo comune. Tuttavia gli stoici sono i primi filosofi a sostenere apertamente e totalmente che tutti gli uomini possono diventare saggi indipendentemente da ogni differenza di classe, di razza e di nazionalità. Insomma per gli stoici è possibile che uno schiavo barbaro sia saggio e dunque che egli sia il vero nobile mentre il suo padrone il vero schiavo. Il fondamento di questa rivoluzionaria tesi è la natura uniforme della specie umana, dalla quale consegue non solo che tutti gli uomini sono dotati della stessa capacità razionale ma anche che esiste una legge naturale universale che spinge tutti gli uomini ad unirsi socialmente e politicamente. In questo senso gli stoici si sentivano e si dichiaravano, prima ancora e più che cittadini di uno stato storico, cittadini del mondo e anzi del cosmo intero, dal momento che anche gli dei sono accomunati agli uomini dalla stessa legge naturale. 320 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 GLI STOICI: IL RAGIONAMENTO DEVE ESSERE PROPOSIZIONALE Dicono gli Stoici che alla nascita dell’essere umano la parte direttiva [la ragione] della sua anima è come una pergamena ben disposta ad essere impressa dalla scrittura, e in essa viene segnata di volta in volta ogni nozione. La prima forma di tale scrittura è la sensazione. Aezio, Placita, libro IV, 11 Zenone questa stessa cosa la rappresentava con gesti. Mostrando all’interlocutore in faccia la mano aperta con le dita tese, diceva: “La rappresentazione è così”. Poi, contraendo un poco le dita: “L’assenso è così”. Stretta poi la mano a pugno, diceva: “Questa è la comprensione”: e proprio da questo paragone fu indotto a dare a questa un nome che prima non esisteva, katàlepsis. Accostata poi alla destra la sinistra, e con questa afferrato fortemente e compresso ad arte il pugno chiuso, diceva che quella era la scienza, e che era cosa tale che nessuno, fuorché il sapiente, poteva rendersene padrone. Cicerone, Academica priora, libro II, 144 Dicevano che vi sono tre cose strettamente collegate l’una con l’altra, il significato, il significante, l’oggetto vero e proprio: significante è l’espressione, per esempio il nome “Dione”; significato la realtà che esso indica e di cui noi abbiamo comprensione come di qualcosa che si pone di fronte al nostro pensiero (i barbari non lo afferrano, pur intendendo il suono materiale della voce); l’oggetto è ciò che è esterno al pensiero, in questo caso, per esempio, Dione in carne ed ossa. Di queste cose, due sono corporee, l’espressione vocale e l’oggetto; una, la realtà significata, è invece incorporea, e prende appunto il nome di “significato”. Sesto Empirico, Adversus logicus, libro II, 11 La dimostrazione, essi dicono, è un ragionamento che, attraverso premesse convenute, per via deduttiva rivela una conclusione non evidente. Ciò che intendono dire risulterà più chiaro da quanto segue. Ragionamento è un insieme composto di premesse e conclusione. Si dicono premesse di esso le proposizioni assunte di comune accordo per stabilire la conclusione; conclusione, invece, la proposizione stabilita a partire dalle premesse. Per esempio in questo ragionamento: “Se è giorno, c’è luce; ma è giorno, dunque 321 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE c’è luce”, la parte “dunque c’è luce” è la conclusione, mentre le altre sono premesse. Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, libro II, 135 Secondo gli stoici, come abbiamo visto, il requisito essenziale della felicità è l’impassibilità, cioè un comportamento per nulla influenzato dalle emozioni ma dettato unicamente dalla ragione. Solo l’esercizio della propria ragione, infatti, dà all’uomo la capacità di comprendere la Ragione cosmica – il Pneuma-Dio – di tutte le cose e quindi gli permette di conformare le proprie azioni ad essa, stante che la felicità consiste proprio nella sintonia tra l’agire individuale e la Legge razionale che permea e governa tutta la realtà. Ma l’esercizio della ragione altro non è che la ricerca conoscitiva, ossia la scienza. Pertanto, l’attività scientifica per gli Stoici, da un lato, è lo strumento fondamentale per raggiungere il fine etico della felicità, dall’altro è in se stessa suo conseguimento, in quanto il suo svolgimento infonde già di per sé felicità. Data questa prospettiva, gli stoici si impegnano a fondo nell’elaborazione della Logica, intesa in senso lato come teoria della conoscenza e, stricto sensu, del linguaggio e del ragionamento (o argomentazione). Il soggetto della conoscenza, sostengono gli stoici, è l’anima (psyché=respiro). Essa è materiale come il resto del corpo ma di una materialità diversa da quella corporea, in quanto uguale a quella finissima del Pneuma, ed è articolata in otto parti cui corrispondono altrettante funzioni: generante, tattile, odorante, gustante, udente, vedente, parlante e pensante. In particolare, la parte pensante dell’anima, cioè la mente o autocoscienza razionale, è chiamata dagli stoici “egemonico”, in quanto è quella che dirige e unifica tutte le altre. In questo senso, l’egemonico in primo luogo percepisce, cioè si rende coscienti le sensazioni colte dai cinque sensi; in secondo luogo, dà il suo assenso alle percezioni, discriminando tra quelle vere e quelle false; in terzo luogo, decide le azioni corporee; e infine ragiona, cioè elabora le percezioni vere producendo conoscenza. In ogni sua funzione, l’anima interagisce col corpo. Senza questa interazione essa non potrebbe sentire, percepire, assentire, decidere, ragionare e generare. Questo, per gli stoici, è l’argomento decisivo a favore della materialità dell’anima: se essa infatti fosse immateriale non potrebbe interagire con il corpo e quindi non potrebbe svolgere le sue funzioni. In altri termini, solo il comune denominatore materiale di anima e corpo permette la loro indispensabile comunicazione. 322 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Secondo gli stoici, ma solo in prima approssimazione, alla nascita la mente umana è come un foglio bianco che in seguito viene sempre più scritto a causa delle sensazioni. Dunque per gli stoici la sensibilità è condizione necessaria della conoscenza. Ma non sufficiente. Le sensazioni, infatti, sono solo l’avvio del processo conoscitivo. Per esemplificarlo, gli stoici ricorrono a un’altra similitudine, quella di una mano con le dita tese che poi si incurvano fino a chiudersi nel pugno che infine viene avvolto e stretto dall’altra mano. L’analogia gestuale indica che il processo conoscitivo consta di quattro momenti/operazioni: 1. la mano aperta rappresenta la sensazione, intesa come l’impronta che l’oggetto esterno produce sul corpo, e che viene immediatamente percepita dalla mente, cioè trasformata in “rappresentazione” (o immagine) mentale cosciente (che la memoria può conservare); 2. la mano semichiusa rappresenta l’assenso che la mente può accordare o non accordare alla rappresentazione a seconda che la giudichi vera o falsa; 3. la mano chiusa a pugno corrisponde alla “rappresentazione apprensiva”, cioè all’apprendimento effettivo (anziché all’ignoranza), all’incameramento mentale, del contenuto conoscitivo della sensazione che ha ricevuto l’assenso, ossia che è stata giudicata vera; 4. l’unione di entrambe le mani rappresenta la scienza, intesa come accumulo ma anche e soprattutto concatenamento, ovvero ordinamento, di rappresentazioni apprensive. Superficialmente, la teoria della conoscenza stoica si potrebbe classificare come “sensismo”, dal momento che si fonda sulla sensazione. Ma, come si è visto, non tutte le sensazioni, secondo gli stoici, sono fonte di conoscenza. In altre parole, gli stoici sono consapevoli del carattere ingannevole di molte sensazioni (p.e. i miraggi, ma anche il semplice movimento del Sole). E infatti, per gli stoici, l’operazione conoscitiva preliminare è la selezione delle sensazioni vere, cioè reali, oggettive, effettivamente esistenti, sulla base dell’assenso/dissenso della mente. In questa cornice, il problema cruciale diventa il criterio dell’assenso. In altri termini, qual è il metro in base al quale la mente può giudicare una rappresentazione vera piuttosto che falsa? Gli stoici rispondono: l’evidenza, ossia l’intuizione immediata e indubitabile, e quindi del tutto persuasiva, della verità di qualcosa (p.e. della levigatezza di un tavolo). Ma si tratta di un’evidenza oggettiva, cioè imposta alla mente dalla sensazione stessa, o soggettiva, cioè stabilita e quindi scelta dalla mente? In altri termini, l’evidenza per gli stoici è una proprietà della sensazione o un criterio della mente? La risposta è sia l’una sia l’altra, o meglio l’unione/corrispondenza dell’una e dell’altra. Non bisogna dimenticare, infatti, che per gli stoici tutte le cose sono pervase dal Pneuma-Ragione e che la mente 323 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE umana è una parte del Pneuma-Ragione. Dunque la mente umana non può non avere una capacità autonoma di riconoscimento del vero, a maggior ragione perché essa è solo materia attiva e razionale, al contrario dei corpi, fonti delle sensazioni, che sono un misto di materia passiva e irrazionale e di materia attiva e razionale. Dunque, se di sensismo si può parlare, a proposito della teoria della conoscenza stoica, si tratta di un sensismo sofisticato, di un “razionalsensismo”. Questa classificazione ibrida è confermata dal fatto che, secondo gli stoici, il risultato finale del processo conoscitivo – cioè la scienza – non è soltanto e tanto accumulo di singole “rappresentazioni apprensive” derivate da sensazioni vere. La scienza, per gli stoici, è costituita anche e soprattutto da rappresentazioni intellettive universali, ossia da concetti. In questo modo, gli stoici sostengono che la conoscenza sensibile non è fine a se stessa ma è il mezzo per costruire una conoscenza razionale, cioè logico-concettuale. Addirittura, in questo senso, essi affermano che i prodotti della conoscenza razionale, cioè i concetti, sono qualcosa di assolutamente immateriale. Ma allora in cosa consistono i concetti e qual è la loro genesi? La concezione del concetto degli stoici è strettamente legata alla loro teoria del linguaggio, secondo la quale il linguaggio è costituito da tre elementi fondamentali: 1. il significante, cioè un insieme di suoni o di segni grafici, ovvero una parola detta o scritta, p.e. “cavallo”, che ha la funzione di contrassegnare e comunicare un determinato significato; 2. il significato, cioè il concetto, ovvero il contenuto mentale universale, che il significante designa, p.e. “mammifero quadrupede che nitrisce”; 3. la cosa reale individuale – ovvero una singola rappresentazione apprensiva – cui il significato/concetto si riferisce, p.e. un singolo cavallo corporeo, come Bucefalo. L’enunciato “Bucefalo è un cavallo”, secondo gli stoici, è una conoscenza razionale in quanto contiene i tre elementi sopra definiti. Questo significa che la conoscenza razionale per gli stoici coincide con il linguaggio, o quantomeno con l’uso rigoroso e quindi veritiero del linguaggio, ossia con il linguaggio scientifico. Ma la dottrina stoica del significato spiega anche e soprattutto la natura dei concetti. Dal momento che le cose reali, ossia fisiche, sono sempre individuali, i concetti, in quanto sono universali, non sono cose reali, ma “espressioni”, cioè costruzioni linguistiche, ossia dei prodotti artificiali della mente. Ma in che modo la mente costruisce i concetti, ovvero il linguaggio scientifico? Attraverso operazioni mentali di confronto, scombinazione e ricombinazione delle rappresentazioni apprensive, rispondono gli stoici, confermando così che per loro la mente umana non è 324 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE solo un foglio bianco “scritto” dalle sensazioni, ma è anche un elaboratore attivo delle sensazioni, necessariamente dotato pertanto di criteri autonomi di elaborazione. L’attività e la produttività della mente, secondo gli stoici, raggiungono il massimo livello nei ragionamenti, che costituiscono il traguardo e il vertice della scienza. Dunque la scienza, per gli stoici, parte dalle sensazioni vere (o rappresentazioni apprensive) per utilizzarle come elementi di base per la costruzione di concetti con i quali produrre ragionamenti le cui conclusioni costituiscono la conoscenza vera e propria. Di conseguenza, gli stoici dedicano grande attenzione alla teoria dei ragionamenti, da essi denominata “dialettica”. La loro prima novità in questo senso è che il ragionamento deve essere inteso e condotto come una connessione di proposizioni, anziché di termini. La realtà naturale, infatti, non è un insieme di cose separate e statiche, ma è un processo, cioè un sistema di eventi correlati. Mentre i termini si riferiscono alle cose, le proposizioni – i cui elementi decisivi sono i verbi, cioè le parole che designano le azioni – corrispondono agli eventi. Pertanto, concludono gli stoici, solo i ragionamenti proposizionali ci permettono di conoscere scientificamente la realtà. In secondo luogo, gli stoici distinguono due tipi di ragionamenti proposizionali: quelli ipotetici, basati su una premessa “se p allora q” (“Se piove, allora si formano pozzanghere”); quelli disgiuntivi, basati su una premessa “o p o q” (“O piove o nevica”), nella quale ognuno dei due eventi esclude l’altro. Fatta questa distinzione, il nucleo della dialettica stoica consiste nello stabilire la concludenza dei ragionamenti, ovvero la loro validità. A tal fine, gli stoici individuano cinque modelli – due ipotetici e tre disgiuntivi – di ragionamenti validi: 1. Se p allora q; ma p, dunque q (Se piove ci sono nuvole; ma piove, dunque ci sono nuvole). 2. Se p allora q; ma non q, dunque non p (Se piove ci sono nuvole; ma non ci sono nuvole, dunque non piove). 3. Non sia p sia q; ma p dunque non q (Non si può nuotare e rimanere asciutti; ma lui nuota, dunque non è asciutto). 4. O p o q; ma p dunque non q (O è giorno o è notte; ma è giorno, dunque non è notte). 5. O p o q; ma non q, dunque p (O è giorno o è notte; ma non è notte, dunque è giorno). Dai primi due modelli si ricava che i ragionamenti ipotetici sono quelli basati su un’implicazione (pq), ossia su una correlazione non reversibile (a differenza di quella di equivalenza p↔ q), e che essi sono validi solo in due casi: quando all’affermazione dell’antecedente (p) segue l’affermazione del conseguente (q) e quando alla negazione del 325 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE conseguente segue la negazione dell’antecedente. Nei casi contrari le conclusioni sono invalide (“Ci sono le nuvole, dunque piove” , “Non piove, dunque non ci sono le nuvole”). Una volta che sia valido, secondo gli stoici, un ragionamento è anche vero quando le sue premesse sono vere, cioè si basano su rappresentazioni apprensive. Ma gli stoici non si accontentano di garantirsi la verità in generale, ma vogliono raggiungere soprattutto la verità scientifica, che per loro consiste nell’individuazione delle cause dei fenomeni naturali. In questo senso, gli stoici chiamano i ragionamenti scientifici “dimostrativi”, appunto in quanto sono quelli che dimostrano le cause effettive degli eventi. E’ nei ragionamenti dimostrativi che la forma ipotetica (se p allora q) appare quella più adeguata a codificare e così a conoscere i rapporti reali di causa ed effetto. Essi possono essere di tre tipi, a seconda che la conclusione valga per il presente, il passato o il futuro: 1. Se c’è fumo nel bosco, allora c’è un incendio; ma c’è fumo nel bosco, dunque c’è un incendio. 2. Se una donna ha latte nel seno, allora ha partorito; ma questa donna ha latte nel seno, dunque ha partorito. 3. Se la pressione si alza, verrà il bel tempo; ma la pressione si sta alzando, dunque verrà il bel tempo. Quest’ultimo esempio, quello di ragionamento dimostrativo relativo al futuro, assume per gli stoici un valore particolare perché rende la scienza capace di previsione, permettendo agli uomini di prepararsi nel migliore dei modi agli eventi futuri, sfruttandone al massimo i vantaggi o diminuendone il più possibile i danni, e, più ingenerale, consentendo loro di sintonizzarsi al massimo grado con il corso razionale del Destino, condizione necessaria e sufficiente per godere della felicità. Infine, gli stoici valorizzano la riflessione logica sui paradossi, ovvero su proposizioni autocontraddittorie scoperte da altri filosofi (soprattutto da Eubulide di Megara). I due casi più interessanti sono i seguenti: Il paradosso del Mentitore: Epimenide il cretese afferma: “Tutti i cretesi mentono”. L’affermazione di Epimenide non può essere giudicata né vera né falsa perché appare sia vera sia falsa: infatti, se la consideriamo vera allora Epimenide, essendo cretese, deve aver mentito, quindi la sua affermazione è falsa; ma anche se la consideriamo falsa, allora Epimenide ha mentito, dunque, essendo cretese, la sua affermazione è vera. Il dilemma del coccodrillo: un coccodrillo ghermisce un bimbo, la mamma se ne accorge e lo prega di ridarglielo, il coccodrillo allora le promette che glielo ridarà solo se la mamma indovinerà se lui accetterà oppure no la sua richiesta; poiché la 326 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE mamma gli risponde che avrebbe mangiato il suo bimbo, il coccodrillo le replica che non poteva darle il figlio in quanto in tal caso lei non avrebbe indovinato le sue intenzioni e dunque lui non era tenuto a soddisfare la sua richiesta, ma a sua volta la mamma controbatte che lui non poteva divorare suo figlio perché in tal caso lei avrebbe indovinato le sue intenzioni e lui pertanto avrebbe dovuto restituirle il figlio. In entrambi i casi (il secondo è una variante elaborata del primo), il problema logico consiste nel fatto che una proposizione può implicare due conseguenze logiche tra loro contraddittorie senza che sia possibile stabilire quale tra le due sia quella valida. Di più, ognuna delle due conseguenze implica la verità dell’altra che però contraddice la prima, cioè ne attesta la falsità. In altre parole, questi due paradossi violano la regola logica dei ragionamenti disgiuntivi, secondo la quale se è vero p allora q è falso e viceversa, in quanto in tal caso sia p sia q sono entrambi sia veri sia falsi. Ma tale regola altro non è che quella del principio di non-contraddizione. Dunque i paradossi logici sembrano mettere in dubbio il fondamento stesso della logica, e quindi della conoscenza umana, attestandone la limitatezza e la fallibilità. Ma gli stoici li considerano invece dei problemi che si possono risolvere e che stimolano la ricerca di regole logiche più profonde e più complesse. 327 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI I PARADOSSI NELLA LOGICA CONTEMPORANEA Nel ‘900, il paradosso del Mentitore venne riscoperto, in versione logico-formale, da Bertrand Russell (1872-1970). Perseguendo il suo programma di fondazione logica della matematica come sistema assiomatico-deduttivo, Russell scoprì una contraddizione che colpiva proprio il principio fondamentale della sua costruzione logico-matematica, ovvero il concetto di “classe” (un insieme di elementi). Esso implica che ci sia una “classe di classi”. Questa è una classe che riunisce altre classi come propri elementi: per esempio la classe mammiferi in quanto unifica le classi primati, felini, canini, ecc. In questo senso, secondo Russell, alcune classi sembra possano includere se stesse tra i propri elementi, altre no. Per esempio la classe “tutto” deve contenere se stessa altrimenti non sarebbe completa. Invece la classe “mammifero” non è necessario che contenga se stessa come proprio elemento. Su queste basi, Russell individua una classe particolare, definita come “la classe che raccoglie le classi che non contengono se stesse come propri elementi”. Il problema è: questa classe contiene o non contiene se stessa come proprio elemento? Entrambe le risposte possibili a questa domanda si dimostrano contraddittorie rispetto alla definizione di partenza . Infatti: se si risponde sì, allora la classe contiene se stessa: ma ciò comporta che essa contenga una classe che contiene se stessa; se si risponde no, allora la classe non contiene se stessa: ma ciò comporta che essa non contenga tutte le classi che non contengono se stesse. Russell fornisce anche una versione semplificata e più gradevole del suo paradosso, immaginando un villaggio in cui risiede un unico barbiere che rade solamente i residenti che non si radono da soli. Il problema in questo caso è: chi rade il barbiere? Entrambe le soluzioni possibili sono ugualmente contraddittorie rispetto alla premessa. Pochi anni dopo, riprendendo e applicando il paradosso del Mentitore alla logica matematica, Kurt Gödel (1906-1978) nel 1931 scoprì i due Teoremi di incompletezza, validi per tutti i sistemi assiomatico-deduttivi (la matematica può essere considerata un sistema assiomatico-deduttivo), i cui requisiti fondamentali erano stati individuati nella coerenza (ossia, la non-contraddittorietà) e nella completezza (ossia, la dimostrazione totale) di tutti i suoi enunciati. Secondo il primo Teorema di incompletezza, ogni sistema assiomatico-deduttivo contiene un enunciato indecidibile, ovvero un enunciato né dimostrabile come vero né confutabile come falso. Si tratta dell’enunciato “Questo enunciato non è dimostrabile”. Infatti, tale enunciato se fosse dimostrabile sarebbe falso, e quindi il sistema sarebbe incoerente (conterrebbe una contraddizione); se non fosse dimostrabile sarebbe vero, ma allora la sua verità non sarebbe dimostrabile dal sistema, che dunque risulterebbe incompleto. Il secondo Teorema di incompletezza è un corollario del primo. Esso afferma che un sistema assiomatico-deduttivo non può dimostrare la propria coerenza. Infatti, poiché 328 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE contiene almeno un enunciato indecidibile (“Questo enunciato non è dimostrabile”), non è possibile stabilire se esso è coerente o contraddittorio rispetto agli assiomi del sistema stesso. Tuttavia, Gödel stesso chiarì che i suoi due teoremi non confutavano la completezza e la coerenza della matematica, ma solo della matematica interpretata come sistema assiomatico-deduttivo. Dunque i Teoremi di incompletezza, furono pensati e proposti da Gödel per confutare la fondazione formalistica della matematica e sostenerne la fondazione alternativa, cioè quella idealistica. Per Gödel, infatti, la matematica si fonda, come per Platone, sull’intuizione razionale degli oggetti matematici, che sono idee immutabili realmente esistenti. Nell’ambito della logica, una possibile soluzione del paradosso del mentitore è stata proposta da Alfred Tarski (1902-1983), il quale, sviluppando un’idea di Russell, sostenne che i paradossi contengono un errore logico, quello dell’autoreferenzialità. In altre parole, per Tarski è una regola logica che un enunciato non possa mai riferirsi a se stesso. P.e. l’enunciato “Io sto mentendo” può riferirsi solo ad altri enunciati precedenti o successivi (p.e. “Io non ero a Roma il 12 aprile del 2012”) ma non a se stesso, per cui esso attesta che effettivamente le cose che sto dicendo sono false. Analogamente, se Epimenide il cretese dice “Tutti i cretesi mentono”, l’affermazione non riguarda anche Epimenide e dunque non risulta autocontraddittoria. In questo senso Tarski stabilisce che la logica deve includere una distinzione tra due livelli logici, da lui chiamati il “linguaggiooggetto” e il “metalinguaggio”. Per verificare se un enunciato, p.e. “Io sto mentendo”, è vero o falso è necessario considerarlo come l’oggetto di un enunciato di livello superiore (metalinguaggio), p.e. “ ‘Io sto mentendo’ è falsa perché quello che sto dicendo è vero.”; Oppure “ ‘Io sto mentendo’ è vera perché quello che sto dicendo è falso.” Per saperne di più: Francesco Berto, Tutti pazzi per Gödel, Laterza 2008. 329 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO LEON LEDERMAN: L’“EFFETTO TUNNEL” Un altro fenomeno controintuitivo è l’“effetto tunnel”. Abbiamo già parlato della possibilità di scagliare degli elettroni contro una barriera d’energia. L’analogo classico è il far rotolare una pallina su per un pendio. Se date alla pallina una spinta iniziale sufficiente, essa riuscirà ad andare oltre la sommità. Se l’energia iniziale è troppo debole, la pallina tornerà indietro. [...] Descrivendo quello che succede agli elettroni scagliati contro una barriera energetica o a un elettrone intrappolato fra due barriere, invece, dobbiamo usare onde di probabilità. Succede che qualcuna delle onde possa “sgusciare” attraverso la barriera (nei sistemi atomici o nucleari la barriera è elettrica oppure è un’interazione forte), e perciò c’è una probabilità finita che la particella si liberi dalla trappola. L. Lederman, La particella di Dio, Mondadori 1996, pp. 195-196 NORMAN DOIDGE: ECCITAZIONE E APPAGAMENTO La pornografia è più eccitante che appagante, poiché nel cervello abbiamo due distinti sistemi del piacere, uno che ha a che fare con l’eccitazione, e un altro che regola la soddisfazione del piacere. Il sistema dell’eccitazione è in relazione con il piacere “appetitivo” che proviamo immaginando qualcosa che desideriamo, che si tratti di sesso o di un pasto gustoso. Dal punto di vista neurochimico, questo sistema è ampiamente connesso con la dopamina e aumenta il nostro livello di tensione. Il secondo sistema del piacere ha a che fare con la gratificazione, o “piacere consumatorio”, il quale accompagna un’esperienza sessuale concreta o la consumazione di un pasto gustoso, quindi un piacere rilassante e appagante. Dal punto di vista neurochimico, questo sistema si basa sul rilascio delle endorfine, sostanze oppiacee che danno un senso di profonda rilassatezza e benessere. N. Doidge, Il cervello infinito, Ponte delle Grazie, 2007 (2007), pp. 121-122 VITO MANCUSO: L’ENERGIA CONTIENE UN PRINCIPIO ORDINATORE IMPERSONALE La sede del divino è dentro ogni cosa, dentro ogni ente naturale, dentro ogni fenomeno ordinato. Se l’essere è energia, come insegna la fisica, e se l’energia produce fenomeni ordinati, come attestano i nostri sensi, ciò significa che 330 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’energia è abitata da una forma orientata all’ordine, è mossa da una logica che la porta verso livelli sempre più complessi di organizzazione. [...] Il mondo è governato, e lo dimostra la progressiva crescita dell’organizzazione [...] ma è governato da un principio ordinatore impersonale, il che costituisce l’unica garanzia perché la libertà, il vero scopo della creazione, possa essere effettivamente reale. Proprio perché il fine del mondo è la generazione dello spirito, il mondo deve essere libero, ma non c’è modo di garantire la libertà se non mediante ciò che io chiamo principio ordinatore impersonale, il quale nella Bibbia è noto […] come “sapienza”, presso i cinesi come tao, presso gli antichi egizi come maat, presso i Greci come logos, presso gli indù e i buddisti come dharma. C. Augias e V. Mancuso, Disputa su Dio, Mondadori 2009, p. 230 e p. 145 331 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… LA FELICITA’ COME ACCETTAZIONE DEL NON-SENSO DELLA VITA: LO SCETTICISMO Riprendendo il relativismo conoscitivo ed etico dei sofisti (che da questo punto di vista si possono considerare, degli scettici ante litteram) – e soprattutto del più radicale dei sofisti, cioè Gorgia – gli scettici incardinano la loro proposta etica sulla tesi dell’inesistenza di qualsiasi ordine razionale della realtà e della conseguente impossibilità per l’uomo di possedere qualsivoglia verità. Essi, pertanto, a livello teorico-metafisico, rigettano qualsiasi ricerca e qualsiasi discussione; e a livello pratico, propugnano l’indifferenza, ossia un atteggiamento basato sulla convinzione che qualsiasi condizione di vita va accettata e vissuta, in quanto è equivalente a tutte le altre. Tuttavia, a questa posizione di principio gli scettici affiancano una ricetta di vita caratterizzata dal pragmatismo, cioè dalla scelta del comportamento più efficace al fine di conseguire la felicità, intesa come imperturbabilità. In questo senso, a livello conoscitivo, essi ammettono una ricerca empirica basata sul confronto delle sensazioni e finalizzata a individuare parziali uniformità di proprietà ed eventi; a livello pratico, giungono, invece, a proporre il conformismo, cioè l’adeguamento allo stile di vita e alle regole di comportamento della comunità civile di cui si fa parte. 332 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI CAPITANI PIRRONE E TIMONE Iniziatore dello scetticismo (dal greco skèpsis=indagine, nel senso di ricerca continua in antitesi alla convinzione di possedere la verità definitiva, ovvero al dogmatismo) fu Pirrone che nacque a Elide, nel Peloponneso, tra il 365 e il 360 a.C. e fu discepolo prima di filosofi socratici, in particolare dei megarici, e poi di un allievo di Democrito. Ma la sua esperienza decisiva fu la partecipazione alla spedizione militare di Alessandro Magno in Oriente, grazie alla quale entrò in contatto diretto con le tradizioni sapienziali mediorientali – come quella dei magi persiani, sacerdoti del mazdeismo (o religione zoroastriana) – e perfino con quella indiana dei “gimnosofisti”, i quali teorizzavano e praticavano una condotta di vita ascetica. Morto Alessandro, Pirrone tornò a Elide dove insegnò fino alla sua morte tra il 275 e il 270 a.C. Seguendo il modello filosofico socratico, non scrisse nulla (ad eccezione di un carme elogiativo di Alessandro), ma il suo insegnamento orale fu trascritto dal suo discepolo Timone di Fliunte (città del Peloponneso dove nacque nel 325/320), delle cui opere ci rimangono però solo alcuni frammenti e varie testimonianze. 333 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 GLI SCETTICI: FELICITA’ E’ INDIFFERENZA E CONFORMISMO Orbene, egli dice che Pirrone mostra che le cose sono ugualmente indifferenziate, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. Per conseguenza, non bisogna accordare a esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e non è, oppure che né è né non è. Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno, dice Timone, in primo luogo l’afasia e l’imperturbabilità. Aristocle, Frammenti, fr. 6 Heiland Il termine “scetticismo” deriva dal greco skèpsis che significa “indagine”. Gli scettici adottano questo nome perché essi credono che la vita debba essere una ricerca continua e senza fine, ossia senza alcuna conclusione certa e definitiva. Il presupposto di questa concezione è la tesi secondo cui la realtà non è “essere”, cioè non è costituita da nessun principio unitario e universale, sia fisico – come acqua, indivisibili, soffio, ecc. – sia metafisico – come le idee o le essenze. Di conseguenza per gli scettici tutte le cose sono: indifferenziate, cioè non organizzate e ordinate in base a criteri universali che permettano di distinguerle e classificarle; immisurabili, cioè non determinabili quantitativamente ma anche più in generale non definibili né valutabili; indiscriminabili, cioè non distinguibili e non selezionabili nel senso che di nessuna si può stabilire che sia superiore o migliore rispetto a un’altra. In una parola, secondo gli scettici la realtà non possiede alcun ordine razionale, cioè è caos ossia disordine. Dato che la realtà è caotica, per gli scettici non hanno alcun fondamento veritativo né la conoscenza sensibile né la conoscenza razionale. Di conseguenza gli scettici indicano come unico comportamento teoretico adeguato quello basato: 334 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE a livello mentale individuale, sull’astensione da ogni giudizio conoscitivo (o “epoché”, termine greco entrato poi nel vocabolario filosofico), ovvero sull’evitare qualsiasi elaborazione razionale sulla natura ultima e universale delle cose; a livello comunicativo, sull’afasia, ovvero sul non affermare, cioè esprimere e manifestare, alcun giudizio conoscitivo e quindi sull’evitare di farsi coinvolgere in alcuna discussione relativa alla natura ultima e universale delle cose. Sia l’epoche sia l’afasia hanno un implicito fine pratico: la prima quello di evitare frustrazioni, data l’impossibilità umana di giungere a elaborare teorie veritiere; la seconda quello di inquietarsi lasciandosi coinvolgere in dispute irrisolubili e quindi vane. In questa prospettiva, gli scettici sostengono provocatoriamente che su ogni cosa si possono fare solo le seguenti affermazioni: 1) 2) 3) che è non più di quanto non è; che è e che non è; che né è né non è. In altre parole gli unici giudizi e proposizioni che gli scettici ammettono sono quelli contraddittori, ovvero quelli che negano ciò che affermano e affermano ciò che negano. (Oggi li chiameremmo nonsense.) Ma soprattutto in questo modo gli scettici rigettano quello che i filosofi razionalisti avevano considerato come il primo principio razionale, ordinatore della realtà e del pensiero, cioè il principio di non-contraddizione. All’astensione dal giudizio e all’afasia teoretiche corrisponde sul piano pratico il principio etico dell’indifferenza (adiaforìa). In altri termini, per gli scettici ogni cosa, ogni situazione, ogni attività vale l’altra. Lo scettico dunque può fare le cose più umili e ripugnanti come quelle più onorevoli e attraenti nello stesso modo, ovvero con totale distacco. Ciò vale anche nel caso in cui ci si trovi in situazioni pericolose, offese oppure conflitti. In questa prospettiva, gli scettici giungono a sostenere addirittura che nei confronti della realtà bisogna essere “insensibili”. Questa tesi risulta comprensibile considerando che ogni sensazione implica un’interpretazione valutativa, ovvero l’attribuzione di un significato a ciò che sentiamo, e di conseguenza induce a una reazione emotiva e attiva. P.e., se vediamo e udiamo qualcuno insultarci noi interpretiamo e giudichiamo offensivi i tratti del suo 335 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE volto e le sue parole e immediatamente ci sentiamo irritati, aggressivi e siamo portati a rispondergli per le rime. In questo caso, la massima scettica del “non sentire”, significa che dobbiamo invece limitarci a registrare dei movimenti facciali e dei suoni, senza interpretarli e valutarli e dunque senza avere alcuna reazione emotiva, rimanendo cioè del tutto distaccati. Attraverso l’indifferenza e l’insensibilità, secondo gli scettici, si consegue la disposizione psichica e pratica ottimale, cioè l’imperturbabilità (atarassìa), ossia una totale rilassatezza interiore ed esteriore. Proprio perché tutti i giudizi conoscitivi e tutti i comportamenti sono equivalenti, una volta acquisita questa consapevolezza, per gli scettici è però possibile seguire anche una linea di condotta teorica e pratica moderata e realistica, ovvero pragmatica. In questo senso, a livello teoretico, fermo restando che non esiste né è conoscibile alcun “essere”, cioè alcun ordine razionale unitario della realtà, è lecito credere liberamente all’apparenza sensibile, ossia ai fenomeni così come sono soggettivamente percepiti dai nostri sensi. P.e., non posso né pensare né dire che il miele in generale è dolce, ma posso pensare e dire che questo miele che sto assaggiando qui e ora è dolce per me. In altre parole, riducendo l’essere all’apparire e la conoscenza alla credenza soggettiva, è vantaggioso pensare e comunicare. Si tratta però di un pensare e di un comunicare non dogmatici, ma aperti e tolleranti, e pertanto immuni dall’agitazione emotiva e comportamentale. In questa direzione, alcuni scettici propongono come criterio di selezione delle conoscenze quello dell’opinione più ragionevole, altri quello dell’opinione più probabile. E’ chiaro che i criteri di ragionevolezza e probabilità sono accomunati dall’essere relativi e cioè flessibili e negoziabili e dunque modificabili. Analogamente sul piano pratico, fermo restando che non esiste alcun comportamento o modo di vivere migliore in assoluto di un altro, gli scettici propongono di comportarsi secondo i costumi della comunità socio-politica di cui si è parte. In questo senso gli scettici teorizzano un’etica conformistica, cioè basata sull’adeguarsi alle norme comportamentali stabilite da una società, cioè alle tradizioni, agli usi e alle abitudini di una popolazione. Il conformismo scettico, però, è consapevole del valore relativo dei costumi di qualsiasi popolo e dunque induce a praticarli senza fanatismo e anzi con distacco, per mera convenienza pratica. Nei suoi sviluppi più avanzati, lo scetticismo procede a confutare in modo sistematico tutti i capisaldi delle precedenti filosofie razionalistiche. In questo senso assumono particolare rilievo le confutazioni dei ragionamenti deduttivo e induttivo e addirittura del rapporto di causa ed effetto. 336 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La deduzione viene confutata dagli scettici in quanto circolo vizioso. Infatti la proposizione universale (p.e., “tutti gli uomini sono mortali”) da cui si deduce la proposizione singolare (p.e. “Socrate è mortale”), per gli scettici, si basa surrettiziamente su una generalizzazione induttiva di proposizioni singolari (p.e. “Socrate è mortale”, “Platone è mortale”, ecc.). A sua volta l’induzione viene confutata sostenendo che i casi singolari su cui si basa sono infiniti, dunque non possono mai essere vagliati tutti, quindi è sempre possibile che ci siano uno o più casi anomali. P.e. se dall’osservazione di molti casi di uomini senza coda traggo la conclusione che “nessun uomo ha la coda”, sbaglio perché non è escluso che possano esserci uno o più uomini con la coda. La confutazione scettica del rapporto di causa ed effetto, invece, si basa sull’argomentazione che tale rapporto postula sia un legame necessario, e quindi costante, di affinità/continuità sia una netta distinzione tra l’oggetto causante e l’oggetto causato. Allora delle due l’una: o l’oggetto causato è considerato parte dell’oggetto causante, cioè un suo prolungamento, e allora non potrebbe essere giudicato effetto dell’oggetto causante; oppure l’oggetto causato è tutt’altra cosa da quello causante ma allora non ha nulla a che fare con questo, il quale pertanto non potrebbe essere giudicato sua causa. Se gli scettici cercano di confutare sistematicamente i filosofi razionalisti, questi ultimi non sono certo da meno nel contrattaccare i loro avversari. In particolare la più acuta confutazione dello scetticismo è quella che rileva come la tesi “nulla è vero” è autocontraddittoria: infatti, se la consideriamo vera confuta quello che sostiene perché in tal caso ci sarebbe almeno una verità, ossia appunto che “nulla è vero”; se invece si interpreta la tesi scettica come anch’essa non vera ne consegue che è falso che nulla è vero, dunque è vero che tutto è vero. Gli scettici più sofisticati replicano a questa confutazione affermando che essi sostengono il dubbio non in modo dogmatico, cioè perentorio, ma in modo critico, cioè appunto senza alcuna certezza. Pertanto l’affermazione “nulla è vero” non va intesa come una tesi assoluta e quindi certa, bensì come una tesi relativa e quindi solo probabile. Ma che non sia assoluta non implica che non abbia alcun valore conoscitivo. Al contrario, dato che le tesi assolute e certe sono false, solo una tesi relativa e probabile può avere un valore conoscitivo effettivo, seppure parziale. 337 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIII VIAGGIO LA FELICITA’ COME RICERCA SCIENTIFICA 338 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… LA I RIVOLUZIONE SCIENTIFICA? E’ da tempo un fatto consolidato della storia del pensiero filosofico e scientifico che l’età ellenistica fu un periodo di grande sviluppo delle scienze matematico-naurali, ossia di matematica, astronomia, fisica, geografia, meccanica, biologia. Nell’ultimo ventennio, però, lo sviluppo della ricerca archeologica e filologica ha portato a una radicale reinterpretazione della portata e del valore del progresso scientifico nell’età ellenistica. La critica filosofico-scientifica più recente, infatti, è giunta a sostenere che la scienza moderna, ovvero la scienza sperimentale, nacque nei regni ellenistici nel III e nel II secolo a.C. In altre parole la rivoluzione scientifica moderna – considerata tradizionalmente la I rivoluzione scientifica –, attuatasi nel 1500 e nel 1600 a opera di Copernico, Galilei e Newton, sarebbe stata anticipata dalla rivoluzione scientifica ellenistica cui dunque spetterebbe il titolo di prima effettiva rivoluzione scientifica. Secondo questa interpretazione, la rivoluzione scientifica ellenistica ebbe tre fattori fondamentali: l’elaborazione filosofica e scientifica della Grecia classica dal VI al IV secolo; la contaminazione culturale tra civiltà greca e civiltà mediorientale conseguente alle conquiste di Alessandro Magno; la formazione e il mecenatismo delle monarchie ellenistiche dopo la morte di Alessandro Magno. Le nuove dinastie monarchiche dei regni ellenistici, infatti, promossero e finanziarono la ricerca culturale e in particolare quella scientifica. Nel regno d’Egitto i Tolomei fecero costruire ad Alessandria il famoso Museo e l’ancor più famosa Biblioteca. Il Museo, il primo istituto di ricerca pubblico, una vera e propria università dei saperi antichi articolata in dipartimenti, era dotato di mensa, sale di lettura, sala anatomiche, un osservatorio astronomico, un giardino zoologico e un orto botanico. Intellettuali e scienziati vi convivevano e questo favoriva grandemente lo sviluppo culturale e scientifico. La Biblioteca, riservata agli studiosi, giunse a raccogliere, almeno secondo le stime più generose, fino a 700.000 libri (nella forma di rotoli di papiri). Una sua sezione staccata, il Serapeo, era a disposizione del pubblico e giunse a possedere oltre 40.000 libri. Nel regno di Pergamo, gli Attalidi a loro volta fecero costruire una biblioteca seconda solo a quella di Alessandria e promossero in particolare gli studi di botanica, agronomia, ingegneria civile e navale. In Mesopotamia, i Seleucidi diedero impulso alla ricerca matematica, astronomica e allo sviluppo della tecnologia navale. Più in generale, l’interesse per la scienza e la tecnologia erano diffusi in maniera maggiore o minore in tutto il mondo ellenistico. Lo sviluppo della rivoluzione scientifica ellenistica fu però interrotto dalla conquista romana a partire dalla metà del II secolo a.C. I romani da un lato eliminarono le dinastie ellenistiche e dall’altro si disinteressarono alla promozione della scienza e della 339 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE tecnologia. Le istituzioni culturali dei regni ellenistici decaddero e in alcuni casi scomparvero. Cominciò così un regresso culturale e scientifico in seguito al quale, già pochi secoli dopo, i nuovi scienziati e intellettuali dell’epoca romana non solo non disponevano di molte opere, andate distrutte, dei loro predecessori ellenistici, ma soprattutto non riuscivano a comprendere molte parti di quelle che si erano salvate dalla distruzione. Tuttavia, pur riconoscendo la plausibilità e il valore euristico della nuova tesi interpretativa della “rivoluzione scientifica fallita”, ovvero soffocata prima che potesse completarsi, rimane aperto un interrogativo: senza l’intervento distruttivo delle legioni romane, davvero lo sviluppo delle scienze nell’età ellenistica sarebbe arrivato ai risultati della rivoluzione scientifica moderna? In altre parole, sarebbe effettivamente stato rivoluzionario? Fermo restando che è impossibile rispondere in modo certo sia affermativamente sia negativamente, è ragionevole nutrire dei dubbi sulla tesi che, senza l’intervento romano, gli scienziati ellenistici sarebbero giunti agli stessi risultati conseguiti quasi due millenni dopo dagli scienziati moderni, soprattutto tenendo conto dei limiti difficilmente superabili che la mentalità politeistico-astrologica – diffusa anche tra gli scienziati ellenistici – poneva alla teorizzazione di leggi matematico-razionali universali (p.e. la legge di gravità di Newton). Infatti, le teorie scientifiche degli scienziati moderni si fondarono su una visione materialistico-meccanicistica e insieme teologico-monoteistica del cosmo fisico: il cosmo era concepito come un’immensa e mirabile macchina che funzionava autonomamente in base a leggi matematiche impersonali stabilite da un unico Dio, onnipotente creatore e quindi signore assoluto di tutti gli esseri fisici. In questa prospettiva, il cosmo era considerato unico e omogeneo, in quanto tutte le creature erano sullo stesso piano rispetto a Dio, ovvero tutte ugualmente subordinate alle sue leggi. Semmai, nel periodo umanistico-rinascimentale, non a caso immediatamente precedente all’inizio della rivoluzione scientifica moderna, era stato l’uomo a venire considerato relativamente superiore a tutte le altre creature – angeli compresi! – ma solo in quanto Dio gli aveva assegnato il compito di ammirare la sua creazione, ovvero di studiarla scientificamente. Insomma, secondo i rinascimentali, l’uomo proprio in quanto scienziato, cioè in quanto capace di scoprire le leggi matematiche che governano la natura, poteva diventare la creatura superiore del cosmo, la più simile a Dio proprio perché l’unica in grado di comprendere la sua opera. A sostegno di questa interpretazione sta il dato di fatto che tutti i protagonisti della rivoluzione scientifica moderna furono cristiani credenti e molti, in particolare Keplero e Newton, si ispirarono all’idea di Dio creatore matematico del cosmo per motivare e orientare le proprie lunghe ricerche scientifiche e per arrivare alla fine a trovare le conferme delle loro grandi scoperte. Newton, in particolare, era anche uno studioso di teologia e scrisse anche opere teologiche. Al contrario, gli scienziati ellenistici avevano come retroterra culturale una visione organicistico-finalistica e astrologico-politeistica del cosmo. In altre parole, il cosmo era 340 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE da loro concepito come un grande organismo vivente le cui parti agivano per conseguire il fine del massimo bene complessivo e inoltre alcune di queste parti – i pianeti-dei: Mercurio, Marte, Elio, ecc. – erano ritenuti superiori alle altre e si credeva che esercitassero la loro influenza sugli esseri terrestri a loro quindi subordinati. In questa cornice, era difficile, per non dire impossibile, concepire delle leggi matematiche universali, cioè tali da governare allo stesso modo tutti gli esseri naturali. Infatti, in primo luogo il cosmo terrestre risultava diverso e inferiore rispetto a quello celeste; in secondo luogo, vi erano leggi diverse a seconda degli dei e soprattutto non erano vere e proprie leggi naturali a governare il mondo terrestre, in quanto le influenze divine erano personali, cioè coincidevano con le decisioni e gli umori degli dei, e dunque potevano variare nel tempo. Non a caso la visione antica del cosmo aveva la sua più coerente espressione nell’astrologia, che era considerata appunto la scienza della conoscenza e della previsione degli influssi astrali, cioè delle variabili “leggi” degli dei/pianeti. Certo, i filosofi Greci avevano elaborato una più razionale versione del politeismo, ed è scontato che gli scienziati ellenistici non condividessero la mentalità religiosa popolare ma semmai seguissero l’interpretazione filosofica della religione antica. Ma benché razionale il politeismo dei filosofi ne conservava i limiti: p.e. sia Platone sia Aristotele concepirono il cosmo come diviso in due regioni, quella celeste divina, e perciò superiore, e quella terrestre fisica e perciò inferiore; il loro monoteismo relativo ( l’idea di UnoBene-Bellezza-Verità e il Dio motore immobile) ammetteva comunque l’esistenza di potenze divine inferiori ma dotate di poteri autonomi, cioè di diversi e variabili poteri di influenza sugli eventi terreni; l’uomo, secondo loro, era subordinato ai pianeti-dei e quindi non poteva essere la creatura capace di conoscere pienamente le leggi del funzionamento del cosmo. Non è dunque un caso, forse, che anche quando qualche scienziato ellenistico superò i limiti della concezione antica del cosmo – p.e. il pitagorico Aristarco di Samo che elaborò la teoria eliocentrica quasi due millenni prima di Copernico – non ebbe credito nemmeno dai suoi colleghi contemporanei e che, di conseguenza, la sua teoria fu accantonata senza dare frutti. Tanto è vero che né Aristarco né nessun altro scienziato ellenistico si avvicinò alla scoperta delle tre leggi di Keplero per non dire a quella della legge di gravità di Newton. In conclusione, è plausibile pensare che il salto di qualità della scienza, che indubbiamente si registrò nel periodo ellenistico, non sarebbe arrivato a compiere quella rivoluzione scientifica che certamente avvenne tra il Cinquecento e il Seicento d.C., anche se Roma non avesse mai invaso il Medio Oriente. Infatti, perché si potesse attuare la rivoluzione scientifica moderna, era forse necessario non solo il passaggio dalla religione politeistica a quella monoteistica ma anche la lunga evoluzione della teologia monoteistica cristiana, quella che avvenne gradualmente durante l’Alto e il Basso Medioevo e che, a maggior ragione, dovrà essere attentamente presa in considerazione. 341 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITE DI CAPITANI GLI SCIENZIATI ELLENISTICI I protagonisti della scienza ellenistica furono: Euclide, matematico, astronomo e ottico, insegnante del Museo di Alessandria e autore di Elementi (300 a.C.), celeberrimo trattato di geometria in 13 libri; Apollonio di Perga, matematico e astronomo, nato intorno al 260 a.C., studente del Museo di Alessandria e insegnante a Pergamo e ad Alessandria, autore di Coniche, trattato sull’ellisse, la parabola e l’iperbole; Aristarco di Samo (310240), astronomo, di cui ci è rimasta solo un’opera minore, Sulle dimensioni e le distanze del Sole e della Luna; Ipparco di Nicea (185-125), astronomo, insegnante a Rodi, scopritore del moto di precessione degli equinozi, di cui ci è restata un’unica opera minore, Commentario ai “Fenomeni” di Arato e Eudosso; Eratostene di Cirene (273-192), geografo, bibliotecario del Museo di Alessandria; Archimede di Siracusa (287-212), studente del Museo di Alessandria, matematico, astronomo, fisico, ingegnere idraulico e meccanico, di cui ci sono rimaste le seguenti opere: Sulla misura del cerchio, La quadratura della parabola, Sulle spirali, Sulla sfera e il cilindro, Sugli sferoidi e i conoidi, Arenario (in cui calcola il numero di granelli di sabbia che il cosmo potrebbe contenere), Sull’equilibrio dei piani, Sui corpi galleggianti, Metodo; Ctesibio, vissuto nel III secolo a.C., fondatore della pneumatica, ingegnere meccanico, autore di due opere perdute, Dimostrazioni pneumatiche e Commentari, in cui erano descritte numerose macchine; Filone di Bisanzio (III-II sec.), continuatore dell’opera di Ctesibio, autore di Pneumatica; Erone di Alessandria (I sec.), autore di una Meccanica e di una Pneumatica; Erofilo di Calcedonia (IV-III sec.) ed Erasistrato di Ceo (310-250) entrambi medici. 342 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 LA RICERCA MATEMATICA 1) 2) 3) 4) 5) [E’ possibile] tracciare un segmento da ogni punto a ogni punto. [E’ possibile] prolungare con continuità un segmento in una retta. [E’ possibile] tracciare una circonferenza con qualsiasi centro e raggio. Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro. Se una retta intersecandone altre due forma nello stesso semipiano angoli interni la cui somma è minore di due retti, allora le due rette si incontrano su quel semipiano. Euclide, Elementi Come abbiamo visto (Cannocchiale su… L’orizzonte storico-culturale dell’età ellenistica), il periodo ellenico, cioè greco classico, rappresenta il momento di gestazione della scienza matematica, cioè quello in cui se ne costruiscono alcuni elementi fondamentali. Tra questi il più significativo è il metodo dimostrativo che permette la fondazione di “teoremi”, cioè di sistemi di relazioni matematiche, una sorta di leggi della matematica, validi per un’infinità di casi dello stesso tipo, p.e. il teorema di Pitagora valido per tutti i possibili triangoli rettangoli. Non si può dire, però, che la matematica ellenica raggiunga pienamente lo status di scienza. Essa infatti accumula molti elementi della scienza matematica ma non tutti e soprattutto non li assembla in un tutto, cioè non li collega fino a comporre un insieme unitario esauriente. Nell’età ellenistica invece viene raggiunto proprio questo risultato, ad opera del matematico Euclide. Per questo possiamo dire che Euclide fu il padre della matematica come vera e propria scienza. La ricerca matematica dell’età ellenica aveva aperto una serie di problemi: non era chiaro quale fosse il rapporto tra concetti matematici e mondo reale; il metodo dimostrativo sembrava comportare che ogni dimostrazione dovesse fondarsi su un’altra dimostrazione logicamente anteriore, cadendo così in un regresso all’infinito; la scoperta dell’incommensurabilità da parte dei pitagorici () e i paradossi di Zenone () avevano evidenziato il dualismo tra quantità continue e quantità discrete e i paradossi del concetto di infinito. Euclide trasforma in scienza il sapere matematico greco affrontando e risolvendo questi problemi. Egli infatti assume gli enti matematici come enti teorici, cioè come enti 343 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE costitutivamente distinti dagli enti reali con i quali però possono avere rapporti di corrispondenza in base a precise regole. In altre parole, la matematica in quanto teoria scientifica non si identifica con la realtà fisica ma si può applicare ad essa in base al criterio dell’approssimazione. In secondo luogo, Euclide cataloga in modo rigoroso gli enti matematici (angoli, figure piane, solidi, ecc.) riducendoli alle loro parti elementari (punti, rette, piani) e offrendone in questo modo delle precise definizioni. Per evitare il regresso all’infinito Euclide poi fonda tutte le dimostrazioni su cinque “postulati”, cioè su cinque regole che devono essere accettate senza dimostrazione, e su alcuni assiomi, cioè su alcune verità considerate evidenti (p.e. la parte è sempre minore del suo tutto). Infine Euclide stabilisce che ogni altra conoscenza matematica, cioè ogni altra affermazione sulle proprietà degli enti matematici e sui loro rapporti, per essere valida deve essere dimostrata, ossia deve essere dedotta logicamente dalle definzioni, dai postulati e dagli assiomi. In questo modo Euclide configura la scienza matematica come un rigoroso sistema ipotetico-deduttivo, ovvero come un insieme organico di conoscenze basate su alcuni principi primi (ypo-tèsis in greco significa fondamento di una tesi) dai quali devono essere dedotte tutte le tesi che dunque risultano tra loro logicamente concatenate. La scienza matematica di Euclide tratta sia le quantità discrete sia le quantità continue. Le prime sono rappresentate dai numeri interi aritmetici, le seconde dalle grandezze geometriche (lunghezze, perimetri, aree, ecc.). Il teorema “vi sono più numeri primi che in ogni quantità [finita] data di numeri primi” implica al tempo stesso un esempio di dimostrazione e di trattazione sia di quantità discrete sia del concetto di infinito. La sua dimostrazione parte dall’assunzione di un insieme finito qualunque di numeri primi diversi da 1 e dall’individuazione di un numero k uguale al loro minimo comune multiplo (ovvero al loro prodotto) più 1. Ne consegue che k non può essere multiplo di nessuno dei numeri primi dell’insieme qualunque iniziale. Chiamando m un fattore primo di k diverso da 1, m non può far parte di quell’insieme. In altre parole, c’è sempre almeno un numero primo ulteriore rispetto a qualsiasi insieme di numeri primi per quanto vasto esso possa essere. Questa dimostrazione tratta l’infinito – in quanto dimostra che i numeri primi sono infiniti – senza cadere in paradossi zenoniani poiché riduce e risolve il problema dell’infinito in relazioni tra quantità finite. In riferimento, invece, al problema delle grandezze, cioè delle quantità continue, Euclide affronta la questione dell’incommensurabilità consistente nell’indeterminatezza del rapporto tra due grandezze, p.e. il lato (a) e la diagonale (b) di un quadrato. Infatti, essendo a e b privi di un sottomultiplo comune, non è possibile che xa sia uguale a yb (dove 344 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE x e y sono due numeri interi) ovvero che il rapporto a/b sia uguale a quello x/y. Stando così le cose, quale può essere dunque il significato teorico del rapporto tra a e b? Com’è possibile che abbiano un rapporto? Euclide, sviluppando e sistematizzando la teoria delle proporzioni di Eudosso, riesce a determinare matematicamente il rapporto tra incommensurabili elaborando e utilizzando la sua definizione di proporzione: quattro grandezze formano una proporzione – a:b=c:d – quando per essa vale almeno una delle seguenti relazioni (dove x e y sono 2 numeri naturali qualsiasi): xa>yb e simultaneamente xc>yd xa=yb e allo stesso tempo xc=yd xa<yb e contemporaneamente xc<yd. In questo modo anche un rapporto tra incommensurabili può costituire una proporzione e trovare così un significato matematico. Infatti essendo a e b lato e diagonale del quadrato A e c e d lato e diagonale del quadrato B vale a:b=c:d in base alla relazione di uguaglianza di cui al punto 2. Un ulteriore apporto di enorme importanza per lo sviluppo della scienza matematica è rappresentato dallo sviluppo e dall’uso del “metodo di esaustione”, scoperto da Eudosso, da parte di Archimede. Il metodo di esaustione (che fu chiamato così dai matematici moderni) è un’ulteriore e più potente modalità di determinazione ed uso matematico del continuo e dell’infinito. Archimede lo applicò per risolvere il problema di calcolare l’area di un segmento di parabola. Sulla base del postulato che se due aree sono disuguali esiste un multiplo della loro differenza che è maggiore di esse, Archimede costruisce all’interno del segmento di parabola il triangolo ABC in cui A e B sono gli estremi della base del segmento di parabola e C il punto dell’arco di parabola più distante da AB. Ne consegue che la sua area è maggiore della metà dell’area del segmento di parabola. Quindi Archimede costruisce un nuovo triangolo CBD con base un lato del triangolo ABC e vertice il punto più distante dal segmento di parabola CB dell’arco di parabola di CB. L’area del triangolo CBD è 1/8 di quella di ABC. Lo stesso procedimento si può ripetere costruendo triangoli con base CD e DB e così via all’infinito fino ad approssimare – ovvero a “esaurire” – l’area definita dalla parabola. Pur senza usare il termine “limite”, Archimede ne scopre e ne utilizza il concetto, ovvero scopre e utilizza il calcolo infinitesimale, fondando su di esso la geometria differenziale. In tutti i casi sopra indicati, i matematici ellenistici riescono, per così dire, a domare, ovvero ad addomesticare, l’infinito, che per i Pitagorici era il fantasma dell’irrazionalità, cioè del caos. Essi, infatti, trova il modo di descrivere e calcolare matematicamente 345 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE l’infinito usando solo concetti finiti ed evitando così di incappare nei paradossi messi in luce da Zenone. E’ la prima vittoria della scienza matematica sull’infinito, ma certamente non l’ultima – la storia della matematica è anche una guerra continua contro l’infinito – visto che ancora oggi si è ben lontani da quella definitiva, che è ragionevole pensare che nemmeno ci sarà mai. 346 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI MATEMATICA ELLENISTICA E MATEMATICA MODERNA La trattazione euclidea dell’infinito tramite quantità finite coincide con il metodo usato nell’analisi matematica contemporanea che è alla base della teoria matematica degli insiemi finiti di Cantor. La definizione euclidea di proporzione fu ripresa dai matematici contemporanei Weierstrass e Dedekind che la usarono per fondare la moderna teoria dei numeri reali, comprensivi dei numeri irrazionali (espressioni matematiche degli incommensurabili). Il “metodo di esaustione” di Archimede aveva già definito il concetto di “limite” (pur senza usare un termine greco equivalente per denominarlo). Il suo metodo fu ripreso alla fine del 1600 da Newton e da Leibniz, considerati a torto gli unici “inventori” del calcolo infinitesimale. La matematica moderna e contemporanea non ha superato quella ellenistica a livello di rigore logico e metodologico, ma a livello di estensione e di potenziamento delle capacità di calcolo. Infatti la compilazione delle tavole logaritmiche e la loro stampa (1614) rese per la prima volta il calcolo numerico (basato sulla numerazione posizionale scoperta sempre dai matematici ellenistici ma da loro sottoutilizzata) più semplice e rapido, consentendo di invertire il rapporto aritmetica (algebra)/geometria: mentre i matematici ellenistici risolvevano i problemi algebrici impostandoli in modo geometrico (con riga e compasso), i matematici moderni cominciano a fare l’opposto. 347 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 LA RICERCA ASTRONOMICA Doveva pensare [Timeo] che la Terra fosse stata progettata non confinata e stabile ma rivolgentesi e ruotante, come successivamente affermarono Aristarco e Seleuco, il primo assumendolo solo per ipotesi, e Seleuco invece provandolo? Plutarco, Platonicae quaestiones, 1006C Il problema principale della teoria geocentrica ( I Viaggio, Tappa 4) – messa a punto scientificamente da Eudosso e canonizzata metafisicamente da Aristotele (VI Viaggio, Tappa 4) – era costituto dalle “stazioni” e dalle “retrogradazioni” cicliche dei moti planetari. In altre parole, mentre la teoria prediceva dei moti circolari, unidirezionali e a velocità uniforme, l’osservazione visiva evidenziava che, in determinati periodi, ricorrentemente i pianeti rallentavano, si fermavano, e invertivano momentaneamente il loro cammino per poi riprenderlo regolarmente come prima. Per “salvare i fenomeni”, cioè per conciliare la teoria con le osservazioni empiriche, Eudosso (V Viaggio, Tappa 10) era ricorso a un complesso ma brillante sistema di combinazioni di più moti circolari uniformi. La teoria di Eudosso, però, non riusciva a collimare coi moti orbitali di Venere e Marte e soprattutto non spiegava la loro variazione di luminosità, segno di avvicinamento e allontanamento rispetto alla Terra. Apollonio di Perga, già autore di un trattato matematico sulle coniche (ellisse, parabola, iperbole), per risolvere questi problemi, riforma la teoria geocentrica ipotizzando che ogni pianeta sia incastonato su una piccola sfera ruotante su se stessa (epiciclo) con il centro in un punto della circonferenza massima di una sfera molto più grande (deferente) ruotante a sua volta intorno a un punto a poca distanza dal centro della Terra. In questo modo Apollonio riesce ad approssimare molto meglio le orbite di Venere e Marte e a spiegare la variazione della loro distanza dalla Terra. Per risolvere gli stessi problemi, lo scienziato pitagorico Aristarco di Samo abbandona il geocentrismo e teorizza per primo che il Sole occupa il centro del cosmo e che tutti i pianeti si muovono intorno al Sole in orbite circolari. Su questa base Aristarco attribuisce esplicitamente alla Terra 2 movimenti: un moto annuale di rivoluzione intorno al Sole; un moto giornaliero di rotazione intorno al proprio asse, inclinato rispetto al piano dell’orbita intorno al Sole. Secondo Aristarco, la teoria eliocentrica è in grado di “salvare i fenomeni”, ossia di spiegare le apparenti stazioni e retrogradazioni dei pianeti, in modo più semplice di quella 348 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE geocentrica, in quanto ricorre alla combinazione di 2 soli moti circolari, quello della Terra e quello di ogni pianeta. Data infatti la diversa lunghezza delle orbite planetarie, la Terra ciclicamente viene avvicinata e superata dai pianeti interni (cioè più vicini al Sole: Mercurio e Venere) e si avvicina e supera i pianeti esterni (più lontani dal Sole: Marte, Giove, Saturno). Di conseguenza a un osservatore terrestre sembra che i pianeti ciclicamente rallentino (fase di avvicinamento), si fermino (fase di affiancamento) e poi tornino indietro (fase di allontanamento). La teoria eliocentrica di Aristarco, dunque, spiega l’osservazione dei moti di retrogradazione dei pianeti in base alla relatività ottica. Il principio di relatività ottica dei moti era già stata teorizzata da Euclide. Il poeta latino Lucrezio (I sec. a.C.) l’avrebbe ripresa nel De rerum natura (IV libro) col famoso esempio dei passeggeri della nave in moto parallelamente alla costa ai quali sembra che sia la costa a muoversi. Allo stesso modo, il moto circolare giornaliero delle stelle e del Sole intorno alla Terra in direzione ovest (antioraria) poteva essere spiegato con il moto circolare giornaliero della Terra sul proprio asse in direzione est (oraria). I moti della Terra, però, pongono un difficile problema. Infatti, a differenza di una nave o di un altro oggetto in movimento, in base alla stima nota delle dimensioni terrestri di Eratostene (VIII Viaggio, Tappa 3), alla Terra si attribuiva una velocità di rotazione di circa 1.600 km/h. Di conseguenza non si poteva fare a meno di pensare che il moto della Terra avrebbe dovuto produrre effetti fisici clamorosi per non dire terrificanti, p.e. un vento ciclonico permanente da est verso ovest. Per risolvere questo problema gli scienziati ellenistici (oltre a Aristarco, anche Archimede, Ipparco e Seleuco) sviluppano in senso più radicale la relatività ottica, arrivando a teorizzare la relatività come il principio fisico secondo il quale ogni moto è relativo all’osservatore e le osservazioni empiriche non descrivono oggettivamente il moto dei corpi, ma il rapporto tra l’osservatore e i corpi osservati. Su questa base infatti si può sostenere che la Terra (atmosfera compresa) si muove insieme a un osservatore terrestre. Questi pertanto non può rilevare coi sensi il moto della Terra. Per farlo avrebbe bisogno, infatti, di un punto di riferimento esterno e immobile rispetto alla Terra. Ma questo punto di riferimento, c’è ed è rappresentato dalle stelle del firmamento, che gli astronomi geocentrici avevano chiamato “stelle fisse” per la perfetta circolarità del loro moto apparente giornaliero e per l’invarianza delle loro reciproche posizioni e distanze. Dunque, se la Terra si muove, dovrebbe essere possibile per un osservatore terrestre notare uno spostamento rispetto alla posizione di una stella fissa in un dato momento della giornata, posizione che è sempre la stessa ogni giorno. 349 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Infatti, poiché il punto di vista dell’osservatore cambia nel corso dell’anno, a causa del moto di rivoluzione, una stessa stella è osservabile in base a due prospettive diverse ed è possibile rilevare la “parallasse” della stella rispetto alla Terra, cioè l’angolo tra le due rette che congiungono la stella a ognuno dei due diversi punti di osservazione. Poiché invece le osservazioni non gli permettono di rilevare alcuna parallasse, mentre gli astronomi geocentrici asseriscono che questa è un’altra prova dell’immobilità della Terra, Aristarco afferma che la parallasse è troppo piccola per essere vista. Da questa conclusione Aristarco deduce la tesi che la distanza tra la Terra e le stelle fisse è immensa, mettendo in discussione le ridotte dimensioni del cosmo sostenute dai geocentrici. La teoria eliocentrica di Aristarco, tuttavia, non individua le cause fisiche dei moti planetari. E’ Ipparco a elaborare una teoria dinamica del cosmo. Basandosi sull’analogia con un sasso che ruota in una fionda antica, egli teorizza che le orbite circolari dei pianeti sono la combinazione di due moti rettilinei: uno centrifugo, proprio di ogni pianeta, e uno centripeto, dovuto all’attrazione esercitata dal Sole su ogni pianeta. In questo modo Ipparco giunge a sostenere l’inerzia – cioè la tendenza di ogni corpo a muoversi all’infinito – e la forza gravitazionale solare, che secondo lui si trasmette attraverso i raggi solari per contatto diretto. Ipparco inoltre sostiene per primo che le stelle fisse hanno un moto proprio diverso da quello apparente giornaliero. Egli deduce questa tesi dal fatto che la teoria di Aristarco spiega il moto circolare delle stelle come un’apparenza ottica del moto di rotazione terrestre. Ciò significa per Ipparco che le stelle fisse non sono trasportate dalla sfera che racchiude il cosmo, come sostenevano i geocentrici. Da un lato dunque esse sono libere da vincoli, dall’altro devono muoversi per analogia con i pianeti. Data l’enorme distanza, già teorizzata da Aristarco, tra Terra e stelle, i moti stellari per Ipparco appaiono lentissimi a un osservatore terrestre e quindi non sono rilevabili nell’arco di una o più vite umane. Per questo Ipparco compila una mappa delle posizioni delle stelle e affida ai posteri l’incarico di verificare i loro spostamenti. Aristarco non aveva fornito un’argomentazione decisiva a favore della superiorità della teoria eliocentrica su quella geocentrica. In base alla sua opera le due teorie risultavano ugualmente plausibili. La teorizzazione ipparchea dell’attrazione solare favoriva l’eliocentrismo perché si abbinava meglio a una posizione centrale e preminente del Sole. Ma nemmeno questa era un’argomentazione risolutiva. E’ Seleuco, basandosi sulla teoria delle maree, a individuare una prova empirica consistente a favore dell’eliocentrismo. Eratostene aveva teorizzato la dipendenza delle maree dalla Luna sulla base della coincidenza tra intensità e fasi delle maree e posizioni e fasi della Luna. L’esistenza di un’attrazione esercitata dalla Luna sulla Terra poneva il problema del perché la Terra non 350 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE si scontrasse con la Luna. Secondo Seleuco tale problema può essere risolto solo attribuendo alla Terra una forza centrifuga – dovuto a un moto rotatorio mensile intorno al baricentro del sistema Terra-Luna – capace di controbilanciare la forza attrattiva lunare. Dunque la Terra non può essere ferma al centro del cosmo. Seleuco, inoltre, giunge ad affermare che il cosmo è infinito e aperto. 351 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 LA RICERCA FISICA Certo la Luna è trattenuta dal cadere dallo stesso moto e dalla rapidità della sua rotazione, proprio come gli oggetti posti nelle fionde sono trattenuti dal cadere dal moto circolare. Il moto secondo natura guida infatti ogni corpo, se non è deviato da qualcos’altro. Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 923 C-D Come infatti il Sole attira a sé le parti in cui consiste, così anche la Terra […]. Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 924E Il primo trattato ottico conosciuto è quello di Euclide. La sua ottica individua come proprio oggetto i raggi visuali cui è attribuita la proprietà della propagazione rettilinea. I filosofi antichi avevano sostenuto che le apparenze visive sono ingannevoli. Platone, p.e., aveva rilevato che la distanza fa vedere più piccoli gli oggetti e aveva contrapposto la misurazione matematica delle grandezze alla loro stima visiva. Euclide invece offre una spiegazione scientifica delle percezioni visive in base a semplici corrispondenze tra percezioni e raggi visuali che uniscono l’occhio agli oggetti visti. Egli può così ricondurre la grandezza apparente degli oggetti alla loro grandezza angolare e dedurne così la grandezza reale. In questo modo l’ottica euclidea collega la geometria alle scienze della visione. Innanzitutto all’astronomia, permettendole stime della grandezza dei corpi celesti nonché la costruzione degli astrolabi. Ma anche alla geografia, per il rilievi topografici, e alle arti figurative (pittura, scenografia), alle quali consentì di elaborare e praticare la tecnica della prospettiva, soprattutto quella assiale, ma anche quella centrale. Dopo Euclide, Archimede ed Erone sviluppano la “catottrica”, cioè lo studio delle leggi della riflessione, che serve loro per progettare ogni genere di specchi, compresi i famosi specchi “ustori”, cioè specchi parabolici che possono concentrare i raggi solari in un unico punto (ma che non servono a bruciare le navi). Erone scopre il teorema per cui un raggio di luce A che si riflette su specchio piano e arriva nel punto B percorre il cammino più breve tra tutti quelli tra A e B che toccano lo specchio: si tratta del principio di minimo più antico di cui abbiamo notizia. 352 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La geografia diventa scienza assumendo come proprio obiettivo la descrizione quantitativo-matematica precisa di tutto il mondo conosciuto. Essa si serve del “principio di triangolazione” in base al quale è possibile stabilire la distanza di un punto inaccessibile misurando le direzioni in cui è visto da due punti a distanza nota. Matematicamente il principio di triangolazione implica l’uso della trigonometria che viene sviluppata anche in relazione all’astronomia, ovvero per misurare le distanze tra i corpi celesti. Il primo geografo scientifico è Dicearco, un allievo di Aristotele che individua un parallello stabilendo tutte le località da Gibilterra alla Persia che si trovano alla stessa latitudine. Ma il più grande geografo ellenistico è Eratostene, autore della prima mappa scientifica – cioè basata sul latitudini e longitudini – del mondo da Gibilterra all’India e dal circolo polare artico alla Somalia. Eratostene riuscì anche a stimare la lunghezza del meridiano terrestre con un errore inferiore all’1%. La meccanica, intesa come scienza delle macchine, si deve a Ctesibio di Alessandria, Filone di Bisanzio, Erone ma soprattutto Archimede. Essa nasce come ricerca dei principi di funzionamento delle leve e dei metodi di determinazione dei baricentri delle figure piane. L’obiettivo fondamentale della meccanica è come spostare un peso P a un’altezza h usando una forza F<P. Il rapporto P/F è il “vantaggio meccanico” della macchina. Grazie alla scienza meccanica per la prima volta è possibile calcolare teoricamente il vantaggio meccanico e quindi progettare teoricamente una macchina che abbia il vantaggio meccanico voluto. La meccanica di Archimede è strettamente legata alla geometria di Euclide da cui mutua l’impostazione e l’organizzazione sistematica. In questo modo Archimede usa la meccanica anche per scoprire nuovi teoremi di geometria. In particolare egli scopre la formula per trovare il volume della sfera immaginando di equilibrare un oggetto sferico e uno cilindrico posti sui due piani di una bilancia. Anche la scienza dell’acqua è opera di Archimede, che la fonda sul seguente postulato: “Se porzioni di liquido sono contigue e allo stesso livello, la porzione più compressa caccia via la meno compressa. Ogni porzione è compressa dal peso del liquido che è sopra di sé in verticale, purché il liquido non sia rinchiuso in qualcosa e compresso da qualcos’altro”. Il noto principio dei vasi comunicanti è implicito in questo postulato e dunque Archimede lo conosceva e ne faceva uso, sebbene esso sia attribuito tradizionalmente a Erone. Esplicitamente, invece, Archimede deduce dal postulato il famoso principio che porta il suo nome secondo cui un corpo immerso in un liquido sposta una quantità di liquido di peso 353 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE pari al suo. In base questo principio Archimede determina le linee di galleggiamento di solidi immersi in liquidi e la stabilità delle loro posizioni di equilibrio. Più noto come astronomo, Ipparco, in stretta relazione con la sua teoria dei moti celesti (Viaggio VIII, Tappa 2), elabora anche una teoria relativa ai moti dei corpi terrestri, unificando almeno parzialmente fisica celeste e fisica terrestre. Egli teorizza innanzitutto un moto “naturale” rettilineo uniforme proprio di tutti i corpi che può variare solo per intervento di corpi o forze esterne. Inoltre, Ipparco (ma anche gli altri scienziati dell’epoca) elabora e utilizza il concetto di “attrito” come resistenza opposta dal suo mezzo (aria, piano di un tavolo, ecc.) al moto naturale di un corpo. In altre parole Ipparco comprende il principio di inerzia, pur senza chiamarlo così e senza darne una definizione completa e rigorosa. In secondo luogo, per spiegare il moto dei gravi terrestri, Ipparco ricorre alla combinazione del moto naturale rettilineo e della forza di gravità, intesa come “spinta” di tutti i corpi verso il proprio centro. Egli sostiene che questa “spinta” diminuisce all’avvicinarsi di un corpo al centro e aumenta al suo allontanarsi dal centro. In sostanza, Ipparco sostituisce alla teoria aristotelica dei “luoghi naturali”, una teoria dell’attrazione gravitazionale e sostiene anche che la gravità non è causa del moto di un corpo, ma della sua variazione di velocità, cioè della sua accelerazione. Il punto di partenza del metodo scientifico ellenistico è indubbiamente la tecnica dimostrativa messa a punto dai filosofi antichi. L’uso della tecnica dimostrativa, cioè di concatenazioni deduttive, implica l’individuazione esplicita e precisa di principi di partenza, chiamati “postulati” o “assunzioni” o anche “ipotesi” (il cui significato primo è “fondamenti”). Un primo elemento specifico e decisivo del metodo scientifico ellenistico è l’individuazione dei “fenomeni”, cioè delle esperienze sensibili, come criterio di scelta delle ipotesi iniziali. In altre parole le premesse di ogni scienza sono selezionate in base alla loro capacità di trarne deduzioni che possano spiegare le apparenze osservative. P.e., Aristarco sceglie l’ipotesi del moto di rivoluzione terrestre in quanto da esso è deducibile la spiegazione dei fenomeni della stazione e della retrogradazione dei pianeti. Dunque la scienza è concepita come una teoria ipotetico-deduttiva legata all’osservazione empirica. Questa però è concepita come una “apparenza” che cela o dissimula la vera realtà, alla quale si può giungere solo attraverso una spiegazione razionale dell’apparenza, cioè grazie alla teoria. A sua volta la ricostruzione teorica della realtà si basa sulla misurazione matematica e ha i suoi criteri di verifica nell’esperimento e nell’applicazione tecnica. Gli scienziati ellenistici, infatti, non verificano le loro teorie sulla base dell’esperienza naturale, ma sulla base di esperienze costruite artificialmente grazie all’uso 354 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE di strumenti e apparecchi tecnici. L’esempio più semplice, dovuto a Filone di Bisanzio, è quello della candela accesa in una campana sommersa dall’acqua per misurare gli effetti della combustione sul livello dell’acqua contenuta nella campana. In questo senso la scienza ellenistica produsse, e al tempo stesso utilizzò per svilupparsi, un grande numero di importanti innovazioni tecnologiche quali: argano, leva, puleggia, cuneo, vite, ruota dentata, pompe, lenti, cannocchiali, orologi a acqua, catapulte a torsione lanciapietre, giunti cardanici, astrolabio piano, macchine per sollevamento dell’acqua, vite di Archimede o coclea, mulini a vento e ad acqua, macchine a vapore, differenziale, alberi a camme, meccanismi di retroazione, automi, macchine agricole automatiche, organo idraulico. 355 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 LA RICERCA NELLE SCIENZE EMPIRICHE Erofilo ammette una capacità motoria nei nervi, arterie e muscoli. Egli pensa che il polmone abbia una tendenza a dilatarsi e a contrarsi. La naturale attività del polmone, egli dice, è l’aspirazione del soffio (pneuma) dall’esterno. Pseudo-Galeno, De historia philosopha, 103 Erofilo dice che i sogni “mandati da un dio” si hanno necessariamente, i naturali invece si presentano quando la psiche forma le immagini di ciò che è a proprio vantaggio e di ciò che certamente accadrà; i sogni composti si formano poi spontaneamente, al sopraggiungere delle immagini, ogni volta che sogniamo ciò che desideriamo, come accade agli uomini innamorati quando nei loro sogni fanno l’amore con le donne che amano. Pseudo-Galeno, De historia philisopha, 106 Il salto di qualità dalla medicina come tecnica alla medicina come scienza è costituito dalla nascita dell’anatomia e della fisiologia basate sulla dissezione del corpo umano. Questo sviluppo decisivo si deve a Erofilo di Calcedonia. Erofilo è il primo a descrivere il fegato e l’apparato digerente. Egli distingue le parti dell’intestino, usando nomi (duodeno, digiuno) rimasti nella nomenclatura della scienza medica. Ancora più importanti sono le sue scoperte relative al sistema nervoso. Erofilo non solo comprende la funzione direttiva del cervello – a differenza di Aristotele che pensava servisse a raffreddare il sangue – ma scopre i nervi e li distingue in sensori e motori. Inoltre, studia l’apparato circolatorio, scoprendo le cavità e le valvole del cuore, e quello riproduttivo, scoprendo le ovaie, le tube di Falloppio e l’epididimo. A proposito dell’apparato respiratorio, attribuisce ai polmoni la capacità non solo di inspirare aria ma anche di veicolarla nel sangue arterioso. Per la prima volta, infine, descrive la retina, la cornea, l’iride e la coroide. Erofilo sviluppa anche le conoscenze diagnostiche e terapeutiche. Si deve a lui l’introduzione della misura della frequenza del battito cardiaco - di cui scopre la correlazione con la temperatura corporea e con l’età - come strumento diagnostico fondamentale. Per misure il battito cardiaco Erofilo si fa costruire un orologio ad acqua tarabile a seconda dell’età. A livello di terapia, Erofilo sostiene l’importanza dell’esercizio fisico, delle diete (anche a scopo preventivo) e di farmaci di origine naturale. Sua è l’emblematica affermazione: 356 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “Sono le medicine le mani degli dei”. Soprattutto Erofilo riconosce l’inutilità di somministrare medicine in alcuni casi estremi come quelli dei malati di colera. Il che è forse la riprova più convincente del suo approccio scientifico alla cura del corpo umano. Erofilo è anche il fondatore della psichiatria. Egli è infatti il primo a descrivere e catalogare i sintomi delle patologie psichiche, che precedentemente erano state considerate manifestazioni divine. Nell’ambito dei suoi studi della psiche umana, Erofilo elabora anche una teoria naturale dei sogni, sostenendo che essi sono la manifestazione dei desideri umani e che, come tali, rappresentano attraverso immagini situazioni o azioni in cui essi vengono soddisfatti. In questo senso, per Erofilo, i sogni possono anche prefigurare il futuro, non perché siano una forma di divinazione, ma perché manifestano la volontà e gli scopi profondi che gli individui celano nella loro psiche e che dunque possono spingerli ad attuare azioni simili a quelle sognate. E’ probabile che si debba a Erofilo anche la tesi del carattere simbolico dei sogni, secondo cui nei sogni cose e persone reali sono rappresentati analogicamente da altre cose e persone. L’importanza attribuita da Erofilo alla matematica come strumento fondamentale della conoscenza è attestata dalla sua scoperta della misurazione del battito cardiaco. Egli è probabilmente il primo scienziato a porsi il problema di determinare un’unità di misura per durate temporali dell’ordine di un secondo. Egli risolve questo problema scegliendo la durata media del battito di un neonato. Inoltre Erofilo per analizzare i ritmi cardiaci fa uso della matematica, determinando i rapporti tra durata della sistole e durata della diastole e distinguendoli in rapporti razionali e rapporti irrazionali. Erofilo da questo punto di vista mostra familiarità con i concetti e i termini degli Elementi di Euclide ma anche con i termini musicali e metrici che utilizza per denominare i vari tipi di ritmi cardiaci. Vi sono inoltre rapporti evidenti degli studi e delle tecniche di Erofilo con la meccanica e la pneumatica di Ctesibio, rispettivamente per l’uso di orologi tarati e per il funzionamento di pompe e valvole. Un ulteriore elemento di scientificità della medicina di Erofilo è costituito dalla sua scelta di rinunciare alla terminologia naturale, legata al linguaggio corrente, a favore di una terminologia convenzionale legata a un linguaggio specialistico e alla consapevolezza del carattere teorico, ovvero ipotetico-deduttivo, della conoscenza medica. 357 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE La scientificità della medicina ellenistica è però attestata in modo ancor più significativo dalla pratica della dissezione dei cadaveri nonché da quella della sperimentazione in vivo, cioè sui corpi di condannati a morte. Ciò significa che la medicina praticata da Erofilo si basava non solo e non tanto sull’esperienza quanto soprattutto sull’esperimento. A questo proposito disponiamo di una testimonianza emblematica su un esperimento realizzato da Erasistrato di Ceo, che proseguì e allargò la sua ricerca. Erasistrato teorizza che gli animali emanino materia non visibile a occhi nudi. Per verificarlo chiude in un contenitore, dopo averlo pesato, un animale senza nutrirlo. Dopo alcuni giorni lo ripesa insieme ai suoi escrementi e confronta peso iniziale e peso finale. Il carattere “moderno” di questo esperimento è attestato non solo dalla sua progettazione teorica e dalla sua dimensione artificiale ma anche e soprattutto dalla sua impostazione quantitativo-matematica. I più significativi sviluppi della ricerca scientifica in campo biologico si devono a Teofrasto, allievo di Aristotele e suo successore alla guida del Liceo. Interessato soprattutto alla botanica, Teofrasto abbozza una teoria di fisiologia vegetale basandosi sia sul patrimonio passato di conoscenze empiriche sia su osservazioni ed esperimenti da lui stesso svolti. Egli poi si concentra in particolare sul problema dei cambiamenti degli esseri viventi nel passaggio da una generazione all’altra. Da questo punto di vista, Teofrasto distingue innanzitutto cambiamenti spontanei e cambiamenti dovuti ai mutamenti dell’ambiente esterno. In secondo luogo egli afferma che i cambiamenti spontanei, sia nelle piante sia negli animali, avvengono nel seme, sono ereditari e possono portare a cambiamenti consistenti nel succedersi di più generazioni. In terzo luogo, su questa base, Teofrasto critica l’interpretazione finalistica del vivente di Aristotele. Poiché nella sua Fisica, Aristotele riporta, per confutarla, un’interpretazione delle mutazioni biologiche basata sull’interazione tra mutazione casuale e selezione naturale, è plausibile che sia Teofrasto l’autore di questa teoria. La nascita della chimica empirica è attestata innanzitutto da descrizioni di composti e reazioni chimiche connessi alla produzione artigianale di coloranti, metalli, vetro, cosmetici, profumi, medicine nonché imitazioni dell’oro, dell’argento, delle gemme e della porpora. Ma l’attribuzione di un carattere scientifico alla chimica ellenistica si base soprattutto su l’acquisizione di nozioni teoriche quali: la distinzione tra sostanze eterogenee, miscele e composti chimici; 358 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE il concetto di ònkos (tradotto in latino moles), che comunemente significava volume, massa, mole, usato per indicare quella componente ultima di una sostanza che però, a differenza dell’atomo, può subire trasformazioni in base una scomposizione e riagreggazione delle sue parti: ciò che in età moderna verrà chiamato “molecola”; la divisione delle sostanze in parti caratterizzate da un peso misurato dalla bilancia; il principio di conservazione della massa, sulla base dell’idea che qualsiasi consumo apparente di materia consiste in una sua trasformazione che a volte può dar luogo a sostanze impercettibili; il concetto di acido. 359 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LA SCOPERTA LA REALTA’ COME CREAZIONE DI UN DIO INFINITO 360 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Cannocchiale su… L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETA’ ROMANA (168 a.C.-529 d.C.) L’assimilazione della cultura greca da parte della civiltà romana Dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), con la quale i romani stroncarono definitivamente il regno di Macedonia, la Grecia, prima, e successivamente tutto il Medio Oriente furono conquistati da Roma. Nell’area mediterranea finì l’età ellenistica e incominciò l’epoca romana. Se nell’età ellenistica la cultura greca si era fusa con quelle mediorientali dando origine alla cultura ellenistica, nell’età romana la cultura ellenistica – che già aveva cominciato a diffondersi negli ambienti intellettuali romani nel III secolo a.C. in seguito alla conquista della Magna Grecia – venne assorbita da quella romana dando origine alla cultura romana dell’età imperiale, una cultura sempre più cosmopolita. Questa cultura costituì il collante dell’unificazione socio-politica della popolazione dell’impero romano che raggiunse il suo culmine con l’editto di Caracalla (Constitutio antoniniana) del 212 d.C. in base al quale i maschi liberi di tutte le province imperiali acquisirono piena e uguale cittadinanza romana. L’assimilazione della cultura greco-ellenistica fu promossa dal partito innovatore, facente capo alla famiglia degli Scipioni, ma all’inizio fu duramente avversata e frenata dal partito tradizionalista capeggiato da Marco Porcio Catone (detto il Censore) e sostenitore del mos maiorum sintetizzato nelle leggi delle 12 Tavole (V secolo a.C.). Essa riguardò innanzitutto la letteratura ma subito dopo si allargò alla filosofia. Ancora più di quella della letteratura greca, la penetrazione della filosofia greca a Roma si scontrò con le istituzioni politiche, non solo inizialmente, e cioè nell’età repubblicana, ma anche in una fase più avanzata, quando ormai Roma si era trasformata in un impero. In altri termini, i filosofi, dapprima Greci poi anche romani, furono spesso oggetto di provvedimenti repressivi non solo da parte dei senatori tradizionalisti, ispirati da Catone, ma anche da imperatori quali Tiberio, Nerone, Vespasiano. Solo a partire da Adriano, cioè dal II secolo d.C., la filosofia cominciò a essere tollerata e poi anzi onorata. Per comprendere meglio sia l’avversione dei tradizionalisti romani alla filosofia sia il modo in cui gli innovatori romani recepirono la filosofia, è necessario ricordare che per i romani la forma più importante di cultura, ovvero la regina delle discipline conoscitive e quindi scolastiche, era la retorica, intesa come l’arte di saper fare discorsi convincenti. La ragione di questo privilegio è nota: la civiltà romana era essenzialmente un’organizzazione politicomilitare, l’individuo era innanzitutto un civis, e dunque la capacità di parlare, tanto per far valere le proprie ragioni nei dibattiti politici quanto per incitare i soldati a combattere, era considerata la dote prioritaria di ogni romano. Il romano, sosteneva Catone, doveva essere vir bonus et dicendi peritus, un uomo “buono” – ossia ubbidiente al mos maiorum – ed esperto nel parlare, cioè nel tenere discorsi in pubblico. Di conseguenza, i tradizionalisti romani rifiutarono la filosofia in quanto era costituita da saperi (metafisica, gnoseologia, fisica) che essi ritenevano superflui e dispersivi, mentre gli innovatori, almeno 361 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE inizialmente, accolsero sì la filosofia ma selezionandone e valorizzandone quelle branche (etica, politica, retorica) che erano consonanti con la mentalità romana e dunque privilegiando i filosofi e le scuole che più avevano dato spazio ad esse. La stasi e la decadenza della ricerca scientifica In questa prospettiva, in particolare, i romani si disinteressarono quasi completamente della componente scientifica della filosofia. I saperi scientifici – matematica, astronomia, fisica, biologia, medicina – si erano sviluppati sin dall’inizio nel seno della filosofia, o comunque in rapporto ad essa, e, nell’età ellenistica, avevano raggiunto un livello tale di fioritura da dare avvio a una vera e propria rivoluzione scientifica, che avrebbe potuto anticipare di due millenni la rivoluzione scientifica moderna. La conquista romana del Mediterraneo orientale, invece, fece abortire la rivoluzione scientifica ellenistica. I romani, infatti, al contrario delle monarchie ellenistiche postalessandrine, non promossero, finanziandola, la ricerca scientifica e lasciarono deperire le istituzioni scientifiche dell’età ellenistica. Emblematico, in tal senso, il fatto che la conquista di Alessandria d’Egitto da parte di Cesare nel 48 a.C. provocò, in seguito a un incendio, la distruzione di una parte, piccola ma ugualmente significativa, dell’immenso patrimonio librario della Biblioteca regia, che sarebbe poi stata ancor più danneggiata dalla guerra tra l’imperatore Aureliano e la regina Zenobia nel III secolo d.C., e poi distrutta definitivamente dagli arabi nel VII secolo. Ciò spiega come mai lo sviluppo scientifico della civiltà romano-mediterranea si arrestò nel II secolo d.C. e perché dopo questo secolo il livello delle conoscenze scientifiche calò drasticamente. Infatti, le più significative opere scientifiche romane, quali il D e architectura (29-23 c.ca a.C) di Vitruvio e la Naturalis historia (77 d.C.) di Plinio il Vecchio, ebbero un carattere meramente enciclopedico e divulgativo, erano cioè opere di erudizione che raccoglievano e diffondevano il sapere acquisito dalle civiltà greca ed ellenistica senza aggiungervi quasi nulla di nuovo. Ancor più emblematico della stasi e della decandenza delle scienze nell’epoca romana è il caso dell’astronomo Claudio Tolomeo, vissuto nella seconda metà del II secolo d.C., che seppur ancora dotato di ottime cognizioni matematico-scientifiche, disponeva però di un livello di conoscenza scientifica inferiore a quello dei grandi scienziati dei secoli precedenti, come Archimede e Ipparco. Tolomeo elaborò una nuova più precisa e unitaria versione della teoria geocentrica, ma il suo merito maggiore, benché non di poco conto, fu quello di sintetizzare in un unico sistema le invenzioni teoriche degli astronomi geocentrici dell’età ellenistica. Soprattutto, pur conoscendola direttamente, Tolomeo rifiutò la raffinata teoria eliocentrica di Aristarco di Samo (III secolo a.C.), la confutò teoricamente e fu il principale responsabile scientifico dell’oblio dell’eliocentrismo fino alla sua ripresa da parte di Copernico nel XVI secolo. Parzialmente controcorrente fu la ricerca scientifica in campo medico, dato che l’utilità della medicina risultava, naturalmente, evidente anche ai romani. In particolare, Claudio Galeno (129-212 d.C.) sintetizzò nella sua opera la tradizione scientifica medica dell’antichità. La scienza medica, secondo Galeno, doveva basarsi sulla teoria dei 4 umori 362 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE del corpo umano: il flegma (freddo e umido), la bile nera (fredda e secca), la bile gialla (calda e secca), il sangue (caldo e umido). Il prevalere in ogni corpo umano di uno di questi umori determina il carattere dell’individuo, che dunque può essere, rispettivamente, flemmatico, malinconico, bilioso o sanguigno. Il benessere psicofisico è dato dall’equilibrio perfetto tra i quattro umori, le malattie sono provocate dai loro diversi squilibri. La terapia medica deve quindi mirare al riequilibrio, utilizzando sì farmaci o interventi chirurgici, ma solo come stimoli per attivare la naturale capacità di autoguarigione dell’organismo. La scienza medica moderna, comunque, si svilupperà da una critica e da un superamento della scienza galenica, soprattutto perché sostituirà alla spiegazione finalistica del funzionamento del corpo, tipica di Galeno, quella meccanicistica. Per quanto riguarda, invece, le cosiddette arti, ossia i saperi pratico-tecnici, come p.e. l’arte meccanica, è emblematica la condanna di Cicerone nel De officiis: “[…] tutti gli operai esercitano una professione degradante; il lavoro manuale non può avere alcun segno di nobiltà. Minimamente poi devono riscuotere approvazione quelle professioni destinate a soddisfare i piaceri materiali”. Le uniche arti che Cicerone salvava erano l’architettura e l’agricoltura. L’arrivo e lo sviluppo della filosofia a Roma Per quanto riguarda, invece, gli aspetti non scientifici della filosofia, la prima testimonianza significativa del contatto tra la cultura romana e la filosofia greca fu quella dell’ambasceria a Roma, nel 156/155, dei tre più rinomati e celebri filosofi Greci di quel momento: Carneade, scolarca dell’Accademia media, ad indirizzo scettico; Critolao, scolarca del Peripato (o Liceo) aristotelico; Diogene (di Seleucia), caposcuola dello stoicismo. I tre maestri trovarono modo di esporre pubblicamente le proprie dottrine. Carneade in particolare diede una mirabile dimostrazione di tecnica dialettica tessendo prima l’elogio della giustizia e confutandone, invece, il giorno successivo, il valore. In breve, i tre filosofi Greci furono espulsi da Roma e rispediti in Grecia. Il principale fomentatore della loro espulsione fu, naturalmente, Catone. L’anno successivo, arrivarono a Roma due filosofi Greci epicurei e tentarono anche loro di diffondere le loro idee, ma furono anch’essi immediatamente espulsi. In seguito, però, il romano Gaio Amafinio scrisse in latino un trattato divulgativo della filosofia epicurea, che, tra la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I, diede origine a un movimento epicureo diffuso soprattutto tra la classe plebea. Ancora nel I secolo a.C. il ricco Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, fu convertito all’epicureismo dal siriano Filodemo e, insieme a lui, promosse la formazione di un circolo epicureo aristocratico nella sua villa di Ercolano. Ma il massimo cultore e diffusore latino della filosofia epicurea fu il poeta Lucrezio che visse nella prima metà del I secolo a.C. e scrisse il poema De rerum natura, nel quale espose fedelmente la filosofia di Epicuro utilizzando lo stile poetico come mezzo per comunicarla e diffonderla, non solo intellettualmente ma anche emotivamente, a un più vasto pubblico. Tuttavia, la filosofia epicurea in età romana rimase una filosofia d’élite, coltivata soprattutto da plebei, gruppi di intellettuali e qualche circolo aristocratico, tutti accomunati dall’opposizione 363 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE all’establishment romano. In altre parole, l’epicureismo romano fu una filosofia del dissenso e di dissidenti, e non poteva che essere tale considerando che Epicuro aveva sostenuto il rifiuto della vita politica e pubblica a favore di una vita ritirata e vissuta in un piccolo gruppo di amici. Contemporaneamente, a Roma cominciò a diffondersi lo stoicismo, attraverso i due capiscuola del mediostoicismo, e cioè Panezio di Rodi, della seconda metà del II secolo a.C., e Posidonio di Apamea (Siria), della prima metà del I secolo a.C. Panezio soggiornò a lungo a Roma, ospitato e protetto dal Circolo degli Scipioni; Posidonio, che insegnava a Rodi, ebbe come ascoltatori Cicerone e Pompeo, e moltissimi giovani delle famiglie aristocratiche romane furono mandati da lui a completare i loro studi. In questo modo lo stoicismo divenne progressivamente la filosofia dell’establishment romano, della sua classe dominante e dirigente. Ciò si spiega sia con la maggiore compatibilità tra il mos maiorum e la filosofia stoica originaria, sia con la revisione moderata e accomodante che Panezio e Posidonio fecero dello stoicismo originario, anche in seguito all’influenza esercitata su di loro dalla civiltà romana. In questo senso, per esempio, Panezio e Posidonio sostennero che, tra i beni “indifferenti” ve ne sono alcuni “preferibili” (agiatezza, salute, forza, ecc.), cioè da valorizzare e utilizzare per rendere più facile la pratica della virtù, cosicché le azioni “intermedie” per procurarseli devono essere considerate dei “doveri”. Una posizione, questa, che calzava perfettamente con la mentalità romana. All’inizio del I secolo a.C. si verificò anche una rinascita del pensiero aristotelico, che dall’inizio del III secolo a.C. non aveva più avuto sviluppi di rilievo. In questo modo anche l’aristotelismo cominciò a diffondersi a Roma, in particolare grazie a Stasea di Napoli, Aristone di Alessandria e Cratippo di Pergamo. Nell’86 a.C., poi, Silla saccheggiò Atene e portò a Roma la biblioteca del Liceo, o Peripato, la scuola aristotelica, cosicché negli anni successivi cominciarono a essere pubblicati a Roma alcuni scritti di Aristotele. Ma fu soprattutto l’ordinamento e la pubblicazione del Corpus Aristotelicum, cioè dell’opera completa di Aristotele, ad opera di Livio Andronico, nella seconda metà del I secolo, a rilanciare il pensiero aristotelico. Infatti, precedentemente, in Grecia, al di fuori del Liceo, circolavano solo gli scritti essoterici (cioè rivolti al pubblico esterno), mentre non erano mai stati pubblicati gli scritti esoterici (cioè riservati agli studenti del Liceo). Stimolata dal Corpus Aristotelicum, la corrente peripatetica continuò a svilupparsi fino a Alessandro di Afrodisia, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., per poi esaurirsi. Mentre gli aristotelici precedenti Livio Andronico interpretarono Aristotele in senso naturalisticomaterialistico, quelli successivi lo interpretarono sempre più in senso platonico. Intorno all’88 a.C. il nuovo scolarca dell’Accademia platonica, Filone di Larissa, si trasferì a Roma, dove aprì una scuola e nell’87 pubblicò due suoi libri. Filone abbandonò l’indirizzo scettico dell’Accademia di Carneade a favore di un nuovo orientamento aperto alla contaminazione delle tesi ritenute più valide di altre scuole filosofiche. Questo nuovo orientamento è chiamato “eclettismo”. Tra i romani che frequentarono la scuola di Filone, vi fu Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che divenne iniziatore e principale esponente dell’eclettismo romano, che si può considerare l’apporto più originale e tipico che la cultura 364 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE romana seppe dare allo sviluppo della filosofia. L’eclettismo infatti si confaceva alla mentalità romana, poco incline alle sottigliezze e alle distinzioni teoretiche, e più pragmaticamente interessata all’esito pratico del pensiero. Cicerone, studioso e quindi conoscitore di tutte le diverse filosofie greche – pitagorismo, platonismo, aristotelismo, epicureismo, stoicismo, scetticismo – partiva dall’assunto, di origine scettica, della relatività veritativa di ogni scuola filosofica per giungere a sostenere che è però possibile individuare l’opinione più “probabile”, cioè più vicina possibile alla verità, confrontando le diverse tesi e scegliendo per ogni questione quella che risulti migliore, indipendentemente dalla scuola alla quale la si attinge. In tal senso Cicerone mise a punto un collage, o un patchwork, filosofico, rifacendosi a tutte le tradizioni filosofiche da lui conosciute, con l’eccezione dell’epicureismo, di cui affermò di non condividere niente, e del cinismo, che per lui non era nemmeno degno di essere considerato una filosofia. Negli anni successivi alla morte di Cicerone, cioè nella seconda metà del I secolo a.C., ad Alessandria d’Egitto fu fondata una scuola neoscettica ad opera di Enesidemo (80-10 a.C.) che si era staccato dall’Accademia quando, con Filone di Larissa, questa aveva abbandonato l’impostazione scettica per abbracciare quella eclettica. Il neoscetticismo fu poi portato avanti, tra gli altri, da Agrippa, nella seconda metà del I secolo d.C., dal medico empirico Menodoto e soprattutto da Sesto Empirico, nella prima metà del II secolo d.C., il quale sviluppò lo scetticismo come fenomenismo sensista. Il cinismo giunse a Roma tardi, a causa del declino del movimento filosofico nel II e nel I secolo a.C., ma anche perché di tutte le filosofie greche era certamente quella più inconciliabile col mos maiorum, tanto che anche il tollerante ed eclettico Cicerone giunse a sostenere che il cinismo doveva essere “respinto in blocco” perché “contrario alla verecondia”. Ciò nonostante, a partire dal I secolo d.C., anche il cinismo cominciò a diffondersi a Roma, prima con Demetrio e poi con Dione Crisostomo. Entrambi però ebbero vita difficile: il primo fu espulso da Roma nel 71 d.C. dall’imperatore Vespasiano, il secondo esiliato nell’82 d.C. da Domiziano, ma poi riaccolto e onorato da Traiano. Dal II secolo d.C. il cinismo, o meglio la “vita cinica”, divenne la filosofia più diffusa nei ceti popolari, mantenendo la sua valenza anticivile. L’evoluzione della filosofia nei primi secoli dell’impero L’influenza di Panezio e Posidonio e l’affinità elettiva tra la tradizione romana e lo stoicismo fecero sì che, a partire dal I secolo d.C., nascesse e si sviluppasse una nuova fase dello stoicismo – il neostoicismo o nuova stoà – del tutto romana, di cui furono principali esponenti Seneca (4 a.C-65 d.C.), Epitteto (50-120 d.C.) e Marco Aurelio (121-180 d.C.). Questo stoicismo romano si caratterizzò per il prevalente o esclusivo interesse per l’etica, per un’apertura eclettica ad altre correnti filosofiche, in particolare al platonismo, e per la sua curvatura intimistico-religiosa, ovvero per l’importanza assunta dalla problematica del rapporto tra l’interiorità dell’individuo e la divinità. Nel I secolo a.C., in particolare dopo il saccheggio di Atene da parte di Silla, l’Accademia platonica, che nell’ultima sua fase aveva abbracciato un indirizzo eclettico, si disciolse. Nel 365 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE corso del I secolo d.C., però, il platonismo rinacque ad Alessandria d’Egitto. Questa nuova fase di sviluppo del platonismo è chiamata “medioplatonismo”, proseguì fino alla fine del II secolo d.C. ed ebbe come principali esponenti Plutarco di Cheronea, vissuto tra il I e II secolo d.C., autore delle celebri Vite parallele; Apuleio di Madaura, vissuto nella prima metà del II secolo d.C. e autore di Metamorfosi (o L’asino d’oro); Celso vissuto nella seconda metà del II secolo d.C. Il medioplatonismo valorizzò il versante trascendente della filosofia di Platone, sviluppandola in senso teologico-religioso. Sempre nel I secolo, e proprio in ambiente romano, emerse il “neopitagorismo”. E’ Cicerone stesso che indica Publio Nigidio Figulo come l’iniziatore della ripresa e della evoluzione dell’antica filosofia pitagorica, mai del tutto spenta nei secoli precedenti. Nigidio Figulo in particolare organizzò una vera e propria scuola pitagorica. Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. Quintino Sestio ne fondò un’altra. Altri esponenti del neopitagorismo nel I e nel II secolo d.C. furono Moderato di Gades e Apollonio di Tania, contemporanei di Nerone e dei Flavi, e Numenio di Apamea, vissuto nella seconda metà del II secolo d.C. Il neopitagorismo romano si caratterizzò per la valorizzazione dell’immaterialità dei principi primi (Monade e Diade) e dell’anima umana, per una tendenza “monoteistica” a far derivare tutta la realtà, anche la Diade, dall’unico principio della Monade, per la tensione mistico-religiosa. La genesi della filosofia cristiana e di altre filosofie religiose Si è visto come nei primi secoli dell’impero romano, le diverse correnti filosofiche avessero assunto un orientamento religioso. Questo cambiamento va inserito nella più generale tendenza dell’intera cultura romana verso un nuovo sentimento religioso, molto diverso da quello tradizionale. La religione politeistica romana, che aveva inglobato le divinità dei popoli italici e poi si era fusa con la religione olimpica greca, era una religione politica, cioè tutt’uno con le autorità e le attività dello Stato romano. Oltre alla religione ufficiale esisteva una religiosità popolare strettamente legata alle attività lavorativo-produttive, alla riproduzione dei figli e, più in generale, al benessere psico-fisico individuale e famigliare. Ma entrambe le religioni, quella ufficiale e quella popolare, erano religioni dell’immanenza, cioè religioni credute e praticate al fine di assicurare una più felice condizione terrena. L’aldilà, la dimensione dell’esistenza dopo la vita terrena, era concepito come un regno di ombre, buio e cupo, dove si sopravviveva in modo larvale, un luogo tutt’altro che attraente, la cui unica funzione era quella di consentire una comunicazione con i parenti morti. Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., però, cominciarono a diffondersi a Roma nuove religioni di origine orientale che promettevano la salvezza eterna, cioè la sopravvivenza dell’anima individuale, dopo la morte del corpo, in una dimensione ultraterrena positivamente connotata. La diffusione delle religioni salvifiche, p.e. esempio il culto di Mitra o la religione di Iside, attesta l’emergere di un nuovo bisogno religioso proiettato nella dimensione trascendente, ossia l’esigenza di una vita immortale ancora più felice di quella mortale. 366 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Nel I secolo d.C. fu elaborata la prima filosofia dichiaratamente basata su una religione orientale, e precisamente sull’ebraismo. Autore ne fu Filone di Alessandria (25 a.C.-40 d.C.), la città in cui, nel III secolo a.C., la Bibbia ebraica era stata tradotta in greco. Filone fu il primo filosofo a sostenere la tesi dell’identità tra la verità dell’Antico Testamento ebraico e la verità della filosofia greca. A tal fine, però, la Bibbia non andava recepita letteralmente ma interpretata allegoricamente. Lo scopo ultimo della filosofia era per lui l’unione mistica con Dio. A partire soprattutto dal II secolo d.C., una delle tante religioni salvifiche che pullulavano nella società romana, e che inizialmente era diffusa solo all’interno delle comunità ebraiche, il cristianesimo, cominciò a organizzarsi in comunità autonome e a diffondersi sempre più ampiamente soprattutto tra le classi medie urbane, in qualche caso anche tra elementi della classe dominante. Nello stesso secolo i primi intellettuali cristiani gettarono le basi della filosofia ispirata al cristianesimo, detta “patristica”, in quanto opera dei “padri” della Chiesa, ovvero i primi intellettuali cristiani, coloro che gettarono le fondamenta della dottrina teologica cristiana. La filosofia patristica del I-II secolo d.C. fu chiamata “apologetica” perché aveva come scopo principale la difesa del cristianesimo dagli attacchi dei filosofi legati alla tradizione classica. Il primo “padre”-apologeta di rilievo fu Giustino (nato nei primi anni del II secolo d.C. e giustiziato come cristiano nel 165 d.C.) che sostenne che i filosofi Greci avevano plagiato la Bibbia ma anche che alcuni di loro avevano anticipato verità cristiane in quanto tutti gli uomini posseggono parzialmente quel logos divino che Cristo avrebbe poi posseduto totalmente. L’apologetica cristiana provocò la reazione dei filosofi legati alla religione politeistica greco-romana. Emblematico in questo senso il Discorso vero (180 d.C.) in cui il medioplatonico Celso ribaltò contro il cristianesimo l’accusa di minare l’impero e di aver plagiato i filosofi Greci, soprattutto Platone. Ma la reazione della cultura filosofico-religiosa tradizionale si espresse ancor più significativamente in una serie di scritti del II-III secolo d.C. che tentarono una sintesi di filosofia e religione diffondendola come trascrizione di antichissime e originarie tradizioni sapienziali mediorientali scaturite da una rivelazione divina. Le più importanti opere di questo nuovo genere furono il Corpus Hermeticum e gli Oracoli Caldaici. Il Corpus Hermeticum, costituito da 17 trattati, fu composto da vari autori, tutti sconosciuti, ma diffuso come opera di Ermete Trismegisto (= tre volte grandissimo), denominazione dell’antico dio egizio della scrittura e della conoscenza Thoth (corrispondente all’Hermes greco, ovvero al Mercurio latino). Il suo contenuto, proposto come sapienza egizia del II millennio a.C. ed espresso in uno stile in parte narrativo-simbolico in parte logicoargomentativo, è imperniato su un Dio-Luce unico e trascendente da cui derivano il Logos, suo primogenito, l’Intelletto demiurgico, suo secondogenito, l’Anthropos, l’uomo incorporeo, suo terzogenito, destinato a “cadere” nella materialità e, successivamente, a salvarsi recuperando la propria natura puramente spirituale e “indiandosi”, cioè unendosi misticamente a Dio. Gli Oracoli Caldaici, scritti, in questo caso pare effettivamente, da Giuliano detto “il Teurgo”, si rifacevano alla sapienza babilonese, ovvero alla religione 367 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE mesopotamica del sole/fuoco, erano presentati come rivelazione di Ecate, dea della magia, e contenevano una dottrina della divinità simile a quella ermetica ma soprattutto una tecnica, detta appunto teurgia, che utilizzava immagini magiche e formule orali per avvicinarsi a Dio fino a congiungersi con lui. Nello stesso periodo, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., all’interno della patristica cristiana emerse un orientamento decisamente antifilosofico. Ne fu iniziatore Tertulliano (155-230 d.C. circa), nato a Cartagine, la cui tesi fondamentale fu successivamente sintetizzata nella famosa sentenza “credo quia absurdum” (credo proprio perché è assurdo). In altri termini, Tertulliano, basandosi anche sui passi delle epistole di S. Paolo che definivano la fede cristiana “scandalo” e “follia”, sosteneva che la fede era negazione e rifiuto della ragione e dunque di qualsiasi filosofia. La posizione di Tertulliano prevalse nella patristica latina, mentre la patristica greca seguì e sviluppò l’orientamento di Giustino, favorevole alla mediazione tra fede cristiana e filosofia greco-romana, con Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-284). Il primo attribuì alla filosofia il ruolo di introduzione alla fede cristiana; il secondo scrisse il Contra Celsum, cioè la confutazione delle critiche che Celso aveva mosso contro il cristianesimo, e sostenne che la filosofia acquista un senso e un’utilità solo se illuminata dalla fede. L’evoluzione della filosofia nel tardo impero: il neoplatonismo Nel corso del III secolo d.C. ebbe inizio il declino dell’impero romano, o meglio della sua parte occidentale. Dopo la dinastia dei Severi, dal 235 al 284, imperversarono la guerra civile, la peste, il calo demografico, la recessione economica. In questa situazione il cristianesimo aumentò notevolmente la sua diffusione facendo sempre più breccia nella classe dirigente romana. Eppure proprio nel III secolo la cultura greco-romana si dimostrò capace di reagire e di produrre una nuova filosofia di altissimo livello: il neoplatonismo, cioè una nuova versione della filosofia di Platone che rifondeva al suo interno spunti e apporti di tutte le diverse correnti filosofiche dell’età ellenistica e romana. Il fondatore del neoplatonismo fu Plotino (204-270), nativo di Licopoli in Egitto, autore delle Enneadi, il quale chiamò Uno il principio primo di tutto e lo configurò, al tempo stesso, come immateriale e infinito, e concepì e praticò la filosofia come un ritorno all’Uno culminante nell’estasi, cioè nell’abbandono del proprio io per fondersi con l’Uno-Tutto. Il neoplatonismo fu ulteriormente sviluppato poi da Porfirio (234-305), discepolo di Plotino; Giamblico (245-325), discepolo di Porfirio; Giuliano (331-363), l’imperatore romano bollato dai cristiani come l’Apostata, cioè il traditore, perché aveva cercato di restaurare il politeismo; Ipazia di Alessandria (370-415), caso unico di donna filosofo nell’antichità, nonché di donna martire della filosofia, poiché fu seviziata e uccisa da cristiani fanatici aizzati dal vescovo di Alessandria Cirillo; Proclo (412-485), che sintetizzò nella sua filosofia tutto il pensiero neoplatonico precedente. A partire dall’editto di Costantino (313), la chiesa cristiana, ormai strutturata gerarchicamente, cominciò ad acquisire funzioni e poteri politici, fino a quando l’imperatore Teodosio, con l’editto di Tessalonica (380), lo proclamò unica religione di 368 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Stato. Come attesta l’assassinio di Ipazia, lo sviluppo del neoplatonismo fu sempre più osteggiato dai cristiani. Ma paradossalmente il neoplatonismo, nato come risposta e alternativa al cristianesimo, finì con l’essere colonizzato e utilizzato proprio dal cristianesimo e gli consentì, in tal modo, di conquistare l’egemonia culturale, sconfiggendo definitivamente la tradizione filosofica greco-romana. Infatti, in particolare a Milano verso la fine del IV secolo, per iniziativa del vescovo Ambrogio, si formò un circolo di chierici-intellettuali dedito allo studio della filosofia neoplatonica e alla sua conciliazione con la religione cristiana. L’artefice dell’innesto del neoplatonismo sul tronco del cristianesimo fu uno dei membri del circolo ambrosiano, Agostino di Tagaste (354-430), che elaborò così il primo sistema filosofico cristiano complessivo capace di rivaleggiare con le grandi filosofie greco-romane. Nel corso del V secolo d.C., mentre l’impero romano d’Occidente cessava d’esistere del tutto con la deposizione di Romolo Augustolo (476), la religione e la filosofia cristiane conquistarono la maggioranza della classe dirigente. Il neoplatonismo si ridusse sempre di più fino a essere definitivamente soppresso, insieme con tutte le altre superstiti filosofie antiche, da un editto del 529 con il quale l’imperatore d’Oriente Giustiniano, che era riuscito a riconquistare la penisola italiana, ordinò la chiusura di tutte le scuole filosofiche non cristiane. 369 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE IX VIAGGIO DIO COME INFINITA’ IMPERSONALE 370 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA E’ questo il significato della famosa prescrizione dei misteri: “Non divulgare nulla ai non iniziati”: proprio perché il Divino non dev’essere divulgato, fu proibito di manifestarlo ad altri, a meno che questi non abbia già avuto per se stesso la fortuna di contemplare. Poiché, dunque, non erano due, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto visto (“unito”, dunque, non “visto”), chi allora divenne tale quando si unì a Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un’immagine di Lui; egli, però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna differenziazione né rispetto a se stesso né rispetto alle altre cose; non c’era in lui alcun movimento; né collera né desiderio erano in lui, una volta salito a quell’altezza, e nemmeno c’era ragione o pensiero; non c’era nemmeno lui stesso, insomma, se proprio dobbiano dir così. E invece, quasi rapito o ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più si aggira intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa immobilità. Egli ha trasceso ormai le stesse cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso e il coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando egli uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una immagine, ma con Lui stesso: quelle statue che sono, dunque, di secondo ordine. Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un’estasi, una semplificazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio di adattamento; solo così si può vedere ciò che v’è nel penetrale; ma se si guarda in altra maniera, tutto scompare. Tutto ciò è soltanto un’immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato; ma un saggio sacerdote che comprenda l’allusione, può giungere alla vera visione solo che entri all’interno del penetrale. Anche se non vi entra, cioè se pensa che questo penetrale sia qualcosa di invisibile, la sorgente e il Principio, egli sa tuttavia che solo il Principio vede il Principio e che solo il simile si unisce al simile; e non trascurerà alcuno degli elementi divini che la sua anima è capace di contenere, già prima della visione; e il resto, poi, lo esigerà dalla visione stessa; ma il resto, per chi ha trasceso tutto, è Colui che è prima di tutte le cose. 371 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’anima, infatti, non può mai arrivare al non-essere assoluto; se scende in basso, scende al male, e cioè verso il non-essere, ma non al non-essere assoluto; invece, se corre sulla via opposta, giunge non ad un altro ma a se stessa; e così, poiché non è in un altro, non può essere in nulla ma solo in se stessa; ma “essere in sé sola e non nell’essere”, vuol dire “in Lui”; e il contemplante diventa non essenza, ma “al di là dell’essenza”, poiché si unisce a Lui. Se uno si vede già trasformato in Lui, egli possiede dunque in sé un’immagine di Lui e se passa da sé, che è copia, all’originale, ha toccato finalmente il termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, egli può risvegliare la virtù che è in lui e, meditando sul suo ordine interiore, ritroverà la sua leggerezza e salirà all’Intelligenza sulla via della virtù e, mediante la saggezza, a Lui. Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga di solo a solo. Plotino, Enneadi, libro VI, trattato 9, pragrafo 11 372 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… IL NEOPLATONISMO Di diritto il fondatore della filosofia neoplatonica fu Ammonio Sacca, il quale però non mise mai per iscritto il suo pensiero. Di conseguenza, di fatto fu il suo discepolo Plotino, autore di 54 trattati intitolati Enneadi, il capostipite della scuola neoplatonica, destinata a tener banco per tre secoli, dall’inizio del III all’inizio del VI secolo d.C., ovvero fino alla fine della filosofia antica. In questo senso il neoplatonismo rappresentò, per così dire, l’ultimo canto del cigno della filosofia e, più in generale, della cultura greco-romana, cioè, fuori di metafora, l’ultima grande creazione filosofica dell’antichità classica. Il nome “neoplatonismo” segnala in modo fin troppo netto che la nuova filosofia avviata da Plotino si pone in continuità con la grande filosofia di Platone. Addirittura Plotino presenta il suo pensiero come una riesposizione fedele del pensiero platonico, solo in forma di trattato, anziché in quella del dialogo, e completa, comprensiva, cioè, anche dei cosiddetti Insegnamenti orali, che Platone non aveva mai trascritto ma che erano stati appuntati da alcuni dei suoi discepoli, innanzitutto Aristotele, e comunque erano stati tramandati oralmente all’interno dell’Accademia. In realtà, pur ispirandosi soprattutto a Platone, quella di Plotino è una filosofia originale e, in tal senso, si avvale di tutte le filosofie postplatoniche, a cominciare da quella aristotelica, rifondendone vari aspetti all’interno del suo pensiero benché valorizzando soprattutto quelli ebraico-religiosi di Filone di Alessandria. Per questo, si può a buon diritto affermare che il neoplatonismo è una sintesi di tutte le filosofie antiche. Ciò non vuol dire che il neoplatonismo sia una forma di eclettismo, in quanto è semmai un raffinato esempio di sincretismo. Infatti Plotino rifuse elementi delle filosofie precedenti all’insegna del platonismo, cioè interpretandoli platonicamente e adattandoli ai capisaldi del platonismo. Il fulcro della sintesi plotiniana è la nuova concezione del principio primo di tutte le cose. Mentre in tutte le filosofie precedenti l’infinitezza del principio, o dei principi, si abbina alla materialità, e, invece, la sua immaterialità alla finitezza, Plotino spariglia le carte e coniuga infinitezza e immaterialità, scoprendo un nuovo concetto dell’infinito, un infinito, cioè, non quantitativo ma qualitativo, non potenziale ma attuale. In tal modo, Plotino conferisce al principio primo, da lui chiamato “Uno” ma anche “Dio”, una potenza e una trascendenza mai prima concepite. Dopo essersi posto un problema inedito – qual è il principio del principio – e aver proposto la propria soluzione, Plotino spiega la costituzione del mondo fisico elaborando una teoria del tutto originale, quella della “prosecuzione”, ovvero dell’ “irradiazione”, del principio. Corollario di questa teoria è una nuova concezione della materia, intesa non più come principio indipendente contrapposto all’essere, cioè all’ordine razionale, ma come non-essere relativo, ossia come privazione dell’essere. 373 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Infine, Plotino riprende e rilancia la teoria antica dell’uomo come dio decaduto e delinea la strada conoscitiva, etica ed erotico-estetica per il suo ritorno all’originaria condizione divina, ma le aggiunge un esito finale del tutto inedito, quello dell’estasi, cioè della possibilità per l’uomo di unirsi all’Uno-Dio mentre è ancora in vita e di raggiungere così una felicità assoluta, in quanto infusa dall’infinità trascendente. 374 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO PLOTINO Plotino nacque a Licopoli, città del centro dell’Egitto (oggi Asyut), nel 204 d.C. Delle sue origini e della sua famiglia non si hanno notizie perché Plotino stesso si rifiutò di comunicarle a chiunque sostenendo che non avevano alcuna rilevanza. Appassionatosi alla filosofia a ventotto anni, si trasferì ad Alessandria d’Egitto per seguire le lezioni dei numerosi maestri che vi insegnavano. Ma di nessuno fu soddisfatto fino a quando non conobbe Ammonio Sacca, filosofo platonico, di cui fu discepolo per undici anni. Nel 243, Plotino lasciò Alessandria per unirsi alla spedizione contro i Persiani dell’imperatore Gordiano III, con l’intento di fare conoscenza diretta delle filosofie dei maghi persiani e dei gimnosofisti indiani. Ma, in seguito alla sconfitta di Gordiano, si ritrovò sbandato in mezzo alla Persia. Rischiando più volte la vita, riuscì fortunosamente a raggiungere Antiochia. Dopo la brutta avventura persiana, si trasferì a Roma, dove aprì una sua scuola, frequentata anche da molte donne, e insegnò per molti anni. Mentre fino al 254, Plotino, seguendo la prescrizione del suo maestro Ammonio, emulo in questo di Socrate, svolse un insegnamento unicamente orale, cioè senza scrivere alcun testo proprio, a partire dal 254 cominciò a mettere per iscritto la sua filosofia e negli anni successivi compose 54 trattati. Il suo più affezionato discepolo, Porfirio, autore anche di una sua biografia, ne curò la pubblicazione raggruppandoli in 6 libri di 9 trattati ciascuno, da cui il titolo di Enneadi. Dopo il travagliato ritorno dalla Persia, la vita di Plotino trascorse apparentemente nella monotonia più totale. Porfirio, però, ci testimonia che, in realtà, Plotino visse la più straordinaria delle esperienze, quella della cosiddetta “estasi”, ovvero dell’abbandono della dimensione terrena, e della stessa coscienza individuale, e del congiungimento con il principio divino e trascendente di tutte le cose, che Plotino denominava preferibilmente “Uno”. Secondo la testimonianza di Porfirio, Plotino, nel corso di tutta la sua vita, raggiunse l’estasi quattro volte. Già cinquantenne Plotino soffriva di angina pectoris in forma stabile. Dopo i sessant’anni, la sua malattia si aggravò seriamente, la vista gli si indebolì e la voce gli divenne rauca tanto da rendere le sue parole poco comprensibili. Plotino decise così di porre fine alle sue lezioni, abbandonò Roma e si trasferì in Campania nel podere rurale del suo amico e discepolo Zeto. Né prima né dopo il suo trasferimento in campagna Plotino volle mai farsi curare, perché riteneva che un uomo non si dovesse dare pena dei malanni e dei dolori del proprio corpo. Per lo stesso motivo, durante la sua vita, non si era mai voluto far ritrarre da pittori o scultori. Porfirio testimonia che una volta che un suo discepolo gli propose di lasciarsi fare un ritratto gli disse: “Non è abbastanza portare quest’immagine che la natura ci ha messo intorno, e bisognerà anche permettere che di questa immagine rimanga un’altra immagine più duratura, come se essa fosse degna di uno sguardo?”. 375 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Prima di morire, Plotino pronunciò, quale testamento spirituale, queste parole: “Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo”. Correva l’anno 270 d.C. 376 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 PLOTINO: TUTTO E’ UNO INFINITO E IMMATERIALE Tutti gli enti sono enti per l’Uno, sia quelli che sono tali in primo grado, sia quelli che partecipano in qualche modo dell’Essere. Che cosa sarebbero, infatti, se non fossero uno? Poiché nessuno di essi, privato della sua unità, è più quello. Per esempio: non c’è l’esercito se non è uno, né sono il coro e il gregge, se non sono uno; neppure sono la casa e la nave se non hanno unità, perché la casa e la nave sono uno e, tolta l’unità, la casa non sarebbe più casa, né la nave più nave. […] Inoltre, anche i corpi delle piante e degli animali, essendo uno ciascuno, se sfuggono all’unità si dividono in molte parti e perdono l’essere che avevano; e se diventano qualcosa di diverso, anche il nuovo essere esiste in quanto uno. Plotino, Enneadi, VI, 9, 1, Rusconi 1992, a cura di Giuseppe Faggin Ma neppure Egli è limitato. Da chi lo sarebbe? E nemmeno è illimitato come grandezza. Dove avrebbe bisogno di estendersi e che cosa diventare, dato che non ha bisogno di nulla? Egli possiede l’infinitezza in quanto potenza, poiché né attinge altrove, né si esaurisce, poiché anche le cose che non si esauriscono sono tali per opera sua. La sua infinitezza dipende dal fatto che egli non è “più di uno” e che non c’è nulla che possa limitare qualcuna delle cose che sono in Lui; proprio perché è Uno, Egli non è misurabile né numerabile. Egli non trova un limite né in altri né in se stesso, perché se così fosse, sarebbe dualità. Non ha dunque figura, in quanto non ha parti, né forma. Non cercarlo dunque con occhi mortali, come il nostro discorso va dicendo; e non credere di poterlo vedere come pretenderebbe chi suppone che tutte le cose siano sensibili e nega ciò che vale più di ogni cosa. In realtà sono proprio le cose che si credono come le maggiormente esistenti che non esistono affatto. Ma il Primo è sorgente dell’Essere ed è molto superiore all’essenza. Plotino, Enneadi, V, 5, 10-11, ed. cit. Bisogna concepirlo anche infinito, non perché sia interminabile in grandezza o in numero, ma perché la sua potenza non è limitata. Infatti, se tu lo pensi come Intelligenza o Dio, egli è da più; se lo raccogli in unità col tuo pensiero, allora Egli è uno ancora più di quanto possa rappresentarlo il tuo pensiero, poiché egli è in sé e per sé senza alcuna accidentalità. Quanto alla sua autosufficienza, nessuno potrà negarne l’unità. Infatti, se fra tutti gli esseri Egli è il più dotato e il più autosufficiente, ne consegue che Egli non ha assolutamente bisogno di nulla. Tutto il molteplice e il non-uno è manchevole 377 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE perché consta di molti: perciò la sua essenza ha bisogno dell’unità; l’Uno, invece, non ha bisogno di se stesso perché Egli stesso è uno. […] Di fatto, a Lui non manca nulla né per avere l’essere né per avere il benessere né per possedere il suo fondamento: poiché, essendo causa per le altre cose, Egli non trae ciò che è da queste cose; quanto poi al benessere, potrebbe trovarsi fuori di Lui? Insomma, per Lui il benessere non è accidentale, ma è Lui stesso. […] Perciò nulla è bene per l’Uno, e quindi non avrà voglia di nessun bene, anzi Egli è Super-Bene, e non è bene per se stesso, ma è bene per gli altri esseri che possono parteciparne. Plotino, Enneadi, VI, 9, 6, ed. cit. Innanzitutto e soprattutto, Plotino denomina il principio primo di tutte le cose “Uno”. Ma al contempo Plotino afferma che “Uno” non è il suo unico nome e, ancor di più, che non è il suo vero nome, ma è, per così dire, solo uno dei suoi possibili epiteti. Infatti, il principio primo di tutto (come approfondiremo in seguito) a rigore è innominabile, in quanto nessun nome è sufficiente a connotarlo, cioè è in grado di significare la sua identità. Tuttavia, per Plotino “Uno” è comunque la sua denominazione preferibile poiché ne esprime la prima delle sue proprietà essenziali: l’essere senza parti e indifferenziato, cioè assolutamente omogeneo. E’ proprio questa caratteristica che rende l’Uno principio della realtà fisica, ovvero suo fondamento ontologico, e pertanto rende possibile argomentarne l’esistenza a partire dall’osservazione delle cose sensibili. Infatti, argomenta Plotino, se consideriamo qualunque cosa sensibile - una roccia, un albero, un cane, ecc. - non possiamo non rilevare che essa è un composto di più e differenti parti. P.e., un albero, si compone di radici, tronco, rami, foglie, è un insieme di molte e diverse cose, cioè è una molteplicità. Ma se esiste come un albero, quell’albero lì, poniamo quel pino, non può essere molteplice. Dunque, perché quel pino possa esistere, deve esserci qualcosa che unifichi le parti che lo compongono. Questo qualcosa è appunto l’Uno, l’unità. Per usare un’analogia esemplificativa, si può dire che l’Uno è come un collante che unifica i vari e diversi aspetti di ogni cosa, rendendola una determinata cosa, ossia una roccia o un cane o un albero, e facendola quindi esistere come tale. Ma se ogni cosa, conclude Plotino, esiste in quanto è costituita dall’unità, allora l’esistenza delle cose attesta necessariamente l’esistenza dell’Uno come principio di tutte le cose. Nell’analogia utilizzata per esemplificare e semplificare, l’Uno è apparentato a un collante. Ma bisogna ora rilevare una differenza fondamentale: mentre il collante è qualcosa di fisico, l’Uno, cioè il criterio dell’unità, secondo Plotino non è invece fisico. Questa tesi è intuitivamente comprensibile: quando diciamo o pensiamo “uno” o “unità”, ci riferiamo a 378 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE qualcosa di astratto, cioè a un principio puramente razionale, ovvero ideale. Plotino ricava così una seconda proprietà fondamentale dell’Uno: la sua immaterialità appunto, da cui conseguono necessariamente l’immutabilità e l’eternità. A queste caratteristiche Plotino ne aggiunge una ulteriore e decisiva: l’infinitezza, intesa però non in senso quantitativo ma qualitativo. Infatti, non essendo fisico, l’Uno non è spazio-temporale, dunque non è né alto, né largo, né lungo, né può avere estensione o grandezze di qualunque tipo (volume, peso, velocità, ecc.). L’Uno, sostiene Plotino, è infinito in quanto è infinita “potenza”, ovvero come infinita attività produttiva, infinita energia (enérgheia in greco antico significava azione, forza attiva) creativa. In altri termini, la potenza è l’attività in virtù della quale l’Uno è principio di tutte le cose, le fa esistere. In questo senso, l’Uno per Plotino non è un “infinito potenziale” (nel senso attribuito all’espressione da Aristotele, il quale per “potenza” intendeva potenzialità, possibilità), cioè qualcosa che si può accrescere indefinitamente, p.e. una retta; bensì un “infinito attuale o in atto” (secondo Aristotele inconcepibile e quindi non reale), cioè del tutto completo e compiuto, effettivamente attuato. In quanto infinito attuale, ovvero potenza creatrice, l’Uno comprende tutte le qualità – essere, intelligenza, bellezza, bene, giustizia, ecc. – al massimo grado, cioè a un grado infinito. Pertanto, secondo Plotino, l’Uno è oltre l’essere, l’intelligenza, il bene, la bellezza, la giustizia, in quanto queste sono qualità determinate e quindi finite, limitate. L’Uno, in tal senso, non esiste, ma super-esiste, o meta-esiste; non è intelligente, ma super-intelligente, o meta-intelligente, e così via. Dunque possedendo non solo tutte le qualità ma possedendole anche in misura infinita è perfetto, anzi superperfetto. In questo modo, Plotino riesce a motivare e a fondare, più di ogni altro filosofo precedente, la superiorità assoluta del principio rispetto a tutte le cose. L’Uno, infatti, risulta effettivamente trascendente, dal momento che tutte le cose, non solo quelle fisiche ma anche quelle ideali (essere, intelligenza, bene, ecc.) sono finite o al massimo infiniti potenziali. Ma se è immateriale, immutabile, eterno, infinito, perfetto e trascendente, allora l’Uno è divino e pertanto Plotino lo chiama anche Dio. 379 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 1 Ogni cosa è composta di parti Per esistere come una cosa deve possedere un principio unificatore L’Uno è il principio di ogni cosa indifferenziato immateriale infinito attuale eterno immutabile non quantitativamente ma qualitativamente è super-essere, super-bene, super-intelligenza è effettivamente trascendente è Dio 380 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 PLOTINO: L’UNO E’ INEFFABILE Perciò Egli è, in verità, ineffabile. Poiché qualsiasi cosa tu dica, tu dici sempre qualche cosa. Ma l’espressione “al di là di tutto e al di là della Santissima Intelligenza” è, di tutte le espressioni, la sola vera, perché non è un nome diverso da Lui, né è una cosa fra tutte le altre, perché nulla veramente possiamo dire di Lui; ma, dentro i limiti del possibile, cerchiamo di dare, così fra di noi, un cenno su di Lui. […] Plotino, Enneadi, V, 3, 13, ed. cit. Ma perché allora parliamo di Lui? Veramente, noi diciamo solo qualche cosa di Lui, ma non affermiamo nulla di Lui e non abbiamo di Lui né conoscenza né pensiero. E come dunque possiamo parlare di Lui se non lo possediamo? E’ vero, non lo possediamo con la conoscenza, né lo possediamo pienamente: lo possediamo però in tal modo da poter parlare di Lui senza però dirlo veramente. Noi diciamo infatti quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è. Plotino, Enneadi, V, 3, 14, ed. cit. Ma che cos’è ciò che non ebbe l’esistenza? Dobbiamo andarcene in silenzio e, messi in imbarazzo dai nostri argomenti, sospendere ogni ricerca. Cosa dovrebbe cercare chi non ha più dove procedere, allorché ogni ricerca è arrivata a un principio e si ferma lì? […] Dobbiamo perciò eliminare il motivo dell’aporia, sopprimendo in Lui ogni luogo ed escludendo da Lui ogni posto, e non affermare che Egli si trovi in esso e abbia qui la sua dimora eterna, né che vi sia arrivato; diciamo soltanto che “Egli è come è”, dicendo che “è” per necessità del discorso, e riconosciamo che il luogo, come le altre cose, è posteriore, e posteriore a tutto. Pensandolo, come noi lo pensiamo, non-spaziale e non ponendo nulla intorno a Lui, noi non riusciamo a circondarne l’estensione e dobbiamo riconoscere che Egli non ha estensione; e neppure la qualità, poiché nessuna forma, nemmeno intellegibile, può esserci in Lui, e nemmeno alcuna relazione con altro: Egli è infatti in sé stesso ed esisteva prima di ogni altra cosa. Che cosa possono dire dunque le parole “gli accadde di essere così?” Come potremmo pronunciarle, quando anche le altre che si dicono di Lui consistono in una negazione? Perciò è più giusto affermare che “non gli accadde di essere così” piuttosto che “gli accadde di essere così”, poiché l’ “accadere” non gli appartiene affatto. 381 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Plotino, Enneadi, VI, 8, 11, ed. cit. Poiché Egli è il Bene in sé e non “un bene”, è necessario che Egli non abbia nulla in sé, dal momento che non ha nemmeno un bene. Ciò che Egli avesse in sé, lo dovrebbe avere o come bene, o come non-bene: nel Bene in senso stretto e primario non potrebbe esserci il non-bene, né il Bene può avere il bene. Se dunque Egli non è né il bene né il non-bene, non ha veramente nulla. E se non ha nulla, Egli è solo e privo di ogni cosa. Perciò, se le altre cose o sono buone, pur non essendo il Bene, o non sono buone, Egli non ha né il bene né il non-bene e, non avendo nulla, e proprio perché non ha nulla, è il Bene. Plotino, Enneadi, V, 5, 12-13, ed. cit. Che cosa è dunque? L’Uno è la potenza di tutte le cose; se esso non fosse, nulla esisterebbe, né l’Intelligenza, né la Vita prima, né la Vita universale. Ciò che è al di sopra della vita è causa della vita; l’attività della vita, che è tutte le cose, non è la prima, ma scaturisce da esso come da una sorgente. Si immagini una sorgente che non ha alcun principio e che a tutti i fiumi si espande senza che i fiumi la esauriscano, e rimane sempre calma; i fiumi che escono da essa scorrono tutti assieme prima di dirigersi verso punti diversi, ma ciascuno sa già dove i flutti lo porteranno. Oppure <s’immagini> la vita di un albero grandissmo, la quale trascorre in esso, mentre il suo principio rimane immobile senza disperdersi per tutto l’albero, poiché risiede nelle radici. Plotino, Enneadi, III, 8, 10, ed. cit. Secondo Plotino, il principio di tutte le cose, l’Uno, è potenza immateriale infinita e dunque trascendente, cioè al di là di ogni cosa finita, compresa la mente dell’uomo. Di conseguenza niente e nessuno può conoscere l’Uno, nessun uomo, nemmeno il più intelligente dei filosofi, può giungere a comprendere chi o cosa è. In questo senso, Plotino afferma che l’Uno, in quanto infinito, è inconcepibile, cioè impensabile da parte della mente umana, e dunque è “ineffabile”, cioè indefinibile e inesprimibile. Addirittura, come già si è visto, non potremmo, a rigore, nemmeno nominarlo, neanche chiamarlo “Uno”, né in alcun altro modo, perché qualsiasi nome ha un significato determinato, dunque finito, e pertanto non può esprimere la sua infinitezza. In tal modo sembra, ed è Plotino stesso ad ammetterlo, che la filosofia plotiniana si infili in un vicolo cieco da cui è impossibile uscire, ovvero si trovi di fronte a un’aporia indistricabile. Infatti, se l’Uno non si può pensare né dire, sembrerebbe impossibile sviluppare una ricerca razionale sull’Uno. Ma così la filosofia di Plotino finirebbe ancor prima di cominciare. In realtà, Plotino esce abilmente dal vicolo cieco e il modo in cui lo fa 382 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE costituisce uno dei più originali e significativi contributi alla storia del pensiero. Egli, infatti, scopre quella che a buon diritto possiamo oggi chiamare la “logica dell’infinito”, una logica specifica e quindi diversa dalla logica tradizionale, che così non è più la logica ma diventa una logica, ovvero la “logica del finito”. In altri termini, per Plotino l’Uno, in quanto infinito, è “ineffabile” se cerchiamo di concepirlo e di esprimerlo con la logica normale, cioè la logica del finito; ma non lo è se invece ci sforziamo di pensarlo e manifestarlo in base a una logica speciale, la logica dell’infinito. In cosa consiste allora la scoperta di Plotino, ovvero la “logica dell’infinito”, il discorso razionale capace di parlare di ciò di cui non si può parlare (se ci si attiene alla logica del finito)? Plotino ne indica e ne utilizza quattro modalità: 1) la negazione; 2) il paradosso; 3) l’iperbole; 4) la metafora. La logica dell’infinito consiste innanzitutto nel definire l’Uno non positivamente, ma negativamente. Per esempio, dell’Uno non bisogna dire che è bene, piuttosto che alto, oppure che è verde, ecc. Al contrario, per comprenderlo bisogna dire che non è bene, che non è alto, che non è verde, e così via elencando tutte le cose e le proprietà. In altri termini, anziché affermare ciò che è, bisogna negare che sia qualsiasi cosa, ovvero che abbia qualsiasi proprietà. Perché? Perché qualsiasi cosa o qualsiasi proprietà che gli si attribuisca, ovvero qualsiasi sua connotazione o determinazione, sarebbe finita e quindi non solo inappropriata ma anche fuorviante in quanto ridurrebbe l’infinito a finito. Invece, negando che sia qualsiasi cosa o abbia qualsiasi proprietà, ovvero qualsiasi connotazione o determinazione, solo così è possibile esprimere l’Uno in modo appropriato, in quanto se ne evidenzia appunto l’indeterminatezza e quindi l’infinità. Questa modalità della plotiniana logica dell’infinito – che successivamente fu etichettata “teologia negativa” – raggiunge il suo vertice, cioè la massima capacità di pensare e dire l’Uno infinito, nell’enunciato negativo “l’Uno non è nulla” (usando la doppia negazione linguistica dell’italiano), ovvero “l’Uno è nulla” (usando la negazione unica della logica e del latino), equivalente a “l’Uno non è”. Infatti, la negazione di ogni cosa o proprietà è il nulla come negazione assoluta di tutto ciò che è finito. Dunque il nulla è il non finito, cioè appunto l’infinito. E, in tal senso, l’Uno, in quanto infinito, “non è”, dal momento che anche l’essere/esistere è una determinazione finita, e l’Uno è al di là, ovvero prima, a monte, dello stesso essere. In secondo luogo, la logica plotiniana dell’infinito utilizza i paradossi, ovvero asserzioni contraddittorie, in quanto consistenti in una doppia contemporanea negazione di due cose 383 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE o proprietà opposte. Per esempio, “l’Uno non è né bene né non-bene (ovvero male)”, enunciato che, naturalmente, si può variare utilizzando tutti gli opposti possibili: verofalso, bello-brutto, perfino unità e molteplicità. In tal senso, a rigore si deve dire anche che “l’Uno non è né unità né molteplicità”, ovvero “né uno né non-uno”. Se consideriamo, poi, che per Plotino l’Uno è il principio di ogni cosa, visto che ogni cosa è costituita dall’unità, risulta conseguente, benché Plotino non lo espliciti, che si può parlare dell’Uno anche con paradossi positivi, cioè attribuendogli contemporaneamente due cose o proprietà opposte, p.e. “l’Uno è sia uno sia non-uno (cioè molteplice)”; e, ancora meglio, con paradossi sia positivi sia negativi come “l’Uno non è né uno né molteplice ed è sia uno sia molteplice”. In questo modo Plotino scopre che il principio di non-contraddizione è valido per la conoscenza della realtà finita e che, invece, per conoscere l’infinito occorre basarsi sulla contraddizione. In altri termini, la logica dell’infinito è incardinata sul principio di contraddizione. Una terza modalità della logica dell’infinito è l’iperbole, cioè l’uso di termini o espressioni “eccessivi” quali Super-Bene, Super-Essere, Super-Vita, Perfettissimo, Purissimo, Supremo o “al di là di tutto”, “Padre degli dei”, “Padre dell’Intelligenza”, “Re dei re”. L’uso dell’iperbole è correlato a quello della contraddizione, in quanto ne esplicita il senso, ovvero rimanda a qualcosa che è oltre gli opposti perché è più di essi: p.e., l’Uno è sia essere sia non-essere e, insieme, non è né essere né non-essere perché non è un essere finito ma un essere infinito, appunto un Super-Essere, cioè un essere di livello superiore. Ma forse la locuzione più iperbolica, e insieme paradossale, con la quale Plotino indica l’Uno è: “il trascendente di se stesso”; ovvero l’Uno è talmente trascendente da trascendere anche la sua stessa trascendenza, il che sarebbe come dire che è talmente infinito da essere maggiore di se stesso, cioè ancora più infinito di quanto sia infinito. Infine, la logica dell’infinito si serve del linguaggio metaforico, cioè di figure retoriche quali la metafora in senso stretto o la similitudine. In tal caso, l’Uno viene identificato o paragonato con un ente fisico dotato di un forte valore simbolico, p.e. una fonte di luce, in particolare il Sole, un fuoco che emana calore, un profumo che si diffonde, una sorgente d’acqua, un albero. In tutti questi casi, gli enti fisici sono utilizzati da Plotino, per così dire, come “controfigure” dell’Uno, cioè come immagini parziali dell’Uno capaci di esemplificarlo e di avvicinarci alla comprensione di ciò che è veramente. In questa prospettiva le immagini possibili dell’Uno, pensiamo a quella del Sole, raggiungono il loro scopo di avvicinarci alla comprensione dell’Uno in un primo momento per la loro immensa potenza, p.e. la capacità di illuminare del Sole da secoli e per secoli, 384 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ma soprattutto in un secondo momento, cioè quando si evidenzia che esse, nonostante tutta la loro potenza, sono piccola cosa rispetto alla potenza infinita dell’Uno. Cosa hanno in comune queste quattro modalità di pensare e dire l’Uno? Ovvero, qual è la caratteristica peculiare della logica dell’infinito? La sua allusività, cioè essa non definisce in alcun modo l’Uno, ma rinvia all’Uno, non lo esibisce ma allude ad esso. Solo con l’allusione, secondo Plotino, è possibile avvicinarsi il più possibile alla comprensione dell’Uno. Per usare una metafora matematica, il pensiero dell’Uno può essere solo un “passaggio al limite”. Oppure, utilizzando una più immediata metafora corporea, è come arrivare sul ciglio di un burrone e sporgersi con il busto e la testa oltre di esso per averne un fuggevole colpo d’occhio. 385 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 2 L’Uno è infinito L’Uno è al di là di ogni cosa, anche della mente dell’uomo L’Uno è ineffabile, ovvero impensabile Ma allora Com’è possibile una filosofia dell’Uno? Bisogna rinunciare alla logica classica, basata sul principio di non contraddizione, perché è valida ma solo relativamente al finito Bisogna adottare una logica dell’infinito, una logica allusiva basata su: la negazione: dire ciò che l’Uno non è, cioè negarne ogni proprietà finita il paradosso: attribuire all’Uno proprietà opposte l’iperbole: indicare l’Uno con superlativi assoluti o con locuzioni esagerate l’analogia: paragonare l’Uno al Sole, alla sorgente di un fiume, a un fiore profumato 386 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI PLOTINO E GLI INSIEMI INFINITI DI CANTOR Già prima di Plotino il problema dell’infinito aveva dato filo da torcere non solo a filosofi come Aristotele ma anche a scienziati come Eudosso e Archimede. Ma sicuramente Plotino lo rilanciò in modo clamoroso e infatti dopo di lui non ci fu quasi filosofo che non si misurò con esso. A livello scientifico, in particolare in campo astronomico e matematico, la ricerca intorno all’infinito riprese, almeno in Europa, con la rivoluzione scientifica moderna e portò alla fine del Seicento alla messa a punto del calcolo infinitesimale da parte del fisico Newton e del filosofo Leibniz. Ma una svolta decisiva alla concezione matematica dell’infinito fu data due secoli dopo da Georg Cantor (1845-1918) con l’elaborazione della teoria degli insiemi infiniti. Cantor, innanzitutto, denominò “cardinalità” il numero degli elementi di un insieme e stabilì che due insiemi hanno la stessa cardinalità, cioè sono equivalenti, quando ogni elemento di un insieme può essere posto in corrispondenza biunivoca con un elemento di un altro insieme. Ciò stabilito, Cantor prese in considerazione l’insieme infinito dei numeri razionali (numeri interi più le frazioni ovvero i numeri decimali finiti o periodici) e dimostrò che un sottoinsieme dei numeri razionali, p.e. i numeri naturali (lo zero più gli interi positivi), ha la stessa cardinalità dell’insieme dei numeri razionali di cui fa parte. Per comprendere meglio il risultato della dimostrazione di Cantor possiamo assumere un esempio più semplice, quello dell’insieme dei numeri naturali e quello dell’insieme dei numeri naturali pari, che naturalmente è un sottoinsieme del primo. In questo caso la dimostrazione di Cantor attesta che l’insieme di tutti i numeri naturali (pari e dispari) è equivalente all’insieme dei numeri naturali pari. Ciò significa che in un insieme infinito di questo tipo un sottoinsieme ha la stessa cardinalità (cioè lo stesso numero di elementi) dell’insieme di cui è parte. Detto più semplicemente, e più stupefacentemente: benché i numeri naturali (pari e dispari) siano il doppio dei numeri naturali pari essi sono lo stesso numero di quelli pari. In parole povere, il doppio è uguale alla sua metà. Uno degli assiomi della geometria di Euclide sanciva che “il tutto è sempre maggiore di una delle sue parti”. La dimostrazione di Cantor attestava invece che, per l’insieme infinito dei numeri razionali, il tutto è uguale a una delle sue parti. Insomma, un paradosso. Cantor aveva certificato matematicamente ciò che Plotino aveva argomentato filosoficamente: la logica classica, incardinata sul principio di noncontraddizione, non è tutta la logica, ma è una logica del finito, cioè valida limitatamente alle grandezze finite; per le grandezze infinite entra in campo un’altra logica, una logica paradossale, basata cioè sulla contraddizione. Per diradare ogni residuo dubbio a questo proposito, Cantor fece una scoperta ancora più stupefacente e paradossale della precedente. Dopo aver considerato l’insieme infinito dei numeri razionali, rivolse la sua attenzione a un altro, diverso insieme infinito, quello dei numeri reali (i numeri razionali più i numeri irrazionali, cioè i decimali infiniti non 387 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE periodici). In base a quanto dimostrato per l’insieme dei numeri razionali, l’insieme dei numeri reali e quello dei numeri razionali avrebbero dovuto esibire la stessa cardinalità, dato che il secondo è un sottoinsieme del primo. E, invece, Cantor scoprì che i numeri reali non potevano essere posti in corrispondenza biunivoca con quelli razionali, ovvero che i primi erano più numerosi dei secondi. Dunque, esistono infiniti più grandi di altri infiniti, ovvero infiniti di diverso tipo, di diversa potenza. Proseguendo nella sua ricerca Cantor scoprì un terzo tipo di infinito, maggiore dell’infinito dei numeri reali, l’infinito di tutte le funzioni continue e discontinue della retta reale, ovvero l’infinito “esponenziale”, dato da due elevato all’infinito del primo tipo, quello dei numeri razionali. Concludendo: per Cantor alcuni infiniti sono equivalenti alla loro metà e, al contempo, vi sono infiniti maggiori di altri infiniti. Plotino non avrebbe potuto chiedere di meglio come attestato della fondatezza della sua logica paradossale dell’infinito. Inoltre, la distinzione di Cantor tra diversi tipi di infinito fornisce una chiave di lettura e comprensione matematica delle distinzione plotiniana tra l’infinitezza dell’Uno, l’infinitezza della Mente e l’infinitezza dell’Anima: la prima si può far corrispondere all’infinito di terzo tipo, o infinito esponenziale; la seconda all’infinito di secondo tipo, o infinito dei numeri reali; la terza all’infinito di primo tipo, quello “minore”, cioè l’infinito dei numeri razionali. Per saperne di più basta leggere Il mistero dell’alef di Amir. D. Aczel, Net-Saggiatore, 2002. 388 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 PLOTINO: L’UNO SI AUTOCREA Poiché dunque non c’è nulla prima di Lui ed Egli è il Primo, dobbiamo fermarci qui e non dire più nulla di Lui, ma cercare invece come siano sorte le cose dopo di Lui; né dobbiamo cercare come Egli sia nato, perché Egli in realtà non è mai nato. Ma come? Se non è mai nato, ma è come è, non è padrone della sua essenza? E se non è padrone della sua essenza, ma è quello che è e non s’è dato da se stesso l’esistenza ma si è accettato così com’è, Egli è necessariamente quello che è, e non diverso. No, Egli non è così com’è perché non possa essere diverso, ma è così perché è perfetto. Plotino, Enneadi, VI, 8, 10, ed. cit. E nemmeno è giusto dire che “Egli esiste per caso”, poiché il caso esiste soltanto nelle cose molteplici e secondarie; ma del Primo non possiamo dire né che esista per caso, né che non sia padrone del suo nascere, poiché Egli non è mai nato. Ed è assurdo dire che Egli non è libero perché crea conforme alla sua natura: è come sostenere che la libertà ci sia soltanto quando Dio crei o agisca contro natura. […] Ma poiché quella che noi chiamiamo “esistenza” è identica alla sua “azione” – esse qui non sono diverse, se nemmeno lo erano nell’Intelligenza – allora affermare che “Egli agisce conforme al suo essere” non è per nulla meglio che affermare che “Egli è conforme al suo agire”. Il Bene, dunque, non possiede un’attività conforme alla sua natura; la sua attività, cioè la sua vita, non può venire predicata dalla sua cosiddetta essenza; ma la sua cosiddetta essenza è unita e come nata insieme con la sua attività sin dall’eternità; Egli crea se stesso dal suo essere e dal suo atto e appartiene a se stesso e a nessuno. Plotino, Enneadi, VI, 8, 7, ed. cit. Se dunque gli attribuiamo degli atti e se i suoi atti si compiono, diciamo così, per mezzo della sua volontà (che Egli non può agire senza volere), e se questi atti costituiscono la sua cosiddetta essenza, la sua volontà e la sua essenza saranno identiche. Ma allora, se è così, Egli è come vuole. […] Egli dunque è padrone di sé poiché il suo essere dipende dalla sua libertà. […]. Non si può pensare un bene che sia privo della volontà di essere, per se stesso, ciò che è: Egli è perciò concorde con se stesso, in quanto vuole essere quello che è ed è quello che vuole, e la sua volontà e il suo essere sono una cosa sola, e tuttavia Egli non è meno unità, poiché non c’è differenza fra ciò che Egli si trova ad essere e ciò che voleva essere. 389 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Che cosa infatti avrebbe voluto essere se non ciò che è? Supponiamo che Egli scelga di diventare ciò che vuole e che gli sia concesso di mutare la sua natura in qualcosa di diverso; mai Egli vorrebbe diventare qualcosa di diverso, né mai potrebbe biasimare se stesso come se soltanto per necessità Egli fosse ciò che è, cioè quello stesso Essere che Egli stesso sempre volle e vuole essere. La natura del Bene è realmente la sua volontà: Egli non è sedotto né attratto dalla sua propria natura, ma sceglie liberamente se stesso, poiché non c’è nient’altro da cui Egli possa essere attratto. […] Perciò il nostro ragionamento ha scoperto che Egli ha creato se stesso: se dunque la volontà deriva da Lui ed è, per così dire, opera sua, ed è inoltre identica alla sua esistenza, vuol dire che Egli stesso si è dato l’esistenza: non è dunque per caso ciò che è, ma è quello che Egli stesso ha voluto. Plotino, Enneadi, VI, 8, 13, ed. cit. Stabilito in che modo sia possibile svolgere la ricerca filosofica intorno all’Uno, Plotino dà avvio alla sua indagine ponendosi una domanda inedita, una delle più radicali domande filosofiche, se non la più radicale in assoluto: perché esiste l’Uno? Chi o cosa l’ha fatto esistere? Qual è la causa o chi è l’artefice della sua esistenza? In altre parole, a differenza di tutti i filosofi precedenti, Plotino non si chiede solo quale sia il principio di tutte le cose ma anche quale sia il principio dello stesso principio, una questione di per sé al limite del pensabile, ma che risulta ancora più tale considerando che apparentemente è una sola ma in realtà implicitamente è triplice. Chiedersi, infatti, quale sia il principio del principio per Plotino significa chiedersi: 1) perché esiste il principio, ovvero qual è la causa o la ragione della sua esistenza; 2) perché esiste la realtà piuttosto che il nulla, dal momento che dall’esistenza del principio deriva quella di ogni altra cosa; 3) perché il principio è così e non altrimenti, cioè è Uno, Infinito, Super-Bene, Trascendente, ecc.; ovvero ha quell’identità piuttosto che un’altra. Per risolvere questa formidabile questione una e trina, Plotino, seguendo la sua logica dell’infinito, comincia con il confutare tutte le modalità possibili con le quali normalmente pensiamo che qualcosa accada e quindi spieghiamo l’esistenza di qualcosa: a) la mera possibilità del caso; b) la necessità della causalità meccanica o finalistica; 390 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE c) la contingenza del libero arbitrio, intesa come possibilità di scegliere indifferentemente un’opzione piuttosto che un’altra, p.e. di essere verde anziché rosso. Tutte queste modalità, afferma Plotino, presuppongono il divenire, cioè il mutamento e la molteplicità. Ma il principio è al di là, ovvero a monte, del divenire e dunque è immobile e unico. Pertanto non può essere stato prodotto né dal caso, né da una necessità, né dal libero arbitrio. Ma allora da cosa e come è stato prodotto? Plotino comincia a dipanare l’intricata questione, ricordando e ribadendo che l’Uno, in quanto principio, è potenza produttiva infinita, ovvero attività infinita. Ciò non significa che si muova o muti, perché l’Uno è immateriale e indifferenziato, e dunque è azione puramente razionale, pensiero puro. In prima approssimazione, dunque, Plotino afferma che in quanto l’Uno è attività produttiva infinita la sua esistenza è implicita nella sua essenza di potenza generatrice infinita. In parole più semplici: poiché l’identità del principio, la sua connotazione più propria, è essere attività generatrice senza limiti, il principio non può che autogenerarsi. Insomma, il principio dell’Uno è l’Uno stesso in quanto, per essenza, è capace di autoprodursi. Detto ancora in un altro modo: l’Uno è causa di se stesso, fondamento della sua esistenza, o, in una parola sola, “autoesistenza”. Ciò implica che l’esistenza dell’Uno sia correlata alla sua attività, ovvero che l’essere dell’Uno sia una cosa sola con il suo agire. Dunque, l’Uno non esiste e quindi agisce, ma esiste in quanto agisce e agisce in quanto esiste. In questo modo Plotino argomenta l’esistenza del principio e quindi spiega perché esiste la realtà anziché il nulla. Ma la sua argomentazione non è ancora completa, è ancora insufficiente. Infatti, l’argomento con cui Plotino ha motivato l’esistenza dell’Uno è quello della sua essenza attiva, ma allora si impone un’altra domanda: perché l’Uno ha questa essenza, perché è così e non altrimenti? Plotino comincia col precisare che, a rigore, l’Uno, in quanto potenza infinita, è al di là della stessa essenza, ovvero non può avere una natura prestabilita, cioè necessaria, cui debba cogentemente essere conforme. Dunque non è così com’è perché è costretto a adeguarsi alla sua essenza. Lo è, invece, per volontà, perché si vuole così. Questo passaggio è cruciale e rivoluzionario: l’Uno non è necessità ma volontà, ovvero libertà. D’altra parte ciò non significa che l’Uno scelga in modo arbitrario una delle tante – anzi, infinite! – identità a sua disposizione, ossia che avrebbe potuto anche sceglierne una qualsiasi delle altre. Pur avendo a disposizione infinite possibilità, la sua libertà consiste nello scegliere una sola identità, la sua, ma non perché necessitato ma perché non può volere che quella. Perché? Perché la sua identità – Uno come potenza infinita – è la massima e la migliore e 391 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE non avrebbe potuto volere un’identità minore e peggiore quando poteva sceglierne una maggiore e migliore. In questo senso, l’Uno non poteva che volere liberamente la sua propria e unica identità, quella appunto di potenza infinita. L’Uno è libero effettivamente perché e in quanto sceglie il meglio e solo quello. Per far capire a fondo l’intero ragionamento, Plotino lo risvolge utilizzando la determinazione del Bene. Il principio, l’Uno, infatti, è anche e soprattutto Bene, Bene con la maiuscola per indicare che è un Super-Bene, cioè un bene infinito, trascendente qualsiasi bene finito, ovvero qualunque sua definizione da parte della mente umana. Ora, in quanto è Bene, l’Uno vuole esistere, dal momento che sarebbe assurdo, irrazionale, che ciò che è infinitamente bene non voglia esistere. D’altra parte in quanto esiste, l’Uno non può che volersi così com’è, cioè non può che voler essere Bene, perché sarebbe altrettanto assurdo e irrazionale che possa volersi anche solo un po’ meno bene. Utilizzando la logica classica, l’argomentazione di Plotino non sfugge alla contestazione della fallacia di petitio principii: la volontà di essere Bene, cioè l’essenza dell’Uno, e la sua volontà di essere, cioè l’esistenza stessa dell’Uno, rimandano l’una all’altra, si fondano l’una sull’altra. L’esistenza dell’Uno presuppone il suo essere Bene, ma a sua volta l’essere Bene dell’Uno presuppone la sua esistenza. Sia il Bene sia la volontà d’esistenza sono argomento del loro argomento. Per capirlo in modo più intuitivo si può ricorrere alla famosa immagine del barone di Münchhausen che riesce a uscire dalle sabbie mobili in cui era caduto afferrando con una mano i suoi lunghi capelli e sollevandosi così verso l’alto. Ma, come si è visto, la logica classica è una logica del finito, mentre per parlare dell’Uno dobbiamo ricorrere alla logica dell’infinito. Da questo punto di vista, secondo Plotino, il circolo logico tra volontà di Bene (o di Attività produttiva) e volontà di esistere non è filosoficamente vizioso ma virtuoso, ovvero non ci allontana dalla Verità ma ci avvicina ad essa. Nell’Uno, infatti, e solo nell’Uno, non vi può essere alcuna differenziazione e pertanto solo una relazione logica di circolarità tra differenti determinazioni può approssimarci alla comprensione di ciò che l’Uno è. 392 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 3 Perché esiste il principio, ovvero perché esiste qualcosa anziché nulla? Né per caso, né per necessità, né per libero arbitrio L’Uno esiste perché, essendo produttività infinita, si autoproduce volontariamente Infatti L’Uno è Bene e dunque vuole esistere perché ciò che è Bene è assurdo non voglia esistere Ma al tempo stesso In quanto esiste, l’Uno vuole essere Bene perché sarebbe assurdo che volesse essere meno o peggiore di com’è L’Uno è Libertà La libertà dell’Uno non consiste nello scegliere una cosa piuttosto che un’altra, ma nello scegliere razionalmente la cosa migliore 393 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI PLOTINO E L’ORIGINE DEL BIG BANG Il 29 maggio 1998 sulla rivista online Physical Review fu pubblicato un articolo del fisico statunitense J. Richard Gott e del fisico cinese Li-Xin Li, entrambi dell’università di Princeton, nel quale veniva presentata una nuova teoria dell’origine dell’universo che presenta sbalorditive analogie con la teoria dell’autocreazione dell’Uno di Plotino, in quanto sono entrambe incardinate sul concetto di “causa sui”. Gott e Li partivano naturalmente dalla teoria della relatività generale di Einstein, secondo la quale spazio e tempo sono una cosa sola – lo spaziotempo o cronòtopo – e inoltre sono incurvati dalla massa in modo tale che un’alta concentrazione di massa può produrre un ripiegamento dello spaziotempo su se stesso. In linea di principio, sostenevano Gott e Li, la curvatura dello spaziotempo rende possibili i viaggi nel tempo. Infatti viaggiando alla velocità della luce, secondo la teoria della relatività generale, il tempo cessa di scorrere e quindi oltrepassando la velocità della luce il tempo scorrerebbe all’indietro. Ma la teoria della relatività stabilisce anche che la velocità della luce è insuperabile all’interno dell’universo e dunque che non è possibile viaggiare a ritroso nel tempo. Secondo Gott e Li, però, forti incurvature dello spaziotempo producono dei “cunicoli di tarlo” (wormholes) che congiungono regioni molto lontane dello spaziotempo e costituirebbero perciò delle specie di scorciatoie che permettono di tornare indietro nel tempo. Il clou, cioè il nucleo più interessante, dell’articolo di Gott e Li consisteva nell’applicazione di questa teoria del viaggio nel tempo alla spiegazione dell’origine dell’universo. Precedentemente l’ipotesi teorica più accreditata sulla genesi dell’universo era quella della “singolarità”, secondo cui in origine esisteva solo un grumo puntiforme di energia di densità e massa quasi infinite e quindi lo spaziotempo era quasi del tutto arrotolato su se stesso. Questa singolarità avrebbe dato luogo a un big bang, a una grande esplosione, ovvero a una continua espansione sia dello spaziotempo sia dell’energia, la quale poi avrebbe prodotto la materia. Ma come si era formata la singolarità? Ovvero, cosa l’aveva prodotta? Gott e Li nel loro articolo fornivano una soluzione a questo problema. Essi si avvalsero innanzitutto della nuova teoria degli “universi a bolla” basata sull’effetto tunnel descritto dalla teoria quantistica e sperimentalmente testato. Per dirla in parole semplici, grazie alla fluttuazione quantistica dell’energia, si possono formare ed espandere dal “nulla” “bolle” di spaziotempo che danno luogo a molteplici universi. Secondo Gott e Li ogni “bolla” spaziotemporale appena formatasi si ripiega su se stessa fino ad assumere la forma di un anello, per poi continuare a espandersi linearmente. In tal modo può tornare indietro nel tempo fino all’istante in cui aveva avuto inizio e innescare il processo stesso che aveva dato origine alla sua formazione, cioè la fluttuazione quantistica che produce la bolla. In termini metaforici, grazie al viaggio nel tempo, l’universo è insieme madre e figlio di se stesso. Fuor di metafora, l’universo, per Gott e Li, è causa sui, causa di se stesso. Questo significa che l’effetto è causa della sua causa, ovvero che la causa è effetto 394 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE del suo effetto. Dunque tra universo-madre e universo-figlio c’è lo stesso rapporto circolare che Plotino aveva posto all’origine dell’Uno, salvo che per lui l’universo-madre era il Bene e l’universo-figlio la Volontà di esistere. Chi ha voglia di approfondire legga Viaggiare nel tempo di J.R. Gott, Mondadori, 2002. 395 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 PLOTINO: L’UNO CREA IL COSMO FINITO Come dunque e cosa vede l’Intelligenza? E come esiste e come nacque da Lui, così da poterlo vedere? Ora, certamente, l’Anima è conscia della necessità che le realtà intellegibili siano così, ma desidera approfondire questo problema, già discusso dagli antichi pensatori: cioè come dall’Uno quale noi l’abbiamo concepito, sia venuta all’esistenza ogni altra cosa, molteplicità, Diade, o numero; oppure, come Egli non sia rimasto in se stesso, e abbia invece generato una siffatta molteplicità quale si constata fra gli esseri, e che noi postuliamo dover risalire a Lui. Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit. Ma come il Tutto può derivare dal semplice Uno, dal momento che in questo non si può manifestare nessuna varietà e molteplicità? Ora, proprio perché è in Lui, tutto può derivare da Lui; affinché l’Essere sia, Egli per questo non è essere, ma soltanto il genitore dell’essere, e questa che chiamerò genitura è prima. Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit. Ma come le [le proprietà delle cose a partire dall’esistenza] dona? O perché le ha, o perché non le ha. Ma come può dare ciò che non ha? Se le ha, Egli non è semplice; se non le ha, come può derivare da Lui la molteplicità? Che un’unità possa effondere da sé un semplice, si può anche concedere, quantunque potremmo anche chiederci come mai il semplice possa derivare da ciò che è assolutamente uno; qui tuttavia potremmo anche dire che esso ne derivi come l’irraggiamento della luce. Ma della molteplicità che diremo? Certamente, ciò che procede da Lui non deve essere identico a Lui; ma se non può essere identico, tanto meno può essere migliore. Infatti che cosa potrebbe essere migliore dell’Uno, o addirittura al di là dell’Uno? Sarà dunque inferiore, cioè più manchevole. Ma che cos’è più manchevole dell’Uno? Il non-uno, vale a dire il molteplice: il quale, tuttavia, aspira all’Uno: e cioè l’uno-molti. Difatti, ogni non-uno è conservato dall’Uno ed è quello che è per opera dell’Uno; effettivamente, se esso, pur essendo fatto di molti elementi, non diventa unità, non si può dire che “è”; e se anche si sappia dire ciò che è ciascuno di essi, questo avviene perché ciascuno di essi è uno e identico. Plotino, Enneadi, V, 3, 15, ed. cit. 396 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In che maniera, dunque, e che cosa dobbiamo pensare del Primo, se Egli resta immobile? Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile, com’è nel sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile. Tutti gli esseri, finché sussistono, producono necessariamente dal fondo della loro essenza, intorno a sé e fuori di sé, una certa esistenza, congiunta alla loro attuale virtù, che è come un’immagine degli archetipi dai quali è nata: il fuoco effonde da sé il suo calore, e la neve non conserva il freddo soltanto dentro di sé; un’ottima prova di ciò che stiamo dicendo la danno le sostanze odorose, dalle quali, finché sono efficienti, deriva qualcosa tutt’intorno, di cui gode chi gli sta vicino. Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit. Dopo aver affrontato e risolto la triplice questione relativa al principio dell’Uno, Plotino si misura con un altro, conseguente problema: perché e in che modo il principio, cioè l’Uno, genera tutte le cose? Si tratta di un problema tradizionale che però nella filosofia di Plotino assume uno spessore di gran lunga maggiore e dunque risulta molto più arduo da risolvere. Infatti, nessun filosofo, prima di Plotino, aveva marcato come lui la differenza ontologica del principio rispetto a tutte le cose. In modo più esplicito: dal momento che l’Uno è assolutamente omogeneo, semplice, immateriale, immutabile, infinito, come può produrre cose molteplici e differenziate, materiali, mutevoli, finite, cioè del tutto opposte a esso? Com’è possibile che il “trascendente di se stesso” generi l’immanente? Anche per risolvere questo problema, Plotino, innanzitutto, fa leva ancora una volta sulla natura dell’Uno, cioè sul suo essere infinita attività produttiva. In quanto infinita la sua produttività è sovrabbondante, per così dire straripa da se stessa e va oltre se stessa. Per caratterizzare questa sorta di esondazione dell’Uno, Plotino usa prevalentemente tre termini: a) “prosecuzione” (proodòs, letteralmente “andare avanti”, ma anche nelle accezioni di “uscire” e “mostrarsi in pubblico”), b) “irradiazione” (perìlampsis), c) “defluire” (aporrèin). La pluralità e la valenza analogica di questi termini attestano che essi vanno compresi e usati – come del resto tutte le parole che si riferiscono all’Uno, a cominciare da “Uno” medesimo – come allusioni e non come definizioni. Ciò chiarito, in prima approssimazione si può dire che per Plotino il mondo, le cose, sono la “prosecuzione” dell’Uno, il suo 397 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE oltrepassamento, ossia lo strabordare da se stesso e proseguire oltre se stesso, oltre ciò che è originariamente e propriamente. Però, pur fuoriuscendo da se stessa, l’infinita energia generatrice dell’Uno rimane intatta e immota in se stessa. La stessa infinitezza, infatti, che fa sì che l’energia generatrice tracimi dall’Uno, comporta anche che essa permanga invariata nell’Uno, ovvero che l’Uno resti sempre indefettibilmente uguale a sé. La prosecuzione dell’Uno, in quanto effetto della sua infinita sovrabbondanza, in prima battuta appare una sua conseguenza necessaria, un evento non intenzionale. In tal caso, l’Uno si sarebbe voluto, ma non avrebbe voluto il mondo, la realtà. Ma le cose non stanno così per Plotino. Infatti, come si è visto, l’Uno si vuole infinita potenza produttiva, ovvero si vuole sovrabbondante. Poiché la sua prosecuzione è implicita nella sua sovrabbondanza, l’Uno volendosi infinito ipso facto si vuole oltrepassante. Dunque, proprio volendosi infinita potenza produttiva, l’Uno si vuole anche prosecuzione di se stesso e, pertanto, vuole produrre la realtà finita. Ma come va intesa la prosecuzione dell’Uno, ovvero la sua irradiazione, o anche il suo defluire, ovvero la sua effusione? Più precisamente: perché la prosecuzione equivale alla generazione della realtà finita? Si potrebbe rispondere che la prosecuzione è un accrescimento, ovvero, data la natura qualitativa dell’infinita attività produttiva dell’Uno, un miglioramento. Ma, dal momento che l’Uno è l’infinito, cioè il massimo, non può accrescersi né migliorarsi. Dunque l’unico modo per oltrepassarsi è sminuirsi/peggiorarsi: il mondo, la prosecuzione dell’Uno, è un suo depotenziamento e peggioramento. Paradossalmente – ma come sappiamo il paradosso si addice all’infinito – l’Uno si espande ridimensionandosi, si accresce sminuendosi. Ma se l’Uno è infinito la sua sminuizione è appunto il finito. Ecco dunque che la prosecuzione spiega come l’infinito possa generare il suo opposto, il finito. Per rendere più intuitiva, ma anche più suggestiva, la sua concezione dell’irradiazione dell’Uno che genera il mondo, Plotino ricorre anche a varie analogie: quella del fuoco che espande il suo calore, quella della sorgente da cui si diramano molti fiumi, quella della radice che dà nutrimento e vita all’albero, quella del Sole che irradia la sua luce. Quest’ultima è l’analogia più emblematica e la più rivelativa, nonché quella più legata alla tradizione filosofica, in particolare a Platone e al suo mito della caverna. Il Sole è la massima fonte d’energia vitale del mondo fisico e in questo senso è la migliore immagine dell’Uno. Ma naturalmente l’energia vitale dell’Uno è infinitamente superiore a quella pur enorme che possiamo attribuire al Sole. L’irradiazione del Sole è come la prosecuzione dell’Uno, salvo che l’irradiazione solare consuma l’energia presente nel Sole e si estende in una misura comunque finita, mentre quella dell’Uno non ne riduce minimamente la potenza e si espande infinitamente. 398 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma l’analogia col Sole permette a Plotino non solo di esemplificare ma anche di approfondire la sua teoria della prosecuzione. Infatti, l’irradiazione luminosa del Sole, che rappresenta la generazione della realtà, diminuisce d’intensità in proporzione al suo allontanamento dal centro solare. Dunque essa avrà diversi e continuativamente decrescenti gradi di intensità. In tal modo l’irradiazione rappresenta analogicamente anche il passaggio dall’unicità dell’Uno alla molteplicità della realtà, nonché la struttura gerarchica della realtà: tutte le cose si differenziano per la loro appartenenza a successivi e decrescenti livelli di intensità della prosecuzione dell’Uno. Inoltre, e infine, l’analogia con l’irradiazione solare, chiarisce anche che il mondo fisico è costituito dalla stessa sostanza di cui è fatto l’Uno, benché fortemente indebolita, cioè finitizzata. Ciò sta a significare che l’Uno è il principio unico di tutta la realtà. A questo punto possiamo arrivare a una conclusione di grande rilevanza: la produzione della realtà da parte dell’Uno è qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto avevano teorizzato tutti i filosofi precedenti. Plotino, infatti: a) in primo luogo esclude che esista un principio materiale indipendente da quello ideale; b) in secondo luogo, sostiene che la produzione della realtà è un atto voluto dell’unico principio ideale. In questo modo Plotino fa una nuova scoperta filosofica: il concetto di “creazione”, cioè appunto il concetto di una produzione intenzionale del mondo fisico ad opera di un (meta)essere puramente razionale senza ricorso ad alcun altro principio coesistente con esso. In questo senso, in riferimento alle precedenti teorie filosofiche della derivazione del mondo dal principio, si devono usare i termini di “produzione” o di “generazione”, mentre l’uso dei termini “creazione”/”creare” va riservato alla filosofia di Plotino e dei filosofi a lui successivi. 399 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 4 L’Uno è infinita produttività L’energia infinita, che l’Uno è, prosegue, s’irradia, defluisce oltre l’Uno Essendo il massimo, l’Uno si oltrepassa sminuendosi/peggiorandosi L’Uno produce il finito, ossia la molteplicità, rimanendo infinito Come Una sorgente d’acqua che dà vita a molti fiumi Il Sole che irradia la sua luce intorno a sé Un fiore che spande il suo profumo Nuovo concetto di creazione La produzione del mondo finito è volontaria e non si basa su un principio materiale indipendente 400 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 PLOTINO: L’AUTOCOSCIENZA DELL’UNO E’ LA MENTE Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa. Ma l’Essere così generato si volge a Lui e tosto ne è riempito e, una volta nato, guarda a se stesso, e questa è l’Intelligenza [o Mente]. Il suo orientarsi verso l’Uno genera l’Essere; lo sguardo rivolto a se stesso genera l’Intelligenza. Ma poiché l’Intelligenza per contemplarsi deve persistere in se stessa, diviene insieme Intelligenza ed Essere. E così l’Essere, essendo simile a Lui, genera ciò che gli è affine, riversando fuori la sua grande potenza; ma anche questa è un’immagine di colui che, prima di lui, manifestò la sua potenza. Questa forza che procede dall’Essere è l’Anima, ma questa diviene, mentre l’Intelligenza è immobile, poiché anche l’Intelligenza nacque mentre Colui che è prima di lei persiste nella sua immortalità. Plotino, Enneadi, V, 2, 11, ed. cit. E’ dunque necessario che il pensiero, quando pensa, si trovi in una dualità; e allora, o uno dei due termini è fuori, oppure i due termini sono identici. Il pensiero implica sempre un’alterità e, necessariamente, anche un’identità; e gli oggetti pensati, in senso stretto, sono, rispetto all’Intelligenza, identici e insieme diversi. Plotino, Enneadi, V, 3, 10, ed. cit. Da Lui l’Intelligenza trae la potenza di generare e di restare incinto della sua stessa prole, poiché il Bene offre ciò che Egli stesso non possiede. Dall’Uno deriva, per Intelligenza, la molteplicità: incapace di contenere la potenza che porta in sé, l’Intelligenza la frantuma e riduce l’unità a molteplicità per poterla sostenere a parte a parte. Plotino, Enneadi, VI, 7, 15, ed. cit. L’Uno crea la realtà oltrepassandosi, ovvero irradiandosi. Ma, secondo Plotino, l’Uno non crea immediatamente la realtà fisica, il cosmo naturale, ma un’altra realtà preliminare a quella: la realtà razionale, ovvero il mondo ideale. Innanzitutto, infatti, l’Uno crea due copie dirette – per così dire, due alter ego – di se stesso: la Mente (Noùs) e l’Anima (Psychè). Esse, come l’Uno, sono realtà immateriali, eterne e infinite; ma, a differenza dell’Uno, non si autocreano, in quanto sono create appunto dall’Uno, e, come sue 401 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE irradiazioni successive, ne costituiscono un indebolimento, seppure infinitesimale, e dunque sono sì infinite, ma la loro infinitezza è inferiore a quella dell’Uno. Così configurate, Mente e Anima costituiscono due strutture razionali, ovvero due tipologie di ordinamento, due sistemi di organizzazione isomorfi e contigui, entrambi indispensabili all’esistenza, e quindi alla creazione, del mondo fisico. La mente, in prima approssimazione, si può definire come l’Uno che pensa se stesso, ovvero come il pensiero o l’autocoscienza dell’Uno. Il pensiero, infatti, o meglio il pensare, implica necessariamente la distinzione tra: a) il suo oggetto, cioè il “pensato”, ciò che viene pensato, il contenuto della conoscenza; b) il suo soggetto, il “pensante”, colui che pensa l’oggetto, ovvero lo conosce. P.e., proviamo a immaginare una mela, l’ultima che abbiamo visto e magari mangiato. Nella nostra mente, per così dire, c’è l’immagine della mela ma c’è anche la nostra coscienza che la guarda. Con una similitudine più tecnologica, possiamo paragonare il pensiero a un film, in quanto questo è la sintesi di una serie di oggetti (le persone umane, gli animali, le cose che abbiamo filmato) e di una cinepresa che li ha filmati: gli oggetti corrispondono ai pensati, la cinepresa al pensante. Ora, il fatto che il pensare presupponga l’articolazione in pensato e pensante equivale a dire che il pensare è costitutivamente dualistico, implica una differenziazione. Certo, il pensare è la correlazione di pensato e pensante, ma non ci può essere correlazione senza preventiva distinzione. Di conseguenza, afferma Plotino, l’Uno non può pensare, è al di là anche del pensiero, perché è unità assoluta, del tutto indifferenziata. Ma l’Uno è potenza di pensiero e dunque crea il pensiero, ovvero la Mente, e quindi pensa attraverso ciò che è altro da lui, in quanto sua prosecuzione, ma che è anche lui perché proviene da lui. Il fatto che l’Uno, al tempo stesso, non sia e sia la Mente risulta più chiaro considerando che la Mente, secondo Plotino, si costituisce in un duplice e convergente modo: da un lato, si rivolge all’Uno, lo riflette in sé e se ne riempie; dall’altro si rivolge a se stessa e così riflette l’Uno riflesso in sé. Per comprendere meglio queste due facce della Mente, possiamo paragonare la Mente a un duplice specchio: il primo specchio è quello che rispecchia l’Uno; il secondo è quello che rispecchia il primo specchio, cioè che rispecchia l’immagine dell’Uno già riflessa nel primo specchio. Il primo specchio è quello “oggettivo”, cioè corrisponde al pensiero pensato, ovvero all’Essere in quanto realtà puramente razionale; il secondo è quello “soggettivo”, ovvero il corrispettivo del pensiero pensante, ovvero della coscienza razionale. Poiché il primo specchio si rispecchia nel secondo, la Mente è duplice, ma questa duplicità è 402 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ricondotta ad unità, cioè è unificazione di distinti, in quanto i due rispecchiamenti che costituiscono la Mente rispecchiano la stessa cosa, cioè l’Uno. Se consideriamo che due specchi che si rispecchiano l’un l’altro moltiplicano infinitamente l’immagine che riflettono, possiamo facilitarci la comprensione dell’infinitezza della Mente. La Mente, infatti, non è solo e tanto unità di una dualità. E’, afferma Plotino, unità di una molteplicità infinita, di cui la dualità pensato/pensante è solo il grado minimo iniziale, il punto di partenza. Ciò significa che l’Essere che costituisce l’oggetto della Mente è infinitamente molteplice, cioè differenziato e articolato in infinite parti o determinazioni. Come e perché dalla dualità della Mente scaturisce una molteplicità infinita? Plotino lo spiega con la relativa debolezza della Mente rispetto all’Uno. Poiché è un infinito di livello inferiore a quello dell’Uno, la Mente non è in grado di sostenere la visione dell’Uno nella sfolgorante potenza della sua interezza uniforme. Dunque la Mente può avere solo una visione attenuata dell’Uno, cioè appunto quella dell’Uno diviso in parti. Ma, poiché la Mente è la contemplazione medesima dell’Uno, cioè consiste tutta e solamente nel pensare l’Uno, essa stessa risulta divisa in parti. Ma cosa sono queste parti? Plotino risponde che sono le idee, cioè le forme razionali, unitarie, immutabili e perfette, di tutti gli esseri fisici, e quindi anche di tutti i loro principi e proprietà matematici, logici, etici, estetici. In altre parole, la Mente corrisponde al mondo delle idee di Platone, ma con una decisiva differenza. Le idee non sono più oggetti razionali indipendenti, ma sono i contenuti razionali di una coscienza pensante, che, come tale, ne costituisce il principio di unificazione, in quanto, pensandole, le correla tutte riconducendole alla propria unità. Il mondo delle idee di Platone in Plotino si trasforma in un pensiero che fluisce incessantemente trascorrendo da un’idea all’altra e che tutte in tal modo le connette dinamicamente. In tal senso si può paragonare la Mente a un circuito elettrico costituito da una serie di elementi o componenti (sorgente, resistenza, condensatori, trasformatori, ecc.) tra loro collegati in modo tale da consentire il continuo passaggio tra essi della corrente elettrica: gli elementi e i collegamenti del circuito corrispondono alle idee e alla loro correlazione unitaria, cioè al pensiero pensato, e la corrente che scorre nel circuito al pensiero pensante. Ancor meglio, si può comparare la Mente alla rete neuro-cerebrale: i neuroni rappresentano le idee, le sinapsi i loro collegamenti, il pensiero umano il pensiero della Mente. Salvo che la Mente è del tutto immateriale, il cervello umano invece fisico; le idee e le loro relazioni sono infinite, neuroni e sinapsi in numero enorme (circa 100 miliardi solo i neuroni) ma pur sempre finito; il pensiero della Mente fluisce sempre in tutte le idee, il pensiero umano solo in un certo numero di neuroni in uno stesso istante. 403 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 5 UNO Pensiero pensato: rispecchiamento dell’Uno Pensiero pensante: rispecchiamento del rispecchiamento dell’Uno Essere, ovvero il mondo delle idee Coscienza razionale che conosce unitariamente le idee MENTE 404 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI LA MENTE E LA TEORIA DELL’AUTOCOSCIENZA Come si è visto, per spiegare cos’è la Mente in quanto autocoscienza dell’Uno, Plotino ricorre alla similitudine degli specchi, sostenendo che la Mente può essere paragonata a due specchi: il primo rispecchia l’Uno, il secondo rispecchia l’immagine dell’Uno riflessa nel primo. L’analogia di Plotino può essere applicata anche alla nostra mente, ovvero alla spiegazione della nostra autocoscienza. A tale proposito è interessante confrontarla con alcune delle più recenti acquisizioni della scienza cognitiva, cioè della scienza della mente, una scienza recente e articolata, in quanto si avvale dei contributi di vari tipi di ricerca scientifica: quella neurocerebrale, quella psicologica (in particolare la psicologia della percezione e la psicologia dello sviluppo), quella linguistica, quella etologica. Una delle direzioni di ricerca della scienza cognitiva è appunto quella che si propone di comprendere che cos’è l’autocoscienza e come funziona. In tal senso, la forma più semplice di autocoscienza, ovvero la sua funzione elementare, ma anche la più antica dal punto di vista evolutivo, è considerato il “riconoscimento di sé” da parte di un individuo. Per riconoscimento di sé si intende il riconoscimento della propria voce, del proprio odore, delle proprie mani, ecc., e infine della propria immagine, cioè della raffigurazione complessiva del proprio corpo. L’autoriconoscimento implica il possesso di una rappresentazione riflessiva di sé, cioè di uno schema mentale del proprio corpo che viene confrontato con la sua immagine esterna. Una delle forme più comuni e significative, se non la più significativa, di autoriconoscimento è il riconoscersi allo specchio. Gli scienziati cognitivisti, infatti, si sono avvalsi dello specchio per organizzare molti dei loro esperimenti, in particolare quelli mirati a stabilire se gli animali e i bambini sono in grado di autoriconoscersi. Questi esperimenti hanno accertato che solo alcune specie di animali sono in grado di riconoscersi allo specchio, e quindi mostrano di possedere il grado minimo di autocoscienza: scimpanzé, oranghi, bonobo, delfini, elefanti. Per quanto riguarda i bambini, si è appurato che fino ai due anni circa essi non riconoscono la propria immagine allo specchio, cioè credono che sia un’immagine di qualcosa d’altro da loro. Questi risultati sperimentali possono essere utilizzati per impostare un esperimento mentale utile a comprendere meglio la concezione plotiniana dell’Uno, della Mente e della loro correlazione. Proviamo a immaginare che rappresentazione mentale potevamo avere del nostro volto prima della prima volta che l’abbiamo riconosciuto nello specchio, ovvero prima di averlo guardato allo specchio. Buio? Vuoto? Risposta esatta! Astraendo dal tatto, ovvero dal fatto che toccandoci il viso avremmo potuto scoprire che il nostro volto è fatto di rilievi e concavità, non potevamo avere nessuna immagine visiva del nostro volto. Dunque non potevamo che intuirlo come un tutt’uno indifferenziato, un 405 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE qualcosa del tutto uniforme, insomma similmente all’Uno di Plotino. Nel momento in cui ci siamo riconosciuti per la prima volta allo specchio, in primo luogo ci siamo distinti in due, ossia in me che guardo lo specchio e nella mia immagine guardata nello specchio, analogamente alla Mente secondo Plotino; in secondo luogo, abbiamo distinto le varie parti del nostro volto (naso, occhi, sopracciglia, ecc.) potendole finalmente guardare nitidamente nella nostra immagine speculare, così come la Mente, secondo Plotino, contemplando l’Uno lo divide e lo moltiplica nelle varie idee. Per chi vuole saperne di più: L’autocoscienza, di P. Perconti, Laterza, 2008. 406 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 6 PLOTINO: L’INDIVIDUALIZZAZIONE DELL’UNO E’ L’ANIMA Il compito dell’anima razionale è il pensare ma non soltanto il pensare, perché, allora, che cosa la distinguerebbe dall’Intelligenza? Poiché essa aggiunge al suo essere intellettuale qualche cosa d’altro, per il quale acquista la sua propria essenza, l’Anima non resta pura Intelligenza, ma ottiene anch’essa una sua particolare funzione, come qualsiasi altro ente. Ma quando guarda a ciò che è prima di essa, l’Anima pensa; quando guarda se stessa, si conserva; quando guarda ciò che le è posteriore [il mondo fisico], l’anima ordina, regge e governa su di esso. Poiché l’universo non poteva fermarsi al piano dell’Intelligenza, dal momento che c’era la possibilità che qualcosa d’altro [la materia] venisse dopo, inferiore sì ma necessario, essendo necessario anche ciò che è sopra di essa. Plotino, Enneadi, IV, 8, 3, ed. cit. Perciò ogni anima rifletta anzitutto su questo: che essa ha generato tutti i viventi infondendo in essi la vita; quelli che nutre la terra e che nutre il mare, quelli che abitano nell’aria e gli astri divini che sono nel cielo; che ha generato il sole e questo cielo immenso e lo ha adornato; essa lo fa girare in un determinato ordine, pur essendo una natura diversa dalle cose che ordina, muove e vivifica: l’anima perciò vale necessariamente più di esse, poiché, mentre queste nascono e muoiono, qualora essa le abbandoni o dia loro la vita, essa invece sussiste eternamente poiché non abbandona mai se stessa. […] Anche il cielo, pur essendo molteplice e vario, è unitario in virtù della potenza dell’Anima e in virtù di essa anche questo mondo è un dio. E anche il sole è un dio perché è animato, e le altre stelle; e anche noi stessi, se pur siamo qualcosa, lo siamo per questa ragione, poiché “i cadaveri vanno gettati via più che il letame” [Eraclito, fr. B96]. Plotino, Enneadi, V, 1, 2, ed. cit. Se questo è detto bene, necessariamente l’Anima dell’universo contemplerà gli esseri migliori e tenderà sempre verso la natura intellegibile e verso Dio; essa se ne riempie e da lei, una volta riempita e quasi ricolma, nasce un’immagine che è al suo limite estremo ed è ciò che produce le cose. E’ l’ultima potenza produttrice: al di sopra c’è la parte superiore dell’anima che è riempita <di forme> dall’Intelligenza; al di sopra di tutto c’è l’Intelligenza demiurgica, che all’anima che viene dopo dà <le forme> le cui tracce sono nella realtà di terzo grado. Perciò si dice giustamente che il mondo è un’immagine che sempre si rinnova, mentre la prima e la seconda realtà sono 407 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE immutabili ed immutabile è anche la terza, benché essa si muova per accidente nella materia. Finché ci sarà un’Intelligenza e un’Anima, le ragioni le proseguiranno nella specie inferiore dell’anima, come, finché ci sarà il sole, da esso irradierà ogni splendore. Plotino, Enneadi, II, 3, 18, ed. cit. Essa fa vivere così le altre cose che non vivrebbero per se stesse e dà loro quella vita di cui essa stessa vive. E poiché essa vive in una forma razionale, dà al corpo una forma razionale che è un’immagine di quella che possiede – infatti tutto ciò che essa dà al corpo è un’immagine della vita – e dà ai corpi le forme di cui possiede le ragioni. L’anima possiede anche le ragioni degli dei e di tutte le cose. Perciò il mondo possiede tutto. Plotino, Enneadi, IV, 3, 10, ed. cit. La creazione del mondo fisico da parte dell’Uno, non si basa solo sulla Mente ma anche su un altro principio puramente razionale, che Plotino chiama Anima (psyché). L’Anima discende dalla Mente come la Mente dall’Uno. Poiché costituisce un ulteriore grado di irradiazione dell’Uno è più lontana dall’Uno della Mente e dunque possiede una potenza infinita qualitativamente inferiore a quella della Mente. Di conseguenza, mentre la Mente è originariamente duplice, l’Anima è originariamente triplice, in quanto si articola in: a) anima suprema, b) anima dell’universo, c) anime individuali molteplici. L’Anima suprema è l’attività con cui l’Anima si rivolge alla Mente e la contempla, contemplando così, attraverso la Mente, anche l’Uno, e dunque correlandosi a entrambi. In questo senso, si può dire che l’Anima suprema è un terzo specchio che rispecchia quello della Mente come pensiero pensante (che a sua volta, ricordiamoci, rispecchia lo specchio che rispecchia direttamente l’Uno, cioè il pensiero pensato). In altre parole: come la Mente è una copia dell’Uno, l’Anima è una copia della Mente, cioè una copia della copia dell’Uno; per così dire, un’immagine più sbiadita dell’Uno. 408 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’Anima universale è l’attività con cui l’Anima ordina e governa la materia producendo così il cosmo fisico. Questa seconda funzione dell’Anima è strettamente consequenziale alla prima. I criteri dell’ordinamento e del governo della materia sono, infatti, le idee della Mente contemplate dalla funzione superiore dell’Anima, che, come tali, rappresentano i principi razionali che regolano e guidano la produzione di tutte le cose fisiche. L’Anima universale svolge la funzione di applicare le idee, in quanto principi razionali, alla materia, producendo così effettivamente le cose fisiche, ovvero gli esseri naturali. Se l’Uno è, dunque, la potenza (o energia) creatrice, e la Mente l’ordine creatore, l’Anima è l’attività che crea effettivamente, l’esecutrice della creazione. Per creare le cose fisiche, che come tali sono individuali, l’Anima deve però configurare individualmente le idee, che in sé sono uniche e universali. Pertanto deve, per così dire, tradurre le idee, cioè i principi razionali universali, in progetti (o disegni) razionali individuali, che, come tali, sono delle “immagini”, cioè delle copie, delle idee, cioè possiedono un grado di razionalità inferiore, ma indispensabile per poter adattare le idee alla materia. Le anime individuali sono appunto questi stessi progetti/disegni razionali – chiamati anche da Plotino forme razionali, o ragioni formali, o ragioni seminali – che costituiscono ogni cosa fisica, ovvero sono i principi organizzatori di tutti gli esseri naturali e dunque ciò che infonde loro la vita. Le anime individuali sono molteplici (una molteplicità di gran lunga maggiore a quella delle idee, perché per ogni idea universale vi sono molti esseri naturali) e separate, in quanto ognuna è contenuta in un corpo; ma, dal momento che in ogni anima individuale c’è l’intera Anima, seppur configurata in un modo singolare, tutte le anime individuali, afferma Plotino, sono unite, sono sempre anche un unico principio. Ciò comporta che tutti gli esseri naturali siano collegati gli uni agli altri da una “simpatia”, ovvero che siano armonicamente correlati tra loro. Da questo punto di vista, si può paragonare l’Anima di Plotino a un’orchestra sinfonica: il direttore d’orchestra, che rappresenta l’Anima suprema, riceve e interpreta lo spartito musicale, cioè la musica (solo scritta) che dovrà far suonare, dal compositore corrispettivo della Mente; l’insieme dei diversi spartiti di ogni orchestrale, ognuno dei quali adatta la musica a uno specifico strumento, rappresenta l’Anima dell’universo; i diversi orchestrali che suonano la musica leggendo i loro diversi spartiti rappresentano le anime individuali, gli strumenti gli esseri naturali, la sinfonia effettivamente suonata l’esistenza e il funzionamento ordinato del cosmo fisico. 409 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 6 MENTE Anima suprema, che contempla la Mente ANIMA Anima dell’universo che produce i progetti razionali delle cose Anime individuali che sono i principi vitali di ogni cosa 410 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 7 PLOTINO: IL MASSIMO DEPOTENZIAMENTO DELL’UNO E’ LA MATERIA Come devo pensare l’assenza di grandezza della materia? E come puoi tu pensare la materia senza qualità? E quale nozione ne hai tu e come la comprendi tu col pensiero? […] E a questo pensava Platone quando disse che essa è “percepibile con un ragionamento spurio”. E che cos’è dunque l’indeterminatezza dell’anima? E’ ignoranza completa e impossibilità di enunciare alcunché? No, l’indeterminato è oggetto di una positiva enunciazione, e come per l’occhio l’oscurità è la materia di ogni cosa invisibile, così anche l’anima, dopo aver soppresso nelle cose sensibili quanto è simile alla luce <cioè le qualità> e diventata incapace di determinare ciò che rimane, diventa simile all’occhio nell’oscurità e si fa in un certo modo identica all’oscurità, che essa in un certo senso vede. Ma la vede veramente? Certo, per quanto si può vedere la bruttezza stessa, senza colore, senza luce ed anche senza grandezza; se no, <l’anima> le attribuirebbe una figura. E così questa affezione dell’anima non è lo stesso che se essa non pensasse nulla? No, quand’essa non pensa nulla, nemmeno dice nulla, anzi, non ha impressione alcuna; ma quando pensa alla materia, riceve in sé passivamente come l’impronta di ciò che non ha forma. Plotino, Enneadi, II, 4, 10, ed. cit. Il ricettacolo delle forme non deve dunque essere un volume, ma col diventare volume riceve anche le altre qualità; lo si immagina come un volume, perché è capace di ricevere questo per primo. Ma come volume vuoto: perciò alcuni hanno detto la materia identica al vuoto. […] Perciò non si dica che questo indeterminato è soltanto grande o soltanto piccolo, ma che è grande e piccolo, è dunque un volume, ma inesteso, in quanto è materia del volume; esso si contrae da grande a piccolo e da piccolo si estende e diventa grande e <la materia>, per così dire, lo percorre. L’infinità della materia è un volume simile, ricettacolo della grandezza nella materia; ma questa non è che un’immagine. Plotino, Enneadi, II, 4, 11, ed. cit. Dunque la materia è necessaria alla qualità e alla grandezza e quindi anche ai corpi: ed essa non è un nome insignificante, ma un reale soggetto, benché invisibile e inesteso. Se essa non è, diremo che per la stessa ragione non sono né le qualità né la grandezza: infatti si potrebbe dire che esse non sono 411 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE alcunché di reale, se vengono considerate in se stesse. Ma se esistono, benché ciascuna esista oscuramente, a più forte ragione deve esistere la materia, benché non sia chiara né sia percepibile dai sensi: non <è percepita> dagli occhi, perché non è colorata, non dall’udito, poiché non è sonora; né <la percepisce> quindi il gusto o il naso o la lingua. Plotino, Enneadi, II, 4, 12, ed. cit. Che diremo dunque di essa? Come può essere materia degli esseri? In quanto essa è in potenza. Dunque essa, in quanto è già in potenza, non è ancora ciò che poi diventerà, ma il suo essere è soltanto l’essere futuro che in lei s’annunzia: così, il suo essere si riduce a ciò che sarà. […] Essa è dunque un fantasma in atto, e quindi una menzogna in atto, cioè una vera menzogna, o meglio il reale non-essere. Plotino, Enneadi, II, 5, 5, ed. cit. In tutto ciò che promette essa mentisce: se è immaginata grande, è piccola; se maggiore è minore, e l’essere che immaginiamo di lei è un non-essere, simile a un gioco fugace, ed illusorio è quanto crediamo esistere in lei, mero fantasma in un fantasma, proprio come in uno specchio in cui l’oggetto appare in un luogo diverso da quello in cui realmente si trova. <Lo specchio> sembra pieno di oggetti, eppure non ha nulla e sembra aver tutto. Ciò che entra e ciò che esce sono immagini degli esseri e fantasmi <che entrano> in un fantasma senza forma, e poiché essa è senza forma, ciò che si vede in essa sembra agire su di essa, e invece non produce nulla, poiché sono cose inconsistenti, deboli e prive di solidità; e poiché anche la materia non ha solidità, esse la attraversano senza dividerla, come <oggetti> nell’acqua, o come forme che vengono poste dentro il cosiddetto spazio vuoto. Plotino, Enneadi, III, 6, 7, ed. cit. Però l’assoluto non-essere non può unirsi all’essere; ne deriva questo fatto strano: che esso pur non partecipando <dell’essere> ne partecipa e trae ogni cosa come dalla sua vicinanza ad esso, benché per la sua natura non possa, per così dire, amalgamarsi con esso. Plotino, Enneadi, III, 6, 14, ed. cit. Tutto qui è tenuto insieme dalle forme dal principio alla fine; anzitutto, la materia dalle forme degli elementi; poi, sulle forme altre se ne sovrappongono ed altre ancora di nuovo, sicché è difficile trovare la materia nascosta sotto tante forme. Ma poiché anch’essa è una forma infima, questo universo è forma e tutte le cose sono forme, poiché il modello era già forma. 412 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Plotino, Enneadi, V, 8, 7, ed. cit. Anche la materia, se esiste dall’eternità, non può, appunto perché esiste, non partecipare di quella potenza [l’Uno] che dispensa a tutti il bene secondo le possibilità di ciascuno; e se la sua nascita è una necessaria conseguenza di cause anteriori, non deve tuttavia essere separata dal suo principio, come se questo principio, che le donò, come per grazia, l’esistenza, si arrestasse poi per impotenza di giungere sino ad essa. Plotino, Enneadi, IV, 8, 6, ed. cit. Ma il male assoluto non esiste, grazie alla potenza e alla natura del bene, poiché si mostra necessariamente chiuso nei vincoli del bello, come un prigioniero coperto da catene d’oro […]. Plotino, Enneadi, I, 8, 15, ed. cit. L’Uno, la Mente e l’Anima per Plotino sono i principi ideali che creano la realtà puramente razionale, cioè le idee della Mente, declinate dall’Anima in progetti razionali singolari, cioè in anime individuali. Ma perché le anime individuali diventino cose fisiche, ovvero corpi, cioè per spiegare l’esistenza del mondo fisico, occorre un ulteriore componente: la materia. Infatti, il cosmo fisico, secondo Plotino, è costituito dall’unione delle anime individuali e della materia, ossia dalla materializzazione delle anime individuali. Ma che cos’è la materia e qual è la sua origine? Plotino, in prima battuta, risponde che è non-essere. Poiché l’essere, in senso stretto, è la Mente, cioè il pensiero delle idee, ossia delle forme razionali universali, dire che la materia è non-essere significa dire che è qualcosa di privo di razionalità, cioè di ordine, di organizzazione. In una parola, la materia è l’indefinito. In questo senso, Plotino la descrive come un “contenitore” del tutto amorfo, ovvero come uno “spazio vuoto”, in quanto capace di accogliere e ospitare, ma uno spazio privo di qualsiasi connotazione, persino del volume, cioè della tridimensionalità, e quindi di ogni grandezza. Sempre in tal senso, Plotino lo paragona a uno specchio che, proprio perché non possiede disegni e colori propri, può rispecchiare in sé qualsiasi cosa. In altre parole, proprio in quanto non-essere, cioè in quanto priva di qualsiasi configurazione, la materia è ciò che può assumere qualsiasi configurazione. Tuttavia, anche se è assenza di razionalità, non-essere appunto, la materia esiste. Allora da cosa deriva e come? Plotino risponde che anche la materia deriva dall’Uno, né potrebbe essere altrimenti, visto che l’Uno è il principio unico di tutto, la potenza creatrice di tutto 413 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ciò che esiste. Ma se l’Uno è super-essere, o super-razionalità, come può creare il nonessere, ciò che è privo di razionalità? Plotino chiarisce che la materia è sì non-essere, ma non come opposto dell’essere, ovvero come sua antitesi assoluta, bensì come “diverso” dall’essere, cioè come non-essere relativo, come estrema riduzione d’essere. In altre parole, l’irradiazione dell’Uno, che crea ogni cosa, si svolge come una progressiva diminuzione di energia vitale, ovvero di essere, e dunque tende allo zero. Ma naturalmente l’energia creativa dell’Uno non può annullarsi altrimenti non sarebbe infinita, quale invece è. L’irradiazione dell’Uno, dunque, si approssima infinitesimalmente all’annullamento ma non si annulla mai del tutto. Usando una similitudine matematica, si può dire che la materia, in quanto non-essere, è il limite tendente a zero dell’energia creativa dell’Uno. Oppure, facendo ricorso all’analogia plotiniana dell’irraggiamento solare, la materia è il confine del cono di luce prodotto dal sole, ovvero il punto in cui la luce si esaurisce a favore dell’oscurità. Sviluppando questa analogia, risulta che il buio, pur non essendo luce, è prodotto dalla luce, in quanto senza la diversità della luce non potrebbe esistere come buio. Fuor di metafora, creando l’essere, l’Uno implicitamente crea anche il non-essere, per differenza, per massima diversità appunto. Senza l’essere infatti il non-essere non potrebbe esistere. In questo senso Plotino afferma che l’Uno donò l’esistenza alla materia e che anche la materia partecipa della potenza infinita dell’Uno. Ma c’è di più. Finora ci siamo riferiti alla materia in sé, cioè alla materia come sarebbe se non fosse organizzata dall’Anima dell’universo, ovvero riempita delle sue anime individuali o forme razionali. Ma la materia in sé, ovvero come completo non-essere, diversità totale, è qualcosa di meramente potenziale, ha sì un’esistenza, ma del tutto virtuale, è appunto, come dice Plotino, un fantasma o uno specchio vuoto. Poiché l’Anima è eterna, ab aeterno ha ordinato la materia, e dunque di fatto la materia non è mai esistita realmente in sé e per sé, cioè come mero non-essere, ma da sempre ospita le forme razionali dell’Anima e dunque da sempre possiede un certo grado d’essere, cioè di organizzazione. Solo che la materia è un mero recettore passivo di questo ordine, non lo possiede di per sé, e quindi non lo attiva, bensì lo subisce soltanto. Però, pur sempre lo riceve e quindi lo acquisisce. Pertanto, per così dire, la materia, pur essendo disordine, si piega all’ordine, pur essendo non-essere è predisposta all’essere, cioè è malleabile per l’Anima del mondo. Dunque anche la materia ha una sua razionalità. Certo quello della materia è il grado minimo di organizzazione, cioè di razionalità, ma è pur sempre qualcosa. In tal senso Plotino afferma che anche la materia è “forma”, benché “forma infima”. 414 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Il cosmo fisico, la natura, i corpi, cioè tutti gli esseri fisici, sono il risultato dell’ordinamento che l’Anima immette nella materia, o meglio, come precisa Plotino, che la materia assume in quanto è inglobata, come assorbita, nell’Anima. L’Anima, infatti, fluisce dentro la materia e, al contempo, l’abbraccia, la circonda. L’ordinamento dell’Anima comincia dall’inserimento nella materia di quattro forme primarie, quelle che, in quanto poste nella materia, vengono a costituire i quattro elementi naturali: terra, acqua, aria, fuoco. Simultaneamente la materia riceve anche l’estensione, cioè la tridimensionalità spaziale, e di conseguenza volume, massa, peso, grandezza. In altre parole, da spazio potenziale o virtuale, la materia diventa spazio reale, tridimensionale. In questo senso la materia virtuale si può paragonare a una creta informe capace di estendersi elasticamente e di assumere le più diverse configurazioni. L’inserimento delle anime individuali comporta poi la mescolanza di parti dei quattro elementi naturali in proporzioni diverse per ogni anima. Da tale mescolanza, prodotta dalle anime, derivano i singoli corpi, p.e. una roccia di basalto, un’orchidea, un gatto, un uomo, una nuvola, un pianeta, ecc. Essendo ordinato dall’Anima, il cosmo fisico è essere, ma, poiché è costituito anche dalla materia, cioè dal non-essere, possiede un rango ontologico ovviamente inferiore a quello dell’Anima, della Mente e dell’Uno, cioè delle tre realtà che Plotino chiama “ipostasi”, cioè autoesistenze o autosussistenze, e che quindi sono eterne. In tal senso, Plotino sostiene che il cosmo fisico è un’immagine, una copia sbiadita dell’Anima, ovvero delle stesse anime individuali. Ricorrendo ancora all’analogia, Plotino definisce i corpi come i “riflessi” delle anime nello “specchio” costituito dalla materia. Oggi, potremmo dire che, secondo Plotino, i corpi sono come “ologrammi”, cioè immagini fotografiche tridimensionali prodotte da un laser, cioè da un fascio di luce iperconcentrato. In questa similitudine, la materia corrisponde appunto alla luce laser in quanto capace di far sembrare tridimensionale una fotografia bidimensionale. La natura per così dire evanescente o fantasmatica degli esseri fisici, ovvero il loro statuto ontologico inferiore, a metà tra essere e non-essere, è tutt’uno con il loro divenire, cioè con il loro incessante trascorrere, con il loro costante mutamento, che naturalmente implica la loro nascita e la loro morte. Le anime individuali, però, non muoiono, sono eterne e immutabili. Sono solo i loro riflessi nello specchio materiale che vanno e vengono, producendo così l’apparenza della nascita e della morte. Ma il divenire – la nascita, la morte, il cambiamento, il moto – implica il tempo. Si è visto come la materia si possa considerare spazialità potenziale e dunque come possa spiegare la 415 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE tridimensionalità spaziale del mondo fisico. Il tempo, però, non è inerente alla materia. Da cosa è prodotto allora? La risposta di Plotino è: dall’Anima. In che modo? L’Anima, afferma Plotino, dispone in successione, cioè secondo il criterio del prima e del poi, ciò che nella Mente è diviso in parti ma è simultaneo, ovvero le idee in quanto sono conosciute simultaneamente nelle loro relazioni dalla Mente stessa. Per comprendere meglio questa tesi di Plotino, possiamo usare l’esempio analogico di un film cinematografico, come noto composto da migliaia di fotogrammi. Se possedessimo una vista straordinaria, potremmo vedere tutti i fotogrammi simultaneamente, allo stesso modo, cioè, in cui la Mente conosce tutte le Idee; invece, poiché disponiamo di una vista normale, li vediamo in successione, vediamo appunto un film con un inizio e una fine (possibilmente lieta), cioè al modo in cui l’anima riordina le idee. In altre parole, l’Anima dell’universo, traducendo le idee in disegni razionali, ossia in anime individuali, per adattarle alla materia, sostituisce il loro collegamento sincronico con una connessione diacronica, ossia le pone in successione cronologica. Sviluppando l’analogia del film, viene spontaneo concludere che per Plotino gli esseri fisici sono “cartoni animati”! Ma qual è il giudizio complessivo di Plotino sul mondo fisico? Da un lato, Plotino ne evidenzia il carattere illusorio, dovuto al suo legame con il non-essere, cioè con la materia. In questo senso, poiché l’essere/ordine equivale al bene, cioè è benessere, la materia in quanto non-essere/disordine equivale al male. Ma così come la materia è non-essere nel senso di massima privazione dell’essere, allo stesso modo il male è massima privazione del bene, ovvero non è un principio maligno antitetico e concorrenziale a quello del bene. In quanto il mondo fisico è anche materiale include dunque il male, ma si tratta tuttavia di un male parziale, che nemmeno incrina la superiorità del bene. Insomma: in quanto copia sfocata del mondo ideale il mondo fisico è imperfetto e dunque contiene una dose di negatività, tuttavia è la migliore delle copie possibili e dunque la sua negatività è limitata e il bene in esso è di gran lunga preponderante. 416 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 7 L’Uno crea l’essere Implicitamente L’Uno crea il non-essere relativo, come massima privazione dell’essere Il non-essere è contenitore, spazio senza determinazione, simile a uno specchio L’Anima lo ordina, assorbendolo in sé e infondendogli le anime individuali Le cose fisiche sono i riflessi delle anime individuali nello specchio della materia Il divenire è il continuo andirivieni e alternarsi dei riflessi nello specchio materiale Il tempo è creato dall’anima universale che sostituisce alla connessione sincronica delle idee la successione diacronica delle anime individuali Il mondo fisico, essendo legato al non-essere, implica il male, ma essendo soprattutto essere in esso il bene è preponderante rispetto al male 417 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI L’ANIMA, L’ENTANGLEMENT E IL PRINCIPIO OLOGRAFICO La teoria plotiniana dell’anima dell’universo che innerva e governa il mondo, con il suo corollario della simpatia universale che connette ogni cosa a ogni altra cosa, fu ripresa e sviluppata dalla filosofia rinascimentale, ma, con la rivoluzione scientifica moderna, fu soppiantata dalla opposta teoria meccanicistica. Tuttavia, con la rivoluzione scientifica contemporanea, a cavallo dei secoli XIX e XX, e in particolare con la scoperta della teoria dei quanti – ossia delle particelle elementari – la visione meccanicistica della scienza moderna è stata messa in discussione. Per capire come, consideriamo uno dei più stupefacenti fenomeni quantistici: l’entanglement, traducibile “intreccio”, “correlazione”. Il termine significa che due particelle elementari, p.e. due fotoni, possono interagire istantaneamente anche se distano tra loro un milione di anni-luce. Per esempio, se il fotone A cambia la direzione del suo spin (la rotazione su se stesso) immediatamente il correlato fotone B la muta. Alcuni esperimenti hanno accertato che due particelle elementari correlate sono al tempo stesso divise e unite, ovvero, p.e. esempio, due fotoni sono separati ma anche uno stesso fotone. Addirittura, nel 1997 due gruppi di scienziati sono riusciti a teletrasportare lo stato quantistico di una singola particella a un’altra, realizzando effettivamente (pur in modo alquanto diverso) il teletrasporto fantascientifico di Star Trek. Per spiegare l’entanglement, i fisici quantistici sostengono che le particelle elementari sono non-locali o alocali, cioè non sono localizzate, non hanno una posizione spaziale precisa. Su questa base, essi sono giunti a ipotizzare che tutte le particelle elementari (fotoni, protoni, neutroni, elettroni, ecc.) siano in uno stato di entanglement, cioè sono tutte correlate tra loro. Poiché ogni corpo fisico è fatto di particelle elementari, ogni corpo fisico è collegato a tutti gli altri. In questo senso, molti fisici quantistici usano espressioni quali “magia quantistica” o “danza magica” dei quanti. Ma questa non è l’unica, e forse nemmeno la più clamorosa, somiglianza tra la filosofia plotiniana e la fisica contemporanea. Un’altra è quella relativa alla scoperta della cosiddetta “energia del vuoto” (altrimenti detta “energia oscura”). Mentre la fisica classica meccanicistica credeva nell’esistenza di uno spazio infinito in massima parte del tutto vuoto, cioè privo di massa e energia, la fisica quantistica contemporanea ha accertato che ogni porzione di spazio pullula di particelle (elettroni, positroni, fotoni) “virtuali”, cioè di particelle che apparentemente non esistono ma che improvvisamente si manifestano per minuscole frazioni di secondo per poi di nuovo sparire. Questo fenomeno, che viene chiamato anche “fluttuazione quantistica”, ha portato a ridefinire lo spazio vuoto: esso non è più uno stato di energia/massa nulla, bensì uno stato di energia/massa minima. In termini plotiniani il non-essere (o nulla) non è l’assenza totale dell’essere ma il grado minimo dell’essere, per cui il nulla, inteso come non-essere assoluto, non esiste. 418 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Un’ulteriore somiglianza tra neoplatonismo e fisica attuale concerne la teoria delle stringhe, che, nei suoi più recenti sviluppi, è giunta a ipotizzare che il mondo reale giaccia su una “membrana”, cioè su una superficie elastica nastriforme a due dimensioni. Su queste basi, alcuni fisici hanno elaborato una teoria della realtà basata sul principio olografico: tutte le cose sono ologrammi, cioè immagini tridimensionali di dati scritti in minuscoli pixel (a loro volta collezioni di informazioni numeriche binarie) su una superficie bidimensionale. Per approfondimenti, leggere Entanglement, di A.C. Aczel, Cortina, 2004, e Il Paesaggio cosmico, di L. Susskind, Adelphi 2007. 419 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 8 PLOTINO: L’UOMO E’ UN’ANIMA CADUTA E noi? Chi siamo noi? Forse che noi siamo quell’Essere oppure siamo ciò che s’avvicina all’Essere e diviene nel tempo? Ancor prima che nascessimo, noi eravamo lassù, uomini alcuni ed altri anche dei, anime pure e intelligenze unite all’Essenza intera, parti del mondo intelligibile, né separate né divise, ma appartenenti al Tutto: infatti, anche oggi non ne siamo separati. Oggi, purtroppo a quell’uomo spirituale si è aggiunto un altro uomo che vuole esistere; egli ci ha trovati poiché non eravamo fuori dell’universo e si è accostato a noi e si è rivestito di quell’Uomo che ciascuno di noi era allora. […] Noi siamo diventati così una coppia di due uomini e non siamo più quello che eravamo prima; anzi, qualche volta, siamo soltanto quel secondo uomo che si aggiunge quando quel primo uomo non opera più ed è, in un certo senso, lontano. Plotino, Enneadi, IV, 4, 14, ed. cit. Ma per quale causa le anime, pur essendo parti del mondo superiore e appartenenti completamente ad esso, si sono dimenticate di Dio loro Padre e ignorano se stesse e Lui? Per loro il principio del male fu la temerarietà e il nascere e l’alterità originaria e il desiderio di appartenere a se stesse. In tal modo soddisfatte di quella loro manifesta decisione, dopo aver abusato del loro movimento e aver corso in senso contrario, una volta allontanatesi di molto, ignorarono finalmente se stesse e il loro luogo d’origine: simili a fanciulli che, troppo presto rapiti ai loro genitori e allevati per molto tempo lontani da loro, non riconoscono più né se stessi né i loro genitori. Plotino, Enneadi, V, 1, 1, ed. cit. Finché rimangono nel mondo intelligibile insieme con l’Anima universale, esistono senza alcun affanno; unite nel cielo all’Anima universale, condividono con essa il governo del mondo, simili a re che siano accanto al supremo Signore e governino insieme con lui senza discendere personalmente dalle loro dimore regali: allo stesso modo stanno insieme, allora, le anime e nella stessa sede. Ma esse si allontanano dal Tutto sino ad essere anime parziali: ciascuna vuole appartenere a se stessa e, come stanca di essere in comunione con le altre, si ritrae in se stessa. Qualora l’anima faccia questo per lungo tempo fuggendo il Tutto e distinguendosi dal Tutto, e più non rivolga lo sguardo all’Intelligibile, essa diventa un frammento, si isola, perde il suo vigore e, dedicandosi alle faccende pratiche, guarda soltanto alle cose particolari; separata dal Tutto, si abbassa a qualsiasi cosa 420 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE parziale e fuggendo ogni altra realtà, va incontro a questo unico oggetto, in contrasto con tutti gli altri; allontanatasi dall’universo, essa governa con fatica l’essere particolare e rimane in contatto con esso, si dedica alle cose esterne ed è loro presente e vi si sprofonda dentro in buona parte. Le accade allora ciò che si dice di essa, cioè che “perdette le ali” e che “cadde nelle catene del corpo”, poiché abbandonò quell’innocenza con cui si curava prima di cose più alte e che possedeva accanto all’Anima universale; e questo stato anteriore era assolutamente migliore di quello dell’anima retrocessa. Plotino, Enneadi, IV, 8, 4, ed. cit. Tutto ciò che va verso il peggio è involontario; ma poiché ci si va col movimento proprio, si può dire che il male è il castigo delle azioni compiute. Ma poiché questo patire e questo agire sono ineluttabili per l’anima secondo una legge eterna della natura, poiché ogni evento che le accade in questa sua discesa finisce per essere utile a qualche altro essere in quanto discende da una regione superiore, chi dicesse che è Dio che l’ha inviata giù non sarebbe in contrasto né con la verità né con se stesso. Anche le ultime conseguenze devono risalire tutte a un primo Principio, anche se gli esseri intermedi sono molti. La colpa <dell’anima> è duplice: l’una è quella che ha dato luogo alla discesa, l’altra consiste nelle cattive azioni che essa compie, una volta venuta quaggiù; il castigo della prima colpa è il fatto stesso di discendere; nel secondo caso, quanto meno l’anima si immerge in corpi via via diversi, tanto più presto ne riemerge conforme e un giudizio di merito – qui con la parola “giudizio” si vuole indicare ciò che accade per decreto divino –; ma ad ogni grado enorme di malvagità corrisponde un degno castigo sotto la vigilanza di demoni vendicatori. E così l’anima, benché sia un essere divino e venga dagli spazi superiori, discende all’interno del corpo; essa, che è l’ultima entità divina, con inclinazione spontanea viene quaggiù per esercitare la sua potenza e porre ordine in ciò che si trova dopo di essa; e se poi riesce a fuggire al più presto, non riceve alcun danno per aver sperimentato il male e aver conosciuto la natura del vizio, ma rivela le sue azioni e le sue operazioni, le quali sarebbero inutili nel mondo corporeo perché rimarrebbero sempre inattuate […]. Plotino, Enneadi, IV, 8, 5, ed. cit. Queste cose dunque vanno dette contro coloro che considerano come esseri i corpi cercando una prova della verità nella testimonianza degli urti e nei fantasmi derivanti dalle sensazioni; assomigliando così a coloro che sognano e che considerano evidente tutto ciò che vedono in sogno. La sensazione infatti è dell’anima che dorme, poiché la parte dell’anima che è nel corpo è 421 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE dormiente; il vero risveglio consiste nel levarsi davvero senza il corpo e non con esso. Plotino, Enneadi, III, 6, 6, ed. cit. Essa [l’anima] ha tuttavia la capacità di riemergere nuovamente dopo aver acquisito l’esperienza di ciò che vide e sofferse quaggiù, e di comprendere che cosa voglia dire essere lassù e di conoscere più chiaramente, attraverso il raffronto con il suo contrario, ciò che è il Bene. Poiché l’esperienza del male porta a una conoscenza più precisa del Bene in quegli individui nei quali la potenza è troppo debole per poter conoscere il male con pura scienza ancor prima di averlo provato. Plotino, Enneadi, IV, 8, 7, ed. cit. L’uomo corporeo, l’uomo di carne ed ossa, non è per Plotino l’uomo originario – e dunque non è nemmeno l’uomo autentico, genuino – ma è una sua trasformazione o, per così dire, una sua copia. L’uomo originario e autentico, secondo Plotino, era infatti pura anima, ossia faceva parte dell’Anima nelle sue tre componenti: come anima individuale possedeva una propria coscienza e una personalità unica, come Anima dell’universo partecipava al governo del cosmo fisico e come Anima suprema contemplava la Mente e dunque era unito al cosmo ideale, ovvero all’Essere intellegibile.Come mai allora l’uomo è diventato corporeo? Plotino risponde che l’uomo corporeo è l’esito di una “caduta”, o di una “discesa”, dell’uomo incorporeo, cioè è il risultato della sua acquisizione di una costituzione ontologica inferiore, di un grado minore di essere, quello proprio del mondo fisico. Ma perché l’uomo incorporeo è “sceso” nella dimensione fisica, acquisendo così un corpo? Plotino lo spiega ricorrendo a quattro concetti, tutti da interpretare: a) la temerarietà, o meglio l’audacia (tòlma), cioè la tendenza dell’anima umana a osare, a oltrepassare coraggiosamente, ma anche rischiosamente, i propri limiti; b) la nascita, o meglio la generazione (génesis), cioè la volontà di produrre qualcosa di proprio, cioè di riprodursi sessualmente ma anche di creare opere intellettuali o artistiche; c) l’alterità originaria, cioè la prima creazione dell’Uno, in quanto l’idea di diversità da se stesso è il presupposto razionale della creazione di ogni altra idea e di ogni altra cosa, il che significa che anche l’anima umana, in quanto creata dall’Uno, vuole diventare diversa da ciò che originariamente è; 422 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE d) la volontà di appropriarsi della propria individualità, di essere padrone di sé, nel senso sia di darsi origine sia di conquistarsi, ovvero realizzarsi, in modo autonomo. In sintesi, come tutto ciò che l’Uno irradia, anche l’anima umana reca in sé l’impronta dell’Uno, cioè è simile a esso, e dunque non può che imitarlo, cioè non può che volere anch’essa svilupparsi ulteriormente e per farlo non può che differenziarsi e per differenziarsi non può che “abbassarsi”, cioè entrare nello specchio della materia e divenire il riflesso fisico di se stessa, ovvero “rivestirsi” di un corpo. In questo senso, in modo simile all’Uno, anche per le anime la differenziazione coincide con la molteplicità. Infatti, le anime sono sì individuali ma originariamente, essendo parti di un’unica Anima, non sono separate ma si coappartengono, sono in perfetta comunione tra loro. La caduta nella fisicità, cioè l’acquisizione dei corpi, scinde le anime, le separa e le contrappone, fa loro acquisire un’individualità indipendente e conflittuale, e dunque le fa passare da molteplicità ordinata a molteplicità disordinata. In tal senso, l’anima, una volta incarnatasi, fa esperienza del male. Dunque la caduta delle anime nella dimensione fisica per Plotino è senz’altro un peggioramento della loro condizione originaria e, come tale, implica una duplice colpa. La prima è la discesa stessa, cioè il passaggio dalla dimensione razionale a quella materiale. Però, come si è visto tale passaggio è inevitabile, è voluto dall’Uno stesso, tanto è vero che ha un fine positivo: migliorare la materia e al tempo stesso arricchire la conoscenza delle anime umane. L’uomo corporeo, sostiene Plotino, esercitando la sua potenza sulla materia, da un lato ne incrementa l’ordine, facendo così il suo bene, dall’altro accresce la sua esperienza e quindi attua se stesso in un modo più ampio, completandosi. La corporeità, infatti, offusca l’anima ma non la elimina e pertanto l’esperienza fisica si aggiunge a quella razionale arricchendola. In questo senso, Plotino afferma che in linea di principio un’anima potrebbe incarnarsi senza patire il male ma limitandosi a farne esperienza per poi immediatamente risalire, cioè tornare alla sua condizione originaria. Dunque, la colpa connessa alla caduta non si può considerare una colpa effettiva. Ma allora perché Plotino la chiama colpa? Perché lo può diventare in quanto costituisce il presupposto di una seconda colpa, quella, per così dire, di uno sprofondamento nella dimensione fisica, cioè di un’adesione completa al mondo fisico e agli esseri naturali. Una volta caduta nella dimensione spazio-temporale, e quindi incarnatasi in un corpo, l’anima può dimenticare del tutto la sua origine e rivolgersi sempre più verso il “basso”, cioè 423 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE scendere ulteriormente, interessandosi solo alle cose fisiche e, in particolare, dedicando la sua vita al godimento dei piaceri sensibili e abbrutendosi, cioè trasformandosi completamente in un animale. Come tale, l’uomo corporeo basa tutta la sua conoscenza sulle sensazioni e in tal modo egli non fa altro, dice Plotino, che sognare le cose fisiche che crede di percepire, e dalle quali si lascia sedurre, in quanto esse sono solo immagini oniriche, costruzioni della fantasia. Dunque l’uomo corporeo è un dormiente, crede di vivere ma in realtà dorme, la sua vita è un lungo sonno. A differenza della prima caduta, la seconda caduta, questo sprofondamento nelle sabbie mobili della fisicità, non è voluta dall’Uno, ovvero non è la realizzazione di un’inclinazione dell’anima, ma è una sua degenerazione voluta dall’uomo diventato corporeo. In altre parole, l’uomo corporeo, pur potendolo evitare, si lascia tuttavia irretire dalla fisicità e sceglie di abbrutirsi, di diventare un essere totalmente fisico. Dunque la seconda caduta comporta una vera e propria colpa che rende colpevole anche la prima caduta in quanto è in un rapporto di continuità con essa. La colpa che così l’uomo corporeo si assume spiega e al contempo giustifica le sofferenze della vita fisica. Infatti, da un lato, tali sofferenze sono l’effetto inevitabile della rottura della comunione originaria delle anime e della conseguente conflittualità interindividuale; dall’altro, esse sono la punizione della colpa commessa. Eppure Plotino aggiunge che anche la seconda caduta ha un senso positivo. Infatti, mentre gli uomini dotati di un’anima più forte possono acquisire la conoscenza del male senza commetterlo, altri uomini, dotati di un’anima più debole, per conoscere il male devono commetterlo e devono dunque soffrirne le inevitabili conseguenze. In entrambi i casi, l’acquisizione della conoscenza del male, ovvero della condizione materiale, è però finalizzata a una maggiore comprensione di cos’è il Bene, ovvero della superiorità della condizione spirituale. Dunque la colpa delle anime più deboli è per esse un mezzo necessario per rafforzarsi, cioè per arricchirsi conoscitivamente. In altre parole, anche la seconda caduta, in ultima analisi, è un bene perché produce un miglioramento delle anime e le spinge a tornare alla loro condizione originaria. 424 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 8 Uomo incorporeo, ovvero pura anima Audacia Generazione Alterità originaria Autonomia Prima caduta inevitabile Uomo corporeo Attaccamento alla fisicità e abbrutimento Seconda caduta volontaria e colpevole Conflittualità e sofferenza, cioè esperienza del male Aumento della consapevolezza del bene 425 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 9 PLOTINO: LA MASSIMA FELICITA’ E’ L’ESTASI L’anima, dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi ed agisce soltanto per mezzo dei sensi poiché è impedita di agire, almeno all’inizio, mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice, “nel sepolcro” e “nella caverna”; ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale, non appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione dell’Essere: essa infatti conserva sempre un qualcosa che, malgrado tutto, rimane in alto. Plotino, Enneadi, IV, 8, 4, ed. cit. Necessariamente, la potenza sensitiva dell’anima percepisce non le cose sensibili, ma piuttosto le impronte che si producono nel vivente dopo la sensazione; e queste sono intelligibili. Perciò la sensazione esterna è il riflesso di questa <propria dell’anima>, la quale è più vera e più reale di quella, essendo una contemplazione impassibile delle forme. Plotino, Enneadi, I, 1, 7, ed. cit. Perciò queste sensazioni sono pensieri oscuri e i pensieri intellegibili sono sensazioni chiare. Plotino, Enneadi, VI, 7, 7, ed. cit. La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intelligibili, un’altra che è presso le cose <sensibili>, un’altra che è tra le due; essa è una natura unica con parecchie potenze, che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la parte migliore di lei e dell’essere, ora la sua parte inferiore precipitando trascina con sé la parte media: perché non è permesso che l’anima sia trascinata tutt’intera. Plotino, Enneadi, II, 9, 1, ed. cit. Poiché [l’anima] è in mezzo [tra il mondo intellegibile e il mondo sensibile], essa li percepisce entrambi; si dice che pensi gli Intelligibili allorché riesce a ricordarsene se si avvicina ad essi; essa infatti li conosce perché è, in certo modo, gli Intelligibili stessi e li conosce non perché abbiano in essa la loro dimora, ma perché li possiede in qualche modo e li vede ed è, un po’ confusamente, quegli esseri stessi; ma quando essa si scuote, diciamo così, dal suo sonno oscuro, essi diventano più chiari e passano dalla potenza all’atto. Plotino, Enneadi, IV, 6, 3, ed. cit. 426 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’anima, purificata, diventa dunque una forma, una ragione, si fa tutta incorporea, intellettuale ed appartiene interamente al divino, ov’è la fonte della bellezza e donde ci vengono tutte le cose dello stesso genere. L’anima, dunque, ricondotta all’Intelligenza, è molto più bella. Ma l’Intelligenza e ciò che ne deriva è per l’anima una bellezza propria, non estranea, perché l’anima allora è veramente sola. Per questo si dice giustamente che il bene e la bellezza dell’anima consistono nel rassomigliare a Dio, poiché da Lui derivano il Bello e la natura essenziale degli esseri. […] Bisogna porre anzitutto che il Bello è lo stesso che il Bene, dal quale l’Intelligenza trae la sua Bellezza: e l’anima è bella per l’Intelligenza; le altre bellezze – quelle delle azioni e delle occupazioni – sono tali, poiché l’anima le informa. Plotino, Enneadi, I, 6, 6, ed. cit. Poiché “necessariamente i mali esistono quaggiù e s’aggirano intorno a questi luoghi terreni”, e poiché l’anima vuole fuggire i mali, “bisogna fuggire di qui”. Che cos’è questa fuga? “Diventare simili a Dio” dice <Platone>. E noi otterremo questo, se, mediante la prudenza e in generale con la virtù, diventeremo giusti e pii. Plotino, Enneadi, I, 2, 1, ed. cit. E’ chiaro che non c’è in lei [l’anima] nessun desiderio di cosa turpe: desidera il mangiare e il bere non per sé, ma per soddisfare <i bisogni del corpo>, né ricerca i piaceri d’amore, o soltanto, io credo, quelli naturali che non abbiano un cieco impulso; e se fa questo, lo fa con una fantasia già dominata. Plotino, Enneadi, I, 2, 5, ed. cit. No, egli conoscerà queste <virtù inferiori> [le virtù civili] e possederà tutto ciò che ne deriva, fors’anche agirà conformandosi ad alcune di esse, se le circostanze lo richiederanno. Ma, arrivato a principi e a norme superiori, agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare <i desideri>, ma con l’isolarsi completamente, per quanto sarà possibile, <dal corpo>; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile, ma la abbandona, scegliendone un’altra, quella degli dei: perché a questi, e non agli uomini dabbene vuol rassomigliare. Plotino, Enneadi, I, 2, 7, ed. cit. Eros conduce dunque ogni anima verso la natura del bene; l’Eros dell’Anima superiore è un Dio che la congiunge eternamente al Bene, quello dell’anima mista <alla materia> è un demone. Plotino, Enneadi, III, 5, 4, ed. cit. 427 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE L’anima dev’essere nuda di forme, se veramente desidera che nulla intervenga a ostacolare la pienezza e la folgorazione in lei da parte della Natura prima. Se è così, essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori, rivolgersi alla sua interiorità, completamente, non piegarsi più verso qualcosa di esterno, ma spegnendo ogni conoscenza, prima attraverso la propria disposizione, poi, di fatto, negli stessi contenuti di pensiero, spegnendo altresì la conoscenza del proprio essere, deve abbandonarsi alla contemplazione di Lui. Plotino, Enneadi, VI, 9, 7, ed. cit. Poiché, dunque, non erano due, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto visto (“unito”, dunque, non “visto”), chi allora divenne tale quando si unì a Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un’immagine di Lui; egli, però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna differenziazione né rispetto a se stesso né rispetto alle altre cose; non c’era in lui alcun movimento; né collera né desiderio erano in lui, una volta salito a quell’altezza, e nemmeno c’era ragione o pensiero; non c’era nemmeno lui stesso, insomma, se proprio dobbiano dir così. E invece, quasi rapito o ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più si aggira intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa immobilità. […] Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un’estasi, una semplificazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio di adattamento; solo così si può vedere ciò che v’è nel penetrale; ma se si guarda in altra maniera, tutto scompare. […] Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga di solo a solo. Plotino, Enneadi, VI, 9, 11, ed. cit. L’uomo corporeo, secondo Plotino, può abbrutirsi e dimenticare di essere un uomo incorporeo, ma mai totalmente. Per quanto si abbrutisca, egli conserva in sé intatta la propria anima e non può non possedere una consapevolezza di essa, ancorché minima. Persino le sensazioni, che avvinghiano l’uomo corporeo al mondo fisico, sono un prodotto dell’attività dell’anima, e quindi rimandano ad essa. Infatti le sensazioni, afferma Plotino, solo apparentemente sono provocate dalle impronte che gli altri corpi producono sul 428 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE nostro corpo. I corpi e le loro affezioni sono solo immagini, ombre, riflessi del grande specchio della materia. In realtà, quando il nostro corpo sembra subire l’urto di un altro corpo, è la nostra anima che al suo interno percepisce la forma razionale del corpo che ci ha urtato, grazie al fatto che essa, in quanto parte dell’Anima universale, possiede in sé le forme razionali di tutti i corpi. In questo senso anche la sensazione è pensiero, ma è un pensiero oscuro, il livello più basso di razionalità. Tuttavia, la conoscenza sensibile stimola l’uomo corporeo a un livello superiore di conoscenza, cioè a chiarire il suo pensiero. L’uomo corporeo può così pervenire alla conoscenza razionale, cioè alla conoscenza dei progetti razionali di tutte le cose e delle loro correlazioni. Si tratta della conoscenza propria dell’Anima dell’universo, una razionalità dimostrativa, cioè basata su ragionamenti e argomentazioni. A sua volta la conoscenza razionale intermedia stimola l’uomo corporeo a raggiungere la conoscenza intellettiva, cioè la conoscenza dialettica delle idee, quella propria dell’Anima suprema che contempla la Mente. In questo modo l’uomo corporeo, afferma Plotino, può risalire nel luogo dal quale era caduto, cioè può riconquistare la piena consapevolezza del suo vero essere – l’Anima, appunto – e ritornare alla sua condizione originaria. Ma il ritorno dell’anima alla propria origine non è solo un cammino conoscitivo ma è anche, al tempo stesso un cammino etico e un cammino erotico-estetico. I tre cammini per Plotino procedono insieme e si intrecciano fondendosi in un unico cammino. Ognuno di essi, infatti, stimola gli altri ed è stimolato da essi. Il cammino etico consiste nella pratica sempre più completa delle virtù. Inizialmente bisogna acquisire le virtù civili, cioè quelle connesse alla vita terrena all’interno della società e dello Stato, in quanto già queste virtù – saggezza, coraggio, giustizia, temperanza – permettono di limitare e moderare i desideri del corpo e il godimento dei piaceri sensibili. Ma in un secondo momento la pratica delle virtù civili deve essere abbandonata e sostituita da quella delle virtù “catartiche”, cioè dalle virtù che purificano l’anima liberandola progressivamente da ogni desiderio fisico del corpo. In altre parole, Plotino propone un’etica ascetica, di graduale rinuncia al godimento dei piaceri corporei fino allo spegnimento di ogni desiderio di godimento fisico. Solo così, infatti, l’anima può liberarsi della zavorra del corpo e salire verso il mondo ideale. 429 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE A sua volta il cammino erotico-estetico fornisce un’ulteriore spinta all’ascesa dell’anima grazie alla forza dell’amore suscitata dalla bellezza. Anche a questo livello, inizialmente l’anima coglie la bellezza dei corpi, in quanto immagini delle forme razionali, e si innamora di essi; ma successivamente la bellezza dei corpi è sostituita dalla superiore bellezza delle anime e quindi dalla ancora maggiore bellezza delle idee, e allora l’amore per i corpi si trasforma in amore per l’Anima, prima, e poi in amore per la Mente, e trascina l’anima fino alla sua condizione originaria. In questa ascesa erotico-estetica, per Plotino svolge un ruolo fondamentale anche l’arte, nella misura in cui non imita le cose naturali, ma invece raffigura le anime e le idee da cui derivano le cose naturali. In questo modo l’arte può comunicare la Bellezza ideale, la Bellezza della Mente, e farci sentire che il massimo e più autentico amore che possiamo provare è quello per la Bellezza in sé, cioè per la Bellezza della Mente e dunque per la Mente. Se il percorso di risalita per tornare alla dimora originaria è in generale comune a tutte le anime, le sue modalità e i suoi tempi, afferma Plotino, variano per ogni anima individuale. Alcune anime, come si è visto, possono purificarsi e risalire già al termine di una sola vita terrena; altre, invece, devono attraversare più vite terrene, ovvero reincarnarsi in altri corpi umani, ma anche in animali e perfino in vegetali, per potersi purificare e ripristinare la loro condizione originaria. In ogni caso, prima o poi, dopo un’ultima morte, tutte le anime tornano da dove erano partite. Ma soprattutto Plotino mette in evidenza un’altra possibilità di risalita, una possibilità straordinaria, in quanto può realizzarsi già nel corso della vita terrena, prima cioè della morte. Quando il corpo è ancora vivo, sostiene Plotino, l’anima che ha raggiunto la piena purificazione può momentaneamente separarsi dal corpo e ascendere non solo alla Mente ma addirittura all’Uno. Ma l’ascesa fino all’Uno non può avvenire che unendosi a lui, cioè diventando lui, come una goccia di pioggia che giunge nell’oceano e diventa oceano, perdendo la sua individualità. In questo senso Plotino chiama l’unione dell’anima individuale con l’Uno “estasi”, che significa “emersione”, “fuoriuscita”. Ma fuoriuscita da cosa? Da ogni cosa: dalla fisicità, ma anche dalle forme razionali dell’Anima e dalle idee della Mente, e perfino dalla propria individualità, ossia dal proprio io, dalla propria coscienza. E non potrebbe essere altrimenti perché l’Uno è l’assolutamente indifferenziato e omogeneo e dunque in lui non può esserci la distinzione io/tu. Non è cioè possibile per Plotino che un’anima contempli l’Uno dal momento che per contemplarlo l’anima dovrebbe essere altro da lui e dunque lo perderebbe. La 430 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE “contemplazione” dell’Uno, l’unica possibile, non può che consistere nell’immedesimarsi totalmente con l’Uno, nel farsi unità assoluta con lui e in lui. E in tal senso Plotino chiama l’estasi anche “semplificazione”. Ma se l’anima individuale si spoglia di tutto, della sua conoscenza sensibile, ma anche razionale e intellettiva, della sua virtù, del suo amore per la bellezza, non si annulla, ovvero non si abbandona all’irrazionalità più totale, all’assoluto caos? Plotino risponde di no, in quanto diventare uno con l’Uno significa per lui acquisire un’iperrazionalità, una supervirtù, un iperamore per una metabellezza, una bellezza superiore alla stessa bellezza della Mente. L’esperienza dell’estasi per Plotino è temporanea, ma ugualmente conferisce alla vita di un uomo un senso assoluto, permettendogli di immunizzarsi da tutti i dolori fisici e di conseguire così una completa felicità. Tenendo presente questa tesi, per concludere vale la pena evidenziare che il ritorno dopo la caduta permette alle anime individuali non solo di tornare alla loro condizione originaria ma addirittura di superarla per giungere ancora più in alto, ovvero fino alla massima altezza, quella dell’Uno. In questa prospettiva, l’esperienza della caduta perde ogni traccia di negatività e si disvela come il mezzo necessario all’uomo per compiersi totalmente diventando egli stesso assoluto, ovvero il Dio. 431 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MAPPA della TAPPA 9 Ritorno dell’anima alla sua origine divina CAMMINO CONOSCITIVO CAMMINO ETICO CAMMINO EROTICOESTETICO Conoscenza sensibile Vizi Amore per la bellezza dei corpi Conoscenza razionale Virtù civili Amore per la bellezza delle anime Conoscenza intellettiva Virtù catartiche Amore per la bellezza delle opere artistiche che rappresentano le idee ESTASI Raggiungimento di una felicità piena già durante la vita 432 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE LO SCRIGNO ALEX VILENKIN: L’UNIVERSO E’ CONTRADDITTORIO La concezione del mondo che è emersa dai nuovi sviluppi è a dir poco straordinaria. Per parafrasare Niels Bohr (scienziato del primo ‘900, uno dei padri della fisica quantistica, ndr), è abbastanza pazzesca per essere vera. Tale visione del mondo combina, in modo sorprendente, alcune caratteristiche apparentemente contraddittorie: l’Universo è sia infinito sia finito, evolve pur essendo stazionario, è eterno eppure ha avuto un inizio. Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, Cortina, 2007 (2006), p. 16 433 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE X VIAGGIO DIO PERSONA ONNIPOTENTE E AMOREVOLE 434 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA Dio mio, ch’io mi ricordi di ringraziarti e di confessare le tue misericordie a mio riguardo. Siano pervase le mie ossa del tuo amore e dicano: “Signore, chi è simile a Te? Tu hai spezzate le mie catene; farò un sacrificio di lode”. Racconterò in qual modo le hai spezzate e tutti i tuoi adoratori, udendolo, esclameranno: “Benedetto il Signore nel cielo e sulla terra; grande e ammirabile il nome suo”. Le tue parole mi erano rimaste scolpite nel più profondo del cuore e d’ogni parte ero assediato da Te. Della tua vita eterna avevo certezza, quantunque l’avessi vista in enigma e quasi attraverso uno specchio. Tuttavia ogni dubbio sull’incorrutibile sostanza e perché da essa derivi ogni sostanza m’era stato tolto ed io desideravo non di avere maggiore certezza di Te, ma più sicura stabilità in Te. Intanto nella mia vita temporale tutto vacillava: dovevo mondare il cuore dal fermento vecchio. Mi piaceva la via ch’è il Salvatore stesso, ma ancora mi rincresceva andare per le sue strettezze. Ma Tu mi facesti venire in mente, e la cosa parve buona ai miei occhi, di recarmi da Simpliciano, che mi appariva un servo tuo buono: in lui splendeva la tua grazia. Avevo sentito dire che fin dalla sua gioventù era vissuto con tutta dedizione a Te. Ora, però, egli era già vecchietto e avendo trascorso la lunga vita nel seguire con tanto impegno la tua via, mi pareva che avesse molta esperienza: ed era veramente così. Perciò volevo metterlo a parte della mia agitazione perché mi indicasse, travagliato com’ero, il modo migliore di camminare nella tua via. Vedevo infatti piena la Chiesa e chi andava per una strada e chi per un’altra. A me spiaceva vivere nel mondo e mi era di gran peso. E non erano più le passioni ad infiammarmi, come solevano, con la speranza di onore e lucro, a sopportare una schiavitù così gravosa. Ormai tutte quelle cose non mi attiravano più in confronto della tua dolcezza e della bellezza della tua casa che amavo: però mi teneva ancora tenacemente avvinto la donna. […] Io avevo già scoperta la perla preziosa e avrei dovuto vendere tutti i miei averi per comprarla; eppure ero esitante. […] Così due volontà in me, una vecchia e l’altra nuova, una carnale e l’altra spirituale, combattevano fra di loro e il loro conflitto lacerava l’anima mia. Così capivo per mia stessa esperienza quel passo che avevo letto: come la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito contrari alla carne. Ed io provavo gli uni e gli altri; ma ero più forte in quelli che dentro di me 435 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE approvavo che in quelli da me disapprovati: in questi, difatti, non era ormai il mio io, perché in gran parte li subivo contro voglia più che agire io stesso volontariamente. […] E non avevo più la scusa solita di prima, quando mi pareva che se non disprezzavo il mondo per servirti, la ragione si era perché non ero sicuro del possesso della verità. Ora invece ne avevo certezza. Ma intanto io, ancor tutto legato alla terra, ricusavo di militare per Te e temevo di esser liberato da ogni impedimento come si deve temere d’esserne intricato. Così il peso del mondo, come suol accadere nel sonno, mi opprimeva dolcemente e i pensieri che avevo per Te erano simili appunto ai tentativi di coloro che vogliono svegliarsi, ma vinti di nuovo s’immergono nel sonno profondo. […] Inutilmente mi compiacevo della tua legge secondo l’uomo interiore, mentre nella mie membra una legge diversa combatteva contro la legge del mio spirito e mi conduceva schiavo sotto la legge del peccato che era nelle mie membra. La legge del peccato è la violenza dell’abitudine, da cui l’anima è trascinata e posseduta anche contro suo volere; meritatamente, perché volendo vi si è lasciata andare. Me infelice! Chi mi avrebbe liberato dal corpo di questa morte se non la tua grazia, per opera di Gesù Cristo Signore nostro? […] In quella grande rissa della mia casa interiore, che io avevo scatenato violenta contro l’anima mia nella stanza del mio cuore, con faccia e anima sconvolte assalgo Alipio esclamando: “Che cosa ci tocca di vedere? Che accade? Che hai sentito? Sorgono gli ignoranti e si portano via il cielo e noi con la nostra scienza, senza senno, ecco dove ci voltoliamo: nella carne e nel sangue! Ci hanno preceduti; ci vergogniamo di seguirli. E non ci vergogniamo di non seguirli almeno?”. Dette press’a poco queste parole, in preda alla mia agitazione mi strappai a lui; egli in silenzio, attonito mi guardava. Infatti non era quello il mio solito parlare; meglio delle parole che mi sfuggivano esprimevano il mio stato d’animo la fronte, le guance, il colore, gli occhi, il tono della voce. Un giardino faceva parte della nostra casa ospitale, ed era a nostra disposizione, come tutta la casa, che non era abitata dal nostro ospite padrone della casa. La tempesta della mia anima mi aveva portato là, dove nessuno avrebbe potuto impedire la mischia ardente che avevo impegnato con me, fino a quell’esito che Tu sapevi ed io no. Ma frattanto impazzivo per aver senno e morivo per aver vita, conscio d’essere un grande male, inconsapevole del bene che tra poco sarei diventato. […] 436 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Mi strappai i capelli, mi battei la fronte, conserte le dita, abbracciai le ginocchia: tutto ciò feci perché volli. Avrei potuto vederlo e non farlo, se non mi avessero obbedito le membra con la loro agilità. […] Io quando andavo deliberando di servire ormai il mio Dio Signore, come da molto avevo disposto, ero io che volevo, ero io che non volevo; io, io ero. Non volevo totalmente, né totalmente non volevo: quindi ero in contesa con me stesso e dividevo me da me stesso. Questa divisione avveniva certo contro mia volontà, e mi dimostrava non già l’esistenza di un’anima di natura diversa, ma il tormento dell’anima mia. […] Sgorgarono fiumi di pianto dai miei occhi, sacrificio a Te gradito. Non con queste parole, ma in questo senso Ti dissi a lungo: “E Tu, o Signore, fino a quando? Fino a quando, o Signore, sarai adirato? Fino alla fine? Non ricordare le iniquità nostre antiche”. Sentivo di essere schiavo e mandavo gemiti strazianti. “Fino a quando, fino a quando, domani e domani? Perché non ora? Perché non è questa l’ora che segna la fine delle mie turpitudini?”. Così dicevo e piangevo con tutta l’amara desolazione del mio cuore. Quand’ecco sento venire dalla casa vicina un canto, come di un bimbo o di bimba, che diceva e spesso poi ripeteva: “Prendi, leggi; prendi, leggi”. Subito mutai faccia. Con tutta attenzione mi posi a riflettere se era costume dei fanciulli in qualche loro gioco cantare simile ritornello: non ricordavo per nulla d’averlo udito mai. Frenato l’impeto delle lacrime, mi rialzai sicuro di interpretare quello come un comando divino di aprire il libro e di leggere il primo passo che vi avessi trovato. Avevo, infatti, sentito raccontare che Antonio dalla lettura del Vangelo, a cui era per caso sopraggiunto, aveva accolto, come un avviso detto a lui, quel tratto che si leggeva: “Va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri; e avrai un tesoro nel cielo. Poi vieni e seguimi”. Per tale oracolo subito si era convertito a Te. Pertanto, in fretta tornai al luogo, in cui era seduto Alipio: là avevo deposto il libro dell’Apostolo, quando m’ero alzato. Lo afferrai, l’apersi, e, in silenzio, lessi il versetto che per primo mi cadde sott’occhio: “Non nelle gozzoviglie e nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e nelle impudicizie, non nella discordia e nell’invidia; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non prendetevi cura della carne nella concupiscenza”. Non volli leggere oltre: non ce n’era bisogno. Alla fine di questo passo subito, come se fosse infusa nel mio cuore una luce di certezza, tutte le tenebre del dubbio si dileguarono. 437 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ROTTA SU… NEOPLATONISMO ED ESISTENZIALISMO CRISTIANI Agostino di Tagaste è giustamente considerato il maggior esponente della Patristica, cioè della filosofia cristiana che, nata già nel II secolo d.C., si sviluppa nel periodo tardoimperiale e nell’Alto Medioevo. Agostino, infatti, è il primo pensatore cristiano che elabora una filosofia cristiana complessiva e sistematica in grado di rivaleggiare a pieno titolo con le filosofie antiche di matrice politeistica. La sua impresa filosofica si basa sulla fusione della filosofia neoplatonica, ma più in generale di tutta la tradizione filosofica platonica, con la precedente filosofia patristica e con la dottrina religiosa dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento. Tenendo presente che il neoplatonismo aveva già rifuso al suo interno elementi di quasi tutte le altre correnti filosofiche antiche (dall’aristotelismo allo scetticismo, allo stoicismo), è sensato dire che Agostino è il principale artefice di una operazione ideologico-culturale di portata epocale, di cui Agostino stesso è pienamente consapevole tanto da chiamarla esplicitamente “furto sacro”: l’appropriazione da parte della chiesa cristiana della filosofia antica allo scopo di fornire alla propria dottrina religiosa un fondamento razionale e una dignità culturale e di imporre così la propria egemonia ideologica sulla classe dominante e sull’élite intellettuale romana. In altre parole, con la sua filosofia Agostino dà un contributo decisivo alla sconfitta definitiva del politeismo e della filosofia antica utilizzando contro di loro proprio le armi filosofico-culturali che il neoplatonismo aveva forgiato e usato per combattere il cristianesimo. In questa prospettiva, il nodo preliminare da sciogliere per Agostino è quello del rapporto tra fede, ovvero dottrina cristiana, e ragione, ossia filosofia antica. Conciliando le diverse posizioni espresse dai precedenti padri della Chiesa, cioè dai primi filosofi cristiani, Agostino prospetta un rapporto di reciproco sostegno e potenziamento tra fede e ragione, e dunque si schiera nettamente a favore dell’accoglimento della tradizione filosofica antica, a partire però dal saldo e indiscutibile presupposto del primato della fede, cioè della verità rivelata da Dio nella Bibbia cristiana, composta dall’Antico ma soprattutto dal Nuovo Testamento (i quattro Vangeli, gli Atti degli apostoli, l’Apocalisse). Posto tale rapporto, ne consegue che l’accoglimento del neoplatonismo da parte di Agostino è tutt’altro che incondizionato. In parole più esplicite, Agostino non copia affatto il neoplatonismo, ma al contrario ne filtra rigorosamente le tesi, scartando quelle incompatibili con la dottrina cristiana (p.e. la dissoluzione del corpo) e modificandone altre (p.e. la teoria della caduta dell’uomo) in modo da renderle pienamente coerenti con essa. Da questa reinterpretazione creativa del neoplatonismo, ispirata dalla fede cristiana, nascono i cardini della filosofia agostiniana, che sono altrettanti cardini della nascente dottrina della chiesa cristiana: la teoria della verità come illuminazione delle menti umane da parte di Dio; la teoria della creazione della materia dal nulla da parte di un Dio assolutamente trascendente e onnipotente; la teoria della personalità e dell’amore di Dio; la teoria del tempo come prodotto della mente umana; la teoria del male, come 438 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE effetto del peccato originale dell’uomo; la teoria della salvezza attraverso la grazia divina; la teoria dello Stato come “città dell’uomo” - fondata sulla violenza e destinata a una fine violenta - e della chiesa come “città di Dio”, fondata sull’amore e destinata all’eternità; la teoria della storia come processo rettilineo segnato dall’evento centrale e discriminante dell’incarnazione di Dio come Gesù Cristo; la teoria dell’uomo come “immagine” di Dio e unità di anima e corpo. Se, per quanto detto finora, la filosofia di Agostino si configura come un neoplatonismo cristiano, bisogna però aggiungere che la creatività filosofica di Agostino presenta anche un’altra faccia, non meno importante e certamente ancor più originale: quella che si può denominare “esistenzialismo cristiano”, cioè una ricerca filosofica centrata sul mistero dell’esperienza vissuta unica e irripetibile dell’uomo in quanto singolo individuo e finalizzata a indicare la fede cristiana come la sola soluzione possibile a tale mistero. Le confessioni, l’opera più nota di Agostino, è proprio quella che contiene questa seconda e ancor più originale faccia della sua filosofia. Essa è una sorta di diario interiore, introspettivo, nel quale Agostino si mette a nudo, si confessa appunto, analizzando apertamente e impietosamente tutte le sue debolezze, i suoi difetti, le sue cattive azioni, ma anche cercando e alla fine trovando proprio dentro di sé, proprio nel suo io limitato e manchevole, la via che conduce alla verità e alla felicità, cioè a Dio. Da questo punto di vista, la filosofia di Agostino segna una rottura e una svolta rispetto a tutte le filosofie antiche e inaugura un indirizzo che avrà un seguito limitato in alcuni successivi filosofi per così dire solisti, di nicchia, quali Montaigne (XVI secolo), Pascal (XVII secolo), Kierkegaard (XIX secolo), ma che nel Novecento si affermerà come uno dei più rilevanti e diffusi, la “filosofia dell’esistenza” appunto. 439 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE VITA DI UN CAPITANO AGOSTINO DI TAGASTE Agostino di Tagaste rappresenta una rivoluzione nella storia della filosofia innanzitutto a livello biografico, non solo per le sue multiformi e tormentate vicende esistenziali, ma anche perché è il primo filosofo a scrivere un’autobiografia filosofica: Le confessioni. Dunque, nel suo caso disponiamo non solo di testimonianze altrui ma anche di informazioni biografiche di prima mano e non solo di informazioni parziali, relative ad alcuni episodi (desunte per esempio da lettere), ma complete, cioè relative a buona parte della sua lunga vita (Le confessioni furono scritte tra il 396 e il 400, Agostino morì nel 430). Agostino, infatti, nacque nel 354 a Tagaste (nel territorio dell’attuale Algeria, ma vicino al confine con l’attuale Tunisia), nella provincia romana della Numidia, figlio di un piccolo proprietario terriero e funzionario imperiale di religione politeistica e di una cristiana, entrambi berberi. Dunque, fin dalla nascita in Agostino convivono il vecchio – la religione politeistica tradizionale connessa alla cultura classica greco-romana – e il nuovo, una religione monoteistica legata alla cultura mediorientale ebraico-cristiana. Alla sua nascita regnava Costanzo II, figlio di Costantino il Grande, l’imperatore che aveva promulgato l’editto di Milano (313), legalizzando il cristianesimo, attribuendo beni e funzioni giudiziarie ai vescovi e avviando in tal modo la trasformazione della chiesa cristiana in un’istituzione con funzioni anche politiche. Anche per questo, nel corso del IV secolo aumentò il numero dei romani della classe media ma anche dell’aristocrazia che si convertivano al cristianesimo. Agostino aveva sette anni quando cominciò il breve regno di Giuliano, filosofo neoplatonico, che cercò di restaurare il culto politeistico come religione di Stato, fallendo e passando così alla storia come “l’Apostata”, cioè il rinnegato, marchio d’infamia attribuitogli dai cristiani di allora. Così si arrivò, nel 379, quando Agostino era 25enne, al regno di Teodosio, l’imperatore che, emanando l’editto di Tessalonica (380), proclamò definitivamente il cristianesimo unica religione di Stato e mise fuorilegge il culto politeistico, dando un nuovo, decisivo impulso all’adesione dei romani alla chiesa cristiana. Dunque, Agostino nacque e trascorse la sua infanzia e la sua giovinezza nel trentennio di massima contrapposizione e transizione tra due civiltà, quella antica e quella medioevale, ovvero di più conflittuale e rapido passaggio dal vecchio al nuovo. E, come vedremo, nella sua vita Agostino incarnò dentro di sé sia questo scontro di civiltà sia questo cambiamento epocale, diventandone l’emblema individuale. La sua formazione scolastica fu quella tradizionale romana, finalizzata a intraprendere la carriera di funzionario o oratore: la scuola di grammatica latina (Agostino non imparò mai il greco) a Tagaste, quindi a Madaura (città natale di Apuleio), e poi gli studi di retorica latina a Cartagine, dove iniziò la sua convivenza con una donna da cui ebbe un figlio nel 373. Ma non ancora 20enne, Agostino si appassionò alla lettura dell’Ortensio (il dialogo in 440 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE cui Cicerone elogia e propaganda lo studio della filosofia), scoprendo in sé il bisogno filosofico, l’esigenza di rispondere ai grandi interrogativi sul fine ultimo della vita, e quindi sul suo senso, suscitati dall’esperienza delle tante sofferenze che affliggono l’esistenza. Per rispondere a questi interrogativi, Agostino aveva a disposizione anche la Bibbia, alla cui lettura era sollecitato dalla madre Monica, che fin da piccolo gli aveva insegnato i fondamenti del cristianesimo, ma in questa fase della sua vita la rifiutò, perché la giudicava di basso livello culturale, a ragione del suo stile rozzo e dell’infantile concezione antropomorfica di Dio. Così, per nove anni, dal 374 al 383, Agostino soddisfò il suo bisogno di filosofia seguendo il manicheismo, una religione salvifica di origine persiana, che sosteneva l’esistenza di due principi divini contrapposti, uno positivo e uno negativo, di uguale potenza, e che considerava il mondo fisico, cioè la materia, come una produzione della divinità maligna, spiegando in tal modo la presenza del male nella vita umana e proponendo la vita spirituale ultraterrena come unica alternativa alla sofferenza. Agli occhi del ventenne Agostino il manicheismo sembrava offrire una spiegazione razionale della realtà fisica, e soprattutto della presenza in esso del male, e una giustificazione all’immoralità della sua vita, in particolare alla sua irresistibile attrazione per i piaceri fisici, innanzitutto quelli sessuali. In questi anni Agostino diventò maestro di grammatica a Tagaste e poi di retorica a Cartagine. Nel 382, ormai convinto di poter insegnare a Roma, vi si trasferì con la sua convivente e il figlio. Nell’Urbe, Agostino fu subito apprezzato e in breve gli fu proposta una cattedra di retorica a Milano. Si trattava di un incarico di grande prestigio perché Milano, a partire da Diocleziano, era diventata la capitale dell’Impero romano d’Occidente. Sul piano filosofico, nel breve soggiorno romano, Agostino, rendendosi sempre più conto dei limiti dottrinali del manicheismo, se ne allontanò e abbracciò lo scetticismo, ovvero si convinse dell’impossibilità umana di conoscere la verità intorno ai grandi problemi della vita. Trasferitosi a Milano, dove cominciò subito a insegnare, Agostino fu raggiunto dalla madre che lo convinse ad abbandonare la sua convivente, in modo da poter combinare un matrimonio con una cattolica di famiglia ricca. Tuttavia, una volta che la sua compagna partì per l’Africa, Agostino, in attesa del matrimonio, concordato per due anni dopo a causa della giovane età della promessa sposa, iniziò una convivenza con un’altra donna. Ma soprattutto a Milano, incuriosito dalla sua fama di oratore, Agostino andò ad ascoltare le prediche del vescovo Ambrogio e ne fu sempre più affascinato. Ambrogio era un esponente dell’antica famiglia aristocratico-senatoriale degli Aurelii, che si era convertita al cristianesimo già nel III secolo a.C. anticipando la scelta successiva di molte altre famiglie aristocratiche e in seguito dell’intera aristocrazia romana. Prima di diventare vescovo di Milano aveva frequentato le migliori scuole di Roma, aveva studiato anche filosofia e in particolare il neoplatonismo. Dopo la sua nomina imperiale a vescovo, aveva costituito intorno al lui un circolo religioso-filosofico che si proponeva di conciliare cristianesimo e neoplatonismo. Questo spiega come mai Agostino fu affascinato dalle prediche di Ambrogio: esse univano lo stile retorico ciceroniano all’interpretazione allegorica, ossia in 441 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE chiave filosofico-razionale, della Bibbia, rendendo così letterariamente e razionalmente dignitosi per Agostino quei testi che in gioventù aveva disprezzato per la loro sciatteria stilistica e per il semplicismo dei loro contenuti. Agostino che, fino a quel momento, non avendo imparato il greco, aveva conosciuto la filosofia platonica indirettamente, attraverso le opere di Cicerone, e forse anche attraverso le traduzioni latine del Timeo e del Fedone, fu indotto a leggere le nuove traduzioni delle opere di Plotino e del discepolo Porfirio, intuendo innanzitutto che la concezione di Cristo come Verbo (il Lògos) proposta dal Vangelo di Giovanni era il fulcro su cui far leva per arrivare a una sintesi tra cristianesimo e neoplatonismo, ovvero tra fede e ragione. Questa intuizione fu il catalizzatore della conversione al cristianesimo di Agostino, che comunque avvenne lentamente tra il 384 e il 386, dal momento che comportò il sofferto abbandono della sua seconda convivente, la rinuncia al suo incarico di insegnante di retorica, il rigetto dei suoi progetti di carriera politica e lo scioglimento della sua promessa di matrimonio, cioè un radicale e totale cambiamento della sua vita, incoraggiato e confortato dalla madre. La decisione definitiva della conversione avvenne in un paesino della Brianza dove Agostino si era ritirato con la madre e alcuni amici per fare esperienza di una vita comunitaria dedita alla ricerca filosofico-religiosa. Agostino nelle Confessioni racconta che i giorni passavano, lui continuava a meditare, a riflettere, ma finiva sempre con il rinviare la decisione definitiva, vergognandosi e tormentandosi per la sua irresolutezza, finché non sentì provenire da una casa vicina una cantilena fanciullesca che ripeteva “prendi e leggi”. Poiché le parole non corrispondevano a quelle di nessuna cantilena infantile, Agostino si convinse che fosse la voce divina che lo esortava ad aprire a caso la Bibbia e a leggere, così aprì la Bibbia e lesse un brano della Lettera ai Romani di Paolo che esortava ad abbandonare i vizi della carne per abbracciare lo spirito di Cristo. Agostino sentì che questa esortazione era mirata proprio a lui, dato che ciò che gli impediva di fare il grande passo era proprio il suo indomabile desiderio di piaceri fisici. L’emozione fu tale che in quel momento credette davvero e decise definitivamente di convertirsi. In seguito, Agostino commentò la sua conversione dicendo che il suo problema era che cercava Dio fuori di sé, cioè esigendo delle prove della sua esistenza nel mondo, mentre Dio stava dentro di lui, cioè nella sua interiorità, dove alla fine lo aveva trovato. Così nel 387, a 33 anni, Agostino si fece battezzare da Ambrogio e poi decise di tornare a Tagaste, nel podere di famiglia, insieme al figlio e alla madre, che però morì poco prima della partenza. A Tagaste fondò con alcuni amici una comunità cattolica laica e approfondì la sua conoscenza del neoplatonismo e della Bibbia. In seguito alla morte del figlio nel 391, decise di fondare un monastero a Ippona – una città dell’allora Numidia, attuale Algeria – ma la comunità cattolica e il vescovo di Ippona lo convinsero a ordinarsi sacerdote e a impegnarsi come tale nella diocesi. Nel 396, a 42 anni, Agostino diventò vescovo di Ippona e da allora, nei suoi restanti 34 anni, diresse la diocesi, combatté i manicheisti e i movimenti cristiani considerati eretici (donatismo e pelagianesimo), insegnò e scrisse le sue opere più importanti: Le confessioni (396-400) che, insieme al precedente Soliloqui (386) e al finale Ritrattazioni, contengono la filosofia esistenzialistica di Agostino; La 442 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Trinità (399-419), La città di Dio (413-426), La grazia e il libero arbitrio (427), che sono invece i suoi più importanti trattati di contenuto filosofico-teologico. In particolare, la composizione di La città di Dio è strettamente legata agli eventi storici dell’inizio del V secolo. Nel 405-406, una nuova ondata di popoli germanici invase l’impero romano d’Occidente. Nel 410, uno di questi popoli, i Visigoti, al comando di Alarico, espugnò e saccheggiò Roma. Per i cittadini dell’impero fu un evento epocale: Roma, considerata città invincibile e quindi eterna, era stata conquistata e distrutta da un’orda di barbari. Le emozioni che il primo sacco di Roma suscitò negli uomini dell’epoca sono paragonabili a quelle suscitate in noi uomini contemporanei dalla distruzione delle Twin Towers di New York nel 2001. L’evento spinse Agostino a scrivere La città di Dio, allo scopo di rassicurare i suoi contemporanei indicando nella Chiesa l’istituzione capace di sostituire lo Stato romano. Negli anni successivi, i Vandali, un altro popolo germanico, guidati da Genserico, dalla penisola iberica giunsero nel 429 nell’Africa romana e nel 430 posero l’assedio a Ippona. Durante l’assedio vandalo, Agostino morì. 443 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 1 AGOSTINO: LA VERITA’ E’ ILLUMINAZIONE DIVINA Dio stesso, che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto dire nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate Dio e siate forti; cercate sempre il suo volto. Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre, non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché il Salmista non dice: “Si rallegri il cuore di coloro che trovano”, ma: di coloro che cercano il Signore? E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo si cerca, lo testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi, l’empio abbandoni le sue vie e l’iniquo i suoi pensieri. Se dunque, cercandolo, si può trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il suo volto? Sarà forse che, anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava. Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande, che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È in questo senso che si può intendere l’affermazione che l’Ecclesiastico pone in bocca della Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro che mi bevono avranno ancora sete. Mangiano infatti e bevono, perché trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca, l’intelligenza trova; per questo il Profeta dice: Se non crederete, non comprenderete. E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo ispirato, per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio. Dunque per questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio. Agostino, La Trinità, 2-2 AGOSTINO: Dunque, per iniziare dalle cose più evidenti, ti chiedo anzitutto se tu stesso esisti. Temi forse di ingannarti in questo dialogo? Ma se tu non esistessi non potresti nemmeno ingannarti. EVODIO: Vai pure avanti. 444 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE AGOSTINO: Dunque poiché ti è evidente che esisti e non lo sarebbe se non vivessi, è anche evidente che vivi. E comprendi che queste due cose sono assolutamente vere? EVODIO: Lo capisco perfettamente. AGOSTINO: Dunque ti è chiara anche questa terza cosa: che tu comprendi. EVODIO: Sì, mi è chiaro. Agostino, Il libero arbitrio, libro II, 3-7 Né si può mettere in dubbio che la natura immutabile, che è al di sopra dell’anima razionale, sia Dio e che dove si trovano la prima vita e la prima essenza là si trova anche la prima sapienza. Questa infatti è la verità immutabile che, a buon diritto, è detta legge di tutte le arti e arte dell'artefice onnipotente. Quindi l'anima, in quanto si rende conto che non giudica della bellezza e dei movimenti dei corpi in base a se stessa, bisogna che riconosca che, se la propria natura è superiore a quella di ciò che giudica, invece è inferiore a quella in base alla quale giudica e della quale in nessun modo può giudicare. Io posso dire per quale motivo vi deve essere corrispondenza simmetrica tra le parti simili di ciascun corpo, perché mi compiaccio di quella somma proporzione che di certo non scorgo con gli occhi del corpo ma con quelli della mente. Pertanto giudico ciò che scorgo con gli occhi tanto migliore quanto più, per sua stessa natura, è più vicino a ciò che colgo con l’anima. Perché poi le cose stiano così nessuno lo può dire, come pure nessuno potrebbe in modo rigoroso affermare che devono essere così, quasi che potessero essere diversamente. Agostino, La vera religione, 31-57 Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te, ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore e, se troverai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò un’armonia insuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa. Confessa di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la disposizione della mente, in modo che l’uomo interiore potesse congiungersi 445 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne, ma in quello supremo dello spirito. Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo. In questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Essa non si può percepire né con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le rappresentazioni che gli occhi stessi imprimono nell’anima, ma con quelli con cui alle stesse rappresentazioni diciamo: “Non siete voi ciò che io cerco, e non siete neppure il principio in base al quale vi dispongo in ordine; ciò che trovo di brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di bello; ma, poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più e lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dai quali vi ho attinte”. Quindi questa regola che tu constati formulala così: chiunque comprende che sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita dell'esistenza della verità, ha in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto dubitare per qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere rappresentata né in forma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono corrompersi da qualche parte? No, benché perisca o diventi vecchio tra gli esseri carnali inferiori chiunque possiede l’uso di ragione. In realtà, il ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano. Agostino, La vera religione, 39-73 Il presupposto della filosofia di Agostino è la fede in Dio in quanto verità assoluta. Come tale Dio si rivela attraverso Bibbia. La fede in Dio, dunque, per Agostino consiste nella totale accettazione della rivelazione, ossia nell’assunzione dell’Antico e del Nuovo Testamento come fonti indubitabili e inoppugnabili di verità. Ma allora, se la verità divina è già stata rivelata all’uomo nella Bibbia, e l’uomo deve sottomettersi ad essa, che funzione, e dunque che valore, può avere la ragione, ossia la ricerca filosofica e più in generale la conoscenza umana? Questo è il problema di partenza della filosofia agostiniana, e più in generale di ogni filosofia religiosa, ossia basata sulla fede in una rivelazione divina depositata in una sacra scrittura. Un problema insidioso, perché, almeno in prima battuta, la verità razionale, cioè 446 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE cercata e scoperta dall’uomo, sembra essere incompatibile con la verità divina, cioè esterna all’uomo e da lui passivamente ricevuta. Agostino affronta questo problema e lo risolve trasformando innanzitutto la difficoltà in un opportunità. Egli sostiene, infatti, che senza la fede in una verità originaria ed eterna la ragione umana è priva di un criterio di orientamento, si degrada a curiositas, cioè si disperde in una molteplicità di nozioni futili, e in ultima analisi non riesce ad approdare ad alcun risultato, cioè non riesce a conseguire alcuna salda verità. In questo modo, la ragione non può che perdere fiducia in se stessa e abbandonarsi al dubbio, cioè cadere nell’abbraccio soffocante dello scetticismo. Secondo Agostino, la fede è l’unico rimedio a tale deriva rinunciataria della ragione, in quanto innanzitutto offre alla ragione la certezza nell’esistenza della verità e, in secondo luogo, le indica dove trovarla: in Dio e nel cammino che conduce a lui. Usando una metafora, si potrebbe dire che per Agostino la fede è la bussola del viaggio conoscitivo che altrimenti non saprebbe che direzione seguire. D’altra parte, sostiene Agostino, la fede non rende affatto superflua la ragione e anzi ne ha bisogno in quanto indispensabile complemento. Anche la fede, infatti, è perenne ricerca di Dio, ovvero è un processo acquisitivo interminabile, e la ragione le è indispensabile per trovare Dio, ossia per poter approfondirsi e rafforzarsi fino a raggiungere la sua meta ultima: la salvezza eterna. Ma in che modo la ragione può favorire la fede? Aiutandoci, risponde Agostino, a comprendere la verità rivelata. Infatti, la ricezione della parola di Dio da parte dell’uomo non può essere soltanto passiva, ma deve implicare un’attività interpretativa, ovvero deve essere mediata dalla ragione umana. In altri termini, la ragione ha il compito di decifrare l’autentico messaggio contenuto nel testo biblico poiché la verità divina, data la sua complessità, non è contenuta immediatamente nella lettera di alcuna singola parte della Bibbia, ma è presente mediatamente nello spirito dell’intero testo biblico. In questo senso, Agostino prospetta un circolo virtuoso tra fede e ragione, che è stato poi sintetizzato nella formula esortativa “credi per conoscere e conosci per credere” (crede ut intelligas, intellige ut credas). In termini più attuali, Agostino sostiene un rapporto di feedback, di retroazione, cioè di continuo rafforzamento reciproco, tra fede e ragione: la fede orienta e sprona la ragione, la ragione chiarisce e potenzia la fede che in tal modo orienta ancora più precisamente e sprona con ancor maggior vigore la ragione, e così via. Si 447 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE tratta, afferma Agostino, di un circolo perenne, destinato a durante quanto la vita di ogni uomo, perché Dio è infinito e dunque è infinita la verità, ovvero la comprensione della parola biblica. Ogni volta che la ragione, indirizzata e spronata dalla fede, trova Dio, questo risultato è a sua volta la base per cominciare una nuova più vasta e approfondita ricerca dell’inesauribile verità divina. Insomma, grazie al rapporto circolare fede/ragione l’uomo, secondo Agostino, acquisisce sempre più conoscenza ma al tempo stesso non la esaurisce mai: la sua identità consiste proprio nell’incremento continuo della propria conoscenza del mondo in quanto strumento per intensificare il più possibile la propria fede in Dio. La fecondità conoscitiva del circolo fede/ragione è posta da Agostino alla prova della questione preliminare della filosofia, ovvero la possibilità stessa che l’uomo possieda una ragione, cioè la sua capacità di conoscere la verità. Allo scetticismo, che aveva confutato tale capacità, Agostino ribatte con un fuoco di fila di argomentazioni controconfutative, che possono essere così sintetizzate: 1. L’atto mentale stesso del dubitare presuppone l’esistenza e la comprensione della verità, in quanto dubitare di qualcosa significa giudicare che non è vera, ma non potremmo giudicare che qualcosa non è vero se non possedessimo il criterio della verità. 2. Si fallor, sum, cioè se mi inganno, esisto: anche qualora il mio pensiero si ingannasse, io possiedo una verità certa, cioè l’indubitabile esistenza del pensiero, in quanto l’errore del pensiero presuppone la sua esistenza, cioè l’attività pensante. 3. Non possiamo dubitare di vivere, in quanto il dubitare presuppone l’esistenza del dubitante; perfino se sognassimo sempre, anche da svegli, sarebbe certo che viviamo, perché non si può sognare senza vivere; dunque il fatto che viviamo è una verità indubitabile e il fatto che sappiamo di vivere attesta che la ragione umana è in grado di conoscere la verità. Così argomentato che la ragione umana è in grado di conoscere la verità, Agostino spiega come sia possibile che l’uomo la conosca e delinea il metodo conoscitivo con cui l’uomo può effettivamente giungere ad essa. Agostino comincia col rilevare che la fonte primaria della nostra conoscenza, cioè la sensazione, non ha una natura fisica ma mentale. Non è il corpo che sente, ma è la mente che sente utilizzando il corpo come un mezzo. Infatti, innanzitutto è solo grazie all’attenzione (intentio), cioè a un’operazione mentale, che l’uomo può conoscere la modificazione prodotta sui propri organi di senso dalle cose 448 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE fisiche (tant’è vero che quando siamo distratti non sentiamo). In secondo luogo, in base allo stimolo di questa modificazione, la mente trae da se stessa la rappresentazione delle cose fisiche. In altre parole, è la mente che produce le effettive sensazioni. Oltretutto, continua Agostino, la conoscenza sensibile è solo il punto di partenza. Per giungere a una conoscenza completa, e dunque vera, occorre la conoscenza razionale la quale innanzitutto giudica le sensazioni, cioè ne stabilisce l’effettivo contenuto conoscitivo (p.e., se vediamo un remo spezzato in acqua la ragione decreta che è un’apparenza ottica), e in secondo luogo ordina i contenuti delle sensazioni classificandoli (p.e., “questo è un pesce”) e riconducendoli a regolarità generali (p.e., “il fuoco brucia il legno”). I criteri in base ai quali la ragione umana giudica e ordina le sensazioni, secondo Agostino, non derivano dalle sensazioni stesse, cioè dall’esperienza sensibile, ma sono innati nella mente. Infatti, argomenta Agostino, le sensazioni sono singolari e mutevoli, mentre i criteri della conoscenza razionale sono universali e immutabili. Per esempio, chiarisce Agostino, se giudichiamo un viso simmetrico, lo possiamo fare perché cogliamo un rapporto unitario tra le parti e il tutto, e al contempo riconduciamo alcune parti all’uguaglianza e altre alla differenza. Ma appunto unità, uguaglianza, differenza, e quindi simmetria, sono criteri mentali universali e immutabili, non derivabili dall’esperienza, dal momento che l’esperienza è sempre singolare, molteplice e mutevole. Ma da dove derivano, allora, i criteri razionali della mente? Agostino argomenta che essi non possono essere un prodotto della stessa mente umana, dal momento che il pensiero umano è mutevole e oltretutto fallibile, e conclude che essi non possono che essere l’impronta nella mente umana di enti puramente razionali esterni ad essa, cioè delle idee. Ma come si spiega l’esistenza delle idee? Ovvero: cosa sono effettivamente le idee? La risposta, per Agostino, è semplice: le idee altro non sono che concetti di Dio, cioè i contenuti della sua mente. Dunque, la mente umana può giungere a una conoscenza vera perché Dio, cioè la Verità assoluta e totale, le ha infuso i criteri razionali necessari a ricercare e trovare la verità, fermo restando che, essendo finita, la mente umana potrà conoscere solo parzialmente la verità. In questo senso, Agostino afferma che la mente umana può conoscere perché Dio la illumina. Dio, infatti, in quanto Verità, è come la luce che rende possibile la visione fisica degli oggetti sensibili. Fuor di metafora, la mente umana può cogliere e applicare i criteri razionali indispensabili per conoscere solo grazie al fatto che è correlata e in comunicazione con Dio e dunque è pervasa dalla razionalità divina. 449 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In conclusione, la ricerca conoscitiva per Agostino parte e si svolge principalmente non fuori della mente, ma all’interno della mente, non cercando nel mondo fisico, ma dentro di sé, nella propria interiorità, nella propria anima razionale. 450 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 2 AGOSTINO: LA CREAZIONE DEL MONDO E’ UN ATTO D’AMORE DI DIO Il potere del vero Dio è tale che non può rimanere nascosto totalmente alla creatura razionale, una volta che abbia cominciato a far uso della ragione… tutta la specie umana confessa che Dio è creatore del mondo. Tralasciando anche la testimonianza dei profeti, il mondo stesso, con la sua ordinatissima verietà e mutabilità, e con la bellezza di tutti gli oggetti visibili, proclama tacitamente di essere stato fatto, e fatto da Dio ineffabilmente e invisibilmente grande, ineffabilmente e invisibilmente bello. Agostino, La città di Dio Tu non ami certamente che il bene, perché buona è la terra con le alte montagne, le modulate colline, le piane campagne; buono il podere ameno e fertile, buona è la casa ampia e luminosa, dalle stanze disposte con proporzioni armoniose, buoni i corpi animali dotati di vita; buona l’aria temperata e salubre; buono il cibo saporito e sano; buona la salute senza sofferenze né fatiche; buono il viso dell’uomo, armonioso, illuminato da un soave sorriso e vivi colori; buona l’anima dell’amico per la dolcezza di condividere gli stessi sentimenti e la fedeltà dell’amicizia; buono l’uomo giusto e buone le ricchezze, che ci aiutano a trarci d’impaccio; buono il cielo con il sole, la lune e le stelle; buoni gli Angeli per la loro santa obbedienza; buona la parola che istruisce in modo piacevole e impressiona in modo conveniente chi l’ascolta; buono il poema armonioso per il suo ritmo e maestoso per le sue sentenze. Che altro aggiungere? Perché proseguire ancora nell’enumerazione’ Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il quello e contempla il bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la sua bontà da un altro bene, ma è il Bene di ogni bene. Infatti fra tutti questi beni noi non potremmo dire che uno è migliore dell’altro, se non fosse impressa in noi la nozione del bene stesso. E’così che noi dobbiamo amare Dio. Non come questo o quel bene, ma come il Bene stesso. Agostino, La Trinità 5. II mondo è il più grande degli esseri visibili, Dio il più grande degli esseri invisibili. Noi percepiamo l'esistenza del mondo, l'esistenza di Dio la crediamo. E crediamo che Dio abbia creato il mondo perché nessuno ne può dare la certezza che ne dà Dio stesso. Dove abbiamo udito la sua voce? In nessun luogo frattanto così bene come nelle Scritture sante, in cui ha detto un suo Profeta: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Questo Profeta non era 451 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE presente quando Dio creò il cielo e la terra, ma v’era la sapienza di Dio, mediante la quale furono fatte tutte le cose. Essa si svela nelle anime sante, forma gli amici di Dio e i Profeti, fa conoscere nel silenzio le opere di lui. Parlano loro anche gli angeli di Dio che vedono sempre la faccia del Padre e annunziano il suo volere a chi è dovuto. Uno di essi era il Profeta che ha detto e scritto: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ed egli è teste tanto idoneo a farci credere in Dio appunto perché mediante l'ispirazione divina, con cui conobbe queste verità rivelategli, ha previsto anche tanto tempo prima che si sarebbe avuta la nostra fede. 21. Egli dunque ha intuito che è bene ciò che ha fatto dove ha intuito che è bene il farlo. E non ha duplicato o aumentato in qualche aspetto la propria scienza perché ha intuito l'opera dopo che era stata fatta, come se avesse una scienza minore prima di fare ciò che intuiva. Egli non produrrebbe le cose nella loro interezza mediante una scienza nella sua interezza, se non perché ad essa non viene aggiunto nulla da parte delle opere prodotte. Pertanto se ci si dovesse far sapere soltanto chi ha fatto la luce, basterebbe dire: "Dio ha fatto la luce"; se invece non soltanto chi l'ha prodotta, ma per mezzo di che cosa l'ha prodotta, basterebbe questa frase: E Dio ha detto: Sia fatta la luce e la luce fu fatta. Apprendiamo così non soltanto che Dio l'ha prodotta ma che l'ha prodotta per mezzo del Verbo. Siccome era opportuno che principalmente tre concetti ci fossero comunicati sul creato, chi l'ha creato, per mezzo di che cosa l'ha creato, perché l'ha creato, è scritto: Dio ha detto: Sia fatta la luce e la luce fu fatta. E Dio vide che la luce era buona. Se dunque chiediamo chi l'ha prodotta, si risponde: Dio; se per mezzo di che cosa: Ha detto: Sia fatta, ed è stata fatta; se perché è stata fatta: Perché è buona. E non vi è autore più eccellente di Dio, idea più efficiente del Verbo, ragione più buona che un essere buono fosse creato da un Dio buono. Agostino, La città di Dio, Libro XI 2. 4. Supponiamo però che non dicano: "Come mai Dio decise all'improvviso di creare il cielo e la terra?", ma tolgano dalla frase l'avverbio "all'improvviso" e dicano soltanto: "Perché Dio decise di creare il cielo e la terra?". Noi infatti non diciamo che questo mondo è coevo a Dio, poiché l'eternità di questo mondo non è la medesima di quella di Dio; certamente Dio fece il mondo e così, con la stessa creatura che Dio fece, i tempi iniziarono ad essere, e perciò sono detti tempi eterni. I tempi tuttavia non sono eterni com'è eterno Dio, per il fatto che Dio esiste prima della successione dei tempi essendo lui l'artefice dei tempi; allo stesso modo che sono buone tutte le cose create da Dio, ma non sono buone com'è buono Dio poiché è stato lui a crearle, mentre quelle sono state create. Dio però non le ha generate dal proprio essere affinché fossero 452 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE ciò che è lui, ma le ha create dal nulla affinché non fossero uguali né a lui, dal quale sono state create, né al proprio Figlio per mezzo del quale sono state create, poiché ciò è giusto. […] 5. 9. […] Quanto invece all'affermazione della Scrittura: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, con l'espressione "cielo e terra" viene indicato tutto l'universo creato e ordinato da Dio. Queste realtà sono denotate con un termine proprio di quelle visibili a causa della debolezza dei piccoli, che sono meno capaci di comprendere le realtà invisibili. Da principio fu dunque creata la materia confusa e disordinata, affinché a partire da essa fossero fatte le cose ora distinte e formate; credo che ciò i Greci lo chiamino chàos. Così infatti anche in un altro passo della Scrittura, tra le lodi di Dio, leggiamo la frase: Tu che hai creato il mondo da una materia senza forma, o, come hanno altri manoscritti: da una materia invisibile. 6. 10. Ecco perché è assolutamente conforme alla ragione credere che Dio creò tutto dal nulla poiché, anche se tutte le cose con le loro forme particolari furono create a partire da questa materia, tuttavia questa stessa materia fu creata dal nulla assoluto. Noi infatti non dobbiamo assomigliare a siffatti individui i quali non credono che Dio onnipotente potesse creare qualcosa dal nulla in quanto vedono che gli artefici e gli operai di qualsiasi specie non possono costruire alcun oggetto se non hanno una materia con cui foggiare o fabbricare qualcosa. In realtà, perché possa compiere la sua opera, al carpentiere occorre il legname, all'argentiere l'argento, all'orefice l'oro, al vasaio l'argilla. Se infatti essi non si servono della materia con cui fanno un oggetto, non possono far nulla, in quanto non sono essi a creare la materia. Non è certamente il carpentiere che crea il legno e così dicasi di tutti gli altri di simil genere. Dio onnipotente, al contrario, non aveva bisogno di servirsi d'alcuna cosa non creata da lui per compiere ciò che voleva. Poiché, se per le cose che voleva creare gli fosse servita qualcosa ch'egli non aveva creato, non era onnipotente; ma credere una simile cosa è un sacrilegio. Agostino, La Genesi contro i manichei, Libro I Secondo Agostino, Dio, oltre a essere Verità assoluta, è anche il creatore unico del mondo, cioè del cosmo fisico. La teoria agostiniana della creazione presuppone dunque la tesi dell’esistenza di Dio. Questa tesi, a sua volta, scaturisce, come si è visto, dalla fede nella rivelazione che Dio fa di sé attraverso la Bibbia. Tuttavia, la ragione è in grado di 453 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE corroborare questa primaria verità di fede. Per questo, Agostino propone tre argomentazioni razionali a favore dell’esistenza di Dio: 1. La prima – chiamata in seguito “consensus gentium” (condivisione universale) – si basa sulla premessa che tutti gli uomini, in tutti i tempi e in ogni luogo, hanno avuto e hanno l’idea che il mondo sia stato prodotto da Dio. Da questa premessa, Agostino inferisce che Dio esiste necessariamente, sottintendendo che un accordo così generale e perenne tra gli uomini (che per il resto hanno opinioni diversissime e variabilissime) si spiega soltanto grazie alla potenza rivelativa (la “luce”) di Dio. 2. La seconda argomentazione fa leva sulla constatazione che il cosmo ha una dimensione enorme, contiene miriadi di enti tra loro diversissimi e oltretutto in continuo mutamento, eppure è incredibilmente bello, ovvero è armonicamente ordinato. Agostino ne inferisce che il cosmo debba essere stato generato da Dio, sottintendendo che solo un essere intelligente e onnipotente può generare un cosmo con quelle caratteristiche. 3. La terza argomentazione si impernia sul rinvenimento nel mondo di diversi tipi e gradi di bene, cioè di cose e proprietà buone per l’uomo: p.e. il calore del sole, piuttosto che l’ombra degli alberi o il latte fornito dalle mucche. Agostino ne inferisce che deve esistere un bene assoluto, ossia Dio, perché altrimenti ci mancherebbe il metro di giudizio per poter stabilire che un bene terreno è superiore o inferiore a un altro. Val la pena di notare, che Agostino elabora le tre argomentazioni dell’esistenza di Dio en passant, “di sfuggita”, ossia non le considera centrali per la sua riflessione filosofica e le enuncia in modo sintetico, quasi solo abbozzato. E non potrebbe essere altrimenti, visto che per lui l’esistenza di Dio è, più che qualsiasi altra tesi, una verità di fede raggiungibile attraverso una ricerca individuale dentro di sé, cioè scandagliando la propria esperienza di vita. Al contrario, Agostino dedica molto impegno all’elaborazione della sua teoria della creazione, che indubbiamente costituisce una svolta nel pensiero filosofico occidentale, a maggior ragione perché avviene subito dopo, e sulla base, di un’altra grande svolta, quella di Plotino, basata appunto sull’invenzione del nuovo concetto della “creazione”. Com’è possibile, allora, che la teoria di Agostino rappresenti un’ulteriore svolta rispetto a quella di Plotino? Perché la creazione di Dio, secondo Agostino, avviene dal nulla, a partire semplicemente dalla sua “parola” (“E Dio disse…”), ovvero dal suo pensiero. In altri termini, Dio, in 454 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE quanto pura mente razionale, evoca il mondo, e in primis la materia che lo costituisce, senza usare niente, ovvero non si serve né di una sostanza indipendente da lui (come la chòra-chàos del demiurgo platonico) né della sua stessa sostanza puramente razionale (come l’Uno di Plotino). In seguito, questa tesi agostiniana verrà canonizzata nella definizione di creazione come produzione del mondo da parte di Dio “ex nihilo sui et subiecti”, cioè da niente di se stesso e da niente di qualcosa che gli sia inferiore, ossia che sia comunque altro da lui. Le implicazioni di questa ridefinizione del concetto di creazione sono molteplici e dirompenti, e ci fanno comprendere ancora di più e ancor meglio la portata della svolta di Agostino (e in generale del pensiero filosofico cristiano). La teoria agostiniana della creazione: da un lato, assolutizza la trascendenza divina: in quanto produce il mondo ex nihilo sui – cioè in quanto il mondo non è il prodotto di una trasformazione della sostanza divina, e dunque non ha alcuna commistione con Dio, ossia è totalmente altro da lui –, Dio non è solo infinitamente superiore al mondo, ma è assolutamente diverso dal mondo, perché il mondo è fatto di qualcosa (la materia spaziotemporale) che è assolutamente differente da ciò di cui è fatto Dio (pura razionalità senza tempo né spazialità); dall’altro lato, massimizza l’onnipotenza di Dio: in quanto produce il mondo ex nihilo subiecti – cioè in quanto il mondo non deriva da una materia autonoma ma da una materia prodotta esclusivamente dal pensiero divino – Dio ha un dominio totale sul mondo fisico, la sua potenza è infinita, senza limiti. Per entrambi questi aspetti, Agostino enfatizza la consapevolezza e la volontarietà della creazione. Proprio perché Dio è assolutamente trascendente e infinitamente potente, la creazione del mondo è più che mai una decisione cosciente e intenzionale. In altre parole, Dio, essendo onnipotente, avrebbe anche potuto non creare il mondo. Se lo ha creato, ha voluto crearlo, e se ha voluto crearlo deve aver avuto un motivo razionale. Ma, proprio perché le cose stanno così, Agostino non può non porsi una domanda: perché Dio ha creato il mondo? Qual è la ragione che ha motivato la sua decisione di creare? La risposta è perché Dio è amore. In altre parole, Dio ha deciso di creare il mondo per amore delle creature, cioè di tutti gli esseri che ha creato; la creazione è dunque per Agostino un atto d’amore. Ciò significa che Dio vuole e fa il bene delle creature, ma non per un freddo e distaccato ragionamento, o per semplice compassione, ma per il più intenso dei sentimenti, l’amore appunto. 455 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE In quanto è cosciente, vuole e ama, Dio non è un principio impersonale, o una legge, ma è un essere personale. In altre parole, Dio è una persona come l’uomo, salvo che l’uomo è una personalità finita, Dio una personalità infinita. Un aspetto dell’infinitezza della pesonalità divina è, per Agostino, il suo carattere trinitario: Dio è, a un tempo, tre persone distinte. In questo senso, la teoria dell’amore di Agostino è strettamente legata alla sua interpretazione filosofica del dogma della trinità divina. Per Agostino, infatti, tale dogma significa che Dio è una sola essenza (o sostanza) distinta in tre persone: il padre, ossia l’essere; il figlio, ossia il conoscere; lo spirito santo, cioè l’amare. Insomma, Dio è l’unità di tre distinte facoltà: l’esistenza, l’intelligenza e l’amore. Essendo Dio infinito, queste facoltà divine, a differenza di quelle umane, sono infinite. La creazione si spiega solo considerando tutte e tre: Dio amando infinitamente il mondo decide di crearlo finalizzandolo al massimo bene; possedendo infinitamente l’essere trae la materia dal nulla; essendo infinitamente intelligente le impone l’ordine che le permetta di raggiungere il più alto livello di bene possibile. Ma com’è possibile che Dio sia al tempo stesso una persona e tre persone? Agostino lo spiega sostenendo che le tre personalità divine non appartengono all’essenza di Dio, che dunque rimane assolutamente unica, ma alla sua relazionalità, cioè al fatto che l’essenza unica di Dio possiede l’attributo della relazione: Dio è sia “padre di” sia “figlio di” e sia “amore reciproco di”, e ognuna di queste relazioni rimanda alle altre due, senza le quali non potrebbe sussistere. Ma, ciò chiarito, Agostino afferma anche che la trinità divina resta un mistero, cioè una verità di ordine superiore, che l’uomo può solo avvicinare ma mai comprendere in modo esaustivo. In questo senso, Agostino, pur dicendo che Dio è una persona in modo analogo all’individuo umano, sottolinea che Dio è una persona infinita, a differenza dell’uomo che è una persona finita, e che dunque l’uomo può comprendere Dio conoscendo ciò che Dio non è, più che ciò che Dio è. In parole più semplici, l’uomo può conoscere solo parzialmente Dio, l’infinita essenza divina è imperscrutabile. Per spiegarlo Agostino usa una icastica similitudine: per l’uomo voler conoscere Dio nella sua totalità sarebbe come cercare di travasare il mare in una buca scavata nella spiaggia. Proprio perché ama infinitamente il creato e quindi ne desidera il massimo bene, Dio, secondo Agostino, non crea il mondo già compiutamente realizzato, ma gli concede una certa autonomia, cioè lo crea in modo tale che esso raggiunga la sua perfezione attraverso 456 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE un graduale processo di sviluppo e miglioramento. In parole più semplici, Dio, afferma Agostino, ha creato i semi razionali di tutte le cose, cioè i loro programmi di svolgimento, facendo sì che da tali semi tutte le cose si formino e si sviluppino in molteplici e diversificati modi e in vari e differenti tempi. Ma, ci si potrebbe chiedere in conclusione, qual è il fondamento della teoria agostiniana della creazione? Ovvero quali sono gli argomenti che attestano che Dio ha prodotto il mondo dal nulla di sé e di qualsiasi altra sostanza indipendente da lui, con tutto quello che ne consegue e che abbiamo analizzato?La risposta di Agostino è semplice e immediata: la Bibbia, in particolare il suo primo libro, il Genesi. Questa risposta ribadisce ed esemplifica il rapporto religione/filosofia teorizzato e praticato da Agostino. La filosofia, nella fattispecie la teoria della creazione, consiste nell’interpretazione e nella chiarificazione razionale della rivelazione divina presente nella Bibbia, che dunque ne rappresenta il fondamento assolutamente certo e incontrovertibile. 457 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 3 AGOSTINO: IL TEMPO E’ UNA COSTRUZIONE DELLA MENTE UMANA 14. 17. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. […] 16. 21. Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi, misuriamo addirittura quanto l'uno è più lungo o più breve di un altro, rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo; essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi osasse dire di poter misurare l'inesistente. Insomma, il tempo può essere percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è. […] 20. 26. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo 458 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE nell'animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l'espressione abusiva entrata nell'uso; si dica pure così: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire. 21. 27. Dissi poc'anzi che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo passaggio. Se mi si chiedesse: "Come lo sai?", risponderei: "Lo so perché misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né il passato né il futuro". Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa? Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa? Ma ciò che non è più, non si misura. 22. 28. Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e s'illuminino al lume della tua misericordia, Signore. […] Noi parliamo di tempo e tempo, di tempi e tempi. "Quanto tempo fa lo disse!", "Quanto tempo fa lo fece!", e: "Da quanto tempo non lo vedo!", e: "Questa sillaba ha una durata di tempo doppia di quell'altra, breve": così diciamo e udiamo, così ci facciamo comprendere e comprendiamo. Sono espressioni chiarissime, usatissime; eppure sono estremamente oscure, e astrusa è la loro spiegazione. […] 459 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE 24. 31. Mi comandi di approvare chi dicesse che il tempo è il movimento di un corpo? No certo. Nessun corpo si muove fuori dal tempo; questo lo intendo: tu lo dici. Ma che il movimento stesso del corpo sia il tempo, questo non lo intendo: tu non lo dici. Di un corpo che si muove, misuro col tempo la durata del movimento, da quando inizia a quando finisce. Se non ho visto quando iniziò, e continua a muoversi di modo che non vedo quando finisce, mi è impossibile misurarlo, a meno di misurarlo da quando inizio a quando finisco di vederlo. Vedendolo a lungo, riferisco soltanto che è un tempo lungo, senza riferire quanto, poiché, per dire anche quanto, facciamo un confronto, ad esempio: "Questo è quanto quello", oppure: "Questo è doppio di quello", e così via. Se invece avremo potuto rilevare nello spazio il punto da cui è partito e il punto in cui arriva un corpo in movimento, oppure le sue parti, qualora si muova come un tornio, possiamo dire in quanto tempo si è effettuato il movimento del corpo o di una sua parte da un punto a un altro. Il movimento del corpo è dunque cosa distinta dalla misura della sua durata. E chi non capisce ormai a quale delle due nozioni conviene dare il nome di tempo? Infatti, se anche un corpo alternamente si muove e sta fermo, noi misuriamo col tempo non soltanto il suo movimento, ma anche la stasi. Diciamo: "Stette fermo tanto, quanto si mosse", oppure: "Stette fermo due, tre volte più di quanto si mosse"; oppure indichiamo altri rapporti, misurati con precisione o a stima, più o meno, come si suol dire. Dunque il tempo non è il movimento dei corpi. […] 27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a 460 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato. 28. 37. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato. Agostino, Le confessioni, Libro XI La sua nuova teoria della creazione costringe Agostino a confrontarsi con la questione del tempo e lo stimola a elaborare la sua teoria della temporalità che, pur rifacendosi a Plotino, è quantomai originale e innovativa. Agostino prende le mosse dagli avversari del cristianesimo, soprattutto i manichei, i quali cercano di confutare la teoria della creazione, rilevando che, se Dio ha creato il mondo in un certo istante, allora: o prima aveva già deciso di crearlo, ma in tal caso è assurdo che non l’abbia creato subito; oppure, se ha deciso proprio in quell’istante di crearlo, ne segue che la sua volontà è mutata e dunque non è perfetto. Nel ribattere a queste obiezioni, Agostino prende esplicitamente le distanze dai suoi stessi confratelli che replicavano: “Prima della creazione Dio preparava l’inferno per chi osa penetrare i suoi misteri”. Questa, afferma Agostino, non è una risposta, ma una presa in giro fuori luogo, perché il problema posto è più che fondato e va affrontato seriamente. Agostino, pertanto, lo affronta razionalmente e lo risolve affermando che prima della 461 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE creazione il tempo non esisteva. La soluzione agostiniana appare fin troppo semplice, ma in realtà contiene delle acute e profonde implicazioni: 1. il tempo è stato creato da Dio insieme al mondo, dunque ha un’origine e una fine (il giudizio universale, ossia la fine del mondo); 2. il tempo, insieme allo spazio, è una proprietà fondamentale del mondo fisico, ossia è del tutto relativo alla dimensione materiale; 3. Dio, pura razionalità, non è spazio-temporale, dunque non è nel tempo, ma fuori del tempo e senza tempo: questo è il vero significato della sua eternità, cioè assenza di qualsiasi temporalità. Ma a questo punto, Agostino è costretto ad affrontare un altro problema, ancora più spinoso: appurato che la temporalità ha avuto un’origine, e quindi avrà una fine, ovvero che il tempo è derivato e… temporaneo, che cos’è allora il tempo? In cosa consiste? Agostino prende in esame, innanzitutto, la teoria platonica secondo cui il tempo è la rotazione del Sole e degli astri. Egli ribatte che, se il tempo fosse il movimento perenne e uniforme di qualcosa, allora anche un corpo terrestre, p.e. anche un tornio, potrebbe spiegare il tempo anche in assenza di qualsiasi astro. Ma in tal caso, il movimento di un corpo sarebbe la misura del tempo. Eppure, continua Agostino, per misurare la durata del moto di un corpo bisogna stabilire un inizio e una fine del moto, e questo già presuppone il tempo. In altre parole, com’è possibile che il moto sia il fondamento del tempo se il tempo è il presupposto per misurare la durata del moto? Agostino ne conclude che il tempo non è riconducibile al moto né degli astri né dei corpi terrestri. Tuttavia, sostiene Agostino, è indubbio che noi viviamo nel tempo e misuriamo i tempi delle nostre azioni, p.e. della lettura di uno scritto, perfino della durata di una sillaba, e che possiamo stabilire, p.e., che la durata di una parola, o di un suono, è doppia rispetto a quella di un’altra. Com’è possibile allora la nostra misurazione temporale? Il tempo, da un lato, sembra che esista inoppugnabilmente ma, dall’altro, no! Si può risolvere quest’enigma? E se sì, come? Agostino comincia a dipanare l’intricata matassa, rilevando che il tempo si compone di tre parti: il passato, il futuro e il presente. Si tratta allora di analizzare cosa siano passato, futuro e presente. Cos’è il passato? Ciò che non è più, risponde Agostino, qualcosa che non esiste più, un non-essere, nulla! Cos’è il futuro? Ciò che non è ancora, qualcosa che può esistere ma per il momento non esiste, dunque anch’esso un non-essere, nulla! Cos’è il 462 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE presente? Ciò che avviene tra il passato e il futuro. Ma se il passato e il futuro sono nulla, come può esistere qualcosa tra due nulla? Inoltre, continua Agostino, il presente è l’attimo immediato. Ma proviamo a cogliere quest’attimo: esso arriva dal futuro, ma non appena non è più futuro è già trascorso, cioè è subito diventato passato. In altre parole, il futuro si trasforma immediatamente in passato, il presente sfugge, è inafferrabile, incoglibile. Dunque anch’esso è nulla. In conclusione: il tempo è l’insieme di passato, futuro e presente, ma passato, futuro e presente non esistono, dunque anche il tempo non esiste. Questa conclusione, però, sembra rendere l’enigma del tempo ancora più oscuro e indecifrabile. Come è possibile che non esista qualcosa che mi sembra esistere indiscutibilmente e che uso in ogni momento per pensare e agire? Possibile che il tempo sia un’illusione così radicata in noi da impedirci di renderci conto del suo carattere illusorio? E’ a questo punto che Agostino trova la soluzione dell’enigma del tempo: esso è irrisolvibile se noi crediamo che il tempo sia qualcosa di oggettivo, ossia di esterno alla nostra coscienza. Il tempo oggettivo, afferma Agostino, questo sì, è davvero un’illusione, un inganno. Ma il tempo non è qualcosa di oggettivo, bensì qualcosa di soggettivo, è un prodotto della mente umana, una modalità del pensiero. Come? Il passato, risponde Agostino, è la memoria, cioè la facoltà mentale capace di conservare e recuperare le nostre esperienze (p.e. l’estate passata è l’insieme dei ricordi delle mie vacanze); il presente è l’attenzione, cioè l’operazione mentale grazie alla quale la coscienza si concentra su uno stimolo e così acquisisce delle sensazioni (p.e. il presente è la visione delle lettere e delle sillabe di queste parole che sto leggendo); e il futuro è la disposizione mentale dell’attendersi, o aspettare, qualcosa, è il nostro perenne farsi delle nostre aspettative (p.e. il futuro è l’attendermi di finire di leggere questa tappa, di svelare del tutto l’enigma del tempo e di andare poi a rilassarmi con una passeggiata in un parco). Insomma, passato, presente e futuro sono il nome che diamo a tre attività mentali – il ricordarsi, l’attenzionarsi, l’aspettarsi –, ovvero sono tre prodotti della nostra mente. In conclusione, per Agostino il tempo non esiste oggettivamente, non è una realtà fisica; ma esiste soggettivamente, è una produzione del pensiero umano. Ciò non significa che Agostino neghi la realtà oggettiva del divenire, cioè del mutamento di tutte le cose fisiche e quindi anche del corpo umano. Anzi il tempo soggettivo ha nel divenire oggettivo un indispensabile correlato. Grazie al divenire oggettivo, infatti, il tempo soggettivo può adattarsi alla realtà esterna e misurare il mutamento fisico. Tuttavia, rimane fermo che è solo in base al nostro tempo mentale che 463 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE possiamo rilevare e cronometrare tutti i moti dei corpi, a cominciare da quelli degli astri, ma anche le nostre esperienze e lo scorrere della nostra vita. 464 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 4 AGOSTINO: IL MALE E’ COLPA DELL’UOMO 5. 7. Cercavo l'origine del male cercando male e non vedendo il male nella mia stessa ricerca. Davanti agli occhi del mio spirito ponevo l'intero creato, tutto ciò che ne possiamo scorgere, ossia la terra, il mare, l'aria, gli astri, gli alberi, gli animali mortali, e tutto ciò che ci rimane invisibile, ossia il firmamento celeste sopra di noi, tutti gli angeli e tutti gli spiriti che lo abitano, spiriti che la mia immaginazione distribuiva pure in vari luoghi, quasi fossero corpi; così feci del tuo creato un'unica massa enorme, ove spiccavano secondo il loro genere i corpi, sia veri e reali, sia spirituali, resi arbitrariamente corporei dalla mia immaginazione, e feci enorme questa massa, non quanto era effettivamente, perché non potevo concepirlo, ma quanto mi piacque immaginare, però finita in tutte le direzioni, avvolta e penetrata da ogni parte da te, Signore, che pure rimanevi in tutti i sensi infinito, come un mare che si stenda dovunque e da dovunque per spazi immensi infinito, un unico mare che contenga nel suo interno una spugna grande a piacere, però finita e ripiena evidentemente in ogni sua parte del mare immenso. Così concepivo la tua creazione, finita e ripiena di te infinito. Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le creature di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge e riempie. Allora dov'è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo temiamo senza ragione, è certamente male il nostro stesso timore, che punge e tormenta invano il nostro cuore, e un male tanto più grave, in quanto non c'è nulla da temere, eppure noi temiamo. Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece, perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era forse impotente l'onnipotente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna, perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, attraverso gli spazi su su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli 465 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da lui?". Questi pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli pungentissimi, frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità. Rimaneva tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del Cristo tuo, signore e salvatore nostro. Certo una fede ancora rozza in molti punti e fluttuante oltre il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più. […] 12. 18. Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com'è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai. 13. 19. In te il male non esiste affatto, e non solo in te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l'ordine che vi hai imposto. Tra le parti poi del creato, alcune ve ne sono, che, per non essere in accordo con alcune altre, sono giudicate cattive, mentre con 466 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE altre si accordano, e perciò sono buone, e buone sono in se stesse. Tutte queste parti, che non si accordano fra loro, si accordano poi con la porzione inferiore dell'universo, che chiamiamo terra, la quale è provvista di un suo cielo percorso da nubi e venti, ad essa conveniente. Lontano d'ora in poi da me l'augurio: "Oh, se tali cose non esistessero!". Quand'anche vedessi soltanto tali cose, potrei certo desiderarne di migliori, ma non più mancare di lodarti anche soltanto per queste. Che ti si debba lodare, lo mostrano infatti sulla terra i draghi e tutti gli abissi, il fuoco, la grandine, la neve, il ghiaccio, il soffio della tempesta, esecutori della tua parola, i monti e tutti i colli, gli alberi da frutto e tutti i cedri, le bestie e tutti gli armenti, i rettili e i volatili pennuti; i re della terra e tutti i popoli, i principi e tutti i giudici della terra, i giovani e le fanciulle, gli anziani con gli adolescenti lodino il tuo nome. Ma, poiché anche dai cieli salgono verso di te le lodi, ti lodino, Dio nostro, nell'alto tutti gli angeli tuoi; tutte le potenze tue, il sole e la luna, tutte le stelle e la luce, i cieli dei cieli e le acque che stanno sopra i cieli, lodino il tuo nome. Ormai non desideravo di meglio: tutte le cose abbracciavo col mio pensiero, e se le creature superiori sono meglio di quelle inferiori, tutte insieme sono però meglio delle prime sole. Con più sano giudizio davo questa valutazione. […] 16. 22. E capii per esperienza che non è cosa sorprendente, se al palato malsano riesce una pena il pane, che al sano è soave; se agli occhi offesi è odiosa la luce, che ai vividi è amabile. La tua giustizia è sgradita ai malvagi, e a maggior ragione le vipere e i vermiciattoli che hai creato buoni e in accordo con le parti inferiori del tuo creato. A queste i malvagi stessi si accordano nella misura in cui non ti assomigliano, mentre si accordano alle parti superiori nella misura in cui ti assomigliano. Ricercando poi l'essenza della malvagità, trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, la quale si distoglie dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse, e, ributtando le sue interiora, si gonfia esternamente. Agostino, Le confessioni, Libro VII Il problema del perché il mondo sia affetto dal male è uno dei problemi più spinosi, e proprio per questo ricorrenti, della storia della filosofia. Per Agostino, però, è di gran lunga più spinoso e arduo da risolvere che per tutti i filosofi a lui precedenti. Non solo perché l’epoca in cui vive Agostino è particolarmente travagliata o perché Agostino ha una 467 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE maggiore sensibilità per la sofferenza, ma anche e soprattutto perché nessuno, prima di lui, aveva concepito il mondo come il prodotto di un essere assolutamente onnipotente che crea per amore verso le sue creature. Di conseguenza, mentre i filosofi precedenti potevano addebitare il male al fatto che il principio fisico del mondo possedeva un’indipendenza irriducibile o che il principio divino era indifferente alle vicende terrene, Agostino sembra costretto ad ammettere che, dato che l’esperienza del male nel mondo è incontrovertibile, o Dio non è onnipotente o non è buono e amorevole. E in effetti Agostino, nel corso della sua esistenza, si tormenta a lungo intorno a questa contraddizione nel tentativo di trovare una via d’uscita, ossia di conciliare l’onnipotenza e l’amore di Dio con l’indiscutibile presenza del male nel mondo. Alla fine, Agostino giunge a trovare una soluzione, o quantomeno raggiunge la convinzione di averla trovata. Data la complessità del problema del male, la soluzione agostiniana è particolarmente ampia e articolata. Per sintetizzarla e facilitarne la comprensione, la possiamo distinguere e affrontare a tre livelli successivi: 1. a livello ontologico; 2. a livello cosmologico; 3. a livello antropologico. A livello ontologico, il problema del male consiste nel chiedersi se esso sia un principio costitutivo ed eterno dell’essere, cioè della realtà, oppure un suo fenomeno secondario, e quindi relativo, parziale e occasionale. In altre parole: il male esiste in senso forte e permanente, cioè sostanziale ovvero essenziale; oppure “capita”, ossia c’è ma in quanto evento accidentale? La tesi di Agostino è che il male non è un essere, dunque non esiste veramente, ovvero non è un principio sostanziale (essenziale) del mondo. Infatti, argomenta Agostino, se l’essere fosse male, non potremmo farne esperienza, così come se il nostro corpo fosse costitutivamente malato non potremmo ammalarci. Al contrario, se ci ammaliamo è proprio perché siamo costitutivamente sani, e, analogamente, se facciamo esperienza del male è solo perché l’essere è essenzialmente bene. Ma allora cos’è il male? Perché ne facciamo esperienza? Agostino risponde: il male è carenza di bene. L’essere è Dio e ciò che è creato da Dio, cioè il mondo. In entrambi i casi l’essere è bene, afferma Agostino, e non può che essere solamente bene. Ma il bene può avere vari gradi/quantità, da quello infinito e sommo di Dio, a quelli finiti propri delle creature. Ognuno dei decrescenti gradi del bene, successivi a quello divino, implica una diminuzione sempre maggiore del bene, fino a un grado minimo, fino cioè al bene infimo, che è la massima privazione possibile di bene. La privazione totale di bene sarebbe il nulla, ma il nulla non esiste per definizione. Quindi, il male assoluto non esiste, esiste solo il male relativo, che però in realtà è bene sminuito. Dunque solo il bene “è”, cioè esiste effettivamente, il male propriamente “non è”, cioè non esiste come tale ma solo come una modalità del bene, una sua evenienza. 468 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE A livello cosmologico, il problema del male consiste, per Agostino, nel chiedersi perché il cosmo, creato da Dio per amore, contenga il male relativo, cioè gradi di bene finiti e decrescenti. In altre parole: posto che il male è solo diminuzione progressiva del bene, perché il creato non possiede il grado massimo di bene? Agostino risponde affermando che il massimo grado di essere/bene è quello infinito di Dio in quanto creatore e che dunque il creato, in quanto necessariamente inferiore al creatore, e perciò finito, non può che avere un grado inferiore di essere/bene. Ma perché allora il cosmo possiede tutti i gradi decrescenti del bene, fino al minimo, anziché solo quello immediatamente inferiore al massimo? Perché, risponde Agostino, solo così è possibile che esistano la maggiore varietà e il maggior numero di creature e soprattutto perché proprio dall’interazione di tutti i tipi possibili di creature, ognuno necessariamente con un grado diverso di essere/bene, deriva quell’armonia grazie alla quale il cosmo nel suo insieme possiede il massimo grado di bene possibile nella dimensione spazio-temporale, cioè nella dimensione della finitezza. In questo senso, considerando il cosmo nella sua totalità, afferma Agostino, il male presente in esso è minimo, poco più che niente. Se, per esempio, l’uomo di fronte a una puntura di una vespa a un bambino pensa che il mondo contenga il male e che Dio avrebbe potuto fare a meno di creare le vespe, la sua credenza nel male e la sua critica a Dio è, secondo Agostino, solo il frutto della sua ignoranza, cioè della sua incapacità di capire che anche le vespe hanno una funzione fondamentale per mantenere l’equilibrio biologico di tutte le specie e quindi per garantire il massimo bene cosmico possibile. A questo punto, forte della posizione guadagnata, Agostino affronta lo scontro diretto con il vero male, quello antropologico, quello che si riferisce al male subìto ma anche provocato dall’uomo. Innanzitutto, riconosce Agostino, gli uomini soffrono e le sofferenze che provano sono, per intensità e numero, di gran lunga superiori a quel minimo di male relativo che il cosmo necessariamente alberga in quanto perfezione finita. In altre parole, Agostino ammette apertamente che l’umanità da sempre soffre di mali incompatibili con l’armonia divina che governa il mondo. Ma com’è possibile? Forse che Dio ha posto l’uomo ai margini dell’armonia cosmica e, unico tra le sue creature, gli ha inflitto il massimo grado di male relativo, cioè di privazione di bene? No, non può essere così, perché la Bibbia, anzi, ci rivela proprio il contrario: “Dio fece l’uomo a sua immagine e somiglianza”, pertanto l’uomo è la creatura più amata, quella cui Dio ha conferito il massimo grado di essere/bene rispetto a tutte le altre. Ma allora, a maggior ragione, come mai l’uomo soffre? Paradossalmente, afferma Agostino, proprio perché è stato il più beneficato e il più beneficiato da Dio. Agostino asserisce, infatti, che il 469 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE conferimento all’uomo del più alto livello di essere, e quindi di bene, coincide con il dono del libero arbitrio: Dio ha creato l’uomo simile a lui dandogli la possibilità di scegliere liberamente come comportarsi. E, infatti, appena creato, nel giardino dell’Eden, l’uomo non soffriva, partecipava pienamente dell’armonia cosmica, della quasi completa perfezione originaria del mondo fisico. Addirittura gli era risparmiata l’esperienza della morte! Ma, in seguito, continua Agostino, l’uomo ha abusato del suo libero arbitrio, ha trasgredito l’unico divieto che Dio gli aveva imposto – quello di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza –, dunque si è contrapposto per superbia al suo creatore, macchiandosi così del “peccato originale”. Dio è amore, ma anche giustizia, continua Agostino, e dunque punisce l’uomo cacciandolo dall’Eden, costringendolo a lavorare “con fatica” e a partorire “con dolore”. In altre parole, secondo Agostino, dopo il peccato originale il mondo si è trasformato in un carcere nel quale l’uomo deve scontare la pena per il peccato di superbia commesso. Ecco perché il mondo terreno include una quantità di dolore di gran lunga superiore a quello che aveva nella sua costituzione originaria, cioè nell’Eden, morte corporea compresa. Ma il dolore che l’uomo patisce sulla terra non è ingiusto, non solo perché è la giusta punizione del suo errore, ma soprattutto perché ha la funzione di rendere l’uomo consapevole del suo errore e di emendarlo, cioè di riabilitarlo. Dunque, in ultima analisi, il dolore terreno non è male, ma bene, perché è finalizzato al bene dell’uomo, al suo miglioramento. Ma non basta. E’ lo stesso Agostino a sostenere che la quantità del male che l’umanità prova è ancora superiore a quella che gli è stata inflitta da Dio come punizione del suo peccato originale. Il fatto è, afferma Agostino, che una volta cacciato dall’Eden, l’uomo continua a peccare, anzi, subisce, per così dire, l’inerzia del peccato originale, e così pecca ancora più facilmente e sempre più spesso. Di qui la quota maggiore del dolore che l’umanità patisce: le azioni peccaminose degli uomini – p.e. le percosse, i furti, gli omicidi, le guerre, ecc. – da un lato, di per se stesse, provocano dolore, dall’altro causano ulteriori punizioni, e quindi ulteriori sofferenze. In conclusione, secondo Agostino, il vero male, il pesantissimo insieme dei dolori che tutti gli uomini provano nella loro vita, è pur sempre male relativo, cioè privazione del bene, ma è il grado infimo del bene, la sua massima privazione possibile. Soprattutto, il vero male è causato non da Dio, ma esclusivamente dall’uomo; è un male antropologico, meglio un male morale, cioè dovuto alla malvagità dell’uomo, alla sua incapacità di comportarsi moralmente, cioè bene. Dunque, Dio per Agostino è del tutto innocente, la presenza del male nel mondo non inficia minimamente né l’onnipotenza divina né l’amore di Dio per le sue creature. 470 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE Ma Agostino si rende conto che la sua argomentazione lascia ancora irrisolto un problema. Posto che il vero male è il frutto avvelenato della scelta dell’uomo, se il male, a livello ontologico, non esiste, come può l’uomo scegliere il male, cioè appunto qualcosa che non esiste? Detto altrimenti: l’uomo per scegliere il male deve volerlo, ma in questo caso come fa a volere qualcosa che non c’è? O, al contrario, dato che è inconfutabile che l’uomo abbia voluto e voglia il male, questo non attesta che il male esiste? Agostino risolve anche quest’ultimo problema basandosi ancora una volta sulla sua teoria dei molteplici e decrescenti gradi di bene finito. L’uomo, quando vuole e sceglie il male, non fa che preferire a un bene maggiore – innanzitutto a Dio, bene massimo – un bene inferiore, cioè il bene proprio di una creatura che possiede un grado di essere/bene inferiore al suo. P.e., il peccato di gola, che consiste nel mangiare più del necessario, consiste nel volere mangiare quanto un animale, cioè appunto nello scegliere il bene proprio di una specie inferiore. Dunque, conclude Agostino, l’uomo quando vuole e sceglie il male non vuole e sceglie il nulla, il che sarebbe assurdo, ma un minor bene rispetto a quello che gli è proprio, a quello consono al suo statuto ontologico, e pertanto il fatto che l’uomo voglia e scelga il male non significa che il male “è”. 471 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE TAPPA 5 AGOSTINO: SOLO LA GRAZIA DIVINA CI LIBERA DAL MALE 1. 3. A. - Certo che se le cose stanno così, è già risolto il problema che hai proposto. Se l'uomo è un determinato bene e se non potesse agire secondo ragione se non volendolo, ha dovuto avere la libera volontà, senza di cui non poteva agire moralmente. Infatti non perché mediante essa anche si pecca, si deve ritenere che per questo Dio ce l'ha data. È ragione sufficiente che doveva esser data il fatto che senza di essa l'uomo non può vivere moralmente. Si può inoltre comprendere che per questo scopo è stata data anche dal motivo che se la si userà per peccare, viene punita per ordinamento divino. Ma sarebbe ingiusto se la libera volontà fosse stata data non solo per vivere secondo ragione ma anche per peccare. Come infatti sarebbe giustamente punita la volontà di chi l'ha usata per un'azione per cui è stata data? Quando invece Dio punisce il peccatore, sembra proprio dire: "Perché non hai usato la libera volontà per il fine cui te l'ho data? "; cioè per agir bene. Se l'uomo fosse privo del libero arbitrio della volontà, come si potrebbe concepire quel bene per cui si pregia la giustizia nel punire i peccati e onorare le buone azioni? Non sarebbe appunto né peccato né atto virtuoso l'azione che non si compie con la volontà. Conseguentemente, se l'uomo non avesse la libera volontà, sarebbero ingiusti pena e premio. Fu necessario dunque che tanto nella pena come nel premio ci fosse la giustizia poiché questo è uno dei beni che provengono da Dio. Fu necessario quindi che Dio desse all'uomo la libera volontà. Agostino, Il libero arbitrio, Libro II 18. 52. Non c'è da meravigliarsi che l'uomo o per ignoranza non abbia il libero arbitrio della volontà, con cui scegliere il da farsi secondo ragione, ovvero che per la resistenza dell'abito della passione, sviluppatosi in certo senso come un'altra natura a causa della illibertà nella propagazione della specie, egli conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa compierlo. È pena giustissima del peccato che si perda ciò che non si è voluto usar bene, sebbene fosse possibile senza alcuna difficoltà, se si volesse. È quanto dire che chi, pur conoscendo, non agisce secondo ragione, perde la conoscenza di ciò che è ragionevole e chi non ha voluto agire secondo ragione potendolo, ne perde la possibilità quando lo vuole. Vi sono in realtà per l'anima che pecca queste due condizioni di pena: l'ignoranza e la debolezza. A causa dell'ignoranza ci toglie dignità l'errore, a causa della debolezza ci tormenta il dolore. Ma affermare il falso a posto del vero fino ad errare involontariamente e non poter trattenersi da azioni passionali, perché reagisce con tormento la sofferenza della soggezione alla carne, non è natura dell'uomo in quanto tale, ma pena dell'uomo 472 SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE condannato. Ma quando si parla della libera volontà di agire secondo ragione, si parla di quella, in cui l'uomo è stato creato. Agostino, Il libero arbitrio, Libro III 13. Appena avvenuta la trasgressione del comando, i progenitori rimasero sconvolti dalla nudità dei propri corpi, perché la grazia divina li aveva abbandonati. Perciò con foglie di fico, che eventualmente per prime si offrirono al loro sbigottimento, coprirono le parti che suscitavano il loro pudore. Erano le stesse di prima ma non erano oggetto