SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Saverio Mauro Tassi
LE
(DIS)AVVENTURE
DEL
PENSIERO
FILOSO/SCIENTI-FICO
IL CORSARO
editore
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’ORIZZONTE ANTICO
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
IL MAPPAMONDO
L’ORIZZONTE ANTICO
LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME ORDINE NATURALE
Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ ETA’ GRECA ARCAICA (VIII-VI sec. a.C.)
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
I VIAGGIO – L’ORDINE COME PRINCIPIO FISICO UNICO
ROTTA SU... I COSMOLOGI MONISTI
VITE DI CAPITANI: TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE
Tappa 1: TALETE: L’ACQUA E’ NATURA DI TUTTE LE COSE
Tappa 2: ANASSIMANDRO: IL PRINCIPIO E’ ILLIMITATO
MAPPA
MAPPA
Tappa 3: ANASSIMENE: IL PRINCIPIO E’ IL SOFFIO
MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSIMENE E LA TERMODINAMICA
Tappa 4: LA TERRA E’ FERMA AL CENTRO DEL COSMO
MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSIMANDRO E IL MULTIVERSO
LO SCRIGNO
PAUL DAVIES: FARE SCIENZA SIGNIFICA UNIFICARE
PAUL DAVIES: ESISTONO MOLTI E DIFFERENTI UNIVERSI
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ALL’ARREMBAGGIO
IL DUELLO
ROTTA SU... I COSMOLOGI RAZIONALISTI
VITE DI CAPITANI: ERACLITO, PITAGORA, FILOLAO, PARMENIDE, ZENONE
Tappa 1: ERACLITO: IL PRINCIPIO E’ UNA LEGGE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: IL FUOCO E LA RELATIVITA’ RISTRETTA
Tappa 2: I PITAGORICI: IL PRINCIPIO SONO I NUMERI
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: I PITAGORICI E LA FORMULA E=MC2
Tappa 3: PARMENIDE: LA REALTA’ E’ SOLO ESSERE
Tappa 4: ZENONE: LA MOLTEPLICITA’ E IL MOTO SONO ASSURDI
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ZENONE, IL CALCOLO INFINITESIMALE E IL
PRINCIPIO DI RELATIVITA’
Tappa 5: LA SCIENZA DEI COSMOLOGI RAZIONALISTI
LO SCRIGNO
AMIR D. ACZEL: LA SCOPERTA DEL CONTINUO GEOMETRICO
KARL POPPER: LE FASI LUNARI COME “GIOCO DI LUCE E OMBRA”
II VIAGGIO - L’ORDINE COME INTERAZIONE DI PIÙ PRINCIPI FISICI
ROTTA SU... – I COSMOLOGI PLURALISTI
VITE DI CAPITANI: EMPEDOCLE, ANASSAGORA, DEMOCRITO
Tappa 1: EMPEDOCLE: I PRINCIPI SONO LE “RADICI”, AMICIZIA E CONTESA
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: EMPEDOCLE E LA TEORIA DEL BIG BANG
Tappa 2: ANASSAGORA: I PRINCIPI SONO I SEMI E L’INTELLIGENZA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ANASSAGORA, LA CHIMICA E LA FISICA
Tappa 3: DEMOCRITO: I PRINCIPI SONO GLI “INDIVISIBILI”
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: ATOMISMO ANTICO E ATOMISMO
MODERNO
Tappa 4: LA SCIENZA DEI COSMOLOGI PLURALISTI
LO SCRIGNO
ALEX VILENKIN: LA SCOPERTA DELLA GRAVITA’ REPULSIVA
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LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME RAZIONALITA’ UMANA
Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE: L’ETA’ GRECA CLASSICA (V sec. a.C.)
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
III VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ STRUMENTALE DELL’UOMO
ROTTA SU... I SOFISTI
VITE DI CAPITANI: PROTAGORA E GORGIA
Tappa 1: PROTAGORA: LA RAZIONALITA’ E’ UMANA E RELATIVA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PROTAGORA E LA NUOVA RETORICA
Tappa 2: GORGIA: LA PAROLA E’ IPNOTICA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: GORGIA TRA SCETTICISMO E NICHILISMO
LO SCRIGNO
LA COSTITUZIONE ITALIANA: IL DIRITTO-DOVERE DI VOTO
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IV VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ SOSTANZIALE DELL’UOMO
ROTTA SU... IL RAZIONALISMO CRITICO
VITA DI UN CAPITANO: SOCRATE
Tappa 1: SOCRATE: LA RAZIONALITA’ E’ DIALOGO ARGOMENTATIVO
Tappa 2: SOCRATE. VIVE BENE SOLO CHI SA
Tappa 3: SOCRATE: DIO E’ RAZIONALITA’, L’UOMO IL FINE DEL COSMO
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: SOCRATE E IL PRINCIPIO ANTROPICO
LO SCRIGNO
JOHN D. BARROW-FRANK J. TIPLER: L’UNIVERSO E’ FATTO PER L’UOMO
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LA SCOPERTA: LA REALTA’ COME RAZIONALITA’
METAFISICA
Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE: LA DECADENZA GRECA (431-323 a.C.)
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
V VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ IDEALE
ROTTA SU... L’IDEALISMO TRASCENDENTE
VITA DI UN CAPITANO: PLATONE
Tappa 1: PLATONE: LA VITA E’ UN VIAGGIO DAL BUIO ALLA LUCE
LA MAPPA
Tappa 2: PLATONE: LA SCIENZA SI BASA SULL’INTUIZIONE DELLE IDEE
LA MAPPA
Tappa 3: PLATONE: LE IDEE SONO I MODELLI RAZIONALI DI TUTTE LE COSE
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA TEORIA DELLE IDEE E ROGER PENROSE
Tappa 4: PLATONE: IL MONDO FISICO E’ UNA COPIA DEL MONDO DELLE IDEE
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA “CHORA” E IL CAMPO DI HIGGS
Tappa 5: PLATONE: CONOSCERE E’ RICORDARE LA PRIMA VISIONE DELLE IDEE
LA MAPPA
Tappa 6: PLATONE: LA SCIENZA DELLE IDEE E’ LA DIALETTICA
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: L’INNATISMO DI PLATONE E DI CHOMSKY
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Tappa 7: PLATONE: L’AMORE E’ IL SENTIMENTO CHE PORTA ALLE IDEE
LA MAPPA
Tappa 8: PLATONE: LA GIUSTIZIA E’ LA VIRTU’ SUPREMA
LA MAPPA
Tappa 9: PLATONE: LO STATO GIUSTO DEVE BASARSI SULLA SCIENZA
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLATONE E LA COSTITUZIONE ITALIANA
Tappa 10: PLATONE: LA SCIENZA DEVE BASARSI SULLA MATEMATICA
LA MAPPA
LO SCRIGNO
ROGER PENROSE: LA MATEMATICA GUIDA LA RICERCA SCIENTIFICA
VI VIAGGIO – LA RAZIONALITA’ ESSENZIALE
ROTTA SU... L’IDEALISMO IMMANENTE
VITA DI UN CAPITANO: ARISTOTELE
Tappa 1: ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ ESSENZA E ACCIDENTE
Tappa 2: ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ POTENZIALITA’ E ATTUAZIONE
Tappa 3: ARISTOTELE: DIO E’ LA CAUSA FINALE DEL COSMO
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: FINALISMO E PRINCIPIO VITALE
Tappa 4: ARISTOTELE: IL COSMO E’ DIVISO IN CELESTE E TERRESTRE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LE FISICHE DI ARISTOTELE E DI EINSTEIN
FINALISMO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISMO
Tappa 5: ARISTOTELE: L’ESPERIENZA E’ INDISPENSABILE ALLA SCIENZA
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Tappa 6: ARISTOTELE: LA SCIENZA E’ RAGIONAMENTO
Tappa 7: ARISTOTELE: LA VERITA’ SI BASA SULLA VALIDITÀ DEL RAGIONAMENTO
Tappa 8: ARISTOTELE: LA MASSIMA FELICITA’ STA NEL CONOSCERE
Tappa 9: ARISTOTELE: LO STATO DEVE GARANTIRE PACE E TEMPO LIBERO
LO SCRIGNO
PAUL DAVIES: LA TEORIA DEL FINALISMO INTRINSECO DELL’UNIVERSO
MICHELE SARA’: GLI ORGANISMI SI SVILUPPANO IN MODO FINALISTICO
FRITJOF CAPRA: L’ORGANISMO E’ SCHEMA, STRUTTURA E PROCESSO
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LA SCOPERTA: IL PRIMATO DELLA VITA PRATICA
Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETÀ ELLENISTICA
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
VII VIAGGIO – ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ TERRENA
ROTTA SU… LA FELICITA’ COME RIFIUTO DELLA CIVILTA’:
CINISMO ED EPICUREISMO
VITE DI CAPITANI: ANTISTENE, DIOGENE, EPICURO
Tappa 1: I CINICI: LA FELICITA’ E’ LA LIBERTA’ INDIVIDUALE
Tappa 2: EPICURO: LA FELICITA’ E’ IL PIACERE QUIETO
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: EPICURO E LA FISICA QUANTISTICA
ROTTA SU… LA FELICITA’ COME ADATTAMENTO AL DESTINO RAZIONALE: LO
STOICISMO
VITE DI CAPITANI: ZENONE, CLEANTE, CRISIPPO
Tappa 1: STOICI: IL COSMO E’ MATERIA RAZIONALE E DIVINA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: COSMOLOGIA STOICA E FISICA
CONTEMPORANEA
Tappa 2: STOICI: LA FELICITA’ E’ L’IMPASSIBILITA’
Tappa 3: STOICI: IL RAGIONAMENTO DEVE ESSERE PROPOSIZIONALE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: I PARADOSSI NELLA LOGICA DEL ’900
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ROTTA SU… LA FELICITA’ COME ACCETTAZIONE DEL NON-SENSO DELLA VITA:
LO SCETTICISMO
VITE DI CAPITANI: PIRRONE
Tappa 4: GLI SCETTICI: LA FELICITA’ E’ INDIFFERENZA E CONFORMISMO
LO SCRIGNO
LEON LEDERMAN: L’“EFFETTO TUNNEL”
NORMAN DOIDGE: ECCITAZIONE E APPAGAMENTO
VITO MANCUSO: L’ENERGIA CONTIENE UN PRINCIPIO ORDINATORE
IMPERSONALE
VIII VIAGGIO – LA FELICITA’ DELLA RICERCA SCIENTIFICA
ROTTA SU… LA I RIVOLUZIONE SCIENTIFICA?
VITE DI CAPITANI: GLI SCIENZIATI ELLENISTICI
Tappa 1: LA RICERCA MATEMATICA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: MATEMATICA ELLENISTICA E MATEMATICA
MODERNA
Tappa 2: LA RICERCA ASTRONOMICA
Tappa 3: LA RICERCA FISICA
Tappa 4: LA RICERCA NELLE SCIENZE EMPIRICHE
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LA SCOPERTA: LA REALTA’ CREAZIONE DI UN DIO INFINITO
Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DELL’ETA’ ROMANA
L’ORIZZONTE SCIENTIFICO DELL’ETA’ ROMANA
L’ORIZZONTE FILOSOFICO DELL’ETA’ ROMANA
IX VIAGGIO – DIO COME INFINITA’ IMPERSONALE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
ROTTA SU... IL NEOPLATONISMO
VITA DI UN CAPITANO: PLOTINO
Tappa 1: PLOTINO: TUTTO E’ UNO INFINITO E IMMATERIALE
LA MAPPA
Tappa 2: PLOTINO: L’UNO E’ INEFFABILE
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLOTINO E GLI INSIEMI INFINITI DI CANTOR
Tappa 3: PLOTINO: L’UNO SI AUTOCREA
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: PLOTINO E L’ORIGINE DEL BIG BANG
Tappa 4: PLOTINO: L’UNO CREA IL COSMO FISICO
LA MAPPA
Tappa 5: PLOTINO: L’AUTOCOSCIENZA DELL’UNO E’ LA MENTE
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: LA MENTE E LA TEORIA DELL’AUTOCOSCIENZA
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Tappa 6: PLOTINO: L’INDIVIDUALIZZAZIONE DELL’UNO E’ L’ANIMA
LA MAPPA
Tappa 7: IL MASSIMO DEPOTENZIAMENTO DELL’UNO E’ LA MATERIA
LA MAPPA
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI: L’ANIMA, ENTANGLEMENT E OLOGRAFIA
Tappa 8: PLOTINO: L’UOMO E’ UN’ANIMA CADUTA
LA MAPPA
Tappa 9: PLOTINO: LA MASSIMA FELICITA’ E’ L’ESTASI
LA MAPPA
LO SCRIGNO
ALEX VILENKIN: L’UNIVERSO E’ CONTRADDITTORIO
X VIAGGIO – DIO PERSONA ONNIPOTENTE E AMOREVOLE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
ROTTA SU... NEOPLATONISMO ED ESISTENZIALISMO CRISTIANI
VITA DI UN CAPITANO: AGOSTINO DI TAGASTE
Tappa 1: AGOSTINO: LA VERITA’ E’ ILLUMINAZIONE DIVINA
Tappa 2: AGOSTINO: LA CREAZIONE DEL MONDO E’ UN ATTO D’AMORE DI DIO
Tappa 3: AGOSTINO: IL TEMPO E’ UNA CREAZIONE DELLA MENTE UMANA
Tappa 4: AGOSTINO: IL MALE E’ COLPA DELL’UOMO
Tappa 5: AGOSTINO: SOLO LA GRAZIA DIVINA CI LIBERA DAL MALE
Tappa 6: AGOSTINO: LA STORIA UMANA PROCEDE VERSO LA SALVEZZA
Tappa 7: AGOSTINO: LA FELICITA’ STA NELL’AMARE
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L’ORIZZONTE MEDIOEVALE
XI VIAGGIO – LA REALTA’ COSTRUZIONE RAZIONALE DI DIO
CANNOCCHIALE SU…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE DEL MEDIOEVO
L’ORIZZONTE SCIENTIFICO DEL MEDIOEVO
L’ORIZZONTE FILOSOFICO DEL MEDIOEVO
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
ROTTA SU... LA SCOLASTICA
VITA DI UN CAPITANO: ANSELMO D’AOSTA
Tappa 1: ANSELMO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ DIMOSTRARE
VITA DI UN CAPITANO: TOMMASO D’AQUINO
Tappa 2: TOMMASO: L’ESISTENZA DI DIO SI PUO’ ARGOMENTARE A POSTERIORI
Tappa 3: TOMMASO: DIO ESISTE PER ESSENZA
Tappa 4: TOMMASO: DIO HA CREATO UN COSMO AUTONOMO
Tappa 5: TOMMASO: LA VERITA’ E’ ASSIMILAZIONE DELLA MENTE ALLE COSE
Tappa 6: TOMMASO: LA FELICITA’ E’ LA CONTEMPLAZIONE DI DIO
Tappa 7: TOMMASO: LO STATO MIGLIORE E’ UNA REPUBBLICA PRESIDENZIALE
LO SCRIGNO
GERARD SCHROEDER: LA NATURA POSSIEDE UN’INTELLIGENZA
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VITA DI UN CAPITANO: JOHANNES ECKHART
Tappa 8: ECKHART: DIO E’ “QUIETE DESERTA”, OVVERO IL NULLA
VITA DI UN CAPITANO: WILLIAM OF OCKHAM
Tappa 9: OCKHAM: C’E’ UN ABISSO TRA DIO E IL MONDO
Tappa 10: OCKHAM: GLI UNIVERSALI SONO SEGNI MENTALI E LINGUISTICI
Tappa 11: OCKHAM: LA SCIENZA DEVE ESSERE PROBABILISTICA E PLURALISTICA
Tappa 12: OCKHAM: LA CHIESA DEVE ESSERE COMUNITARIA E POVERA
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LA SCOPERTA
LA REALTÀ COME ORDINE NATURALE
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE
L’ETA’ GRECA ARCAICA (VIII-VI sec. a.C.)
Dall’antichità per tradizione e oggi per convenzione, la nascita della filosofia – cioè del
pensiero di tipo razionale – viene fatta coincidere con la vita e l’opera di Talete di Mileto,
nato nel 626 e morto nel 548 a.C. Mileto era una città greca situata sulla costa egeica
dell’Anatolia, antica Asia Minore, attuale Turchia. In altre parole, la filosofia cominciò e si
sviluppò nel VI secolo a.C. in seno alla nazione greca, che però allora era stanziata non solo
sul territorio dell’attuale Grecia, ma anche sulla costa egeica dell’Anatolia, nella Magna
Grecia (l’attuale Sud Italia), in Sicilia, e, benché in misura minore, anche sulle coste del
Mar Nero, dell’Africa settentrionale e della Francia meridionale.
La civiltà greca arcaica era il prodotto finale di una serie di migrazioni – e quindi di
sovrapposizioni e fusioni – di diverse popolazioni, tutte appartenenti però al ceppo
linguistico indoeuropeo: i minoici, risalenti al 3600 a.C.; i micenei (gli achei dell’Iliade)
insediatisi tra il 1400 e il 1200; infine i dorici, che emigrarono nell’Ellade a partire dal 1100
a.C. A queste invasioni-migrazioni, seguirono circa tre secoli di decadenza culturale, il
cosiddetto medioevo ellenico (XI-IX secolo), durante i quali, però, si diffuse la tecnica di
lavorazione del ferro. Già in questi secoli “medievali”, inoltre, i greci, sull’onda di una forte
crescita demografica, emigrarono verso l’Est e colonizzarono progressivamente le coste
occidentali dell’Anatolia.
Il successivo inizio del periodo arcaico (VIII-VI secolo a.C.) fu caratterizzato politicamente
dalla nascita e dalla diffusione delle poleis, cioè di un nuovo tipo di Stato. La polis non fu
propriamente uno Stato cittadino. Soprattutto inizialmente, e anche successivamente nella
maggior parte dei casi, la polis era un’organizzazione politica unitaria, uno Stato appunto,
comprendente più villaggi e i territori rurali circostanti. Solo più tardi, e solo in alcuni casi,
per esempio quello di Atene, la polis ebbe una connotazione prevalentemente urbana,
benché includesse pur sempre anche aree rurali. Tuttavia, le poleis, benché in misura
diversa, erano caratterizzate: da un’economia non solo agricola ma anche, e in certi casi e
periodi soprattutto, commerciale e industriale; da una notevole diversificazione sociale
(grandi proprietari terrieri aristocratici, contadini piccoli o medi proprietari, mercanti,
artigiani, schiavi) e da una gestione collettiva del potere politico, inizialmente di tipo
aristocratico, successivamente, almeno in molti casi, di tipo oligarchico e perfino
democratico, anche se si trattò sempre di democrazie unicamente maschili.
Tra l’VIII e il VII secolo, dalle poleis greche partirono nuove ondate migratorie dirette
questa volta verso l’Ovest, cioè verso l’Italia meridionale e la Sicilia, che portarono alla
fondazione di decine di nuove poleis, tutte indipendenti, ma con forti legami con le poleis
da cui erano partiti i colonizzatori. In tal modo, all’inizio del VI secolo, la Grecia
comprendeva:
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1. una parte centrale originaria, la parte meridionale della penisola balcanica;
2. una parte orientale, che includeva le coste anatoliche del Mar Egeo, le coste del Mar
Nero, Creta e un breve tratto della costa mediterranea africana;
3. una parte occidentale, che andava dalla Sicilia, all’Italia meridionale, alla costa
mediterranea dell’attuale Francia.
Ma a metà del VI secolo, l’espansione della civiltà greca subì una battuta d’arresto e i greci
rischiarono anzi di perdere la loro indipendenza. In Oriente, infatti, era in corso un’altra
potente espansione culturale e politica, quella dell’impero persiano, che dal 546 a.C. riuscì
a sottomettere le colonie ioniche dell’Asia minore. Mezzo secolo dopo, però, nel 499, le
colonie ioniche si ribellarono al dominio persiano e trovarono il sostegno della polis di
Atene, che, dopo la tirannide di Pisistrato, con la riforma di Clistene (509-507) aveva dato
avvio a un processo di democratizzazione. Così, nella prima metà del V secolo, scoppiarono
e si svolsero le guerre persiane (490-478) nel corso delle quali le maggiori poleis greche
(alcune poleis si accordarono con i persiani) si allearono sotto la guida di Atene e Sparta e
riuscirono a sconfiggere e ricacciare indietro la grande potenza persiana. Favorita dal ritiro
finale e dall’isolazionismo di Sparta, non disposta a garantire la difesa militare anche delle
colonie ioniche, Atene emerse dalle guerre persiane come la polis dominante e con la
costituzione della Lega di Delo (478) impose la propria egemonia imperialistica sulle poleis
situate sulle coste occidentale e orientale dell’Egeo.
I Greci, dunque, erano stanziati su un’ampia parte del bacino del Mediterraneo ed erano
politicamente divisi in una miriade di poleis indipendenti. Tuttavia, i Greci, pur non
facendo parte di un unico Stato, costituivano una nazione, cioè una popolazione omogenea
per lingua, costumi, tradizioni storico-culturali. Per quanto riguarda queste ultime, una
particolare importanza rivestiva la religione, sebbene fosse tutt’altro che unica e uniforme.
I Greci, infatti, praticavano due culti religiosi diversi, benché compatibili e
progressivamente integrati tra loro:
1) quello ufficiale degli dei olimpici o celesti (Zeus, Atena, Apollo, Era, Afrodite,
ecc.), di origine dorica e strettamente legato all’aristocrazia, o comunque alla
classe dominante e dirigente, e dunque alla gestione del potere e allo
svolgimento della vita politica delle poleis;
2) quello spontaneo degli dei terreni o agresti (Demetra, Persefone o Core,
Dioniso), retaggio delle civiltà elleniche predoriche, legato prevalentemente
alla popolazione contadina, e dunque alla vita agricola delle campagne; un
culto spesso caratterizzato da rituali basati su travestimenti, danze sfrenate,
stati d’ebbrezza alcolica, rapporti sessuali orgiastici, ma anche dai “misteri”,
riti che dovevano essere tenuti segreti (di qui il nome) durante i quali ai fedeli
erano svelate, spesso con rappresentazioni mimico-teatrali, verità relative
alla vita individuale successiva alla morte.
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In effetti, a livello dottrinale, la principale differenza tra le due tradizioni religiose greche
concerneva proprio il destino umano post mortem: per la religione olimpica, dopo la
morte, sopravviveva soltanto un’ombra dell’individuo nell’Ade, una sorta di mondo
sotterraneo, in una condizione tutt’altro che felice; invece, per la religione agreste dopo la
morte l’anima individuale era destinata a una seconda vita più felice della prima.
A questo dualismo, va poi aggiunto che ogni polis aveva una propria divinità privilegiata
differente da quelle venerate dalle altre. Ciononostante i Greci si riconobbero
gradualmente in un comune pantheon, composto dall’insieme di tutte le diverse divinità
venerate nelle varie poleis, giungendo anche a integrare dei celesti e dei terreni, come è
attestato dall’introduzione ad Atene nel VI secolo delle feste dionisie nei cerimoniali
ufficiali della polis. In tal modo emersero dei templi comuni a tutti i Greci, come quello di
Apollo a Delfi, quello di Zeus a Olimpia, quello di Demetra a Eleusi. Inoltre, a partire dal
776 a.C. a Olimpia ogni quattro anni si svolgevano i Giochi olimpici, cerimonia religiosa in
onore di Zeus, cui partecipavano atleti di ogni polis greca.
Per completare il quadro della religiosità greca, però, alle due principali tradizioni
religiose, quella celeste e quella terrestre, va aggiunto un movimento religioso particolare,
di origini orientali: l’orfismo, che prese il nome dal leggendario cantore Orfeo, il
protagonista del famoso mito di Orfeo ed Euridice. Come la religione demetro-dionisiaca,
la religione orfica puntava alla salvezza individuale dopo la morte, ma diversamente da
quella per l’orfismo l’obiettivo poteva essere conseguito soltanto seguendo rigorose
prescrizioni comportamentali di tipo ascetico. In particolare, la dottrina orfica sosteneva
che la natura umana originaria è divina, immateriale e immortale, che l’uomo è diventato
corporeo e mortale per punizione di una colpa commessa e che la sua missione è purificarsi
dalla fisicità per riconquistare la propria condizione divina originaria.
L’altra grande sorgente della cultura greca, benché fortemente intrecciata con quella
religiosa, era costituita dalla tradizione artistica, quella poetico-letteraria, che includeva
anche la musica (la musica greca era tutt’uno con la poesia), e quella delle arti plastiche
(scultura, pittura, architettura). Tutta la produzione artistica greca affondava le sue radici
in un sostrato comune, quello dell’antico patrimonio mitico, costituito da miriadi di
racconti, molti dei quali in diverse versioni a seconda delle comunità e dei tempi. I miti
greci, la cui origine si perde nella notte dei tempi, erano il frutto dell’inventiva popolare,
erano stati tramandati e arricchiti oralmente per secoli dagli aedi – cantori professionisti
che si accompagnavano con la cetra – ed erano imperniati sulle relazioni tra le divinità, tra
gli uomini e tra le divinità e gli uomini. L’ingente e variegato patrimonio mitico greco orale
confluì, a partire forse dall’VIII secolo a. C. (ma per alcuni studiosi addirittura dall’XI), in
tre principali filoni letterari:
a) nei poemi Iliade e Odissea, attribuiti all’aedo Omero;
b) nei poemi Teogonia e Opere e giorni del poeta Esiodo (VII secolo a.C.);
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
c) nelle poesie liriche (così chiamate perché cantate accompagnata dal suono della lira,
una cetra di dimensioni più piccole) di numerosi poeti (Alceo, Saffo, Pindaro, ecc.)
vissuti nei secoli VII e VI a.C.
Furono soprattutto i grandi poemi di Omero e Esiodo a contribuire alla formazione della
cultura greca arcaica. I personaggi di questi poemi, e i loro comportamenti, infatti,
costituirono per i Greci successivi altrettanti modelli da imitare, ovvero un vero e proprio
repertorio di valori e regole etiche. In questo senso, anche la tradizione poetico-letteraria
greca presentava un dualismo corrispondente a quello religioso tra religiosità celeste e
religiosità terrena. I poemi omerici rappresentavano e propagandavano un modello
aristocratico di uomo – il guerriero-eroe, l’individuo superiore – basato sui valori della
forza, dell’onore e dell’orgoglio (soprattutto nell’Iliade) cui però si aggiungevano
(soprattutto nell’Odissea) quelli dell’intelligenza e della capacità di parlare in modo
persuasivo (vedi l’episodio di Odisseo e Polifemo), nonché quelli “pacifici”
dell’amministrazione dell’economia domestica e della gestione dei rapporti familiari (vedi
il ritorno di Odisseo a Itaca). Al contrario, i poemi esioidei riflettevano e diffondevano un
modello contadino d’uomo – il piccolo/medio proprietario terriero, l’uomo comune –
offrendo, da un lato, una sintesi organica e completa dei miti Greci – ovvero una
visione/spiegazione mitologica complessiva della natura e dei suoi principi divini – e,
dall’altro, una nuova tavola dei valori, incentrata sul principio egualitario della giustizia
(dìke).
A sua volta la poesia lirica, più tarda, e composta per essere cantata nelle cerimonie
ufficiali delle poleis, veicolava i valori sociali connessi alla loro nascita e al loro sviluppo, e
di conseguenza tradusse il valore cosmico della giustizia in quelli politici della legge
(nòmos) e del buon governo (eunomìa).
Pari importanza rispetto all’arte letteraria ebbe quella plastico-architettonica. Già negli
ultimi secoli del Medioevo ellenico, l’arte scultorea e pittorica greca si caratterizzò per lo
stile geometrico presente sia nelle forme dei vasi o delle anfore sia nei loro disegni
ornamentali. All’inizio dell’età arcaica (VII secolo a.C.) l’arte plastica greca subì l’influenza
delle tradizioni artistiche orientali egiziana, cipriota, siro-palestinese, diventando più
naturalistica e cominciando così a rappresentare anche fiori, animali, uomini e divinità
antropomorfe. A metà del VII sec. iniziò a diffondersi anche la rappresentazione di episodi
mitologici, e così anche le arti plastiche contribuirono alla trasmissione dell’antica
tradizione mitologica. Tuttavia, l’arte greca mantenne la sua originaria impronta
geometrica, in quanto le nuove raffigurazione naturalistiche e antropomorfiche, a
differenza dei loro modelli orientali, furono caratterizzate da un maggior ordine
compositivo e dalla ricerca delle proporzioni tra le parti. Lo stesso criterio fu applicato
all’arte architettonica, realizzata soprattutto nella edificazione dei templi, i quali nello
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stesso periodo, per l’influenza orientale, cominciarono a essere monumentalizzati, ovvero
ad assumere dimensioni e forme maggiori e differenziate rispetto agli edifici abitativi.
Nel VI secolo a.C. le tendenze della seconda metà del VII si radicalizzarono: le
raffigurazioni umane, sia maschili sia femminili, sia scultoree sia pittoriche, aumentarono
di numero e allo stesso tempo assunsero forme sempre più realistiche e più morbide; si
moltiplicarono le rappresentazioni pittoriche e scultoree di scene mitologiche, fino a dar
luogo a vere e proprie narrazioni plastiche; l’architettura templare si fece sempre più
monumentale e assunse i due elementi fondamentali della trabeazione e della colonna.
Tuttavia, la matrice geometrica dell’arte greca si conservò nei principi di equilibrio,
simmetria, proporzione e armonia che innervarono l’arte greca del periodo arcaico. In
questo senso l’arte greca arcaica riflesse e al tempo stesso diffuse il nuovo modello di uomo
che si stava affermando nelle poleis, un uomo meno eroico-divino, più “normale”,
addirittura uguale agli altri. Si trattava di un’eguaglianza non di capacità naturali e
nemmeno di tipo economico, ma giuridica, detta isonomìa, che letteralmente significa
“uguale legge”. In altre parole, i Greci si considerarono uguali perché tutti, in quanto
membri della polis, erano soggetti alle stesse leggi, senza alcuna discriminazione. Questa
nuova autoconcezione dell’uomo greco si forgiò anche e forse soprattutto nelle frequenti
guerre tra poleis rivali, in particolare grazie alla nuova tecnica bellica basata sulla falange
oplitica, che esigeva la massima collaborazione e la massima disciplina collettive, niente a
che vedere con le azioni militari impulsive e individualistiche degli antichi guerrieri
aristocratici (quelli dell’Iliade, per intenderci). Riguardo all’isonomìa dei Greci, va però
ribadito che, anche nel migliore dei casi, cioè nelle poleis democratiche, essa valeva solo
per i maschi adulti originari della polis, il che significa che escludeva le donne, i minorenni,
gli stranieri e soprattutto gli schiavi.
Seppur limitatamente a una élite intellettuale, la cultura greca dell’età arcaica è
caratterizzata anche da una tradizione scientifica importata dalle grandi civiltà antiche del
Medio Oriente (Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia). In questo senso, non va
dimenticato, innanzitutto, che anche l’alfabeto greco, ovvero il “greco scritto”, era nato
dall’importazione di quello fenicio con l’aggiunta originale di segni/lettere delle vocali (che
nel fenicio non esistevano). I Greci da secoli commerciavano, e in modo via via sempre più
intenso, con il Medio Oriente, e, come sempre nella storia, gli scambi commerciali si
intrecciavano agli scambi culturali. Oltre a “importare” l’alfabeto fenicio, i Greci
importarono anche il patrimonio di conoscenze “scientifiche” delle civiltà mediorientali:
osservazioni, nozioni, tecniche e principi di tipo astronomico, matematico e medico. Una
particolare importanza rivestì l’importazione della tecnica di ragionamento chiamata
“dimostrazione per assurdo”, che può essere considerata la matrice del metodo
argomentativo/dimostrativo il quale, come vedremo, è lo strumento fondamentale delle
scienze e della filosofia (teniamo presente che, nell’antichità, ma ancora almeno fino al XVI
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secolo, le scienze erano concepite e praticate come ricerche particolari all’interno della
filosofia). Come nel caso dell’alfabeto, però, fin dall’inizio e soprattutto a partire dal VI
secolo, gli intellettuali greci (che cominciarono a chiamarsi e a essere chiamati “filosofi”)
svilupparono in modo originale e potenziarono il patrimonio di conoscenze scientifiche
ereditato dai popoli del Medio Oriente.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia , perché
risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Infatti gli
uomini, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare la filosofia
attraverso la meraviglia. Da principio esercitarono la meraviglia sulle
difficoltà che avevano a portata di mano; poi, progredendo così poco alla
volta, arrivarono a porsi questioni intorno a cose più grandi, per esempio su
ciò che accade alla Luna, al Sole e agli astri e sulla nascita del tutto. Chi si
pone problemi e si meraviglia crede di non sapere; perciò anche colui che ama
i miti è in una certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che
destano meraviglia. Sicché, se gli uomini filosofarono per fuggire l’ignoranza,
è evidente che cercarono il sapere per il conoscere, e non per trarne un utile.
Ne è prova ciò che è accaduto: infatti quando ormai possedevano quasi tutte le
cose necessarie e quelle occorrenti per un’esistenza confortevole e piacevole,
gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza. E’ chiaro
dunque che noi non cerchiamo questo sapere per nessun altro uso, ma come
dell’uomo diciamo che è libero quando esiste per se stesso e non per un altro
uomo, così cerchiamo questa scienza come quella che è l’unica tra le scienze a
essere libera, perché è l’unica che ha come fine se stessa. Perciò giustamente
si potrebbe pensare che il possesso di essa non è umano, perché in molti sensi
la natura dell’uomo è serva, sicché, secondo Simonide1, “Dio soltanto avrebbe
questo privilegio”. […]
Come abbiamo detto, tutti gli uomini incominciano con il meravigliarsi che le
cose sono come sono, per esempio a proposito degli automi che si muovono
da sé, o dei solstizi o dell’incommensurabilità della diagonale del quadrato
con il lato (del fatto che non esiste un’unità così piccola con la quale si possa
misurare la diagonale e il lato, si meravigliano soltanto quelli che non ne
hanno mai considerata la causa). Ma bisogna arrivare al contrario della
meraviglia iniziale, e, come dice il proverbio, a ciò che è migliore. Del resto
così avviene nei casi citati, quando si è imparato: infatti la cosa che più
meraviglierebbe un uomo che conoscesse la geometria sarebbe proprio la
commensurabilità del lato e della diagonale.
Aristotele, Metafisica, I, 2-5, a cura di C.A. Viano, UTET
Da dove infatti tutte le cose traggono origine, là trovano la loro distruzione
secondo necessità: poiché esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione
dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.
Anassimandro, frammento DK 12 B 1
1
Poeta greco vissuto tra il VI e il V secolo a.C.
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I VIAGGIO
L’ORDINE COME PRINCIPIO FISICO UNICO
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ROTTA SU…
I COSMOLOGI MONISTI
Occorre prima di tutto un’avvertenza generale. Di tutti i filosofi greci antecedenti a
Platone non ci è pervenuta alcuna opera, ma solo frammenti – più o meno numerosi e
significativi a seconda dei casi – e testimonianze indirette di filosofi, cronisti o storici
della filosofia successivi. Pertanto il loro pensiero è una ricostruzione affinata nel tempo,
il più possibile completa, fedele e sorvegliata, ma pur sempre ipotetica e non esaustiva.
Filosofia deriva dall’unione di due termini greci: philòs e sophìa, che rispettivamente
significano amore e conoscenza. Dunque, letteralmente filosofia significa amore della
conoscenza. Ma ciò che si ama lo si cerca. Pertanto, possiamo meglio tradurre filosofia
con ricerca della conoscenza.
All’inizio, e fino almeno al XVI secolo, la filosofia è strettamente legata a quelle ricerche
conoscitive che oggi chiamiamo “scienze” (i Greci per “scienza” intendevano “conoscenza”
nel senso forte di conoscenza vera). Nell’antichità esse si differenziano dalla filosofia
perché la filosofia è considerata ricerca conoscitiva della realtà nel suo insieme, cioè nella
sua totalità; mentre le scienze sono considerate ricerche conoscitive di settori particolare
della realtà (l’astronomia dei corpi celesti e dei loro moti, la meteorologia dei fenomeni
atmosferici terrestri, la fisica dei moti terrestri, la biologia degli esseri viventi terrestri,
ecc.). In tal senso filosofia e scienze, nell’antichità, si praticano insieme, e, seppur in
misure e modi diversi, i filosofi sono anche scienziati e gli scienziati anche filosofi.
La nascita, almeno ufficiale, della filosofia è tradizionalmente individuata nel pensiero di
un intellettuale di nome Taléte, nato e vissuto a Mileto tra la fine del VII e l’inizio del VI
secolo a.C. Sempre la tradizione storiografica ci ha tramandato che Talete avrebbe avuto
un discepolo, Anassimàndro, e questo a sua volta un altro discepolo, Anassìmene. Questi
tre filosofi vengono pertanto considerati altrettanti esponenti di un’unica “scuola”, cioè di
una corrente di pensiero omogenea, detta “scuola di Mileto”. Ciò significa che Talete,
Anassimandro e Anassimene, benché abbiano elaborato filosofie originali e differenti,
condividono una medesima impostazione di fondo, una stessa visione complessiva della
realtà.
Per tutti e tre, innanzitutto, la realtà, ossia tutto ciò che esiste, è solo fisica, ovvero
materiale, e quindi sensibile, cioè conoscibile solo a partire dei nostri cinque sensi. In
secondo luogo, la realtà è “natura” (in greco physis, da cui fisica), ovvero qualcosa che
nasce (“natura” viene dal latino nascor/natus) e quindi muore. Ciò implica che la realtà è
concepita dai filosofi di Mileto come materia vivente, come vita. Questa concezione della
materia è tradizionalmente denominata “ilozoismo” (dal greco hyle=materia e
zóion=essere vivente), ma possiamo anche chiamarla “organicismo”, riferendoci alla
differenza attuale tra natura meccanica e natura organica (o vivente o biologica). Oggi,
però, consideriamo natura organica solo gli esseri vegetali e animali, non quelli minerali.
I filosofi di Mileto, invece, ritenevano che i minerali fossero dei viventi con un basso
grado di vitalità, basandosi forse sulla considerazione che gli esseri viventi presentano
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diversi gradi di vitalità (p.e., i vegetali sono meno vitali degli animali) e su alcuni
fenomeni magnetici (la calamita che attrae schegge di ferro) ed elettrici (l’ambra che
attrae i capelli) che erano creduti altrettante manifestazioni della forza vitale.
In terzo luogo, e soprattutto, la realtà fisica per tutti e tre i filosofi di Mileto è ordinata,
costituisce un ordine. In greco antico ordine si diceva còsmos, ossia cosmo, parola che poi
è diventata sinonimo di universo. In questo doppio senso, i primi filosofi sono chiamati,
oltre che “fisici” (da physis=natura), “cosmologi”. La loro tesi fondamentale – la realtà è
còsmos, cioè ordine – costituisce il presupposto necessario della filosofia e delle scienze
(astronomia, matematica, fisica, medicina, ecc.). La filosofia e le scienze, infatti,
consistono proprio nella ricerca conoscitiva dell’ordine della realtà, in quanto questa si
presenta immediatamente disordinata, apparentemente priva di qualsiasi ordine.
Per i milesii cercare l’ordine della realtà fisica significa individuare il suo “principio”
(arché in greco) unico: la sua scaturigine, ovvero la sua causa prima, la sostanza di cui è
fatta, la legge che la governa. Talete, Anassimandro e Anassimene qualificano in tre
modi diversi il principio – rispettivamente, come Acqua, come Illimitato e come Soffio
(aria che si muove) – ma per tutti e tre esso è ciò che dà l’esistenza a ogni cosa (cioè che fa
essere la realtà fisica, che la rende reale) proprio in quanto la ordina. E la ordina in
quanto, essendo unico, la unifica, ne costituisce cioè il denominatore comune al di là delle
innumerevoli differenze.
Ma per cercare occorre uno strumento. Lo strumento della ricerca conoscitiva è il
“metodo” razionale, ossia argomentativo: una procedura logico-linguistica in base alla
quale ogni conoscenza che ambisca a (im)porsi come vera, cioè come un’effettiva
descrizione/spiegazione della realtà, deve essere giustificata/provata con uno o più
argomenti, in modo tale che possa essere controllata e messa alla prova da tutti ed
eventualmente criticata e cambiata. In altre parole, la proprietà decisiva del metodo
razionale (o razionalità o ragione), proprio della filosofia e delle scienze, è quello di
essere criticabile, è la criticabilità, perché la criticabilità permette di perfezionare le
conoscenze, cioè di renderle sempre più vere. Il valore della scienza contemporanea sta
essenzialmente nella sua capacità di cambiare, di innovarsi continuamente, perché è
grazie a questa capacità che godiamo di un progresso scientifico, cioè che la nostra
conoscenza della realtà si amplia e si approfondisce.
A sua volta la criticabilità implica la discussione e quest’ultima l’esistenza di una
comunità di intellettuali in comunicazione tra loro. Quindi il metodo
razionale/argomentativo è anche un metodo dialogico o dibattimentale. Come vedremo,
però, il metodo razionale o argomentativo – ovvero la ragione o razionalità – può essere
concepito e praticato in modo diversi. In questo senso, la filosofia e le scienze sono anche
ricerca e dibattito critico intorno a quale sia il metodo razionale migliore per cercare, e
possibilmente trovare, la conoscenza della realtà, cioè il suo ordine nascosto.
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VITE DI CAPITANI
TALETE, ANASSIMANDRO, ANASSIMENE
La culla della filosofia occidentale fu la Grecia del VII-VI secolo a.C. e in particolare la città
di Mileto, sulle coste egee dell’attuale Turchia, che allora faceva parte delle colonie ioniche
in Anatolia, ovvero della parte più orientale della nazione greca. Le colonie ionicoanatoliche, e soprattutto Mileto, erano città commerciali, floride e all’avanguardia per
mentalità e costumi, in stretto rapporto economico e culturale con le civiltà mediorientali:
Fenici, Egiziani, Babilonesi, Israeliti, Persiani.
Fu a Mileto che nacque e visse Talete (640-550 c.ca), di origine fenicia (come il greco
scritto), che la tradizione considera il primo filosofo, ovvero il fondatore dell’impresa
filosofica. Questo suo primato e la distanza temporale lo hanno avvolto in un’aura
leggendaria – egli era considerato uno dei mitici Sette Sapienti dell’antica Grecia – che ci
impone di dubitare di almeno alcune delle informazioni che ci sono state tramandate sulla
sua vita. Per esempio, che viaggiò in Egitto (che per i Greci era il Paese dei sapienti), dove
avrebbe calcolato l’altezza delle piramidi in base alla proporzionalità con le loro ombre), e
in Mesopotamia (un altro Paese di sapienti per i Greci antichi). Queste notizie si
connettono alla sua attività di matematico: gli sono attribuiti 3 teoremi relativi ai triangoli,
alle rette parallele e alla circonferenza. Platone, nel dialogo Teeteto, riporta un anedotto
allegorico della sua vita: camminando all’aperto con gli occhi fissi al cielo, cioè immerso
nello studio degli astri, non vide una grande buca e vi ci cadde dentro, suscitando le
fragorose risate di scherno di una sua serva tracia (i traci erano considerati ignoranti e
rozzi). Il significato allegorico dell’aneddotto è chiaro: il filosofo è un uomo “con la testa tra
le nuvole”, cioè un uomo dedito alla “theorìa” (in greco, contemplazione, cioè osservazione
concentrata), disinteressato alla realtà immediata e, pertanto, poco o per niente pratico e
quindi incompreso e dileggiato dalla gente comune. Aristotele, invece, ci riporta un
episodio di tenore diverso, se non opposto, della vita di Talete: osservando gli astri e gli
eventi meteorologici, Talete predisse un’eccezionale raccolta di olive, affittò tutti i frantoi
di Mileto e, dopo il raccolto, impose un prezzo altissimo ai contadini per il loro uso,
arricchendosi incredibilmente. Forse fu da Talete che il termine “speculazione” (dal
termine latino che traduce il greco “theorìa”), che inizialmente significava “pensiero
astratto”, assunse il secondo significato di operazione economica che consegue alti
guadagni. Scherzi a parte, l’episodio raccontato da Aristotele attesta che il filosofo è capace
di sfruttare utilitaristicamente la sua conoscenza e pertanto sa essere più pratico degli
uomini comuni. In questo senso, ci è stato anche tramandato che Talete avrebbe permesso
all’esercito di Creso, re della Lidia, di guadare un fiume facendo costruire un canale che,
dividendone le acque, ne dimezzava la profondità e la corrente. Infine, sappiamo anche che
Talete previde l’eclissi solare del 585 (che aveva a tal punto atterrito Lidi e Medi da far loro
sospendere una battaglia). Ma Talete non si limitò alle previsioni astronomiche. Previde
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infatti anche l’espansionismo persiano e consigliò le poleis ioniche (quelle dell’Asia Minore
e dell’Attica) di prevenirlo costituendo una lega politico-militare. Quanto alle relazioni
personali di Talete, non ci è invece stato tramandato un granché: visse da solitario e non si
sposò, ma adottò il figlio di una sorella. Alla madre che lo sollecitava a sposarsi e ad avere
figli, da giovane avrebbe risposto che c’era ancora tempo, dopo una certa età, che era ormai
troppo tardi. Secondo altri, non avrebbe voluto generare figli per effettivo amore paterno.
Allievo di Talete e suo successore fu Anassimandro (610-545 c.ca), nativo di Mileto.
Della sua vita sappiamo molto poco. Ci è stato tramandato che mentre cantava fu deriso da
dei bambini e allora esclamò che avrebbe dovuto cantare ancora meglio per farsi
apprezzare anche dai bambini. L’aneddotto si può interpretare come un’allegoria
dell’impegno del filosofo a farsi comprendere anche dai più ignoranti utilizzando uno stile
comunicativo accattivante. In questo senso, esso si può collegare al fatto che Anassimandro
fu il primo filosofo che espose per scritto la sua filosofia (anche in seguito da alcuni filosofi
la filosofia fu identificata con il discorso orale) adottando, inoltre, una forma poetica. Gli si
attribuisce, infatti, un poema filosofico intitolato Sulla natura, di cui ci è pervenuto un solo
frammento: “Da dove infatti tutte le cose traggono origine, là trovano la loro distruzione
secondo necessità: poiché esse pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia
secondo l’ordine del tempo”. A livello scientifico gli sono stati attribuiti la determinazione
dei solstizi e degli equinozi, una teoria della generazione degli astri e una teoria
evoluzionistica dell’origine della specie umana. Ci è stato tramandato che previde un
terremoto a Sparta e che fece evacuare la città prima che esso si verificasse, salvando molte
vite umane. Anassimandro fu anche tecnico: costruì uno gnomone, cioè uno strumento per
misurare il moto apparente di rivoluzione annuale del Sole, e un orologio solare e inoltre
disegnò una carta geografica della Terra.
Discepolo e successore di Anassimandro, e ultimo filosofo della scuola di Mileto, fu
Anassìmene (588-528), della cui vita sappiamo ancora meno che di quella del suo
maestro. Anch’egli nativo di Mileto, espose la sua filosofia nell’opera Sulla natura, scritta
però in prosa, cioè in uno stile più semplice e accessibile. Di questa opera ci resta un unico
frammento: “Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il
mondo intero”. A livello scientifico, Anassìmene si occupò di meteorologia, cioè studiò le
nuvole, le precipitazioni atmosferiche, il regime dei venti e l’arcobaleno.
Tutti i filosofi di Mileto, inoltre, ebbero importanti incarichi di governo nella loro città.
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TAPPA 1
TALETE: L’ACQUA E’ NATURA DI TUTTE LE COSE
Talete, iniziatore di questo tipo2 di filosofia, dice che il principio è
l’acqua (per questo afferma anche che la terra galleggia sull’acqua)
desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione
che il nutrimento di tutte le cose è umido, che perfino il caldo si genera
dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è,
appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione
da questo fatto e dal fatto che tutti i semi di tutte le cose hanno una
natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide.
Aristotele, Metafisica, I, 3, 983 b 20-27
Ogni tesi filosofica deriva dalla scoperta di un problema
La tradizione ci riporta la tesi fondamentale di Talete:

L’acqua è la “natura” di tutte le cose.
Ma saremmo superficiali se pensassimo che questa tesi sia stata il primo vagito della
filosofia. Ogni tesi infatti presuppone una domanda, ogni soluzione un problema. La
filosofia è innanzitutto capacità di vedere, e quindi porsi, un problema. Di conseguenza è
plausibile congetturare che Talete inaugurò l’impresa filosofica innanzitutto chiedendosi:

Qual è l’origine di tutte le cose?
Di primo acchitto questa domanda può sembrare scontata e poco interessante. Ma non è
così. Infatti, in generale, le grandi scoperte della filosofia e delle scienze sono nate da chi ha
saputo vedere e porsi problemi originali che altri non hanno saputo vedere e porsi. Se porsi
un problema nuovo non implica necessariamente riuscire a risolverlo, di certo aver risolto
un problema implica aver saputo rilevarlo o, quanto meno, ben impostarlo.
2
Quella che assume che la realtà sia physis (natura) e che lo scopo della filosofia sia trovare la causa naturale
di tutte le cose.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La filosofia ricerca la causa unica di tutte le cose
La risposta, infatti, dipende dalla domanda, ossia, per l’appunto, la soluzione di un
problema è strettamente legata al modo in cui il problema viene posto. In questo senso, la
domanda di Talete contiene già due caratteri costitutivi della filosofia:
a) il riferimento a “tutte le cose”, ossia la ricerca della totalità o dell’intero: la filosofia è
tale perché punta a conoscere cos’è la realtà nel suo insieme e nella sua unità, non solo
una sua parte o un suo aspetto, p.e. il cielo stellato o la luce;
b) il carattere neutro, impersonale, del soggetto: “qual è l’origine?” anziché “chi ha dato
origine?”, il che indica la rottura con la sapienza mitico-religiosa la quale partiva da
quest’ultima domanda e quindi rispondeva rimandando a una o più divinità personali,
p.e. Gaia e Urano, oppure Oceano e Teti.
L’acqua come origine, ingrediente e regola di tutte le cose
Chiarito questo, possiamo rivolgere la nostra attenzione alla tesi, cioè alla
risposta/soluzione che Talete diede alla sua domanda/problema:

L’acqua è la “natura” di tutte le cose.
Affermando che l’acqua è la “natura” di tutte le cose, Talete stabilisce implicitamente una
distinzione fondamentale tra:
• la molteplicità degli enti naturali che nascono e muoiono, p.e. i fiori, gli animali, le
montagne;
• un elemento eterno, cioè che non nasce né muore, appunto l’acqua, che è il
fondamento unitario di tutti gli enti naturali.
Ma cosa intende per “natura” Talete? Per rispondere, bisogna innanzitutto dire che il
termine italiano “natura” deriva dal latino n a t u r a (traduzione del greco
physis=generazione, da cui “fisica”), legato al verbo nascor, che significava la realtà fisica
in quanto composta da esseri che nascono e quindi mutano e muoiono. Nell’italiano
corrente “natura” indica la realtà materiale non prodotta dall’attività umana. Ma ancora
oggi usiamo “natura” anche per significare la costituzione fondamentale, ovvero l’identità
profonda, di qualcosa, come nelle espressioni:
• “non è nella tua natura comportarsi così”;
• “abbaiare fa parte della natura del cane”.
Talete usa “natura” (physis ) in quest’ultima accezione. Più precisamente, assumendo che
la “natura” è la costituzione fondamentale di tutte le cose, Talete vuol dire che l’acqua è:
a) ciò che dà origine a tutte le cose, che le genera, ossia le fa esistere;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
b) l’ingrediente di base delle diverse sostanze materiali (legno, ferro, roccia, ecc.) di cui
sono fatte tutte le cose, nel senso che tutte le altre sostanze sono trasformazioni
dell’acqua;
c) ciò che regola la crescita, la trasformazione e la dissoluzione di tutte le cose.
Una spiegazione fisica e laica, alternativa a quella mitico-religiosa
In questo modo, grazie alla sua ricerca filosofica, Talete arriva a dare una risposta alla sua
domanda iniziale. Egli afferma di aver scoperto che la natura di tutte le cose è l’acqua.
Questa è la prima tesi conoscitiva conseguita dalla filosofia. Si tratta di una tesi
rivoluzionaria.
Infatti, prima di Talete, in base alla conoscenza mitico-religiosa tradizionale, si pensava
che il mondo fisico fosse stato generato e fosse governato da una pluralità di divinità (Gea,
Urano, Crono, Zeus, Poseidone, ecc.). Talete invece afferma che la causa prima
dell’universo è una sola e che inoltre non è un dio personale ma è un elemento naturale, del
tutto impersonale, l’acqua appunto.
L’invenzione dell’argomentazione razionale
Ma Talete introduce anche una seconda innovazione rivoluzionaria. La conoscenza miticoreligiosa descriveva l’esistenza e le azioni delle divinità in base all’immaginazione e in
forma narrativa (mythos=parola, racconto). Talete invece arriva a scoprire che la natura di
tutto è l’acqua attraverso il ragionamento ed espone la sua scoperta utilizzando la forma
dell’argomentazione razionale. Il ragionamento, o argomentazione razionale, è un
procedimento del pensiero e, insieme, del linguaggio che consiste nel collegare
logicamente più fatti/concetti/parole in modo da giungere a una conclusione che ha la
pretesa di essere veritiera, cioè di dover essere condivisa da tutti.
Talete ha “inventato” il metodo dell’argomentazione razionale, forse anche sulla base della
sua ricerca e delle sue scoperte in campo matematico, che egli considerava un settore della
filosofia. Infatti l’argomentazione è il corrispettivo nel linguaggio verbale della
dimostrazione matematica, la quale a sua volta è un’argomentazione che utilizza i simboli
logici e quantitativi propri del linguaggio matematico.
Le argomentazioni dell’acqua come “natura” di tutte le cose
Nei limiti di quello che ci è stato tramandato, sono tre le argomentazioni razionali
elaborate da Talete per scoprire e sostenere la tesi “la natura di tutto è l’acqua”:
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
a) la Terra (intesa sia come terraferma sia come astro) galleggia sull’acqua, cioè è
sostenuta - e quindi non precipita ma è stabile e vivibile - grazie all’acqua;
b) l’acqua è ciò che nutre - cioè mantiene in vita - tutte le cose (sottintendendo che tutte le
cose che esistono, in un modo o in un altro, si alimentano, cioè traggono dall’esterno
ciò che è necessario alla loro esistenza);
c) l’acqua è il componente principale ed essenziale dei semi che a loro volta sono i
numerosi e diversificati composti (seme vegetale, spermatozoo, ovulo, germi cristallini,
ecc.) che generano ogni cosa.
Il modello fisico-empiristico della razionalità
Con queste tre argomentazioni, Talete dà inizio alla filosofia come conoscenza “razionale”,
cioè come conoscenza basata sulla “ragione”. Ma cosa si intende per “ragione”? In quanto
primo filosofo, Talete ha elaborato la prima concezione della ragione, ovvero di ciò che i
Greci chiamavano l ò g o s (parola/discorso collegato, a differenza di
mythos=parola/discorso slegato, senza vincoli, libero). La ragione è dunque, in prima
battuta, il pensiero/discorso in quanto usa il metodo dell’argomentazione.
Ma le tre argomentazioni di Talete hanno il loro punto di partenza nell’osservazione della
realtà basata sull’uso dei sensi (vista, udito, odorato, gusto, tatto), cioè sulla “esperienza
sensibile”. Dunque, in seconda istanza, la ragione per Talete è l’argomentazione che si
fonda sull’esperienza sensibile.
A sua volta tale tipo di argomentazione conduce a riconoscere come reali, davvero
esistenti, e quindi veri, solo elementi naturali, cioè fisico-materiali. Quindi, in terzo luogo,
la ragione per Talete è l’argomentazione che, fondandosi sull’esperienza sensibile, arriva
alla conclusione che la realtà ha una natura fisico-materiale.
Questa conclusione ha la pretesa di essere vera, cioè di dover essere condivisa da tutti gli
uomini, in quanto alla ragione, basata sull’argomentazione a partire dai sensi, è attribuita
la capacità di rispecchiare la realtà fisica, cioè di conoscere ciò che davvero è, ossia l’ordine
cosmico e il suo principio fondamentale (ciò che dà ordine), l’acqua.
Ma questa pretesa può essere contestata. Infatti proprio l’essenza del metodo
argomentativo – esporre chiaramente le motivazioni delle proprie opinioni – rende
possibile la verifica e quindi la contestazione di una tesi. In conclusione, la ragione è anche,
e soprattutto, quella forma di pensiero/discorso che permette a tutti di mettere alla prova,
criticare e discutere le opinioni di ognuno in modo da poter stabilire se e quanto sono
effettivamente veritiere.
A partire da Talete, la storia della filosofia è un’interminabile e avvincente discussione
critica.
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TAPPA 2
ANASSIMANDRO: IL PRINCIPIO È ILLIMITATO
Tutte le cose sono o principio o dal principio: e dell’Illimitato non c’è
principio, perché avrebbe un limite. Poi, come principio, è ingenerato e
imperituro: perché ciò che è generato deve avere una fine, e la fine è propria
di ogni dissolvimento. Perciò, noi diciamo, di esso non può esserci principio,
ma esso sembra essere principio delle altre cose, e abbracciarle tutte e tutte
reggerle […].
Aristotele, Fisica, III, 4, 203 b 6
Anassimandro riformula il problema da cui parte Talete, e con lui la filosofia. Egli infatti si
chiede:

Qual è il “principio” (arché) di tutte le cose?
E’ lo stesso Anassimandro a coniare il significato filosofico del termine “principio”,
scegliendo per esprimerlo il termine greco archè (dal greco archèin=“essere primo, essere
capo, comandare”) attribuendogli queste accezioni:
1. inizio, origine (p.e.: “in principio c’era il Caos”, “questo è solo il principio”);
2. matrice, causa prima di qualcosa (“il principio da cui è tratta questa tesi”, “la scintilla
è il principio del fuoco”);
3. l’elemento costitutivo di qualcosa (“il perborato è principio attivo del detersivo”);
4. regola, legge (“è un uomo di principi”, “non hai rispettato il principio di non
contraddizione”, “gli uomini agiscono in base al principio del piacere”).
In questo modo Anassimandro distingue, e quindi chiarisce meglio, i molti significati con
cui Talete aveva usato il termine “natura”: attribuendo una parte di essi al termine
“principio”, Anassimandro lascia al termine “natura” il significato con il quale da allora in
poi sarà usato in filosofia, quello di “insieme delle cose fisiche o materiali in quanto
vengono generate, cambiano, si muovono, generano a loro volta e si dissolvono”.
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Per Anassimandro il principio (archè) della natura è l’“Illimitato” (àpeiron). Con questa
parola Anassimandro intende:
1. sia l’indefinitezza qualitativa, cioè qualcosa di indeterminato, che è privo di forma e
caratteristiche precise.
2. sia l’infinitezza quantitativa, cioè qualcosa che possiede una vastità e una durata
senza fine.
Tradizionalmente, l’Illimitato è stato interpretato, per lo più, come una via di mezzo tra
aria e fuoco. Recentemente, in base a nuove indagini etimologiche, si è avanzata l’ipotesi
che per Anassimandro consistesse in una sorta di fango, cioè in un misto di acqua e terra.
Di certo si tratta di qualcosa che, in quanto “misto”, si differenzia radicalmente da ogni
elemento specifico e proprio per questo può assumere tutte le forme e le caratteristiche.
Secondo Anassimandro, l’Illimitato è l’unico principio, cioè l’unica cosa esistente capace di
generare tutte le cose, proprio in quanto è eterno, di grandezza infinita e privo di una
forma e di proprietà determinate. Usando delle metafore esemplificative, si potrebbe dire
che l’Illimitato è come una miniera inesauribile ricca di ogni tipo di minerali; oppure che è
come un enorme ammasso di creta che può automodellarsi in tutti i modi possibili e
immaginabili.
Si può sensatamente congetturare che la nuova configurazione del principio da parte di
Anassimandro sia la soluzione di un problema che egli si era posto a proposito della
filosofia di Talete:

com’è possibile pensare che un elemento limitato e definito, l’acqua, possa generare
cose molto differenti o addirittura contrarie, p.e. la terra, i metalli, e soprattutto il
fuoco?
In altre parole, Anassimandro criticò la tesi fondamentale di Talete, cioè ne argomentò la
falsità, e propose un’alternativa che egli considerava effettivamente veritiera.
Ma come avviene per Anassimandro la trasformazione dell’Illimitato in tutte le cose? Per
spiegare il passaggio dal principio ai suoi derivati, cioè la formazione dell’universo,
Anassimandro attribuisce all’Illimitato la proprietà intrinseca del movimento rotatorio. In
quanto è una sorta di vortice, o di gigantesca centrifuga, l’Illimitato si separa al suo interno
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dividendosi e determinandosi nei contrari (caldo-freddo, secco-umido), cioè nelle
proprietà più generali di tutte le cose.
Dalla combinazione dei contrari derivano quattro elementi-basi – acqua, aria, terra, fuoco
–, da cui si generano infine tutte le cose per ulteriori processi di divisione e combinazione.
In altre parole, tutte le cose sono composti di parti dei quattro elementi naturali.
Anassimandro non propone la sua tesi come una semplice opinione personale. Come
Talete, egli usa il metodo dell’argomentazione per rendere la sua opinione una verità, cioè
una tesi conoscitiva che tutti gli uomini devono condividere. La sua argomentazione parte
dall’assunzione che ogni cosa che esiste:
• o è un principio, ovvero ciò che dà origine a qualcos’altro;
• o è un derivato, cioè ciò che è prodotto da qualcos’altro.
In termini logici, Anassimandro stabilisce tra principi e derivati una disgiunzione
esclusiva, tale per cui se qualcosa è principio non può essere derivato e viceversa. Ma se
qualcosa è principio, argomenta Anassimandro, non può essere limitato. Infatti, se avesse
un limite, p.e. nel tempo, allora avrebbe un inizio, quindi sarebbe originato da
qualcos’altro, ma allora sarebbe un derivato.
Pertanto, conclude Anassimandro, il principio deve essere non-limitato, ossia non può che
essere l’Illimitato.
L’argomentazione di Anassimandro è diversa da quella di Talete. Infatti Talete partiva
dall’esperienza sensibile immediata di alcuni fenomeni naturali per arrivare a delle
conclusioni generali, cioè relative a tutti i fenomeni. Egli usava cioè il procedimento logico
che oggi chiamiamo “induzione”. Il riferimento di Anassimandro all’esperienza sensibile,
invece, è indiretto e sfumato: si riduce alla distinzione di tutti i fenomeni in principi e
derivati, cioè a una classificazione, che è già un’operazione di astrazione teorica rispetto
all’esperienza.
Il fulcro dell’argomentazione di Anassimandro è la relazione logica tra i concetti di
principio, derivato e illimitato. In questo senso Anassimandro parte da affermazioni
generali, relative alla definizione di alcuni concetti, e ricava logicamente da esse delle
conseguenze più specifiche. La strategia argomentativa di Anassimandro è dunque teorica
ed è basata sul procedimento logico che chiamiamo “deduzione”.
Anassimandro, però, elabora anche un’altra argomentazione a favore dell’Illimitato, che si
differenzia dalla prima per il suo marcato carattere etico, cioè relativo alle nostre azioni, ed
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escatologico, cioè relativo al destino finale di tutti gli esseri viventi. Essa, infatti, offre una
spiegazione e una giustificazione della sofferenza propria dell’esistenza individuale e della
sua conclusione ultima: la morte.
Anassimandro afferma che in origine esiste solo l’unità indifferenziata dell’Illimitato, in cui
tutto è unito e fuso con tutto. L’individualità di ogni cosa e degli uomini nasce da una
rottura e da un distacco rispetto all’unità primigenia dell’Illimitato. Rottura e distacco
costituiscono una “colpa”. Si tratta però di una colpa oggettiva, cioè non volontaria ma
necessaria, in quanto conseguenza del moto rotatorio, cioè di una proprietà essenziale
dell’Illimitato stesso. Tuttavia, per quanto involontaria, si tratta pur sempre di una colpa e
quindi comporta la necessità di espiare scontando una “pena”. Ma anche la pena è
oggettiva. Essa, infatti, consiste nella stessa vita individuale, cioè nel fatto che la scissione
dell’unità in una molteplicità di cose individuali, diverse e contrarie, comporta
necessariamente la loro competizione e il loro conflitto, e quindi l’infliggersi dolore a
vicenda.
Tale conflitto si manifesta come “legge del tempo”, cioè come progressivo logoramento
reciproco che conduce inesorabilmente ogni individuo alla vecchiaia e alla morte. Eppure
proprio grazie a questa “pena”, la “colpa” viene espiata, cioè cancellata. In altre parole, il
dolore purifica l’individuo e soprattutto, in questo modo, lo rende degno di rifluire
nell’unità dell’Illimitato. La morte quindi, secondo Anassimandro, non è un male ma è il
ripristino della condizione migliore dei viventi, quella della loro fusione nell’Illimitato.
Infatti, non essendoci nell’Illimitato divisioni, in esso non c’è nemmeno conflitto e quindi
non c’è dolore, ma solo pace e serenità. Inoltre, poiché non ha un inizio, l’Illimitato non ha
neanche una fine, cioè non muore, non è soggetto alla legge del tempo, bensì è eterno. La
morte individuale pertanto permette l’ingresso nella dimensione dell’eternità, cioè segna
paradossalmente la liberazione dalla stessa morte.
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TAPPA 3
ANASSIMENE: IL PRINCIPIO E’ IL SOFFIO
Come l’anima nostra che è aria tiene insieme noi, così il soffio e l’aria
circondano tutto il cosmo […].
Frammento citato in Aezio, I, 3, 4
L’aria è prossima all’incorporeo; e poiché noi nasciamo per il suo flusso, è
necessario ch’essa sia infinita e ricca, per non venir mai meno.
Frammento citato in Olimpiodoro, De arte sacra, c. 25
Anassìmene fa propria, senza modificarla, la formulazione del problema filosofico
fondamentale data da Anassimandro:

qual è il principio (arché) di tutto?
Tuttavia egli accoglie solo in parte la soluzione di Anassimandro. Per comprendere il
perché, è sensato ipotizzare che Anassimene abbia rinvenuto un nuovo problema
all’interno della teoria del suo maestro:

è possibile pensare che l’assolutamente Illimitato generi il limitato, ossia che
qualcosa produca la sua negazione?
La risposta per Anassimene è negativa, perché altrimenti vi sarebbe una frattura –
ontologica3 e logica – tra il principio e i suoi derivati tale per cui è impossibile pensare a
una produzione dei secondi da parte del primo. E’ plausibile che Anassimene abbia
criticato con questo argomento la teoria di Anassimandro e da questa critica abbia preso le
mosse per riformarla in modo originale.
La nuova teoria filosofica di Anassimene si basa sulla distinzione tra i due aspetti che erano
fusi insieme nel concetto di Illimitato di Anassimandro:
1) l’estensione senza limiti, cioè l’infinitezza estensiva o quantitativa;
3
Che riguarda l’essere, cioè l’esistenza, delle cose.
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2) l’indeterminatezza o indefinitezza, cioè l’infinitezza intensiva o qualitativa.
Per Anassimene, il principio è illimitato estensivamente, ma limitato intensivamente.
Infatti Anassìmene sostiene che il principio di tutte le cose è il soffio, ovvero aria che spira,
che si diffonde dinamicamente e che circola continuamente avvolgendo e impregnando
ogni cosa. Questo flusso aeriforme è:
• di dimensione quantitativa infinita e quindi onnipresente;
• ma qualitativamente determinato, cioè con una propria identità, una specifica
configurazione.
Tale configurazione, comunque, si differenzia da quelle di tutti gli altri elementi e di tutte
le cose proprio perché è incomparabilmente più sfumata, ovvero perché è “incorporea”. Ciò
significa che il soffio è qualcosa di fisico, ma che la sua materialità è talmente fine,
microscopica, impalpabile, dilatata che non si può dire che esso sia un “corpo”, cioè un
oggetto materiale visibile e palpabile, fatto di materia concentrata e di dimensioni finite. In
questo modo il soffio, possedendo il grado minimo di determinazione, si differenzia
comunque – non solo per grandezza ma anche qualitativamente – da tutte le cose naturali.
Tuttavia, la sua differenza non è assoluta, perché è pur sempre determinato, e dunque non
implica la sua incompatibilità con le cose finite.
Il soffio per Anassimene possiede il moto in quanto sua proprietà costitutiva. Come per
Anassimandro, anche per Anassimene questo moto originario è rotatorio ma si articola e si
manifesta in prima battuta in due modalità opposte e complementari:
•
la rarefazione, cioè un moto di dilatazione o espansione, che produce il caldo;
•
la condensazione, cioè un moto di concentrazione o riduzione, che produce il freddo.
Poiché il soffio, in quanto principio estensivamente infinito e incorporeo, è notevolmente
rarefatto, esso è anche costitutivamente caldo. In base all’ulteriore rarefazione il soffio si
trasforma in fuoco, l’elemento più caldo; in base alla sua condensazione il soffio si
trasforma in acqua e terra, gli elementi freddi. Così vengono prodotti gli elementi
fondamentali e, insieme, gli opposti caldo/freddo. Essi, essendo intrinsecamente dinamici,
devono necessariamente scontrarsi e mischiarsi. In questo modo danno luogo a tutte le
cose individuali che dunque altro non sono che diversi tipi di combinazione degli elementi,
ovvero diversi livelli di rapporto o equilibrio tra rarefazione e condensazione del soffio.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Corollario della nuova teoria dell’origine dell’universo di Anassìmene è che tutte le
caratteristiche qualitative delle cose naturali sono una conseguenza delle loro
caratteristiche quantitative, ovvero del loro grado di rarefazione/condensazione, cioè della
loro temperatura.
In altri termini: i colori, gli odori, i sapori, tutte le molteplici sfumature qualitative dei
fenomeni naturali sono spiegabili in base a variazioni di una scala quantitativo-numerica.
Si tratta del primo “riduzionismo” della storia della filosofia che ovviamente implica una
formidabile semplificazione conoscitiva.
Ci è stata tramandata una sola argomentazione della propria teoria da parte di
Anassìmene: quando stringiamo le labbra ed espiriamo, il fiato che ne esce è freddo;
quando allarghiamo la bocca ed espiriamo, il fiato che ne esce è caldo. Nel primo caso
comprimiamo l’aria, nel secondo la dilatiamo; ciò attesta che la condensazione produce
freddo, la rarefazione caldo. La tipologia di questa argomentazione è, in prima
approssimazione, la stessa delle argomentazioni di Talete, cioè un’argomentazione basata
sull’esperienza sensibile.
Possiamo, però, notare una piccola ma decisiva differenza. Anassìmene non si limita a
osservare fenomeni naturali, ma ne organizza e ne produce uno in proprio, in quanto è lui
stesso che prova a chiudere o aprire le labbra e a soffiare. Seppur in modo minimo questa
esperienza è “artificiale”, perché attuata in base a una progettazione razionale e a un’azione
intenzionale del ricercatore. Essa si può perciò considerare l’antenata di ciò che oggi
chiamiamo “esperimento”.
Altre argomentazioni, a sostegno del soffio caldo come principio, non ci sono pervenute,
ma è possibile ipotizzarle con sufficiente plausibilità. Per esempio l’osservazione che molti
esseri viventi, gli uomini innanzitutto, quando muoiono emettono un ultimo respiro e poi
smettono di respirare. In altre parole la vita è connessa al respirare, cioè alla presenza del
soffio caldo, la morte all’apnea, cioè alla perdita del soffio caldo. Dunque il soffio caldo è il
criterio della vita e della morte. Bisogna ricordare, a questo proposito, che i Greci
chiamavano l’anima – cioè il principio della vita – psyché (da cui “psiche”) che
letteralmente significa “alito” o “fiato”. In questo senso l’ “alito” è la porzione di “soffio” che
spira nell’uomo e gli dà la vita.
Un altro plausibile argomento è invece quello che parte dall’identificazione del soffio con il
cielo, ovvero con la spazio che circonda la Terra. Il ciclo della pioggia sarebbe così una
prova che l’acqua deriva dal soffio e torna nel soffio; il fenomeno del fulmine, del fatto che
il soffio si trasforma in fuoco per poi tornare al suo stato originario.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
ANASSIMENE E LA TERMODINAMICA
Considerando che per Anassìmene il moto di rarefazione coincide con il caldo e quello di
condensazione con il freddo, la sua teoria dell’universo si può avvicinare alla moderna
teoria termodinamica. Innanzitutto per entrambe caldo e freddo sono l’effetto di un
movimento. In secondo luogo, per entrambe le teorie tutti i fenomeni fisici sono legati alla
correlazione caldo/freddo, per esempio le grandi correnti marine, gli uragani, la
germinazione, ecc. La termodinamica, però, ha scoperto il principio di entropia, secondo
il quale l’energia termica è irreversibile e si basa sul passaggio a senso unico
freddocaldo. P.e., versando acqua calda e acqua fredda in una bacinella, l’acqua fredda
acquista calore e quella calda lo cede, mai il contrario. Ciò comporta la progressiva
diminuzione dell’energia termica fino alla “morte termica” a causa del progressivo
amalgamarsi del caldo e del freddo. P.e., dopo un certo intervallo di tempo l’acqua della
bacinella ha la stessa temperatura e al suo interno non c’è più possibilità di movimento
macroscopico, perché non c’è più contrasto/passaggio tra una parte più fredda e una più
calda. Le molecole di H2O si limitano a vibrare su sé stesse. Se dunque l’universo fosse un
sistema chiuso, sarebbe destinato alla morte termica. Ma è ancora tutto da stabilire se lo
sia e anche se non ci siano delle forze fisiche antitetiche in grado di impedire che
l’entropia conduca alla stasi totale.
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TAPPA 4
LA TERRA E’ FERMA AL CENTRO DEL COSMO
Alcuni di essi dicono che il mare è residuo dell’umidità primitiva; perché,
mentre da principio lo spazio intorno alla Terra era tutto umido, poi una
parte dell’umidità fu fatta ed è fatta evaporare dal Sole, e se ne formano i venti
e ne sono causati i rivolgimenti del Sole e della Terra, come se anche questi
girassero a causa di tali evaporazioni ed esalazioni, muovendosi in quei luoghi
dove possono trovare abbondanza di umidità; e che perciò il mare, essendo
disseccato dal Sole, diminuisce e alla fine sarà tutto secco. Furono di tale
opinione, secondo che testimonia Teofrasto, Anassimandro e Diogene.
Alessandro, Meteorologia, 67, 3
La nascita della filosofia coincide con la gestazione della scienza, ovvero del processo di
elaborazione delle sue basi teoriche e metodologiche. Per i primi filosofi, infatti, e anche
per molti dei filosofi successivi fino e oltre l’età moderna, dire filosofia equivaleva a dire
scienza, cioè conoscenza vera. Insomma, le due attività conoscitive non si erano ancora
specializzate e quindi separate in due settori autonomi di ricerca.
In questo senso, si deve senz’altro dire che i filosofi della scuola di Mileto – Talete,
Anassimandro, Anassìmene – svolsero anche ricerca e attività di tipo scientifico, sebbene
non possano essere considerati scienziati nel senso attuale del termine. Questo perché,
almeno fino all’età ellenistica, nessun filosofo greco riuscì a elaborare e a praticare la
conoscenza scientifica in base a una teorizzazione sistematica e a una metodologia
compiutamente sperimentale.
La tradizione attribuisce a Talete la scoperta di tre teoremi matematici (quelli delle rette
parallele che intersecano due trasversali, dei triangoli uguali, della circonferenza). Ma
Talete è anche e soprattutto il primo filosofo a dare il suo contributo alla nascita della
cosmologia, cioè di una teoria dell’universo puramente speculativa, che a sua volta
costituisce la premessa per la successiva nascita della scienza astronomica greca, cioè di
una teoria dell’universo formulata matematicamente ed empiricamente argomentata.
Della cosmologia di Talete abbiamo però una sola breve testimonianza, secondo la quale la
Terra è appoggiata sull’acqua. In base a questa testimonianza, è ragionevole ipotizzare che
Talete, a partire dall’osservazione del cielo diurno e notturno, nonché dall’esperienza
immediata della stabilità della Terra, si sia chiesto come mai essa possa stare sospesa e
immobile nell’immensità dello spazio, e si sia risposto che la Terra “galleggia” su
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
un’immensa distesa d’acqua che riempie l’universo. Sulla base di questa tesi, possiamo
anche ipotizzare che Talete attribuisse alla Terra una forma adatta al galleggiamento, cioè
pensasse che fosse piatta.
Anassimandro dà una risposta parzialmente diversa al problema posto da Talete. Per lui, la
Terra ha forma di cilindro schiacciato (con altezza pari a un terzo del diametro della base)
e sta immobile al centro dell’universo in quanto soggetta alla stessa pressione in ogni sua
parte, cioè in quanto sottoposta a forze esterne in equilibrio fra loro. Inoltre, in base alle
testimonianze di cui disponiamo, Anassimandro fu il primo a teorizzare che il Sole si
muove intorno alla Terra, in base all’osservazione del suo moto apparente durante il
giorno. Egli, dunque, per quel che sappiamo, è l’inventore del geocentrismo, cioè della
teoria secondo la quale la Terra è ferma al centro del cosmo e tutti gli astri le ruotano
intorno. Ancora più importante è però la tesi anassimandrea secondo cui l’universo è
infinito non solo nel senso che le sue dimensioni sono sconfinate ma anche e soprattutto in
quello che è propriamente un “multiverso”, cioè un insieme di miriadi di mondi
diversificati. Questa tesi si basa, da un lato, sull’infinitezza estensiva del Soffio, principio di
tutto; dall’altro, presumibilmente, sull’osservazione notturna delle innumerevoli stelle del
firmamento.
Inoltre Anassimandro è il primo filosofo/scienziato che affianca alla cosmologia una
cosmogonia, cioè una teoria speculativa dell’origine e della formazione dell’universo. Egli
sostiene che all’inizio l’universo è un vortice il cui moto produce la separazione del caldo
dal freddo. Il freddo genera terra, acqua e aria, il caldo il fuoco. A causa del moto rotatorio i
primi elementi, più pesanti, si dispongono al centro, il fuoco, più leggero, ai bordi,
formando una specie di guaina sferica. Sempre sotto l’azione del movimento vorticoso, tale
guaina infuocata si frantuma in tante schegge sferiche, che costituiscono il Sole, la Luna, i
pianeti e le stelle.
Anassìmene, a sua volta, sostiene che la Terra ha una forma discoidale (il che avvalora la
supposizione che già lo pensasse Talete) e che è ferma nel centro dell’universo in quanto
circondata e pressata dal soffio aeriforme.
Egli si pone un nuovo problema astronomico a partire dall’osservazione notturna del moto
apparente – circolare e uniforme, da est verso ovest – delle stelle del firmamento: perché le
stelle sono sospese nello spazio e come mai hanno un moto regolare continuo? Anassimene
si risponde che il cielo è come una ruota di mulino che gira circolarmente intorno alla
Terra e che le stelle sono corpi infuocati confissi su questa ruota, cioè nella volta celeste.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Oltre alle indagini e alle scoperte specialistiche in determinati settori scientifici, i pensatori
di Mileto diedero un contributo alla formazione della scienza con le loro stesse teorie
filosofiche. Questo vale per almeno due aspetti:
•
perché cercando di dimostrare che tutte le cose derivano da un principio unico,
hanno elaborato e diffuso il modello della scienza come riconduzione di una
molteplicità di fenomeni a una legge causale unitaria;
•
perché le loro pur diverse concezioni del principio (acqua, illimitato, soffio) sono
sensatamente interpretabili come un tentativo di concepire e definire ciò che la
fisica contemporanea chiama “energia”.
Infatti acqua, illimitato e soffio hanno un dichiarato comune denominatore: essere il
principio unico che spiega ogni fenomeno fisico ed essere una sostanza il più possibile
amorfa, cioè senza caratteristiche nette, in modo tale da poter divenire polimorfa, cioè da
poter assumere tutte le forme possibili, da potersi trasformare in tutte le cose. Avendo
presente la celebre formula in cui culmina la teoria della relatività ristretta di Einstein
(E=mc2), è facile notare che ciò che i milesii chiamavano “principio” è il corrispettivo
dell’attuale concetto scientifico di energia. Infatti, che l’energia sia uguale alla massa
(ovvero alla materia) moltiplicata per il quadrato della velocità della luce equivale a dire
che l’energia è il principio base di tutto capace di trasformarsi in tutto.
Ciò non significa, naturalmente, che la teoria della relatività di Einstein sia uguale alla
teoria della natura della scuola di Mileto. In questo senso vanno rilevate, tra le numerose
altre dovute al secolare accumulo di conoscenze scientifiche, tre decisive differenze:
•
la concezione animistica del principio, secondo cui acqua o illimitato o soffio
penetrano e animano ogni cosa, perfino i minerali (la calamita era considerata da
Talete una prova che anche i minerali sono animati);
•
la conseguente concezione organicistica della natura, secondo cui non vi è una
natura inorganica, ma tutta la natura è organica, vivente, cioè ogni cosa, anche un
minerale, nasce, muore, respira, ha sensibilità (benché in modi e gradi diversificati);
•
la mancanza (almeno per quello che ci è stato tramandato) di una concezione e di
una formulazione matematica del principio in quanto legge di natura.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Da questo punto di vista, si può dire che i filosofi di Mileto – con la parziale eccezione,
forse, di Anassìmene - hanno operato una riduzione della fisica alla biologia, riduzione che
la scienza attuale non ritiene valida e anzi tende semmai a rovesciare a favore della fisica.
Un’ulteriore rilevante differenza tra scienza contemporanea e filosofia milesia è data dal
fatto che Talete, Anassimandro e Anassimene considerano il loro principio di natura
divina. In altre parole essi non erano:
• né teisti, cioè non credevano in dei personificati, creatori e governatori della natura,
• né atei, cioè convinti dell’esistenza della sola materia inerte, priva di vita;
• bensì “panteisti”, pensavano cioè che “il divino” fosse il principio fisico che permea
ogni cosa e quindi coincide con la natura stessa, le sue forze e i suoi fenomeni.
In questo senso è possibile sostenere che i filosofi di Mileto elaborarono per primi una
teologia naturale o “scientifica”. La maggior parte degli scienziati contemporanei si attiene
invece a una netta separazione tra teologia e scienza. Tuttavia, soprattutto negli ultimi
anni, non mancano autorevoli eccezioni, in particolare tra i fisici (p.e. Paul Davies o Frank
J. Tipler).
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
ANASSIMANDRO E IL MULTIVERSO
La teoria anassimandrea dei molteplici mondi ebbe grande seguito nella storia della
filosofia e della scienza. Come vedremo, nell’antichità, fu ripresa p.e. dai fisici “atomisti”
Democrito e Epicuro, e nell’età moderna da Giordano Bruno. Attualmente essa è stata
rilanciata, nell’ambito della fisica delle particelle subatomiche (elettroni, protoni,
neutrini, quark, ecc.), dalla teoria quantistica. Questa teoria afferma che in linea di
principio una particella è dappertutto nello spaziotempo. Una delle interpretazioni
teoriche generali di questa incredibile ma plurisperimentata proprietà è appunto quella
che sostiene l’esistenza di infiniti universi paralleli, ognuno dei quali conterrebbe uno
degli infiniti stati/posizioni di ogni particella elementare.
Per approfondimenti: Brian Greene, La realtà nascosta, Einaudi 2012.
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LO SCRIGNO
PAUL DAVIES: FARE SCIENZA SIGNIFICA UNIFICARE
L’intera impresa scientifica è una ricerca di unificazione. La scienza come la
conosciamo oggi ebbe inizio quando Newton, Galileo e altri scoprirono dei
legami tra il moto dei corpi sulla Terra e il movimento della Luna e dei
pianeti. Altri momenti decisivi furono la scoperta che magnetismo ed
elettricità sono in relazione tra loro e con la luce, e la formula di Einstein
E=mc2, che mostrò l’equivalenza tra massa ed energia. La capacità di
identificare legami nascosti tra fenomeni apparentemente disparati è ciò che
rende il metodo scientifico così potente e convincente. La caratteristica
peculiare della scienza è di essere a un tempo ampia e profonda: ampia per
come affronta tutti i fenomeni fisici e profonda per come li intreccia, in modo
economico, in uno schema esplicativo comune che richiede sempre meno
presupposti.
P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 134
PAUL DAVIES: ESISTONO MOLTI E DIFFERENTI UNIVERSI
Una quota minoritaria, ma in crescita, degli scienziati oggi sostiene la teoria
del multiverso in una versione o nell’altra. I moderni modelli cosmologici
depongono con forza a favore dell’esistenza di una molteplicità di domini
cosmici (per esempio, universi-bolla, universi-tasca, regioni cosmiche
differenziate) come configurazione naturale e generica in cui il big bang che
ha dato origine al nostro universo è soltanto uno tra i molti “bang”
(probabilmente in numero infinito) che generano una molteplicità di
“universi”. Inoltre, molte teorie che cercano di unificare la fisica predicono
qualche specie di variabilità di alcune almeno delle costanti di natura – i
parametri che entrano nel modello standard della fisica delle particelle –, e in
alcune di queste teorie c’è anche una variazione nella forma delle leggi della
fisica a bassa energia, il che rende verosimile che esse varino da un dominio
cosmico all’altro allorché gli universi si raffreddano uscendo dal crogiolo
delle loro origini. Il modello di unificazione preferito – ma potrebbe trattarsi
di più modelli – noto come teoria delle corde/M, sembra implicare un
paesaggio di innumerevoli possibili universi a bassa energia, senza nulla di
ovvio che ne possa selezionare uno in particolare.
P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 332.
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ALL’ARREMBAGGIO!
1. Scrivi la definizione (o le definizioni) dei seguenti termini:
 Filosofia:
 Sperimentale:
 Natura:
 Cosmologia:
 Argomentazione:
 Astronomia:
 Empirico:
 Cosmogonia:
 Principio:
 Geocentrismo:
 Induzione:
 Multiverso:
 Deduzione:
2. Leggi il brano di Aristotele e sottolinea con colori diversi:





la tesi principale su cui si impernia l’argomentazione di Talete (rosso);
la definizione del suo concetto fondamentale (verde);
i 3 argomenti (ossia le 3 prove) in base ai quali Talete sostiene la sua tesi (blu);
la definizione del loro concetto fondamentale (nero);
la tesi secondaria ricavata da quella principale (giallo).
Talete sostiene che il principio [di tutte le cose] è l’acqua; per questo asseriva
che anche la Terra galleggia sull’acqua. Forse questa sua opinione gli fu
suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta e che
anche il caldo nasce dall’umidità e sopravvive per mezzo di essa. Del resto il
principio di tutte le cose è ciò da cui traggono l’origine. E non soltanto in base
a questo egli ha concepito una tale teoria, ma anche in base al fatto che hanno
natura umida i semi di tutte le cose; e l’acqua è appunto il principio naturale
delle cose umide.
3. Riempi il diagramma di flusso che ricostruisce l’argomentazione di Talete:
Utilizzando i 7 asserti isolati nell’esercizio precedente, incasellali in modo logicoconsequenziale nella seguente griglia basata sul nesso AB, avvero “dato A ne segue B”, in
cui A è detto “antecedente” e B “conseguente”.
Tieni presente che la sequenza è di tipo induttivo (cioè procede dal particolare al generale),
dal momento che Talete parte dall’osservazione di alcune caratteristiche della realtà fisica,
ma che si conclude con una deduzione (dal generale al particolare), dal momento che
Talete ricava dal principio generale raggiunto per induzione una nuova caratteristica
generale della realtà fisica.
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4. Sviluppa i seguenti ragionamenti relativi alla tesi di Talete:
Per Talete il principio di tutte le cose è l’acqua. Tenendo presente che l’acqua, come già i
greci antichi sapevano, è l’unico elemento naturale che possiamo osservare in stati fisici
diversi, enuncia quanti e quali sono gli stati fisici dell’acqua e quindi ipotizza il
ragionamento in base al quale Talete può essere giunto all’identificazione del principio
nell’acqua, anziché nella terra, nell’aria o nel fuoco.
***
Hai mai osservato l’orizzonte da un punto elevato di un’isola oppure di una nave in alto
mare? In particolare quando l’atmosfera è satura di vapore, ovvero un po’ nebbiosa?
Spiega in base a quale ragionamento un’osservazione di questo genere avrebbe potuto
offrire lo spunto a Talete per argomentare una delle funzioni che egli attribuisce all’acqua.
5. Riempi lo schema con i significati che Anassimandro attribuisce all’arché:
1. CIO’ DA CUI TUTTE LE COSE ......................................
2. CIO’ IN CUI TUTTE LE COSE.............................
L’ARCHE’ E’
3. CIO’ CHE E’ ................... IN TUTTE LE COSE.
4. CIO’ CHE ..................... LA TERRA E TUTTE LE COSE.
5. CIO’ CHE ..................... L’INTERO UNIVERSO.
6. Ricostruisci il ragionamento che connette le filosofie dei milesii
I filosofi di Mileto, pur condividendo il concetto di principio, lo configurano in modo
diverso: Talete come acqua, Anassimandro come àpeiron, Anassimene come aria. Eppure
ci sono buone ragioni per ritenere che queste differenze non siano casuali, ma collegate da
un percorso logico.
Prova a ricostruire questo percorso, considerando che:
 tutti e tre scartano l’elemento terra, in quanto meno duttile, evidentemente allo
scopo di conferire all’arché la maggiore polimorficità possibile;
50
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE


tutti e tre si pongono, per primi, uno dei problemi cruciali della filosofia, ossia
quello di far derivare da un principio, come tale omogeneo e superiore, tutte le cose,
eterogenee e inferiori in quanto derivati;
tutti e tre, di conseguenza, cercano di evitare un doppio e opposto pericolo: far
somigliare troppo il principio alle cose, rendendo poco credibile che possa
trasformarsi in tutte le cose nonché governarle; oppure differenziare troppo il
principio dalle cose, rendendo poco credibile che le cose possano derivare da esso.
7. Ricostruisci i ragionamenti di Anassimandro:
“Quello da cui ha luogo la nascita per le cose che sono, è anche ciò in cui si
estinguono, secondo la legge e la natura. Esse infatti, a mano a mano che
scorre il tempo, pagano l’una all’altra giusta pena e ammenda della loro
ingiustizia.”
1. Suddividi il frammento di Anassimandro (in una diversa traduzione) in 4 enunciati
semplici relativi ai 4 concetti fondamentali che esso contiene.
2. Poni i 4 enunciati in ordine consequenziale (antecedenteconseguente), notando
come la congiunzione “infatti”, nel linguaggio naturale (cioè non in quello logicoformale), serva a segnalare che l’antecedente è stato postposto al conseguente (p.e.:
“Sono maggiorenne; infatti, ho compiuto 18 anni” = “Ho compiuto 18 anni; quindi
sono maggiorenne”).
***
“Ogni cosa o è principio o è derivato. Il principio non può essere finito
altrimenti sarebbe un derivato. Il principio è infinito.”
Secondo una testimonianza pervenutaci, questa è l’argomentazione con la quale
Anassimandro ha sostenuto la sua tesi “il principio è l’àpeiron”.
Esplicita e chiarisci in modo ampio:
1. il significato del primo enunciato, tenendo presente che la “o” (congiunzione con
valore disgiuntivo) in italiano ha un significato logico sia esclusivo (aut-aut =
una cosa esclude l’altra) sia inclusivo (vel-vel = una cosa può includere anche
l’altra) e precisando, dunque, in quale dei 2 significati va assunta.
2. l’argomento decisivo del secondo enunciato, ossia la ragione per cui è escluso
che il principio possa essere finito.
In quali accezioni (spaziale o temporale o qualitativa?) sono usati i termini “finito” e
“infinito”.
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8. Metti alla prova e cerca di confutare l’argomento di Anassimene
Secondo alcune testimonianze, Anassimene sosteneva che l’aria è perennemente in
movimento in quanto è caratterizzata da due processi opposti e complementari: la
condensazione, che la raffredda facendola diventare acqua e terra, e la rarefazione, che la
riscalda, trasformandola in fuoco.
Per argomentare la corrispondenza condensazione/freddo e rarefazione/caldo ci è stato
tramandato che Anassimene invitava a inspirare e poi a espirare sul palmo della mano,
posto a distanza ravvicinata davanti alla bocca, una prima volta con le labbra socchiuse e
una seconda volta con le labbra spalancate: nel primo caso infatti, quando il soffio è più
compresso, avvertiamo sul palmo una sensazione di fresco; nel secondo, quando il soffio è
più dilatato, avvertiamo sul palmo una sensazione di caldo.
Sempre che la testimonianza sia veritiera, si tratterebbe di un proto-esperimento, cioè non
di una semplice esperienza sensibile, fatta casualmente e comunque basata unicamente
sulla registrazione passiva di un fenomeno naturale, ma di una forma rudimentale di
esperimento, cioè di progettazione e riproduzione attiva di un fenomeno naturale. Rispetto
agli esperimenti moderni e contemporanei mancherebbe, però, l’uso della tecnologia per
potenziare i sensi. Basti pensare al Large Hadron Collider (LHC), la lunghissima galleria ad
anello, costruita nelle vicinanze di Ginevra, nella quale macchinari potentissimi producono
particelle elementari e le fanno accelerare e scontrare a velocità vicine a quelle della luce.
Prova a rifare anche tu il proto-esperimento di Anassimandro e verifica se effettivamente
attesta la doppia equivalenza condensazione/freddo e rarefazione/caldo, considerando la
possibilità che la sensazione di caldo o freddo che si avverte sul palmo della mano sia
dovuta non alla condensazione o alla rarefazione del soffio ma a qualche altro fattore.
9. Confronta teorie filosofiche antiche e teorie scientifiche moderne
“L’intera impresa scientifica è una ricerca di unificazione. La scienza come
la conosciamo oggi ebbe inizio quando Newton, Galileo e altri scoprirono dei
legami tra il moto dei corpi sulla Terra e il movimento della Luna e dei
pianeti. Altri momenti decisivi furono la scoperta che magnetismo ed
elettricità sono in relazione tra loro e con la luce, e la formula di Einstein
E=mc2, che mostrò l’equivalenza tra massa ed energia. La capacità di
identificare legami nascosti tra fenomeni apparentemente disparati è ciò che
rende il metodo scientifico così potente e convincente. La caratteristica
peculiare della scienza è di essere a un tempo ampia e profonda: ampia per
come affronta tutti i fenomeni fisici e profonda per come li intreccia, in modo
economico, in uno schema esplicativo comune che richiede sempre meno
presupposti.”
P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 134
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Il brano sopra riportato è di un famoso fisico inglese vivente, autore di numerosi libri sulle
nuove frontiere della ricerca scientifica contemporanea.
Individua e spiega le concordanze tra le tesi sostenute da P. Davies e le filosofie dei primi
filosofi ionici, anche tenendo presente che, seppur non esplicitamente, Davies collega la
“ricerca di unificazione” della scienza con la scoperta delle leggi della natura (p.e. la legge
gravitazionale di Newton o la legge dell’equivalenza di massa ed energia di Einstein).
***
E=mc2 è la famosa formula della legge dell’equivalenza tra energia e massa (cioè materia).
Essa rappresenta il coronamento e al contempo la sintesi della teoria della relatività
ristretta che A. Einstein rese nota nel 1905 e che costituisce un pilastro della scienza
contemporanea.
Individua e illustra la possibile analogia tra la legge di Einstein e le concezioni del principio
dei filosofi ionici, specificando a quali di esse può essere maggiormente avvicinata e per
quali motivi. Successivamente, individua e illustra le differenze che intercorrono tra la
legge di Einstein e le filosofie degli ionici.
***
Svolgi una breve ricerca sulle teorie scientifiche contemporanee dell’origine della vita e
dell’evoluzione degli esseri viventi e, in base ai suoi risultati, individua e spiega le loro
affinità e le loro divergenze rispetto alla teoria biologica di Anassimandro.
10. Qual è la risposta giusta?
Che rapporto intercorre nella filosofia greca antica tra filosofia e scienze?
 La filosofia esclude le scienze in quanto mentre ogni scienza si occupa di un aspetto
della realtà la filosofia si occupa solo della realtà nella sua totalità.
 La filosofia è una delle scienze, precisamente quella che si occupa dell’origine e della
formazione del cosmo, cioè la cosmologia.
 La filosofia e le scienze sono due tipi di ricerca conoscitiva indipendenti, ma che
possono influenzarsi a vicenda.
 La filosofia include le scienze ma è più di esse in quanto ogni scienza si occupa di un
aspetto della realtà mentre la filosofia si occupa della realtà nella sua totalità.
 La filosofia e le scienze sono due tipi di ricerca conoscitiva indipendenti che non si
influenzano reciprocamente.
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Qual è la sequenza corretta dell’argomentazione di Talete?
 Tutte le cose sono generate da “semi”.  Tutti i “semi” sono umidi.  Tutti i “semi”
sono costituiti di acqua.  Tutte le cose sono generate dall’acqua.
 Tutte le cose sono generate da “semi”  Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. 
Tutti i “semi” sono umidi.  Tutte le cose sono generate dall’acqua.
 Tutte le cose sono generate da “semi”.  Tutti i “semi” sono umidi.  Tutte le cose
sono generate dall’acqua.  Tutti i “semi” sono costituiti di acqua.
 Tutte le cose sono generate dall’acqua  Tutti i “semi” sono costituiti di acqua. 
Tutti i “semi” sono umidi . Tutte le cose sono generate da “semi”.
 Tutti i “semi” sono umidi Tutti i “semi” sono costituiti di acqua.  Tutte le cose
sono generate dall’acqua.  Tutte le cose sono generate da “semi”.
In cosa consiste il discorso razionale (o la razionalità o la ragione)?
 Nell’argomentare una tesi in base all’esperienza sensibile.
 Nel dare una spiegazione della realtà di tipo fisico, ossia che non si basa su divinità
ma su elementi e forze esclusivamente naturali.
 Nel fornire almeno un argomento a sostegno della propria tesi.
 Nel sostenere una tesi certamente vera.
 Nel sostenere la propria tesi con un argomento non criticabile.
Perché Anassimandro sostituisce l’acqua con l’àpeiron?
 Perché ritiene illogico concepire le moltissime cose fisiche come trasformazioni di
un unico principio.
 Perché pensa che l’acqua sia così diversa dalle cose che dovrebbe generare da
rendere illogico concepire le cose come suoi derivati.
 Perché ritiene illogico pensare che un elemento determinato possa trasformarsi in
elementi aventi proprietà opposte alle proprie.
 Perché effettua ulteriori osservazioni e scopre che i semi e gli alimenti non sono
composti solo da acqua.
 Perché pensa che l’acqua sia troppo poca rispetto alla vastità del cosmo che da essa
dovrebbe derivare.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Qual è la sequenza valida dell’argomentazione di Anassimandro?
 Ogni cosa o è principio o è derivato.  Ogni derivato è limitato nello spazio e nel
tempo.  Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato.  Il principio è
illimitato.  Il principio non può avere un limite.
 Ogni derivato è limitato nello spazio e nel tempo.  Ogni cosa o è principio o è
derivato.  Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato.  Il principio non
può avere un limite.  Il principio è illimitato.
 Ogni cosa o è principio o è derivato.  Ogni derivato è limitato nello spazio e nel
tempo.  Se avesse un limite il principio sarebbe un derivato.  Il principio non
può avere un limite  Il principio è illimitato.
 Ogni cosa o è principio o è derivato.  Ogni derivato è limitato nello spazio e nel
tempo.  Il principio è illimitato.  Se avesse un limite il principio sarebbe un
derivato.  Il principio non può avere un limite.
 Ogni cosa o è principio o è derivato.  Il principio è illimitato. Ogni derivato è
limitato nello spazio e nel tempo.  Se avesse un limite il principio sarebbe un
derivato.  Il principio non può avere un limite.
Come spiega e giustifica Anassimandro il dolore umano?
 A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini sono separati dall’unità
originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi
necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare
nell’Illimitato.
 A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini decidono di separarsi
dall’unità originaria dell’Illimitato e di diventare una molteplicità di individui,
logorandosi necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter
evitare di tornare nell’Illimitato.
 A causa di una colpa involontaria e inevitabile, gli uomini sono separati dall’unità
originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi per
libera scelta a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare
nell’Illimitato.
 A causa di una colpa volontaria ed evitabile, gli uomini sono separati dall’unità
originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi
necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter tornare
nell’Illimitato.
 A causa di una colpa volontaria ed evitabile, gli uomini sono separati dall’unità
originaria dell’Illimitato e diventano una molteplicità di individui, logorandosi
necessariamente a vicenda ma così purificandosi in modo da poter evitare di tornare
nell’Illimitato.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Secondo Anassimene quali sono le 2 proprietà fondamentali del soffio
aeriforme?
 Infinitezza e indeterminatezza.
 Finitezza e determinatezza.
 Infinitezza e determinatezza.
 Finitezza e indeterminatezza.
 Resilienza e malleabilità.
Perché Anassìmene sostituisce l’àpeiron con il soffio/aria?
 Perché ritiene illogico pensare che un elemento determinato possa generare elementi e
cose ad esso opposti.
 Perché ritiene logico pensare che un elemento quantitativamente finito possa generare
elementi e cose ad esso opposti.
 Perché pensa che un principio assolutamente indeterminato non possa spiegare
razionalmente la derivazione da esso di cose determinate.
 Perché pensa che un principio di estensione infinita non possa spiegare razionalmente
la derivazione da esso di cose di estensione finita.
 Perché giudica illogico pernsare che che un principio di grandezza infinita possa
generare cose qualitativamente determinate.
Qual è la causa prima e fondamentale delle differenze tra tutte le cose secondo
Anassimene?
 Diversi versi e gradi del movimento del soffio.
 Diversi gradi di temperatura del soffio.
 I tre diversi stati fisici del soffio: solido, gassoso, liquido.
 Diverse percentuali di miscelazione dei quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco).
 Le separazioni di caldo e freddo e di umido e secco.
Quale di queste inferenze è un’induzione?
 Gli equini sono quadrupedi, dunque gli asini sono quadrupedi.
 Rose, margherite, papaveri e ciclamini hanno i petali, dunque i fiori hanno i petali.
 Gli animali sono mortali, dunque gli uomini sono mortali.
 I filosofi sono uomini, dunque Talete è un uomo.
 Questo è un triangolo, dunque la somma dei suoi angoli interni è 180°.
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Cosa afferma il principio di relatività ottica?
 Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, allora vuol dire che siamo noi
che ci stiamo muovendo.
 Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, siamo sicuri che il moto
appartiene solo a quell’oggetto.
 Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è possibile tanto che sia
quell’oggetto a muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso, quanto che siamo noi in
moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi.
 Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è più probabile che siamo noi
in moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi, piuttosto che sia quell’oggetto a
muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso.
 Che se vediamo muoversi un oggetto, separato da noi, è più probabile che sia
quell’oggetto a muoversi e noi a stare fermi rispetto a esso, piuttosto che siamo noi
in moto e quell’oggetto sia fermo rispetto a noi.
Come spiega Anassimandro la formazione degli astri?
 Moto rotatorio dell’àpeiron.  Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri
centrifugi.  Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina.  La pressione
interna rompe la guaina.  I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron.
 Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi.  Moto rotatorio
dell’àpeiron.  Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina.  La pressione
interna rompe la guaina.  I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron.
 Moto rotatorio dell’àpeiron.  Gli elementi pesanti sono centrifugi, quelli leggeri
centripeti.  Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina.  La pressione
interna rompe la guaina.  I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron.
 Moto rotatorio dell’àpeiron.  Il fuoco si dispone sui bordi e forma una guaina. 
Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri centrifugi.  La pressione
interna rompe la guaina.  I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron.
 Moto rotatorio dell’àpeiron. Gli elementi pesanti sono centripeti, quelli leggeri
centrifugi.  Il soffio si dispone sui bordi e forma una guaina.  La pressione
interna rompe la guaina.  I frammenti si spargono sui bordi del vortice-àpeiron.
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Come spiega Anassìmene l’osservazione visiva dei moti degli astri?
 La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica
del cielo, la quale si muove in modo uniforme da ovest verso est facendo compiere a
ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore.
 La Terra si muove intorno al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla
volta sferica del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest
facendo compiere a ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore.
 La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica
del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest facendo compiere a
ogni astro una circonferenza completa ogni 12 ore.
 La Terra è ferma al centro dell’universo, tutti gli astri sono attaccati alla volta sferica
del cielo, la quale si muove in modo uniforme da est verso ovest facendo compiere a
ogni astro una circonferenza completa ogni 24 ore.
 La Terra ruota intorno al proprio asse da ovest verso est compiendo una rotazione
completa ogni 24 ore e pertanto a un osservatore terrestre sembra che gli astri
ruotino da est verso ovest intorno alla Terra compiendo una rotazione circolare
completa ogni 24 ore.
Qual è la convergenza corretta tra la filosofia/scienza milesia e la formula
E=mc2?
 Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo e capace,
proprio per questo, di assumere le forme di tutti i diversi elementi e le differenti
cose che esistono.
 Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo e capace,
proprio per questo, di provocare una reazione nucleare di enorme potenza
distruttiva.
 Tutta la realtà è ricondotta a un unico principio considerato amorfo ed equivalente,
proprio per questo, alla materia quando gli viene sottratta una quantità di moto pari
a quella della velocità della luce elevata al quadrato.
 Tutta la realtà è ricondotta a due soli principi considerati amorfi e capaci, proprio
per questo, di assumere le forme di tutti i diversi elementi e le differenti cose che
esistono.
 Ad eccezione dei fotoni, privi di massa a riposo, nessun corpo può raggiungere la
velocità della luce (300.000 km/sec.) perché, avvicinandosi alla velocità della luce,
la sua massa tenderebbe a diventare infinita e pertanto occorrerebbe un’energia
infinita per accelerarla ulteriormente.
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Quali tra queste NON è una delle tesi sostenute da Paul Davies nei brani dello
Scrigno?
 Tutti gli scienziati contemporanei condividono la teoria del multiverso.
 La scienza consiste nello scoprire relazioni nascoste tra diverso elementi fisici.
 La più accreditata teoria del multiverso è la variante detta M della teoria delle corde
(o delle stringhe).
 Alcune teorie fisiche contemporanee ammettono la variabilità delle costanti di
natura.
 Alcune teorie fisiche contemporanee includono la variabilità delle leggi della fisica a
bassa energia.
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ROTTA SU…
I COSMOLOGI RAZIONALISTI
Nella seconda metà del VI secolo a.C., mentre Anassìmene prosegue e conclude il
percorso filosofico della scuola di Mileto, emergono nuove filosofie nella stessa Ionia, cioè
sulle coste dell’Asia Minore, ma soprattutto nella Magna Grecia, cioè nelle colonie greche
occidentali. Queste nuove filosofie, pur nella loro diversità, sono accomunate da una
configurazione più astratta del principio del cosmo. Esse, cioè, non identificano la causa
prima di tutte le cose con un elemento naturale (Talete, Anassìmene) o con un misto di
due elementi naturali (Anassimandro) ma con un principio pur sempre fisico ma più
teorico, ossia con una maggiore e più esplicita connotazione razionale. Gli autori di
queste nuove filosofie furono Eraclìto, Pitagora e Filolao, Parmenide e Zenone.
Per Eraclìto il principio di tutte le cose è il lògos. Questo termine, da cui non a caso è
derivato il nostro “logica”, in greco antico significava “parola ordinata”, quindi discorso,
ragione, regola, legge. Per Eraclìto, insomma, la causa prima del cosmo è una legge
razionale. Questa legge consiste nella complementarità di tutte le cose, anche se
apparentemente opposte, e quindi nell’unità profonda di tutta la realtà. Essa, però, è
contenuta nell’elemento fuoco, coincide con esso. Anche Eraclìto, come i filosofi di Mileto,
si dedicò a ricerche scientifiche, in particolare di tipo astronomico e meteorologico.
Pitagora, invece, sostiene per primo che il principio di tutte le cose sono i numeri e che
pertanto la natura è organizzata matematicamente. A livello scientifico, si occupa
soprattutto di matematica e di teoria matematica della musica. Gli si attribuiscono la
scoperta e la dimostrazione del famoso teorema che porta il suo nome, nonché quella
dell’ottava musicale. Si occupa anche di ricerche astronomiche, sicuramente continuate e
sviluppate da Filolao e da altri discepoli con notevoli risultati. Gli astronomi pitagorici,
infatti, elaborano una teoria astronomica dapprima “pirocentrica” (al centro
dell’universo c’è un grande fuoco sacro di cui il Sole è un riflesso) e poi “eliocentrica”.
Per Parmenide il principio di tutte le cose è l’ “essere”, cioè l’esistere in sé stesso e per sé
stesso. E l’essere, secondo lui, è unico, omogeneo e privo di movimento. Zenone sostiene la
tesi del suo maestro con una serie di famose argomentazioni che mirano a dimostrare che
la realtà sensibile è un’illusione e che l’unica realtà autentica è appunto l’essere. A livello
scientifico Parmenide si occupa di astronomia, in particolare delle eclissi lunari.
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VITE DI CAPITANI
ERACLITO, PITAGORA, FILOLAO, PARMENIDE, ZENONE
Eraclìto (540-476 c.ca) nacque a Efeso, città sulla costa egea dell’Anatolia ionica (attuale
Turchia), poco più a nord di Mileto. Di famiglia aristocratica, nonostante le sue origini
altolocate, rifiutò sia la ricchezza sia il potere sia la fama e visse una vita ritirata e solitaria
nel tempio di Artemide, al quale donò anche la sua unica opera filosofica, intitolata Sulla
natura. Ci è stato tramandato che il re di Persia Dario, dopo averla letta, lo invitò alla sua
corte prospettandogli grandi onori, ma Eraclitò declinò l’invito.
Benché non aspirasse al potere, Eraclito era un sostenitore dell’antico regime aristocratico
e un fiero oppositore della democrazia che si era imposta ad Efeso, poiché riteneva che la
massa non potesse che essere ignorante e che la sapienza fosse raggiungibile solo da pochi
individui. A loro volta gli abitanti di Efeso lo detestavano, anche e soprattutto perché
rigettavano il suo modello di vita improntato alla sobrietà.
Di Sulla natura ci sono rimasti circa cento frammenti. Si tratta di un’opera in stile
aforistico, cioè una raccolta di frasi brevi contenenti ciascuna un pensiero compiuto
espresso con parole e con un ordine sintattico volutamente ambigui o comunque di non
facile comprensione. L’adozione dello stile aforistico, sicuramente coerente con la visione
elitaria di Eraclìto, attesta anche il suo legame con la tradizione religiosa di tipo oracolare.
Ci sono, però, buone ragioni per pensare che Eraclito finalizzasse la comunicazione
aforistica a suscitare nei suoi lettori una lettura attiva, cioè basata sul loro ragionamento
autonomo.
Pitagora (580-490 c.ca) nacque a Samo, un’isola dell’Egeo che si trova di fronte a Mileto
ed Efeso, attualmente territorio della Grecia. Le vicende della vita di Pitagora sono incerte,
alcuni storici ritengono perfino che sia un personaggio leggendario, non realmente esistito.
La tradizione antica ci riporta che fu allievo di Anassimandro, soggiornò a scopo di studio
in Egitto e in Mesopotamia, fu un oppositore politico della tirannia impostasi a Samo, e per
questo a circa quarant’anni emigrò a Crotone, colonia dorica della Calabria, dove era nato e
si stava sviluppando un importante centro di cure e studi medici che ebbe il suo massimo
esponente in Alcmeone. A Crotone Pitagora fondò una scuola filosofica, aperta anche alle
donne, che era al tempo stesso una comunità spirituale. Infatti, i suoi discepoli – detti
matematici (“addottrinati”) – mettevano in comune le loro proprietà e convivevano in base
a rigorose regole ascetiche, che comprendevano numerosi divieti pratici come non
mangiare carne o non attizzare il fuoco con un coltello o non toccare le fave. Lo scopo della
regola di vita pitagorica era dedicare la maggior parte della propria vita alla ricerca
conoscitiva. La conoscenza, infatti, per i pitagorici era il mezzo atto a purificare il “respiro”
(psyché), considerato la parte razionale e immortale dell’uomo, e a conseguire così la
massima felicità nella dimensione terrena e la vita eterna nell’aldilà. Nella sua scuola
Pitagora finì con l’essere divinizzato: in riferimento a lui fu coniata l’espressione autòs
épha (ipse dixit, l’ha detto lui), che implicava la credenza che fosse depositario della verità
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assoluta e come tale non potesse mai sbagliare; ma gli furono attribuiti anche una
discendenza da Apollo e poteri taumaturgici. Pitagora non scrisse nulla. Fu il suo discepolo
Filolao (470-400 c.ca) a esporre la sua dottrina in tre opere (Sulla natura, Sul governo
delle città, Sull’educazione), che Filolao stesso attribuì al maestro tramandandole dunque
come opere di Pitagora.
Di tendenza politica aristocratica, la comunità pitagorica fu cacciata da Crotone dagli
avversari democratici e si diffuse in seguito in altre città della Magna Grecia (Taranto,
Siracusa) ma anche della madrepatria greca. Filolao infatti si stabilì a Tebe e lì fondò e
diresse una scuola pitagorica.
Parmenide (515-440 c.ca), di famiglia aristocratica, nacque a Elea (oggi Velia), colonia
greca sulla costa meridionale della Campania (Italia). Alcune fonti antiche attestano che fu
discepolo del filosofo Senofane, il quale aveva rigettato le immagini tradizionali degli dei,
perché inventate dagli uomini a propria somiglianza, e aveva loro contrapposto l’idea di un
unico dio del tutto astratto, cioè privo di forme sensibili. Nella maturità Parmenide scrisse
un poema filosofico, intitolato Sulla natura, che si apre con un proemio nel quale il filosofo
di Elea racconta di essere stato portato dalle “figlie del sole” al cospetto della dea Giustizia
che gli avrebbe rivelato la verità. In altre parole, Parmenide sosteneva che la sua filosofia
possedeva un’origine divina. In questo modo, egli da un lato si pose in continuità con lo
stile degli antichi poemi di Omero ed Esiodo, dall’altro però lo innovò sostituendo
all’ispirazione poetica delle Muse quella razionale di una dea. Nel corso della sua vita,
Parmenide non si occupò solo di filosofia ma contribuì anche alla legislazione di Elea. Già
anziano, pare si sia recato ad Atene, vi abbia incontrato il giovane Socrate e si sia
confrontato filosoficamente con lui.
Il suo discepolo e amico Zenone (500-430 c.ca) nacque anch’egli a Elea e scrisse un’opera
intitolata sempre Sulla natura ma in prosa. Secondo Platone, tra Parmenide e Zenone
intercorreva un rapporto d’amore, ma altre testimonianze antiche sostengono invece che
Zenone fosse il figlio adottivo di Parmenide. Ci è stato anche tramandato che Zenone fu un
fiero oppositore del tiranno di Elea e che, arrestato, affrontò impavidamente la tortura e
l’estremo supplizio.
Gli elementi biografici comuni ai cosmologi razionalisti attestano che le loro nuove filosofie
nacquero da un maggior legame con l’antica tradizione culturale greca di stampo
aristocratico e mitico-religioso. Alcuni storici della filosofia per questo li hanno catalogati
come “filosofi del tempio” in contrapposizione ai “filosofi dell’agorà”, di origine borghese,
tra cui rientrerebbero Talete, Anassimandro e Anassìmene.
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TAPPA 1
ERACLITO: IL PRINCIPIO E’ UNA LEGGE
Il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli
altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi.
Eraclìto, 22 B 53 Diels-Kranz
Ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più
bella, e tutto si genera per via di contrasto.
Eraclìto, 22 B 8 Diels-Kranz
Questo ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli dèi né
degli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo
misura si accende e secondo misura si spegne.
Eraclìto, 22 B 30 Diels-Kranz
Dallo studio della filosofia della scuola di Mileto, Eraclìto ricava la convinzione che il
carattere più generale della natura, quello che cogliamo immediatamente con i nostri sensi,
è il “divenire”. Il concetto eracliteo di divenire ha tre aspetti distinti ma strettamente
correlati:
1. “divenire” significa innanzitutto che tutte le cose, in quanto naturali, nascono,
muoiono, si muovono, cambiano incessantemente. Eraclìto esemplifica questo
aspetto con l’immagine di un fiume. La natura, cioè, è come un fiume le cui acque
scorrono perennemente. A rigore, bisognerebbe dire che “non ci si può mai bagnare
due volte nello stesso fiume”, cioè che la natura non è mai la stessa cosa, perché in
ogni istante muta rispetto all’istante precedente. I discepoli di Eraclìto sintetizzarono
questo primo significato del divenire nell’espressione “pànta rèi” (“tutto scorre”), che
diventò così lo slogan della filosofia eraclitea.
2. “Divenire” significa, in secondo luogo, molteplicità differenziata. La natura è fatta di
“individui”4, cioè di elementi singoli indipendenti (cose, proprietà, stati di fatto) e
come tali costitutivamente diversi tra loro. P.e. leoni e gazzelle, bianco e nero,
giovinezza e vecchiaia, sono in casa e sono fuori casa. Questo secondo significato
concettuale è condizione necessaria del primo, perché mutare significa sempre
passare da un “individuo” a un altro, p.e. dai capelli neri ai capelli bianchi o dalla vita
4
Dal latino individuum: non-divisibile, cioè non-aggregato di più cose, ma cosa o proprietà singola.
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alla morte o da un luogo a un altro, e perciò se non ci fosse la molteplicità individuale
non ci potrebbe essere alcun divenire.
3. “Divenire” significa, infine, lotta, conflitto, guerra, perché dire individui differenti
significa dire individui opposti, cioè tra loro costitutivamente in competizione, in
maniera più o meno intensa a seconda dei casi.
Dunque, sostiene Eraclìto, in base alla conoscenza sensibile, la natura – in quanto divenire
– ci si presenta come mutevole, molteplice, conflittuale. Si tratta di una nozione intuitiva,
condivisa da tutti, considerata perfino ovvia. Ma Eraclìto va oltre questa ovvietà,
scorgendovi un problema: se le opposizioni che costituiscono la natura come divenire
fossero assolute si distruggerebbero a vicenda e vi sarebbe solo il nulla; ma così non è; per
quale ragione?
La soluzione raggiunta da Eraclìto è che la natura è “divenire” solo in prima
approssimazione. In altre parole, secondo lui, cambiamento, molteplicità e conflitto sono
solo “apparenza”. Ciò non significa che non esistono, che non hanno un’effettiva
consistenza reale. Significa però che sono solo lo strato superficiale e secondario – oggi si
direbbe “emergente” – della natura, sotto il quale si nasconde – “la natura ama
nascondersi”, scrive Eraclìto – il suo strato primario e fondamentale, cioè il principio
profondo della natura. Questo principio è la Legge (lògos5) secondo cui tutti gli individui
sono sì opposti ma anche complementari, ovvero compongono un’unica grande e armonica
Unità (“da tutte le cose l’uno e l’uno da tutte le cose”, scrive ancora Eraclìto). In parole
semplici, la Legge che governa tutte le cose consiste nel fatto che tutto è Uno.
Per esemplificare questa concezione, si può usare la similitudine con un puzzle: all’inizio,
cioè quando spargiamo i pezzi sul tavolo, il puzzle ci appare come un mucchio disordinato
di frammenti tutti diversi gli uni dagli altri; ma, alla fine, cioè quando siamo riusciti a unire
ordinatamente tutti i frammenti, comprendiamo che essi sono tutti complementari gli uni
agli altri e così il puzzle ci si svela come un’unica cosa, ci mostra un disegno unitario.
Eraclìto argomenta la sua tesi “tutto è Uno” esibendo alcuni casi empirici da lui considerati
paradigmatici, cioè modelli generali di tutti le cose. Tali casi empirici si possono
raggruppare in quattro tipologie:
5
Dal greco lògos che significa originariamente connessione-legge, poi parola-discorso, ovvero
insieme di parole collegate in un discorso ordinato, e di qui “ragione”, cioè appunto ordine della
mente, del pensiero.
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•
“Il mare è potabile per i pesci, imbevibile per l’uomo”: questo argomento si basa sulla
relatività degli opposti, cioè sul fatto che una stessa cosa può essere letale per un
individuo e invece vitale per un altro. In altre parole, le opposizioni dipendono da
diversi punti di vista.
•
“Nel cerchio principio e fine coincidono”: questo argomento non si riferisce a una
proprietà di un individuo relativa ad altri, ma all’essere in sé dell’individuo: il cerchio
in sé stesso è tutt’uno, non ha né principio né fine, stabilirli è una convenzione.
Insomma l’opposizione inizio/fine è solo apparente, a un livello più profondo sono la
stessa cosa, coincidono.
•
“Le cose fredde si scaldano, il caldo si raffredda”: gli individui/proprietà si
trasmutano l’uno nel proprio opposto e non potrebbero farlo se non avessere
qualcosa in comune, se non fossero uniti nella loro matrice.
•
“La malattia rende dolce la salute, la fame la sazietà”: questo argomento ha un taglio
etico/antropologico e fa leva sul fatto che per noi uomini il benessere (o felicità) si
percepisce e si gode sempre e solo in relazione ai malesseri che si evitano, ai quali si
scampa.
Secondo Eraclìto, il principio della natura, cioè la Legge (o Ragione) dell’unità degli
opposti si identifica con una sostanza fisica, il Fuoco. Il Fuoco infatti è la sostanza più
mobile e mutevole, è in sé stesso scisso in più parti (fiamme, scintille) che sembrano in
lotta tra loro, ma essendo al contempo una cosa sola è la rappresentazione concreta
dell’unità degli opposti.
Soprattutto il Fuoco, più di ogni altro elemento, è in grado di spiegare l’opposizione
primaria e più dolorosa della natura, quella tra vita e morte. Infatti a seconda della sua
misura il Fuoco dà calore, e quindi genera, infonde la vita, oppure brucia, e quindi
distrugge, dà la morte.
In un ciclo continuo, afferma Eraclìto, raffreddandosi e condensandosi il fuoco diventa
progressivamente prima aria, poi acqua, infine terra; scaldandosi e rarefacendosi terra,
acqua e aria ritornano fuoco. Il primo processo coincide con formazione dell’universo, il
secondo con la sua dissoluzione. Il Fuoco, dunque, secondo Eraclito, genera e distrugge
l’universo per poi rigenerarlo e ridistruggerlo, e così via all’infinito.
In quanto principio regolatore del tutto, unico ed eterno, il Fuoco è il Divino. Eraclìto dice
esplicitamente che corrisponde a Zeus e al simbolo della sua regalità, cioè il fulmine. Ma
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dice anche che pensarlo tradizionalmente come Zeus, anziché filosoficamente come Fuoco,
è un modo ingenuo e fuorviante di concepire il Divino.
Secondo Eraclito, dunque, tutte le cose sono una specifica trasformazione del Fuoco. A
differenza di tutte le altre cose, però, l’uomo possiede anche una scintilla di Fuoco puro e
divino. Questa scintilla è il “respiro” (psyché), che quindi è intelligenza, razionalità.
L’uomo, in altre parole, diversamente dagli altri enti naturali, ha la Legge razionale che
governa tutte le cose dentro di sé. Solo l’uomo, pertanto, può divenire cosciente della Legge
razionale universale e può attuarla volontariamente. Ma, afferma Eraclìto, solo pochi
uomini – gli unici davvero “svegli” – mettono a frutto questa possibilità, cioè la conoscenza
razionale, e riescono a comprendere che tutto è Uno. I più, anche quando hanno gli occhi
aperti, rimangono in realtà dei “dormienti”, cioè si basano solo sulla conoscenza sensibile e
dunque credono che la realtà sia solo divenire, cioè mutamento, molteplicità e conflitto.
In questo senso, per Eraclìto, il fine ultimo della vita umana consiste nel comprendere
completamente la Legge razionale che governa l’universo e nell’agire conformemente ad
essa. Per fare ciò, più che osservare le cose esterne occorre scrutare dentro sé stessi – dal
momento che la Legge razionale è presente nell’uomo come “respiro” – e utilizzare il
pensiero razionale, ovvero la teoria, anziché l’esperienza sensibile immediata.
Infine, poiché il “respiro” umano è una scintilla del Fuoco divino eterno, secondo Eraclito,
esso è immortale e destinato a un’altra vita dopo la morte del corpo.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
IL FUOCO E LA RELATIVITA’ RISTRETTA
A proposito dei filosofi di Mileto ho proposto un collegamento tra i loro concetti del
principio della natura (acqua, illimitato, soffio) e l’attuale concetto scientifico di energia,
reso celebre e fondamentale dalla famosa formula nella quale Einstein ha sintetizzato la
sua teoria della relatività ristretta: E=mc2. Il collegamento mi sembra ancora più
calzante nel caso del Logos/Fuoco di Eraclìto.
Ma in questo caso l’analogia più significativa non è di tipo fisico, ma di tipo razionale.
Infatti, come il principio di Eraclìto, la formula di Einstein è proprio una “legge”, cioè non
consiste in una cosa o in un elemento ma esprime una relazione razionale valida per ogni
cosa/elemento fisico. In altre parole, la Legge eraclitea “tutto=Uno” ha la stessa forma
logica di E=mc2, benché i loro contenuti siano naturalmente molto diversi.
Mentre con i loro principi i milesii non avevano evidenziato questo aspetto determinante,
Eraclìto distingue e al tempo stesso connette la sostanzialità fisica (Fuoco) con la legalità
razionale (Legge dell’unità degli opposti), facendo un altro passo avanti verso la formula
di Einstein, cioè verso il concetto scientifico di “legge naturale”.
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TAPPA 2
I PITAGORICI: IL PRINCIPIO SONO I NUMERI
Tutte le cose sono necessariamente o limitanti o illimitate, o insieme limitanti
e illimitate. Solamente cose illimitate oppure solamente cose limitanti non
potrebbero esserci. Poiché, dunque, risulta chiaro che le cose che sono non
possono essere costituite né solamente di elementi limitanti né solamente di
elementi illimitati, è evidente che l’universo e le cose che sono in esso sono
costituite dall’accordo di elementi limitanti e di elementi illimitati.
Stobeo, Eclogae physicae et ethicae, I, 21, 7 a
I pitagorici sono i primi filosofi a elaborare una compiuta teoria dualistica della natura. Per
essi infatti non c’è u n principio della natura, ma una coppia di principi opposti e
complementari:
1) un principio limitante o Unità;
2) un principio illimitato o Molteplicità.
Di tale coppia di principi, i pitagorici danno innanzitutto una descrizione cosmogonica.
Secondo i pitagorici, in origine esistono solo:
 l’Illimitato/Molteplicità, consistente in un immenso Vuoto,
 il Limitante/Unità, che consiste in un punto pieno e compatto.
Il Limitante inspira in sé l’Illimitato e così si genera il cosmo in quanto composto di
Illimitato/Vuoto e Limitante/Unità. Infatti, da un lato l’Illimitato/Vuoto, infiltrandosi nel
pieno assoluto del Limitante/Unità, lo suddivide in molteplici parti; dall’altro il
Limitante/Unità riempie l’Illimitato/Vuoto, dandogli un contenuto e dunque una
configurazione definita.
Da questa teoria dell’origine del cosmo possiamo ricavare che il Limitante/Uno è il
principio della determinazione e dell’identità individuale di ogni cosa naturale, mentre
l’Illimitato/Vuoto è il principio dell’estensione spaziale e della varietà delle cose naturali.
Benché i pitagorici li considerino entrambi “principi”, essi attribuiscono la superiorità al
Limitante/Uno e per questo lo chiamano anche Dio.
Per i pitagorici l’interazione tra Limitante e Illimitato genera innanzitutto i numeri. Per
comprendere questa tesi, basta considerare che ogni numero da un lato è una grandezza
precisa, p.e. 3, e in tal senso è limitato, cioè finito; dall’altro lato, però, il significato di ogni
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numero si basa sulla sua relazione con l’infinita serie numerica, cioè con l’illimitato: p.e. il
3 indica una grandezza precisa solo in rapporto al 2, al 4, al 5, e così via all’infinito.
In questo senso, i pitagorici sostengono che ogni numero rappresenta un grado di
mescolanza di Limite e Illimite, un certo livello delle loro diverse e infinite dosi reciproche
di combinazione.
Così concepiti, i numeri, affermano i pitagorici, non sono enti astratti ma sono gli elementi
fisici primi di tutte le cose. L’Uno/Limite, infatti, è un punto di sostanza fisica, l’unità
minima di materia; il due è la linea e quindi la lunghezza; il tre il triangolo e cioè il piano
bidimensionale; il quattro la piramide e quindi lo spazio tridimensionale. I solidi
tridimensionali, a loro volta, aggregandosi generano gli elementi naturali secondari, cioè
fuoco, aria, terra, acqua. Infatti:
•
il tetraedro, la piramide a base triangolare, è la porzione/forma minima di materia di
cui è fatto il fuoco;
•
l’ottaedro, o doppia piramide a base quadrangolare, è la porzione/forma minima di
materia di cui è fatta l’aria;
•
il cubo, è la porzione/forma minima di materia di cui è fatta la terra;
•
l’icosaedro, il poligono regolare con 20 facce triangolari, è la porzione/forma minima
di materia di cui è fatta l’acqua.
Mischiandosi tra loro in varie proporzioni quantitative i quattro elementi terrestri – fuoco,
aria, acqua, terra – danno luogo a tutte le cose. In base a questa teoria dell’origine di tutte
le cose, i pitagorici sostengono per primi una tesi di enorme importanza per la filosofia e la
scienza di ieri e ancor più di oggi: tutti i fenomeni naturali dipendono da proprietà
quantitativo-matematiche e dunque si possono e anzi si devono spiegare usando la
matematica. Per esempio la proprietà di scaldare e bruciare del fuoco è considerata un
effetto delle misure aritmetiche, della forma geometrica e in generale delle caratteristiche
matematiche del tetraedro. Quindi la temperatura può e deve essere descritta
matematicamente, cioè misurata, e fenomeni come la combustione o la fusione possono e
devono essere spiegati con leggi matematiche.
Grazie a questa concezione matematica della realtà, i pitagorici per primi chiamano
l’universo “cosmo”. Questo termine in greco significa ordine, armonia. Per i pitagorici
l’universo è un cosmo, perché è costituito da un ordine quantitativo-matematico che
governa il divenire universale come un direttore d’orchestra i suoi musicisti. Anzi, in
questo senso, per essi gli astri coi loro moti suonano e al contempo sono mossi da una vera
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e propria sinfonia cosmica che le nostre orecchie non odono perché adatte solo a percepire
i suoni terrestri.
L’argomentazione pitagorica dell’ordine matematico dell’universo è in gran parte legata
proprio ai fenomeni acustico-musicali. I pitagorici comprendono e dimostrano, infatti, che
la diversa altezza dei suoni degli strumenti a percussione dipende dal loro peso; quella
degli strumenti a corda, dalla lunghezza delle corde; e che i rapporti armonici di ottava,
quinta e quarta dipendono da ben precise proporzioni matematiche (rispettivamente: 2 a 1,
3 a 2, 4 a 3) tra le lunghezze di due corde che vengano pizzicate insieme.
Dal momento che questa argomentazione, formalmente induttiva, si basava sull’uso
intenzionale e mirato di strumenti musicali, cioè di prodotti della tecnica umana, essa può
essere considerata un’anticipazione dell’argomentazione sperimentale sulla quale si fonda
la scienza attuale.
Altri argomenti, benché molto più approssimativi, i pitagorici li ricavano dall’esperienza
dei fenomeni naturali: l’anno dura 365 giorni, le stagioni sono 4, i giorni durano 24 ore, la
gestazione di un neonato dura 9 mesi, ecc.
E’ plausibile che tutte queste esperienze abbiano stimolato i pitagorici a porsi il seguente
problema: com’è possibile che i fenomeni naturali abbiano una regolarità così precisa o
delle relazioni quantitative così esatte? La filosofia pitagorica nasce dalla soluzione di
questo problema.
I pitagorici utilizzano i numeri anche per spiegare le diversità e le opposizioni che
caratterizzano il mondo naturale. Stante che tutti i numeri sono un misto di Limite e
Illimite, i pitagorici infatti ritengono che i dispari contengano più Limite e i pari più
Illimite. La ragione di questa tesi è che i pari possono essere divisi in altri due numeri
interi, i dispari no.
L’opposizione dispari (Limite)/pari (Illimite) è così assunta dai pitagorici come modello
generale di tutte le opposizioni naturali, come p.e. uomo/donna, destra/sinistra,
bene/male, luce/tenebra, retto/curvo, ecc.
Poiché il Limite è superiore all’Illimite, i dispari sono superiori ai pari e di conseguenza in
ogni coppia di opposti naturali uno dei due membri è migliore dell’altro. Questa teoria è
estesa dai pitagorici anche al mondo sociale dell’uomo e costituisce così il fondamento
della loro scelta politica a favore di forme di governo aristocratiche.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Tuttavia, il fine ultimo della filosofia, secondo i pitagorici, non è di tipo politico, ma di
genere religioso, cioè la liberazione del “respiro” individuale (psyché) di ogni uomo dalle
sofferenze dovute al corpo. Riprendendo, infatti, l’antica dottrina religiosa dell’orfismo, i
pitagorici credono che i “respiri” individuali siano immortali e che la loro presenza dentro i
corpi umani sia l’espiazione di una colpa originaria. Secondo i pitagorici, infatti, in origine,
noi uomini eravamo Titani, ovvero solo “respiri” immortali, ma, come tali, abbiamo ucciso
e divorato Dioniso, figlio di Zeus. Per punizione, Zeus ci ha condannati a passare da un
corpo all’altro in molte vite successive.
Dunque i pitagorici credono nella teoria della reincarnazione (o della metempsicosi) e si
pongono come fine ultimo l’uscita dal ciclo delle rinascite e la riacquisizione di una
condizione di puri “respiri”. Per raggiungere questo fine ogni uomo deve purificare il
proprio “respiro” conducendo una vita ascetica – basata su una dieta vegetariana e sulla
rinuncia ai piaceri fisici – e dedicata completamente alla conoscenza. La ricerca scientifica
e filosofica assume così per i pitagorici il valore religioso di strumento di liberazione
dell’uomo dal dolore e dalla morte.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
I PITAGORICI E LA FORMULA E=MC2
A proposito di Eraclìto si è detto che ha scoperto il carattere legale del principio, cioè il
fatto che esso non consiste solo e tanto in una sostanza, ma in una Legge, in un ordine
regolare. In questo senso abbiamo rilevato una nuova affinità tra il concetto di
“principio” e la legge della relatività ristretta di Einstein: E=mc2.
Ora possiamo dire che la concezione pitagorica del principio si avvicina ancora di più
alla legge di Einstein. Questa, infatti, è espressa in termini matematici, cioè è una
“formula” che indica un preciso e permanente rapporto numerico-quantitativo tra
energia, massa e velocità della luce. E i pitagorici, muovendosi oltre Eraclìto, non solo
affermano che il principio che governa il cosmo è una Legge ma appunto che questa
Legge ha una forma matematica, cioè è una “formula”.
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TAPPA 3
PARMENIDE: LA REALTA’ E’ SOLO ESSERE
Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio voleva
mi accompagnarono, dopo che mi ebbero posto sulla via che dice molte cose,
che appartiene alla divinità e che mi porta per tutti i luoghi che l'uomo sa.
Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle
tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via.
L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto,
infiammandosi – in quanto era premuto da due rotanti
cerchi da una parte e dall’altra –, quando affrettavano il corso
dell’accompagnarmi,
le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte,
verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.
Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti.
Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono.
Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole,
con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello
senza indugiare togliesse dalla porta. E questa, subito aprendosi,
produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi
fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta,
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle.
E la Dea di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra
prese, e incominciò a parlare così e mi disse:
«O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici,
con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto a percorrere
questo cammino – infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini –,
ma legge divina e giustizia.
Bisogna che tutto tu apprenda:
e il solido cuore della Verità ben rotonda
e le opinioni dei mortali, nelle quali non c’è una vera certezza.
Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
bisogna che veramente siano, essendo tutte in ogni senso».
Parmedide, Sulla natura, frammento 1
Ora, io ti dirò – e tu ascolta e accogli la mia parola –
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
quali sono le vie di ricerca che sole si possono pensare:
l’una che è, e che non è possibile che non sia
(è il sentiero della Persuasione, che deriva dalla Verità)
l’altra che non è, e che è necessario che non sia,
io ti dichiaro che questa è una strada del tutto inesplorabile:
perché ciò che non è non lo puoi pensare (è infatti impossibile)
e non lo puoi nemmeno esprimere.
Infatti il pensare coincide con l’essere.
Parmedide, Sulla natura, frammenti 2 e 3
Parmenide chiama “Essere” – cioè l’esistere, l’esistenza – ciò che i filosofi precedenti
avevano considerato “principio” della natura e chiamato Acqua o Fuoco o Aria, ecc. In altri
termini, secondo Parmenide l’aspetto comune e fondamentale di tutte le cose fisiche,
ovvero della realtà o natura, è la proprietà dell’esistenza, il fatto di esistere.
E’ plausibile che questa nuova tesi filosofica sia il risultato finale della riflessione di
Parmenide su un problema filosofico di estrema radicalità che lui per primo si pone, per lo
meno apertamente e chiaramente:
 perché esiste una realtà fisica (la natura, il cosmo) anziché il niente? perché, cioè,
non c’è il nulla al posto di tutte le cose?
In linea di principio, infatti, che il mondo esista oppure che ci sia il nulla sono due
possibilità equivalenti, con pari probabilità di realizzarsi. Perché allora c’è qualcosa? Per
puro caso? Parmenide risponde di no. Secondo lui, che ci sia la realtà fisica è necessario ed
è necessario che non ci sia il nulla – cioè le cose non potrebbero essere altrimenti da come
effettivamente sono. Perché? Come argomenta Parmenide questa potente tesi?
L’argomento fondamentale di Parmenide è che la proprietà dell’esistenza è attribuibile solo
alla realtà dal momento che tra il nulla e l’esistere c’è una incompatibilità di principio, di
tipo logico. Infatti, la proposizione “esiste il nulla” equivale a “esiste ciò che non esiste”. In
altre parole, pensare e dire “il nulla è (=esiste)” è assurdo, è un nonsense, perché tra il
nulla e l’esistere intercorre una contraddizione assoluta tale per cui se si pensa il nulla non
si può pensare che esista e viceversa. Pertanto Parmenide conclude che si deve pensare – e
dire – solo:
74
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•
•
che il nulla non esiste né può esistere;
e che quindi l’Essere deve esistere per necessità.
Dunque, per Parmenide, il mondo naturale non può mai andare distrutto, cioè che c’è
sempre stato e continuerà a esserci in eterno.
Parmenide fonda in questo modo un nuovo settore della ricerca filosofica, l’ “ontologia”,
cioè la teoria della realtà in quanto “Essere”, stabilendone la legge fondamentale: l’Essere
(la realtà) è necessario che esista mentre il non-essere (il nulla) è impossibile che esista.
Allo stesso tempo Parmenide sancisce la regola fondamentale dell’argomentazione
filosofica, ovvero della scienza intesa come conoscenza vera dell’Essere:
 è vietato pensare e affermare che esiste il non-essere (ossia il nulla) e non solo in
modo esplicito ma anche solo implicitamente.
Il presupposto logico di questa regola è il “principio di non-contraddizione” secondo il
quale non è possibile pensare/affermare che una stessa cosa è e insieme non è, p.e.
“Parmenide vive e non vive”. In questo senso si può dire che Parmenide fu il primo filosofo
a focalizzare il principio di non-contraddizione. Egli però non lo pensò come un criterio
della mente umana, cioè logico, bensì come una legge della natura, cioè ontologica, la legge
che impone appunto di considerare l’essere come principio fondamentale e necessario
della realtà e nega di conseguenza ogni possibilità di esistenza al non-essere o nulla.
Un corollario di questa legge, secondo Parmenide, è la coincidenza Essere-pensierolinguaggio. Infatti se solo l’Essere esiste, il pensiero e il linguaggio possono avere come
oggetto solo l’Essere. In altri termini, possiamo pensare solo ciò che esiste e parlare solo di
ciò che esiste. Per questo, l’Essere per Parmenide è il criterio di verità del pensiero e del
linguaggio.
Una volta argomentato che l’Essere è il fondamento di ogni cosa, Parmenide passa ad
argomentare le sue caratteristiche. Utilizzando la sua legge ontologica – “esiste solo
l’Essere, il non-essere non può esistere” – Parmenide inventa un nuovo tipo di
argomentazione razionale, che in filosofia verrà chiamata “dialettica” e in matematica
“dimostrazione per assurdo”. Si tratta di un’argomentazione deduttiva indiretta in quanto
consiste nell’argomentare una tesi dimostrando che la sua antitesi (cioè la tesi opposta) è
assurda, ovvero che implica una contraddizione.
In base alle dialettica Parmenide argomenta che l’Essere è:
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1. ingenerato e indistruttibile: infatti se fosse generato e distruttibile dovrebbe nascere
dal non-essere e dovrebbe finire nel non-essere: nel primo caso il non-essere
diverrebbe Essere e nel secondo l’Essere diverrebbe non-essere, ma ciò è assurdo
perché trasgredisce la legge ontologica, cioè perché è contraddittorio;
2. privo di passato e futuro, cioè eternamente presente: infatti l’Essere passato, cioè
l’Essere che fu, non esisterebbe più ora; e l’Essere futuro, cioè l’Essere che sarà, in
questo momento non esisterebbe ancora. In entrambi i casi l’Essere n o n
esisterebbe, ma ciò è contraddittorio per gli stessi motivi indicati al punto
precedente;
3. unico, indifferenziato e omogeneo: infatti se fosse diviso in parti queste potrebbero
distinguersi solo in base a qualcosa che fosse diverso dall’Essere, cioè in base al nonessere; e se avesse dei vuoti al proprio interno o dei punti di minore concentrazione
essi implicherebbero la presenza del non-essere, ma il non-essere non può esistere;
4. immobile e immodificabile: se si muovesse da A a B, se fosse in A non esisterebbe in
B e viceversa; se da verde diventasse giallo, prima non esisterebbe giallo poi non
esisterebbe verde: in tutti i casi l’Essere includerebbe il non-essere, ma ciò è
assurdo, quindi inammissibile.
5. finito ma non limitato: l’Essere è finito, nel senso che è una totalità conclusa e
compiuta, perché altrimenti mancherebbe di qualcosa, cioè conterrebbe non-essere;
ma non ha un confine, non è limitato da qualcosa, in quanto potrebbe essere
limitato solo dal non-essere, ma il non-essere non esiste.
Infine Parmenide attribuisce all’Essere una forma sferica. Infatti, afferma, l’Essere è del
tutto compatto e omogeneo e pertanto esercita la stessa pressione in tutte le direzioni. La
sfera è appunto la figura geometrica che deriva da una forza che a partire da un punto si
espande omogeneamente in tutte le direzioni (le bolle di sapone ne sono un facile
esempio).
Date queste sue caratteristiche, l’Essere di Parmenide non è a rigore il “principio” (archè),
bensì il “fondamento” divino di tutte le cose. Secondo i filosofi precedenti, infatti, il
“principio” si trasforma e da unico diventa duplice e poi molteplice. L’Essere invece è
immutabile e indifferenziato. Ma allora come spiega Parmenide il mondo naturale
mutevole e differenziato, ovvero il divenire? In prima approssimazione, egli afferma che il
mondo naturale è un’illusione della conoscenza sensibile, cioè sostiene che i nostri sensi ci
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fanno percepire un’immagine distorta dell’unica vera realtà, l’Essere. La ragione, cioè la
conoscenza puramente razionale, invece, ci permette di capire che il divenire naturale –
implicando il continuo passaggio dal non-essere all’essere (nascita) e dall’essere al nonessere (morte) – infrange la legge secondo cui il non-essere non può esistere, e dunque non
è reale.
D’altra parte la conoscenza umana riflette sempre l’Essere e dunque anche l’illusione del
divenire naturale deve derivare dall’Essere. Ma in che modo? Come può l’Essere produrre
l’illusione dell’esistenza del non-essere senza negarsi? La legge suprema di Parmenide non
afferma solo che l’Essere deve esistere ma insieme nega che il non-essere possa esistere. In
altre parole l’Essere non consiste solo nella propria autoaffermazione ma anche nella
negazione del suo opposto contraddittorio, cioè il non-essere. Ma nel momento in cui lo
nega deve in qualche modo conferirgli una sorta di esistenza virtuale, evanescente,
fantasmatica: appunto il divenire.
Per comprendere meglio questa argomentazione, possiamo considerare un tipico miraggio
del deserto, quello di un’oasi, ovvero di un bacino d’acqua. Nel momento stesso in cui
capiamo che è un miraggio, neghiamo col ragionamento la realtà effettiva dell’oasi che
vediamo, la giudichiamo un’illusione ottica, ma per farlo dobbiamo avere l’esperienza
sensibile dell’oasi, cioè dobbiamo ammettere la sua esistenza virtuale, apparente.
In conclusione, per Parmenide dobbiamo accettare l’illusione della realtà naturale essendo
però consapevoli che esiste solo l’Essere e che pertanto tutti i cambiamenti, le opposizioni
e le diversità sono in realtà sempre e solo le maschere di un unico e immutabile Essere/Dio
che coincide con il cosmo stesso.
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TAPPA 4
ZENONE: MOLTEPLICITA’ E MOTO SONO ASSURDI
[…] Zenone di Elea, il quale faceva al sofista Protagora le seguenti domande:
“Dimmi, Protagora, fa rumore cadendo un chicco di grano oppure la
decimillesima parte di un chicco di grano?” E avendo Protagora risposto che
la decimillesima parte di un chicco di grano non fa rumore, quegli soggiunse:
“Ma un medimno6 di chicchi di grano fa rumore o no, quando cade?” E avendo
Protagora risposto che fa rumore, Zenone incalzò: “Ma non c’è forse una
proporzione fra un medimno di chicchi di grano e un singolo chicco e fra il
chicco e la sua decimillesima parte?” E avendo Protagora ammesso che c’è, di
rimando disse Zenone: “E non dovranno esserci le stesse reciproche
proporzioni anche tra i suoni? Come c’è proporzione tra le cose che
producono i suoni, così ci deve essere proporzione fra i suoni; ma se è così, se
il medimno di grano fa rumore, anche il chicco da solo fa rumore e anche la
sua decimillesima parte”. Così argomentava Zenone.
Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele
Discepolo di Parmenide, Zenone non si propone di elaborare una nuova filosofia e
nemmeno di modificare quella del suo maestro anche solo per perfezionarla. La sua attività
filosofica si concentrata completamente su un obiettivo: smontare tutte le critiche alla
filosofia di Parmenide per dimostrare che essa è inattaccabile e insuperabile.
Ora, Parmenide aveva sostenuto che la vera realtà è unica, indifferenziata e immobile,
ovvero che il divenire – molteplicità più cambiamento – è un’illusione dei sensi. Gli
avversari di Parmenide erano arrivati a irridere questa tesi in quanto del tutto contraria al
senso comune. Per loro, in altre parole, era ovvio che Parmenide avesse torto. Zenone
mette in discussione questa ovvietà e ribalta il senso comune. Egli infatti proclama
provocatoriamente che non l’unità e la fissità, ma proprio la molteplicità e il cambiamento
sono assurdi.
La maestria filosofica di Zenone non consiste però in questa tesi ma nel modo in cui
l’argomenta per renderla convincente. Egli si avvale di una particolare strategia di
argomentazione – già usata da Parmenide ma da Zenone sviluppata in tutte le sue
articolazioni ed esplicitata nella sua forma logico-linguistica: la dialettica (in matematica
“dimostrazione per assurdo”). L’argomentazione dialettica non adduce ragionamenti o
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Unità di misura dei volumi corrispondente a c.ca 52 litri.
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prove empiriche a favore della propria tesi ma fa leva su ragionamenti e prove empiriche
che smantellano la tesi contraria.
Per questo aspetto essa è una confutazione, cioè un’argomentazione negativa, che non
argomenta la verità di una tesi, bensì la sua falsità. Attraverso la confutazione però la
dialettica pretende di dimostrare indirettamente la tesi opposta a quella confutata. Il
presupposto di tale strategia argomentativa è che date due tesi opposte (p.e. “è giorno”/“è
notte”) la falsificazione di una delle due comporti automaticamente la convalida dell’altra.
Pertanto per Zenone la confutazione della molteplicità della realtà è un argomento a favore
della sua unità e la confutazione del mutamento della realtà un argomento a favore della
sua fissità.
Tra i numerosi argomenti dialettici contro la molteplicità, due hanno particolare rilevanza.
Il primo si svolge così:
• la molteplicità minima è la dualità;
• perché ci siano 2 enti ci dev’essere qualcosa che li distingua/divida;
• dunque ci devono essere almeno 3 enti;
• ma allora ci vogliono altri 2 enti per distinguerli/dividerli;
• dunque ci devono essere almeno 5 enti;
• e così via all’infinito, dimodoché la molteplicità risulta indefinita.
Zenone scopre così la “progressione (o regressione) all’infinito”, cioè un’argomentazione
razionale condannata a proseguire senza mai giungere a una conclusione, il che comporta
l’assurdità o insensatezza del suo presupposto: in questo caso l’esistenza della molteplicità.
Il secondo argomento contro la molteplicità si dipana in questo modo:
• se la realtà fosse molteplice ogni cosa dovrebbe essere divisibile in parti più piccole;
• ognuna di queste parti più piccole, avendo comunque una grandezza, può a sua
volta essere divisa in parti ancora più piccole, e così via;
• in questo modo possiamo arrivare a parti infinitamente piccole;
• ma queste parti essendo a loro volta divisibili all’infinito sarebbero composte da
infinite sottoparti tutte dotate di una grandezza, seppure minima;
• dunque sarebbero infinitamente grandi;
• ma ciò è assurdo perché vorrebbe dire che qualcosa è allo stesso tempo
infinitamente piccolo e infinitamente grande, il che è contraddittorio.
Contro il moto, Zenone elaborò quattro famose argomentazioni dialettiche:
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1. Se il moto esiste noi possiamo percorrere uno stadio in tutta la sua lunghezza. Ma
per farlo dobbiamo prima raggiungere la sua metà, poi la metà della metà, poi la
metà della metà della metà, e così via all’infinito perché vi sono infinite metà.
Pertanto non possiamo mai arrivare in fondo. Dunque il moto è solo un’illusione.
2. Se due uomini attraversano uno stadio partendo da lati opposti e muovendosi alla
stessa velocità, ognuno di loro ha una velocità V rispetto al fondo dello stadio e 2V
rispetto all’altro uomo che si muove nella direzione opposta alla sua. Ciò è assurdo
perché significa che una stessa quantità è uguale al suo doppio (V=2V).
3. Se il piè veloce Achille ingaggia una gara di corsa con una tartaruga concedendole
una distanza D di vantaggio non vincerà mai la gara. Infatti nel tempo che Achille
impiega per percorrere la distanza D, la tartaruga percorre la distanza D1 (<D) e
dunque si trova ancora davanti a Achille; nel tempo in cui Achille percorre la
distanza D1 la tartaruga percorre la distanza D2 (<D1) e dunque si trova ancora
davanti ad Achille; e così via all’infinito. In altre parole, Achille accorcia sempre più
la sua distanza dalla tartaruga ma non può mai raggiungerla e superarla. Dunque
Achille si muove e non si muove, il che è assurdo perché contraddittorio.
4. Una freccia lanciata da un arco verso un bersaglio percorre una traiettoria. In
ognuno degli istanti compresi tra il lancio e l’arrivo al bersaglio la freccia deve
occupare un segmento definito di questa traiettoria. Ma appunto se nell’istante T
occupa il segmento S compreso tra due punti A e B ciò significa che è ferma. Dunque
la freccia dovrebbe al tempo stesso essere ferma e muoversi. Il che è assurdo perché
contraddittorio.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
ZENONE, IL CALCOLO INFINITESIMALE E IL PRINCIPIO DI RELATIVITA’
Le argomentazioni dialettiche di Zenone avevano numerose e importantissime
implicazioni matematiche e scientifiche. Il loro principale presupposto era infatti la tesi
dell’infinita divisibilità dello spazio. Tale tesi spinse i matematici antichi a superare la
concezione pitagorica del punto dotato di spessore a favore della concezione del punto
privo di dimensioni. In questo modo infatti era possibile ammettere l’infinita divisibilità
di un segmento in quanto composto da infiniti punti. Per questa via già nel V sec. a.C.
Eudosso arrivò alla scoperta del “metodo di esaustione”, che, sviluppato da Archimede
nel III sec. a.C., divenne poi la base dell’invenzione del calcolo infinitesimale alla fine del
1600 ad opera di Newton e Leibniz.
L’argomentazione dei due uomini che percorrono uno stadio implicava invece il pricipio
di relatività dei moti, che fu poi enunciato da Galilei nel 1600 e quindi fu ampliato e
ridefinito da Einstein nella sua teoria della relatività ristretta (1905), diventando un
caposaldo della scienza contemporanea. Secondo il principio di relatività i moti inerziali
(cioè rettilinei uniformi) sono relativi gli uni agli altri, per cui la loro velocità cambia al
mutare del sistema di riferimento. P.e., camminando su un tram io vado a un certa
velocità rispetto a un albero esterno e a un’altra velocità rispetto a un passeggero seduto
all’interno del tram. Zenone, dunque, aveva intuito il principio di relatività dei moti, ma
lo giudicava assurdo, e dunque una prova dell’impossibilità del moto, mentre in seguito
fu riconosciuto come una proprietà reale dei moti. Ma anche al senso comune odierno il
principio di relatività continua a sembrare assurdo, come dimostrano le reazioni
immediate all’affermazione einsteiniana che per la fisica si può descrivere un’auto in
viaggio lungo una strada sia dicendo che quell’auto si muove su un nastro d’asfalto fermo
sia dicendo che il nastro d’asfalto si muove (nel verso opposto) sotto l’auto ferma.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 5
LA SCIENZA DEI COSMOLOGI RAZIONALISTI
I cosiddetti pitagorici si dedicarono per primi alle scienze matematiche,
facendole progredire; e poiché trovarono in esse il proprio nutrimento,
furono del parere che i principi di queste si identificassero con i principi di
tutte le cose. […] Essi individuavano, inoltre, nei numeri le proprietà e i
rapporti delle armonie musicali e, insomma, pareva loro evidente che tutte le
cose modellassero sui numeri la loro intera natura e che i numeri fossero
l’essenza primordiale di tutto l’universo fisico.
Aristotele, Metafisica, I, A, 5, 985b-986a
La scuola pitagorica ha un’enorme importanza per il processo di formazione della scienza.
I suoi maggiori contributi alla ricerca scientifica riguardano la matematica, l’acustica e
l’astronomia.
In campo matematico, i pitagorici fondano innanzitutto l’aritmetica come teoria dei
numeri razionali e discreti. Per essi infatti i soli numeri ammissibili sono quelli interi e
quelli frazionari (o decimali, periodici compresi), ovvero solo i numeri divisibili tra loro. Di
conseguenza i numeri, per i pitagorici, sono discreti, cioè discontinui, ossia ogni numero è
una grandezza a sé stante distinta e separata dalle altre. In altre parole, da ogni numero
(p.e. il 3) non “si scivola”, ma “si salta” all’altro (p.e. il 4).
In base a questa concezione discontinua del numero i pitagorici sostengono la
corrispondenza e la traducibilità reciproca di aritmetica e geometria. Una volta stabilito
che il numero uno corrisponde a un punto geometrico dotato di grandezza, per quanto
minima, diventa possibile far corrispondere a ogni numero un ente geometrico e viceversa.
Ciò comporta che tutte le figure geometriche siano concepite come formate da un numero
finito di punti. In questo senso la matematica pitagorica è stata definita “aritmogeometria”.
In ambito geometrico, poi, si attribuisce a Pitagora il famoso teorema che porta il suo
nome: “in ogni triangolo rettangolo la somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti è
equivalente all’area del quadrato costruito sull’ipotenusa”. E’ quasi certo che già egizi e
assiro-babilonesi avessero scoperto questa equivalenza almeno nel caso di un triangolo
rettangolo con i cateti di valore 3 e 4 e l’ipotenusa di valore 5 (nonché in altri casi
particolari analoghi).
La scoperta di Pitagora consiste nell’aver compreso e dimostrato che si tratta di una
proprietà generale, cioè nell’essere passato dal rilevamento della presenza di una proprietà
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
in alcuni casi alla formulazione e alla dimostrazione di una legge certamente valida per
tutti i casi di triangoli rettangoli. Si tratta di una riconduzione di una molteplicità
differenziata a una unità omogenea che per i pitagorici attesta la potenza ordinatrice della
matematica.
L’acustica, ovvero la parte della musica che studia i suoni, è considerata dai pitagorici
un’applicazione dell’aritmetica al mondo fisico, così come l’astronomia un’applicazione
della geometria al mondo fisico.
In campo acustico, la tradizione attribuisce a Pitagora la teoria matematica degli intervalli
musicali di ottava (tra un do e quello successivo di più alta tonalità), di quinta (tra un do e
il sol successivo) e di quarta (tra un do e il fa successivo). Pitagora comprende infatti che
l’ottava corrisponde al rapporto matematico 2 a 1, la quinta a quello di 3 a 2, la quarta a
quello di 4 a 3. Ciò significa, per esempio, che per passare da un do a quello più alto o più
basso bisogna dimezzare o raddoppiare il peso di un martello da percussione oppure la
lunghezza di una corda di chitarra. Analogamente negli altri due casi.
Di fondamentale importanza l’apporto che i pitagorici danno all’astronomia. Essi, infatti,
in contrasto con i filosofi di Mileto, sostengono che il cosmo è finito e sferico, che il suo
centro è occupato non dalla Terra ma da un Fuoco sacro (Hestìa), manifestazione fisica del
Limite. Per i pitagorici, intorno a questo fuoco centrale ruotano 10 corpi celesti, tutti sferici
(dal più vicino al più lontano): l’Antiterra (considerata invisibile), la Terra (sferica
anch’essa), la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e il cielo delle stelle
fisse.
L’inserimento dell’Antiterra si spiega sia con l’esigenza di rispettare il numero 10, cui i
pitagorici attribuivano un valore sacro, sia con la soluzione del problema astronomico della
maggiore frequenza, relativamente allo stesso punto di osservazione terrestre, delle eclissi
di Luna rispetto alle eclissi di Sole.
I moti dei corpi celesti per Pitagora sono ordinati matematicamente e proprio per questo
producono una musica che però l’udito umano non è in grado di percepire.
Filolao sviluppa la teoria astronomica pitagorica originaria sostenendo che il fuoco/limite
centrale ha prodotto l’intero cosmo dapprima inspirando l’illimitato caotico circostante e
poi espirandolo ordinatamente intorno a sé. Filolao, inoltre, afferma che il Sole è solo uno
specchio che riflette il fuoco centrale o Hestìa.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La matematica della scuola pitagorica entra in crisi a causa della scoperta delle grandezze
incommensurabili, ovvero dei numeri irrazionali. Secondo la tradizione, questa scoperta,
opera degli stessi pitagorici, era stata dichiarata un segreto che era proibito divulgare
pubblicamente. Ma il divieto fu infranto dal pitagorico Ippaso di Metaponto, che per
questo sarebbe stato cacciato dalla scuola come “traditore”.
La scoperta degli incommensurabili nasce dall’applicazione del teorema di Pitagora ai due
triangoli rettangoli isosceli in cui si può dividere un quadrato. Attribuendo ai cateti (cioè ai
lati del quadrato) una lunghezza 1, la lunghezza dell’ipotenusa risulta essere uguale alla
radice quadrata di 2, che è un numero irrazionale, di cui i pitagorici negavano e aborrivano
l’esistenza. Ciò significa che lato e diagonale di un quadrato non sono divisibili tra loro in
quanto non possiedono un sottomultiplo comune, cioè una grandezza, per quanto minima,
che stia un numero intero e finito di volte m nel lato, e un numero intero e finito di volte n
nella diagonale. In una parola, lato e diagonale del quadrato sono appunto grandezze
incommensurabili, cioè che non si possono misurare insieme, con la stessa unità di misura.
Così stando le cose, non è più possibile pensare che lato e diagonale, e quindi in generale
tutte le grandezze geometriche, siano composti da un numero finito di punti. In questo
caso infatti almeno un punto, cioè una grandezza minima, dovrebbe essere presente un
numero intero e finito di volte m nel lato e un numero intero e finito di volte n nella
diagonale. Di conseguenza diventa necessario concepire le grandezze geometriche come
composte da infiniti punti senza dimensioni. Ma ciò a sua volta comporta la rottura della
corrispondenza tra aritmetica e geometria.
Eraclìto fu forse il primo filosofo a fornire una teoria delle fasi lunari e delle eclissi di Sole e
di Luna. Secondo lui, questi fenomeni astronomici sono la conseguenza del fatto che Luna
e Sole sono fuochi contenuti in sfere, probabilmente di metallo, ruotanti intorno alla Terra.
Alcune parti della superficie di queste sfere sono opache e quando esse sono rivolte verso la
Terra noi vediamo oscurarsi in parte o completamente il Sole o la Luna.
Parmenide confuta la teoria di Eraclìto e le contrappone una teoria alternativa. Secondo
Parmenide, i fenomeni delle fasi lunari e delle eclissi solari e lunari sono illusori, in quanto
prodotti da un gioco di luce e ombra. In altre parole, le fasi lunari dipendono dalle diverse
prospettive in cui dalla Terra possiamo osservare la metà illuminata della Luna; le eclissi
dall’anteporsi della Luna al Sole e dal frapporsi della Terra tra il Sole e la Luna.
Zenone, invece, con i suoi paradossi dà un contributo agli sviluppi della matematica, in
particolare della geometria. Infatti, le sue argomentazioni dialettiche contro il moto e la
molteplicità si imperniano sulla concezione delle grandezze geometriche come composte
da infiniti punti senza dimensioni e pertanto infinitamente divisibili. In questo modo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Zenone evidenzia tutta la spinosa problematicità del concetto di infinito. Riflettendo sui
paradossi di Zenone, i matematici Greci successivi arrivano a stabilire la distinzione tra
infinito potenziale (p.e. una retta) ed infinito attuale (p.e. l’insieme di tutti i numeri interi),
accettando il primo come reale e rifiutando il secondo come impossibile e dunque irreale.
La scienza medica greca comincia a formarsi nel V sec. nella città di Cnido, sulle coste
dell’Asia Minore. La scuola medica di Cnido concepisce e pratica la medicina solamente
come patologia, cioè diagnostica e terapia, e segue un’impostazione decisamente
empiristica, preoccupandosi unicamente di registrare e accumulare innumerevoli casi di
malattia e i loro sintomi.
Un ulteriore e più significativo sviluppo della medicina si ha a Crotone, la città dove si
trasferì Pitagora, soprattutto grazie a Alcmeone. Questi dà inizio alla pratica della
dissezione, giungendo a comprendere che le sensazioni, pur partendo dagli organi di senso,
fanno capo al cervello, che per lui è l’organo della comprensione e della coscienza.
Alcmeone, inoltre, allarga la medicina alla fisiologia e alla biologia del corpo umano. Egli,
infine, non si limita a registrare i dati dell’esperienza ma li unifica in base a ipotesi
teoriche. In questo senso, Alcmeone elabora una teoria generale della malattia come
rottura dell’equilibrio tra le varie componenti del corpo a causa della prevalenza di una di
esse facilitata dall’influenza di fattori ambientali.
E’ evidente la connessione tra questa nuova impostazione più teorica della medicina e lo
sviluppo delle filosofie fisico-razionaliste di Eraclìto, Pitagora e Parmenide.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
LO SCRIGNO
AMIR D. ACZEL: LA SCOPERTA DEL CONTINUO GEOMETRICO
In un certo senso, l’idea pitagorica della divinità degli interi morì con Ippaso,
per essere sostituita dal più ricco concetto di continuo: infatti, la geometria
greca nacque dopo che il mondo venne a conoscenza dell’esistenza dei numeri
irrazionali. La geometria ha a che fare con linee, piani e angoli, che sono tutte
entità continue. I numeri irrazionali sono gli abitatori naturali del mondo del
continuo (sebbene anche i numeri razionali “vivano” in quel mondo) dal
momento che costituiscono la maggioranza dei numeri presenti in esso.
Amir D. Aczel, Il mistero dell’Alef, Net/il Saggiatore 2002, pp. 23-24
KARL POPPER: LE FASI LUNARI COME “GIOCO DI OMBRA E LUCE”
Parmenide era un filosofo della natura (nel senso della philosophia naturalis
di Newton). Un’intera serie di importantissime scoperte astronomiche viene
attribuita a lui: che la stella del mattino e quella della sera siano una sola
identica stella7, che la Terra sia sferica (anziché a forma cilindrica o di
colonna, come pensava Anassimandro). Più o meno della stessa importanza è
la sua scoperta che le fasi lunari sono dovute al cambiamento del modo in cui
la metà illuminata della Luna viene vista dalla Terra.
Prima di questa la più ingegnosa teoria delle fasi lunari era dovuta a Eraclito.
Egli spiegava che le fasi lunari e le eclissi di Luna e di Sole erano tutte da
interpretare partendo dall’assunzione che questi corpi fossero fuochi
contenuti in sfere (di metallo?) che ruotavano attorno alla Terra: essi
potevano volgere le loro zone oscure in parte, o del tutto, verso di noi.
Secondo questa teoria, la Luna non starebbe più crescendo o calando, ma le
sue fasi sarebbero invece il risultato di un vero e proprio movimento
all’interno della Luna. Ma, in accordo con la nuova scoperta di Parmenide, le
fasi della Luna non erano affatto dovute a motivi di questo genere. Esse non
coinvolgevano alcun tempo di mutamento e di movimento effettivo della
Luna. Erano, piuttosto, un’illusione – l’ingannevole effetto di un gioco di luce
e di ombra.
K. Popper, The classical Quarterly (1992), numero di dicembre 1995 della rivista Reset
7
Venere, chiamata rispettivamente “Fosforo” (in greco “porta-luce”, equivalente di Lucifero, di origine latina) e
“Espero” (in greco “della sera”, equivalente di Vespero in latino)
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II VIAGGIO
L’ORDINE COME INTERAZIONE
DI PIÙ PRINCIPI FISICI
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ROTTA SU…
I COSMOLOGI PLURALISTI
Dal confronto argomentativo tra i fisici monisti (Talete, Anassimandro, Anassìmene) e i
fisici razionalisti (Eraclìto, Pitagora, Filolao, Parmenide, Zenone) emerge alla metà del V
secolo a.C. una nuova tendenza filosofica che ha i suoi principali esponenti in Empedocle,
Anassagora e Democrito.
Questi nuovi filosofi cercano di valorizzare la realtà fisico-naturale, anche e soprattutto
in quanto divenire, cioè molteplicità e mutamento, rispettando però la legge parmenidea
dell’inammissibilità del nulla (o non-essere). Per raggiungere la difficile conciliazione tra
il divenire e l’essere, i fisici pluralisti teorizzano la derivazione di tutte le cose naturali
non da un unico principio fisico e dalle sue mutazioni, bensì da una pluralità (ecco perché
“pluralisti”) di principi fisici immutabili che continuamente si aggregano e si disgregano
in modi diversi generando tutte le cose naturali.
Data questa impostazione, il processo di aggregazione/disgregazione dei principi assume
un ruolo centrale. In questo senso, i fisici pluralisti individuano, accanto ai principi, delle
“forze”, sempre fisiche ma distinte dai principi, che ne causano perennemente, secondo
una regola immutabile ed eterna, le combinazioni e le suddivisioni.
Tuttavia, le filosofie di Empedocle, Anassagora e Democrito concepiscono e configurano
in modi divergenti sia i principi che costituiscono tutte le cose sia le forze che ne
governano la continua generazione e dissoluzione. I “cosmologi (o fisici) pluralisti”,
dunque, non costituiscono una “scuola”.
Secondo Empedocle, i principi sono i quattro elementi: terra, acqua, aria e fuoco – da lui
chiamati “radici” – e le forze che ne governano combinazioni e ricombinazioni sono
l’amicizia (attrazione) e la contesa (repulsione).
Anassagora, invece, ritiene che i principi siano infiniti, li chiama “semi” e li identifica con
le innumerevoli proprietà qualitative di tutte le cose. Secondo lui, i semi sono governati
dall’ “Intelletto”, una forza razionale dotata di una materialità finissima.
Nonostante le loro diversità, Empedocle e Anassagora condividono una concezione
organicistica della natura, cioè pensano che tutti gli esseri naturali siano viventi, e di
conseguenza ritengono primarie le loro proprietà qualitative (odori, colori, sapori, ecc.).
Democrito, invece, si differenzia nettamente da entrambi perché ritiene che la natura sia
meccanica, ossia che tutti gli esseri naturali siano delle “macchine”. Secondo Democrito,
infatti, tutto è composto di infiniti “indivisibili” (in greco àtoma), cioè di particelle
materiali microscopiche, e dunque invisibili, prive di vita e caratterizzate unicamente da
proprietà quantitative (volume, lunghezza, larghezza, velocità, ecc.). La forza che, per
Democrito, governa l’aggregazione e la disgregazione degli indivisibili è il loro moto,
considerato una loro proprietà originaria.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITE DI CAPITANI
EMPEDOCLE, ANASSAGORA E DEMOCRITO
I fisici pluralisti coprono geograficamente tutta la Grecia – madrepatria, Grecia italica
occidentale e Grecia ionica orientale – sia per la posizione delle loro città di nascita sia
perché soggiornarono in molte città diverse da quelle di nascita e in taluni casi vi si
stabilirono definitivamente. In particolare, fu Atene il polo di attrazione principale di molti
filosofi. Atene, infatti, nel corso del V sec. diventò la polis economicamente, politicamente
e culturalmente più sviluppata e al tempo stesso il simbolo della massima fioritura
dell’intera civiltà greca.
Nato ad Agrigento, in Sicilia, da famiglia aristocratica, Empedocle (490-430 c.ca) fu il
leader del partito democratico della sua città e per questo fu esiliato nel Peloponneso.
Scrisse due poemi filosofici: Sulla natura, di argomento cosmologico; Purificazioni, di
argomento morale ed escatologico (relativo cioè al destino ultraterreno dell’uomo). Di
entrambi i poemi ci restano un centinaio di versi. Ricercatore scientifico a livello fisico,
biologico e medico, esperto di tecniche, preferì però proporsi come guaritore e mago, e
addirittura come un dio fattosi uomo. Questa immagine fece nascere le più disparate
leggende sul suo conto: gli vengono attribuiti dalla tradizione dei veri e propri miracoli, tra
cui addirittura la resurrezione di una donna, e ci viene tramandato che non morì di morte
naturale ma, secondo una fonte, che fu rapito da una luce celeste oppure, secondo un’altra
fonte, che si buttò nel cratere dell’Etna per riunirsi al fuoco sacro e riacquisire il proprio
rango divino.
Anassagora (496-428 c.ca) nacque a Clazòmene, colonia ionica dell’Asia Minore sul mar
Egeo, situata poco più a nord di Efeso, ma si trasferì ad Atene, aprendovi una scuola e
introducendovi così per primo la filosofia. Ad Atene trascorse la maggior parte della sua
vita, diventando maestro, consigliere e amico di Pericle. Ciò nonostante, intorno al 430,
venne condannato a morte per ateismo dal tribunale popolare della democratica Atene in
seguito all’accusa di aver negato il carattere divino del Sole e degli astri. Solo grazie
all’intervento di Pericle la condanna a morte gli viene commutata in esilio. Morì a
Lampsaco, sul Bosforo, lasciando un’unica opera in prosa, intitolata Sulla natura, di cui ci
rimangono alcuni frammenti.
Democrito (460-370 c.ca) nacque ad Abdera, città della costa egeica della Tracia, regione
del Nord-est della Grecia, situata tra il Mar Nero e il mare Egeo. Probabilmente di
estrazione sociale altolocata, rinunciò al godimento delle sue ricchezze per dedicarsi alla
ricerca scientifica. Si formò soprattutto nella scuola di Leucippo (480 ca.-?), fondatore del
cosiddetto “atomismo”, nato a Mileto, ma trasferitosi ad Abdera in seguito alla presa del
potere da parte del partito aristocratico. Dell’indirizzo atomistico Democrito è il
continuatore e il principale esponente. La tradizione gli attribuisce molti viaggi: in Egitto,
Persia, Etiopia e addirittura in India. Di sicuro soggiornò ad Atene più volte nella sua vita,
pur tornando sempre ad Abdera. Visse molto a lungo, morì novantenne, ma negli ultimi
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
anni di vita divenne cieco anche a causa dell’intensa attività di lettura, di scrittura ma
anche di osservazione dei cieli. Gli sono attribuiti più di cinquanta trattati che spaziano in
tutto lo scibile umano: cosmologia, matematica, etica, musica, medicina, biologia,
agricoltura, linguistica, storia. Alcuni di essi (Grande cosmologia, Sull’intelletto) è però
probabile che siano del suo maestro Leucippo. Purtroppo non ce ne sono giunti che pochi
frammenti, anche a causa della censura che la sua opera subì per le sue implicazioni
ateistiche.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
EMPEDOCLE: I PRINCIPI SONO RADICI, AMICIZIA E CONTESA
Ma un’altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna delle cose
mortali, né fine alcuna di morte funesta,
ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate,
ma il nome di nascita, per queste cose, è usato dagli uomini.
[…]
E queste cose continuamente mutando non cessano mai,
una volta ricongiungendosi tutte nell’uno per Amicizia,
altra volta portate in direzioni opposte dall’inimicizia della Contesa.
Empedocle, Sulla natura
Il problema fondamentale che Empedocle si pone e affronta è quello di come conciliare
l’essere, cioè l’immutabilità della realtà, con il divenire, cioè il mutamento della realtà.
Empedocle, infatti, riconosce la fondatezza dell’argomentazione con la quale Parmenide
aveva dichiarato inammissibile il non-essere, ma non quella del suo corollario, il carattere
del tutto illusorio e ingannevole del divenire.
In altre parole il problema di Empedocle è: come si deve pensare il divenire senza
implicare l’esistenza del non-essere, in modo tale che esso risulti pienamente reale e
veritiero?
La soluzione offerta da Empedocle parte dalle tesi secondo cui il cosmo naturale ha quattro
“radici” (rìzai), cioè quattro principi fisici originari: la terra, l’acqua, il fuoco, il soffio
(aria). Questi elementi per Empedocle sono eterni, immutabili e divini, in quanto non si
generano, non si distruggono e ognuno è sempre uguale a se stesso, cioè non subisce
alcuna trasformazione. Essi costituiscono pertanto l’essere, la realtà suprema e
fondamentale. Ma come si forma allora il cosmo naturale? L’originalità di Empedocle sta
proprio nella risposta a questa domanda. Egli infatti inventa una nuova cosmogonia
secondo cui il cosmo nasce dalla suddivisione delle quattro radici in miriadi di frammenti e
dall’aggregazione di frammenti dell’una con i frammenti di una, di due o di tutte e tre le
altre.
Ma la combinazione di soli quattro elementi come può spiegare l’esistenza di miriadi di
cose tra loro diverse? La grande varietà degli enti naturali, risponde Empedocle, è dovuta
all’intreccio delle qualità e delle quantità delle radici. Ogni Radice è infatti
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
qualitativamente diversa dalle altre e ciò costituisce il fondamento qualitativo della
diversità. In secondo luogo, le parti qualitativamente differenziate di ogni Radice si
combinano con le parti delle altre in proporzioni quantitative sempre diverse. In altre
parole ogni specie di enti naturali è una miscela di parti delle quattro radici basata su un
peculiare rapporto quantitativo. Ciò spiega le proprietà distintive di ogni specie naturale.
Ma cosa provoca la frammentazione delle quattro radici e la ricombinazione dei frammenti
di una con quelli delle altre? E in che modo ciò avviene? Per risolvere questi problemi,
Empedocle affianca alle quattro radici due forze cosmiche, distinte da esse ma agenti al
loro interno:
1) Amicizia (Philìa), cioè la forza attrattiva che unifica le parti delle radici;
2) Contesa (Nèikos), cioè la forza repulsiva che separa le parti delle radici.
Amicizia e Contesa, eterne e qualitativamente immutabili come le radici, interagiscono
sempre tra di loro, ovvero si contrappongono e si bilanciano in proporzioni
quantitativamente diverse. Le proporzioni dell’interazione Amicizia-Contesa, in continuo e
ciclico mutamento, sono il fondamento delle proporzioni di combinazione, anch’esse in
ciclico mutamento, delle radici. In questo senso il cambiamento ciclico dell’interazione
Amicizia-Contesa costituisce la Legge che governa il cosmo e spiega il suo divenire.
Essendo ciclica, tale Legge si scandisce e si attua in quattro fasi principali, che si ripetono
eternamente, cosicché nessuna di esse va considerata né origine né fine:
a) la fase in cui Amicizia raggiunge la massima intensità e Contesa quella minima:
tutte le parti delle radici sono completamente unificate in un essere unico di forma
sferica, omogeneo e indifferenziato;
b) la fase in cui Contesa aumenta progressivamente la sua intensità e Amicizia la
diminuisce: è una delle due fasi in cui il cosmo si forma, esiste propriamente e si
evolve passando dal massimo ordine al massimo disordine;
c) la fase in cui Contesa raggiunge la massima intensità e Amicizia quella minima:
tutte le quattro radici sono completamente divise e separate l’una dall’altra;
d) la fase in cui Amicizia aumenta progressivamente la sua intensità e Contesa la
diminuisce: è la seconda delle due fasi in cui il cosmo si forma, esiste propriamente
e si evolve, ma questa volta procede dal massimo di disordine al massimo di ordine.
Con la sua nuova cosmogonia Empedocle riabilita dal punto di vista razionale la
molteplicità e il mutamento – cioè il divenire – di cui Parmenide e Zenone avevano
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
argomentato l’assurdità in quanto, secondo loro, il divenire implica l’esistenza del nonessere, cioè una palese contraddizione.
Infatti, in base alla teoria di Empedocle:
• la generazione o nascita non è il passaggio dal non-essere all’essere, ma
l’aggregazione di parti dell’essere unico ed eterno (le radici);
• la dissoluzione o morte non è il passaggio dall’essere al non-essere, ma la
separazione di parti dell’essere unico ed eterno;
• il mutamento non è la distruzione di una proprietà e la formazione di un’altra
proprietà che sostituisce la prima – p.e. la perdita dei capelli bruni e la loro
sostituzione con i capelli bianchi – ma è sempre un processo di scombinazione e
ricombinazione di parti delle radici che esistono eternamente.
In questo modo Empedocle può legittimare la realtà del divenire senza affermare
l’esistenza del nulla, cioè senza infrangere la legge filosofica della non-contraddizione che
Parmenide e Zenone aveva imposto grazie alla loro rigorosa argomentazione razionale.
Per raggiungere tale risultato, Empedocle però presuppone la molteplicità originaria
dell’essere (Amicizia, Contesa, radici), anch’essa contraddittoria secondo Parmenide, senza
offrire una confutazione della tesi parmenidea secondo cui anche la diversità implica
l’ammissione del nulla (p.e. l’Aria è non-essere del Fuoco, dunque il suo annullamento).
In base alla sua visione ciclica del cosmo, Empedocle spiega anche e anzi soprattutto i
fenomeni biologici. A questo proposito, egli sostiene, per esempio, che gli esseri viventi si
formano gradualmente per progressive combinazioni. Inizialmente, per congiunzione di
membra separate, si generano esseri mostruosi, come i minotauri, i quali, però, non
essendo in grado di sopravvivere, sono poi sostituiti dai viventi esistenti, nati da
aggregazioni armoniose e quindi capaci di sopravvivere.
Di particolare interesse, nell’ambito della biologia empedoclea, è la spiegazione e
soprattutto l’argomentazione della respirazione. Secondo Empedocle, gli animali aerobici
respirano attraverso i pori della pelle e l’aria inspirata circola all’interno del corpo
attraverso i vasi sanguigni. Per giustificare la duplice circolazione di sangue e aria nei vasi
sanguigni Empedocle teorizza un meccanismo capace di alternare al loro interno flussi di
aria (inspirazione) e flussi di sangue (espirazione). L’argomentazione di questa teoria della
“corrente alternata” consiste in una sorta di esperimento: Empedocle sostiene che se
prendiamo una clessidra ad acqua (una specie di vaso-imbuto con un piccolo foro alla
base) vuota, ne tappiamo con la mano l’entrata e la immergiamo nell’acqua, essa non si
riempie (a causa della pressione dell’aria); se, invece, togliamo la mano, la immergiamo
nell’acqua, la lasciamo riempire e poi la tiriamo fuori dall’acqua tappando l’entrata, allora
l’acqua non esce dal foro della base (sempre per la pressione dell’aria). In altre parole: i
pori della pelle, aprendosi e chiudendosi, fanno scorrere nei vasi sanguigni o solo sangue o
solo aria.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Abbiamo già incontrato in Anassìmene (Rotta A, tappa 3) e nei pitagorici (Rotta B,
tappa 1) alcuni esempi di protoesperimenti. Questo di Empedocle, come quelli dei
pitagorici, a differenza di quello di Anassimene, sembra avvicinarsi ancora di più
all’esperimento in senso proprio in quanto anziché usare solo il corpo umano usa degli
oggetti artificiali (la clessidra). Tuttavia, esso diverge dall’esperimento della scienza
moderna perché non è diretto, ma indiretto, cioè non utilizza l’oggetto della teoria da
controllare – cioè la pelle, il sangue e il respiro – ma un oggetto diverso – una clessidra,
l’acqua e l’aria.
In altri termini, l’argomentazione sperimentale di Empedocle si basa sull’assunzione di
un’uguaglianza, tutta da provare, tra il funzionamento della pelle e dei vasi sanguigni e
quello della clessidra. In realtà, l’argomentazione empedoclea è di tipo analogico, cioè fa
leva sulla somiglianza tra il fenomeno biologico e la sua ricostruzione sperimentale. In
questo senso possiamo dire che, a livello di strategia argomentativa, Empedocle scopre
appunto l’argomentazione analogica.
La ciclicità del cosmo per Empedocle si manifesta anche nel destino esistenziale dell’uomo
legato al ciclo delle reincarnazioni. Da questo punto di vista Empedocle condivide la teoria
della metempsicosi di orgine orfica e già ripresa dai pitagorici. Egli però la personalizza e
insieme la radicalizza affermando che ogni uomo in origine è un “dèmone”, cioè un dio
minore, una divinità di rango inferiore rispetto ai massimi dei olimpici (Zeus, Era, Ares,
Afrodite, ecc.) ma pur sempre un essere superiore e immortale come gli dei olimpici e,
come loro, consistente in un puro “respiro” (psyché), ovvero privo di corpo.
In seguito a un atto di violenza aggravato da un falso giuramento di innocenza, entrambi
dovuti alla relativa prevalenza in lui di Contesa, il dèmone-uomo è condannato dagli dei
sommi a perdere la sua condizione divina, ad acquisire un corpo e a reincarnarsi in
numerose vite successive, non solo umane ma anche animali e vegetali, per un periodo
lunghissimo benché pur sempre finito. Da questa dottrina del destino esistenziale
dell’uomo Empedocle fa discendere un’etica consistente in regole di purificazione, tra cui il
vegetarianesimo e la non-violenza nei confronti non solo degli uomini ma anche degli
animali. Attraverso l’autopurificazione, infatti, ogni individuo può reincarnarsi in forme
sempre più elevate di esistenza umana fino a ripristinare il proprio rango divino originario.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
EMPEDOCLE E LA TEORIA DEL BIG BANG
La cosmogonia di Empedocle è collegabile alla teoria contemporanea del Big bang
secondo la quale l’universo si è formato circa 14 miliardi di anni fa in seguito
all’esplosione di una “singolarità” cioè di un grumo superconcentrato ed omogeneo di
energia/materia con dimensioni nulle. Amicizia e Contesa possono essere avvicinate a
due delle grandi forze dell’universo individuate dalla teoria del Big bang: la forza
centrifuga repulsiva derivante dall’esplosione/espansione originaria e la forza centripeta
attrattiva, o forza gravitazionale, prodotta dalla materia presente nell’universo.
Inoltre la concezione empedoclea del ciclo cosmico di formazione-distruzioneriformazione dell’universo è affine a una delle tre ipotesi scientifiche attuali sul decorso
futuro dell’universo: quella del cosiddetto “big crunch” secondo cui – data la possibile
prevalenza della forza gravitazionale centripeta su quella espansiva centrifuga –
l’espansione dell’universo si fermerà ed esso imploderà su sé stesso fino a tornare una
singolarità che poi riesploderà nuovamente per dare origine di nuovo all’universo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
ANASSAGORA: I PRINCIPI SONO I “SEMI” E L’INTELLIGENZA
Insieme erano tutte le cose, illimiti per quantità e per piccolezza, perché
anche il piccolo era illimite. E stando tutte insieme, nessuna era discernibile,
a causa della piccolezza: su tutte predominavano l’aria e l’etere, essendo
entrambi illimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per
quantità e per grandezza.
DK 59 B 1
Bisogna supporre che in tutti gli aggregati ci siano molte cose e di ogni genere,
cioè semi di tutte le cose con forme e colori e sapori di ogni tipo. […]
Mentre tutte le altre cose sono parti di ogni altra cosa, l’Intelligenza è
illimitata, si autogoverna, non è mescolata ad alcuna cosa ma è
autonomamente in sé. Se non fosse in se stessa, ma fosse mescolata ad altro,
prenderebbe parte a tutte le cose […] In tutto si trova infatti parte di ogni cosa
[…] e le cose mischiate con essa la limiterebbero impedendole di dominarle
[…] E’ infatti la più sottile e la più pura di tutte le cose e possiede piena
conoscenza di tutto […]; e su quante cose hanno vita, quelle più grandi e
quelle più piccole, su tutte domina l’Intelligenza.
Simplicio, In Aristotelis Physicorum libros
Per Anassagora il cosmo naturale possiede infiniti elementi costitutivi, corrispondenti alle
proprietà qualitative di tutte le cose. Anassagora li denomina “semi” (spèrmata) per
significare appunto che essi sono i principi generativi di tutti gli enti naturali. I semi sono
infiniti in un duplice senso:
• il loro numero totale è infinito
• i loro tipi sono infiniti.
Insomma, per Anassagora vi sono infinite differenze qualitative originarie che danno
ragione dell’immensa varietà di enti e caratteristiche presente nel cosmo. Esempi di semi,
cioè di queste infinite qualità originarie, sono: il legno, il granito, la carne, l’erba, la piuma,
l’oro, ecc.
Secondo Anassagora, ogni seme è invisibile, perché di dimensioni infinitamente piccole. I
semi, infatti, sono infiniti anche in un ulteriore senso: essi possono essere divisi all’infinito.
Però, ognuna delle parti in cui un seme viene diviso rimane qualitativamente identica ad
esso in quanto mantiene la sua stessa composizione.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In quanto infinitamente divisibili e quindi capaci di contenere infiniti aspetti, ogni seme
contiene al suo interno tutti gli altri, cioè anche ogni altro tipo di qualità. Da questo punto
di vista, afferma Anassagora, ogni seme è del tutto omogeneo a tutti gli altri semi. Ma
allora come fanno a essere diversi? Anassagora chiarisce che ogni tipo di semi si differenzia
dagli altri perché in ognuno di essi prevale quantitativamente quell’aspetto qualitativo che
ne costituisce l’identità propria. Per esempio, nel seme dell’oro c’è anche il legno, il granito,
la carne, ecc., ma le parti auree prevalgono quantitativamente su tutte quelle di altro tipo.
I semi, per Anassagora, sono eterni. Essi non si generano, non si distruggono e non
mutano. Gli enti naturali non sono altro che dei composti di semi. La loro generazione, la
loro dissoluzione e il loro cambiamento sono la conseguenza dell’aggregazione e della
disgregazione parziale o totale dei semi che li compongono. Il mutamento, pertanto, è
razionalmente accettabile perché non implica l’ammissione dell’esistenza del nulla.
Ogni seme contiene tutti gli altri, seppure in numero minore, e a sua volta ogni cosa
contiene ogni tipo di seme, benché in numero e quindi in proporzioni diverse rispetto alle
altre cose. In questo senso Anassagora afferma che “tutto è in tutto”, cioè che ogni cosa ha
in sé gli stessi elementi con cui sono fatte tutte le altre, ovvero tutte le cose sono tra loro
qualitativamente omogenee. Anassagora può così conseguire tre importanti risultati:
1) legittimare razionalmente non solo il mutamento ma anche la molteplicità degli enti
naturali, ovvero argomentare in modo stringente che ammettere la molteplicità non
significa ammettere il non-essere: infatti, dal momento che ogni cosa contiene le
stesse qualità di ogni altra, seppur in proporzioni differenti nessuna cosa non è
un’altra, cioè la negazione assoluta di un’altra cosa diversa;
2) concepire le qualità opposte come complementari, cioè fondamentalmente unite,
ovvero mai contraddittorie: infatti, per esempio, il caldo non è l’opposto
contraddittorio del freddo, ma una quantità minore di freddo, così come il freddo è
una quantità minore di caldo. In altre parole, gli opposti apparentemente
contraddittori sono solo livelli quantitativi diversi di una stessa qualità.
3) spiegare il fenomeno biologico dell’alimentazione e altri fenomeni naturali analoghi
(che oggi chiamiamo “reazioni chimiche”) nei quali alcune sostanze si trasformano
in altre completamente diverse (per esempio il pane mangiato dall’uomo si
trasforma in capelli, ossa, muscoli).
Il processo bio-chimico della digestione diventa, così, per Anassagora un argomento
empirico, e dunque di tipo induttivo, a sostegno della sua teoria dei semi: il fatto che le
sostanze che mangiamo si trasformino in tessuti del nostro corpo prova che tutto è
costituito dai semi.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma come avviene il passaggio dai semi originari al cosmo? In origine, infatti, sostiene
Anassagora, tutti i semi sono condensati in una sorta di caotico magma. In questo stato le
loro qualità non sono differenziate e perciò non possono manifestarsi, rendersi visibili,
essere pienamente reali. Il magma originario, insomma, è, per così dire, come una nebbia
uniformemente grigia.
Per spiegare il passaggio dal magma al cosmo, Anassagora introduce un nuovo principio,
l’Intelligenza. Si tratta di un principio pur sempre fisico, ma eterno, immutabile e quindi
divino, dotato di una fisicità finissima e illimitata che gli permette di avvolgere e
compenetrare tutte le cose. Esso non ha carattere personale, cioè non possiede coscienza,
intenzionalità e volontà, ma non è nemmeno soltanto una forza cosmica. E’ piuttosto una
legge razionale e dinamica che governa tutte le cose. Come tale è presente in ogni cosa ma
senza mescolarsi con nessuna. In questo modo non è limitata da niente e quindi è del tutto
indipendente e può pertanto imporre il suo ordine a tutti gli enti naturali.
L’Intelligenza dà origine al cosmo imprimendo al magma primordiale un movimento
rotatorio che a sua volta provoca la separazione:
• dei semi più pesanti, quelli più densi, freddi, umidi e opachi, in origine fusi
nell’aria;
• dai semi più leggeri, quelli più rarefatti, caldi, secchi e luminosi, fusi nell’etere (dal
greco aìthein=ardere, brillare), la sostanza di cui è fatto il cielo.
Per effetto della forza centrifuga prodotta dalla rotazione, infatti, i semi più pesanti si
dispongono nel centro, quelli più leggeri si dislocano ai bordi. A partire da questa
distinzione, l’Intelligenza orchestra il processo di continua aggregazione, disgregazione e
riaggregazione dei semi in base al quale il cosmo naturale prende forma e muta. In questo
modo dall’etere si formano gli astri e dall’aria tutti gli elementi terrestri (acqua e terra). Il
processo di formazione e trasformazione del cosmo si configura per Anassagora come
un’evoluzione lineare, cioè come un processo di progressivo e continuo perfezionamento.
Con la teoria dei semi Anassagora spiega e norma anche la conoscenza umana. Secondo
Anassagora, la conoscenza, per essere veritiera, deve partire dalle sensazioni, cioè
dall’esperienza sensibile. I dati sensibili al loro volta sono conservati, ma anche collegati e
ordinati per tipi, dalla facoltà della memoria. In base ai dati sensibili l’intelligenza umana
elabora delle ipotesi teoriche di spiegazione dei fenomeni. Quando le teorie trovano
conferma in un gran numero di dati sensibili accumulatisi nella memoria allora diventano
scienza, cioè conoscenza veritiera e quindi affidabile. In questo senso, Anassagora sostiene
una strategia argomentativa di tipo empirico-induttivo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Tuttavia, le conoscenze scientifiche per Anassagora hanno anche uno scopo pratico. In
altre parole, esse devono tradursi in tecniche applicabili alla realtà naturale e capaci di
trasformarla in modo da permettere all’uomo di produrre ciò di cui ha bisogno. In questa
prospettiva, l’applicazione tecnica efficace di un’ipotesi scientifica costituisce un’ulteriore,
importante conferma della sua verità. Anassagora introduce così una nuova strategia
argomentativa, l’argomentazione pragmatica, che è induttiva come quella empirica, ma
non fa leva sulla corrispondenza tra una tesi e numerose osservazioni sensibili ma sulla
capacità di quella tesi di tradursi in tecniche che producono effetti efficaci e vantaggiosi per
l’uomo. Inoltre l’attività tecnica, per Anassagora, è occasione a sua volta di nuove e più
approfondite esperienze sensibili e contribuisce così al progresso della scienza. In questa
prospettiva, Anassagora ritiene che l’intelligenza dell’uomo sia strettamente connessa e
direttamente proporzionale alla sua abilità manuale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
ANASSAGORA E LA CHIMICA E LA FISICA
La chimica contemporanea ha accertato l’esistenza di 104 elementi di base, di cui 90
naturali e 14 artificiali.
La fisica subnucleare è giunta (forse solo per il momento) a individuare come parti
minime della materia gli elettroni, i muoni, i tau, 3 tipi di neutrini (elettronico, muonico e
tau) e 6 tipi di quark (up, down, bottom, top, strange, charme). Ma ci sono anche le
particelle che costituiscono le 4 forze fondamentali (elettromagnetica, gravitazionale,
nucleare debole e nucleare forte), e cioè fotoni, gravitoni, bosoni Z°,W-,W+, e gluoni.
Insomma 28 tipi di particelle elementari, che diventano 56 considerando le rispettive
antiparticelle di antimateria.
Dunque, molti tipi di elementi chimici e di particelle elementari fisiche ma certo non
infiniti come i semi secondo Anassagora.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
DEMOCRITO: I PRINCIPI SONO GLI “INDIVISIBILI”
Democrito ritiene che la materia di ciò che è eterno consiste in piccole
sostanze infinite di numero; e suppone che queste siano contenute in altro
spazio, infinito per grandezza; e chiama lo spazio coi nomi di “vuoto” e di
“niente” e di “infinito”, mentre dà a ciascuna delle sostanze il nome di “ente”
e di “solido” e di “essere”. Egli reputa che le sostanze siano così piccole da
sfuggire ai nostri sensi; e che esse presentino ogni genere di figure e
differenze di grandezza. […] Esse lottano e si muovono nel vuoto, a causa
della loro diseguaglianza e delle altre differenze ricordate, e nel muoversi si
scontrano e si legano in un collegamento tale che le obbliga a venire in
contatto reciproco e a restare unite […].
Simplicio, In Aristotelis De caelo
Secondo Democrito, la realtà è fatta esclusivamente di materia e la materia non è
infinitamente divisibile, ma è composta da corpuscoli irriducibili da lui chiamati appunto
“indivisibili” (in greco àtoma). Essi sono piccolissimi e quindi non possono essere percepiti
dai sensi umani. Come è possibile allora affermarne l’esistenza? Democrito risponde che
gli “indivisibili” sono “forme mentali”, cioè rappresentazioni concettuali la cui esistenza
reale è ricavabile da un ragionamento puramente teorico. Per sostenere la sua tesi,
Democrito usa la strategia argomentativa di tipo dialettico.
Ci sono state tramandate due argomentazioni dialettiche dell’esistenza degli indivisibili,
che partono entrambe dall’ipotesi che la materia sia divisibile all’infinito:
1) se così fosse, ogni corpo fisico potrebbe penetrare e attraversare ogni altro corpo
fisico, per esempio un uomo potrebbe passare attraverso il tronco di un albero. Ma
questo è assurdo perché l’esperienza attesta che i corpi solidi non possono
attraversare altri corpi solidi, in quanto hanno proprietà di durezza, resistenza e
impenetrabilità.
2) Sempre se la materia fosse divisibile all’infinito, ogni corpo sarebbe divisibile fino
ad arrivare a parti di grandezza nulla, ovvero a punti geometrici privi di dimensioni.
Se volessimo riaggregare tutte le parti ultime, cioè tutti i punti, non riusciremmo più
a ricostituire il corpo originario, perché una somma di zero dà zero, ovvero una
gradezza nulla. Ma ciò è assurdo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Pertanto, conclude Democrito, l’ipotesi dell’infinita divisibilità è confutata e quindi risulta
dimostrato che la materia è composta da “indivisibili”. E’ proprio la loro irriducibilità che
spiega, infatti, la durezza e la grandezza dei corpi.
Democrito sostiene che gli “indivisibili” sono in numero infinito, eterni e immutabili e
dotati costitutivamente di movimento uniforme. Ciò significa che il loro movimento non è
l’effetto di un principio o di una forza esterna ad essi ma è un loro impulso fisico originario
e inesauribile. Questa loro decisiva proprietà intrinseca presuppone, secondo Democrito,
l’esistenza di un “vuoto”, cioè dello spazio in cui gli indivisibili si muovono. E poiché gli
indivisibili, e il loro moto, sono infiniti, anche il vuoto-spazio dovrà necessariamente essere
infinito e dunque anche del tutto omogeneo, cioè senza né centro né periferia, né alto né
basso.
Gli indivisibili, afferma Democrito, si differenziano per:
 la conformazione fisica, ovvero grandezza, volume, forma geometrica, posizione
nello spazio (il peso dipende dalla relazione tra grandezza/volume e moto);
 l’ordine di disposizione delle loro caratteristiche fisiche: p.e., spigolo-conca-piano
anziché conca-spigolo-piano.
In origine, continua Democrito, gli indivisibili si muovono disordinatamente in modo
simile alle particelle di pulviscolo atmosferico nella luce di un raggio di sole. Prima o poi,
necessariamente, essi si urtano e si aggregano. In questo modo il loro moto disordinato si
trasforma progressivamente in un moto rotatorio.
Di conseguenza gli indivisibili e i primi aggregati di indivisibili, più voluminosi, e quindi
più pesanti, si dispongono al centro del vortice, mentre quelli meno voluminosi e quindi
meno pesanti si dislocano ai bordi. Il moto rotatorio produce aggregati di indivisibili
sempre più grandi fino alla formazione degli astri. Poiché lo spazio e gli indivisibili sono
infiniti, l’universo per Democrito è composto da infiniti mondi. Tutti gli esseri naturali –
minerali, vegetali o animali che siano – sono aggregati di indivisibili. La loro incredibile
varietà si spiega sia con le differenze sussistenti tra gli indivisibili sia con quelle sussistenti
tra le loro diverse catene di aggregazione, in modo analogo a come le diverse parole
dipendono sia dalle diverse lettere dell’alfabeto sia dalle diverse sequenze che le lettere
possono comporre.
Ogni fenomeno naturale dell’universo, ovvero il divenire naturale, dipende per Democrito
dal moto incessante degli indivisibili che, dopo essersi aggregati una prima volta,
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incessantemente si disgregano e si riaggregano urtandosi gli uni gli altri. In questo modo
Democrito elabora una concezione della natura nuova, che si può definire:
 meccanicistica, in quanto concepisce ogni fenomeno naturale come effetto del moto
e degli urti di particelle materiali, senza ricorrere a nessuna altra forza né ad alcuna
altra legge razionale esterna;
 deterministica, in quanto tutti i fenomeni naturali sono concepiti come rapporti
necessari di causa-effetto, cioè non possono non avvenire né possono avvenire
diversamente da come avvengono.
Poiché tutti gli enti naturali sono aggregati di “indivisibili” e poiché gli indivisibili hanno
caratteristiche unicamente quantitative, secondo Democrito, le uniche reali proprietà della
natura sono quelle quantitative. Ma allora come mai la natura sembra possedere
soprattutto proprietà qualitative come colori, odori, sapori, suoni, caldo e freddo, umido e
secco? Le proprietà qualitative, risponde Democrito, sono solo nostre illusioni sensoriali.
Esse dipendono cioè dalla natura e dalle modalità di funzionamento dei sensi dell’uomo.
Infatti, la conoscenza sensibile nasce dall’urto dei corpi naturali con gli organi di senso del
nostro corpo. Questo urto nel caso del tatto e del gusto è diretto, nel caso di udito, odorato
e vista è indiretto, ovvero è mediato da altri corpi. Per esempio, noi udiamo perché i suoni
sono vibrazioni dell’aria che colpiscono il nostro orecchio, mentre odoriamo e vediamo
perché tutti i corpi esterni rilasciano continuamente delle loro “immagini” (èidola), cioè
delle loro copie microscopiche – dei microagreggati di indivisibili identici ai
macroaggregati dai cui si distaccano – i quali entrano nel naso o nell’occhio.
Di conseguenza, secondo Democrito, la percezione sensibile è sempre un misto delle
caratteristiche del corpo esterno e di quelle del nostro organo di senso. Ciò equivale a dire
che i nostri sensi modificano le proprietà dei corpi esterni, ovvero trasformano le loro
proprietà quantitative in proprietà qualitative e quindi le percepiscono come tali. Per
esempio, il gusto trasforma la rotondità degli atomi dello zucchero nella sensazione del
dolce, la vista trasforma l’ampiezza dell’angolo di riflessione della luce sugli atomi dei
petali delle rose nel colore rosso, ecc.
Dato il carattere illusorio delle sensazioni, per Democrito la scienza – cioè la conoscenza
vera, certa, oggettiva – non può affidarsi alla conoscenza sensibile. Essa deve fondarsi sulla
ragione pura, cioè sull’elaborazione di modelli teorici di spiegazione razionale dei dati
empirici. In questa prospettiva, il principio teorico fondamentale della scienza è che la
natura possiede una costituzione geometrico-quantitativa. Ne consegue che fare scienza
significa spiegare tutti i fenomeni naturali in base alle sole proprietà geometricoquantitative (lunghezza, volume, peso, velocità, ecc.), astraendo completamente da quelle
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
qualitative (colore, sapore, odore, ecc.). Tuttavia, afferma Democrito, l’esperienza sensibile
va considerata e usata come il banco di prova di ogni spiegazione teorica. In altre parole
una teoria scientifica non deve fondarsi sulla conoscenza dei sensi, ma non può comunque
contraddirla. Se dunque l’esperienza sensibile contraddice una teoria, questa teoria deve
essere considerata falsa.
Anche l’etica, cioè la dottrina del miglior comportamento umano, deve basarsi sulla
razionalità. L’etica di Democrito propone infatti a ogni uomo di perseguire la sua felicità
individuale considerando come massimo valore quello della serenità interiore e come
strumento fondamentale per raggiungerlo la ragione intesa come capacità di negare o
almeno moderare i desideri sensibili e le passioni.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
ATOMISMO ANTICO E ATOMISMO MODERNO
“Indivisibile” in greco antico si diceva àtomos. Quando, all’inizio dell’Ottocento –
nell’ambito delle ricerche chimiche di Proust, Dalton e Avogadro – si ebbero le prime
conferme sperimentali della natura corpuscolare della materia, in onore di Democrito gli
scienziati chiamarono “atomo” la parte minima di materia.
In realtà non avevano ancora scoperto gli atomi, bensì le molecole, ma da quelle prime
ricerche si giunse in breve all’isolamento dell’atomo e, nel 1911, al modello atomico di
Rutherford, quello secondo il quale ogni atomo è composto da un nucleo centrale con
carica elettrica positiva intorno al quale ruotano uno o più elettroni con carica elettrica
negativa.
La ricerca scientifica successiva, però, scoprì che il nucleo atomico era a sua volta
divisibile in protoni e neutroni, questi ultimi a loro volta in quark e oggi molti e
accreditati fisici (ma non tutti) ipotizzano che i quark siano formati da filamenti elastici
chiamati “stringhe” o “corde”.
Insomma, non solo nella scienza attuale ciò che viene chiamato “atomo” non corrisponde
all’“indivisibile” di Democrito (semmai vi corrispondono i quark), ma non si può fare a
meno di nutrire almeno un ragionevole dubbio sul fatto che la materia sia effettivamente
composta da “indivisibili”.
Inoltre, benché l’antica teoria “atomistica” di Democrito abbia dato un contributo insigne
allo sviluppo della scienza dal XVII al XIX secolo, attestando ancora una volta quanto la
filosofia sia funzionale al progresso scientifico, a partire dal XX secolo, la scoperta della
teoria quantistica delle particelle elementari (gli “indivisibili” di Democrito) ha confutato
la concezione meccanicistico-deterministica democritea (fatta propria da molti scienziati
dell’Ottocento). Infatti, per la sempre più confermata e quindi attuale teoria dei quanti, il
moto delle particelle elementari è caotico e quindi imprevedibile e, a rigore, in tal senso,
non è più adeguato il concetto stesso di “causalità”.
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TAPPA 4
LA SCIENZA DEI COSMOLOGI PLURALISTI
A me dunque questa malattia [l’epilessia] non pare affatto essere più divina
delle altre, bensì ha una base naturale comune a tutte, e una causa razionale
dalla quale ciascuna dipende: ed è curabile, per nulla meno delle altre.
Quanti si sono accinti a parlare o a scrivere di medicina, fondando il proprio
discorso su un postulato, troppo semplificando la causa originaria delle
malattie e della morte degli uomini, a tutti i casi attribuendo la medesima
causa, costoro sono palesemente in errore.
Ippocrate, Corpus Hippocraticum
Empedocle svolge ricerca scientifica a livello medico-biologico – studiando per esempio il
battito del cuore, il funzionamento della respirazione, lo sviluppo delle uova – e anche a
livello fisico, studiando per esempio la riflessione della luce, l’evaporazione dell’acqua, il
ciclo stagionale. Egli conduce, inoltre, una ricerca tecnica contribuendo per esempio al
miglioramento delle tecniche di travaso dei liquidi, di fabbricazione dei vasi e di
miscelazione dei colori.
Come “scienziato”, Empedocle fa leva sull’osservazione empirica e sulla generalizzazione di
fenomeni e proprietà. La sua, però, non è una generalizzazione induttiva, ossia basata sulla
ricorrenza di molti casi uguali (p.e. l’osservazione che molti cani hanno quattro zampe, da
cui si ricava che tutti i cani sono quadrupedi), ma analogica, cioè fondata sul presupposto
della somiglianza di ogni cosa con ogni altra cosa. Per esempio, in base all’analogia
Terra/corpo umano, Empedocle sostiene che il mare è il sudore che si sprigiona dalla Terra
a causa dell’azione del suo calore interno. In questo senso la “scienza” di Empedocle
costituisce un esempio di magia naturalistica, cioè di un sapere empirico che, a differenza
della scienza vera e propria, si basa sui seguenti principi:
•
•
•
il carattere organico, vivente, animato di tutta la natura;
l’isomorfismo, cioè una comune struttura, di tutte le cose naturali;
la possibilità da parte dell’uomo di sfruttare le somiglianze/dissomiglianze tra tutte le
cose naturali per far loro produrre effetti prodigiosi utili alla vita pratica.
Ben diverso dalla magia fantastica o superstiziosa, il sapere magico-naturalistico
rappresenta una componente ricorrente del processo di costruzione e sviluppo della
scienza.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La produzione scientifica di Anassagora si basa invece sull’uso della generalizzazione
induttiva a partire dall’esperienza. In questo modo egli giunge a elaborare le seguenti
innovative tesi astronomiche:
•
•
•
•
le stelle sono rocce infuocate;
le comete sono pianeti incendiati che sprigionano scintille;
le dimensioni del Sole, data la sua distanza dalla Terra, sono molto maggiori di
quelle che vediamo a occhio nudo;
la Luna brilla di luce solare riflessa, ha una superficie simile a quella terrestre ed è
abitata, come del resto molti altri corpi celesti.
Le prime due tesi sono basate sull’osservazione di un meteorite caduto sulla superficie
terrestre che aveva permesso di appurarne le caratteristiche geologiche.
Anassagora inoltre abbozza una teoria evoluzionistica della formazione della specie umana
secondo la quale i primi uomini nacquero dall’umidità e poi cominciarono a riprodursi
sessualmente incrementando continuamente la propria intelligenza fino a raggiungere un
primato su tutti gli enti naturali. Il progredire dell’intelligenza umana si deve, secondo
Anassagora, alla manualità dell’uomo, cioè alla capacità umana di usare le mani per
fabbricare oggetti artificiali.
In questo senso Anassagora esalta la tecnica e la utilizza anche come strumento di verifica
delle ipotesi scientifiche. Egli non fa solo esperienze ma anche esperimenti – cioè
esperienze progettate razionalmente e attuate con strumenti artificiali –, come quello della
compressione di un otre di pelle senza liquidi ma tappato, che, opponendo resistenza,
evidenzia la pressione esercitata dall’aria, attestando la sua materialità e l’inesistenza del
vuoto.
Una delle più importanti innovazioni scientifiche del V secolo è lo sviluppo della medicina
a opera di Ippocrate (460-370 a.C.) di Cos (isola ionica). Ippocrate è innanzitutto il primo
medico che, pur non negando l’esistenza di divinità, afferma il carattere esclusivamente
naturale delle malattie ed espelle dalla terapia medica tutti i residui di concezioni e
pratiche religiose.
E’ emblematica in questo senso la sua confutazione del cosiddetto “male sacro”, cioè
dell’epilessia in quanto creduta malattia di origine divina. Secondo Ippocrate, l’epilessia è
invece una malattia del cervello, da lui ritenuto organo della sensazione e del pensiero.
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In secondo luogo, Ippocrate elabora un nuovo metodo scientifico basato sull’interazione e
sul reciproco controllo di osservazione empirica e teorizzazione razionale. Egli arriva al
nuovo metodo partendo dalla critica ai metodi tradizionali della scuola medica di Cnido
(isola vicina a Cos) e della scuola medica italica ( viaggio B, tappa 5). Alla prima
Ippocrate rimprovera di aver valorizzato solo la casistica individuale, cioè la descrizione e
la registrazione dei sintomi specifici delle malattie di singoli malati, senza cercare di
individuarne gli aspetti e le cause comuni; alla seconda di aver ricondotto i casi individuali
a cause comuni troppo generali e astratte – quali caldo, freddo, secco, umido – senza tener
conto a sufficienza della loro effettiva corrispondenza all’esperienza concreta, cioè a
componenti reali del corpo umano.
Per superare questi due opposti difetti, Ippocrate concepisce e pratica la scienza medica
come individuazione delle modalità e delle cause generali delle malattie – cioè come loro
descrizione e spiegazione sulla base di modelli teorici generali – fondata però su una
stretta corrispondenza ai casi empirici individuali così come emergono dall’osservazione.
In questa prospettiva, Ippocrate considera i suoi modelli teorici delle congetture, cioè delle
conoscenze parziali e provvisorie, basate su passate esperienze, che devono essere
costantemente verificate e modificate alla luce di nuove esperienze.
Il principio più generale della teoria ippocratica della malattia è che essa sia la rottura
dell’equilibrio tra le diverse componenti del corpo umano. Tra queste le più importanti
sono il catarro, la bile e il sangue. Si tratta di liquidi organici che possiedono delle
proprietà attive (p.e. l’acidità, l’astringenza, la diureticità) capaci di modificare il
funzionamento dell’organismo.
La malattia, in questo senso, consiste nell’eccesso di una o più qualità attive a sua volta
conseguenza della prevalenza di un umore sugli altri. L’eccesso che rompe l’equilibrio, cioè
lo stato di salute, è dovuto a una causa esterna al corpo.
Su questa base, Ippocrate stabilisce tre tipi generali di cause delle malattie:
1) ambientali, legate al luogo geografico e al clima ma anche al contesto sociale;
2) di stile di vita, connesse alle modalità della condotta individuale di vita
(alimentazione, tipo di lavoro, relazioni con gli altri, ecc.);
3) traumi, cioè lesioni fisiche come ferite di guerra o rotture di arti ma anche lesioni
psichiche dovute a conflitti emotivi.
La terapia medica per Ippocrate deve basarsi su tre momenti:
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1) l’anàmnesi (in greco ricordo), cioè la ricostruzione della storia della salute di un
individuo a partire dalla nascita;
2) la diagnosi, cioè la comprensione del tipo di malattia di cui il malato è affetto e
l’individuazione delle sue cause;
3) la prognosi, cioè la previsione del decorso della malattia ovvero sulla possibilità o
meno di guarigione e sui suoi eventuali modi e tempi.
In base ad anàmnesi, diagnosi e prognosi, secondo Ippocrate può essere stabilita la terapia
adeguata che consiste in:
a)
b)
c)
d)
e)
farmaci di origine vegetale,
dieta alimentare appropriata,
comportamenti funzionali (riposo, ginnastica, bagni, massaggi),
soggiorni o trasferimenti in luoghi salubri,
interventi sull’ambiente in cui si vive per garantirne l’igiene.
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LO SCRIGNO
ALEX VILENKIN: LA SCOPERTA DELLA GRAVITA’ REPULSIVA
Così stavano le cose [la gravità era considerata una forza solamente
attrattiva, ndr] fino al 1998 quando due gruppi di ricerca indipendenti
annunciarono una scoperta sensazionale. Essi misurarono la luminosità delle
esplosioni di supernova in galassie lontane, e utilizzarono i dati per calcolare
l’evolversi dell’espansione cosmica. Con loro grande sorpresa, trovarono che,
anziché essere rallentata dalla gravità, l’espansione sta in realtà accelerando.
Questa scoperta fa pensare che l’Universo sia pieno di una qualche materia a
gravità repulsiva. La possibilità più semplice è che il vero vuoto, in cui noi ora
abitiamo, abbia una densità di massa diversa da zero. Come sappiamo, il
vuoto possiede gravità repulsiva, e se la sua densità è superiore a 1/2 del
valore di densità media di materia, il risultato è una forza repulsiva.
Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, Cortina 2007, p. 126-127
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LA SCOPERTA
LA RAZIONALITA’ UMANA
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE
L’ETA’ GRECA CLASSICA (V sec. a.C.)
Nella prima metà del V secolo, le principali poleis greche, alleatesi sotto la guida di Sparta
e Atene, riuscirono, nel corso di due guerre successive (490-478 a.C.), a sconfiggere
l’impero persiano, che aveva tentato di conquistarle. Fu un evento storico epocale, in
quanto in questo modo i Greci (benché non tutti, perché alcune poleis si allearono con i
persiani) non solo difesero la loro indipendenza e la loro libertà, ma salvarono la loro
cultura – che altrimenti sarebbe stata soffocata da quella orientale dei persiani – e con essa
la futura cultura occidentale, dal momento che l’antica cultura greca ne costituì la prima e
fondamentale pietra.
Nell’immediato, l’esito vittorioso delle guerre persiane confermò e rafforzò il primato delle
due maggiori poleis greche, Sparta e Atene. Ma mentre Sparta tornò a una politica estera
isolazionistica, paga del suo dominio sul Peloponneso, e mantenne la propria
organizzazione politica interna e la propria tradizione culturale, Atene sfruttò appieno il
proprio successo militare con la costituzione della lega delio-attica in funzione antipersiana
e impose progressivamente la propria egemonia imperialistica sulle poleis del mar Egeo e
della Grecia continentale (nel 425 superarono le 400), garantendosi un’enorme entrata in
tributi e dando il via a un sempre più radicale processo interno di democratizzazione
politica e di innovazione culturale.
In questo contesto, a partire dal 462, iniziò l’ascesa politica di Pericle – membro dell’antica
famiglia aristocratica degli Alcmeonidi ma leader del “partito” democratico – e con essa la
riforma delle istituzioni ateniesi: l’antico Areopago fu esautorato di ogni potere tranne
quello di giudicare i delitti di sangue; all’Ecclesìa (l’assemblea di tutti i cittadini) venne
affidato il potere decisionale sulle questioni politiche e giudiziarie; alla Bulè (un consiglio
di 500 cittadini, scelti a rotazione tra tutti) fu attribuito il potere di governare; soprattutto
fu introdotta un’indennità giornaliera per tutti i cittadini che partecipavano alle nuove
istituzioni democratiche cosicché anche gli ateniesi meno abbienti potessero permettersi il
lusso di fare politica in prima persona.
Dal 443 al 427 (anno della sua morte), Pericle fu sempre eletto stratega e grazie a questa
carica ufficiale ma soprattutto alla sua abilità politica e al suo carisma umano, riuscì a
dirigere il governo ateniese. Due furono le sue più importanti realizzazioni governative: il
finanziamento e la promozione dell’arte, della cultura e dell’istruzione; e il miglioramento
delle condizioni economiche e sociali delle classi inferiori. Per il primo aspetto, Pericle fece
costruire il Partenone e molti altri edifici pubblici e monumenti, e accolse e sostenne
artisti, poeti, filosofi, storici, organizzando nella propria dimora, insieme alla colta e
brillante moglie Aspasia, un circolo di intellettuali che comprendeva, tra gli altri, lo storico
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Erodoto, il tragediografo Sofocle, lo scultore Fidia, il filosofo Anassagora, l’architetto e
urbanista Ippodamo. Per quanto riguarda la sua politica sociale, Pericle, grazie al suo
grande programma di costruzione di opere pubbliche, incrementò notevolmente i posti di
lavoro manuali, e inoltre nei territori conquistati o in quelli delle poleis alleate istituì
colonie ateniesi dando in usufrutto terre da coltivare ai teti (i nullatenenti) che così
potevano diventare zeugiti (la classe dei piccoli proprietari) e combattere come opliti.
Quella di Atene durante l’età di Pericle fu, dunque, un tanto raro quanto significativo
esempio storico di democrazia diretta e di Stato sociale. Esso ebbe però tre grandi, e gravi,
limiti: 1) a livello di risorse finanziarie statali, si reggeva sul dominio imperialistico che
Atene esercitava sulle poleis della Lega di Delo, costrette a versarle tributi; 2) a livello
politico, i cittadini ateniesi, cioè quelli che potevano votare e ottenere cariche o benefici
statali, erano solo i maschi adulti figli di genitori ateniesi e liberi, ossia le donne, gli
immigrati (anche di seconda o terza generazione), i minorenni e naturalmente gli schiavi
non avevano diritti politici; 3) a livello economico, la ricchezza prodotta si basava in gran
parte sullo sfruttamento spietato degli schiavi, anche e soprattutto nelle numerose miniere
dell’Attica.
In ambito culturale, il V secolo rappresenta l’età classica della civiltà greca, da molti
considerata non solo quella della sua massima fioritura ma perfino uno dei periodi di
massimo splendore culturale dell’intera storia della civiltà umana.
Nell’ambito della letteratura, fu l’età del trionfo della creatività teatrale, sia di tipo tragico
sia di tipo comico. Il teatro greco era già nato ad Atene nella seconda metà del VI secolo
per volontà del tiranno Pisistrato, che aveva istituito le feste Dionìsie, sette giorni
primaverili, tra marzo e aprile, in cui si celebrava il dio agreste Dioniso con riti,
processioni, vere e proprie baldorie o addirittura orge, ma anche e soprattutto con
rappresentazioni teatrali di tragedie e commedie dall’alba al tramonto. Trattandosi di una
ricorrenza civico-religiosa, a spese dei cittadini più ricchi, tutti gli ateniesi erano tenuti a
parteciparvi e addirittura i cittadini più poveri ricevevano un contributo affinché potessero
permettersi di non lavorare per un settimana. Ma alle Dionìsie erano invitati anche gli
stranieri residenti o di passaggio. Il loro scopo politico erano, infatti, sia la coesione sociale
interna sia la propaganda della superiorità culturale e civile di Atene tra tutti i Greci.
Fu però nel corso del V secolo che la produzione teatrale ateniese raggiunse l’acme
artistico, grazie alle tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide e alle commedie di Aristofane.
Le tragedie greche attingevano all’antichissimo patrimonio dei miti ma lo attualizzavano
sia elaborandone nuove versioni sia soprattutto con la loro rappresentazione teatrale.
Infatti, prima della nascita della tragedia i miti Greci erano cantati dagli aedi, mentre dalla
seconda metà del VI secolo vennero trasmessi attraverso l’azione scenica (dràma in greco
antico significava azione), fermo restando che le battute dei protagonisti erano in versi,
cioè in forma poetica, e che addirittura il coro, che aveva un ruolo fondamentale, cantava e
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
danzava (in questo senso la tragedia greca assomigliava più a un’odierna opera lirica che a
un attuale spettacolo teatrale).
I temi al centro della tragedia greca antica furono: innanzitutto il carattere conflittuale
della vita, non solo e non tanto nel senso che ogni individuo si scontra inevitabilmente con
altri individui, e non solo uomini ma perfino dei, ma anche e soprattutto che ogni
individuo è diviso in se stesso, è fondamentalmente doppio, sempre scisso e combattuto
nella scelta tra ragioni e valori che si escludono a vicenda (p.e. l’amore per il fratello e il
rispetto delle leggi della pòlis); in secondo luogo, il fondo misterioso, incomprensibile,
dell’esistenza, che si manifesta nelle insolubili alternative tra scelta o destino, colpa o
innocenza, responsabilità o irresponsabilità, nel senso che l’agire individuale appare sia
determinato sia voluto, e quindi l’individuo al tempo stesso innocente e colpevole,
irresponsabile e responsabile; infine, la presenza di un’enigmatica legge della vita, legata
alla correlazione tra l’übris (la tracotanza, l’eccesso), propria di ogni individuo, e la
némesis (la giustizia), ovvero la forza divina che punisce prepotenze ed eccessi ma
attraverso le azioni di altri individui (p.e. Agamennone, a causa del sacrificio umano della
figlia Ifigenia, si è macchiato di übris e per némesis viene ucciso da sua moglie
Clitennestra).
In questo senso la tragedia greca, da un lato, è l’espressione più alta e profonda del rapido
e radicale mutamento della civiltà greca, e in particolare di Atene, nel corso del V secolo,
cioè del contrasto tra valori e concezioni vecchie e nuove; dall’altro, si intreccia con la
riflessione filosofica, cioè ne è influenzata e a sua volta la influenza. Da questo punto di
vista, il passaggio da Eschilo e Sofocle a Euripide rappresentò una ulteriore, netta
accelerazione. Mentre, infatti, Eschilo aveva dato la preminenza agli dei e Sofocle ai
protagonisti umani ma intesi come eroi, cioè come superuomini, Euripide, intriso di
filosofia sofistica, umanizzò la tragedia, attribuendo ai protagonisti sentimenti e
comportamenti propri degli uomini comuni e denunciando l’irrazionalità e l’immoralità
degli dei.
La commedia, invece, che raggiunge un altissimo vertice con Aristofane, ebbe
prevalentemente una funzione di satira delle vicende e dei personaggi politici, ma anche
della nuova mentalità e dei nuovi vezzi degli ateniesi.
Anche la poesia lirica ebbe nel V secolo una funzione civile in quanto “lirica corale”, cioè
poesia celebrativa di dei ed eroi che veniva cantata in cerimonie e feste pubbliche. I più
grandi poeti lirici dell’età classica furono Simonide, Bacchilide e soprattutto Pindaro,
particolarmente significativo perché la sua opera si caratterizza per la fede negli dei
tradizionali, considerati assolutamente giusti e buoni, tanto da negare la fondatezza degli
episodi mitici in cui essi commettevano azioni immorali e da offrirne delle diverse versioni.
Sempre a livello letterario, ma insieme anche scientifico, un’altra novità del V secolo fu la
nascita della storiografia (che includeva anche la geografia, l’antropologia e l’etnografia) ad
opera di Erodoto, autore dei 9 libri delle Storie. Con quest’opera, infatti, dedicata alle
guerre greco-persiane, Erodoto innanzitutto non si limitò alla registrazione dei fatti storici,
ma cercò di individuare le loro cause; e, in secondo luogo, proprio a tale scopo, allargò la
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
sua indagine ai diversi ambienti naturali, alle diverse mentalità e ai diversi costumi delle
popolazioni greche e persiane.
Nell’ambito delle arti plastiche e urbanistico-architettoniche, il V secolo fu caratterizzato
dal succedersi del periodo “severo” (480-450 a.C.) e di quello classico (450-430 a.C).
Nel primo da evidenziare innanzitutto il maggior uso del bronzo (vedi p.e. i famosi “bronzi
di Riace”), indice del progresso nella tecnica metallurgica. Ma soprattutto l’arte “severa” fu
caratterizzata dall’abbandono della frontalità arcaica e dall’adozione di forme più
realistiche, morbide e anatomicamente dettagliate nella rappresentazione delle figure
umane (vedi p.e. il Discobolo di Mirone). Nacque inoltre la grande pittura murale (p.e. la
stoà poikìle, cioè il portico dipinto, di Atene) o su cavalletto, che influenzò anche la
ceramografia; l’urbanistica assunse lo schema ortogonale, codificato e imposto da
Ippodamo di Mileto; e l’architettura ebbe la sua massima espressione nel grande tempio
dorico di Zeus a Olimpia.
Il successivo periodo classico fu caratterizzato dall’imporsi della “sezione aurea” (il
rapporto tra due segmenti in cui la somma sta al maggiore come il maggiore al minore),
ovvero del “numero aureo” (1,6180, il numero che esprime quel rapporto), e più in
generale dall’adozione di rigorosi criteri di proporzionalità, armonia e simmetria. Il
numero aureo fu applicato sia alla raffigurazione scultorea (p.e. il Doriforo di Policleto) sia
all’architettura (p.e. nel Partenone di Fidia). A livello scultoreo, le rappresentazioni del
corpo umano acquistarono ancor più flessibilità e dinamicità, mentre in pittura si passò dai
grandi affreschi ai dipinti di piccole dimensioni e fu inventata la tecnica del chiaroscuro.
A livello scientifico, nella seconda metà del V secolo vi fu un notevole sviluppo delle
tecniche artigianali e dei relativi saperi tecnici (metallurgia, cantieristica, strumenti di
navigazione, agricoltura, culinaria, ceramica, ecc.), favorito dalla diffusione dell’uso della
scrittura che ne permetteva una trasmissione più precisa e completa. Tra le scienze vere e
proprie, cioè non unicamente pratico-empiriche, ma anche e soprattutto teoriche, i
maggiori progressi si ebbero nella matematica con Ippocrate di Chio, che scoprì il calcolo
dell’area delle lunole e introdusse nella logica matematica la dimostrazione per assurdo, e
nella medicina con Ippocrate di Cos, che elaborò una nuova sintesi tra osservazioni
individuali e regole generali.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
“C’era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non esistevano le stirpi mortali.
Quando anche per queste giunse il tempo segnato dal destino per la loro
generazione, nell’interno della terra gli dei le plasmarono, facendo una
mescolanza di terra e di fuoco, e degli altri elementi che si possono unire col
fuoco e con la terra. E quando si trovarono nel momento di farle venire alla
luce, affidarono a Prometeo e ad Epimeteo il compito di fornire e di
distribuire le facoltà a ciascuna razza in modo conveniente. Ma Epimeteo
chiese a Prometeo di poterle distribuire lui da solo: ‘Quando avrò finito la
distribuzione – soggiunse – tu verrai a vedere’. E, così persuasolo, si accinse
all’opera di distribuzione. Ad alcune razze diede la forza senza la velocità, e
fornì invece le razze più deboli di velocità. Ad altre assegnò armi di difesa e di
offesa, mentre per altre ancora, cui aveva dato una natura inerme, escogitò
altre facoltà, per garantire la loro salvezza. Infatti, a quelle razze che egli
rivestì di piccolezza, diede la capacità di fuggire con le ali, oppure di celarsi
sotto terra; invece a quelle cui fornì la grandezza, diede la possibilità di
salvarsi appunto con questa. E anche le altre facoltà distribuì in questo modo,
in maniera che si equilibrassero. Ed escogitò queste cose facendo attenzione
che nessuna razza si potesse estinguere. E, allorché ebbe premunite le varie
razze dei mezzi per sfuggire alle distruzioni reciproche, escogitò un
espediente perché si difendessero contro le intemperie delle stagioni che
manda Zeus, rivestendole di folti peli e di spesse pelli, capaci di difenderle dal
freddo e in grado di proteggerle dalle calure, e tali che, quando si coricavano
nei loro giacigli, queste servissero da coltri naturali, proprie a ciascuna di
esse. E ad alcune fornì cibi diversi per le diverse razze: ad alcune assegnò le
erbe della terra, ad altre i frutti degli alberi, ad altre le radici. E vi sono razze
cui concesse di divorare altre razze di animali per nutrirsi; e provvide che le
prime avessero una scarsa prole, e che quelle che dovevano essere divorate da
queste avessero invece una numerosa prole, assicurando la conservazione
della razza. Orbene, Epimeteo, che non era troppo sapiente, non si accorse di
aver esaurito tutte le facoltà per gli animali: e a questo punto gli restava
ancora la razza umana non sistemata, e non sapeva come rimediare. Mentre
egli si trovava in questa situazione imbarazzante, Prometeo viene a vedere la
distribuzione, e si accorge che tutte le razze degli altri animali erano
convenientemente fornite di tutto, mentre l’uomo era nudo, scalzo, scoperto e
inerme. E ormai s’avvicinava il giorno segnato dal destino in cui anche l’uomo
doveva uscire dalla terra alla luce. Allora, Prometeo, in questa imbarazzante
situazione, non sapendo quale mezzo di salvezza escogitare per l’uomo, ruba
ad Efesto e ad Atena la loro sapienza tecnica insieme col fuoco (senza il fuoco
era infatti impossibile acquisire e utilizzare quella sapienza), e la dona
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
all’uomo. In tal modo, l’uomo ebbe la sapienza tecnica necessaria per la vita,
ma non ebbe la sapienza politica, perché questa si trovava presso Zeus, e a
Prometeo non era ormai più possibile entrare nell’acropoli, dimora di Zeus;
per giunta, c’erano anche le terribili guardie di Zeus. Entra dunque
furtivamente nella officina di Atena e di Efesto, in cui essi praticavano
insieme la loro arte, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e quella di Atena, la
dona all’uomo. Di qui vennero all’uomo le sue risorse per la vita. Ma
Prometeo, a causa di Epimeteo, in seguito, come si narra, subì la pena per il
furto.
“E, poiché l’uomo divenne partecipe di sorte divina, in primo luogo, in virtù di
questo legame di parentela che venne ad avere col divino, unico fra gli animali
credette negli dei, e intraprese a costruire altari e statue di dei. In secondo
luogo, rapidamente con l’arte sciolse la voce ed articolò le parole, inventò
abitazioni, vesti, calzari, letti e trasse gli alimenti dalla terra. Provvisti in
questo modo, da principio, gli uomini abitavano sparsi qua e là, e non
esistevano Città. Pertanto perivano ad opera delle fiere, giacché erano molto
meno potenti di esse: l’arte che essi possedevano era per loro un adeguato
aiuto nel procurarsi il nutrimento, ma non era sufficiente alla guerra contro
le fiere. Infatti, essi non possedevano ancora l’arte politica, di cui l’arte della
guerra è parte. Pertanto, essi cercavano di raccogliersi insieme e di salvarsi
fondando Città; ma, allorché si raccoglievano insieme, si facevano ingiustizie
l’un l’altro, perché non possedevano l’arte politica, sicché, disperdendosi
nuovamente, perivano. Allora Zeus, nel timore che la nostra stirpe potesse
perire interamente, mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la
giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di
amicizia. Allora Ermes domandò a Zeus in quale modo dovesse dare agli
uomini la giustizia e il rispetto: ‘Devo distribuire questi come sono state
distribuite le arti? Le arti furono distribuite in questo modo: uno solo che
possiede l’arte medica basta per molti che non la posseggono, e così è anche
per gli altri che posseggono un’arte. Ebbene, anche la giustizia e il rispetto
debbo distribuirli agli uomini in questo modo, oppure li debbo distribuire a
tutti quanti?’. E Zeus rispose: ‘A tutti quanti. Che tutti quanti ne partecipino,
perché non potrebbero sorgere Città, se solamente pochi uomini ne
partecipassero, così come avviene per le altre arti. Anzi, poni come legge in
mio nome che chi non sa partecipare del rispetto e della giustizia venga ucciso
come un male della Città’.
“Così, o Socrate, e appunto per queste ragioni, gli Ateniesi, e anche gli altri,
allorché sia in questione l’abilità dell’arte di costruire o di qualche altra arte,
ritengono che pochi debbano prender parte alle deliberazioni. E se qualcuno
che non sia di questi pochi vuol dare consigli, non lo sopportano, come tu dici:
e di buona ragione, aggiungo io. Ma quando si radunano in assemblea per
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
questioni che riguardano la virtù politica, e si deve quindi procedere
esclusivamente secondo giustizia e temperanza, è naturale che essi accettino
il consiglio di chiunque, convinti che tutti, di necessità, partecipino di questa
virtù, altrimenti non esisterebbero Città. Questa, o Socrate, ne è la ragione”.
Platone, Protagora, in Tutti gli scritti a cura di G. Reale, Rusconi, pp. 818-820.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGIO
LA RAZIONALITA’
STRUMENTALE DELL’UOMO
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
I SOFISTI
In ambito filosofico, nel V secolo si attua una duplice svolta: da un lato Atene diventa il
centro della ricerca filosofica e scientifica, dall’altro una nuova generazione di filosofi
assume come oggetto privilegiato della propria indagine l’uomo.
Questa duplice svolta avviene nel periodo di massimo sviluppo economico, sociale e
politico della civiltà greca ed è connessa in particolare alla supremazia di Atene, ovvero
della polis simbolo della democrazia antica.
In questo contesto nasce e si espande il movimento filosofico dei “sofisti”. In greco antico
“sofista” significa letteralmente “sapiente”. Ma nell’Atene della seconda metà del V secolo
il termine acquista l’accezione di “insegnante”, in quanto viene usato per designare
uomini di cultura che trasmettono a pagamento le loro conoscenze ai giovani ateniesi. In
questo modo, la filosofia, che precedentemente era stata appannaggio di una élite, si
diffonde tra una cerchia sociale più ampia. Ciò accade perché molti giovani, sia
aristocratici sia borghesi, vogliono acquisire strumenti per poter partecipare alla vita
politica e per poter conseguire le più ambite cariche politiche e militari.
Di conseguenza l’insegnamento e l’indagine conoscitiva dei sofisti si concentrano sulla
retorica (l’arte del parlare, comprendente conoscenze grammaticali, lessicali, stilistiche e
logico-argomentative), sulla letteratura, sulla storia, sull’etica, sul diritto e sulla politica.
In questo senso, i sofisti possono essere considerati i fondatori delle “scienze umane”, o
“scienze storico-sociali”, ovvero delle scienze che studiano le produzioni storico-culturali
dell’uomo.
In base alla loro ricerca nell’ambito delle scienze umane, i sofisti elaborano un nuovo
modello di razionalità, alternativo e perfino antitetico rispetto a quello teorizzato dai
filosofi precedenti, ossia dai cosmologi o fisici. I sofisti, infatti, rigettano la nozione di
verità oggettiva e assoluta, a favore di una concezione soggettiva e relativa della verità.
In questo senso per i sofisti la razionalità è la capacità logico-linguistica dell’uomo di
argomentare in modo convincente una tesi che ha comunque sempre un valore
conoscitivo parziale e temporaneo. In altre parole, per i sofisti in primo luogo la
razionalità è una proprietà unicamente umana, in secondo luogo essa è solamente
strumentale o “tecnica”, ovvero è solo uno strumento per sostenere con successo una tesi,
non il metodo per selezionare l’unica tesi certamente vera.
I più importanti sofisti furono Protagora e Gorgia, ma vi furono molti altri sofisti di
notevole levatura intellettuale, come Antifonte, Crizia, Ippia, Callicle, Prodico,
Trasimaco.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI CAPITANI
PROTAGORA E GORGIA
Protagora (485-410 a.C. ca.) nacque ad Abdera, città portuale della Tracia dove nel 460
era nato anche Democrito, ma abitò e operò a lungo in Atene, guadagnandosi da vivere
come insegnante di retorica e scrittore di discorsi. Sostenitore della democrazia, amico di
Pericle, dopo la sua morte, nel 411, fu accusato di empietà, a causa della sua posizione
agnostica sugli dei, e costretto ad abbandonare Atene. Secondo la testimonianza dello
storico Diogene Laerzio (II-III sec. d.C.), le autorità politiche ateniesi fecero sequestrare e
bruciare pubblicamente le opere di Protagora. Altre testimonianze attestano che morì a
causa del naufragio della nave su cui viaggiava.
Si trattava di libri in prosa, di cui ci restano solo frammenti: Ragionamenti demolitori,
Antilogie (“discorsi contrapposti”), Sulla verità, Sugli dei. In Antilogie Protagora esponeva
e discuteva tesi contrapposte relativamente agli dei, all’essere, allo stato e alle leggi, alle
tecniche. In Sulla verità illustrava la sua concezione strumentale della razionalità umana.
Gorgia (480-372 a.C. ca.) nacque in Sicilia a Leontini, oggi Lentini, città della provincia di
Siracusa. Inizialmente discepolo di Empedocle, si trasferì ad Atene, dove insegnò retorica e
prese parte al circolo intellettuale di Pericle, ma viaggiò continuamente per tutta la Grecia,
insegnando ed esibendo il suo talento retorico anche molte altre città. In particolare, si
recò a Delfi e ad Olimpia dove tenne, su commissione, discorsi pubblici di enorme
successo. Ebbe molti illustri allievi e divenne molto ricco, ma condusse sempre una vita
sobria e alla sua morte la sua eredità monetaria si rivelò modesta. Peraltro morì
ultracentenario. A chi, in precedenza, gli aveva chiesto il segreto della sua longevità pare
avesse risposto: “Non ho mai fatto niente per compiacere un altro”.
Le sue opere più importanti sono il saggio Intorno al non ente o intorno alla natura e
famosi discorsi quali Encomio di Elena e Apologia di Palamede, in cui Gorgia, per esibire
la sua abilità retorica, sfida il senso comune dei Greci argomentando a favore di tesi
considerate assurde e addirittura scandalose dalla maggior parte dei suoi contemporanei.
Nel primo discorso, infatti, Gorgia tesse le lodi Elena, da tutti considerata adultera e
traditrice; nel secondo immagina il discorso che l’acheo Palamede avrebbe potuto
pronunciare per difendersi con successo dall’accusa di tradimento mossagli da Ulisse, cioè
da colui che i Greci consideravano il più scaltro e abile degli uomini.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
PROTAGORA: LA RAZIONALITA’ E’ UMANA E RELATIVA
E per le donne, fare il bagno in casa è bello, ma nella palestra è brutto. (Invece
per gli uomini tanto nella palestra che nel ginnasio è bello.) […]
E ancora, l’accoppiarsi col proprio marito è bello, ma con un estraneo è
bruttissimo; e così anche per l’uomo, accoppiarsi con la propria moglie è
bello, con un’estranea è brutto. […]
Per esempio, per gli Spartani, che le fanciulle facciano ginnastica e si
esibiscano in pubblico sbracciate e senza tunica è bello; per gli Ioni, brutto.
[…]
I Massageti squartano i genitori e se li mangiano, perché pensano che l’esser
sepolti nei propri figli sia la più bella sepoltura; invece se qualcuno lo facesse
in Grecia, cacciato in bando morirebbe con infamia, come autore di cose turpi
e terribili. […]
Se analizzi a fondo, vedrai che è così l’altra legge dei mortali: nulla è mai
assolutamente bello né brutto; ma le stesse cose, come il momento le afferri,
le fa brutte; come si cambi, belle.
Anonimo, Ragionamenti duplici (scritto sul modello delle Antilogie di Protagora)
Il problema filosofico individuato da Protagora è quello della pluralità e della diversità
irriducibile delle tesi. In altre parole, Protagora nota che non solo tutti gli uomini ma
perfino tutti i filosofi, cioè i professionisti della ricerca della verità, sostengono tesi
differenti e perfino antitetiche. Ma, poiché la verità per definizione è una sola, com’è
possibile che esistano più e discordanti verità? La soluzione a questo problema offerta da
Protagora è sintetizzata in una tanto lapidaria quanto pregnante sentenza:
 “L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non
sono in quanto non sono”.
Questa affermazione di Protagora contiene diverse implicazioni filosofiche:
1. L’uomo è il criterio di giudizio, e quindi il principio della conoscenza, di ogni cosa. Ciò
significa che dipende dall’uomo com’è una cosa, cioè quali proprietà ha, a cominciare
da quella della sua stessa esistenza.
2. La natura non è conoscibile oggettivamente, in ciò che è veramente, e
complessivamente, ma soltanto per ciò che ci appare e nel modo in cui ci appare, e
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
quindi solo soggettivamente e parzialmente. Questa posizione è denominata
“fenomenismo” (dal greco “fàinomai” che significa mostrarsi, apparire, manifestarsi).
3. La conoscenza di cose, fatti e comportamenti e il giudizio sul loro valore sono relativi
al soggetto conoscente e giudicante, cioè variano sia da individuo a individuo, sia da
gruppo a gruppo, sia da popolo a popolo. Questa posizione filosofica è denominata
“relativismo”.
4. La filosofia deve mettere al centro della sua indagine non il cosmo ma l’uomo, perché
l’uomo può conoscere molto di più e molto meglio sé stesso piuttosto che il cosmo.
La centralità filosofica dell’uomo sostenuta da Protagora non va però intesa come
un’esaltazione acritica delle capacità conoscitive e pratiche umane. Al contrario, asserire,
come fa Protagora, che ogni conoscenza è fenomenica e relativa significa affermare che la
razionalità umana è limitata e che dunque non può risolvere tutti i problemi teorici e
pratici. Questa tesi ha due conseguenze di grande rilevanza:
• sul piano filosofico-scientifico, è impossibile risolvere tutti i problemi conoscitivi che
l’uomo si pone e in particolare quelli relativi al cosmo: non è possibile, per esempio,
sapere quali sono i suoi elementi costitutivi fondamentali né come abbia avuto
origine né qual è il suo senso e se e come finirà;
• sul piano religioso, è impossibile stabilire con certezza se gli dei esistono o non
esistono e pertanto a livello razionale bisogna astenersi da qualsiasi giudizio a favore
o contro la loro esistenza.
La posizione di Protagora, sotto questo aspetto, è denominata “agnosticismo”
(letteralmente significa “non-conoscibilismo”).
Tuttavia, che la conoscenza razionale dell’uomo sia relativa, e quindi limitata, non significa
per Protagora che essa non abbia valore. Al contrario, e paradossalmente, proprio il fatto
che l’uomo non possa basarsi su verità e su valori oggettivi, e quindi universali, rende
decisivo l’uso della sua razionalità. Per ogni individuo, infatti, si tratta di fare le scelte
migliori unicamente sulla base del proprio giudizio e quindi delle proprie capacità di
elaborazione razionale. Insomma, il fenomenismo e il relativismo di Protagora non
sfociano in un invito all’arbitrio sconsiderato, cioè a pensare, dire e fare indifferentemente
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
qualsiasi cosa a seconda del proprio capriccio momentaneo, bensì nella proposta di una
tecnica razionale di selezione delle conoscenze, dei valori e dei comportamenti più efficaci.
Tale tecnica consiste nel seguire queste indicazioni:
• assumere come riferimento conoscitivo l’esperienza diretta e individuale, cioè ciò che
conosciamo in base alle nostre sensazioni e ai nostri ragionamenti relativi alle realtà
particolari e circoscritte con cui abbiamo di volta in volta a che fare, ovvero il contesto
naturale o sociale concreto in cui agiamo;
• assumere come criterio di selezione delle alternative conoscitive e pratiche quello
dell’utilità, innanzitutto quella individuale, e poi a partire da essa quella del gruppo
sociale (famiglia, categoria professionale, classe sociale) o del popolo cui si
appartiene;
• utilizzare l’argomentazione razionale (ovvero il ragionamento) per individuare e
motivare la scelta più efficace tra le alternative conoscitive e pratiche a disposizione, e
soprattutto per convincere gli altri a condividere la propria scelta.
La posizione di Protagora si può definire “pragmatismo”, termine che indica una condotta
di vita basata sulla scelta delle opzioni conoscitive e pratiche più realistiche, convenienti ed
efficaci a seconda del contesto e del momento. Il pragmatismo di Protagora, però, è un
pragmatismo essenzialmente linguistico, in quanto si impernia sul linguaggio, concepito
come strumento di valutazione razionale e di comunicazione persuasiva.
In questa prospettiva la scienza più importante per Protagora è la retorica, la scienza che
insegna a usare il linguaggio nel modo più efficace, cioè che insegna a pensare, parlare e
comunicare nel modo più valido e convincente. E’ in questo senso che Protagora afferma
con orgoglio di essere capace di trasformare il discorso più debole in quello più forte, e
perfino quello “peggiore” in quello “migliore”.
Il significato del pragmatismo linguistico di Protagora si fa più chiaro e preciso in relazione
all’agire politico. Infatti, il problema di fare la scelta “migliore” in assenza di criteri
oggettivi non si pone solo e tanto a livello individuale ma anche e soprattutto a livello
collettivo dal momento che la relatività soggettiva delle conoscenze e dei valori rischia di
produrre conflittualità e disgregazione. A questo riguardo, Protagora sostiene che la
comunità politica, democraticamente organizzata, è il criterio per stabilire ciò che è vero e
ciò che è giusto. In altre parole, secondo Protagora, deve essere considerato vero e giusto
per tutti i cittadini ciò che viene deciso a maggioranza nelle assemblee rappresentative
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
competenti. Verità e giustizia, quindi, consistono nelle conclusioni delle discussioni
collettive, in quanto queste garantiscono la concordia, cioè l’unità e la forza della comunità
politica.
Ma per Protagora ciò che viene deciso a maggioranza nelle assemblee rappresentative, e
che quindi è da considerarsi vero e giusto, è a sua volta ciò che viene sostenuto dal discorso
“più forte”, cioè quello meglio strutturato e pertanto più convincente. In questo senso, è la
maggiore “forza” di un’argomentazione, ratificata dalla maggioranza che
conseguentemente ottiene nella votazione, che fonda la maggior utilità della tesi che essa
sostiene, non viceversa. Dunque, per Protagora la razionalità umana non consiste tanto nel
contenuto intrinseco delle scelte, quanto nella loro modalità argomentativa. Ciò significa
che una scelta è “migliore” di un’altra se e in quanto è argomentata meglio perché così può
ottenere l’adesione della maggioranza e quindi diventare una scelta collettiva. In tal senso
la razionalità per Protagora è “strumentale”, non “sostanziale”. Essa, cioè, è propria solo
del mezzo retorico e della procedura politica con il quale si sostiene una scelta, ma non
riguarda propriamente il suo contenuto, ovvero la sostanza (o il merito) di una scelta.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
PROTAGORA E LA NUOVA RETORICA
Protagora e più in generale i sofisti possono essere a buon diritto considerati i fondatori
di quelle che oggi si chiamano “scienze umane” o “scienze storico-sociali”, cioè discipline
come la linguistica, la retorica e la semiotica, ma anche l’antropologia, l’etnologia, la
sociologia, la giurisprudenza, la politologia, l’economia e la stessa storia.
In particolare la filosofia di Protagora è in sintonia con la “nuova retorica” del filosofo
polacco C. Perelman (1912-1984) che ha analizzato e classificato le forme e le regole
dell’argomentazione persuasiva. Esse costituiscono la ragionevolezza pratica – valida
per le scelte etiche, giuridiche e politiche – che si distingue dalla razionalità teorica –
propria delle scienze naturali e basata invece sulla dimostrazione logico-matematica –
perché il suo criterio di verità non è la consequenzialità logica ma il consenso collettivo.
Per un approfondimento: Perelman-Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione – La
nuova retorica, Einaudi 1966 (edizione originale francese 1958).
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
GORGIA: LA PAROLA E’ IPNOTICA
Passerò all’inizio del discorso che devo fare ed esporrò le ragioni per cui era
naturale che avvenisse la partenza di Elena per Troia.
Certo o per volere della sorte o per decisione divina e per decreto della
necessità fece quello che ha fatto oppure trascinata con la forza, o persuasa
con la parola, o presa da amore. […]
Ma se invece fu la parola a persuaderla e a ingannarle la mente, neppure per
questo aspetto è difficile scusarla e scioglierla dall’accusa nel modo seguente.
La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e
invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il
dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione. […]
Possiamo infatti vedere quale forza abbia la persuasione, che senza avere
l’aspetto della costrizione, ne ha la potenza. E la parola che persuase l’anima
costrinse l’anima, che persuase a prestar fede a quanto le veniva detto e ad
approvare quanto era fatto. Dunque chi persuase ha commesso ingiustizia in
quanto ha costretto, mentre l’anima persuasa, in quanto è costretta, ha cattiva
fama ingiustamente.
Gorgia, Encomio di Elena
Gorgia condivide il problema individuato da Protagora: com’è possibile che esista la verità
se ogni filosofo sostiene una verità diversa e antitetica da quelle degli altri filosofi? Ma la
soluzione che Gorgia dà a questo problema è ancora più radicale di quella di Protagora.
Essa consistente in tre tesi tanto lapidarie quanto provocatorie:
1. Nulla esiste.
2. Se qualcosa esistesse, non sarebbe conoscibile.
3. Se qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile.
La prima tesi – “nulla esiste” – non va interpretata in senso empirico-fenomenico, ovvero
come affermazione dell’inesistenza delle cose fisiche oggetto dei nostri sensi. “Nulla esiste”
ha un significato ontologico, cioè vuol dire che non c’è un principio razionale unico e
fondamentale della realtà (che sia acqua, illimitato, soffio, fuoco-logos, essere, numeri o
qualsiasi altra cosa) e quindi non c’è alcuna razionalità oggettiva, cioè inerente alla natura.
La seconda e la terza tesi, da un lato, sono consequenziali alla prima: non esistendo
principi razionali oggettivi nessuna conoscenza umana e nessun discorso umano possono
essere universali e quindi comunicabili. Dunque, non vi è nemmeno alcuna razionalità
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
soggettiva, cioè propria dell’uomo. Da un altro lato, però, le due ultime tesi costituiscono
anche un esempio di virtuosismo retorico-argomentativo sul modello delle arringhe
giudiziarie. Esse infatti esibiscono argomenti supplementari, ad abundantiam, per rendere
mirabolante e inattaccabile l’impianto argomentativo. In altre parole: sarebbe più che
sufficiente l’argomentazione della prima tesi, e ancor più quella della seconda ma perfino
ipotizzando per assurdo che una o tutte e due fossero false, la conclusione per Gorgia
sarebbe comunque la stessa: la razionalità è impossibile.
La prima tesi – “nulla esiste” – è sostenuta da Gorgia con una argomentazione dialettica
che parte dall’assunto che se l’essere esistesse o sarebbe generato o sarebbe ingenerato.
Ma:
1. Se fosse generato, sarebbe generato dall’essere o dal non-essere. Se fosse generato
dall’essere, ciò implicherebbe una trasformazione dell’essere e dunque l’essere non
sarebbe più tale, sarebbe divenire, cioè si autonegherebbe. Se fosse generato dal nonessere, ci sono due possibilità: o il non-essere non è – e allora non potrebbe generare
l’essere perché “nulla può nascere dal nulla”; o il non-essere è – e allora non potrebbe
generare l’essere perché ciò implicherebbe l’autonegazione del non-essere.
2. Se fosse ingenerato, l’essere sarebbe infinito. Ma, in quanto infinito, l’essere non
potrebbe trovarsi in alcun luogo. Infatti per definizione il luogo è ciò che contiene. Ma
l’infinito non può essere contenuto né da sé stesso né da qualcos’altro altrimenti vi
sarebbero due infiniti, il che è assurdo. Non essendo in alcun luogo, l’essere è il nulla,
in quanto non può esistere qualcosa che non abbia una collocazione spaziale.
Dunque “nulla è”. Ma anche ammesso per assurdo che l’essere fosse, continua Gorgia, esso
non sarebbe razionalmente conoscibile. Infatti, per conoscere l’essere, il nostro pensiero
dovrebbe coincidere con tutto ciò che esiste. Se così fosse, allora dovrebbe essere vero che
tutto ciò che pensiamo esiste. Ma noi possiamo pensare molte cose che non esistono –
come un uomo che vola o bighe che solcano i mari. Dunque il pensiero non coincide con
l’essere. Di conseguenza l’essere non è pensato, cioè è inconoscibile.
Ma, prosegue implacabile Gorgia, anche ammesso per assurdo che l’essere fosse
conoscibile, esso comunque non sarebbe comunicabile, cioè gli uomini non potrebbero
scambiarsi informazioni o giudizi su di esso. Infatti per comunicare si usano le parole, le
quali sono suoni. Ma se sono suoni solo l’udito può cogliere e conoscere le parole. Poiché i
colori possono essere conosciuti solo dalla vista e i sapori solo dal gusto, ma non dall’udito,
nessuna parola può trasmettere la conoscenza di un colore o di un sapore. Ma anche
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ammesso per assurdo che una parola possa contenere qualsiasi esperienza sensibile, chi la
ascolta non potrebbe farsi la stessa rappresentazione mentale del suo contenuto di chi l’ha
proferita. Infatti, le menti di chi parla e di chi ascolta sono diverse, altrimenti essi
sarebbero la stessa persona. Dunque alla stessa parola corrispondono due contenuti
mentali diversi. Per esempio uno può dire “tavolo” e pensarlo quadrato e un altro può
udire “tavolo” e rappresentarselo tondo.
Gorgia giunge così a confutare tutte le teorie filosofiche precedenti. Ma la sua grandezza
filosofica consiste soprattutto nel fatto che egli le confuta utilizzando quelle stesse strategie
argomentative razionali con le quali i filosofi precedenti, in particolare Parmenide e
Zenone, le avevano sostenute. In questo modo Gorgia ottiene il suo risultato più
clamoroso: mostrare che nessuna argomentazione è razionale – cioè assolutamente
fondata e univoca – bensì che tutte le argomentazioni sono soltanto retoriche, cioè basate
sul potere incantatorio, ovvero ipnotico, della parola orale.
Questo significa che la parola può modificare i nostri sentimenti, può eliminare il dolore e
infondere il piacere, può esercitare una coercizione pari se non superiore a quella basata
sulla forza fisica. La parola, afferma Gorgia, ha queste capacità perché possiede il potere di
persuadere, ovvero produce una sorta di ipnosi. La retorica è appunto la tecnica –
sviluppata e insegnata da Gorgia – capace di rendere la parola il più persuasiva, cioè il più
ipnotica, possibile. La tecnica retorica consiste nell’uso translato delle parole (le figure
“retoriche”: metafora, sineddoche, metonimia, similitudine, ecc.), nella selezione di quelle
più efficaci emotivamente, nell’ordine di successione e nella concatenazione degli
argomenti, nell’uso del volume e dei toni della voce, ma anche nella scelta dei gesti e delle
espressioni del viso. In questo senso per Gorgia tutte le tesi sono solo credenze individuali
e come tali sono equivalenti. Ciò che rende una migliore dell’altra è solo la retorica, cioè la
capacità dell’oratore di rendere alcune più persuasive delle altre. Insomma, per Gorgia è
una questione di magia, benché linguistica, non di verità; di forza, benché verbale, non di
ragione.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
GORGIA TRA SCETTICISMO E NICHILISMO
Gorgia può essere considerato il primo filosofo di rilievo che negò la possibilità della
Verità ovvero della razionalità o scientificità, intesa come: a) conoscenza oggettiva, cioè
capace di rappresentare la realtà, b) universale, cioè condivisa da tutti gli uomini, c)
necessaria, cioè certa e univoca. Due secoli più tardi, la posizione di fondo di Gorgia fu
ripresa e sviluppata da un movimento filosofico che prese il nome di “scetticismo” (da
skèpsis, che significa “indagine”, intesa come ricerca perenne perché non può mai
arrivare a una verità definitiva).
Lo scetticismo sosteneva appunto che la verità, ammesso e non concesso che esista, è in
ogni caso inconoscibile. Almeno limitatamente a quesa tesi, Gorgia fu il primo scettico
della storia della filosofia, sebbene la denominazione “scettico” sia nata dopo di lui e
sebbene, come si vedrà, lo scetticismo antico abbia sviluppato anche una dottrina etica
del tutto originale e lontana dallo stile di vita di Gorgia.
Ad ogni modo, lo scetticismo è una delle grandi e ricorrenti posizioni della storia della
filosofia, condivisa da filosofi di epoche e personalità molto diverse, come Pirrone (III sec.
a.C.), Sesto Empirico (II d.C.), David Hume (XVIII sec.), Friedrich Nietzsche (XIX sec.).
Nei suoi esiti estremi lo scetticismo prende il nome di “nichilismo” che sta a significare la
negazione totale di qualsiasi senso oggettivo e universale della realtà e della vita. Il
nichilismo è una delle posizioni filosofiche più diffuse della nostra epoca.
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LO SCRIGNO
LA COSTITUZIONE ITALIANA: IL DIRITTO-DOVERE DI VOTO
Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la
maggiore età.
Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.
Costituzione della Repubblica italiana, art. 48, commi 1 e 2
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
IV VIAGGIO
LA RAZIONALITA’ SOSTANZIALE DELL’UOMO
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
IL RAZIONALISMO CRITICO
Tra tutti gli antropologi, cioè i filosofi greci che incentrano la loro ricerca sull’uomo, la
figura di maggiore spessore umano e filosofico è quella di Socrate. Pur legato ai sofisti
sia da rapporti di amicizia personale sia da affinità filosofiche, Socrate non si considera e
non è un sofista. Oltre a insegnare gratuitamente, egli ritiene che la razionalità umana
sia sì incapace di possedere verità complete e assolute ma anche che la verità, ovvero
l’essere, esista e che la razionalità umana abbia la capacità di avvicinarsi sempre più e
sempre meglio ad essa.
Per Socrate, infatti, le tesi conoscitive pur essendo molte e diverse – e dunque parziali e
relative – possono convergere e ridurre progressivamente la loro diversità e dunque la
loro parzialità e relatività. Di conseguenza, Socrate non è un relativista in quanto,
secondo lui, c’è sempre una tesi conoscitiva oggettivamente migliore delle altre, per
quanto mai completa e dunque destinata a essere superata da una nuova tesi ancora
migliore.
La convergenza tra le diverse tesi può realizzarsi, secondo Socrate, solo nel “dialogo”,
cioè nella discussione filosofica, e dunque costituisce un’impresa collettiva. Il dialogo però
deve essere inteso e praticato come ricerca della definizione di un valore (p.e. il coraggio
o l’amicizia). La definizione, infatti, è almeno tendenzialmente universale, perché astrae
dalle particolarità delle diverse opinioni individuali ed evidenzia ciò che c’è di comune in
tutte le possibili opinioni.
In questo senso, la posizione filosofica di Socrate può essere denominata “razionalismo
critico”, in quanto, da un lato, valorizza la ragione umana, attribuendole la capacità di
una conoscenza oggettiva e universale sempre crescente; dall’altro lato, tuttavia, ritiene
limitata, e dunque sempre incompleta, la capacità conoscitiva della ragione umana.
Socrate può essere considerato a buon diritto il fondatore del razionalismo critico, un
indirizzo filosofico fatto proprio da filosofi successivi di grande levatura come
Immanuel Kant (1724-1804), Karl Popper (1902-1994) e il vivente Karl Otto Apel.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI UN CAPITANO
SOCRATE
Socrate (469-399) nacque ad Atene, figlio di uno scultore e di un’ostetrica, dunque in una
famiglia benestante, ma non aristocratica e nemmeno ricca. Da giovane fece il lavoro del
padre ma, una volta raggiunta l’autosufficienza economica, si dedicò completamente alla
filosofia.
Subito prima e durante la guerra del Peloponneso (431-404), combatté come oplita nelle
battaglie di Potidea (432), nella quale salvò la vita al giovane Alcibiade, Delio (424) e
Anfipoli (422). Le testimonianze descrivono Socrate come un soldato ineccepibile, di
grande resistenza, ma al contempo particolare, in quanto a volte si metteva in disparte a
rimaneva immobile a lungo a meditare, come fosse in trance. Assolto il suo dovere militare,
Socrate si sposò con Santippe, dalla quale ebbe tre figli. Secondo altre fonti, il terzo figlio
l’avrebbe avuto da una seconda moglie o addirittura da una concubina. Tutte le fonti
convergono, però, nel descrivere Santippe come una donna insopportabile – addirittura
l’unico essere umano che Socrate non sarebbe mai riuscito a far ragionare – e il rapporto
coniugale Socrate-Santippe come piuttosto burrascoso. Di certo, la totale dedizione di
Socrate alla ricerca filosofica non doveva lasciargli molto tempo per occuparsi della
famiglia ed è plausibile, oltre che comprensibile, che Santippe non ne fosse molto contenta.
La formazione filosofica di Socrate si basò sul rapporto con diversi filosofi, quali
Anassagora, Protagora e soprattutto Parmenide. Socrate, però, non fu mai propriamente
discepolo di nessuno di essi e ben presto cominciò a intraprendere un nuovo e personale
tipo di ricerca filosofica, che si differenziava da tutte le altre anche per le sue modalità
pratiche. I luoghi dell’attività filosofica di Socrate, infatti, erano le piazze e le strade di
Atene e la sua ricerca consisteva nel fermarsi a discutere con uno o più concittadini, in
genere intellettuali come lui, ma anche militari o politici, e soprattutto con i giovani. Col
tempo, da questi ultimi, emerse un folto gruppo di discepoli: il futuro generale Alcibiade,
figlio adottivo di Pericle, l’aristocratico Platone, futuro filosofo idealista, l’aristocratico
Senofonte, futuro generale e storico, l’aristocratico Crizia, futuro membro del governo dei
trenta tiranni, Antistene, futuro filosofo cinico, e molti altri.
Socrate attirava i giovani non solo per l’originalità della sua filosofia ma anche per il modo
in cui viveva, del tutto coerente con le sue tesi filosofiche. Egli, infatti, pur non essendo
povero, seguiva uno stile di vita sobrio, dimostrando di curarsi e di godere molto più della
conoscenza che dei beni materiali. Tuttavia, non disdegnava i numerosi inviti, che riceveva
da parte di ricchi aristocratici, a partecipare ai “simposi”, cioè a incontri conviviali in case
private in cui si mangiava e soprattutto si beveva, passandosi di mano in mano un’unica
coppa piena di vino e discutendo amabilmente di temi culturali, politici e filosofici. In
questo senso, i simposi erano per Socrate altrettante occasioni per intavolare i suoi
dialoghi e condurre la sua ricerca filosofica. In tali situazioni, egli era famoso perché, pur
bevendo abbondantemente, non perdeva la sua lucidità.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nel 423, il più grande commediografo greco, Aristofane, scrisse e fece rappresentare
durante le Grandi Dionisie, ovvero davanti a tutti gli ateniesi, la commedia Le nuvole, una
parodia di Socrate e della filosofia. Il Socrate aristofaneo, protagonista della commedia, è il
maestro di una scuola (“il Pensatoio”) che passa la maggior parte del suo tempo a osservare
gli astri dentro una cesta sospesa in aria, che afferma che gli dei non esistono e che il
cosmo è stato prodotto da un vortice aeriforme e che insegna, a pagamento, ad
argomentare efficacemente per poter vincere qualsiasi causa legale. Aristofane, in realtà, in
questo modo volle rappresentare una beffarda caricatura non solo e non tanto di Socrate,
ma di tutti i filosofi che operavano in Atene (Anassagora, Protagora, ecc.) e chiamò questa
caricatura Socrate, perché questi era il filosofo più noto, più fastidioso e più eccentrico agli
occhi degli ateniesi, che nella stragrandre maggioranza non conoscevano certo le diverse
tesi dei vari filosofi e quindi non li differenziavano.
Nel 406, Socrate fu sorteggiato come membro della bulè (o Consiglio dei 500) e come
pritano, cioè come uno dei 50 governanti temporanei della democrazia ateniese, e come
tale fu l’unico a opporsi all’illegale giudizio collettivo contro i comandanti militari accusati
di non aver raccolto i naufraghi ateniesi durante la battaglia navale delle Arginuse. Nel
404, dopo l’instaurazione del governo oligarchico dei trenta tiranni, uno dei quali era l’ex
discepolo Crizia, a Socrate venne chiesto di arrestare un politico democratico, ma Socrate
rifiutò, pur sapendo che, per il suo rifiuto, avrebbe rischiato la morte.
Ciò nonostante, dopo la restaurazione della democrazia con Trasibulo, nel 399 Socrate,
considerato “antidemocratico” per la sua frequentazione di ambienti aristocratici e per le
sue critiche alla democrazia, venne denunciato per empietà e corruzione dei giovani da
parte del poeta Meleto e del politico democratico Anito. Di fronte alla bulè, riunita per
giudicarlo, Socrate si difese, argomentando l’infondatezza delle accuse, ma fu ugualmente
dichiarato colpevole dalla maggioranza (280 voti di colpevolezza su 500). A questo punto,
per prassi la bulè doveva votare la pena dopo aver sentito il condannato, e Socrate chiese
provocatoriamente che la sua pena consistesse nell’essere mantenuto a vita a spese della
cittadinanza. Irritata, l’assemblea, che altrimenti ne avrebbe probabilmente votato l’esilio,
votò invece con una maggioranza ancora più ampia (360) la comminazione della pena
capitale. Incarcerato e in attesa dell’esecuzione della condanna, a Socrate fu offerta la
possibilità di fuggire dal carcere e da Atene, ma rifiutò di farlo sostenendo che, in una
democrazia, anche se alcune leggi sono ingiuste, bisogna ugualmente rispettarle dal
momento che ognuno è responsabile o di averle lasciate approvare o di non essersi
impegnato perché fossero abrogate.
Socrate morì così nel 399 bevendo una tisana di cicuta, un’erba velenosa che provoca una
morte lenta, e dialogando di filosofia fino all’ultimo con i suoi discepoli più fedeli.
Non lasciò opere scritte. Egli infatti concepì e praticò il suo insegnamento filosofico
unicamente come dialogo orale, rifiutandosi quindi di metterlo per scritto. Conosciamo,
dunque, il suo pensiero solo indirettamente, grazie alle testimonianze di altri filosofi e
intellettuali, soprattutto di Platone e Senofonte, suoi discepoli.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma il pensiero di Socrate ebbe moltissimi e differenti seguaci. La tradizione storiografica li
ha divisi in un “socratico maggiore”, cioè Platone, e in una miriade di “socratici minori”
suddivisi a loro volta in tre scuole:
 la scuola megarica (nella polis di Megara, in Attica), comprendente Euclide di Megara,
Eubulide, Stilpone, Diodoro Crono, di indirizzo soprattutto logico-gnoseologico, che
scoprì e valorizzò i paradossi logici (p.e. “Epimenide il cretese afferma: ‘Tutti i cretesi
mentono’ ”) evidenziando i limiti della conoscenza razionale;
 la scuola cirenaica (a Cirene, polis greca sulle coste dell’attuale Libia), fondata da
Aristippo, che sosteneva un’etica del piacere controllato e dell’adattamento positivo a
tutte le situazioni;
 la scuola cinica (nata nel ginnasio ateniese chiamato “Cinosarge”, cioè “cane agile”)
fondata da Antistene e resa celebre da Diogene di Sinope, che proponeva un’etica della
libertà basata su uno stile di vita naturale, alla maniera degli animali.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
SOCRATE: LA RAZIONALITA’ E’ DIALOGO ARGOMENTATIVO
Io vado esaminando […] me stesso per vedere se non si dia il caso che io sia
una qualche bestia assai intricata e pervasa di brame più di Tifone, o se,
invece, sia un essere più mansueto e più semplice, partecipe per natura di una
sorte divina e senza fumosa arroganza.
Platone, Fedro, 230 A, a cura di G. Reale, Rusconi 1991
SOCRATE - Allora, o Lachète, cominceremo a definire il coraggio; dopo di che
indagheremo in che modo possa rendersi presente nei giovani, per quanto è
possibile, attraverso l’esercizio e lo studio. Ma provati a dire che cos’è il
coraggio.
LACHETE – Per Zeus, o Socrate, non è difficile rispondere: chi, durante la
battaglia, mantenendo la propria posizione, si difende dai nemici e non si dà
alla fuga, questo è un uomo dotato di coraggio.
SOCRATE – Dici bene, o Lachete, ma forse è colpa mia, del non essermi
espresso con chiarezza, se tu hai risposto non a ciò che io avevo in mente,
mentre ti interrogavo, ma a altro.
LACHETE – Come puoi dire questo, o Socrate?
SOCRATE – Te lo spiegherò se mi riesce. [191 A] Certamente ha del coraggio
quest’uomo di cui parli e che, conservando la propria posizione, combatte
contro i nemici.
LACHETE – Per l’appunto!
SOCRATE – Sono d’accordo; ma quello che, al contrario, non resta a piè
fermo al proprio posto, ma combatte il proprio nemico indietreggiando?
LACHETE – Come sarebbe indietreggiando?
SOCRATE – Ma sì, come gli Sciiti che si dice sappiano combattere nella fuga
non meno che nell’inseguimento; anche Omero, celebrando i cavalli di Enea
ugualmente veloci di qua e di là, disse che sapevano tanto inseguire quanto
fuggire, e, per il medesimo motivo, lodò Enea stesso, per la sua abilità a
fuggire e lo definì maestro nella fuga. [B]
LACHETE – E fece bene, o Socrate! E infatti parlava di carri; tu parli dei
cavalieri Sciiti: la loro cavalleria combatte proprio così, mentre la fanteria
greca, come dico io.
SOCRATE – Tranne forse quella dei Lacedemoni, o Lachete. Dicono infatti che
a Platea i Lacedemoni, quando si trovarono di fronte i gerrofori persiani [C]
non vollero combattere da fermi, ma indietreggiarono e, dopo che le schiere
persiane si sciolsero, ritornati sui loro passi combatterono come fa la
cavalleria e, in questo modo, vinsero.
LACHETE – E’ vero.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
SOCRATE – Come dunque dicevo poco fa, se tu non hai risposto esattamente,
la colpa è mia, poiché non ti ho posto in modo corretto la domanda; infatti
volevo sapere da te non solamente chi fosse coraggioso nella fanteria, ma
anche nella cavalleria [D] e in ogni genere di combattimento e non mi riferivo
solamente a chi lo fosse in guerra, ma anche nell’affrontare i pericoli per
mare e le malattie e la povertà ed i problemi politici, e ancora non solamente a
chi è coraggioso davanti al dolore e alla paura, ma anche alle passioni, ai
piaceri, sia restando fermo che volgendosi in fuga; ci sono infatti anche dei
coraggiosi in tal senso, o Lachete. [E]
LACHETE – E molto coraggiosi, o Socrate.
[…] [192 A, B]
SOCRATE – Allora provati anche tu, o Lachete, a fare lo stesso a proposito del
coraggio e a dire cos’è questa facoltà che si esercita nel piacere, nel dolore e in
tutte le circostanze in cui l’abbiamo riconosciuta presente e a cui diamo
questo nome.
LACHETE – Mi pare che, se vogliamo parlare in generale della natura del
coraggio, in tutte queste circostanze, [C] esso sia una sorta di forza d’animo.
SOCRATE – Ma bisogna, se vogliamo rispondere al nostro interrogativo; ho
l’impressione, però, che, per te, non ogni tipo di forza d’animo sia coraggio e
lo deduco dal fatto di sapere che tu, o Lachete, annoveri il coraggio tra le
realtà molto belle.
LACHETE – Sta’ pur certo che è tra le più belle.
SOCRATE – Ma la forza non è bella e buona quando è accompagnata dal
senno?
LACHETE – Certo.
SOCRATE – E quando invece ne è priva? Non è forse, al contrario, malvagia e
dannosa? [D]
LACHETE – Sì.
SOCRATE – Dirai allora che è bello ciò che è malvagio e dannoso?
LACHETE – Non sarebbe giusto, o Socrate.
SOCRATE – Non potrai certo chiamare coraggio questa forza che non è bella,
mentre il coraggio lo è.
LACHETE – Vero.
SOCRATE – In base a quanto hai detto, dunque, il coraggio sarebbe una forza
illuminata dall’intelligenza.
LACHETE – Così pare.
[…]
Platone, Lachete, 190 E-192 D, a cura di G. Reale, Rusconi 1991
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La domanda chiave da cui scaturisce la filosofia socratica è: “Chi è l’uomo?”. Si tratta di
una domanda che ne sintetizza molte altre: qual è l’identità propria dell’essere umano?
Qual è la proprietà che lo contraddistingue da ogni altro essere? Che poteri possiede
l’uomo? I suoi poteri sono illimitati o limitati?
La risposta fondamentale di Socrate è che la proprietà peculiare dell’uomo – il suo
principio identitario – è la sua psychè. Con questo termine, il cui significato letterale è
“fiato” o “respiro”, i filosofi precedenti avevano chiamato il principio della vita umana e in
taluni casi, al tempo stesso, quella parte del principio del cosmo (Soffio o Fuoco-Logos o
Intelligenza) che è presente nell’uomo e coincide con la sua intelligenza. In modo almeno
parzialmente nuovo e originale Socrate afferma che la psychè è la capacità, propria solo
dell’uomo:
a) di conoscere le virtù, cioè i principi e le regole di comportamento che permettono di
vivere nel modo migliore;
b) di praticare le virtù, cioè di vivere effettivamente secondo quei criteri in modo da
raggiungere la felicità.
In questo senso possiamo dire che la psychè, per Socrate, è la coscienza morale razionale:
• coscienza perché propria di ogni individuo e coincidente con la consapevolezza della
propria identità individuale;
• morale, perché ha come scopo finale il miglior comportamento pratico;
• razionale, perché possiede la facoltà di ricercare e conoscere, seppur parzialmente, le
virtù universali, cioè valide per tutti gli uomini.
Per Socrate la razionalità umana consiste nell’uso di un metodo argomentativo particolare
da lui battezzato “maieutica”, che letteralmente significa “ostetrìcia”, cioè “arte del far
partorire”, ma che Socrate usa nel significato translato di “arte di far pensare o ragionare”,
ovvero di indurre ogni uomo a ricercare in prima persona la verità. Dal punto di vista
logico-argomentativo, la maieutica socratica è uno sviluppo e una rielaborazione originale
dell’argomentazione dialettica. Infatti, come la dialettica mira a individuare le tesi false e a
confutarle attraverso la loro riduzione all’assurdo.
Diversamente dalla dialettica, però, non è un “monologo”, cioè un’argomentazione
individuale, ma un “dialogo”, cioè un’argomentazione collettiva, frutto dell’interazione dei
ragionamenti di due o più individui. Proprio perché dialogica, la maieutica utilizza la
“brachilogia”, cioè la tecnica, per così dire, del “botta-e-risposta”. In altre parole perché si
possa dialogare dialetticamente i dialoganti sono tenuti a fare interventi brevi e circoscritti
a un unico aspetto del problema in discussione, per evitare la dispersione e garantire
l’efficacia conoscitiva.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il punto di partenza della maieutica è l’individuazione di un problema, cioè dell’oggetto
della ricerca conoscitiva. Essa consiste nell’usare una formula interrogativa all’apparenza
elementare, o addirittura banale: “che cos’è… ?”. Questa formula viene applicata da Socrate
a diverse virtù – il coraggio, la giustizia, la pietà, l’amicizia, l’amore – dal momento che lo
scopo della conoscenza è per lui pratico-morale.
Un esempio ne è la domanda: “che cos’è il coraggio?”. Apparentemente semplice, o perfino
banale, questa domanda comporta in realtà una ricerca profonda e difficile. Con essa,
infatti, Socrate propone a sé e ai suoi interlocutori l’arduo obiettivo conoscitivo di scoprire
ed enunciare il criterio universale – cioè valido per tutti gli uomini in tutti i luoghi e i tempi
– in base al quale è possibile stabilire con certezza se un’azione è coraggiosa o no.
Utilizzando un termine coniato non da Socrate ma dai filosofi successivi, e da noi
comunemente usato, si può dire che Socrate cerca il “concetto” di coraggio (e delle altre
virtù), cioè le proprietà comuni e quindi fondamentali di tutti i possibili comportamenti
coraggiosi. Insomma, il “che cos’è… ?” socratico implica un notevole e complesso impegno
intellettivo di generalizzazione e astrazione rispetto all’esperienza immediata. Il suo scopo
pratico finale è però evidente: solo sapendo cos’è davvero una virtù è possibile essere certi
di comportarsi moralmente, cioè nel migliore dei modi, in ogni situazione e circostanza.
Dopo aver posto la fatidica domanda, Socrate lascia la parola ai suoi interlocutori. Poiché
questi sono per lo più uomini di successo che si considerano “sapienti”, essi rispondono
prontamente e con sicurezza, sottovalutando il significato della domanda socratica e
sopravvalutando il valore conoscitivo della loro risposta. In una parola, presumono di
sapere mentre in realtà non conoscono l’essenziale. Contro questa presunzione Socrate usa
innanzitutto l’ironia (in greco, “finzione”, “dissimulazione”), elogiando l’apparente
sapienza dei suoi interlocutori e dichiarandosi ignorante e inferiore rispetto a loro.
L’ironia socratica è sicuramente una tattica argomentativa finalizzata a spiazzare gli
avversari. Ma essa esprime anche una decisiva tesi filosofica di Socrate, il “sapere di non
sapere”, cioè la convinzione che la più alta sapienza di un uomo sia la consapevolezza che
la propria conoscenza è sempre limitata e che pertanto bisogna sempre essere disponibili a
un’ulteriore ricerca conoscitiva.
Una volta disorientato l’interlocutore con l’ironia, Socrate passa alla “confutazione”, cioè
falsifica la tesi altrui dimostrando che essa implica conseguenze logiche assurde. Ma la sua
tecnica confutativa è pur sempre maieutica e brachilogica, cioè consiste nel porre delle
domande in modo tale che sia lo stesso interlocutore, rispondendo, ad autoconfutarsi e a
giungere così ad ammettere a se stesso e a Socrate di essere ignorante.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
A questo punto per Socrate può iniziare la parte costruttiva della maiuetica, cioè la ricerca
della vera risposta alla domanda iniziale: “che cos’è… ?”. Il metodo non cambia: con
domande o brevi interventi di correzione (brachilogia), Socrate induce (maieutica) il suo
interlocutore ad argomentare in modo sempre più coerente e stringente, avvicinandolo alla
comprensione del concetto della virtù oggetto della ricerca. Per esempio, nel caso del
coraggio, si passa dalla sua prima definizione come “capacità di non indietreggiare di
fronte al nemico”, a quella di “forza d’animo”, a quella di “scienza delle cose da temere e da
osare”, infine a quella di “conoscenza dei beni e dei mali”.
Eppure la conclusione del dialogo è negativa: Socrate afferma che anche la migliore delle
definizioni elaborate non raggiunge l’obiettivo, cioè non riesce a rispondere pienamente
alla domanda “che cos’è il coraggio?”. Ciò vale anche per i dialoghi intorno alle altre virtù.
Perché? A cosa serve allora lo sforzo di ricerca se l’obiettivo rimane irraggiungibile? La
risposta è duplice. In primo luogo, secondo Socrate, ogni individuo deve arrivare
autonomamente alla verità, seppur dialogando con altri. In questo senso Socrate ritiene
che il suo compito sia solo quello di avviare e di instradare il processo di ricerca, non quello
di portarlo a termine. In secondo luogo, poiché la conoscenza umana, a differenza di quella
divina, è per principio limitata, lo scopo della ricerca conoscitiva umana, e dunque della
maieutica, non può essere la conquista completa e definitiva della verità, ma solo il sempre
maggiore avvicinamento a essa.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
SOCRATE: VIVE BENE SOLO CHI SA
Diceva che la giustizia e ogni altra virtù era sapienza. Ogni cosa giusta e ogni
altra forma di attività fondata sulla virtù erano, a suo parere, belle e buone:
chi conosce il bello e il buono niente può preferirgli; invece, chi non lo
conosce, non può farlo, e se lo tenta, sbaglia: dunque, chi sa compie cose belle
e buone, chi non sa non può compierle, ma se vi mette mano sbaglia. E poiché
le cose giuste e tutte le altre, belle e buone, si realizzano mediante la virtù, è
chiaro che la giustizia e ogni virtù sono scienza.
Senofonte, Memorabili, III, 9, trad. di R. Laurenti, Laterza
Una volta Antifonte, volendo portargli via i compagni, avvicinatosi a Socrate
mentre essi erano presenti, gli disse queste cose: “O Socrate, io pensavo che
quelli che si dedicano alla filosofia dovessero diventare più felici; ma mi
sembra che tu abbia ottenuto il contrario dalla filosofia. Tu davvero hai un
tenore di vita che neppure uno schiavo tenuto a regime dal padrone potrebbe
sopportare; mangi cibi e bevi bevande modestissimi, ed indossi una veste non
solo da poco, ma la stessa d’estate e d’inverno, e vivi scalzo e senza chitone. E
per di più non accetti denaro, che rallegra coloro che lo acquistano e rende la
vita più libera e più piacevole a coloro che lo possiedono. Se dunque, come
appunto i maestri delle altre discipline rendono i discepoli loro imitatori, così
anche tu farai diventare i tuoi compagni simili a te, sappi che sei un maestro
di infelicità”.
E Socrate in risposta: […] “Mi sembra, o Antifonte, che la felicità consista,
secondo te, nella dissolutezza e nel lusso: io, invece, pensavo che non aver
bisogno di niente è divino, di pochissimo è vicino al divino: ora il divino è la
perfezione stessa e quel che è più vicino al divino è più vicino alle perfezione”.
Senofonte, Memorabili, I, 6
Io vado intorno facendo nient’altro che cercare di persuadere voi, e più
giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle
ricchezze né di alcuna altra cosa prima e con maggiore impegno che della
psyché in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non
nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli
altri beni per gli uomini, e in privato e in pubblico.
Platone, Apologia di Socrate, 30 A-B, a cura di G. Reale, Rusconi
[Socrate] non poneva confini fra sapienza e saggezza, ma riteneva sapiente e
saggio chi, conoscendo le cose belle e buone, sapesse usarne, conoscendo le
brutte, sapesse guardarsene. Interrogato se reputasse sapienti e moralmente
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deboli quelli che, pur sapendo quel che devono fare, facevano l’opposto,
rispose: “No, non più che insipienti e moralmente deboli. Io credo che tutti gli
uomini scelgono con ogni mezzo possibile quel che più giova ai loro interessi e
questo compiono. E penso che quelli che seguono una strada sbagliata non
sono né sapienti né saggi”. Diceva che la giustizia e ogni altra virtù era
sapienza. Ogni cosa giusta e ogni altra forma di attività fondata sulla virtù
erano, a suo parere, belle e buone: chi conosce il bello e il buono niente può
preferirgli; invece, chi non lo conosce, non può farlo, e se lo tenta, sbaglia:
dunque, chi sa, compie cose belle e buone, chi non sa, non può compierle, ma
se vi mette mano, sbaglia. E poiché le cose giuste e tutte le altre, belle e buone,
si realizzano mediante la virtù, è chiaro che la giustizia e ogni virtù sono
scienza.
Senofonte, Memorabili, III, 9, 4 sgg.
L’obiettivo ultimo della ricerca filosofica, secondo Socrate, è di tipo squisitamente praticomorale, cioè è l’attuazione della migliore condotta di vita. Tale obiettivo è sintetizzato da
Socrate in una sola parola: virtù. In greco antico “virtù” (areté) significava “qualità
distintiva”, ovvero indicava quella proprietà o capacità per cui qualcosa o qualcuno eccelle.
In questo senso i Greci potevano dire che il volo era la virtù degli uccelli oppure che l’arte
militare era la virtù degli spartani o ancora che l’inossidabilità era la virtù dell’oro.
Riferendosi alla specie umana, Socrate parla di una pluralità di virtù, quali il coraggio,
l’amicizia, l’amore, la giustizia, l’onestà, ecc. Ma tutte queste virtù, per lui, altro non sono
che aspetti particolari di un’unica virtù: l’intelligenza o razionalità. Infatti onestà, coraggio,
amicizia, ecc. altro non indicano che il comportamento più razionale che ogni uomo deve
seguire in relazione a un determinato aspetto o circostanza della vita. P.e., l’onestà è il
comportamento razionale nei rapporti economici, il coraggio il comportamento razionale
di fronte a un pericolo, ecc. Di conseguenza, Socrate può affermare che la virtù dell’uomo,
cioè la capacità per cui eccelle e si distingue da ogni altro essere, consiste appunto nell’uso
della sua razionalità, o intelligenza, ovvero nella scienza intesa come conoscenza praticomorale rigorosa e fondata. Infatti è grazie alla scienza che è possibile individuare e
praticare un comportamento razionale per ogni aspetto della vita, cioè le diverse virtù.
Ma in cosa consiste per Socrate la “razionalità” morale? Qual è per lui il comportamento
virtuoso? Come si fa a stabilirlo? In sintonia con la natura dialogica e aperta del suo modo
di concepire e di praticare la filosofia, Socrate non dà una una risposta sistematica e
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
compiuta a queste domande, ma si limita a offrire degli spunti, degli indizi. In particolare
dalle testimonianze sui suoi dialoghi è possibile ricavare quattro criteri fondamentali:
1) l’utilità, intesa però soprattutto come utilità interiore, cioè come conservazione e
potenziamento della propria intelligenza, dal momento che, per Socrate, l’essenza
dell’uomo è la sua psiché, cioè la sua coscienza razionale;
2) l’autocontrollo, inteso come la condizione in cui la coscienza razionale governa i
movimenti, le pulsioni istintive, i desideri e le emozioni del corpo;
3) l’ “autarchia”, intesa come la condizione di autosufficienza di ogni individuo che gli
permette di essere autonomo e libero, cioè di non dipendere da niente e da nessuno;
4) la felicità, intesa come la condizione di benessere esteriore e interiore derivante
dall’applicazione dei tre criteri precedenti e consistente nel vivere dando il maggior
spazio possibile all’uso dell’intelligenza, cioè dedicando la maggior parte del proprio
tempo alla ricerca conoscitiva che si svolge attraverso il dialogo filosofico.
Sulla base di questi criteri, la morale razionale di Socrate si caratterizza innanzitutto per la
sua contrapposizione alla morale comune basata sulle usanze e le abitudini. In questo
senso la razionalità morale di Socrate si propone come antitesi e insieme alternativa della
morale tradizionale: essa è cioè una morale elaborata in prima persona e liberamente
scelta anziché passivamente appresa e rispettata per conformismo e convenienza sociale.
L’antitradizionalismo della morale socratica si traduce nella preminenza dei valori interiori
– cioè quelli legati all’esercizio dell’intelligenza – sui valori fisici e materiali. Questo
significa, per esempio, che la riflessività mentale è superiore, per Socrate, all’agilità fisica.
Ma questo significa anche, e in particolare modo, che la ricchezza, la gloria, il successo, la
forza, la bellezza, ecc., di per sé non possono essere considerati valori o beni ma devono
anzi essere giudicati potenziali disvalori e mali. Infatti, se non sono usati con intelligenza
essi sono dannosi per l’individuo, lo rendono schiavo dei propri impulsi, degli oggetti
materiali e degli altri, gli procurano solo infelicità. Insomma, i beni materiali sono tali solo
se usati con intelligenza, cioè se subordinati ai valori intellettivi.
Porre il problema del rapporto coi beni materiali comporta affrontare la questione della
positività o della negatività del piacere, inteso nel suo senso comune, cioè come godimento
fisico. In altri termini: il mezzo principale per raggiungere e conservare la felicità è il
piacere? È dunque il piacere il criterio per stabilire se un’azione è buona, cioè moralmente
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razionale, o cattiva, cioè moralmente irrazionale? La risposta di Socrate a queste domande
è negativa. Socrate infatti afferma a chiare lettere il primato del piacere intellettivo – cioè
del godimento mentale prodotto dal dialogo conoscitivo – rispetto al piacere fisico.
D’altra parte Socrate non afferma nemmeno che il piacere fisico va totalmente rifiutato
sempre e comunque, cioè non propone una morale di tipo ascetico. Tanto è vero che le
testimonianze biografiche ce lo descrivono mentre partecipa a cene conviviali nel corso
delle quali il dialogo filosofico si abbina al piacere dei buoni cibi e delle buone bevande,
nonché dello scherzo, del riso e più in generale della buona e allegra compagnia. Il punto è
che per Socrate il piacere fisico deve essere funzionale a quello intellettuale, cioè deve
essere goduto quanto basta a rendere possibile e a stimolare la ricerca conoscitiva.
Da quanto si è detto emerge una concezione circolare della razionalità. Infatti, da un lato
Socrate pensa che la razionalità abbia un senso eminentemente pratico-morale, cioè
consista nella ricerca conoscitiva del modo migliore di comportarsi. Dall’altro lato, Socrate
ritiene che il comportamento migliore, quello più utile e più felice, sia praticare la
razionalità come ricerca conoscitiva. Si tratta tuttavia, più che mai, di un circolo virtuoso,
in quanto le due tesi si sostengono e si rafforzano a vicenda: i comportamenti migliori sono
quelli razionalmente fondati proprio perché il modo migliore di vivere, e dunque il fine
principale della vita, è la ricerca razionale. E viceversa.
Il primato socratico della razionalità trova la sua glorificazione in un corollario del teorema
socratico dell’uguaglianza virtù=scienza, ovvero moralità=razionalità: per comportarsi
bene non è solo necessario ma è anche sufficiente conoscere il vero bene e dunque per
comportarsi male è sufficiente ignorare qual è il vero bene. In parole semplici, il buono è il
sapiente, il malvagio è l’ignorante. Dunque il male umano è una conseguenza
dell’ignoranza e per eliminarlo basta eliminare l’ignoranza, cioè diffondere la conoscenza
razionale.
La morale razionale di Socrate, in quanto antitradizionale, è potenzialmente in conflitto
con le leggi dello Stato, che sempre in misura maggiore o minore sono influenzate dalle
usanze tradizionali di un popolo. In questo senso Socrate, pur evitando intenzionalmente
l’impegno politico, nell’ambito della sua ricerca conoscitiva collettiva critica
implicitamente e a volte esplicitamente le leggi e le decisioni dello Stato. Addirittura
sostiene che un uomo giusto deve astenersi dalla politica attiva perché altrimenti in breve
tempo, proprio in quanto giusto, sarebbe ucciso senza così poter giovare in alcun modo alla
società.
Socrate però sostiene anche che, in uno Stato democratico, il rifiuto di rispettare leggi e
decisioni sbagliate non deve comportare la trasgressione della legalità statale, in quanto in
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
uno Stato democratico, e solo in esso, la responsabilità delle leggi è sempre collettiva.
Pertanto, in democrazia, non solo non si deve ricorrere alla violenza rivoluzionaria per
cambiare le leggi ma addirittura bisogna accettare le pene inflitte in base a leggi o sentenze
ingiuste, perfino in caso di condanna a morte. In questo senso Socrate può legittimamente
essere considerato il primo teorico (almeno occidentale) della disubbidienza civile e della
non-violenza come unici metodi legittimi ed efficaci di lotta politica per il radicale, ma
necessariamente graduale, miglioramento dello Stato.
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TAPPA 3
SOCRATE: DIO E’ RAZIONALITA’, L’UOMO IL FINE DEL COSMO
E tu credi di avere un po’ d’intelligenza?
Interroga e risponderò.
E ritieni che altrove non esista affatto l’intelligenza, soprattutto
considerando che nel tuo corpo hai una piccola parte di terra, che pur è
tanta, un’esigua parte d’acqua, che pur è tanta, e che il tuo corpo è stato
messo insieme da qualcuno che ha preso dalla grande massa degli
elementi una piccola parte di ciascuno? Se l’intelligenza non esistesse
affatto, come puoi pensare che solo tu, per un caso fortunato, te la sei
portata via, e che questi elementi, infiniti di numero e immensamente
grandi, sono stati sistemati in bell’ordine, a quanto supponi, da una
forza non intelligente?
- Già, per Zeus, perché non vedo chi ne ha il potere, come vedo chi
produce le cose quaggìù.
- Ma nemmeno l’anima [psyché] tua vedi che ha il potere sul corpo,
sicché, secondo il tuo ragionamento, puoi affermare di non compiere
niente con la riflessione, ma tutto a caso.
[…]
- E non è bastato a Dio di prendersi cura del corpo, ma, ciò che è più
grande ancora, ha immesso nell’uomo un’anima [p s y c h é ] di
meravigliosa potenza. C’è altra creatura la cui anima avverta l’esistenza
degli dei che hanno disposto cose tanto grandi e tanto belle? Quale altra
razza se non quella degli uomini venera gli dei? Quale anima, più
dell’umana, è capace di evitare la fame o la sete, il freddo o il caldo, di
curare i mali, di mantenere la salute, di sforzarsi ad apprendere, o è
capace, infine, di ricordare quanto ha udito, visto, imparato? Non ti par
chiaro che, rispetto agli altri animali, gli uomini vivono come dei,
disposti da natura a dominare con il corpo e l’anima?
[…]
- Rifletti, o caro, continuò, che l’intelligenza ch’è in te governa il tuo corpo
a suo piacere. Conviene quindi credere che pure la sapienza che sta
nell’universo dispone le cose come le aggrada, e non che la tua vista
possa distendersi per molti stadi, l’occhio di Dio, invece, sia incapace a
scorgere tutto insieme, non che l’anima tua riesca a pensare alle cose di
qui, a quelle d’Egitto e di Sicilia, la sapienza di Dio, invece, non sia in
grado di prendersi contemporaneamente cura di tutto […].
Senofonte, Memorabili, I, 4
-
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Dimmi, gli chiese, o Eutidemo, t’è mai accaduto di pensare con quanta
premura gli dei hanno preparato agli uomini il necessario?
- Mai, per Zeus, rispose quello.
- Eppure, sai che la nostra prima e fondamentale necessità è la luce che
gli dei ci concedono?
- Certo: e se non l’avessimo saremmo simili a ciechi con tutti i nostri
occhi.
- Abbiamo anche bisogno di riposo: ed essi ci offrono la notte come
ristoro dolcissimo.
- Anche di questo s’ha da essere grati, e molto.
- Inoltre, il sole col suo splendore illumina le varie ore del giorno e tutte
le altre cose, mentre la notte con le sue tenebre è scura; e allora non
fanno essi brillare le stelle, che ci rischiarano le ore della notte, e ci
permettono di compiere molte operazioni, per noi indispensabili?
- E’ così, disse.
- E la luna, poi, ci fa conoscere non solo le parti della notte, ma anche del
mese.
- Senz’altro.
- E siccome abbiamo bisogno di cibo, il farcelo crescere dal suolo e il
darci stagioni adatte a procurarci in grande quantità ogni specie di cose
non solo necessarie, ma anche dilettevoli?
[…]
- Anche questo è una prova segnalata d’amore per gli uomini.
- E che il sole dopo la rivoluzione invernale avanzi maturando certi
prodotti e seccandone altri, di cui è passato il tempo, e, fatto ciò, non
continui più ad accostarsi ma torni indietro, badando a non rovinarci
con un calore eccessivo, e, quando poi, allontanandosi, ha raggiunto il
punto che, se andasse più lontano, ci rattrappiremmo indubbiamente
tutti pel gelo, compia una nuova conversione e cominci ad avvicinarsi e
si volga in quella parte del cielo in cui, più che in altra, possa esserci
utile?
[…]
- Io, disse Eutidemo, mi sto già chiedendo se gli Dei non abbiano nessuna
occupazione fuorché la cura degli uomini: unico ostacolo è che pure gli
altri animali partecipano di questi beni.
E non è chiaro, riprese Socrate, che anch’essi esistono e crescono per
l’uomo? C’è una creatura che, quanto l’uomo, trae profitto dalle capre,
dalle pecore, dai buoi, dai cavalli, dagli asini e dagli altri animali? […]
Senofonte, Memorabili, IV, 3
-
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Socrate è un credente, ovvero un assertore dell’esistenza degli dei. Non solo, ma la sua
stessa filosofia è nutrita da un’ispirazione dichiaratamente religiosa. Tuttavia Socrate
propone e propugna una concezione del divino radicalmente diversa e innovativa rispetto a
quella della tradizione politeistica greca. Riprendendo e sviluppando le tesi di Senofane8,
Socrate critica e rigetta innanzitutto la visione volgarmente antropomorfica degli dei,
quella cioè che attribuiva loro le fattezze fisiche e insieme le passioni e i vizi tipici di ogni
uomo, per esempio l’ira, l’invidia, la dissolutezza alimentare e sessuale, ecc. Per Socrate gli
dei non hanno aspetto umano e più in generale non sono “sensibili”, cioè non possono
essere oggetto dei nostri sensi, insomma non si possono vedere, toccare, udire.
In questa prospettiva, Socrate si impegna nella confutazione dell’obiezione
tradizionalistica secondo cui ciò che non ha concretezza fisica non può essere creduto
perché non esiste o perlomeno non si può provare che esista. A tal fine egli argomenta che
il Sole non si lascia guardare bene e anzi abbaglia chi osa insistere a guardarlo, che il
fulmine non si vede prima e dopo la sua fugace apparizione e che il vento si manifesta
senza farsi vedere. Oltre a sostenere questi argomenti analogici, che hanno più che altro
una funzione esemplificativa e preparatoria, Socrate soprattutto argomenta che anche
l’intelligenza umana non si vede né si tocca, eppure esiste perché governa e muove il corpo.
Allo stesso modo, afferma Socrate, l’intelligenza divina, pur invisibile e intoccabile,
governa l’universo.
Ma gli dei, secondo Socrate, differiscono dalla loro immagine popolare non solo e tanto
perché sono del tutto immateriali ma anche e soprattutto perché sono razionali e morali.
L’intelligenza, infatti, è la proprietà fondamentale del divino e ciò comporta che gli dei
posseggano capacità e conoscenze razionali in sommo grado. Dal momento che la
conoscenza per Socrate coincide con la virtù, in quanto sommamente razionali gli dei sul
piano pratico sono anche sommamente morali.
Dunque, anche da questo punto di vista, gli dei non sono come gli uomini, ma sono loro
superiori sia a livello teorico sia a livello comportamentale. Di qui la concezione critica
dell’uomo propria di Socrate: in quanto non è un dio, l’uomo è strutturalmente limitato e
fallibile. Di conseguenza la più alta conoscenza umana è “sapere di non sapere”. Ovvero
l’autoconsapevolezza critica, cioè appunto la coscienza dei limiti delle proprie capacità
conoscitive, ossia la consapevolezza della propria fallibilità.
8
Filosofo vissuto tra il 570 e il 475 ca. a.C., nato nella Ionia ma emigrato a Elea, nella Magna Grecia. Criticò per primo
la concezione antropomorfica degli dei propria della tradizione religiosa greca.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Socrate, inoltre, concepisce la divinità in modo parzialmente monoteistico. Infatti, mentre
per la religione greca tradizionale ogni dio rappresenta una potenza a sé stante e di pari
dignità e Zeus è soltanto, per così dire, un primus inter pares, per Socrate, il divino è
innanzitutto e fondamentalmente un’ “intelligenza ordinatrice” unica.
Tuttavia l’Intelligenza divina, secondo Socrate, si articola in molteplici e diverse potenze
razionali che, pur essendo manifestazioni di un unico intelletto, posseggono una loro
autonomia e pertanto si possono rappresentare come singoli e particolari dei. Socrate
dunque rifiuta il politeismo tradizionale, ma non teorizza un monoteismo assoluto bensì
un monoteismo parziale, relativo. In altre parole, per lui il Divino non è un’unica persona
ma una collettività di persone, ovvero un insieme unitario di principi e forze razionali, però
complementari, coordinati e convergenti, in quanto manifestazioni e aspetti di una mente
razionale unitaria.
Ma forse l’aspetto più rivoluzionario della speculazione teologica di Socrate è costituito
dalla sua argomentazione dell’esistenza di Dio. Essa è così schematizzabile:
1. Tutto ciò che mostra in modo evidente un ordine – cioè un’organizzazione delle sue
parti finalizzata al raggiungimento di uno scopo – non può essere il prodotto del caso
ma deve essere il prodotto di un’intelligenza ordinatrice che l’ha progettato e
realizzato intenzionalmente e razionalmente. Per esempio, una sedia non può essersi
prodotta casualmente, ma è il risultato del lavoro di un falegname che l’ha costruita
allo scopo di far sedere comodamente qualcuno.
2. Il corpo umano mostra un ordine evidente dato dalla mirabile interazione di tutti i
suoi organi finalizzata alla sua vita.
3. Il corpo umano non può che essere il prodotto di un’intelligenza superiore a quella
umana, ovvero dell’Intelligenza divina.
4. Dunque Dio deve esistere, altrimenti non potrebbe esistere l’uomo.
Il carattere rivoluzionario dell’argomentazione di Socrate consiste nel suo fare perno
sull’uomo. In altri termini, l’esistenza di Dio è fondata da Socrate sulla centralità dell’uomo
nel cosmo che a sua volta trova nell’esistenza di Dio la sua legittimazione. Socrate, infatti,
in aggiunta alla precedente argomentazione antropologica, adduce un’ulteriore
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
argomentazione cosmologica che fa leva sull’ordine di tutta la natura e in questa
prospettiva arriva a concludere che Dio ha prodotto e governa il cosmo per permettere
all’uomo di vivere nel modo migliore possibile.
Per esempio, argomenta Socrate facendo propria la teoria geocentrica del cosmo, il
movimento del Sole intorno alla Terra produce un’alternanza di freddo e caldo, evitando
eccessi dell’uno e dell’altro e offrendo così all’uomo le migliori condizioni ambientali. In
questo modo, Socrate, da un lato, introduce l’idea che Dio abbia una particolare attenzione
per l’uomo e, dall’altro, che l’uomo sia l’essere naturale superiore a tutti gli altri e per
questo il fine ultimo del cosmo naturale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI E DI OGGI
SOCRATE E IL PRINCIPIO ANTROPICO
Lo sviluppo della ricerca scientifica nel ‘900, in particolare nell’ambito astrofisico, ha
posto gli scienziati di fronte a una serie di dati sperimentali che attestano che l’esistenza
della vita sul nostro pianeta, e ancor più di un essere intelligente quale l’uomo, è l’effetto
di condizioni originarie estremamente restrittive, cioè di una gamma di coincidenze
altissimamente improbabili nelle proprietà fondamentali della materia e di equilibri di
improbabilissima precisione tra le forze fisiche fondamentali. Per esempio, mentre
l’universo potrebbe in linea di principio avere una durata molto inferiore, esso ha
raggiunto e superato la dimensione spaziotemporale di 10 miliardi di anni luce, ovvero la
soglia minima necessaria alla produzione stellare del carbonio, elemento-base della vita
terrestre; ancora, la massa del corpo umano è la media geometrica tra la massa di un
pianeta e una massa atomica, la massa di un pianeta la media geometrica tra la massa
atomica e la massa dell’universo ed entrambe queste coincidenze sono effetti dei valori
matematici delle interazioni gravitazionale ed elettromagnetica; inoltre se le intensità
relative di energia nucleare forte ed energia elettromagnetica fossero anche
minimamente maggiori o minori la loro interazione renderebbe impossibile la
formazione di atomi di carbonio e dunque della vita.
In base a queste e a molte altre evidenze, alcuni scienziati contemporanei di chiara fama
hanno teorizzato il “principio antropico”. Nella sua versione “debole” (PAD) esso
stabilisce che l’eccezionalità dei dati osservativi astrofisici è relativa al fatto che
l’universo abbia prodotto casualmente una forma intelligente di vita capace di
rendersene conto. Nella sua versione “forte” (PAF) sostiene che l’universo deve possedere
proprietà originarie che producano la vita intelligente, ovvero che l’universo è
“progettato” al fine di generare “osservatori”.
Chi volesse approfondire, può leggere Barrow-Tipler: Il principio antropico, Adelphi
2002 (The Anthropic Cosmological Principle, 1986).
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LO SCRIGNO
JOHN D. BARROW-FRANK J. TIPLER: L’UNIVERSO E’ FATTO PER L’UOMO
Che cos’è l’uomo perché l’universo debba preoccuparsi di lui? I telescopi
portano fino a noi la luce di remote sorgenti quasi stellari vissute miliardi di
anni prima della comparsa della vita sulla Terra, prima ancora che vi fosse
una Terra. Le ceneri ancora calde della creazione ci sono note come
“radioattività naturale”. Un termometro e l’attuale abbondanza relativa degli
elementi leggeri ci svelano le correlazioni tra temperatura e densità esistenti
nei primi tre minuti dell’universo. La fisica delle particelle elementari ci
illumina su condizioni ancora più remote e ancora più estreme. In questa
prospettiva di materia e di campi di tale energia, di tali escursioni di
temperatura e pressione, di tali vastità di spazio e di tempo, che cosè l’uomo
se non un insignificante granello di polvere su un irrilevante pianeta in una
irrilevante galassia in una regione qualsiasi dell’immensità dello spazio?
E invece no, l’antico filosofo aveva ragione! Il significato è importante,
addirittura essenziale. Perché se da un lato l’uomo è adatto all’universo,
dall’altro l’universo è adatto all’uomo. Si immagini un universo in cui questa o
quella costante fondamentale differisse anche solo dell’un per cento dal
valore numerico osservato. Un tale ambiente non vedrebbe mai la nascita
dell’uomo. Questo è il significato del principio antropico. Secondo tale
principio, al centro del meccanismo e del progetto del cosmo c’è un fattore
capace di generare la vita.
John D. Barrow-Frank J. Tipler, Il principio antropico, Adelphi, 2002, pp.13-14
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
LA SCOPERTA
LA REALTA’ COME RAZIONALITA’ METAFISICA
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE
L’ETA’ DELLA DECADENZA GRECA (431-323 a.C.)
Nella seconda metà del V secolo a.C., liberata dalla paura dell’invasione persiana, Atene
trascorse il suo periodo di maggiore ricchezza economica e splendore culturale. Questo
periodo fu politicamente dominato da Pericle, leader carismatico del partito democratico.
In politica estera, Pericle attuò una sempre più radicale politica di espansione e
rafforzamento dell’egemonia ateniese, trasformando le poleis alleate della Lega delo-attica
in protettorati di Atene. In questo modo, Atene entrò in urto con Megara e Corinto, città
della Lega del Peloponneso facente capo a Sparta. Ne scaturì la trentennale guerra del
Peloponneso (431-404 a.C.), che fu al tempo stesso una guerra tra poleis e una guerra civile
all’interno delle poleis tra fazioni aristocratiche, favorevoli a Sparta, e fazioni
democratiche, favorevoli ad Atene. Morto Pericle nel 429, a causa della peste scoppiata
nell’Atene assediata, gli ateniesi persero una salda guida politica e il conflitto interno tra
democratici e aristocratici divampò indebolendo la loro azione bellica. Atene uscì così
sconfitta e devastata dalla guerra del Peloponneso, perdendo il suo impero e subendo un
drastico ridimensionamento del suo livello di benessere.
Una volta vinta Atene, fu Sparta ad esercitare l’egemonia sulla Grecia fino al 371 a.C.,
quando l’esercito spartano fu sconfitto da quello tebano nella battaglia di Leuttra.
L’egemonia tebana scalzò così quella spartana. Nel 362, però, nella battaglia di Mantinea, i
tebani, pur prevalendo su spartani e ateniesi alleati, persero il loro generale Epaminonda e
con lui l’egemonia. Indebolite dalle continue guerre e dalle permanenti rivalità, nel corso
della prima metà IV secolo tutte le poleis greche iniziarono a decadere, esponendosi
sempre più alla conquista da parte del regno macedone. Infatti, nel 358 Filippo II di
Macedonia riuscì a unificare tutta la sua regione, nel 352 conquistò la Tessaglia e nel 338 a
Cheronea sconfisse la lega ellenica e stabilì la sua egemonia sull’intera Grecia. Il figlio
Alessandro, detto il Grande, alla guida di un esercito greco-macedone, conquistò a sua
volta l’intero impero persiano, giungendo fino al fiume Indo, e in seguitò si impegnò nella
costruzione di un “impero universale” basato sulla fusione della cultura greca e di quella
mediorientale. La sua impresa, che almeno in parte si realizzò, fu interrotta dalla morte
improvvisa nel 323, in seguito alla quale il suo impero si divise in diversi regni.
La cultura greca risentì fortemente sia della guerra del Peloponneso sia della successiva
decadenza economico-politica delle poleis.
Nell’ambito dell’architettura e delle arti plastiche, il sintomo più emblematico degli effetti
prodotti dalla guerra furono la sospensione e in parte anche l’abbandono ad Atene del
programma pericleo di abbellimento monumentale della città. Tuttavia nel corso del
trentennio bellico, sull’Acropoli fu ancora costruito l’Eretteo, con la famosa loggia delle
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
cariatidi. A livello stilistico, l’arte postclassica fu caratterizzata da una sempre maggiore
tendenza manieristica alla rottura dell’equilibrio e della sobrietà classica a favore di
un’accentuazione del movimento, del dettaglio ornamentale (soprattutto nel panneggio) e
dei giochi di chiaroscuro e di scorcio. I più significativi scultori furono Timoteo (Leda con
il cigno), dallo stile fortemente espressivo; Prassitele (Afrodite Cnidia), importante per la
sua umanizzazione delle figure divine; Scopa (Statua di menade danzante), che
caratterizza le sue opere con movimenti violenti e forti torsioni, enfatizzandone il pathos;
Lisippo (Apoxyomeno, Ritratto di Socrate, di Aristotele, di Alessandro Magno), scultore
di corte del regno macedone, che impose un nuovo canone della figura umana, alternativo
a quello classico di Policleto, caratterizzato da una maggiore longilineità e da una testa più
piccola, e finalizzato a rappresentare gli uomini non come sono ma come appaiono alla
vista; il pittore Apelle, che lavorò per Alessandro Magno (Ritratto di Alessandro in veste di
Zeus con il fulmine in mano, Calunnia).
Nell’ambito della letteratura, il genere drammatico seguì una parabola analoga a quella
delle arti plastiche. I tragediografici successivi a Euripide, e suoi imitatori, si basarono
sempre più su effetti violenti e patetici e su dialoghi sempre più artificiosi e retorici,
estromettendo il coro dall’azione drammatica, con risultati artistici decisamente inferiori. I
commediografi successivi ad Aristofane, classificati come “commedia di mezzo”, anch’essi
di molto a lui inferiori per livello artistico, abbandonarono i temi di attualità politica, e con
essi la satira e l’invettiva contro i contemporanei, e si rifecero sempre più a personaggi e
vicende del mito, usando un linguaggio meno volgare e pungente e uno stile più raffinato e
innocuo. La tradizione poetica di genere lirico, a sua volta, cambiò radicalmente per il
prevalere dell’elemento musicale su quello letterario, liberandosi dai vincoli dei metri a
favore dei versi liberi, finendo con l’adottare un linguaggio quasi prosaico e dando così,
però, un forte impulso all’evoluzione degli strumenti e dell’arte musicale.
Il genere storiografico, invece, non risentì, almeno inizialmente, della decadenza politica
greca, cui esso anzi si alimentò. Tucidide, infatti, imperniò la sua grandiosa opera storica
proprio sulla guerra del Peloponneso, proponendosi di descriverla in modo “verosimile”,
basandosi sull’esperienza diretta e un’attenta selezione di fonti e testimonianze, e
soprattutto di spiegarne le cause attribuendole esclusivamente a scelte umane, individuali
o collettive. In questo senso, Tucidide fu un allievo e un continuatore dei sofisti e le sue
Storie persero, rispetto a Erodoto, in piacevolezza artistica, ma guadagnarono in rigore
scientifico tanto da poter a buon diritto considerarsi l’atto fondativo della storia come
scienza umana. Senofonte in parte continuò l’opera di Tucidide, occupandasi della storia
greca a partire dal 411, anno al quale si era interrotto Tucidide, quello della fine della
guerra del Peloponneso, e rimanendo fedele alla sua impostazione scientifica; in parte,
oltretutto prevalente, sia nell’Anabasi sia nella seconda metà delle Elleniche (dal 404 al
362) Senofonte si allontanò decisamente da Tucidide riprendendo e radicalizzando
Erodoto, ossia puntando sulla piacevolezza letteraria e basandosi quindi su temi favolistici,
ritratti di personaggi e interventi divini a tutto scapito della ricostruzione veritiera dei fatti.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nell’insieme, la cultura greca classica si andava esaurendo e alla fine del secolo sarebbe
stata rimpiazzata dalla nuova cultura ellenistica, frutto della contaminazione della cultura
greca con le culture mediorientali resa possibile dalla formazione dell’impero di
Alessandro Magno.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
V VIAGGIO
LA RAZIONALITA’ IDEALE
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MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
“Dopo di ciò – dissi – paragona a una condizione di questo genere la nostra
natura per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione.
Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in un’abitazione sotterranea a
forma di caverna che abbia l’ingresso aperto verso la luce, estendendosi in
tutta la sua ampiezza per tutta quanta la caverna; inoltre, che si trovino qui
fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover stare
fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a
causa di catene e che, dietro di loro e più lontano, arda una luce di fuoco.
Infine, immagina che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada lungo
la quale sia costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori
pongono fra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di
burattini”.
“Vedo”, disse.
“Immagina, allora, lungo questo muricciolo degli uomini portanti attrezzi di
ogni genere, che sporgono al di sopra del muro, e statue e altre figure di
viventi fabbricate in legno e pietra e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale,
che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in silenzio”.
“Tratti di cosa ben strana – disse – e di ben strani prigionieri”.
“Sono simili a noi – ribattei –. Infatti credi innanzi tutto che vedano di sé e
degli altri qualcos’altro, oltre alle ombre proiettate dal fuoco sulla parte della
caverna che sta di fronte a loro?”.
“E come potrebbero – rispose – se sono costretti a tenere la testa immobile
per tutta la vita?”.
“E degli oggetti portati non vedranno pure la loro ombra?”.
“E come no?”.
“Se, dunque, fossero in grado di discorrere fra di loro, non credi che
riterrebbero come realtà appunto quelle [ombre] che vedono?”.
“Necessariamente”.
“E se il carcere avesse anche un’eco proveniente dalla parete di fronte, ogni
volta che uno dei passanti proferisse una parola, credi che essi riterrebbero
che ciò che proferisce parole sia altro se non l’ombra che passa?”.
“Per Zeus! – esclamò –. No di certo”.
“In ogni caso – continuai – riterrebbero che il vero non possa essere altro se
non le ombre di quelle cose artificiali”.
“Per forza”, ammise lui.
“Considera ora – seguitai – quale potrebbe essere la loro liberazione dalle
catene e la loro guarigione dall’insensatezza e se non accadrebbero loro le
seguenti cose. Poniamo che uno fosse sciolto e subito costretto ad alzarsi, a
girare il collo, a camminare e a levare lo sguardo in su verso la luce e, facendo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere
quelle cose delle quali prima vedeva le ombre; ebbene, che cosa credi che
risponderebbe se uno gli dicesse che, mentre prima vedeva solo vane ombre,
ora, invece, essendo più vicino alla realtà e rivolto a cose che hanno più
essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che
passano, lo costringesse a rispondere facendogli la domanda ‘che cos’è?’ ?
Non credi che egli si troverebbe in dubbio e che riterrebbe le cose che prima
vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora?
“Molto”, rispose.
“E se uno poi lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero
male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può
guardare, e non riterrebbe queste veramente più chiare di quelle
mostrategli?”.
“E’ così”, disse.
Ed io di rimando: “E se di là uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e
non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non
soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato e,
dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe più
capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere?”.
“Certo – disse – almeno non subito”.
“Dovrebbe, invece, io credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che
sono al di sopra. E dapprima potrà vedere più facilmente le ombre e, dopo
queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque e, da
ultimo, le cose stesse. Dopo di ciò potrà vedere più facilmente quelle realtà
che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della
luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole”.
“Come no?”.
“Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole e non le sue immagini nelle acque o
in un luogo esterno ad esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è
propria, e considerarlo così come esso è”.
“Necessariamente”, ammise.
“E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio
lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella
regione visibile e che, in certo modo, è causa anche di tutte quelle realtà che
lui e i suoi compagni prima vedevano”.
“E’ evidente – disse – che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste
conclusioni”.
“E allora, quando si ricordasse della dimora di un tempo, della sapienza che
qui credeva di avere e dei suoi compagni di prigionia, non crederesti che
sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli?”.
“Certamente”.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“E se fra quelli c’erano onori ed encomi e premi per chi mostrava la vista più
acuta nell’osservare le cose che passavano, e ricordava maggiormente quali di
esse fossero solite passare per prime o per ultime o insieme e quindi
mostrasse grandissima abilità nell’indovinare che cosa stesse per arrivare,
credi che costui potrebbe provare ancora desiderio di ciò, o che invidierebbe
coloro che sono onorati o che hanno potere presso quelli? Non pensi, invece,
che accadrebbe quanto dice Omero e che di molto preferirebbero vivere sopra
la terra a servizio di un altro uomo senza ricchezze, e patire qualsiasi cosa,
anziché ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo?”.
“E’ così – disse –. Io credo che egli soffrirebbe qualsiasi cosa piuttosto che
vivere in quel modo”.
“E rifletti anche su questo – aggiunsi –: se costui, di nuovo scendendo nella
caverna, tornasse a sedere al posto che prima aveva, non si troverebbe forse
con gli occhi pieni di tenebre, giungendovi all’improvviso dal sole?”.
“Evidentemente”, disse.
“E se egli dovesse di nuovo tornare a conoscere quelle ombre, gareggiando
con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, fino a quando rimanesse con
la vista offuscata e prima che i suoi occhi ritornassero allo stato normale, e
questo tempo dell’adattamento non fosse affatto breve, non farebbe forse
ridere e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli
occhi guasti, e che, dunque, non mette conto di cercare di salire su? E chi
tentasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro
mani, non lo ucciderebbero?”.
“Sicuramente”, ammise.
Platone, Repubblica, 514 A -517 A, a cura di G. Reale, Rusconi
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ROTTA SU…
L’IDEALISMO TRASCENDENTE
Il cuore della filosofia di Platone è la “teoria delle Idee”, cioè la teorizzazione e
l’argomentazione dell’esistenza di un mondo “metafisico” – ossia trascendente, al di là di
quello fisico, quindi non materiale – costituito da un insieme unitario, e quindi ordinato,
di principi logici, matematici, etici, politici puramente razionali, perfetti ed eterni.
Platone denomina questi principi “Idee”. Con il termine “Idea” Platone non intende, però,
un contenuto della mente umana, ovvero un concetto, bensì un’entità reale, una cosa che
esiste di per sé, indipendentemente dalla mente umana. Si tratta di una svolta epocale
nella storia della filosofia: per la prima volta, viene pensata l’esistenza di una dimensione
del tutto diversa da quella fisica, oggetto dei sensi. Questa nuova dimensione ideale, per
Platone, è il modello, ossia la matrice, del mondo fisico e quindi la realtà naturale è da lui
concepita come una copia materiale di una realtà superiore puramente razionale. Ne
consegue che il mondo fisico è ambivalente: da un lato è positivo e ordinato in quanto
imita la perfezione ideale; dall’altro, data l’insormontabile differenza ontologica tra la
pura razionalità e la materia, non è una copia perfetta delle Idee è dunque include una
quota di disordine, cioè di male.
In quanto sono le matrici di tutte le cose fisiche, le Idee sono fondamenti dell’esistenza del
mondo naturale, ovvero supremi principi ontologici. Come tali, secondo Platone, esse
sono anche principi gnoseologici, cioè i criteri della scienza, intesa come conoscenza vera.
In altre parole, per conoscere cos’è veramente un essere naturale – un animale, una
pianta o un minerale – è necessario conoscere l’Idea di cui è un derivato. Di conseguenza,
la scienza per Platone non può basarsi sulla conoscenza sensibile, ovvero sull’esperienza,
ma deve fondarsi invece sulla conoscenza puramente razionale, ovvero sulla teoria. Tale
conoscenza è innata in ogni uomo dal momento che ogni uomo possiede un’anima
razionale immortale che, originariamente, fa parte del mondo delle Idee. Il desiderio di
piaceri fisici provoca la “caduta” delle anime razionali, ovvero la loro incarnazione.
Imprigionate nel corpo le anime dimenticano la visione delle Idee ma poi possono
progressivamente ricordarla sempre meglio e acquisire così una sempre più ampia
scienza della realtà. Le Idee, infatti, in quanto impresse nell’anima, cioè nella mente, e in
quanto poi ricordate, cioè rese coscienti, costituiscono i concetti e le loro relazioni logiche,
che per Platone sono gli elementi fondamentali della conoscenza vera. Ma le Idee sono
anche i modelli dell’agire umano individuale e collettivo, cioè i supremi principi
dell’estetica, della morale e della politica. In questo senso, per Platone, a mano a mano
che ogni uomo accresce la sua scienza, potenzia anche la sua vita estetico-amorosa, si
perfeziona moralmente ed elabora e mette in pratica la forma migliore di costituzione
statale. In questo modo l’uomo può conseguire il suo fine ultimo: ripristinare la sua
conformazione originaria di pura anima razionale e ricongiungersi al mondo delle Idee.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In tal modo Platone assume nella storia della filosofia occidentale il ruolo di fondatore
dell’idealismo, una posizione filosofica che sarà in seguito sviluppata da molti altri
filosofi in molte varianti, dando corpo a una delle più importanti e durature correnti
della storia della filosofia. Rispetto alla sua successiva evoluzione, l’idealismo platonico si
caratterizza per il suo carattere oggettivo e trascendente, ovvero perché, come abbiamo
visto, le Idee sono concepite come enti reali esterni sia al “soggetto”, ossia alla mente
umana, sia alla dimensione spazio-temporale.
Infine, a proposito dell’importanza di Platone per la filosofia occidentale, non si può fare
a meno di conoscere il giudizio del filosofo inglese novecentesco A. N. Whitehead: “Tutta
la filosofia occidentale è un commento in margine all’opera di Platone”. Forse si tratta di
un’iperbole, ma non per questo la dice meno lunga.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI UN CAPITANO
PLATONE
Platone – il cui vero nome era Aristocle, ma fu così soprannominato dal suo maestro di
ginnastica per l’ampiezza (in greco plàtos) delle spalle – nacque ad Atene nel 428 o nel 427
a.C., cioè uno o due anni dopo la morte di Pericle, da genitori appartenenti ad antiche
stirpi aristocratiche: il padre vantava la sua discendenza da Codro, l’ultimo re di Atene,
secondo la tradizione leggendaria; la madre annoverava tra i suoi antenati Solone, il
famoso legislatore ateniese. Ancora bambino rimase orfano di padre e venne allevato da
Pirilampo, anch’egli aristocratico ma amico di Pericle, che gli impartì un’educazione
improntata ai valori della democrazia. Da giovane si dedicò alla pittura e alla poesia
(compose ditirambi, liriche e tragedie), ma poi fu introdotto alla filosofia da Cratilo,
discepolo di Eraclito. Forse prese parte a tre campagne militari, dal 409 al 407, nell’ambito
della guerra del Peloponneso. Nel 407 conobbe Socrate, di cui divenne fedelissimo e
appassionato seguace, e rinunciò alla poesia per darsi completamente alla filosofia. Ma
ancora in quegli anni Platone concepiva la filosofia socratica come la formazione
indispensabile a diventare un politico giusto. In altre parole, Platone credeva che la sua
vocazione fosse l’attività politica, come egli stesso scrisse nella sua Lettera VII.
Le esperienze degli anni seguenti lo convinsero ad abbandonare questo proposito.
Dapprima, nel 404, la sua vocazione alla politica fu posta in crisi dalle violenze e dalle
ingiustizie del governo aristocratico dei Trenta Tiranni – tra cui vi erano Carmide e Crizia,
due suoi parenti – cui inizialmente aveva dato il suo appoggio ideale. Poi, in seguito alla
restaurazione della democrazia, Platone subì una delusione ancora maggiore a causa
dell’esecuzione capitale per volontà popolare del suo maestro Socrate. Egli comprese che,
data la degenerazione morale degli ateniesi, era diventato impossibile fare politica in modo
onesto e giusto, e che pertanto il suo compito era quello di promuovere una riforma morale
e culturale degli individui.
Scioccato dall’assassinio del venerato maestro, in pericolo di vita in quanto suo discepolo,
Platone fuggì da Atene. Secondo le fonti antiche, soggiornò dapprima a Megare, ospite di
Euclide, un altro seguace di Socrate; poi a Cirene presso il matematico Teodoro; quindi a
Eliopoli, uno dei centri della sapienza sacerdotale egizia; successivamente a Taranto dove
fu iniziato al pitagorismo dal filosofo e matematico Archita; e infine a Siracusa, invitato dal
tiranno Dionìgi (o Dionìsio) il Vecchio, su suggerimento del cognato Dione, ammiratore
della filosofia di Platone, in particolare sostenitore della sua tesi politica fondamentale,
quella secondo la quale i governanti devono essere “filosofi”, ovvero devono apprendere la
scienza politica.
Ma a causa delle critiche che Platone rivolse al suo modo arbitrario di governare, Dionigi il
Vecchio lo fece vendere come schiavo alla città di Egina, in guerra con Atene. Grazie al
riscatto pagato dall’amico Anniceride di Cirene, Platone potè tornare ad Atene, dove nel
387 acquistò un terreno nel giardino dedicato all’eroe Academo e vi fece costruire un
edificio, fondando così una sua scuola filosofica, l’Accademia, che divenne un istituto di
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
formazione culturale e morale della classe dirigente greca e, al tempo stesso, un centro di
ricerca scientifica soprattutto a livello matematico e astronomico. In questa prospettiva,
l’Accademia di Platone rappresentava l’alternativa alla scuola fondata nel 391 dall’oratore
Isocrate, contrapponendo la formazione filosofica a quella retorica. Giuridicamente,
l’Accademia era un’associazione religiosa dedita al culto di Apollo e delle Muse. Sul
modello delle comunità pitagoriche, nell’Accademia maestri e discepoli non solo
insegnavano e studiavano, ma convivevano. Però, a differenza che nelle comunità
pitagoriche, nell’Accademia non c’erano donne. Lo stesso Platone non prese moglie né
risulta ebbe mai relazioni sentimentali, e tanto meno sessuali, con donne. Come
confermano i suoi scritti, in particolare i dialoghi Simposio e Fedro, Platone era
omosessuale, e teorizzava la superiorità dell’amore omosessuale su quello eterosessuale,
ma considerava amore omosessuale, quindi moralmente lecito, solo quello che
intercorreva tra un adulto e un adolescente e solo se aveva un preminente scopo di
formazione morale e culturale dell’adolescente. Questo genere, e solo questo genere, di
relazione omosessuale è da lui valorizzato per i suoi frutti intellettuali e chiamato
“amicizia” in contrapposizione all’amore eterosessuale e all’amore omosessuale tra
coeteanei, puramente o prevalentemente carnali. Inoltre, benché considerasse “amici”
anche gli amanti che avevano rapporti sessuali, Platone sosteneva che la vera “amicizia”
fosse puramente spirituale e quindi perorava l’astensione dai rapporti sessuali. Da qui è
derivata l’espressione “amore platonico” che, dunque, non implica la proibizione della
sessualità, ma certamente la valorizzazione dell’amore asessuale come forma superiore di
amore.
Dopo il 387, nonostante l’impegno della direzione dell’Accademia e l’età sempre più
avanzata, Platone tornò ancora a Siracusa per altre due volte, su richiesta di Dione e del
nuovo tiranno Dionigi il Giovane. Ma in entrambi i casi il tentativo di formare
filosoficamente Dionigi il Giovane fallì e alla fine Platone rischiò addirittura di essere
condannato a morte. Tornato definitivamente ad Atene nel 360 si dedicò completamente
all’insegnamento nell’Accademia e vi morì novantenne nel 348 o nel 347.
Platone è il primo filosofo greco di cui ci è pervenuta l’opera completa, anzi addirittura in
sovrabbondanza. Infatti alcune delle opere tramandateci a suo nome sono apocrife, ovvero
non sono state scritte da lui ma da altri. Gli scritti sicuramente autentici sono: 3 lettere, un
discorso – Apologia di Socrate, ovvero l’autodifesa di Socrate di fronte al tribunale
popolare ateniese –, 27 dialoghi (su 34 tramandatici a suo nome). Questi ultimi - in base
alla loro cronologia ma anche all’evoluzione della filosofia platonica - possono essere così
suddivisi:
1) dialoghi giovanili (cioè anteriori alla fondazione dell’Accademia): Critone (tema: il
rispetto delle leggi statali), Carmide (la temperanza), Lachete (il coraggio), Liside
(l’amicizia), Ione (la poesia), Eutifrone (la pietà intesa come devozione religiosa),
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Protagora (l’insegnabilità della virtù), Ippia minore (l’inconsapevolezza del
comportamento malvagio), Gorgia (le doti del politico);
2) dialoghi della maturità (tra la fondazione dell’Accademia e il secondo viaggio a
Siracusa): Menesseno (critica della retorica), Menone (la conoscenza innata),
Eutidemo (le fallacie dei sofisti), Ippia maggiore (il bello), Cratilo (il linguaggio),
Fedone (l’immortalità dell’anima), Simposio (l’amore), Fedro (la bellezza), Repubblica
(la giustizia e lo stato ideale);
3) dialoghi della tarda maturità e vecchiaia (dopo il secondo viaggio a Siracusa):
Teeteto (conoscenza), Parmenide (la teoria delle idee), Sofista (la dialettica), Politico
(la migliore forma di governo), Filebo (la dottrina morale), Timeo (la cosmologia),
Crizia (lo stato ideale), Leggi (la costituzione politica migliore), Epinomide (lo Stato).
Platone adotta il genere letterario del dialogo per fedeltà al metodo filosofico socratico. In
questo modo, infatti, benché, a differenza di Socrate, accetti la scrittura come strumento di
elaborazione e trasmissione della filosofia, egli può renderla il più simile possibile allo stile
della comunicazione orale. Inoltre il protagonista della maggior parte dei dialoghi platonici
è Socrate stesso. In altre parole Platone presenta la sua filosofia come una trascrizione
della filosofia socratica. Questo pone lo spinoso problema di stabilire fino a dove arrivi il
pensiero di Socrate e da dove cominci quello originale di Platone. In questo senso, si può
dire, in linea di massima, che i dialoghi giovanili sono un’esposizione fedele del pensiero di
Socrate, per quanto attraverso l’inevitabile filtro interpretativo di Platone; che i dialoghi
della maturità contengono invece la prima versione della teoria delle Idee, cioè della
filosofia platonica originale nata dallo sviluppo del pensiero socratico; e infine che i
dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia espongono la revisione critica e una nuova
versione della teoria delle Idee, più lontana dal pensiero socratico e più vicina al
pitagorismo.
A quest’ultima fase del pensiero platonico sono legati anche i cosiddetti “insegnamenti non
scritti”, ossia un insieme di dottrine che Platone ha esposto solo oralmente ai membri
interni dell’Accademia e che costituiscono il livello più profondo e complesso della sua
filosofia. Tali “insegnamenti non scritti” sono stati ricostruiti in modo sufficientemente
attendibile, ma pur sempre incompleto, grazie alle testimonianze e alle trascrizioni
lasciateci dai discepoli di Platone, innanzitutto da Aristotele.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
PLATONE: LA VITA E’ UN VIAGGIO DAL BUIO ALLA LUCE
“Caro Glaucone – dissi –, questa metafora nel suo complesso va adattata a
quanto si è affermato in precedenza e così questo luogo [la caverna] che ci
appare alla vista deve paragonarsi al luogo del carcere, e la luce del fuoco che
brilla in esso alla forza del sole. Se poi tu paragonassi l’ascesa verso l’alto e la
contemplazione delle realtà superne all’elevazione dell’anima al mondo
intellegibile non mancheresti di sapere quello che è il mio intendimento, dato
che è appunto questo che tu desideri conoscere; ma se poi esso sia vero solo
iddio lo sa. Ad ogni buon conto, questa è la mia opinione: nel mondo delle
realtà conoscibili l’Idea del Bene viene contemplata per ultima e con grande
difficoltà. Tuttavia, una volta che sia stata conosciuta non si può fare a meno
di dedurre, in primo luogo, che è la causa universale di tutto ciò che è buono e
bello – e precisamente, nel mondo sensibile, essa genera la luce e il signore
della luce, e in quello intellegibile procura, in virtù della sua posizione
dominante, verità e intelligenza – e, in secondo luogo, che ad essa deve
guardare chi voglia avere una condotta ragionevole nella sfera pubblica e
privata”.
“Sono d’accordo con te – ammise – almeno nella misura in cui mi riesce di
seguirti”.
“Allora – aggiunsi io – concordi con me che non vi sia nulla di strano che
persone che si sono elevate fino a tali vertici non vogliano più impegnarsi in
imprese umane, ma che nel loro animo sempre siano attratti e sollecitati a
tornare lassù. E ciò è perfettamente logico, se ci si deve attenere alla metafora
sopra illustrata [il mito della caverna]”.
“Certo, è logico”, convenne.
“E poi – dissi – ti sembrerebbe strano se qualcuno che discende dalla
contemplazione delle realtà divine ai fatti umani rischia di far una brutta
figura, di apparire del tutto ridicolo, quando, muovendosi a tentoni, prima
ancora di esser riuscito ad abituarsi alla presente oscurità è costretto nei
tribunali o in altro luogo a scendere in lizza solo per un’ombra di giustizia o
per quel simulacro che proietta quell’ombra e a stare a discutere sul modo in
cui queste apparenze debbano essere interpretate da chi non ha mai visto la
Giustizia in sé?”
“Non ci sarebbe proprio nulla da meravigliarsi”, disse.
“Ma – ripresi – se uno ha un po’ di senno dovrebbe ricordare che ci sono due
tipi di disturbi degli occhi con due cause diverse: quel disturbo che affligge la
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
vista quando si passa dalla luce al buio e quello che l’affligge quando si passa
dal buio alla luce […]”.
Platone, Repubblica, VII, a cura di G. Reale, Rusconi
Il problema centrale di Platone è quello del suo maestro Socrate – “Che cos’è l’uomo?” –
ma è da lui riproposto più ampiamente e radicalmente: “Qual è il senso dell’esistenza
umana?”. La risposta di Platone a questa domanda coincide con l’intera sua filosofia,
quanto mai vasta e articolata, ma è anche sintetizzata in un mito platonico, il “mito della
caverna”.
Infatti, per esporre il suo pensiero, Platone ricorre spesso a “miti”, cioè a racconti
immaginari da lui stesso inventati. Essi svolgono due funzioni fondamentali nell’ambito
della sua filosofia:
 esemplificare, chiarire e rendere più incisivo e avvincente il suo pensiero;
 alludere simbolicamente alle verità più profonde e complesse che sfuggono alla
comprensione logico-concettuale.
Il “mito della caverna” è il più famoso e importante dei miti di Platone. Esso può essere
interpretato e utilizzato come una mappa allegorica di tutta la filosofia platonica, o
perlomeno delle sue tesi fondamentali.
Il titolo del mito deriva dall’ambiente in cui il racconto prende il via e dove si conclude: una
caverna, appunto, o meglio una grande cavità sotterranea, giacente a una certa profondità
sotto il livello del suolo terrestre, e dunque fredda, umida e buia. Intorno alla parete di
fondo, quella più lontana dalla sua apertura sulla superficie terrestre, sono seduti degli
uomini. Sono prigionieri – dunque la caverna è un carcere – e giacciono lì, in catene e in
una fitta penombra, fin dalla nascita.
Le catene gli impediscono non solo di alzarsi e di camminare, ma anche solo di girare la
testa all’indietro. Essi pertanto sono costretti a guardare unicamente verso la parete in
fondo alla caverna. Su questa parete i prigionieri vedono un agitarsi e avvicendarsi di
forme indistinte e confuse, e da essa sentono provenire suoni che attribuiscono a quelle
forme confuse e ai loro movimenti.
Descritta la situazione interna alla caverna, Platone fa partire l’azione: accade che un
prigioniero viene liberato dalle sue catene, costretto ad alzarsi e a girarsi all’indietro e
infine spinto a camminare nella direzione opposta a quella della parete di fondo. Chi sia il
liberatore e perché liberi un prigioniero Platone non lo dice. E’ plausibile che sia un enigma
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
voluto, quasi una suspense da giallo, che Platone usa per pungolare il lettore a cercarne
una soluzione leggendo gli altri suoi dialoghi e quindi apprendendo l’intera sua filosofia.
(Ciò che effettivamente faremo giungendo così a sciogliere, almeno ipoteticamente,
l’enigma.) Fatto sta che, in seguito all’intervento del misterioso liberatore, il prigioniero
liberato si gira e prova un forte dolore agli occhi a causa della luce che lo abbaglia. I suoi
occhi infatti sono assuefatti alla penombra e perciò ora non sono in grado di sostenere
immediatamente un livello più intenso di luce.
Tuttavia, il liberato resiste al dolore e col tempo i suoi occhi si adattano e cominciano a
scorgere un muricciolo sopra il quale si muovono avanti e indietro oggetti di varie fogge e
dimensioni: animali, piante, rocce, montagne, nubi, uomini, ecc.. Il liberato si avvicina al
muro, scorge un spiraglio tra la parete laterale della caverna e il muro e, così, infilandovisi
dentro lo oltrepassa. Riesce così a vedere che, parallelamente al retro del muro, corre un
sentiero lungo il quale camminano avanti e indietro degli uomini che trasportano sulla
testa riproduzioni scultoree di ogni genere di cose. Il liberato capisce che il muro, alto
come i portatori, quando lui gli era davanti, li copriva alla sua vista facendogli credere che
le statuette si muovessero da sole, nello stesso modo in cui i teatrini dei burattinai coprono
il burattinaio dando l’illusione che i burattini si muovano come persone reali. Inoltre il
liberato sente parlare i portatori e comprende che i suoni che prima aveva creduto
provenire dalla parete di fondo altro non erano che l’eco delle loro voci.
Sempre più incuriosito, il liberato volge il suo sguardo ancora oltre e si accorge che dietro i
portatori, vicino alla parete opposta a quella dove giaceva imprigionato, brilla una luce più
intensa. Avvicinatosi lentamente, per permettere nuovamente ai suoi occhi di abituarsi e di
superare il dolore, scopre un fuoco di legna e finalmente capisce che le forme confuse che
egli vedeva agitarsi sulla parete di fondo della caverna, quando era imprigionato, altro non
erano che le ombre delle statuette mosse dai portatori, proiettate dalla luce del fuoco sul
fondo della caverna.
A questo punto il liberato crede di aver concluso il suo cammino di esplorazione e scoperta.
Invece è di nuovo spinto dal suo misterioso liberatore a scalare la parete ruvida e scoscesa
della caverna fino ad arrivare al livello del suolo terrestre e all’uscita all’aperto.
Naturalmente, una volta fuori il liberato rimane nuovamente abbagliato dalla luce solare in
modo molto più intenso e doloroso di prima. Per molto tempo vaga come un cieco sul
suolo terrestre.
Poi lentamente i suoi occhi cominciano a sopportare la vista delle ombre delle cose
naturali, quindi delle loro immagini riflesse in stagni o ruscelli. Venuta la notte, il liberato
può alzare gli occhi al cielo e vedere la luna e le stelle. All’alba del giorno successivo
finalmente può guardare direttamente le cose naturali – alberi, fiori, animali, montagne,
ecc. – e alla fine perfino il sole stesso. Egli comprende così che il sole è la fonte prima e più
potente di ogni luce e di ogni calore, e se ne gode l’effetto benefico.
169
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nel nuovo mondo che ha raggiunto, il liberato, inebriato di luce e di calore, si sente al
colmo della beatitudine. Ma, ricordando la sua dolorosa vita nella caverna, prova
compassione per i suoi compagni prigionieri e decide allora di tornare nel mondo
sotterraneo per rivelargli la sua scoperta e per convincerli a salire all’aperto e permettere
anche a loro di godere della luce e del calore del sole.
Tuttavia, una volta ridisceso, i suoi compagni non gli credono, pensano che la sua vista si
sia guastata, e, di fronte alle sue proteste, decidono di metterne alla prova la capacità di
vedere sfidandolo a riconoscere le ombre sul fondo della caverna. Ma gli occhi del liberato,
ormai abituati alla luce solare, non riescono più a vedere nitidamente nella penombra della
caverna.
Egli pertanto sbaglia a identificare le ombre e i suoi compagni credono di avere così la
prova definitiva che la sua vista è difettosa e che quindi il suo racconto non è attendibile. Il
liberato allora cerca di scioglierli dalle loro catene per trascinarli fuori, ma i suoi compagni,
adirati per la sua insistenza, finiscono per ucciderlo.
Fin qui il racconto di Platone. Trattandosi di un’allegoria occorre ora decifrarlo. Di primo
acchito, è facile rilevare l’elemento simbolico più appariscente del mito platonico, cioè la
coppia luce/vista che rappresenta la conoscenza nei suoi due aspetti complementari:
 quello oggettivo, ovvero l’esistenza di una verità in sé (la luce solare ci permette di
vedere le cose naturali così come la verità ci permette di conoscere la realtà);
 e quello soggettivo, cioè la capacità umana di recepire la verità (la vista).
In questo senso il mito della caverna è innanzitutto e fondamentalmente un mito di
iniziazione alla conoscenza, ovvero alla filosofia.
Un secondo simbolo evidente del mito della caverna è quello del cammino di ascesa,
potremmo anche dire del viaggio, che rappresenta il carattere processuale e insieme
progressivo della conoscenza. In altre parole, Platone vuole dirci che la conoscenza non la
si possiede né la si può conquistare istantaneamente, bensì può solo essere acquisita
gradualmente, in misura sempre maggiore, attraverso una lunga e costante ricerca.
Oltretutto, come vedremo meglio in seguito, il cammino conoscitivo per Platone è
composito, presenta almeno quattro sfaccettature, tra loro strettamente intrecciate:
 quella teoretica o scientifica;
 quella estetico-amorosa;
 quella morale o etica;
170
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
 quella politica.
Ma il cammino narrato da mito è al tempo stesso una fuga, un’evasione. Non dobbiamo
dimenticare infatti che la caverna è una prigione. Ciò significa che il cammino equivale a
un processo di liberazione, ovvero che il senso ultimo della ricerca conoscitiva, che
connette scienza, morale, estetica e politica, è la conquista della libertà.
In terzo luogo, nella decifrazione del mito della caverna, si può rinvenire un’altra coppia
simbolica, quella basso/alto, che coincide con quella chiuso/aperto. Fuor di metafora, il
mito si basa sulla contrapposizione verticale tra un mondo inferiore e chiuso, quello della
caverna, e un mondo superiore e aperto, quello della superficie terrestre. La caverna
rappresenta così il mondo fisico mentre la superficie terrestre un mondo superiore diverso
da quello fisico, cioè metafisico. Tale mondo, la scoperta filosofica fondamentale di
Platone, è un mondo privo di materia, costituito da puri principi razionali e come tale
conoscibile solo attraverso la ragione e non attraverso i sensi.
A questo punto risulta chiaro che per Platone la liberazione dell’uomo, e quindi in ultima
analisi la sua felicità, consiste nel trascendere la dimensione fisica per raggiungere il
mondo metafisico.
Infine, la parte finale del cammino/viaggio, non più in ascesa ma in discesa, cioè il ritorno
del prigioniero liberato nella caverna, rappresenta la missione propria di ogni uomo in
quanto filosofo: diffondere la conoscenza a tutti gli altri uomini per aiutarli a liberarsi e a
conseguire la felicità.
In questo senso, l’uccisione del liberato simboleggia il rischio mortale insito nella missione
filosofica dovuto al fatto che gli uomini sono attaccati alla fisicità, cioè ai piaceri materiali
(le catene della prigionia), e dunque tendono a rifiutare e perfino a voler eliminare chi
vuole distoglierli dal godimento dei beni materiali.
Abbiamo così analizzato cosa vuol dire il mito della caverna. Deve, però, essere chiaro che
questa decifrazione del mito della caverna è ben lontana dall’essere completa, esaustiva.
Essa ne comprende solo i significati più generali, e quindi certamente fondamentali, ma
non unici. L’opera di decifrazione del mito della caverna dovrà dunque proseguire,
entrando nei dettagli, in tutte le successive tappe di esplorazione del pensiero platonico.
171
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 1
Nel fondo di una caverna
sotterranea, buia, fredda ed
umida, giacciono dei prigionieri
incatenati.
La vita fisica dell’uomo è una
prigionia dolorosa dovuta
all’attaccamento ai piaceri sensibili.
Un prigioniero viene liberato,
costretto ad alzarsi, a girarsi e a
camminare: vede il muro, le
statuette, i portatori, il fuoco di
legna.
L’uomo si libera dalla dolorosa
prigionia della vita fisica
intraprendendo la ricerca
conoscitiva e scoprendo così
nuove realtà fisiche.
Il liberato scala la parete della
caverna, esce all’aperto e vede le
cose naturali, le stelle, la Luna.
Approfondendo la sua indagine
conoscitiva, l’uomo scopre la
vera realtà, quella razionale,
eterna e perfetta delle Idee.
Il liberato scopre il Sole in quanto
fonte prima della luce solo grazie
alla quale può vedere, e ne gode il
calore.
L’uomo conosce la Verità in sé,
ovvero il principio primo di ogni
conoscenza e che è anche Bene
perché gli infonde benessere.
Il liberato si ricorda dei compagni
ancora prigionieri e torna nella
caverna per annunciargli la sua
scoperta e condurli all’aperto.
Il filosofo ha il compito di
annunciare agli uomini la Verità e
di aiutarli a liberarsi, ma gli
uomini tendono a rifiutarlo.
172
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
PLATONE: LA SCIENZA SI BASA SULL’INTUIZIONE DELLE IDEE
Io allora continuai in questi termini: “Considera, pertanto, come dicevamo,
che due sono le realtà e una domina sul genere e sul mondo intelligibile,
l’altra sul visibile […]. Hai ben colto queste due forme, il visibile e
l’intelligibile?”.
“Le ho colte”.
“Prendi una linea divisa in due parti disuguali e dividila ulteriormente sia in
una parte che nell’altra – ovvero nel genere visibile e in quello intelligibile –,
secondo la stessa proporzione. In seguito, se ti atterrai al criterio della
rispettiva chiarezza e oscurità, una delle parti del genere visibile sarà
costituita dalle immagini; e per immagini intendo in primo luogo le ombre,
poi i riflessi – sia quelli sull’acqua che quelli sulle superfici solide, lisce e
brillanti – e infine tutti gli altri fenomeni del genere. Mi segui?”.
“Ti seguo”.
“Per quanto concerne l’altra sezione, ponivi i modelli di queste immagini,
ossia gli animali che ci circondano, ogni tipo di vegetale, nonché i prodotti
dell’uomo”.
“Va bene, la riserverò a queste cose”.
“E non saresti tentato di dire – suggerii – che questa parte sia divisa in vero e
in falso e che l’immagine sta al modello come l’oggetto dell’opinione sta
all’oggetto della conoscenza?”.
“Sì che lo dico”, affermò.
“Considera, dal canto suo, anche la sezione dell’intelligibile, in quale modo si
debba dividere”.
“In che modo?”.
“In questo: una parte di essa, l’anima è costretta a indagarla servendosi delle
cose di prima come delle immagini, e procedendo via via di postulato non
verso il principio ma verso le conclusioni; l’altra parte, invece – poggiante su
un principio che non è più solo un postulato – l’anima la indaga procedendo
da postulati e senza immagini riferentesi all’altra sezione, seguendo un
procedimento con le Idee e per mezzo delle Idee”.
“Quest’ultimo punto – confessò – non l’ho ben compreso”.
“E allora – dissi – incominciamo di bel nuovo, perché premettendo queste
considerazioni certo il problema ti risulterà più comprensibile. Non puoi
ignorare, io credo, che chi si occupa di geometria, di matematica e di scienze
affini dà per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli nonché
altri elementi della medesima natura, variabili da disciplina a disciplina.
173
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“Queste cose, dunque, gli scienziati le fissano come ipotesi, dopo di che non
ritengono più necessario rimetterle in discussione né fra sé né con altri,
appunto perché assolutamente evidenti; invece, prendono le mosse da questi
principi e, passando a trattare quel che resta, con la massima coerenza
finiscono per arrivare a quella verità che s’erano prefissi di raggiungere”.
“Questo lo so bene”, disse.
“E allora sai anche che essi usano modelli visibili e costruiscono su di essi
delle dimostrazioni; ma nel ragionamento non hanno per oggetto tali realtà,
bensì le realtà a cui queste assomigliano, sicché quando ragionano hanno di
mira il quadrato in quanto tale, e non quel quadrato, quella diagonale o quella
data figura che vanno disegnando. Delle figure che compongono e tracciano,
le quali corrispondono alle ombre e alle immagini che si formano sull’acqua,
si servono come di immagini per cercare di vedere le realtà in sé che non si
possono cogliere altrimenti che con l’intelligenza”.
“Dici il vero”, convenne.
“Ora quest’ultimo genere di realtà l’ho chiamato intelligibile; e tuttavia
l’anima nella ricerca di eso è costretta a ricorrere a ipotesi, non già per
risalire ai principi – dato che la ricerca non può andar oltre le ipotesi –, ma
servendosi come immagini di quelle realtà che corrispondono alle copie della
parte più bassa della linea. Resta il fatto, comunque, che in confronto con
queste copie, quelle realtà sono ritenute e valutate come oggetti evidenti.”
“Capisco – disse – che tu fai riferimento alla geometria e alle arti affini ad
essa”.
“Sappi, dunque, che io considero l’altra parte dell’intelligibile, quella che il
ragionamento stessa attinge con la potenza della dialettica, non trasformando
i postulati in principi, ma procedendo dai postulati per quello che essi sono,
ossia dei punti di appoggio e di partenza, per arrivare a ciò che non è più solo
un postulato, al Principio di tutto. Raggiunto questo e attenendosi a ciò che ad
esso consegue, il ragionamento prosegue verso il termine e, senza far uso in
alcun modo di alcuna cosa sensibile, ma solo delle Idee stesse con se stesse e
per se stesse, termina nelle Idee”.
“Capisco – disse – ma non quanto basta. Mi sembra, infatti, che tu vada
disegnando un’operazione complicata, con la quale vuoi chiarire che quella
parte dell’essere e dell’intelligibile che è colta dalla scienza dialettica è di gran
lunga più evidente di quella colta dalle altre cosiddette arti per le quali le
ipotesi fungono da principi.
“In effetti, per quanto coloro che scrutano l’essere per mezzo di queste arti
siano tenuti a coglierlo tramite l’intelligenza e non i sensi, tuttavia, poiché lo
contemplano non risalendo al suo principio ma a partire dalle ipotesi, ti
sembra che costoro non abbiano piena conoscenza di tali oggetti, per quanto,
per via della loro connessione coi principi, essi pure siano degli intelligibili. E
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
mi pare che la condizione propria dei geometri e quella di coloro che sono
simili ai geometri tu la chiami d i a n o i a [pensiero discorsivo] e non
intelligenza, come se la dianoia fosse un alcunché di intermedio fra l’opinione
e l’intelligenza”.
“Hai compreso perfettamente – dissi –. E ora ammetti che ai quattro segmenti
della linea corrispondano le seguenti quattro funzioni dell’anima:
l’intellezione al più elevato, la dianoia quello che segue, la credenza al terzo
segmento e al quarto la congettura [o immaginazione].
Platone, Repubblica, VII, 509 D-511 E, a cura di G. Reale, Rusconi
Come abbiamo visto, Platone sintetizza l’intera articolazione della sua filosofia nel mito
della caverna, un racconto allegorico da lui stesso inventato. L’oggetto del mito è l’evasione
di un uomo dal carcere sotterraneo in cui è tenuto da sempre prigioniero. Tale evasione è
articolata in due cammini ognuno dei quali a sua volta si suddivide in due tappe:
1. il cammino all’interno della caverna: a) visione delle ombre sulla parete di fondo; b)
visione degli oggetti artificiali e del fuoco;
2. il cammino fuori della caverna sulla superficie terrestre: a) visione delle ombre e
delle immagini riflesse sulle superfici d’acqua delle cose naturali; b) visione delle
cose naturali terrestri e celesti.
I due cammini sono rappresentazioni allegoriche dei due fondamentali mondi in cui,
secondo Platone, è articolata la realtà e, al contempo, dei due corrispettivi tipi generali di
conoscenza:
1. il mondo fisico (o sensibile) che è oggetto della conoscenza sensibile;
2. il mondo ideale (o intelligibile) che è oggetto della conoscenza razionale.
Le quattro tappe, a loro volta, sono rappresentazioni allegoriche dei tipi specifici di
conoscenza degli oggetti dei due diversi mondi:
1) l’immaginazione (o congettura), che conosce le immagini superficiali delle
cose fisiche;
2) la credenza, che conosce le cose fisiche;
3) il ragionamento (o pensiero discorsivo/dimostrativo), che conosce gli enti
razionali matematici (figure geometriche, numeri, operazioni aritmetiche,
ecc.);
4) l’intellezione (o intuizione intellettiva) che conosce gli enti razionali supremi,
cioè le Idee.
175
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il cammino della conoscenza comincia, secondo Platone, dal più basso grado della
conoscenza sensibile, cioè della conoscenza basata unicamente sui cinque sensi: la
“immaginazione”. Essa, nel mito della caverna, è rappresentata dalla visione delle ombre
sulla parete di fondo. La simbologia platonica esprime il carattere superficiale, oscuro e
confuso, ovvero parziale e approssimativo, di questo tipo di conoscenza. In altri termini,
per Platone l’ “immaginazione” ha il valore di una congettura, cioè è una sorta di azzardo
conoscitivo, quasi un tirare a indovinare. Il suo fondamento è infatti labile: si tratta
dell’analogia sensibile, cioè la percezione di somiglianze qualitative immediate tra singoli e
parziali aspetti di più cose o di più eventi. Per esempio (mio, non platonico), “si immagina”
l’unicorno, sulla base della somiglianza tra un rinoceronte e un cavallo, oppure “si
immagina” che un alano è un vitello solo per la somiglianza delle loro dimensioni e forme;
o ancora “immaginare” significa attribuire, in base all’analogia tra emozioni umane e
fenomeni naturali, le tempeste marine all’ira di Poseidone o l’inverno al dolore di Demetra
per il rapimento della figlia Persefone; ma anche, riferendoci a noi oggi, pensare che il
freddo sia la causa del raffreddore, come suggerisce il nome stesso, solo perché è più
diffuso in inverno, ovvero per una mera concomitanza temporale.
Insomma, l’“immaginazione” platonica rimanda a quella vasta e variegata gamma di
pseudoconoscenze che costituiscono gli ingredienti di miti, fiabe, proverbi, superstizioni,
credenze magiche e astrologiche. Considerando la sua situazione storico-culturale, è
plausibile che Platone intendesse riferirsi soprattutto alla tradizione mitico-religiosa greca,
e più in generale alle false conoscenze popolari.
Il successivo grado di conoscenza sensibile è costituito dalla “credenza”. Nel mito della
caverna essa è rappresentata sia dagli oggetti artificiali – cioè le statuette delle cose
naturali, che misteriosi portatori fanno muovere al di sopra di un muricciolo – sia dal
fuoco di legna che con la sua luce proietta le ombre degli oggetti artificiali visibili sulla
parete di fondo. La simbologia platonica esprime, da un lato, la maggiore profondità,
consistenza e chiarezza della “credenza”, dall’altro, il suo carattere “artificiale”, derivato,
secondario, ovvero la sua incapacità di arrivare al fondamento della realtà. In questo senso
è ragionevole ritenere che Platone con la “credenza” si riferisca alla filosofia/scienza
cosmologica da Talete a Democrito. Infatti il sapere filosofico-scientifico di tipo
naturalistico, a differenza dell’ “immaginazione”, non si basa sulla vaga somiglianza di
singoli aspetti delle cose e dei fatti, ma considera le cose nella loro interezza, ovvero tiene
conto dell’insieme delle loro proprietà, e ricerca le cause più generali e profonde dei fatti in
base a ripetute e accurate osservazioni.
In altre parole, la credenza non si affida, come l’immaginazione, a una o poche casuali
osservazioni, ma si basa sull’ “esperienza”, cioè sull’accumulo e il confronto ragionato di
molte sensazioni. Tuttavia l’esperienza è limitata alla dimensione fisica e pertanto rinviene
solo proprietà e cause fisico-naturali. Ma poiché la dimensione fisica è caratterizzata dal
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
divenire, proprietà e cause fisiche sono indefinatamente molteplici e variano
continuamente, e di conseguenza la “credenza”, secondo Platone, non è in grado di arrivare
a una conoscenza universale completa e quindi certamente vera. Facendo un esempio
odierno, la “credenza”, basandosi su ripetute e metodiche osservazioni empiriche, può
arrivare alla conclusione che l’oro sia inossidabile. Si tratta di una conclusione attendibile,
credibile, perché fondata su prove. Ma non arrivando alla causa razionale
dell’inossidabilità, cioè la struttura atomica dell’oro, in base alla semplice credenza non si
può escludere che ci sia dell’oro ossidabile o che un pezzo d’oro possa diventare prima o
poi ossidabile. Per questo motivo, la “credenza”, e più in generale la conoscenza sensibile,
rimane un’ “opinione”, cioè una conoscenza relativa, che può anche essere vera ma senza
che si possa essere certi di tale verità. (D’altronde anche un orologio fermo due volte al
giorno batte l’ora esatta.)
Il terzo livello della conoscenza – il “ragionamento” – costituisce la prima forma di
conoscenza razionale. Nel mito della caverna il passaggio dalla conoscenza sensibile alla
conoscenza razionale è rappresentato dalla scalata del prigioniero liberato fino all’uscita
all’aria aperta e il ragionamento dalla visione delle immagini delle cose naturali riflesse
negli specchi d’acqua, cioè da una visione solo indiretta dovuta all’impossibilità per gli
occhi di abituarsi immediatamente alla maggiore intensità della luce solare. La simbologia
platonica sta a significare che il cammino conoscitivo è finalmente arrivato agli oggetti
fondamentali, primari, cioè ai modelli originali, di cui le statuette dei portatori sono copie e
le ombre copie delle copie; ma anche che tali oggetti primari, cioè le fondamenta della
realtà, non sono ancora conoscibili completamente ma solo parzialmente.
Infatti il “ragionamento” consiste per Platone nelle scienze matematiche – aritmetica,
geometria, astronomia, musica – le quali giungono a conoscere le proprietà e le cause
razionali delle cose e dei fatti naturali, in quanto scoprono che tutti i fenomeni naturali
sono la manifestazione fisica di enti matematici e di relazioni matematiche. Poiché tali enti
e tali relazioni sono determinati e invariabili, il “ragionamento” è una conoscenza certa e
stabile. Tale conoscenza consiste nella dimostrazione logico-deduttiva, la quale a partire da
alcuni principi primi (assiomi e postulati) arriva, in base a una serie di inferenze deduttive,
a una conclusione necessaria e pertanto dotata di una verità certa. Un esempio
paradigmatico, che anche Platone avrebbe potuto fare, può essere quello della
dimostrazione del teorema di Pitagora. Disegnando e misurando molti triangoli rettangoli
di diverse dimensioni, si può verificare empiricamente che l’area del quadrato costruito
sull’ipotenusa è equivalente alla somma delle aree costruite sui cateti. Ma in base
all’osservazione empirica non si può avere la certezza che tale legge valga per tutti i
triangoli rettangoli. La dimostrazione del teorema di Pitagora, invece, attesta con certezza
proprio questo, che tale legge vale per tutti i possibili triangoli rettangoli, anche se non
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
possiamo misurarli tutti – dal momento che sono infiniti – e anzi senza bisogno di
misurarne nemmeno uno.
Però, Platone rileva che tutte le scienze matematiche partono da principi primi non
dimostrati razionalmente, e che pertanto sono solo delle “ipotesi”. Dunque i principi delle
scienze matematiche non sono fondati e pertanto, basandosi solo sulle scienze
matematiche, non è possibile garantire completamente che le loro inferenze deduttive
giungano a conclusioni certamente vere. Inoltre le scienze matematiche si servono di
rappresentazioni grafiche (p.e. le figure geometriche) che sono un residuo del mondo
fisico-sensibile. A causa di questi limiti le scienze matematiche, secondo Platone, non sono
autosufficienti ma devono fondarsi su un livello ulteriore di conoscenza.
Tale superiore grado di conoscenza è l’ “intellezione” e, per Platone, costituisce il traguardo
del cammino conoscitivo. Nel mito della caverna è rappresentato dalla visione degli enti
naturali terrestri (animali, piante, minerali), degli enti naturali celesti notturni (stelle e
Luna) e infine del Sole. La simbologia platonica esprime la conoscenza diretta e completa
degli oggetti primari, e quindi fondanti, di tutta la realtà nella loro stratificazione
gerarchica.
L’ “intellezione” è infatti l’atto mentale intuitivo con cui l’intelletto conosce direttamente le
“Idee”, gli oggetti puramente razionali, cioè del tutto privi di proprietà fisico-sensibili, che
costituiscono il fondamento dei principi delle scienze matematiche e i modelli originali e
immutabili di tutti gli enti e di tutti i fenomeni naturali. Come vedremo, l’intellezione è alla
base della scienza suprema, che Platone denomina “dialettica”.
Il cammino conoscitivo pertanto giunge a compimento con la scoperta che le Idee sono i
principi primi di tutta la realtà che, come tali, garantiscono una conoscenza completa e
certamente vera, cioè rendono possibile la scienza. Ma cosa sono le Idee?
178
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 2
VIAGGIO NELLA
CAVERNA
CONOSCENZA SENSIBILE
DEL MONDO FISICO
Visione delle ombre sul fondo
della caverna e ascolto degli
echi delle voci dei portatori
dietro al muro.
IMMAGINAZIONE (o
congettura): conoscenza delle
proprietà qualitative più
immediate e superficiali delle
cose fisiche
Sapere miticoreligioso e
superstizioni e
leggende popolari
Visione delle statuette
trasportate sulle spalle dei
portatori e del fuoco di legna
che arde nella caverna
CREDENZA: conoscenza
empirica, basata su osservazioni
ripetute e accurate, delle cose
fisiche
La filosofia
cosmologica basata
su principi primi di
tipo fisico
VIAGGIO FUORI DELLA
CAVERNA, SULLA
SUPERFICIE TERRESTRE
CONOSCENZA
RAZIONALE DEL MONDO
METAFISICO
Visione delle ombre degli enti
naturali e dei loro riflessi in
stagni e ruscelli.
RAGIONAMENTO:
conoscenza ipotetico-deduttiva
degli enti matematici (figure
geometriche, numeri, ecc.)
Scienze: aritmetica,
geometria, musica,
astronomia
Visione degli enti naturali,
delle stelle e della Luna,
infine del Sole
INTELLEZIONE: intuizione
dei principi primi degli enti
matematici e di tutte le cose,
ossia delle Idee
La scienza suprema,
ovvero la
“dialettica”
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
PLATONE : LE IDEE SONO I MODELLI RAZIONALI DI OGNI COSA
“[…] Diciamo noi che il giusto è qualcosa per se stesso, oppure no?”
“Sì, lo diciamo, per Zeus!”
“E anche il bello e il buono?”
“E come no?”
“E hai mai vista qualcuna di queste cose con gli occhi?”.
“No, affatto”, rispose.
“E le hai mai colte, forse, con altro senso del corpo? Non parlo solo delle cose
nominate sopra, ma anche della grandezza, della salute, della forza, e, in una
parola, dell’essenza di tutte le altre cose, ossia di ciò che ciascuna di quelle
cose è. Ebbene, forse che si conosce ciò che in esse c’è di più vero mediante il
corpo? O le cose stanno invece così: solamente chi di noi si è preparato a
considerare con la mente nella maniera più precisa ciascuna cosa di cui fa
ricerca, solamente costui può giungere più vicino possibile alla conoscenza di
ciascuna di queste cose?”.
“Certamente”.
Platone, Fedone, 65 D, a cura di G. Reale, Rusconi
“Ma chiamare ‘causa’ cose come queste [gli elementi naturali: aria, acqua,
ecc.] è troppo fuori luogo.
“Se uno dicesse che, se non avessi queste cose, cioè ossa, nervi e tutte le altre
parti del corpo che ho, non sarei in grado di fare quello che ritengo di fare,
direbbe bene; ma se dicesse che io faccio le cose che faccio proprio a causa di
queste, e che, facendo le cose che faccio, io agisco, sì, con la mia intelligenza,
ma non in virtù della scelta del meglio, costui ragionerebbe con assai grande
leggerezza.
“Questo vuol dire non essere capace di distinguere che altra è la vera causa e
altro è il mezzo senza il quale la causa non potrebbe mai essere causa. E mi
sembra che i più, andando a tastoni come nelle tenebre, usando un nome che
non gli conviene, chiamano in questo modo il mezzo, come se fosse la causa
stessa.
“Ed è questo il motivo per cui qualcuno, ponendo intorno alla terra un
vortice, suppone che la terra resti ferma per effetto del movimento del cielo,
mentre altri le pone di sotto l’aria come sostegno, come se la terra fosse una
madia piatta. Ma quella forza per la quale terra, aria e cielo ora hanno la
migliore posizione che potessero avere, questo né cercano né credono che
abbia una potenza divina, ma credono di aver trovato un Atlante più potente,
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
più immortale e più capace di tenere l’universo, e non credono affatto che il
bene e il conveniente siano ciò che veramente lega e tiene insieme.
“Io mi sarei fatto col più grande piacere discepolo di chiunque, per poter
apprendere quale sia questa causa; ma, poiché rimasi privo di essa e non mi
fu possibile scoprirla da me né apprenderla da altri; ebbene, vuoi che ti
esponga, o Cebete, la seconda navigazione [quella a remi, quando non c’è
vento] che intrapresi per andare alla ricerca di questa causa?”.
“Altro che se voglio!”, rispose.
E Socrate allora disse: “Dopo questo, poiché ero stanco di indagare le cose, mi
parve di dover star bene attento che non mi capitasse quello che capita a
coloro che osservano e studiano il sole quando c’è l’eclissi, perché alcuni si
rovinano gli occhi, se non guardano la sua immagine rispecchiata nell’acqua,
o in qualche altra cosa del genere.
“A questo pensai, ed ebbi paura che anche l’anima mia si accecasse
completamente, guardando le cose con gli occhi e cercando di coglierle con
ciascuno degli altri sensi.
“Perciò, ritenni di dovermi rifugiare in certi postulati e considerare in questi
le verità delle cose che sono.
“Forse il paragone che ora ti ho fatto in un certo senso non calza, giacché io
non ammetto di certo che chi considera le cose alla luce di questi postulati le
consideri in immagini più di chi le considera nella realtà. Comunque, io mi
sono avviato in questa direzione e, di volta in volta, prendendo per base quel
postulato che mi sembri più solido, giudico vero ciò che concorda con esso, sia
rispetto alle cause sia rispetto alle altre cose, e ciò che non concorda giudico
non vero […]”.
Platone, Fedone, 99 A-100 A, a cura di G. Reale, Rusconi
Come abbiamo visto, la forma più alta e completa di conoscenza, secondo Platone, è
l’intuizione intellettiva o intellezione. Essa è l’atto puramente mentale e immediato, e
quindi infallibile, con il quale conosciamo le “Idee”, cioè gli oggetti fondamentali della
realtà. Nel mito della caverna l’ “intuizione” è rappresentata allegoricamente dalla visione
diretta e totale delle cose naturali (piante, animali, minerali, stelle, Luna, Sole) sulla
superficie terrestre. Le cose naturali sono dunque il simbolo delle Idee. Ma cosa sono allora
le Idee per Platone?
Non è facile capirlo perché nel nostro linguaggio per “idea” intendiamo una
rappresentazione della mente umana, un pensiero, un concetto. Nel greco antico, invece,
“idea” (idéa, ma anche eìdos) significava “aspetto”, “figura”, “forma”. Platone usa il
termine greco antico attribuendogli il significato filosofico di “forma razionale”, “essenza
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intelligibile”. In questo senso, l’Idea platonica corrisponde in parte a ciò che noi
intendiamo con “concetto”, cioè l’insieme delle proprietà fondamentali che accomunano un
gruppo di cose e che si sintetizzano linguisticamente nella “definizione”. P.e., il concetto di
triangolo, ovvero “poligono con tre lati e tre angoli”, oppure il concetto di gatto, ovvero
“felino di piccole dimensioni che miagola”. L’Idea platonica, però, a differenza del
concetto, non è una rappresentazione mentale, bensì un oggetto reale. P.e., per Platone
l’Idea di gatto è la forma razionale unica e universale di tutti i possibili gatti, che esiste
fuori della nostra mente e indipendentemente da ogni gatto esistente nel mondo fisico.
Ciò premesso, vediamo quali sono le caratteristiche di questi strani oggetti chiamati da
Platone Idee. Secondo Platone le Idee sono:
 puramente razionali, ossia metafisiche, cioè non posseggono alcuna materialità, non
appartengono alla dimensione fisica, e quindi non si possono vedere, toccare,
odorare, ma soltanto intuire mentalmente;
 universali, in quanto ognuna è costituita dalle caratteristiche comuni a una
molteplicità di cose individuali (c’è unica Idea di gatto per tutti i gatti fisici presenti,
passati e futuri);
 eterne, in quanto, non essendo fisiche, le Idee non si generano né si distruggono;
 immutabili, in quanto, non essendo fisiche, non sono soggette al divenire;
 perfette, poiché ognuna di esse è l’essenza totale e piena di qualcosa;
 divine, perché tutte le precedenti caratteristiche sono proprio quelle che
contraddistinguono il divino.
Date queste caratteristiche, per Platone, benché metafisico e non esperibile sensibilmente,
il mondo delle Idee costituisce la realtà suprema, la Realtà con la maiuscola. Solo le Idee,
infatti, posseggono davvero l’esistenza, cioè esistono in virtù di sé stesse, non essendo
generate da qualcos’altro, ed esistono in modo pieno, totale, dal momento che sono eterne.
Ma se le Idee non sono empiricamente conoscibili e dunque provabili, come può Platone
sostenerne l’esistenza? La principale argomentazione platonica dell’esistenza delle Idee si
impernia sul concetto di uguaglianza, intesa come completa coincidenza/collimanza di due
cose. Platone sostiene che è evidente che tutti gli uomini possiedono tale concetto, in
quanto esso è il criterio in base al quale valutiamo continuamente se due oggetti sono
simili o diversi. Però, osserva Platone, nel mondo fisico, caratterizzato dalla molteplicità
individuale illimitata, non esistono due o più cose perfettamente uguali, p.e. due abeti
uguali.
Dunque è impossibile che gli uomini abbiano ricavato il concetto di uguaglianza dal mondo
fisico tramite l’esperienza sensibile. L’unica spiegazione plausibile del fatto che
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possediamo il concetto di uguaglianza è pertanto, secondo Platone, che esista l’Idea di
uguaglianza – cioè l’Uguaglianza in sé, l’Uguaglianza perfetta – e che le nostre menti siano
in grado di intuirla.
Come si è detto, le Idee nel mito della caverna sono simboleggiate dagli oggetti naturali
presenti sul suolo terrestre. Tali oggetti nel mito sono divisi , in base ai diversi momenti in
cui il prigioniero liberato le vede, in tre gruppi:
1. gli oggetti terrestri, quali piante, animali, minerali;
2. gli oggetti celesti notturni: le stelle e la Luna;
3. gli oggetti celesti diurni: il Sole.
E’ plausibile che Platone rappresenti così, allegoricamente, l’articolazione gerarchica del
mondo delle Idee:
1. al livello più basso, le Idee delle cose naturali, p.e. l’Idea di cane o l’Idea di metallo o
ancora l’Idea di temporale;
2. a un livello superiore le Idee delle cose astratte, cioè dei valori etico-civili - p.e.
l’Idea di coraggio o l’Idea di onestà –, dei principi logici più generali, p.e. l’Idea di
uguaglianza o l’Idea di causa e, ancora, le Idee dei numeri e la Diade (la Luna);
3. al massimo e supremo livello, il principio di tutte le Idee, cioè l’Uno (il Sole).
Ma cosa sono l’Uno e la Diade? Secondo Platone, tutte le Idee sono costituite
dell’interazione di due principi opposti, ma originariamente correlati l’uno all’altro:
 l’Uno, ovvero il principio della deliminazione, della determinazione, dell’ordine,
ossia dell’organizzazione;
 la Diade, ovvero la dualità di infinitamente grande e infinitamente piccolo, cioè la
molteplicità infinita costituita dalle illimitate gradazioni comprese tra un limite
tendente all’infinitamente grande e uno tendente all’infinitamente piccolo.
L’interazione tra Uno e Diade genera una molteplicità determinata, unitaria, cioè ordinata,
per l’appunto il mondo delle Idee. La Diade e più ancora l’Uno sono dunque al di là e al di
sopra delle stesse Idee, in quanto ne sono i Principi generatori.
Le prime Idee a essere costituite dall’interazione di Uno e Diade sono i “numeri ideali”,
cioè la decade, i primi dieci numeri, in base ai quali poi si formano tutte le altre Idee. Ciò
significa che vi sono Idee monadiche, Idee diadiche, Idee triadiche, ecc., e, più in generale,
che ogni Idea è la manifestazione e la realizzazione di uno specifico valore numerico e
dunque che le relazioni logiche tra le Idee sono fondamentalmente di tipo matematico.
In questo senso, l’Uno è definito da Platone la “misura esatta”, ovvero il “metro”, il criterio
supremo di misurazione di ogni Idea. In altre parole, l’Uno è il parametro che stabilisce gli
esatti valori numerici di tutte le Idee facendo sì che ognuna sia pienamente sé stessa e al
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contempo intrattenga rapporti di armonica integrazione e proficuo equilibrio con le altre.
Il principio dell’Uno, aggiunge Platone, coincide a sua volta con il Bene in sé, la Verità in sé
e la Bellezza in sé. Il Bene è infatti misura/ordinamento dei nostri istinti, delle nostre
emozioni, dei nostri sentimenti e di conseguenza dei nostri comportamenti. La Verità è
misura/ordinamento delle nostre conoscenze empiriche e dei nostri ragionamenti. La
Bellezza misura/ordinamento degli aspetti fisico-sensibili dei nostri corpi e in generale
delle cose.
Dal momento che Bene, Verità e Bellezza hanno l’Uno come denominatore comune
essenziale, secondo Platone ciò che è davvero bello è anche vero e buono, ciò che è vero è
anche buono e bello, ciò che è buono è anche vero e bello. Insomma, al vertice del mondo
delle Idee sta l’equazione multipla Uno=Bene=Vero=Bello. In questo senso tutte le Idee
sono buone, vere e belle, ovvero ognuna di esse è un modo specifico di realizzare il Bene, il
Vero e il Bello, e tutte insieme costituiscono il Bene-Vero-Bello compiuto e totale.
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MAPPA della TAPPA 3
UNO = Bene = Bello = Vero
Principio finito di determinazione e ordine,
misura esattissima
DIADE=dualità infinitamente
grande/infinitamente piccolo
Principio infinito di molteplicità disordinata
NUMERI IDEALI
della decade
IDEE
dei principi logico-matematici,
dei valori etici e
di tutte le cose fisiche
oggetti
puramente
razionali, cioè
non fisici, che
esistono fuori
della mente
umana
universali, in
quanto
sintesi delle
proprietà
comuni di un
insieme di
cose
eterne e
immutabili, in
quanto non
nascono, non
muoiono e non
cambiano
perfette,
perché
complete e
compiute
divine,
perché
posseggono
il massimo
grado di
realtà ed
esistenza
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VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
LE IDEE PLATONICHE E ROGER PENROSE
Alcuni grandi scienziati contemporanei condividono la teoria delle Idee di Platone,
benché limitatamente alle Idee logico-matematiche. Il caso più significativo è quello del
fisico Roger Penrose, professore emerito dell’università di Oxford, autore insieme a
Stephen Hawking della teoria dei buchi neri, il quale sostiene che i concetti e le relazioni
matematiche, in quanto oggettivamente veri, sono delle Idee proprio nel significato
platonico del termine.
Penrose argomenta la sua tesi utilizzando l’insieme di Mandelbrot. Si tratta di un
frattale, cioè di una figura matematica divisibile all’infinito in cui ogni parte, sempre più
piccola che sia, ha la stessa configurazione, e la stessa grandezza infinita, dell’insieme. B.
Mandelbrot è il matematico della seconda metà del ‘900 che scoprì i frattali ed elaborò la
loro teoria geometrica.
L’insieme di Mandelbrot, afferma Penrose, esiste oggettivamente, è un’Idea platonica, in
quanto è impossibile che possa esistere nella mente umana o in un computer, per quanto
potente sia. Infatti, pur scaturendo da una regola matematica molto semplice, l’insieme
di Mandelbrot è infinito e, come tale, non può per principio essere riprodotto
completamente né nella mente di un uomo né sul video o nei tabulati di un computer. “La
sua esistenza può trovarsi solo nel mondo platonico delle forme matematiche”, conclude.
E, per chiarire la sua tesi, aggiunge: “Le forme matematiche del mondo platonico non
hanno evidentemente lo stesso tipo di esistenza dei comuni oggetti fisici, come tavoli o
sedie. Non hanno una posizione spaziale e non esistono nel tempo. Si deve pensare che le
nozioni matematiche oggettive siano entità atemporali, che non devono essere
considerate come esistenti soltanto nel momento in cui sono percepite dagli esseri umani
per la prima volta” (R. Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, 2005, p. 17).
Su questa base, Penrose sostiene che la realtà è costituita dall’interazione di 3 “mondi”:
1. il mondo delle idee matematiche;
2. il mondo mentale dell’uomo;
3. il mondo fisico.
In che modo i tre mondi possano comunicare tra loro, data la loro eterogeneità, secondo
Penrose, è ancora in gran parte un mistero. Tuttavia che il mondo fisico sia governato da
leggi matematiche, e cioè dal mondo delle Idee, per Penrose è attestato da molte e robuste
prove.
Infine, un ultimo punto di contatto tra la filosofia di Platone e il pensiero di Penrose è la
tesi della bellezza del mondo delle Idee matematiche. Scrive Penrose: “[…] i criteri estetici
sono fondamentali per lo sviluppo delle Idee matematiche in sé e per sé, fornendo sia lo
stimolo verso la scoperta sia una potente guida verso la verità. Supporrei addirittura che
un importante elemento nella comune convinzione del matematico che un mondo
platonico esterno abbia un’esistenza realmente indipendente da noi provenga dalla
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straordinariamente inaspettata bellezza nascosta che le idee stesse così spesso rivelano.”
(ed. cit., p. 22).
A chi vuole saperne di più non resta che leggere il già citato libro di Penrose: La strada
che porta alla realtà, Rizzoli, 2005.
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TAPPA 4
PLATONE : IL MONDO FISICO E’ UNA COPIA DEL MONDO DELLE IDEE
“Che cos’è ciò che è sempre e non ha generazione? E che cos’è ciò che si
genera perennemente e non è mai essere? Il primo è ciò che è concepibile con
l’intelligenza mediante il ragionamento, perché è sempre nelle medesime
condizioni. Il secondo, al contrario, è ciò che è opinabile mediante la
percezione sensoriale irrazionale, perché si genere e perisce, e non è mai
pienamente essere.
“Inoltre, ogni cosa che si genera, di necessità viene generata da qualche causa.
Infatti, è impossibile che ogni cosa abbia generazione, senza avere una causa.
“E quando l’Artefice di qualsivoglia cosa, guardando sempre a ciò che è allo
stesso modo e servendosene come di esemplare, ne porta in atto l’Idea e la
potenza, è necessario che, in questo modo, riesca tutta quanta bella; quella
cosa, invece, che l’Artefice porta in atto servendosi di un esemplare generato,
non sarà bella. […]
“Ma è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno: infatti l’universo
è la più bella delle cose che sono state generate e l’Artefice è la migliore delle
cause.
“Se, pertanto, l’Universo è stato generato così, fu realizzato dall’Artefice
guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l’intelligenza e che è
sempre allo stesso modo.
“Stando così le cose, è assolutamente necessario che questo cosmo sia
immagine di qualche cosa”.
Platone, Timeo, 27 D-29B, a cura di G. Reale, Rusconi
“Il principio che nuovamente riguarda l’universo si basi su una distinzionepiù
ampia di quella di prima. Infatti allora distinguemmo due generi, ed ora
bisogna spiegare un terzo e differente genere. […]
Quale potenza e natura dobbiamo pensare che abbia?
Questa soprattutto: di essere il ricettacolo di tutto ciò che si genera, come una
nutrice. […]
Bisogna dire che essa è sempre una medesima cosa, perché essa non esce mai
dalla propria potenza. Infatti, per natura essa sta come materiale da impronta
per ogni cosa, mossa e modellata dalle cose che entrano in essa, e appare per
causa di esse ora in un modo e ora in un altro.
E le cose che entrano e che escono sono imitazioni delle cose che sono
sempre, improntate da esse in un certo modo difficile da spiegarsi e
meraviglioso, di cui più avanti faremi ricerca. […]
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Dunque, allo stesso modo, anche a ciò che deve ricevere molte volte e bene in
ogni parte di sé le immagini di tutti gli esseri eterni conviene essere per sua
natura al di là di tutte le forme.
Perciò la madre e il ricettacolo di ciò che si genera ed è visibile e interamente
sensibile, non diciamola né terra né acqua né fuoco né aria, né altre delle cose
che nascono da queste o da cui queste nascono. Ma dicendola una specie
invisibile e amorfa, capace di accogliere tutto, e che partecipa in un modo
assai complesso dell’intelligibile e che è difficile da concepirsi, non ci
inganneremo. […]
E a sua volta bisogna ammettere che c’è un terzo genere, quello dello spazio,
che è sempre e che non è soggetto a distruzione, e che fornisce sede a tutte le
cose che sono soggette a generazione. E questo è coglibile senza i sensi con un
argomento spurio ed è a mala pena oggetto di persuasione. Guardando ad
esso noi sogniamo e diciamo che è necessario che ogni cosa che è, sia in
qualche luogo e occupi uno spazio, mentre ciò che non è in terra né in qualche
luogo in cielo, non è nulla. […]
E prima di questo tutte le cose si trovano senza ragione e senza misura. Ma
quando Dio incominciò a ordinare l’Universo, il fuoco in primo luogo e la
terra e l’aria e l’acqua, avevano bensì qualche traccia di sé, ma si trovavano in
quella condizione in cui è naturale si trovi ogni cosa, quando Dio è assente.
Queste cose, dunque, che allora si trovavano in questo stato, egli in primo
luogo le modellò con forme e con numeri. Che Dio abbia costituito queste cose
nel modo più bello e migliore che fosse possibile, muovendo da una loro
condizione che non era affatto così, anche questo per ogni cosa resti saldo
come detto una volta per tutte.
Platone, Timeo, 49 A - 53 B, a cura di G. Reale, Rusconi
Secondo Platone il mondo fisico – la caverna/prigione del suo mito – è una immagine,
ovvero una copia, del mondo delle Idee. Più precisamente, il mondo fisico è la
concretizzazione materiale degli enti matematici (numeri, proprietà aritmetiche, figure
geometriche piane e solide, teoremi, ecc.) che sono immagini o copie dirette delle Idee. Nel
mito della caverna questa tesi è espressa simbolicamente dal fatto che gli oggetti artificiali
di legno o pietra (=enti naturali) sono copie artigianali delle immagini riflesse (=enti
matematici) sugli specchi d’acqua delle cose naturali (=Idee).
Ciò significa che per Platone il mondo delle Idee è la causa primaria e fondamentale del
mondo fisico. In questo senso, le Idee sono i modelli originari – compiuti e quindi perfetti
– di tutte le cose naturali e queste ultime altro non sono che molteplici imitazioni –
incompiute e quindi imperfette – delle Idee. P.e. l’Idea di gatto è il modello universale
perfetto da cui derivano tutti i gatti fisici e questi ultimi sono molteplici imitazioni
individuali e imperfette dell’unica Idea di gatto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma in che modo le cose fisiche sono derivate dalle Idee? Chi o cosa ha prodotto le copie
fisiche delle Idee? La risposta di Platone è affidata a un altro mito di sua invenzione, il mito
del Demiurgo (che in greco antico significava “artigiano”, “artefice”). In questo caso,
Platone ci avverte esplicitamente che il suo mito non contiene una spiegazione vera della
genesi del cosmo fisico, ma solo una sua descrizione verosimile, dal momento che è
impossibile spiegare in modo compiutamente razionale ciò che è fisico, poiché la fisicità
nasce anche da un principio in sé disordinato, dunque irrazionale.
Infatti, perché un modello ideale possa essere imitato occorre qualcosa con la quale e nella
quale sia possibile imitarlo. Questo qualcosa è identificato da Platone come “spazialità”,
ma anche come “recipiente”. In altri termini, la “spazialità” è il “recipiente” che ospita gli
enti matematici, cioè le immagini delle Idee, che diventano così tridimensionali, cioè
acquistano una apparenza fisica, ovvero la proprietà apparente della consistenza materiale.
Ciò significa che per Platone la materia non è un principio originario ma un effetto derivato
(gli scienziati odierni direbbero un fenomeno “emergente”).
La spazialità, afferma Platone, è ingenerata ed eterna. Tuttavia, essa di per sé, nel suo stato
originario, costituisce una molteplicità illimitata e caotica, una sorta di impensabile nonessere che è, ovvero qualcosa di autocontraddittorio. La spazialità, in tal senso, è un’entità
amorfa composta da una quantità indefinita di elementi disposti in modo squilibrato e da
una quantità indefinita di forze che li agitano disordinatamente. Per questo, Platone
sostiene che la spazialità rappresenta una “causa irregolare”, ovvero una realtà dominata
dal cieco caso, e che pertanto non può essere razionalmente conosciuta in modo completo.
Idee e spazialità per Platone costituiscono originariamente due realtà indipendenti,
eterogenee e antitetiche che, come tali, non posso interagire direttamente tra loro. A
rendere possibile la loro interazione interviene, narra Platone, una terza causa, il
Demiurgo. Con questo nome, Platone designa il dio supremo inteso come il dio che ha
prodotto il mondo fisico, e anche gli altri dei, con la sua opera consapevole e intelligente.
Il Demiurgo, infatti, è un essere personale privo di fisicità, totalmente razionale e quindi
ingenerato ed eterno. In altre parole, egli fa parte del mondo delle Idee, dunque le conosce
pienamente e sulla base di questa conoscenza ordina la spazialità infondendole l’ordine
razional-matematico proprio delle Idee e trasformandola così nel cosmo fisico.
L’opera di ordinamento del Demiurgo comincia con la plasmazione dei quattro elementi
fisici fondamentali: terra, fuoco, aria, acqua. In origine, sostiene Platone, nella spazialità vi
sono solo tracce confuse di questi elementi. Il Demiurgo trasforma queste tracce in veri e
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
propri elementi dando a ognuna di esse una forma geometrica precisa. Ciò significa che
egli produce ogni elemento dandogli una struttura corpuscolare di tipo geometrico, ovvero
dividendolo in parti minime invisibili e modellando ognuna di esse come un solido
regolare. Precisamente:
1. la terra è costituita di particelle cubiche;
2. il fuoco è costituito di particelle a forma di tetraedro;
3. l’aria è costituita di particelle a forma di ottaedro;
4. l’acqua è costituita di particelle a forma di icosaedro.
Le proprietà fisico-chimiche degli elementi dipendono dunque dalle proprietà
matematiche delle particelle che li compongono. Poiché tutti gli enti naturali sono
combinazioni in proporzioni diverse di particelle dei quattro elementi, ciò comporta che il
mondo fisico ha una costituzione matematica, ovvero che tutti i fenomeni naturali sono
una manifestazione di relazioni matematiche.
Il Demiurgo, però, secondo Platone, non produce solo il “corpo” dell’universo ma anche la
sua “anima”. Si tratta dell’Anima del mondo, cioè di un principio puramente razionale che
pervade la natura fisica infondendole vita e movimento. L’Anima del mondo è plasmata dal
Demiurgo mescolando secondo precise proporzioni matematiche l’uguaglianza, la diversità
e il loro misto o intermedio. Dal momento che anche l’Anima del mondo ha una struttura
razional-matematica, anche i movimenti del mondo fisico sono governati da leggi
matematiche.
Ma perché il Demiurgo ordina la spazialità e produce il cosmo fisico? Qual è il movente
della sua opera di ordinamento della spazialità? Ovvero qual è lo scopo ultimo per il quale
ha prodotto il mondo fisico? La risposta di Platone è: il Bene. Infatti, facendo parte del
mondo delle Idee, il Demiurgo ne venera il principio primo, cioè l’Uno-Bene. In altri
termini, essendo buono, il Demiurgo vuole il bene della spazialità e quindi vuole migliorare
la sua condizione. L’ordine, cioè la molteplicità unitaria e determinata, è migliore del
disordine, cioè della molteplicità illimitata e caotica. Il Bene, infatti, coincide con l’Uno,
cioè con l’unità e la determinazione ed entrambi sono alla base dell’essere, ovvero
dell’esistenza effettiva. Il Demiurgo, pertanto, conferendo un ordine unitario alla
molteplicità illimitata e caotica della spazialità, e conferendole così un vero essere, agisce a
fin di bene. Ciò, a sua volta, comporta che il mondo fisico è organizzato finalisticamente,
cioè che ogni cosa e ogni fenomeno naturale si spiegano in quanto contribuiscono a
realizzare un unico fine, il Bene appunto.
Tuttavia il mondo fisico per Platone contiene costitutivamente un ineliminabile grado di
imperfezione. Ciò non dipende dall’opera del Demiurgo, che è perfetta, ma dalla differenza
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ontologica irriducibile tra le Idee e la spazialità. Infatti, mentre le Idee, in quanto
puramente razionali, hanno una costituzione unitaria, cioè sono ordinate nella loro stessa
essenza, la spazialità, come si è visto, ha una costituzione molteplice, cioè possiede
un’essenza disordinata, ovvero è costitutivamente e originariamente irrazionale.
Di conseguenza, secondo Platone, benché l’opera ordinatrice del Demiurgo sia magistrale,
essa non può giungere a rendere la spazialità uguale alle Idee. Pertanto, mentre il mondo
delle Idee è perfetto, il mondo fisico è imperfetto, anche se non assolutamente ma solo
relativamente. Questa strutturale imperfezione relativa del mondo fisico ha due importanti
conseguenze:
1. il mondo fisico non può essere conosciuto scientificamente, cioè non permette una
conoscenza vera, ma solo una conoscenza verosimile, cioè approssimata alla verità,
ovvero una conoscenza non completa e certa ma solo parziale e probabile;
2. il mondo fisico implica il male, il cui fondamento ontologico è appunto lo scarto, lo
iato, il divario incolmabile tra mondo fisico e mondo ideale.
Ciò non significa che il mondo fisico sia male. In quanto migliore copia possibile della
perfezione ideale, il cosmo è pur sempre soprattutto bene. Però è un bene inferiore a quello
totale delle Idee. Il male, insomma, è costituito dalla differenza quantitativa tra il Bene
totale delle Idee e il Bene parziale del cosmo.
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MAPPA della TAPPA 4
MONDO DELLE IDEE
puramente razionale e unitario quindi
dotato di piena esistenza e
modello perfetto di ordine
Guardando il
DEMIURGO
=
dio artefice del cosmo fisico
Ordina la
SPAZIALITA’
dimensione tridimensionale molteplice e
caotica basata sul caso e quindi dotata di
un’esistenza meramente virtuale
In base al
CUBO
distingue e
produce
l’elemento
TERRA
In base al
TETRAEDRO
distingue e
produce
l’elemento
FUOCO
In base all’
OTTAEDRO
distingue e
produce
l’elemento
ARIA
In base all’
ICOSAEDRO
distingue e
produce
l’elemento
ACQUA
CORPO del mondo
ANIMA del mondo principio
razionale di vita e movimento
COSMO FISICO = grande e ordinato animale vivente
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VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
LA “CHORA” PLATONICA E IL CAMPO DI HIGGS
Come abbiamo visto, per Platone il principio fisico originario e fondamentale è la
“spazialità” (in greco chòra), cioè la tridimensionalità, e la materia è un’apparenza, cioè
un effetto secondario prodotto dalla spazialità. In tale senso, Platone sostiene anche che
la realtà fisica, così come la osserviamo in base ai nostri sensi, equivale a un sogno.
Questa tesi platonica trova punti di contatto con una importante teoria fisica
contemporanea, quella del “campo di Higgs” (detto scherzosamente “oceano di Higgs”), o
del “bosone di Higgs” (detto scherzosamente “la particella di Dio”), che prende il nome dal
suo autore, Peter Higgs, attualmente fisico emerito all’Università di Edimburgo.
Secondo la teoria di Higgs, l’intero universo è pervaso da un “campo” formato da un
particolare “bosone”. Un bosone è una particella elementare il cui scambio costituisce le 4
forze/energie fondamentali: elettromagnetica, nucleare forte, nucleare debole,
gravitazionale. Il bosone di Higgs interagisce con quasi tutte le altre particelle elementari
(p.e. neutrini, elettroni, quarks, ma non con i fotoni) conferendo a ognuna una propria
massa (a riposo). Usando una metafora, è un po’ come se lo spazio fosse pervaso da un
fluido vischioso che conferisce resistenza e durezza alle particelle elementari, le quali
originariamente sono tutte prive di massa, ovvero sono energia pura.
In origine, cioè nei primi attimi successivi al big bang, secondo Higgs, ma questo vale per
tutti i fisici contemporanei, lo spazio-tempo era pervaso solo da energia pura simmetrica,
cioè omogenea, non differenziata. Con il successivo abbassamento della temperatura
sarebbe emerso il “campo di Higgs” e con esso l’energia unica originaria si sarebbe
differenziata nelle 4 forze fondamentali e nelle diverse particelle elementari che
costituiscono i mattoni dei corpi. I fotoni, invece, secondo la teoria di Higgs, sono privi di
massa, e viaggiano nello spazio alla massima velocità possibile, proprio perché non
interagiscono con i bosoni di Higgs e quindi hanno conservato la loro natura fisica
originaria di energia pura.
Insomma, per Higgs, così come per Platone, la materia (che i fisici chiamano
tecnicamente massa) non è originaria ma il prodotto derivato di qualcosa di originario,
che per Platone era la “spazialità” e per Higgs il campo che prende il suo nome e che è sì
un concetto diverso, decisamente più specifico e ricco, ma che comunque coincide con
l’estensione spaziale.
Per concludere, è indispensabile sapere che Higgs avanzò l’ipotesi dell’esistenza del
campo che porta il suo nome nel 1964, in base soltanto a calcoli matematici e
ragionamenti puramente teorici. Fino all’estate del 2012 la teoria di Higgs non ebbe
alcuna conferma sperimentale. Infatti, prima del 2008, non esistevano apparecchiature
sperimentali in grado di produrre, intercettare e “osservare” un oggetto così piccolo e
veloce come dovrebbe essere il bosone di Higgs secondo i calcoli teorici. Soltanto nel 2012
sono cominciati i primi tentativi di “acchiappare” i bosoni di Higgs grazie alla
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
costruzione e alla messa in funzione (2008), nel sottosuolo di Ginevra, del Large Hadron
Collider (LHC), un potente acceleratore di particelle, ad opera del CERN,
l’organizzazione europea per la ricerca nucleare. Nell’estate 2012, finalmente, si ebbe il
primo “avvistamento”, confermato nel marzo del 2013 poi da altri avvistamenti (benché
siano necessari ulteriori controlli soprattutto per stabilire la massa esatta del bosone di
Higgs).
In questo modo la teoria di Higgs è stata ufficialmente confermata e Higgs è uno dei
candidati più accreditati al prossimo Nobel per la Fisica. Soprattutto, però, anche per
questo aspetto – la teorizzazione puramente matematica – la scoperta di Higgs
costituisce un forte argomento a favore della teoria della conoscenza di Platone, basata
appunto sul primato del ragionamento matematico sull’osservazione sensibile.
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TAPPA 5
PLATONE: CONOSCERE E’ RICORDARE LA PRIMA VISIONE DELLE IDEE
“Si pensi, dunque, l’anima come simile a una forza per sua natura composta
da un carro a due cavalli e di un auriga.
“I cavalli e gli aurighi degli dei sono tutti buoni e derivati da buoni, invece
quelli degli altri sono misti.
“In primo luogo, in noi l’auriga guida un carro a due cavalli; inoltre, dei due
cavalli, uno è bello e buono e derivante da belli e buoni; l’altro, invece, deriva
da opposti ed è opposto. Difficile e disagevole, di necessità, per quel che ci
riguarda, è la guida del carro. […]
“La potenza dell’ala per sua natura tende a portare in alto ciò che è pesante,
sollevandolo là dove abita la stirpe degli dei, e in certo senso partecipa del
divino più di tutte le cose che riguardano il corpo. […]
“Zeus, il grande sovrano che sta in cielo, conducendo il carro alato, è il primo
a procedere, ordina tutte quante le cose e si prende cura di esse. A lui tien
dietro un esercito di dei e di dèmoni ordinato in undici schiere. […]
“Quando essi vanno a banchetto per prendere cibo procedono per l’ascesa
fino a raggiungere la sommità della volta del cielo.
“Là i veicoli degli dei, che sono ben equilibrati ed agili da guidare, procedono
bene; gli altri, invece, procedono con fatica. Il cavallo che è partecipe del
male, infatti, cala, piegando verso terra e opprimendo quell’auriga che non
abbia saputo allevarlo bene.
“Qui all’anima si presenta la fatica e la prova suprema.
“Infatti, allorché le anime che sono dette immortali pervengono alla sommità
del cielo, procedendo al di fuori, si posano sulla volta del cielo, e la rotazione
del cielo le trasporta così posate, ed esse contemplano le cose che stanno al di
fuori del cielo.
“L’Iperuranio, il luogo sopraceleste, nessuno dei poeti di quaggiù lo cantò
mai, né mai lo canterà in modo degno.
“La cosa sta in questo modo, perché bisogna avere veramente il coraggio di
dire il vero, specialmente se si parla della verità.
“L’essere che realmente è, senza colore, privo di figura e non visibile, e che
può essere contemplato solo dalla guida dell’anima, ossia dall’intelletto, e
intorno a cui verte la conoscenza vera, occupa tale luogo.
“Ora, poiché la ragione di un dio è nutrita da una intelligenza e da una scienza
pura, anche quella di ogni anima cui prema di conoscere ciò che le conviene,
quando vede dopo un certo tempo l’essere, si allieta, e, contemplando la
verità, se ne nutre e ne gode, finché la rotazione del cielo non l’abbia riportata
allo stesso punto.
196
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“Nel giro che essa compie vede la Giustizia stessa, vede la Temperanza, vede la
Scienza, non quella connessa col divenire, né quella che è differente in quanto
si fonda su quelle cose alle quali noi ora diamo il nome di esseri, ma quella
che è veramente scienza in ciò che è veramente essere. […]
“Quanto alle altre anime, invece, una, seguendo il dio nel modo migliore
possibile e rendendosi simile a lui, solleva il capo dall’auriga verso il luogo che
sta al di fuori del cielo e viene trasportata nel moto di rotazione, ma a stento
contempla gli esseri, perché turbata dai cavalli.
“Un’altra anima, invece, ora solleva il capo, ora lo abbassa; ma poiché i cavalli
le fanno violenza, vede alcuni esseri, mentre altri no.
“Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma, non
essendo capaci di farlo, vengono sommerse e trascinate nel moto di rotazione,
urtandosi l’una con l’altra, accalcandosi e tentando di passare l’una davanti
all’altra. Nasce, dunque, un tumulto e una lotta con un estremo sudore, e, per
l’ignavia degli aurighi, molte anime rimangono storpiate, e molte riportano
molte delle loro penne spezzate.
“Tutte, poi, oppresse da grande fatica, se ne allontanano senza aver fruito
della contemplazione dell’essere; e, una volta che si siano allontanate, si
nutrono del cibo dell’opinione.
“Il motivo per cui esse mettono tanto impegno per vedere la Pianura della
Verità è questo: il nutrimento adatto alla parte migliore dell’anima proviene
dal prato che è là, e la natura dell’ala con cui l’anima può volare si nutre
proprio di questo.”
Platone, Fedro, 246A-248C
Le Idee, secondo Platone, sono i modelli oggettivi, e quindi le cause prime, di tutte le cose e
anche di tutti i fatti/comportamenti fisici. P.e., l’Idea di rosa è il modello di tutte le rose,
l’Idea di rosso quello di tutti i rossi, l’Idea di combustione quello di tutti gli incendi, l’Idea
di coraggio quello di tutti gli atti coraggiosi, ecc. In altre parole tutte le cose e gli eventi
fisici sono riproduzioni o imitazioni delle Idee. Poiché conoscere scientificamente, cioè in
modo veritiero, qualcosa significa per Platone conoscerne la causa prima, ne segue che per
conoscere le cose/azioni fisiche è necessario conoscere le Idee da cui ognuna deriva. Detto
in termini filosofici, le Idee in quanto supremi principi ontologici del mondo fisico ne sono
di conseguenza anche i supremi principi gnoseologici, cioè conoscitivi.
Le Idee, però, sono forme universali puramente razionali, del tutto prive di qualsiasi
proprietà fisica, e pertanto, come si è visto, Platone sostiene che non possono essere
conosciute attraverso l’esperienza sensibile. Ma allora come può conoscerle l’uomo? E
come è possibile quindi raggiungere una conoscenza di tipo scientifico, cioè completa e
invariante?
197
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La risposta di Platone, in prima battuta, è affidata ancora una volta a un mito, il mito della
biga alata (chiamato anche mito dell’auriga). Esso ha come protagoniste appunto delle
bighe alate, cioè capaci di volare, ognuna guidata da un auriga e tirata da due cavalli, uno
bianco e docile e l’altro nero e ribelle. La biga alata rappresenta l’ “anima” (psyché9), cioè il
principio individuale della vita e del movimento di ogni cosa.
L’anima, secondo Platone, non è materiale, è puramente razionale, e, in quanto tale, è
immortale. Infatti, argomenta Platone, la morte consiste nella disgregazione di un corpo,
in quanto questo, essendo fisico, è composto di più elementi (terra, acqua, fuoco, aria); ma
l’anima è una sostanza semplice, cioè unica, non composta, dunque non può digregarsi,
ovvero morire. Inoltre, l’anima è il principio della vita del corpo e sarebbe contraddittorio
che il principio della vita fosse soggetto alla sua negazione, cioè alla morte.
L’auriga, il cavallo bianco e il cavallo nero rappresentano le tre componenti fondamentali
dell’anima immortale: rispettivamente l’intelligenza, l’aggressività, il desiderio. Platone
racconta che in origine le bighe alate volano fino ad avvicinarsi alla volta del cielo,
concepito come una sfera rotante che racchiude l’intero cosmo. Al di là della sfera celeste si
estende la “pianura della verità” o “iperuranio”, cioè il mondo delle Idee. Le bighe alate
puntano a posarsi sulla volta celeste e a lasciarsi trasportare dal moto di rotazione della
sfera celeste in modo da poter contemplare tutte le Idee da ogni punto di vista.
Ma solo le bighe divine, dotate di due cavalli entrambi bianchi, cioè docili, riescono nella
difficile impresa. Le bighe umane, invece, a causa della resistenza del cavallo nero,
riescono a rimanere per un tempo limitato sulla volta celeste e quindi hanno una visione
limitata delle Idee. Inoltre i tempi di permanenza delle bighe umane variano e quindi
alcune hanno una visione più ampia delle Idee, altre una più ristretta. Tutte però prima o
poi sono trascinate verso il basso dal cavallo nero, cioè dalla loro componente desiderante.
Le bighe/anime cadono così nella dimensione terrena e si incarnano, cioè sono ricoperte
da un corpo. Infine, altre bighe ancora, narra Platone, si scontrano prima di poter
raggiungere la volta celeste e di conseguenza cadono sulla Terra addirittura senza aver
avuto alcuna visione delle Idee, incarnandosi così come animali, vegetali e minerali.
9
Come sappiamo, psyché significava in greco fiato, respiro. Ma, poiché Platone è il primo filosofo (di
Socrate non possiamo essere certi) a sostenere che la psyché è del tutto immateriale, ciò giustifica la sua
traduzione con “anima”, che in italiano indica anche l’identità non fisica e immortale di ogni uomo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il corpo, afferma Platone, imprigiona l’anima umana nello stesso modo in cui le valve della
sua conchiglia rinserrano l’ostrica. Questa chiusura corporea opprime l’anima a tal punto
da diventarne la prigione, anzi perfino la tomba, cioè da soffocarla e spegnerla. Fuor di
metafora, in seguito all’acquisizione di una dimensione fisica, l’anima umana dimentica la
visione delle Idee e quindi perde perfino la coscienza di sé stessa. In altre parole, l’uomo si
trova nella situazione descritta simbolicamente da Platone nel mito della caverna-prigione,
attraverso l’allegoria dei prigionieri incatenati fin dalla nascita che guardano le ombre che
si agitano sulla parete di fondo. In questo senso il mito della biga alata può essere
considerato l’antefatto del mito della caverna. Ciò significa che dopo la caduta e
l’incarnazione dell’anima, tutti gli uomini sono come prigionieri incatenati, ovvero che ogni
uomo nella fase iniziale della sua vita si basa solo sui sensi, non è capace di usare
l’intelligenza e addirittura ignora di esserne dotato.
Nel mito della caverna, però, uno dei prigionieri viene liberato dalle catene da qualcuno o
da qualcosa la cui identità non è esplicitata da Platone. Il significato razionale di questa
liberazione è che, durante la sua esistenza, ogni uomo ha la possibilità di diventare
cosciente della propria intelligenza e quindi di farne uso. Ma chi o cosa libera il
prigioniero? Ovvero, come avviene il passaggio dall’incoscienza alla coscienza? La risposta
è contenuta nella spiegazione platonica del mito della biga alata: l’anima rinchiusa nel
corpo si ridesta nel momento in cui ricorda per la prima volta l’Idea della bellezza. In altre
parole, il misterioso liberatore del prigioniero incatenato è la Bellezza in sé. Fuor di
metafora, quando l’uomo fa l’esperienza della Bellezza, cioè prova il piacere estetico, si
accende in lui il ricordo delle Idee, ovvero comincia il processo di riscoperta e di fruizione
della propria intelligenza.
Ma perché il ricordo delle Idee dovrebbe essere innescato dalla Bellezza e non invece dal
Bene o dalla Giustizia o dalla Uguaglianza, cioè da un’altra delle Idee di livello superiore?
La risposta di Platone è affidata ancora una volta a una metafora: la Bellezza è l’Idea più
luminosa e come tale riesce, per così dire, a filtrare e a trasparire attraverso la cortina
opaca della fisicità. L’uomo allora può scorgerla con il più raffinato dei suoi sensi, quello
più vicino all’intelligenza: la vista. La metafora platonica sta a significare che l’Idea della
bellezza è quella che più di ogni altra si manifesta nel mondo fisico e può pertanto essere
oggetto di una speciale esperienza sensibile, si potrebbe dire di un’esperienza sensibile
estrema, cioè ai confini della realtà fisica; ovvero di un’intuizione che è al tempo stesso sia
sensibile sia razionale. In questo senso – fermo restando che il mondo naturale nel suo
insieme è solo simile alle Idee in quanto è ontologicamente diverso dalle Idee – si può dire
che la bellezza sensibile è per Platone la quota del mondo fisico che rispecchia
completamente le Idee, ovvero ciò che nella natura c’è di assolutamente uguale alle Idee, la
sua parte puramente razionale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’esperienza della Bellezza, però, non fa ricordare immediatamente all’anima tutte le Idee
che l’anima aveva contemplato in origine. Essa, secondo Platone, dà solo il via a un lungo
processo di graduale rimemorazione delle visioni razionali avute e poi obliate. Tale
processo – rappresentato simbolicamente nel mito della caverna dal cammino ascendente
del prigioniero liberato – si basa per Platone su due fattori:
1. la forte somiglianza e lo stretto collegamento che sussistono tra tutte le Idee per cui
dalla conoscenza di ognuna di essere si può passare razionalmente alla conoscenza
di quelle più vicine;
2. la somiglianza delle cose sensibili alle Idee in base alla quale – una volta che si sia
riacquistata la coscienza dell’esistenza delle Idee – è possibile usare l’esperienza
sensibile come stimolo e strumento della conoscenza razionale delle Idee.
Il primo di tali fattori si impernia sull’ordine matematico unitario del mondo delle Idee, il
secondo si fonda sullo stretto rapporto che intercorre, pur nella loro differenza, tra mondo
delle Idee e mondo fisico. Platone caratterizza questo rapporto in vari modi e a vari livelli:
 l’imitazione: il mondo fisico imita il mondo delle Idee, cioè gli rassomiglia;
 la partecipazione: gli enti naturali prendono parte alle loro rispettive Idee;
 la comunanza: le cose fisiche hanno qualcosa di comune con le Idee;
 la presenza: le Idee sono parzialmente presenti nelle cose fisiche.
Questi diversi aspetti della relazione Idee/cose fisiche sono tutti riconducibili a un comune
denominatore: le Idee sono i modelli originari, ovvero le cause fondamentali, di tutte le
cose fisiche.
200
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 5
La biga alata composta da un
auriga, un cavallo bianco e docile
e un cavallo nero e ribelle
L’anima umana, immateriale e
dunque capace di conoscere le Idee,
articolata in una parte razionale,
una aggressiva e una desiderante.
Le bighe alate volano verso l’alto
nel tentativo di raggiungere la
sommità della volta celeste per
poter contemplare la Pianura della
Verità che si estende al di là.
La tendenza della parte superiore
dell’anima, quella intelligente, a
staccarsi dall’esperienza sensibile
per cogliere le Idee, cioè i
principi razionali della realtà.
Alcune bighe umane riescono a
posarsi sulla volta celeste e a
guardare bene le Idee, altre le
guardano da lontano e in parte.
Gli uomini posseggono gradi
diversi di intelligenza, solo alcuni
sono capaci di conoscere la
struttura razionale della realtà.
Tutte le bighe umane, prima o
poi, sono trascinate verso il basso
dal cavallo nero, cadono sulla
terra e sono coperte da un corpo.
L’anima umana ha una pulsione
insopprimibile verso il piacere
sensibile che spiega perché l’uomo
è un essere fisico.
Il corpo racchiude l’anima come
le valve di un’ostrica, o come una
prigione, o come una tomba,
facendole dimenticare le Idee.
I sensi e la conoscenza sensibile
impediscono all’intelligenza
umana di scoprire la struttura
razionale del mondo fisico.
L’Idea di bellezza, capace di
filtrare attraverso la cortina della
fisicità, riaccende il ricordo delle
Idee e ne avvia la rimemorazione.
L’esperienza estetica, che fonde
sensibilità e razionalità, avvia la
ricerca conoscitiva dei principi
razionali del mondo fisico.
201
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 6
PLATONE: LA SCIENZA DELLE IDEE E’ LA DIALETTICA
“Eppure, Glaucone – osservai –, non è proprio questo il canto che il
procedimento dialettico esegue? E benché tale canto sia di natura intelligibile
la facoltà della vista può imitarlo, nella misura in cui, si diceva, essa riesce a
guardare agli animali in carne ed ossa, agli astri in quanto tali e, da ultimo, al
sole medesimo. Allo stesso modo, come essa è giunta al vertice del sensibile,
così uno può giungere fino al vertice dell’intelligibile solo quando, per mezzo
del procedimento dialettico e prescindendo totalmente dall’apporto delle
sensazioni, incomincia, con la sola forza della ragione, a tendere a ciò che è
l’essere di ciascuna realtà, senza cedere mai, almeno finché non ha colto con
la pura intelligenza l’essenza stessa del Bene”.
“Non c’è il minimo dubbio”, riconobbe.
“Ebbene, non è forse questo quello che tu chiami procedimento dialettico?”.
“Come no?”.
“E la liberazione dalle catene – dissi – e il voltare lo sguardo dalle ombre alle
statuette e alla luce, e ancora l’elevarsi dalla caverna al sole, e giunti qui,
l’impossibilità a vedere gli animali, le piante e lo stesso splendore del sole, e
invece la capacità di vedere le immagini divine riflesse nell’acqua e le ombre
degli oggetti reali – nota, non più ombre di statue prodotte da una luce
diversa da quella del sole, la quale andrebbe giudicata al più come un
semplice riflesso di essa –; insomma, tutto questo lavorio che è frutto delle
scienze che abbiamo preso in considerazione, ha appunto la funzione di
elevare la parte superiore dell’anima alla visione della parte suprema
dell’essere, come poc’anzi la facoltà più perspicace del corpo si elevava verso
la parte più splendente del mondo fisico e visibile”.
“Sono d’accordo – disse lui –. E tuttavia mi sembra, da un lato, terribilmente
difficile concedere il proprio assenso a queste cose, dall’altro ugualmente
difficile il non concederlo. Ad ogni modo – tenuto anche conto del fatto che
tali discorsi non vanno ascoltati solo ora, ma bisognerà tornarci sopra molte
volte –, dando per scontato che le cose stiano nel modo che si è appena detto,
passiamo pure alla canzone vera e propria e andiamone a fondo, così come si
è fatto per il proemio. Dicci, dunque, di che tipo sia la forza di questa
dialettica, e in quali generi si divide e quali siano le sue vie. Queste vie, se non
erro, dovrebbero essere quelle che conducono là dove chi giunge troverà
riposo del cammino e fine del viaggio”.
“Caro Glaucone – dissi –, oltre questo punto non sarai più in grado di
seguirmi, nonostante io ci metta tutto il mio impegno. Qui non vedresti più
l’immagine di quel che trattiamo, ma il suo vero essere, o per lo meno quello
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
che a me sembra tale. Che poi lo sia veramente o no, non è questo problema
su cui valga la pena insistere; ma che si debba assurgere a un tale livello di
comprensione, questo va ribadito. O non sei dell’avviso?”.
“Come no?”.
“E non ti pare che solo la pratica della dialettica potrebbe aprire a una tale
comprensione chi è già esperto nelle discipline sopra indicate, mentre
nessun’altra scienza lo potrebbe?”.
“Anche di ciò – ammise – si può essere certi”.
“Ed ecco allora – continuai – un ulteriore punto che nessuno potrebbe
contestarci: non esiste altro procedimento che possa pretendere di cogliere
sistematicamente e universalmente l’essenza di ciascun essere individuale.
Tutte le altre arti, in effetti, o sono rivolte alle opinioni degli uomini o ai loro
desideri, oppure agli esseri che si generano o a quelli che si costruiscono,
ovvero per custodire tutte le realtà che si producono in natura o ad opera
dell’uomo. Le restanti discipline, quelle che dicevamo cogliere in qualche
misura l’essere, come la geometria e le scienze derivate, le vediamo muoversi
in un certo senso come sonnambuli nei confronti dell’essere, di modo che per
esse è impossibile vederlo così com’è, in uno stato di veglia, finché almeno si
servono di assiomi che lasciano indimostrati, solo perché non sanno darne
ragione.
“Effettivamente, a chi assume come punto di partenza un principio
sconosciuto capita che anche il corpo del discorso e le sue conclusioni siano
sempre intimamente intrecciate con questa ignoranza; sicché come sarebbe
possibile che da una tale artificiosa convenzione scaturisca una scienza?”.
“Non c’è alcuna possibilità”, ribadì.
“Pertanto – continuai –, solo il metodo dialettico procede per questa via,
togliendo le ipotesi fino a raggiungere il principio in quanto tale per conferire
solidità, e solleva e porta in alto l’occhio dell’anima invischiato in un pantano
barbaro, facendo uso delle arti che abbiamo descritto come ausiliarie per
aiutare nella conversione. […]”.
Platone, Repubblica, 532 A-553 D
Sulla base della teoria del ricordo, espressa allegoricamente nel mito della biga alata,
Platone sostiene che tutti gli uomini nascono con una conoscenza innata, sebbene
maggiore o minore a seconda degli individui. Infatti, le anime razionali, cioè le menti
umane, hanno contemplato le Idee e ne conservano la memoria, cioè le hanno riprodotte in
sé generando così i concetti. In altre parole, i concetti per Platone sono le rappresentazioni
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
mentali delle Idee, ovvero sono le Idee in quanto concepite dall’intelletto umano, e le menti
umane, fin dalla nascita, sono, per così dire, piene di concetti.
Platone è pertanto il primo filosofo a teorizzare esplicitamente che la conoscenza ha un
fondamento puramente razionale “a priori”, cioè anteriore a ogni sensazione e quindi
indipendente dall’esperienza sensibile. Ciò significa che, secondo Platone, la scienza, cioè
la conoscenza vera, completa e definitiva, non deve basarsi sull’esperienza sensibile ma
deve imperniarsi sui concetti razionali che la nostra mente possiede fin dalla nascita grazie
alla sua originaria contemplazione (in greco theorìa) delle Idee. Usando termini più
attuali, Platone sostiene una epistemologia, cioè una filosofia della scienza, caratterizzata
dal primato della teoria rispetto all’osservazione sperimentale.
Come prova dell’innatismo dei concetti, Platone riporta un episodio emblematico
dell’insegnamento maieutico di Socrate. Egli racconta che Socrate, dialogando con
Menone, un giovane aristocratico esperto di matematica, coinvolge nella discussione un
suo schiavo e, attraverso una serie ben congegnata di domande, riesce a portarlo alla
soluzione di un problema di geometria facendogli scoprire e utilizzare il teorema di
Pitagora. In altre parole, Socrate dimostra che, benché lo schiavo non avesse ricevuto
alcuna istruzione, la sua mente conteneva i principi logico-matematici indispensabili a
scoprire il teorema di Pitagora e ad applicarlo.
Ma perché allora lo schiavo di Menone non era già consapevole del teorema di Pitagora e
dei concetti logico-matematici in esso impliciti? Più in generale, perché, se fin dalla nascita
li possediamo, non ne siamo coscienti già da bambini e invece dobbiamo apprenderli? La
risposta di Platone si basa sulla sua teoria della memoria e del ricordo, sempre connessa al
mito della biga alata: l’anima umana, quando cade sulla Terra e si incarna, viene
imprigionata e offuscata dal corpo e per questo dimentica la visione delle Idee. In questo
modo, cioè usando un linguaggio simbolico, Platone vuol dire che la mente umana
possiede sì dei concetti innati, ma inizialmente essa non ne è consapevole, non è cosciente
di possederli. Di conseguenza, la conoscenza per Platone consiste nel “ricordare”, cioè nel
portare alla coscienza i concetti inconsci da sempre presenti nella nostra mente.
Ma anche il termine “ricordare” è usato da Platone in senso metaforico. Fuor di metafora,
dunque, cosa significa ricordare? Significa – risponde Platone – che i concetti innati, copie
mentali delle Idee, si conoscono in base a un’intuizione intellettiva, cioè attraverso un atto
intramentale immediato in cui l’intelletto scopre dentro di sé e conosce i propri concetti
innati, ri-conoscendo in essi le Idee oggetto della sua contemplazione originaria.
Come abbiamo visto, per Platone la scintilla che accende il ricordo è costituita
dall’esperienza estetica, ossia dalla visione della Bellezza. Ma con questa tesi Platone non
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
vuole affatto suggerire che l’uomo possa acquisire ogni conoscenza istantaneamente. Al
contrario Platone chiarisce non solo che l’esperienza estetica è soltanto l’avvio di un lungo
e graduale processo di rimemorazione, ossia di acquisizione conoscitiva, ma anche che tale
processo può svilupparsi se e solo se si serve di un ben preciso metodo di ricerca. Tale
metodo è chiamato da Platone “dialettica”. Poiché il metodo dialettico è quello che ci fa
(ri)conoscere le Idee esso è il metodo scientifico supremo; e poiché ciò che la dialettica ci fa
(ri)conoscere sono le Idee, la dialettica è al tempo stesso la scienza delle Idee, dunque la
scienza suprema, anzi l’unica scienza in senso proprio, cioè l’unica conoscenza vera,
completa e invariabile.
In cosa consiste dunque il metodo dialettico? Abbiano già detto che è lo strumento
conoscitivo per individuare l’Idea di qualcosa. Dunque, si deve partire da una cosa, p.e. un
uomo (l’esempio non è di Platone che ne fa un altro più desueto e complicato: la pesca con
la lenza). In altre parole si comincia ponendosi una domanda/problema: che cos’è un
uomo, ovvero qual è l’Idea di uomo? Per rispondere alla domanda, secondo Platone
bisogna svolgere due operazioni intellettive:
 la “sintesi” (letteralmente: unificazione) che consiste nell’individuare l’Idea più
generale di cui un’Idea più specifica o un oggetto fisico individuale sono derivazioni;
 la “analisi” (letteralmente: divisione) che consiste nel dividere l’Idea generale
individuata nelle sue parti, e nelle parti delle sue parti, fino a arrivare all’Idea o
all’oggetto da cui si è partiti.
Applicando la sintesi a un uomo individuiamo l’Idea di animale in quanto Idea generale
(ossia genere) in cui è inclusa quella dell’uomo. A questo punto applichiamo l’analisi
all’Idea di animale, cioè la dividiamo nelle sue sottoidee (le specie) fino a giungere, per
divisioni successive, all’Idea dell’uomo. Innanzitutto possiamo dividere l’idea di animale in
vertebrato e invertebrato. Effettuata questa prima divisione dobbiano selezionare le due
sottoidee, ossia scartare quella da cui l’Idea dell’uomo non deriva – invertebrato – e
dividere ulteriormente l’altra, cioè vertebrato. Abbiamo: pesce, rettile, anfibio, uccello,
mammifero. Di nuovo selezioniamo l’idea di mammifero e la dividiamo in roditore,
marsupiale, equino, bovino, ecc., primate. Ancora selezioniamo l’idea di primate e la
dividiamo in “capaci di comunicare con suoni e gesti” e “capaci di comunicare con la
parola”. Selezioniamo la seconda sottoidea e a questo punto ci fermiamo perché siamo
arrivati all’Idea di uomo. In cosa consiste, dunque? Nell’insieme delle Idee che abbiamo
selezionato a partire da quella di animale. In altre parole, l’Idea di uomo è: animale
vertebrato, mammifero, primate, capace di comunicare con la parola. E’ facile notare che il
risultato coincide con la definizione del concetto di uomo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ora che dovrebbe essere chiaro in cosa consiste per Platone la dialettica, possiamo
comprendere meglio, innanzitutto, perché Platone l’ha chiamata “dialettica”. Essa, in
particolare nella fase analitica, la più lunga e complessa, si basa sulla scelta di un’Idea per
eliminazione di altre Idee parallele diverse da essa, ovvero con essa contraddittorie (p.e.
vertebrato rispetto a invertebrato). In altre parole, il metodo dialettico platonico è una
ripresa del metodo argomentativo inventato da Parmenide, e battezzato “dialettica” dal suo
discepolo Zenone, ovvero dell’argomentazione che arriva a corroborare una tesi partendo
dalla confutazione della sua antitesi (un tipo di argomentazione che poi era stata fatta
propria dai matematici i quali però l’avevano ribattezzata “dimostrazione per assurdo”).
Ma Platone non si limita a “copiare” Parmenide. In realtà a partire da Parmenide elabora
una versione ben più articolata e sofisticata della dialettica. Infatti, in primo luogo, come
abbiamo visto, le antitesi per Platone possono essere ben più di una; in secondo luogo, e
soprattutto, la relazione dialettica in Platone diventa la connessione logica che lega
unitariamente tutte le Idee, che ne fonda l’ordine armonico, ovvero è, per così dire, la rete
razionale che unifica e mette in comunicazione ogni Idea con ogni altra Idea. In altri
termini, ciò che rende il mondo delle Idee effettivamente tale. Senza nessi dialettici con
tutte le altre Idee, un’Idea non potrebbe essere ciò che è, ossia l’essenza di un determinato
insieme di cose. P.e., l’Idea di quadrupede si determina in relazione all’Idea di bipede e di
apode, e queste in relazione a quella. Per questo, in quanto scienza delle Idee, e dunque
scienza suprema, la dialettica non consiste solo e tanto nella conoscenza di ogni singola
Idea, ma anche e soprattutto nella conoscenza delle relazioni che legano ogni Idea alle
altre, ovvero nella conoscenza dell’ordine armonico che caratterizza il mondo delle Idee e
che fa sì che esso sia una perfetta sintesi di unità e molteplicità.
Ma in cosa consiste questo ordine ideale? E ancora, quali sono le relazioni dialettiche che
unificano le Idee? In prima approssimazione, si può rispondere che le Idee sono ordinate
gerarchicamente, ovvero in base a una derivazione piramidale dalle più generali alle più
specifiche. In questo senso, il mondo delle Idee è articolato nei seguenti livelli gerarchici
dal più alto al più basso:
 Uno (=Bene=Verità=Bellezza) o Limite o Misura.
 Diade o Illimitato.
 Numeri ideali o Idee-numeri: Triade, Tetrade, ecc., fino alla Decade.
 Generi supremi: Essere, Identità, Diversità, Quiete, Movimento.
 Idee dei principi logici: Proporzione, Intelligenza, Relazione, Causa, ecc.
 Idee dei valori etico-politici: Giustizia, Coraggio, Onestà, Sincerità, Amicizia, ecc.
 Idee degli enti fisici: Spazio, Tempo, Mammifero, Conifera, Ferro, Cane, Granito,
ecc.
 Enti matematici: figure geometriche, numeri, relazioni e operazioni aritmetiche,
ecc.
206
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In secondo luogo, e soprattutto, ogni Idea è al tempo stesso:
 una parte/aspetto specifico di un’Idea superiore/più generale
 l’unità del gruppo di Idee, ad essa subordinate, in cui si articola e si specifica.
P.e. l’Idea di gatto è una parte dell’Idea di felino e a sua volta si articola nelle Idee di
persiano, soriano, certosino, ecc. In questo senso si potrebbe dire che le Idee si diramano le
une dalle altre secondo uno schema ad albero genealogico tale per cui ogni Idea è figlia di
un’altra e madre di altre ancora. Utilizzando invece il linguaggio della logica
contemporanea, possiamo dire che ogni Idea è una sottoclasse (o sottoinsieme) di un’Idea
superiore ed è la classe (o l’insieme) di una Idea inferiore. La conclusione è la stessa: ogni
Idea è contenuta, insieme ad altre Idee-sorelle, in un’Idea-madre e al contempo contiene in
sé altre Idee-figlie. In questo modo tutte le Idee più specifiche sono contenute in quelle via
via più generali fino ad essere tutte contenute nell’unica Idea dell’Essere. Dell’Essere, non
dell’Uno, perché l’Uno trascende le Idee. Ma l’Essere è un Uno parziale e così anche ogni
Idea, seppure a un livello inferiore, in quanto è l’unità di un gruppo di Idee oppure di una
molteplicità di enti fisici.
Grazie alla connessione dialettica di tutte le Idee, Platone riesce a fondare filosoficamente,
e quindi a valorizzare scientificamente ed eticamente, sia l’unità sia la molteplicità, meglio
ancora a rendere l’una condizione dell’altra e viceversa. In altre parole, l’Essere – la realtà
vera, davvero esistente –, ossia il mondo delle Idee, non è omogeneo e indifferenziato, ma
articolato e variegato. E, infatti, le Idee immediatamente subordinate a quella di Essere
sono Identico, Diverso, Quiete, Movimento. Ciò significa che l’Essere non è solo identico a
se stesso, ma anche differenziato in molte parti/aspetti, e che l’Essere, e insieme ogni altra
Idea, non si relaziona solo a se stesso (Quiete), non è cioè solo autoreferenziale, ma si
rapporta e rinvia a tutte le altre Idee (Movimento), ovvero comunica con esse.
A questo punto possiamo rilevare quanto sia ampia la distanza tra la dialettica parmenidea
e quella platonica. La dialettica di Parmenide non ammetteva il non-essere e quindi
cancellava ogni diversità e molteplicità dall’Essere, lo rendeva un’unità monotona,
autoreferenziale, statica. La dialettica di Platone ammette il non-essere e quindi riabilita
diversità e molteplicità, configurando l’Essere in modo ricco, variopinto, dinamico. Ma
allora Platone rifiuta la legge parmenidea che stabilisce l’inesistenza e l’inammissibilità del
nulla? La risposta è no. Come può allora ammettere la molteplicità?
Platone scopre che il termine “essere” implica un omonimia e quindi può produrre un
errore logico. Infatti “essere” significa:
 sia “esistere”, come nell’enunciato “Ci sono molte specie di alberi”, e in tal caso
costituisce un predicato verbale;
207
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
sia “appartenere a” oppure “ha la proprietà di”, come negli enunciati “il cavallo è un
equino” e “il cavallo è veloce”, e in questo caso costituisce un predicato nominale.
Ora, se io dico “L’Essere non è”, nego l’esistenza dell’essere e affermo l’esistenza del nulla,
il che è contraddittorio e dunque inaccettabile. Dunque, in tal senso Platone concorda con
le argomentazioni dialettiche con cui Parmenide aveva sostenuto la non generazione,
l’eternità, l’immutabilità e l’atemporalità dell’Essere dal momento che in caso contrario si
sarebbe ammessa l’esistenza del nulla. Tuttavia, se io dico “Il cavallo non è una pecora”,
oppure “Il gatto non è un rettile”, piuttosto che “La tartaruga non è veloce”, in questi casi,
rileva Platone, il non-essere non equivale al nulla bensì al diverso. “Il cavallo non è una
pecora” non significa che il cavallo non esiste, ma che è diverso dalla pecora, ovvero che
l’Idea di cavallo non è inclusa in quella di pecora. Dunque, per Platone, Parmenide era
caduto nella trappola di un equivoco logico-linguistico quando aveva argomentato
dialetticamente l’omogeneità e l’indifferenziazione dell’Essere perché altrimenti, anche in
tal caso, si sarebbe ammessa l’esistenza del non-essere.

Su questa base Platone riabilita parzialmente il concetto di non-essere. Egli infatti da un
lato riafferma che il non-essere assoluto, cioè il nulla, è inesistente e impensabile, ma
dall’altro sostiene che esiste ed è pensabile il non-essere relativo nel senso di diversità.
Dunque il mondo delle Idee comprende il non-essere come diversità e pertanto esso
ammette e valorizza la molteplicità.
Ma qual è il senso filosofico profondo della parziale riabilitazione del non-essere in quanto
diversità? La valorizzazione, almeno parziale, del mondo fisico. Questo, infatti, è
caratterizzato dalla molteplicità. Se l’Essere, cioè il mondo delle Idee, non fosse molteplice,
non potrebbe in alcun modo essere la matrice/modello del mondo fisico, ovvero il mondo
fisico non possederebbe alcun ordine, ossia alcuna esistenza effettiva, sarebbe solo
illusione e inganno, e l’esistenza fisica non avrebbe alcun senso, come aveva appunto
sostenuto Parmenide. In ultima analisi, dunque, Platone, legittimando filosoficamente il
non-essere relativo, ridà dignità e senso – benché relativi, non assoluti – alla dimensione
terrena e alla vita corporea dell’uomo.
208
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 6
L’anima/mente umana originariamente ha contemplato
le Idee, cioè i principi primi della realtà fisica
La mente umana possiede fin dalla nascita dei concetti
innati, cioè le copie mentali delle Idee.
La conoscenza per essere scientifica, cioè vera, deve
basarsi su concetti a priori, cioè indipendenti
dall’esperienza sensibile, puramente razionali
Tali concetti possono essere intuiti dall’intelletto
utilizzando il metodo dialettico che dunque è il metodo
scientifico fondamentale di ogni conoscenza.
DIALETTICA = scienza delle Idee
SINTESI: cogliere l’Idea generale
cui fa capo l’Idea della cosa
individuale che vogliamo
conoscere, p.e. “animale” in
relazione a un individuo umano.
ANALISI: dividere l’Idea
generale in tutte le sue sottoidee
(p.e. “vertebrato”/”invertebrato”)
fino ad arrivare all’Idea di
“uomo”.
209
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
L’INNATISMO DI PLATONE E DI CHOMSKY
La teoria innatistica platonica delle idee, intese come concetti, è sostenuta ancora oggi,
seppur con consistenti varianti, da molti scienziati cognitivisti, psicologi, linguisti. Uno
dei casi più significativi è quello del linguista statunitense Noam Chomsky, attualmente
professore emerito di Linguistica al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di
Boston.
Chomsky è autore di una teoria dell’origine e del funzionamento del linguaggio umano
incentrata sul concetto di “grammatica generativo-trasformazionale”. Secondo Chomsky,
ogni individuo umano è dotato fin dalla nascita, e prima di qualsiasi esperienza, di un
programma linguistico – la grammatica generativa – costituito da principi e regole
generali da lui addirittura matematicamente formalizzati. Questo programma, e dunque
la capacità linguistica, si sviluppa con la crescita, in modo omogeneo allo sviluppo del
corpo e di tutte le altre capacità fisico-organiche (p.e. camminare). L’ambiente, ovvero
l’esperienza, ha solo una funzione di stimolo e modulazione, ovvero può favorirne uno
sviluppo maggiore o minore, producendo differenti livelli di abilità linguistica, e può far
sì che si configuri in un certo modo piuttosto che in un altro, producendo le diverse lingue
(inglese, cinese, ecc.) in cui gli uomini parlano. In tale senso Chomsky chiama la sua
“grammatica” originaria e universale “generativa” e “trasformazionale”, in quanto cioè
genera le lingue parlate attraverso la propria trasformazione, ossia adattandosi ai
diversi contesti sociali.
Il possesso di questa grammatica generativo-trasformazionale da parte di ogni uomo è
corroborato, secondo Chomsky, dalla rapidità con la quale i bambini apprendono la
lingua-madre (ma eventualmente anche altre lingue). Infatti, gli input dell’esperienza
infantile, cioè l’ascolto delle voci degli adulti, non sarebbero per Chomsky sufficienti a
permettere a un bambino di cominciare a parlare alla fine del primo anno di vita sulla
base della semplice imitazione e riproduzione delle parole udite e dell’applicazione delle
regole dedotte dalle frasi. Solo il possesso innato di una struttura linguistica di base
permette al bambino di capire quasi immediatamente e di immagazzinare
ordinatamente le parole e i loro significati nonché di scoprire le regole sintattiche e di
rispettarle.
Chomsky nei suoi libri si richiama esplicitamente a Platone, sostenendo che il filosofo
ateniese aveva completamente ragione quando affermava che ogni uomo nasce con un
patrimonio conoscitivo innato. Tuttavia, per Chomsky, la conoscenza innata dell’uomo
non deriva, come per Platone, dal possesso di un’anima razionale immortale che in
origine ha contemplato il mondo delle Idee. Divergendo da Platone, Chomsky fonda la
sua teoria innatistica del linguaggio sulla teoria dell’evoluzione: la grammatica
generativo-trasformazionale costituisce una parte del nostro genoma, ovvero è insita in
alcuni dei nostri geni i quali si sono formati e selezionati nel corso dell’evoluzione della
specie umana in base al rapporto con l’ambiente naturale e sociale.
210
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In questo senso, più in generale, oggi tutti gli psicologi, i cognitivisti, i linguisti
ammettono che le capacità mentali di ogni uomo dipendono almeno in parte dal suo
genoma, e dunque sono in tal senso innate. Le differenze dipendono dalle diverse stime
dell’importanza del fattore genetico rispetto al fattore ambientale: alcuni danno più peso
al primo, altri al secondo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 7
PLATONE: L’AMORE E’ IL SENTIMENTO CHE PORTA ALLE IDEE
“Quando nacque Afrodite, gli dei tennero banchetto, e fra gli altri c’era Poros
(l’Espediente), figlio di Metis (la Perspicacia). Dopo che ebbero tenuto il
banchetto, venne Penia (la Povertà) a mendicare, poiché c’era stata una
grande festa, e se ne stava vicino alla porta. Successe che Poros, ubriaco di
nettare, dato che il vino non c’era ancora, entrato nel giardino di Zeus,
appesantito com’era, fu colto dal sonno. Penia, allora, per la mancanza in cui
si trovava di tutto ciò che ha Poros, escogitando di avere un figlio da Poros,
giacque con lui e concepì Eros. Per questo divenne seguace e ministro di
Afrodite, perché fu generato durante le feste natalizie di lei; ad un tempo è per
natura amante di bellezza, perché anche Afrodite è bella.
“Dunque, in quanto Eros è figlio di Penia e Poros, gli è toccato un destino di
questo tipo. Prima di tutto è povero sempre, ed è tutt’altro che bello e
delicato, come ritengono i più. Invece, è duro e ispido, scalzo e senza casa, si
sdraia sempre per terra senza coperte, e dorme all’aperto davanti alle porte o
in mezzo alla strada e, poiché ha la natura della madre, è sempre
accompagnato con povertà. Per ciò che riceve dal padre, invece, egli è
insidiatore dei belli e dei buoni, è coraggioso, audace, impetuoso,
straordinario cacciatore, intento sempre a tramare intrighi, appassionato di
saggezza, pieno di risorse, filosofo per tutta la vita, straordinario incantatore,
preparatore di filtri, sofista. E per sua natura non è né mortale né immortale,
ma, in uno stesso giorno, talora fiorisce e vive, quando riesce nei suoi
espedienti; talora, invece, muore, ma poi torna in vita, a causa della natura
del padre. E ciò che si procura gli sfugge sempre di mano, sicché Eros non è
mai né povero di risorse, né ricco.
“Inoltre, sta in mezzo fra sapienza e ignoranza. Ed ecco come avviene questo.
Nessuno degli dei fa filosofia, né desidera diventare sapiente, dal momento
che lo è già. E chiunque altro sia sapiente, non filosofa. Ma neppure gli
ignoranti fanno filosofia, né desiderano diventare sapienti. Infatti,
l’ignoranza ha proprio questo di penoso: chi non è né bello né buono né
saggio, ritiene invece di esserlo in modo conveniente. E, in effetti, colui che
non ritiene di essere bisognoso, non desidera ciò di cui non ritiene di aver
bisogno”. […]
“E, allora, io dissi: ‘E sia, o straniera! Infatti, tu dici bene. Ma se Eros è di
questo tipo, che vantaggio porta agli uomini?’ ”.
“ ‘Questo punto, o Socrate, cercherò di spiegartelo – disse – dopo queste altre
cose. Dunque, Eros è di questo tipo, è nato in questo modo, ed è amore delle
cose belle, come tu affermi. Ma se qualcuno ci domandasse: perché, o Socrate
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
e Diotima, Eros è amore delle cose belle? O, per dirla in modo ancora più
chiaro: chi ama le cose belle, ama; ma che cosa ama?’ ”.
“Ed io risposi: ‘Che le cose belle diventino sue’ ”.
“ ‘Ma la tua risposta – disse – comporta questa domanda: che vantaggio avrà
colui che verrà in possesso delle cose belle?’ ”.
“E io risposi di non avere ancora a disposizione una risposta per tale
domanda.”
“ ‘Ma – disse – è come se qualcuno usando il termine bene in luogo di quello
di bello, ti domandasse: Socrate, chi ama le cose buone ama; ma che cosa
ama?’ ”.
“ ‘Che diventino sue’, risposi io.
“ ‘E che vantaggio avrà dal venire in possesso delle cose buone?’.
“ ‘A questo – dissi io – mi è più facile fornirti una risposta: sarà felice’.
“ ‘Infatti – disse – è appunto per il possesso delle cose buone che sono felici
quelli che sono felici, e non c’è più bisogno di fare questa ulteriore domanda:
Chi vuol essere felice a che scopo vuol essere felice? Perché la risposta ha
ormai raggiunto il suo fine’.
“ ‘Dici il vero’, risposi.
“ ‘Questa volontà e questo amore credi che siano una cosa comune a tutti gli
uomini, e che tutti vogliano possedere? O come dici?’.
“ ‘Proprio così – dissi –, che sia una cosa comune a tutti”.
Platone, Simposio, 203 B-205 A, a cura di G. Reale, Longanesi
Come ormai sappiamo, secondo Platone, la scienza, cioè la conoscenza assolutamente vera,
si fonda sulla capacità di “ricordare” le Idee che l’anima di ogni uomo ha osservato
originariamente. Abbiamo anche appreso che, fuor di metafora, “ricordare” le Idee per
Platone significa intuire e portare alla coscienza i concetti razionali che sono presenti nella
mente umana fin dalla nascita e che costituiscono l’intelligenza. Infine, come abbiamo
ancora già visto, l’intuizione dei concetti a sua volta si attua usando il metodo dialettico e
in questo senso la Dialettica costituisce la scienza per eccellenza.
Ma l’acquisizione della Dialettica, cioè della conoscenza delle Idee, per Platone non è
un’attività solamente intellettuale – nel linguaggio di oggi si direbbe “cerebrale” –, bensì è
anche e indispensabilmente un’esperienza sentimentale, ovvero emotiva. Platone afferma,
infatti, che il “ricordare”, ovvero il processo dialettico, è, per così dire, innescato dalla
visione sensibile dell’Idea della Bellezza, ovvero dalla Bellezza in sé, in quanto questa è
l’Idea che riesce a manifestarsi più chiaramente nel mondo fisico. Ma l’esperienza estetica
della Bellezza in sé è strettamente intrecciata con quella dell’Amore. Infatti, secondo
Platone:
213
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE


da un lato, la percezione gratificante della bellezza di qualcosa provoca
necessariamente l’innamoramento, cioè un’attrazione affettiva, per quella cosa stessa;
dall’altro, l’Amore è un bisogno emotivo fondamentale dell’uomo che trova il suo
appagamento nell’esperienza estetica della Bellezza e pertanto, al contempo, è la forza
psicofisica che spinge ogni uomo alla ricerca del Bello.
Dunque, tra Bellezza e Amore sussiste per Platone una correlazione necessaria,
un’interdipendenza indissolubile tale per cui l’una rimanda all’altro e viceversa. Ma già
sappiamo che la Bellezza è una delle facce del principio ideale supremo, l’Uno, e che tutte
le Idee partecipano della Bellezza, cioè sono tutte belle. Pertanto, ogni uomo per Platone,
almeno potenzialmente, è innamorato delle Idee, ovvero si sente attratto dalla Bellezza del
mondo delle Idee.
Di conseguenza ogni scienza, ma al massimo grado la scienza dialettica, possiede una
componente di tipo emotivo-sentimentale, rappresentata appunto dall’Amore. In tal senso
si può dire che per Platone l’Amore, inteso come ricerca della Bellezza, è il propellente
emotivo della scienza che a sua volta è una delle modalità di appagamento dell’Amore.
Infatti, poiché la scienza è conoscenza delle Idee e poiché tutte le Idee sono manifestazioni
della Bellezza, la ricerca scientifica, secondo Platone, permette un godimento sempre più
ampio e intenso della Bellezza.
Ma qual è l’origine dell’Amore? E perché l’Amore è un impulso fondamentale della vita
umana? In prima battuta, la risposta è affidata a un nuovo mito – il mito dell’androgino –
che Platone fa raccontare al commediografo Aristofane, per segnalare che si tratta solo di
una prima approssimazione alla verità. Secondo questo mito, in origine la specie umana
era composta da individui doppi, ovvero dotati di due volti su un’unica testa, quattro
braccia, quattro gambe e due sessi, o entrambi maschili o entrambi femminili oppure uno
maschile e uno femminile.
A causa della loro maggiore potenza, racconta Platone per bocca di Aristofane, questi
uomini doppi si lasciarono ottenebrare dalla superbia e tentarono di dare l’assalto
all’Olimpo per sostituirsi agli dei. Zeus allora per punirli ordinò ad Apollo di dividerli in
due, dando così luogo alla specie umana attuale. Da quel momento nacque l’Amore, ovvero
l’impulso nostalgico di due individui, inizialmente uniti e in seguito scissi, a ricomporre la
loro unità originaria. E poiché gli esseri umani originari erano o un maschio e una
femmina o entrambi maschi o entrambi femmine, l’amore può essere sia eterosessuale sia
omosessuale. Nel primo caso esso è finalizzato alla riproduzione della specie; nel secondo,
invece, ma solo nella sua variante maschile, il suo scopo è la fusione delle anime e la vita
comune.
214
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il mito degli uomini doppi è integrato e completato da un secondo mito, quello dell’Amore
figlio di Povertà (penìa) e Acquisizione (pòros), che Platone fa raccontare da Socrate a
significare che esso contiene la vera concezione dell’Amore. Secondo questo mito, al
termine di un banchetto divino in onore della nascita di Afrodite, Povertà, arrivata lì per
mendicare, si accoppiò con il dio Acquisizione, e dalla loro unione nacque Amore.
Questa allegoria significa, in primo luogo, che Amore non è un dio, ma un “démone”, cioè
un semidio, un essere metà divino, e quindi immortale, e metà fisico, e quindi mortale, in
quanto suo padre è il simbolo della razionalità e dell’immortalità mentre sua madre
l’emblema della fisicità e della mortalità. Più in generale, ciò significa che l’Amore, secondo
Platone, è costituito dall’interazione di due caratteristiche fondamentali di ogni essere
umano:
1. la mancanza, cioè la limitezza, l’imperfezione, l’incompletezza;
2. il bisogno/desiderio e al tempo stesso la capacità di superare la mancanza, cioè di
migliorarsi e completarsi, grazie al rapporto con un altro.
In sintesi, l’Amore è per Platone l’impulso emotivo dell’essere umano a perfezionarsi
mettendosi in relazione con un altro essere umano diverso da lui.
In secondo luogo, l’allegoria platonica significa anche che Amore è bisogno e desiderio di
Bellezza, in quanto il suo concepimento è legato ad Afrodite, dea-simbolo della Bellezza. In
altre parole, l’altro-da-sé con cui l’Amore mette in relazione deve possedere il requisito
della Bellezza. Perché? La risposta di Platone è duplice. Da un parte, la Bellezza è l’aspetto
visibile del Bene e quindi coincide con il Bene. Dato che il Bene procura la felicità, mettersi
in relazione con il Bello significa conseguire la felicità. Dunque Amore cerca il Bello perché
cerca la felicità. Dall’altra parte, poiché è naturale che ogni uomo desideri possedere la
felicità per sempre, l’Amore è desiderio e, al tempo stesso, capacità di conseguire
l’immortalità. In che modo? Due sono per Platone le vie amorose all’immortalità:
1. la riproduzione sessuale: in questo senso l’Amore è desiderio/capacità di procreare figli
nel Bello, perché Bellezza significa armonia e ordine, e dunque senza la Bellezza la
procreazione sarebbe difettosa;
2. la creazione spirituale: in questo senso l’Amore è desiderio/capacità di conseguire
gloria e fama imperiture attraverso la produzione di opere poetiche e artistiche, ma
anche di costituzioni politiche, di teorie filosofiche e scientifiche, nonché l’attuazione di
imprese eroiche, cioè di azioni in cui si sacrifica la propria vita per il bene degli altri.
215
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma c’è un altro aspetto fondamentale della concezione platonica dell’Amore, ovvero la sua
processualità. In altre parole, l’Amore non è un sentimento statico, sempre uguale a se
stesso, bensì un sentimento che ogni uomo deve migliorare e intensificare nel corso della
sua vita. Più precisamente, per Platone l’esperienza erotico-estetica dell’uomo è un
cammino ascendente, cioè un processo dinamico di maturazione e perfezionamento. Tale
processo è scandito da Platone in 6 tappe:
1. l’amore per la bellezza del corpo di un’unica persona;
2. l’amore per la bellezza di tutti i corpi, cioè della corporeità umana in generale;
3. l’amore per la bellezza dell’anima di un’altra persona, cioè per la sua interiorità;
4. l’amore per la bellezza delle opere dell’ingegno umano e in particolare delle leggi;
5. l’amore per la bellezza delle scienze matematiche;
6. l’amore per la Bellezza in sé, cioè per l’Uno-Bello-Bene-Verità.
Platone, dunque, concepisce l’Amore come un processo di elevazione spirituale che
partendo dal livello più basso della fisicità arriva gradualmente al traguardo del massimo
livello, quello puramente e totalmente ideale. In questo senso egli definisce ancora l’Amore
come il mediatore e il ponte tra sensibilità e razionalità, tra il mondo fisico e il mondo delle
Idee, e lo identifica con la filosofia stessa, da lui intesa come ricerca della conoscenza, cioè
appunto come slancio verso le Idee.
In particolare, la quarta tappa, cioè quella dell’amore per la bellezza delle opere
dell’ingegno umano, include anche le opere d’arte (poesie, sculture, pitture, musiche, ecc.),
ossia le opere che costituiscono l’oggetto dell’estetica, cioè della filosofia dell’arte. Dato il
rilievo che ha la bellezza nella sua filosofia, Platone non può esimersi dall’elaborare una
sua estetica. E naturalmente l’estetica platonica è un’estetica idealistica e dunque
antinaturalistica. In altre parole la vera arte, per Platone, non è quella che cerca di
riprodurre la realtà fisica così com’è. Infatti, l’arte naturalistica, quella appunto che cerca
di imitare la natura, non è altro che una copia della copia della vera realtà, ossia del mondo
delle Idee, l’unica realtà che è veramente bella. Pertanto l’arte naturalistica appanna e
sminuisce ulteriormente la bellezza del mondo fisico che è già inferiore a quella del mondo
delle Idee. La vera arte, dunque, è l’arte che circoscrive, astrae e mette in evidenza la
bellezza delle Idee che traspare nel mondo fisico e che in questo modo riesce a produrre
delle opere veramente belle. E, dal momento che il mondo delle Idee, possiede un ordine
fondato sulla misura, la proporzione, la simmetria, un’opera d’arte per essere tale deve
basarsi su questi stessi criteri.
Ma, come abbiamo visto, per Platone la Bellezza coincide con la Verità e con il Bene.
Dunque per Platone, la vera arte deve avere sempre un contenuto veritiero e deve sempre
trasmettere dei valori morali. In altri termini, secondo Platone, un’opera d’arte che
rappresenti il falso o sostenga il vizio non è un’autentica opera d’arte, perché non può
possedere il requisito essenziale dell’arte, cioè la bellezza.
216
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In conclusione, ricolleghiamoci al mito della caverna. Sulla base di quanto ulteriormente
acquisito a proposito dell’amore, risulta evidente che il cammino di fuga dal carcere del
prigioniero liberato, al centro del mito della caverna, è il simbolo non solo dell’ascesa
conoscitiva ma anche simultaneamente della maturazione amorosa e, più in generale, della
crescita emotiva e sentimentale dell’uomo.
L’una infatti non è possibile per Platone senza l’altra.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 7
POVERTA’
L’essere umano non è completo, è
carente, difettoso, e quindi ha
bisogno dell’altro.
ACQUISIZIONE
L’essere umano ha la capacità di
acquisire ciò di cui è carente, e
dunque di perfezionarsi,
attraverso un altro.
AMORE =
rapporto sentimentale di scambio e arricchimento reciproco.
DESIDERIO DI BELLEZZA =
qualità di chi si ama e che suscita l’amore per lui.
DESIDERIO DI BENE, cioè di FELICITA’ PERMANENTE
DESIDERIO DI IMMORTALITA’
PROCREAZIONE DEI FIGLI, in
quanto sono prolungamenti dei
genitori nel tempo.
CREAZIONE DI OPERE
INTELLETTUALI, in quanto
conferiscono gloria imperitura.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 8
PLATONE: LA GIUSTIZIA E’ LA VIRTU’ SUPREMA
“Invero, come sembra, la giustizia era qualcosa di analogo; solo che essa non
riguarda l’azione esterna delle facoltà dell’individuo, ma quella interiore che
concerne lui stesso e le cose che gli competono. In tal modo l’individuo non
permette che ciascuna sua parte compia uffici che sono propri di altre, o che
le differenti specie dell’anima invadano l’una il campo dell’altra, ma
disponendo in buon ordine le proprie cose e prendendo il comando di sé,
dandosi un equilibrio e interiormente rappacificandosi – ovvero raccordando
le tre parti dell’anima come se fossero tre suoni di un’armonia: l’alto, il basso
e il medio e altri ancora intermedi, se mai ce ne fossero –, legati insieme tutti
questi elementi e diventando interamente uno di molti, temperato ed
equilibrato, così d’ora innazi operi, quando decida di operare, o per l’acquisto
di ricchezze, o per la cura del corpo, o per qualcosa riguardante la vita
pubblica, o per i commerci privati”.
Platone, Repubblica, IV, 443 C-E a cura di G. Reale, Longanesi
Ed io così iniziai: “Non ti farò certo il discorso di Alcinoo, ma di un uomo di
valore, Er figlio di Armenio, panfilo di origine. Questi a suo tempo morì in
combattimento, e mentre, dopo dieci giorni, si raccoglievano i cadaveri ormai
decomposti, lui fu raccolto ancora intatto. In seguito, riportato a casa per
essere seppellito, quando già era adagiato sulla pira, ritornò a vivere, e,
ripresa la vista, raccontò quello che aveva visto nell’aldilà.
“Disse che, come l’anima si era separata da lui, si era messa in viaggio insieme
a molte altre, finché non giunsero in un luogo meraviglioso, nel quale si
aprivano, a poca distanza l’una dall’altra, due voragini sulla terra e, in
perfetta corrispondenza, altrettante su nel cielo.
“In mezzo sedevano dei giudici, i quali, ad ogni loro sentenza, ordinavano ai
giusti di dirigersi in alto a destra, attraverso il cielo – non prima, però, di aver
appeso davanti a loro il referto del giudizio –, e agli ingiusti di muovere verso
la parte sinistra in basso, avendo anch’essi il resoconto di tutte le loro azioni
appeso di dietro. Come fu il suo turno, gli fu comunicato che avrebbe dovuto
essere per gli uomini relatore delle cose di laggiù, e per questo gli ordinarono
di osservare e ascoltare tutto quanto avveniva in quel posto. In tale maniera
poté assistere al dipartirsi delle anime appena giudicate da due delle voragini
del cielo e della terra.
“Invece, per quanto concerne le altre due voragini, da una sbucavano anime
sudicie ddi terra e di polvere, dall’altra scendevano anime diverse, del tutto
pure provenienti dal cielo. E quelle che continuamente arrivavano davano
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
l’impressione di aver concluso un lungo viaggio e nel giungere sul prato
avevano l’aria felice come se si dessero convegno per una festa di paese. Così
le anime che già si conoscevano si salutavano cordialmente, e quelle reduci
dalla terra si informavano, chiedendo notizie della vita di là, mentre le altre,
provenienti dal cielo, chiedevano informazioni della vita di qua. In tal modo,
ognuna raccontava alle altre la sua vicenda. Le une, ricordando quali e quante
sofferenze avevano patito e visto patire nel millenario viaggio sotto terra,
sconsolatamente piangevano, le altre, quelle che venivano dal cielo,
raccontavano di esperienze e visoni di straordinaria bellezza.
“Erano a tal punto numerose, Glaucone, che a raccontarle tutte ci vorrebbe
troppo tempo; tuttavia, il succo della vicenda è il seguente. Per quante colpe
ciascuno avesse commesso o per quanti uomini avesse offeso, per tutto ciò,
puntualmente, doveva subire una pena decupla per ogni capo d’accusa.
Siccome ogni volta l’unità di misura della pena era cento anni – in quanto tale
si considera la durata della vita umana – le anime risultavano pagare il fio
della loro colpa dieci volte. […]
“E dopo la permanenza di una settimana in quel prato, l’ottavo giorno
ciascuna anima doveva levarsi da lì e mettersi in cammino, per giungere, in
seguito a un viaggio di quattro giorni, in una località da cui si poteva vedere
una luce dritta, a forma di colonna, che si protendeva dall’alto attraverso tutto
il cielo e la terra: queta era molto simile all’arcobaleno, ma ancor più
splendente e pura. […]
“Come giunsero in quel luogo dovettero presentarsi a Lachesi. Qui un
interprete del dio per prima cosa le dispose in ordine, e poi, dopo aver
raccolto dalle ginocchia di Lachesi le sorti e i paradgmi delle vite, montato su
un palco rialzato, parlò in questo modo: ‘Parola della vergine Lachesi, figlia di
Necessità. Anime cadute, eccovi giunte all’inizio di un altro ciclo di vita di
genere mortale, in quanto si conclude con la morte. Non sarà il dèmone a
scegliere voi, ma voi il dèmone. Il primo estratto sceglierà per primo la vita
alla quale sarà tenuto di necessità. Non ha padroni la virtù; quanto più
ciascuno di voi l’onora tanto più ne avrà; quanto meno l’onora, tanto meno ne
avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa’. ”.
Platone, Repubblica, 614 B-617 E, a cura di G. Reale, Longanesi
Abbiamo visto perché e come il cammino del prigioniero liberato del mito della caverna
rappresenti allegoricamente sia la crescita conoscitiva sia la maturazione esteticosentimentale di ogni individuo umano nel corso della sua vita. Ora vedremo come e perché
esso simboleggi anche, al tempo stesso, lo sviluppo della moralità di ogni uomo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Per arrivare a comprenderlo, bisogna innanzitutto premettere che la moralità per Platone
consiste nel praticare le virtù, ovvero nell’agire in modo virtuoso. Ma cos’è allora la virtù?
Per Platone, come per tutti gli antichi Greci, la virtù è in generale la proprietà per cui
qualcosa eccelle, ovvero la qualità grazie alla quale raggiunge la sua perfezione. P.e., la
virtù dell’usignolo è il canto, la virtù dell’oro è l’inossidabilità, ecc. In particolare, secondo
Platone, la virtù dell’uomo è la sua anima, in quanto questa è la parte migliore e superiore
dell’essere umano.
L’anima umana, però, secondo Platone, è suddivisa in tre parti. Platone le rappresenta
simbolicamente nel mito della biga alata, in base alle tre componenti della biga:
1. l’auriga alla guida è il simbolo dell’anima razionale (ossia dell’intelligenza), cioè della
facoltà di pensare e conoscere, che ha sede nella testa;
2. il cavallo bianco e docile è il simbolo dell’anima volitiva, che risiede nel petto e consiste
nell’aggressività naturale che permette di attuare con determinazione le proprie scelte e
di opporsi a chi cercasse di impedirle;
3. il cavallo nero e ribelle è il simbolo dell’anima desiderante, che risiede nell’addome e
consiste nell’insieme dei bisogni istintivi del corpo (mangiare, bere, dormire, ecc.) il cui
soddisfacimento procura il piacere fisico.
Poiché l’anima è articolata in tre parti, ognuna di esse, secondo Platone, possiede una sua
specifica virtù:
1. la virtù dell’anima razionale è la Sapienza, intesa come capacità di raggiungere la
conoscenza totale delle Idee e del Bene-Uno, cioè del criterio della “misura esatta”;
2. la virtù dell’anima volitiva è il Coraggio, inteso come capacità di non recedere da una
propria decisione o da una propria azione per il timore di subire un danno materiale e,
al limite, di morire;
3. la virtù dell’anima desiderante è la Temperanza, intesa come capacità di limitare il
soddisfacimento dei bisogni istintivi del corpo e quindi il godimento dei piaceri fisici.
Tuttavia, dal momento che l’anima, pur avendo tre parti, è anche qualcosa di unitario, per
Platone essa deve avere una ulteriore virtù complessiva. Questa virtù è la Giustizia, la quale
consiste nella capacità dell’anima come insieme di stabilire il giusto equilibrio tra le sue tre
parti, ovvero di relazionarle in modo armonico e ordinato.
A sua volta l’ordinamento equilibrato e armonico dell’anima consiste in un rapporto
gerarchico, anzi in una vera e propria “catena di comando”, tale per cui l’anima razionale
comanda l’anima volitiva che a sua volta comanda l’anima desiderante. In questo modo, la
“misura esatta”, cioè l’Uno-Bene, che viene conosciuta dall’anima razionale, è imposta
dall’anima volitiva all’anima desiderante così che questa possa esercitare la sua virtù, cioè
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
autolimitarsi. La temperanza, infatti, consiste appunto nel soddisfare un bisogno istintivo
nella sua “giusta misura”, ovvero né troppo né troppo poco, in modo tale che i diversi
bisogni istintivi si armonizzino tra loro e soprattutto non danneggino le due parti superiori
dell’anima. Il che implica per Platone un forte autocontrollo e una drastica limitazione del
godimento dei piaceri fisici.
In conclusione, dunque, secondo Platone essere morali significa agire sulla base di un
equilibrio interiore, cioè stabilire un ordine armonico tra i propri valori ideali, i propri
sentimenti, le proprie emozioni e i propri desideri istintivi, dosando ognuna delle
componenti dell’anima in modo diverso a seconda della sua importanza.
Ma, come abbiamo visto, questo ordine per Platone si incardina sul criterio della “giusta
misura”, ovvero sul principio sommo dell’Uno-Bene. Ciò significa che il comportamento
morale si fonda in ultima istanza sulla conoscenza. D’altra parte, solo la moralità, in
particolare la virtù della Temperanza, permette all’anima razionale di dedicarsi alla ricerca
conoscitiva e così di potenziarsi al massimo grado. Dunque, per Platone conoscenza e
moralità si rafforzano reciprocamente. Ma la conoscenza, come abbiamo considerato, è
promossa anche dall’elevazione estetico-amorosa e, a sua volta, rafforza quest’ultima.
Pertanto, per Platone la vita umana è costituita da una triplice interazione di
rafforzamento reciproco tra conoscenza, moralità e amore.
Ecco spiegato perché il cammino ascensivo di liberazione del prigioniero nel mito della
caverna rappresenta al tempo stesso la crescita conoscitiva, quella estetico-sentimentale e
quella morale. Tanto è vero che il suo traguardo – simbolicamente il Sole – è il principio
ideale supremo dell’Uno che è, al contempo, Verità, Bellezza e Bene, cioè rispettivamente le
mete finali della conoscenza, dell’amore e della moralità.
Secondo Platone, però, la fuga dalla caverna-carcere, cioè appunto il ritorno dell’anima al
mondo delle Idee, nell’arco di una sola vita è una possibilità riservata solo ai filosofi. Gli
altri uomini sono costretti a metterci molto di più, ossia fino a dieci vite consecutive, e
devono purificarsi tra una vita e l’altra subendo una pena per le azioni malvagie che hanno
commesso in vita.
In altre parole, la morale di Platone è connessa alla teoria della metempsicosi, ovvero della
reincarnazione delle anime in più corpi/personalità nel corso di più vite successive.
Platone riprende tale teoria dai pitagorici, ma ne elabora una versione personale esposta in
un nuovo mito, quello di Er, un guerriero gravemente ferito in battaglia che ha avuto la
possibilità eccezionale di soggiornare nell’aldilà e poi di tornare a vivere.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Er narra che dopo la morte il comportamento in vita di ogni uomo viene giudicato e, in
caso di azioni immorali, l’anima deve scontare una pena per mille anni per purificarsi dalle
sue colpe. Al termine dei mille anni a ogni anima viene attribuito a caso un numero che
stabilisce il suo turno per scegliere la sua nuova vita tra una serie di possibili modelli. Chi
ottiene dalla sorte i primi numeri ha più possibilità di scelta, dunque sembra
avvantaggiato, tuttavia in realtà non è così perché ha più probabilità di scegliere i modelli
più attraenti ma in realtà peggiori, come per esempio quello del tiranno. Utilizzando
ancora una volta un’allegoria, Platone afferma, in tal modo, che, nonostante un coefficiente
di casualità, ogni uomo è libero, cioè è padrone e artefice della propria vita, e che, proprio
per questo, è interamente responsabile delle proprie azioni. Tale libertà e tale conseguente
responsabilità sono il fondamento della moralità, cioè della capacità di ogni individuo di
perfezionare il proprio comportamento.
Una volta effettuata la scelta tutte le anime dimenticano quanto successo bevendo l’acqua
del fiume Amelete e quindi rinascono nella dimensione terrena. Come anticipato, ciò può
ripetersi per dieci volte, fino a coprire un lasso di tempo di diecimila anni (la quantità è
simbolica come quella dei mille anni di ogni periodo di pena). Al termine tutte le anime
arrivano finalmente all’uscita dalla caverna, ovvero rimettono le ali e tornano nella Pianura
della verità, salvo cadere di nuovo e ricominciare un nuovo ciclo di reincarnazioni.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 8
ANIMA
(simboleggiata dalla biga alata)
RAZIONALE,
(simboleggiata
dall’auriga)
VOLITIVA
(simboleggiata
dal cavallo
bianco e docile)
DESIDERANTE
(simboleggiata
dal cavallo nero
e ribelle)
FUNZIONE
CONOSCITIVA
E DIRETTIVA
FUNZIONE
COERCITIVA E
DIFENSIVA
FUNZIONE DI
AUTOCONSERVAZIONE
MATERIALE
Virtù della
SAPIENZA
Virtù del
CORAGGIO
Virtù della
TEMPERANZA
Virtù della
GIUSTIZIA
Armonia delle 3 parti dell’anima
basata sul comando dell’anima
razionale su quella aggressiva e di
questa su quella desiderante.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 9
PLATONE: LO STATO GIUSTO DEVE BASARSI SULLA SCIENZA
Da giovane anch’io feci l’esperenza che molti hanno condiviso. Pensavo, non
appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica. […]
Avvenne però che alcuni potentati coinvolgessero in un processo quel nostro
amico Socrate, accusandolo del più grave dei reati, e, fra l’altro, di quello che
meno di tutti si addiceva ad uno come Socrate. Insomma, lo incriminarono
per empietà, lo ritennero colpevole e lo uccisero; e pensare che proprio lui si
era rifiutato di prender parte all’arresto illegale di uno dei loro amici, quando
erano banditi dalla Città e la malasorte li perseguitava.
Di fronte a tali episodi, a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali
leggi e costumi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi
sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. […]
Ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le Città soggiacevano a un cattivo
governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una
buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal
modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa
viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello
pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità
finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme
cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un
qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia.
Platone, Lettera VII, 323 B-326 B, a cura di G. Reale, Longanesi
“Ora, quando di una cosa più grande e di una più piccola si dice che sono la
stessa cosa, per il fatto d’essere dette ‘la stessa cosa’, sono disuguali o sono
uguali?”.
“Uguali”, rispose lui.
“Di conseguenza, in rapporto all’Idea di giustizia, l’uomo giusto e la Città
giusta non differiranno in nulla, ma saranno uguali”.
“Uguali”, ribadì.
“Ma la Città ci parve essere giusta quando in essa le tre funzioni originarie che
la costituiscono [economia, difesa, governo] assolvono ciascuna al proprio
compito; invece ci è sembrata temperante, coraggiosa e sapiente sempre per
questi suoi tipi, ma in relazione a certe altre attitudini e abitudini”.
“E’ vero”, disse. […]
225
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“E allora da ciò viene pure un’altra conseguenza necessaria: che i motivi e i
modi che fanno sapiente una Città, fanno nello stesso tempo sapiente anche il
singolo cittadino”.
“Come no?”.
“E i motivi e i modi che fan sì che il singolo cittadino sia coraggioso, non sono
poi gli stessi che determinano il coraggio della Città? Così riguardo a questi
aspetti l’uno con l’altra stanno nel medesimo rapporto”.
“Di necessità”.
“E così, o Glaucone, io credo che si possa dire giusto un uomo allo stesso titolo
con cui si dice giusta una Città”.
“E anche ciò con assoluto rigore”.
“Questo punto però non c’è passato di mente: che la Città era giusta perché
ciascuna delle tre classi di cui è composta svolgeva in essa il compito che le
spettava”.
“Non mi par proprio che l’avessimo scordato”, disse. […]
“E allora, non è forse vero che alla facoltà razionale spetta, dunque, il compito
di comandare, in quanto è sapiente e ha la responsabilità di tutta l’anima e a
quella irascibile [volitiva] tocca il compito di obbedirle e di darle man forte?”.
“Indubbiamente”.
“E non sarà per caso, come già prima si diceva, la fusione di ginnastica e
musica a creare fra esse questa intesa, l’una dando tono e alimento con belle
parole e nozioni, e l’altra conferendo calma, quiete e una certa grazia in virtù
dell’armonia e del ritmo?”.
“E’ evidente”, rispose.
“Ora queste due facoltà, così nutrite e messe in grado di assolvere davvero
bene al proprio compito per via dell’educazione, devono comandare sulla
facoltà concupiscibile [cioè desiderante]. Essa, invero, costituisce in ciascun
uomo la parte maggiore dell’anima ed è per sua natura mai sazia di ricchezze;
per tale motivo va tenuta d’occhio perché non si riempia dei cosiddetti piaceri
del corpo, e, aumentata di forza e di dimensioni, non rinunci ad assolvere al
proprio compito e cerchi invece di assoggettare e di sopraffare le altre due
facoltà che non hanno nulla a che vedere con il suo genere, in tal modo
sovvertendo il sistema di vita di tutti”.
“Va bene”, disse.
“E poi – aggiunsi – non è forse vero che queste facoltà farebbero l’interesse
dell’anima e del corpo custodendoli dai nemici esterni nel modo migliore,
l’una con la sua capacità di decidere, e l’altra con la sua capacità di combattere
e la disponibilità ad obbedire alla parte che comanda, dando coraggiosamente
esecuzione alle sue deliberazioni?”
“E’ davvero così”.
Platone, Repubblica, 435 A-442 B, a cura di G. Reale, Longanesi
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“ATENIESE: Ascoltami bene. Fra i vari generi di costituzione, due sono simili
a delle madri, in quanto non sarebbe errato sostenere che gli altri tipi
traggono origine proprio da essi. Di questi l’uno indubbiamente si può
chiamare monarchia; e l’altro democrazia. E il prototipo del primo genere è la
costituzione dei Persiani, mentre quello del secondo è il nostro modello di
costituzione. Come ho detto, le altre forme di governo, quasi per intero, sono
variazioni di queste. Ora, se si vuol salvaguardare la libertà e la concordia
insieme alla saggezza, è assolutamente necessario che lo stato abbia parte di
ambedue le forme: ed è esattamente questa la tesi che il nostro discorso vuole
sostenere quando afferma che mai una città potrebbe essere ben
amministrata se prescinde da tali tipi di governo.
CLINIA: Certo, e come potrebbe?
ATENIESE: Una società ha prediletto la forma monarchica, l’altra ha scelto la
libertà; ambedue, però, sono andate oltre il segno, al punto che nessuna ha
saputo mantenere la giusta misura.”
Platone, Leggi, III, 693 D-E, a cura di G. Reale, Longanesi
Nel mito della caverna il prigioniero liberato, una volta giunto al traguardo del suo
cammino ascendente e aver goduto del Sole, decide di ridiscendere nella caverna per
rivelare la sua scoperta ai suoi compagni, liberarli e portarli all’aria aperta.
Il ritorno del prigioniero nella caverna è il simbolo dell’impegno politico. In altre parole,
per Platone, è dovere di tutti gli uomini, e soprattutto di chi tra loro si è più elevato
interiormente, impegnarsi per rendere più giusta la propria “Città”, cioè lo Stato di cui si fa
parte.
Ma perché l’impegno politico è un dovere? Per rispondere a questa domanda Platone si
pone, innanzitutto, un’altra domanda preliminare: perché ci sono gli Stati? Come sono
nati? Perché, risponde Platone, gli individui umani nascono con una serie di bisogni
materiali (mangiare, bere, dormire, coprirsi, ecc.) e non sono in grado di soddisfarli
individualmente, o quantomeno da soli potrebbero soddisfarli in modo molto più limitato
e precario.
Di conseguenza gli uomini si associano in base alla regola sociale della divisione del lavoro:
un uomo coltiva, un secondo alleva, un terzo produce il pane, un altro ancora costruisce le
case, ecc. e poi tutti si scambiano tra loro i diversi prodotti del lavoro di ognuno. Una volta
che si è così formata una vasta comunità, sorge la necessità di regolamentare tutti i
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
rapporti reciproci tra gli uomini che ne fanno parte e quindi di decidere quali regole di
convivenza adottare, ovvero nasce lo Stato.
A questo punto, Platone si chiede: cosa permette il miglior funzionamento dello Stato?, e
risponde: la giustizia. In altre parole, uno Stato per conservarsi e funzionare bene deve
basarsi su regole/leggi giuste. Dunque, ogni cittadino deve impegnarsi politicamente per
fare sì che il proprio Stato sia sempre più giusto altrimenti lo Stato verrebbe meno e con
esso la possibilità di sopravvivenza materiale.
Ma in cosa consiste allora lo Stato giusto e in che modo si realizza? Per risolvere questo
problema, Platone ritiene che si debba innanzitutto delineare chiaramente il modello
ideale di Stato giusto, ossia l’Idea di Stato, lo Stato perfetto. A tale scopo, Platone individua
la prima condizione dello Stato giusto nel suo isomorfismo con l’individuo umano. In altre
parole, poiché lo Stato è un insieme di individui, dovrà avere in grande la struttura interna
che ogni individuo ha in piccolo. Insomma, lo Stato deve essere un macrouomo.
Ora, poiché, come si è visto, ogni uomo è costituito da un’anima tripartita (razionale,
volitiva, desiderante) anche lo Stato dovrà avere un’analoga tripartizione, cioè dovrà essere
diviso – sulla base dell’anima prevalente in ogni individuo, cioè della sua dell’indole
naturale – in tre classi:
1. quella dei governanti, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima razionale
e che dunque possono eccellere nella sapienza;
2. quella dei militari, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima volitiva e
che dunque possono eccellere nel coraggio;
3. quella dei produttori, cui appartengono gli individui in cui prevale l’anima
desiderante e che dunque possono eccellere nella temperanza.
I doveri, cioè le funzioni, di ogni cittadino, secondo Platone, devono differenziarsi a
seconda della classe di appartenenza, ossia della propria indole:
1. I governanti devono elaborare le leggi, poiché possedendo la sapienza, cioè la
scienza delle Idee, sono i cittadini che possono prendere le decisioni più equilibrate
ed efficaci.
2. I militari devono difendere la città dalle aggressioni esterne e devono garantire il
rispetto delle leggi e la pacifica convivenza al suo interno, dal momento che
possedendo il coraggio sono i più capaci nell’uso della forza.
3. I produttori devono provvedere al soddisfacimento di tutti i bisogni materiali della
società, poiché, limitando i loro consumi grazie alla temperanza, sono i più efficienti
ed efficaci nella produzione dei beni materiali.
228
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Alla diversità dei doveri deve corrispondere, prosegue Platone, una diversità dei diritti
individuali. I produttori possono possedere beni individuali, una famiglia propria e una
vita privata. I governanti e i guerrieri, invece, hanno diritto a essere mantenuti
sobriamente a spese dello Stato, ma non a possedere beni individuali, una famiglia e una
vita privata.
Essi possono e anzi devono riprodursi, ma devono allevare ed educare in comune i
bambini, senza sapere quali di loro sono i propri figli, allo scopo di evitare la benché
minima possibilità di favoritismi. In tal modo, chi ha più doveri, e quindi poteri, deve
godere di minori diritti individuali e viceversa.
In sintesi, per Platone uno Stato è giusto, e quindi forte, quando ogni suo membro svolge
soltanto le funzioni che è più capace di svolgere e gode unicamente dei diritti derivanti
dalla funzione che svolge. Solo in questo caso, infatti, le tre classi che lo compongono si
integrano e cooperano tra loro nel migliore dei modi, ovvero raggiungono l’armonia.
Si tratta, però, di un’armonia basata su un’organizzazione nettamente gerarchica, su una
catena di comando che parte dai governanti per giungere ai produttori passando per i
militari.
A maggior ragione per questo, il cardine della giustizia dello Stato è costituito dal criterio
di attribuzione dei diversi individui alle diverse classi. In ultima analisi, uno Stato è giusto,
piuttosto che ingiusto, a seconda di come decide se un individuo deve essere governante,
militare o produttore. Ribadito che il criterio della scelta devono essere le effettive doti
individuali, Platone afferma che spetta ai governanti, sempre in ragione della loro
sapienza, il compito di vagliare le doti e quindi di stabilire la funzione di ogni cittadino. Ma
egli precisa anche che la scelta dei governanti deve avvenire al termine di una fase di
educazione e istruzione pubbliche, basate sulla ginnastica e la musica, di tutti i bambini
della città.
In altre parole la divisione nelle tre classi, per Platone, deve basarsi sulle attitudini e le
vocazioni appurate dai governanti durante un periodo di studio, senza alcuna
discriminazione né di nascita né di sesso. Insomma, anche i figli dei produttori o le donne
possono entrare nelle prime due classi. Ma per diventare governanti occorre un ulteriore
iter di studi – 10 anni di scienze (aritmetica, geometria, astronomia, musica) più 5 anni di
dialettica – seguito da un tirocinio di 15 anni. Solo non prima dei 50 anni, e solo se è
arrivato al termine dell’iter formativo, superando positivamente tutte le prove, un cittadino
può essere ammesso all’esercizio del governo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In conclusione, secondo Platone, uno Stato è giusto quando tutti i suoi cittadini hanno le
stesse opportunità, grazie a un sistema d’istruzione pubblica e obbligatoria per tutti, di
comprendere e sviluppare le proprie migliori capacità e, su questa base, di svolgere poi la
funzione sociale per la quale sono portati.
Ma, come sappiamo, uno Stato così organizzato è l’Idea di Stato. In questo senso, Platone
la definisce una utopìa (in greco: in nessun luogo), ovvero uno Stato realizzabile solo se gli
uomini fossero dei, dunque di fatto irrealizzabile. Ma allora che senso ha averlo delineato?
L’obiettivo della politica non è costruire uno Stato giusto reale, effettivo? Platone risponde
che solo sulla base di un modello ideale di Stato giusto è possibile costruire uno Stato
giusto reale, in quanto lo Stato giusto reale è quello più simile allo Stato giusto ideale.
In base a questa impostazione, Platone, in due tappe successive, elabora delle versioni
realistiche dello Stato ideale. Egli sostiene, in prima battuta, che lo Stato reale migliore
sarebbe quello basato sul potere discrezionale, cioè non vincolato a regole generali, di un
vero “politico”, cioè di un leader carismatico dotato di “virtù e scienza” e capace pertanto di
equilibrare secondo “giusta misura” le varie componenti sociali, allo stesso modo di un
abile tessitore che intreccia i fili di diverso colore della sua tela fino a comporre un insieme
unitario e armonico. Platone però ammette che l’esistenza di un “politico” di questo genere
è un evento storicamente più unico che raro.
Pertanto, egli arriva a sostenere che è preferibile che gli Stati si basino sul primato delle
costituzioni, cioè su insiemi di leggi scritte che limitino e orientino i governanti. Su questa
base Platone individua tre possibili forme di governo costituzionali, tanto più positive
quanto più i rispettivi governanti rispettano le leggi:
1. la monarchia, cioè il governo di un solo individuo;
2. l’aristocrazia, cioè il governo di pochi più ricchi, ma per questo più istruiti;
3. la democrazia, cioè il governo di tutto il popolo.
Quando invece le leggi vengono trasgredite queste forme di governo degenerano nelle loro
corrispettive varianti negative: la tirannide, l’oligarchia e l’anarchia. Su queste basi,
Platone sostiene che la migliore costituzione realistica è quella monarchica e la peggiore è
la tirannide. La prima infatti è la più vicina al modello ideale del “politico”, la seconda la
più lontana.
In un secondo e ultimo tempo, Platone conclude la sua riflessione politica proponendo un
nuovo modello di Stato, ancora più realistico e praticabile, ma anche migliore, della
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
monarchia. Si tratta di una città basata su una costituzione mista, cioè sull’equilibrio di tre
istituzioni fondamentali, ognuna corrispondente alle tre forme di governo costituzionali,
cioè monarchia, aristocrazia e democrazia:
1. un re, che garantisca il principio dell’unità della città;
2. un consiglio dei cittadini migliori, cioè più esperti, che garantisca un governo
razionale;
3. un’assemblea di tutti i cittadini, che garantisca la libertà individuale.
Il baricentro della costituzione mista è il consiglio “aristocratico”, composto cioè dagli
uomini più sapienti, necessariamente una ristretta élite. Pur nello sforzo di aderenza alla
realtà storica, Platone conferma così da un lato il sommo criterio della “giusta misura”,
ovvero dell’Uno-Bene-Verità-Bellezza, e dall’altro il primato relativo dei sapienti come
condizione necessaria della, seppur parziale, realizzazione politica della giustizia.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 9
GOVERNANTI: cittadini in cui
prevale l’anima razionale e
dunque la virtù della sapienza
STATO
IDEALE
UTOPICO
STATO
COSTITUZIONALE
Decidono ma
non possono
possedere niente
né avere famiglia
MILITARI: cittadini in cui
prevale l’anima volitiva e
dunque la virtù del coraggio
Difendono ma
non possono
possedere niente
né avere famiglia
PRODUTTORI: cittadini in cui
prevale l’anima desiderante e
dunque la virtù della
temperanza
Producono e
possono avere
proprietà e
famiglia
MONARCHIA
antitesi della
GIUSTIZIA
=
Ogni
cittadino
deve
svolgere solo
il suo
compito
TIRANNIDE
ARISTOCRAZIA
OLIGARCHIA
DEMOCRAZIA
ANARCHIA
Un RE, che garantisce
l’unità
STATO BASATO
SU
COSTITUZIONE
MISTA
Un CONSIGLIO di
esperti, che garantisce la
competenza governativa
GIUSTIZIA =
EQUILIBRIO DEI
POTERI DEI 3
ORGANI
Un’ASSEMBLEA eletta
dal popolo che
garantisce la libertà
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
PLATONE E LA COSTITUZIONE ITALIANA
Il concetto platonico di “costituzione mista” è ancora oggi, seppur solo parzialmente, alla
base di tutte le Costituzioni liberal-democratiche, in quanto queste si basano sia sulla
compresenza di più organi istituzionali, ognuno dei quali assolve una distinta funzione,
sia sul principio della tripartizione dei tre poteri fondamentali (esecutivo, legislativo,
giudiziario), secondo il quale ogni potere deve essere autonomo dagli altri due e non
interferire con essi.
Prendendo come esempio la Costituzione italiana, essa prevede:
 un Presidente della Repubblica che rappresenta l’unità dello Stato;
 un Consiglio dei ministri, che svolge la funzione governativa in base alle
competenze dei suoi diversi componenti;
 un Parlamento, eletto dal popolo in sua rappresentanza e dotato del potere di
approvare o respingere le leggi, di scegliere, attraverso il voto di fiducia, il
Consiglio dei ministri e anche di eleggere il Presidente della Repubblica.
E’ facile notare le affinità con la concezione platonica della “costituzione mista”, a
maggior ragione perché anche la Costituzione italiana sottolinea la necessità di un
equilibrio armonico tra gli organi istituzionali fondamentali e in tal senso attribuisce al
Presidente della Repubblica il compito di essere arbitro super partes e moderatore,
ovvero di garantire l’equilibrio istituzionale.
Tuttavia, non vanno messe in secondo piano le differenze: non solo e tanto quella tra
Presidente e Re, dal momento che anche i Re greci erano eletti; quanto quella tra il ruolo
preponderante che, secondo la Costituzione italiana, deve avere il Parlamento, e il ruolo
preponderante che, invece, per Platone deve svolgere il Consiglio “aristocratico” degli
esperti, corrispettivo del Consiglio dei ministri.
Inoltre, per quanto riguarda il principio della tripartizione dei poteri, canonizzato da
Montesquieu nella prima metà del ‘700 e divenuto presupposto di tutte le costituzioni
liberal-democratiche dall’800 in poi, Platone lo abbozza nella sua costituzione mista
attribuendo all’assemblea popolare quello legislativo e di controllo, e quello esecutivo al
Re e al Consiglio. Platone, però, non separa il potere giudiziario da quello esecutivo, e per
questo indubbiamente il suo modello di Stato non può essere considerato, almeno
pienamente, quello di uno Stato liberale di diritto, cioè di uno Stato che garantisce il
rispetto dei diritti individuali dei suoi cittadini.
In tal senso, al contrario, la Costituzione italiana prevede altre due organi istituzionali
fondamentali, entrambi di tipo giudiziario: il CSM (Consiglio superiore della
magistratura) che deve garantire l’indipendenza dei magistrati (giudici e pubblici
ministeri), e la Corte costituzionale, che deve controllare e giudicare la costituzionalità di
tutte le leggi e di tutti gli atti amministrativi, proprio per impedire che siano lesi i diritti
individuali e collettivi dei cittadini sanciti dalla Costituzione.
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TAPPA 10
PLATONE: LA SCIENZA DEVE BASARSI SULLA MATEMATICA
E [il Demiurgo] diede ad esso [l’universo] una forma che gli era conveniente e
affine. Infatti, al vivente che deve comprendere in sé tutti i viventi è
conveniente quella forma che comprende in sé tutte quante le forme. Perciò lo
tornì arrotondato, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in
modo eguale da ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile
a sé medesima, ritenendo il simile più bello del dissimile.
E lo fece perfettamente liscio di fuori tutto intorno, per molte ragioni. Infatti,
non aveva alcun bisogno di occhi, perché al di fuori non era rimasto nulla che
fosse visibile; né aveva bisogno di udito, perché non c’era neppure nulla che
fosse udibile. […]
In effetti, colui che lo costituì pensò che il mondo, con l’essere sufficiente a se
stesso, sarebbe stato migliore che non se avesse avuto bisogno di altre cose.
Pertanto non credette di dovere inutilmente attaccare mani, con le quali non
c’era alcun bisogno di prendere o respingere qualcosa, né piedi, né, in
generale, quanto fornisse un servizio per camminare.
In effetti, gli assegnò un movimento conveniente al suo corpo: dei sette
movimenti gli assegnò quello che soprattutto conviene all’intelligenza e alla
saggezza. Perciò, appunto, facendolo ruotare allo stesso modo e, nello stesso
luogo e in sé medesimo, fece sì che si muovesse con movimento circolare. […]
Ora, abbiamo notato che la natura del Vivente è eterna, e questa non era
possibile adattarla perfettamente a ciò che è generato. Pertanto Egli pensò di
produrre una immagine mobile dell’eternità, e, mentre costituisce l’ordine del
cielo, dell’eternità che permane nell’unità, fa un’immagine eterna che procede
secondo il numero, che è appunto quella che noi abbiamo chiamato tempo.
[…]
Dunque, in base a tale pensiero e ragionamento intorno alla generazione del
tempo, ossia affinché il tempo si generasse, furono fatti il sole e la luna e
cinque altri astri, che hanno il nome di pianeti, per la distinzione e la
conservazione dei numeri nel tempo.
E formati i corpi di ciascuno di essi, Dio li collocò nelle orbite nelle quali si
muoveva il circuito circolare del Diverso. Essendo sette gli astri, sette sono le
orbite. Pose la Luna nella prima intorno alla terra, il Sole nella seconda al di
sopra della terra. Lucifero [Venere] e quello che è detto sacro ad Ermes
[Mercurio] li fece procedere in un ciclo per velocità pari a quello del Sole, ma
avendo in sorte direzione contraria ad esso. Per questo il Sole, il pianeta di
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Ermes e Lucifero raggiungono il Sole e sono raggiunti l’uno dall’altro nella
stessa maniera. […]
La maggior parte dell’Idea del divino la realizzò di fuoco, affinché fosse
luminosissima e bellissima a vedersi. E facendola simile all’universo la
produsse ben rotonda e la pose nell’intelligenza del cerchio più potente [cioè
la sfera massima] come suo seguace, e la distribuì in circolo per tutto il cielo,
perché fosse un vero ornamento ad esso e vario nella sua totalità.
E a ciascuno di questi, poi, assegnò due movimenti: l’uno in sé stesso e nel
medesimo modo, in quanto ciascuno pensa sempre in sé le medesime cose;
l’altro movimento, invece, in avanti, in quanto ciascuno è dominato dal moto
circolare dell’Identico e Simile. E rispetto agli altri cinque movimenti, poi,
Egli fece ciascuno immobile e fisso, affinché ciascuno diventasse ottimo in
sommo grado. Da questa causa furono generati quegli astri [le stelle del
firmamento] che non sono erranti [cioè che differiscono dai pianeti], viventi
divini ed eterni, i quali allo stesso modo e nello stesso luogo ruotando stanno
sempre immobili. Invece quelli che ruotano ed hanno un siffatto corso
errabondo sono stati generati nel modo che s’è detto prima.
La Terra, poi, nostra nutrice, stretta intorno all’asse che si estende attraverso
l’Universo, Egli la costruì custode ed artefice della notte e del giorno, la prima
e la più antica fra gli dei, quanti sono stati generati dentro al cielo.
Platone, Timeo, 33B-40 C, a cura di G. Reale, Longanesi
Nell’ambito della sua riflessione filosofica a 360° gradi, Platone non solo si occupa di
ricerca scientifica, confrontandosi con molti grandi scienziati della sua epoca, ma inaugura
quel settore della filosofia che oggi si chiama “epistemologia”, cioè teoria della scienza.
Epistème è appunto il termine greco che Platone usa per designare la scienza in
contrapposizione a dòxa (opinione).
Mentre la prima è conoscenza vera per necessità razionale, e quindi è sempre certa, la
seconda è solo possibile che sia vera, in particolare se è basata su un’esperienza metodica, e
dunque rimane sempre incerta, cioè solamente probabile. P.e., secondo Platone è scienza
che la somma degli angoli interni di tutti i triangoli sia 180°, mentre è opinione che l’oro
sia inossidabile.
In questa prospettiva, le conoscenze empiriche – fisica, chimica, biologia, ecc. - per Platone
sono solo tèchnai, cioè arti pratiche, saperi tecnici (oggi diremmo know how), ovvero non
sono vere ma “verosimili”, cioè approssimate al vero. La scienza per eccellenza, la scienza
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suprema, è invece la dialettica, ovvero la scienza delle Idee. Essa è infatti la conoscenza
intuitiva totale delle Idee, i principi razionali stabili e perfettamente ordinati di tutta la
realtà. Ma, in questo senso, la dialettica come sapere universale, enciclopedico e
soprattutto metafisico coincide con la filosofia in senso stretto.
Di conseguenza in Platone le scienze vere e proprie, nel significato che oggi diamo a questo
termine, sono quelle “dimostrative” – l’aritmetica, la geometrica, l’astronomia e la musica
– che pur non basandosi sull’esperienza, si riferiscono però al mondo fisico e si occupano
di un oggetto particolare.
Il denominatore comune delle quattro scienze platoniche è la matematica: aritmetica e
geometria sono matematica pura, cioè indipendente dal mondo fisico, astronomia e musica
sono matematica applicata rispettivamente agli astri e ai suoni, cioè a qualcosa di fisico.
Ciò significa che per Platone la matematica è il modello della razionalità scientifica, il
linguaggio stesso della scienza. Il fondamento metafisico di questa concezione
epistemologica è l’organizzazione matematica del mondo delle Idee, dovuta alla
derivazione di tutte le Idee da sommi principi dell’Uno, della Diade e dei Numeri ideali
(Triade, Tetrade, ecc.).
La conseguenza di questa visione è duplice:
 da un lato per Platone sono scientifiche solo le conoscenze che sono organizzabili
matematicamente, cioè che hanno una concatenazione logica interna e una
precisione di tipo matematico;
 dall’altro lato, è possibile matematizzare, e cioè conoscere scientificamente, solo
quelle parti della realtà fisica che sono più simili al mondo ideale – ovvero il cielo,
che proprio per questo è il luogo degli dei, e i suoni armonici anch’essi connessi alla
dimensione celeste.
Per il primo aspetto, Platone dà un contributo di enorme importanza al futuro sviluppo
della cultura scientifica occidentale, incentrato appunto sull’utilizzo e lo sviluppo della
matematica. Sotto il secondo aspetto, invece, oppone un forte limite allo sviluppo della
ricerca scientifica. Egli infatti diffonde la convinzione che le conoscenze “terrestri” – fisica,
chimica, biologia, ecc. – non sarebbero mai potute diventare scientifiche a causa
dell’intrinseca irriducibilità alla matematica dei loro rispettivi oggetti. In parole più
semplici, Platone sostiene che, poiché il mondo fisico terrestre è troppo diverso dal mondo
delle Idee, in esso domina l’irregolarità e dunque non può essere conosciuto
matematicamente, ovvero non se ne può fare scienza. Pertanto la fisica, la chimica, la
biologia non potranno mai basarsi sulla matematica e assurgere così al rango di scienze.
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Tuttavia, più in generale, Platone favorì il successivo sviluppo della scienza moderna
proprio grazie alla sua teoria delle Idee, cioè diffondendo la tesi che un concetto mentale
può essere più vero di un’osservazione sensibile, ossia che l’elaborazione teoricomatematica deve prevalere sull’esperienza dei sensi.
Infatti, come avrebbe potuto altrimenti Galileo Galilei – solo per fare un esempio – intuire
e sostenere che una piuma e una roccia cadono con la stessa accelerazione? E sostituire,
per provarlo, l’esperienza naturale con l’esperimento, cioè con l’osservazione di una realtà
artificiale, razionalmente progettata, e quindi molto diversa da quella percepibile solo con i
sensi?
Nell’ambito delle scienze platoniche, basate sulla matematica, assume un particolare
rilievo l’astronomia, che di fatto assurge a modello della scienza platonica. Essa infatti
appare a Platone sia come la più significativa possibilità di matematizzare la realtà, e
quindi di costruire una scienza fisica, sia come il miglior modo di confermare la natura
divina degli astri sulla base della regolarità matematica dei loro moti. In questo senso,
Platone elabora innanzitutto una sua cosmologia rifacendosi sia alla cosmologia della
scuola pitagorica sia a quella della scuola di Mileto.
Dai pitagorici Platone riprende la forma sferica del cosmo, della Terra e dei pianeti, e
insieme la circolarità dei moti celesti. Ma mentre i pitagorici avevano sostenuto che tutti gli
astri ruotano intorno a un fuoco sacro centrale, una specie di super-Sole, Platone fa
proprio il geocentrismo dei filosofi milesii.
Secondo Platone, pertanto, il cosmo è composto dalla Terra, immobile al centro, da 7
“pianeti” (in greco “erranti, vagabondi”) – Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove,
Saturno – e dalle stelle del firmamento che sono infisse nel cielo, cioè nella parte interna
della grande sfera che racchiude l’intero universo.
Tutti i corpi celesti ruotano intorno alla Terra. Il loro moto è finalizzato all’esistenza e alla
misurazione del tempo. In più, il moto del Sole causa l’alternanza del giorno e della notte e
quella delle stagioni. Il tempo scandito dai moti astrali, e dunque circolare come loro, a sua
volta, secondo Platone, è l’imitazione da parte del mondo fisico dell’eternità propria del
mondo ideale.
Sulla base di questa impostazione cosmologica Platone si propone di costruire
un’astronomia scientifica. Egli chiede agli scienziati dell’Accademia di elaborare una
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descrizione matematica dei moti astrali mantenendo fermo il postulato della circolarità e
dell’uniformità – cioè della velocità costante – di tutti i moti celesti.
L’impresa risulta facile per quanto riguarda i moti stellari. Infatti, osservando il cielo
stellato notturno è possibile verificare che ogni stella presenta un moto circolare e
uniforme da est verso ovest, che dura 24 ore, simile cioè a quello giornaliero del Sole10. La
faccenda si complica invece per quanto riguarda i “pianeti”. Questi, infatti, oltre al moto
giornaliero da est verso ovest, presentano anche un altro moto di durata annuale da ovest
verso est, che non sembra affatto né circolare né uniforme. In particolare ciclicamente essi
(a eccezione del Sole e della Luna) sembrano rallentare, fermarsi, tornare indietro
curvando, fermarsi e, infine, riprendere accelerando la direzione originaria.11 Proprio per
questo i Greci li avevano chiamati “vagabondi”, perché ciclicamente nel corso dell’anno
solare “uscivano” dalla loro orbita circolare e si muovevano in modo irregolare.
La sfida lanciata da Platone è raccolta e vinta dal matematico Eudosso, autore della prima
teoria matematica del funzionamento del cosmo, ovvero il padre dell’astronomia come
scienza vera e propria. Ogni pianeta, secondo Eudosso, è incastonato su un punto della
circonferenza maggiore di una grande sfera trasparente che ruota su se stessa e il cui asse è
infisso su una seconda sfera più grande, anch’essa ruotante su se stessa e con asse infisso
su una terza sfera ruotante più grande con asse infisso su un’ancora più grande quarta ed
ultima sfera ruotante. In questo modo l’orbita di ogni pianeta, secondo Eudosso, è la
risultante della combinazione dei moti uniformi di quattro sfere concentriche e tra loro
collegate, aventi però ognuna un’inclinazione dell’asse e un periodo di rotazione differenti.
In questo modo Eudosso, utilizzando unicamente moti circolari uniformi, riesce a
descrivere matematicamente i moti orbitali irregolari di Sole, Luna e pianeti, utilizzando in
tutto 27 sfere (3 per il Sole e 3 per la Luna, 4 per ogni altro pianeta, più la sfera massima
delle stelle fisse). In realtà le orbite descritte dal modello di Eudosso non coincidono
perfettamente con quelle osservabili, soprattutto nei casi di Venere e Marte, ma la buona
approssimazione complessiva consentiva di considerare la teoria più che soddisfacente.
Dobbiamo, inoltre, considerare che l’epistemologia contemporanea ha raggiunto la
consapevolezza che nessuna teoria scientifica è mai in grado di coincidere perfettamente
con la realtà. Una teoria scientifica è sempre “approssimata”, il suo valore dipende dal
grado di approssimazione.
10
Oggi sappiamo che è un moto apparente dovuto alla rotazione della terra da ovest verso est.
Oggi sappiamo che ciò è dovuto al fatto che percorrendo le loro orbite ciclicamente i pianeti sorpassano la Terra o
sono sorpassati da essa.
11
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In questo senso, la teoria astronomica di Eudosso, benché molto meno approssimata alla
realtà dell’attuale teoria della relatività di Einstein, risulta pienamente scientifica in quanto
la sua struttura di fondo è la stessa della teoria della relatività di Einstein: un insieme di
figure geometriche e relazioni aritmetiche applicabili alla descrizione dei movimenti
osservabili di corpi in modo tale da isolarne e coglierne l’ordine, che altrimenti rimane
nascosto dall’apparente irregolarità della sola osservazione sensibile.
In altre parole, la teoria astronomica di Eudosso è scienza in quanto cerca – come qualsiasi
teoria scientifica attuale – di ricondurre la realtà osservabile a regolarità di tipo teoricomatematico.
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MAPPA della TAPPA 10
Tutti gli astri sono
sferici
Tutti gli astri hanno
moti circolari uniformi
La Terra è ferma al
centro del cosmo
Il cosmo è racchiuso da una grande
sfera che ruota intorno al proprio asse
da est ad ovest a velocità costante
Le stelle “fisse” sono attaccate alla
sfera e questo spiega il loro moto
giornaliero da est a ovest, circolare e
uniforme
I 7 “pianeti” (Luna, Mercurio, Venere,
Sole, Marte, Giove, Saturno) sono
attaccati sull’equatore di sfere
trasparenti concentriche che hanno
direzioni, velocità e assi differenti
I 7 pianeti hanno 2 moti:
1) quello giornaliero circolare
uniforme come le stelle fisse;
2) quello annuale non circolare
né uniforme che però è la
risultante dei moti di più sfere
che girano sul proprio asse a
velocità costante.
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LO SCRIGNO
ROGER PENROSE: LA MATEMATICA GUIDA LA RICERCA SCIENTIFICA
Il motivo di questo convincimento è che quanto più sondiamo i fondamenti
del comportamento fisico tanto più scopriamo che esso è accuratamente
controllato dalla matematica. Inoltre, questa matematica non è solo di diretta
natura computazionale (cioè fatta di calcoli, ndr), ma ha un carattere
profondamente sofisticato, in cui è possibile scorgere una sottigliezza e una
bellezza non visibili nella matematica che è importante per la fisica a un
livello meno fondamentale. Quindi, il progresso verso una più profonda
comprensione fisica, se non può essere guidato dettagliatamente
dall’esperimento, deve basarsi sempre più sull’abilità di apprezzare la
rilevanza fisica e la profondità della matematica, e di “fiutare” le idee
appropriate per mezzo di una valutazione di estetica matematica
profondamente sensibile.
R. Penrose, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, 2005, p. 1026
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VI VIAGGIO
LA RAZIONALITA’ ESSENZIALE
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ROTTA SU…
L’IDEALISMO IMMANENTE
La filosofia aristotelica si può considerare una riforma in senso immanentistico
dell’idealismo di Platone. Aristotele, infatti, da un lato, tiene ferma la svolta metafisica
del suo maestro – cioè la tesi secondo cui esiste una realtà puramente razionale
fondamento di quella fisica –, dall’altro lato, avvicina e integra, almeno parzialmente,
realtà razionale e realtà fisica.
In questo senso, il punto di partenza di Aristotele è senz’altro la critica alla trascendenza
assoluta delle Idee platoniche. Queste, secondo Aristotele, non sono in grado di fornire
una spiegazione razionalmente soddisfacente del mondo fisico: in primo luogo, perché,
essendo del tutto separate da esso, non possono esserne il principio generativo e, in
secondo luogo, perché, essendo fisse e immutabili, non sono in grado di rendere conto del
suo mutamento, cioè della caratteristica fondamentale del mondo fisico. Non a caso,
Platone, per spiegare la generazione del mondo fisico, era dovuto ricorrere a un “mito”,
cioè a un racconto verosimile, e, di conseguenza, aveva dovuto negare la possibilità di
costruire una scienza del mondo fisico. Aristotele, al contrario, pensa che si possa e si
debba fare scienza anche del mondo fisico e cioè spiegare razionalmente la sua esistenza
e il suo mutamento.
Per raggiungere questo obiettivo, Aristotele immanentizza le Idee, trasformandole in
“essenze”, cioè in principi di organizzazione razionale interni a tutte le cose fisiche e
dunque tutt’uno con esse. D’altra parte, come si vedrà, egli non rinuncia del tutto alla
razionalità metafisica, teorizzando l’esistenza di un intelletto divino trascendente, che,
però, in quanto meta finale irraggiungibile di tutte le cose fisiche, non solo interagisce
con esse ma costituisce la spiegazione ultima della loro esistenza e del loro divenire.
In questo modo, grazie al suo idealismo immanentistico, Aristotele valorizza e promuove
– a differenza di Platone – la ricerca scientifica anche a livello della fisica, della chimica,
della geologia, della meteorologia e della biologia. Egli però svaluta la matematica non
considerandola più, come il suo maestro, un requisito indispensabile di ogni vera scienza.
Pur con questo limite, Aristotele riuscì a dare alla sua filosofia una ampiezza e una
profondità enciclopediche – spaziando dalla metafisica alle scienze della natura,
dall’etica alla politica, dalla psicologia alla logica, dalla retorica all’estetica –
imponendosi nella storia del pensiero filosofico e scientifico come uno dei riferimenti
fondamentali.
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VITA DI UN CAPITANO
ARISTOTELE
Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, piccola colonia ionica al confine con il regno di
Macedonia, a circa 55 km dall’odierna città greca di Salonicco. Suo padre Nicomaco era un
medico di talento, tanto da diventare il medico di corte di Aminta re di Macedonia, padre
di Filippo II. Da ragazzo, pertanto, Aristotele visse a Pella, capitale del regno di Macedonia,
e fu stimolato dal padre ad interessarsi agli studi medico-biologici.
Rimasto orfano ancora adolescente, Aristotele fu affidato a un parente che, a diciotto anni,
lo fece entrare nell’Accademia, diretta in quel momento da Eudosso, poiché Platone era
andato per la seconda volta a Siracusa. La scuola platonica era ormai diventata il più
importante centro culturale della Grecia dove si incontravano e dibattevano tra loro tutti i
più importanti filosofi, scienziati e intellettuali greci, e non solo quelli di orientamento
platonico.
Aristotele vi rimase venti anni, fino alla morte di Platone, formandosi in base a contributi
enciclopedici e diversificati, emergendo ben presto come il più brillante tra i giovani allievi
(tanto da meritarsi l’appellativo di “mente”) e imponendosi poi come il più intelligente e
determinato critico della teoria platonica (tanto che le sue critiche riecheggiano in uno dei
più importanti dialoghi di Platone, il Parmenide, dedicato appunto alla verifica e alla
revisione della teoria delle idee).
Lasciata l’Accademia, Aristotele soggiornò e insegnò prima a Asso (vicino a Troia) poi a
Mitilene (isola di Lesbo), dove si dedicò anche a ricerche scientifiche, soprattutto di tipo
biologico. In questi primi anni di insegnamento autonomo, Aristotele sposò Pizia, nipote di
Ermia, tiranno di Atarneo che apprezzava la filosofia platonica, ed ebbe da lei una figlia.
Strinse inoltre amicizia con Teofrasto che divenne il suo più stretto discepolo. Dal 343 al
338, Aristotele visse a Pella, alla corte di Filippo II il Macedone, in qualità di precettore del
figlio Alessandro. Rimasto vedovo di Pizia, ebbe un figlio, Nicomaco, dalla più giovane
Erpillide, forse sua seconda sposa, sicuramente sua convivente fino alla morte.
Nel 335 tornò ad Atene dove fondò, grazie al sostegno di Alessandro Magno, una sua
scuola, il Liceo (il nome deriva dal tempio di Apollo Licio, che si trovava vicino al ginnasio
sede della scuola; “licio” significava “dei lupi”, nel senso di “uccisore dei lupi”), che di lì a
poco divenne più importante dell’Accademia fino a oscurarla. Poiché Aristotele usava
insegnare passeggiando con i suoi discepoli nei prati circostanti alla scuola, questa prese
anche il nome di Peripato (“passeggiata”) e i discepoli di Aristotele quello di peripatetici.
Nel 323, in seguito alla morte di Alessandro Magno, Aristotele subì la reazione politica del
partito antimacedone: accusato pretestuosamente di empietà si tramanda che abbia
dichiarato: “Non voglio che gli ateniesi commettano un secondo crimine contro la
filosofia”. Veritiero o meno che sia questo aneddoto, è certo che, a differenza di Socrate,
Aristotele si sottrasse al processo fuggendo a Calcide (in Eubea) e lasciando la direzione del
Liceo all’affezionato discepolo Teofrasto.
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Morì nel 322, un anno dopo il suo pupillo Alessandro.
Le opere di Aristotele sono suddivisibili innanzitutto in due tipi:
1) opere destinate alla pubblicazione: ce ne rimangono solo alcuni titoli (Grillo o Sulla
retorica, Protrettico, Sulla Filosofia, Sulle idee, Intorno al Bene, Eudemo o Sull’anima)
e alcuni frammenti;
2) opere destinate all’insegnamento all’interno del Liceo, ovvero appunti di lezioni orali: ci
sono pervenute quasi tutte e gran parte di esse furono scritte quando ancora Aristotele
era nell’Accademia, ovvero contemporaneamente ai dialoghi della maturità e della
vecchiaia di Platone.
Queste ultime sono:
•
•
•
•
•
•
•
•
Metafisica, in 14 libri, esposizione della “filosofia prima”, chiamata “metafisica” (in senso
letterale “dopo la fisica”, perché libro successivo a quello dedicato alla Fisica; in senso
metaforico, “al di là del mondo fisico”, perché tratta della realtà puramente razionale) nel
I secolo a.C. da Andronico di Rodi, primo curatore della sua pubblicazione;
Categorie, De interpretatione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazioni
sofistiche, tutti trattati di argomento logico, che dalla tarda antichità furono pubblicati
insieme con il titolo di Organon (“strumento”);
La fisica, Il cielo, La generazione e la corruzione, La meteorologia, contenenti la teoria
fisica;
Sull’anima, trattato di psicologia, contenente la teoria dell’anima e della conoscenza;
Etica nicomachea, Etica eudemia, Grande etica;
Politica;
Poetica, Retorica;
Storia degli animali, Le parti degli animali, Il moto degli animali, La generazione degli
animali.
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TAPPA 1
ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ ESSENZA E ACCIDENTE
L’essente si dice in molteplici significati, ma sempre in riferimento a una
unità e a una realtà determinata. L’essente, quindi, non si dice per mera
omonimia12, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si
riferisce alla salute: o in quanto la conserva, o in quanto la produce, o in
quanto ne è sintomo, o in quanto è in grado di riceverla; o anche nel modo in
cui diciamo “medico” tutto ciò che si riferisce alla medicina: o in quanto
possiede la medicina o in quanto a essa è per natura ben disposto, o in quanto
è opera della medicina; e potremmo addurre ancora altri esempi di cose che si
dicono nello stesso modo di queste. Così, dunque, anche l’essente si dice in
molti sensi, ma tutti in riferimento a un unico principio.
Aristotele, Metafisica, IV, 2
Il problema da cui prende avvio la filosofia di Aristotele è quello, di origine platonica, di
come connettere l’essere puramente razionale, inteso come fondamento unitario e
immutabile di tutto il reale, con il divenire, cioè con il mondo fisico in quanto molteplice e
in perenne mutamento.
Per affrontare questo problema, Aristotele innanzitutto articola la ricerca filosofica in due
branche:
 la “filosofia prima”, che in seguito fu chiamata “metafisica”, ovvero teoria della realtà
sovrannaturale: essa è indagine conoscitiva dei principi fondamentali generali della
realtà nella sua totalità;
 le “filosofie seconde”, che corrispondono a ciò che noi oggi chiamiamo “scienze”: esse
sono le indagini conoscitive dei principi fondamentali particolari di singoli aspetti della
realtà.
La filosofia prima indaga l’ “essente” (o essere), cioè ogni cosa esistente solo in quanto
dotata della proprietà dell’esistenza, senza considerare nessun’altra proprietà specifica. In
questo senso, la domanda fondamentale della filosofia prima è: “che cos’è l’essente in
quanto essente?”.
12
“Essente” ( o “essere”) non è solo una medesima parola che si attribuisce a cose del tutto diverse, come nel caso di
più persone che si chiamano Mario Rossi.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Secondo Aristotele, l’ “essente”, cioè tutto ciò che esiste, è molteplice e diversificato.
Eppure, al tempo stesso, tutte le innumerevoli e differentissime cose esistenti hanno un
denominatore comune, condividono cioè una stessa proprietà fondamentale. Aristotele
chiama tale proprietà “essenza” (ousìa, tradotto impropriamente in latino “substantia” e
quindi altrettanto impropriamente in italiano “sostanza”). Dunque, l’essente in quanto
essente per Aristotele è l’essenza.
Ma, a sua volta, cos’è l’essenza di ogni cosa? In cosa consiste? Aristotele risponde: l’essere
un’unione di forma e di materia. In altre parole, ogni “essente” è diverso da ogni altro, ma
tutti gli essenti possiedono una stessa costituzione o struttura di base in quanto sono tutti
dei composti di un principio formale e di un elemento materiale. Per esempio, una goccia
d’acqua è diversissima da un elefante, ma entrambi questi essenti, in quanto essenti, sono
composti di un certo tipo di materia e di un certo tipo di forma.
In quanto composto di due elementi, l’essenza, per Aristotele, si definisce a tre livelli:
1. come materia (hyle, hypokeìmenon): è il supporto o il riempimento dell’essenza,
ovvero l’elemento di per sé passivo, amorfo, meramente virtuale che, lasciandosi
modellare dalla forma, le conferisce una concretezza spazio-temporale;
2. come forma (eìdos, morphé): è la modalità di determinazione dell’essenza, ovvero il
principio attivo, organizzativo, puramente intellegibile che, modellando la materia in
un certo modo, le conferisce un ordine razionale;
3. come intero (synolon, letteralmente “tutto insieme”): è l’essenza nella sua totalità e
completezza, cioè l’essenza in quanto compenetrazione e fusione di forma e materia,
ovvero come “essente” reale, cioè come una singola cosa realmente esistente.
Facciamo degli esempi attuali: riguardo a un atomo, la materia per Aristotele sarebbe la
sua massa/energia; la forma il numero di protoni, neutroni ed elettroni, la loro
disposizione e le loro proprietà e relazioni matematiche; l’intero il loro insieme, cioè
appunto un singolo atomo di un certo elemento chimico, p.e. il ferro. Oppure, in una
cellula del corpo umano la materia sarebbe il protoplasma, la forma il suo DNA, l’intero la
cellula stessa come protoplasma organizzato dal DNA.
I 3 livelli dell’essenza benché tutti indispensabili, non hanno la medesima importanza
ontologica, cioè non danno lo stesso contributo alla sua esistenza. Secondo Aristotele tra di
essi vige la seguente gerarchia ontologica:
 la materia è essenza al grado minimo, dal momento che è la sua componente passiva e
irrazionale, cioè meno qualificata e qualificante;
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 l’intero è essenza a un grado intermedio, perché, pur rappresentando la totalità
concretamente individuale dell’essenza, non ne è il principio determinante;
 la forma è essenza al massimo grado in quanto, grazie alla sua razionalità, è il principio
di determinazione, cioè di organizzazione/ordinamento, senza il quale non ci sarebbero
“essenti”.
Ma, stabilito che l’essenza è per eccellenza “forma”, anche la risposta alla domanda “che
cos’è l’essenza” ripropone una nuova domanda: in cosa consiste la forma e quali sono i
diversi tipi di forme?
Aristotele classifica le forme in tre gruppi, da quelle più generali a quelle più particolari:
1. le 10 categorie: qualità (p.e. liscio), quantità (pesa 1 chilo), relazione (l’abbronzatura è
un effetto della luce solare), l’agire (io parlo), il subire (io sono urtato), il luogo (in
casa), il tempo (alle 16), l’avere (ho due mani), lo stare (sono in piedi) e infine la stessa
essenza, che è la categoria principale, in quanto tutte le altre si riferiscono a essa (p.e.:
il tavolo è liscio, la borsa pesa 1 chilo, ecc.);
2. i generi: p.e. animale, vegetale, minerale, vivente, mortale, etico, politico, colore, ecc.;
3. le specie: p.e. rosa, uomo, razionale, inossidabile, quadrupede, sincerità, monarchia,
verde, ecc.
In questo senso, per fare ancora un esempio, Socrate è:
 l’essenza come intero, in quanto singolo individuo diverso da Platone o Democrito, che
è necessariamente caratterizzato dalle 10 categorie (esiste, è alto 1,70 m, pesa 70 kg, ha
la barba, cammina, è marito di Santippe, è condannato a morte, ecc.);
 l’essenza come materia in quanto muscoli, sangue, ossa, ecc.;
 l’essenza come forma, in quanto “uomo”, cioè “animale mammifero bipede a
deambulazione eretta, ecc., dotato di ragione”.
Da quanto detto, e in particolare dall’ultimo esempio, risulta con maggiore evidenza il
primato dell’essenza formale. Infatti, in primo luogo, la conformazione della materia
dell’uomo, cioè il suo corpo, dipende dalla sua forma di “animale mammifero...”, così come
il fatto che la materia dell’albero sia legno e non granito dipende dalla sua specifica forma.
In secondo luogo, la forma “animale dotato di ragione” è la componente fondamentale
dell’uomo, e quindi anche di Socrate, perché ne costituisce l’elemento identitario decisivo,
ciò che lo distingue da tutti gli altri tipi di essenti. Lo stesso ragionamento vale, p.e., per
l’oro in quanto “metallo inossidabile di colore giallo”, e per ogni altro essente.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Risulta ancora più chiaro che cos’è l’essenza e perché la forma è la sua parte più rilevante,
considerando ciò che costituisce l’opposto dell’essenza. Aristotele lo chiama “accidente”,
volendo intendere una caratteristica casuale e accessoria di qualcosa. P.e., è essenziale che
Socrate sia intelligente, è accidentale che abbia o non abbia i capelli o la barba; è essenziale
che abbia un’altezza, è accidentale che sia alto 1.65 piuttosto che 1.70; è essenziale che
abbia i polmoni, accidentale che li usi per parlare o per suonare la tromba.
Le forme essenziali di qualcosa sono necessarie e invarianti nel senso che, p.e., senza
l’intelligenza o la circolazione sanguigna doppia un uomo non sarebbe un uomo. Gli
accidenti di qualcosa, invece, sono possibili e variabili nel senso che, p.e., senza la barba o
con un naso piccolo anziché grande un uomo sarebbe comunque un uomo. Dunque,
l’essente (o essere), cioè la realtà, per Aristotele si suddivide in essenze e accidenti.
Benché, in quanto casuali e accessori, possiedano un grado inferiore di essere, gli accidenti
nella filosofia aristotelica svolgono una funzione importante perché sono ciò che dà alle
forme e alle materie una configurazione individuale, ovvero che le rende degli “interi”.
Infatti, la differenza fondamentale tra l’essenza come intero e l’essenza come forma o come
materia è che la prima è individuale, cioè è un essente unico e irripetibile (p.e., Socrate), la
seconda è universale, cioè è una proprietà comune a tutti gli individui di uno stesso tipo
(p.e. bipede). In questo senso Aristotele distingue:
 le “essenze prime” gli interi, cioè le essenze unite alla materia e individualmente
configurate grazie all’aggiunta degli accidenti;
 le “essenze seconde” le forme, cioè le essenze pure e universali.
Le essenze seconde, tuttavia, per Aristotele non esistono come tali, cioè non sono realtà
universali trascendenti rispetto alla materia e ai singoli essenti, cioè alle “essenze prime”.
Le forme, insomma, esistono solo nell’unione con la materia e dunque all’interno di un
intero (o essenza prima) che, come tale, è sempre configurato individualmente tramite
l’aggiunta di una molteplicità di accidenti. D’altra parte, sostiene Aristotele, se non sono
universali reali, le forme sono universali mentali, cioè concetti, in quanto, come si vedrà
meglio più avanti, l’intelletto umano ha la capacità di astrarle dagli essenti e di isolarle
mentalmente nella loro razionalità pura e universale.
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TAPPA 2
ARISTOTELE: LA REALTA’ E’ POTENZIALITA’ E ATTUAZIONE
E’ attuazione l’esistenza reale dell’oggetto in un senso diverso da come
diciamo che l’oggetto è potenzialità. Noi diciamo che una cosa è potenziale nel
senso che, per esempio, Ermete [inteso come la statua del dio Ermete] è
presente potenzialmente nel legno o la semiretta è presente potenzialmente
nella retta intera, perché può essere staccata da essa.
Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048ab
Secondo Aristotele, il mutamento è una proprietà fondamentale e universale della realtà.
In altre parole, tutte gli essenti non sono mai identici a se stessi, ma cambiano in ogni
istante e incessantemente. Compito decisivo della filosofia prima, ovvero della metafisica,
deve essere comprendere e spiegare il continuo cambiamento della realtà. Aristotele
comincia ad affrontare questo compito distinguendo quattro modalità di mutamento:
1. il mutamento essenziale, cioè quello che consiste nel cambiamento dell’intera
essenza individuale di qualcosa: la nascita e la morte, la generazione e la
distruzione;
2. il mutamento qualitativo, cioè quello che consiste nel cambiamento delle proprietà
qualitative di qualcosa: il trascolorare delle foglie in autunno, l’innamorarsi di
qualcuno, la trasformazione del bruco in farfalla, ecc.
3. il mutamento quantitativo, cioè quello che consiste nel cambiamento delle proprietà
quantitative di qualcosa: diminuzione del peso, aumento dell’altezza, crescita della
conoscenza, potenziamento della forza muscolare, ecc.
4. il mutamento spaziale, cioè quello che consiste nel cambiamento del luogo in cui
qualcosa si trova: tutti i tipi di movimento di ogni cosa.
Dopo aver così analizzato e approfondito i diversi aspetti del mutamento, Aristotele
affronta il problema decisivo: perché tutto muta? Che cosa fa mutare tutti gli essenti? La
soluzione di Aristotele si basa sulla sua teoria dell’essenza, e segnatamente dell’essenza
come forma. Ogni essente possiede una sua forma essenziale, cioè un principio
organizzativo che lo contraddistingue, ovvero che ne costituisce l’identità più propria. P.e.:
“animale razionale” per un individuo umano, “metallo inossidabile” per l’oro, “insetto
volante con ali colorate” per la farfalla, ecc. Ma la forma essenziale di ogni cosa non è una
proprietà statica, ovvero non è una caratteristica che qualcosa possiede nello stesso modo
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fin dalla nascita e che conserva invariata fino alla morte. Al contrario la forma essenziale è
una proprietà dinamica, ovvero è una caratteristica che ogni essente acquisisce
gradualmente nel corso di un lungo processo. In questo senso, afferma Aristotele, i principi
fondamentali del mutamento sono i corrispettivi dinamici dei tre principi dell’essenza, i
quali, reciprocamente, sono i corrispettivi statici dei tre principi del movimento.
In altre parole per Aristotele l’essenza è:
dal punto di vista statico
Materia
Intero
Forma
dal punto di vista dinamico
Potenzialità
Attuazione
Compimento
Ciò significa che l’essenza di ogni cosa:
 in un determinato istante, cioè astraendo dal suo mutamento nel tempo, consiste nella
sua materia, nella sua forma e nel suo intero di forma e materia;
 intesa come processo che si svolge nel tempo, consiste nella sua potenzialità, nella sua
attuazione e nel suo compimento finale.
In cosa consistono precisamente i 3 principi dell’essenza da un punto di vista dinamico? La
risposta aristotelica è la seguente:
1. la potenzialità, cioè la materia in senso dinamico, indica innanzitutto lo stato di
privazione di una forma, cioè di un tipo/grado di ordine, ma anche, in secondo luogo,
la possibilità/capacità di conseguire tale forma, cioè un’organizzazione razionale di
tipo/grado più elevato;
2. l’attuazione, cioè l’intero (materia + forma) in senso dinamico, è lo svolgimento del
processo di formazione - cioè di sempre maggiore e migliore organizzazione - di un
singolo essente, che consiste nell’acquisizione in successione di una serie di forme di
grado progressivamente superiore che superano le carenze della potenzialità;
3. il compimento, cioè la forma in senso dinamico, è il raggiungimento da parte di un
singolo essente della sua forma massima, cioè del suo grado di organizzazione più
elevato, che coincide con la piena acquisizione di quella forma peculiare che ne
costituisce l’identità e che coincide al contempo con la sua perfezione relativa.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Prendiamo come esempio un uomo. L’ovulo materno e lo spermatozoo paterno sono la
materia/potenzialità dello zigote (cioè della prima cellula nata dalla fusione dei cromosomi
materni e paterni) che ne è la forma/attuazione; lo zigote, a sua volta, è la
materia/potenzialità dell’embrione che ne è forma/attuazione; e così via allo stesso modo
per le coppie successive di embrione/neonato, neonato/bambino, bambino/adolescente,
ecc. Questo esempio permette di evidenziare che ogni stadio del processo è al tempo stesso
attuazione/forma del precedente e potenzialità/materia del successivo.
Naturalmente ogni stadio successivo, inteso come forma/attuazione, implica l’acquisizione
di una molteplicità di proprietà formali (p.e. respirare, succhiare, camminare, parlare,
leggere, ecc.) e di proprietà accidentali (p.e. peso 3 chili, poi 5, poi 10, fino a 70) che sono
proprio ciò che costituiscono il fenomeno del mutamento. Poiché la forma essenziale
dell’uomo per Aristotele è l’intelligenza, il compimento di un uomo è l’adulto nel momento
in cui raggiunge il suo più alto livello di conoscenza. Il massimo sviluppo dell’intelletto è la
perfezione relativa dell’uomo, ovvero è la capacità per cui la specie umana è migliore di
tutte le altre specie di animali.
Secondo Aristotele, però, il mutamento presuppone un “fondamento” invariabile. Infatti il
mutamento è sempre relativo a una permanenza, cioè può esistere e manifestarsi solo per
differenza rispetto a qualcosa che non muta. Per Aristotele, il fondamento immutabile del
mutamento è la materia in quanto supporto o sostrato (hypokeìmenon, substantia) delle
forme. Inoltre, afferma Aristotele, ogni processo di mutamento è programmato in modo
necessario dalla forma ultima o compimento, che, come tale, è fisso e permanente. In altre
parole, il compimento precede e preordina le forme che via via vengono acquisite per
arrivare ad esso. P.e., il mutamento dell’individuo umano dallo zigote all’adulto intelligente
è fin dall’inizio organizzato e programmato nella successione, nei modi e nei tempi dal suo
compimento che dunque ne costituisce un fondamento invariante.
Su queste basi, Aristotele può confutare la tesi di Parmenide secondo la quale il divenire
non è razionalmente accettabile perché implica l’esistenza del nulla. Secondo Aristotele,
infatti, l’essenza, sia come materia sia come compimento, in quanto fondamento
immutabile rende l’essere permanente. Dunque il divenire implica sì un non-essere
relativo – la potenzialità in quanto non-essere completo, cioè in quanto essere carente –
ma mai un non-essere assoluto, cioè assenza completa di essere, in quanto è sempre un
non-ancora-essere completo, ossia qualcosa che sta diventando essere completo e deve
necessariamente diventare essere completo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Aristotele sintetizza la sua teoria del mutamento sostenendo che tutti i mutamenti si
spiegano in base a 4 tipi di cause:
1) la causa formale;
2) la causa materiale;
3) la causa efficiente;
4) la causa finale.
Le prime due si riferiscono alla forma e alla materia, ovvero all’essenza dal punto di vista
statico, e come tali sono le condizioni di sussistenza di ogni cosa. La terza e la quarta causa
sono i corrispettivi della potenzialità e dell’attuazione/compimento. Infatti per Aristotele:
• la causa efficiente – ciò che noi intendiamo per “causa”, ovvero l’azione fisica che
provoca un mutamento – è il presupposto materiale o condizione di base che rende
possibile un cambiamento, p.e. il concepimento per un neonato;
• la causa finale – ciò che costituisce lo scopo di un mutamento – è il fattore causale
determinante perché fa sì che un cambiamento potenziale si realizzi, cioè diventi reale,
p.e. il conseguimento dell’intelligenza per il neonato.
In conclusione, secondo Aristotele, la causa fondamentale di ogni mutamento è il fine per
cui esso avviene e, insieme, ogni mutamento avviene sempre per conseguire un fine. E
poiché i fini coincidono con le attuazioni e i compimenti ciò implica che
l’attuazione/compimento preceda e sia più importante della potenzialità. Utilizzando un
comune modo di dire, per Aristotele la gallina viene prima ed è più importante dell’uovo
non solo e non tanto perché è la gallina che fa l’uovo ma soprattutto perché l’uovo viene
prodotto ed esiste per diventare gallina, cioè di raggiungere la sua perfezione relativa.
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TAPPA 3
ARISTOTELE: DIO E’ LA CAUSA FINALE DEL COSMO
Ma, sebbene esista una causa motrice e produttrice, se essa non è in
attuazione non ci sarà movimento, poiché ciò che ha la potenzialità di passare
all’attuazione può anche non passare all’attuazione. […] Ma c’è di più: pur
ammettendo che la causa sia in attuazione, non ci sarà ugualmente attuazione
se questa causa sia per essenza potenzialità: infatti, in questo caso, sarebbe
impossibile l’eternità del mutamento, perché ciò che è potenziale può anche
non essere. Ecco perché è indispensabile che ci sia un principio la cui stessa
essenza sia l’attuazione.
Aristotele, Metafisica, XII
Come si è visto, secondo Aristotele, il mutamento è un carattere fondamentale della realtà.
Infatti, l’essenza – il principio universale e determinante di tutte le cose – consiste in un
processo di autoperfezionamento di tutti gli essenti che si svolge nel tempo come continuo
passaggio dalla potenzialità all’attuazione fino al compimento finale. Ciò spiega, per
Aristotele, perché tutto muta in ogni istante, continuamente. L’essenzialità e la perennità
del mutamento, a loro volta, permettono di comprendere perché c’è il tempo e che cos’è il
tempo.
Esso, afferma Aristotele, è “la misura del mutamento secondo il prima e il poi”. In altre
parole il tempo è, per così dire, il “metro” del mutamento, cioè lo strumento che ci
permette di misurare, e quindi pensare, il mutamento. In questo senso il “prima” e il “poi”,
cioè la successione cronologica, sono i criteri fondamentali del tempo come “metro” del
mutamento. Per esempio posso pensare la crescita di un bambino solo sapendo che un
anno fa (prima) era alto 1.20 e ora (poi) è alto 1.26. Se conoscessi solo le due misure della
sua altezza ma non il loro ordine di successione nel tempo, ovvero la loro relazione di
continuità cronologica, non potrei concepire il loro mutamento, ma solo la loro differenza.
Aristotele, dunque, connette strettamente mutamento e tempo. Su questa base egli si
chiede: il mutamento, e quindi anche il tempo, è finito o infinito, cioè eterno? La sua
risposta è che il mutamento e il tempo sono eterni. Perché?
Perché, argomenta Aristotele, se il mutamento/tempo avesse un inizio non potremmo fare
a meno di pensare al “prima” del suo inizio; se inoltre avesse una fine non potremmo fare a
meno di pensare al “dopo” la sua fine. Ma ciò comporta che ci debba essere un
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
mutamento/tempo prima del suo inizio e dopo la sua fine, il che è assurdo. Dunque il
mutamento e il tempo sono eterni.
Ciò stabilito, Aristotele si chiede se c’è una causa prima del mutamento eterno e, se ci
fosse, come e cosa potrebbe essere. Per rispondere Aristotele prende in considerazione un
tipo particolare di mutamento, quello spaziale, ovvero il moto. Egli sostiene che il moto di
tutti gli essenti ha sempre una causa esterna, cioè un “motore”. In questo senso tutti i moti
possono essere pensati come una lunghissima catena di motori e mossi, ossia di cause ed
effetti, in cui ogni causa è l’effetto di una causa precedente e ogni effetto la causa di un
effetto successivo: p.e., il sole è motore/causa dell’evaporazione, l’evaporazione delle
nuvole, le nuvole delle piogge, le piogge delle frane, le frane della fuga degli abitanti di un
villaggio, ecc.
Aristotele si chiede: percorrendo a ritroso, cioè di effetto in causa, la catena causale dei
moti, possiamo o non possiamo arrivare a una causa iniziale di tutti i moti? La questione
può essere esemplificata ipotizzando un tentativo di ricostruzione dell’albero genealogico
di tutta l’umanità, ovvero: risalendo di figlio in padre/madre arriveremmo a una coppia
iniziale da cui è derivata tutta l’umanità oppure no? La risposta di Aristotele è: sì, ci deve
essere necessariamente una causa iniziale ovvero un “motore” cosmico (nell’esempio, una
coppia padre/madre di tutta l’umanità). Perché? Perché, risponde Aristotele, in caso
contrario bisognerebbe ipotizzare una risalita all’infinito di effetto in causa senza mai
fermarsi. Ma per Aristotele ammettere un tale regressus ad infinitum equivale a sostenere
che non c’è alcuna causa iniziale e quindi che nessun moto fisico è possibile, il che è
assurdo perché smentito dall’esperienza.
In questo modo Aristotele ritiene di aver dimostrato che deve esserci una causa prima,
ovvero un primo motore, di tutti i moti cosmici. Il problema, a questo punto, è
comprendere quali caratteristiche deve avere questo primo motore per essere tale.
Aristotele argomenta che esso deve essere:
• eterno: poiché il mutamento, e quindi anche il movimento, è eterno, la sua causa prima
deve essere eterna, ovvero deve svolgere eternamente la sua azione causante;
• immobile: perché se si muovesse dovrebbe essere mosso da qualcos’altro, ovvero
essere l’effetto di un’altra causa, ma allora sarebbe un motore “secondo”, il che è
contraddittorio;
• attuazione/compimento totali: dal momento che se fosse anche potenzialità a) si
dovrebbe muovere, ma ciò sarebbe in contraddizione con la sua necessaria immobilità;
b) non eserciterebbe da sempre la sua azione motrice ma ciò sarebbe in contraddizione
con l’eternità dei moti;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
pura forma, cioè un’essenza immateriale: poiché dire che non possiede potenzialità
equivale a dire che non possiede materia;
• perfezione assoluta: perché solo qualcosa che è assolutamente perfetto non ha bisogno
di passare dalla potenzialità all’attuazione/compimento, cioè non ha bisogno di
migliorarsi.
Tirando le somme di questa serie di argomentazioni, Aristotele arriva a concludere che il
primo motore è “Dio”, in quanto perfezione, eternità, immaterialità sono le caratteristiche
proprie della divinità. Dio dunque, per Aristotele, esiste necessariamente in quanto causa
prima o motore primo del mutamento cosmico.
•
Ma, si chiede ancora Aristotele, in che modo Dio può essere motore del mutamento
cosmico se, come si è visto, è immobile e immutabile? Se fosse causa “efficiente” dovrebbe
appunto fare qualcosa, cioè mutare e muoversi, il che non è possibile. Dunque non può
essere causa efficiente. Però può essere causa finale, perché, in quanto perfezione assoluta,
Dio costituisce la condizione che tutti gli essenti vorrebbero raggiungere.
Dio, afferma Aristotele, attira a sé tutte le cose come l’amato attrae l’amante. In altre
parole, tutte le cose desiderano essere come Dio e dunque tendono a lui. Questa tensione
spiega il loro continuo ed eterno mutamento, spiega cioè perché c’è un mondo fisico e
perché tutte le cose fisiche passino incessantemente dalla potenzialità all’attuazione per
raggiungere il loro compimento. Ciò significa che secondo Aristotele il senso dell’universo
fisico è la tendenza a migliorarsi per imitare il più possibile la perfezione divina.
Non ancora pago dei risultati raggiunti dalla sua riflessione, Aristotele si chiede ancora in
che cosa consista la perfezione divina, cioè il compimento assoluto di Dio. Più
semplicemente: che cos’è Dio? La risposta di Aristotele è: puro pensiero, pura attività
pensante, intelligenza totale, razionalità assoluta. Ma cosa pensa allora Dio? E’ assurdo,
afferma Aristotele, che pensi qualcosa di meno perfetto e meno completo di lui. Chi infatti
si occuperebbe di cose vili potendo occuparsi di cose eccelse? Di conseguenza Dio può solo
pensare sé stesso, cioè è “pensiero di pensiero”. Ciò, però, non significa che la sua
intelligenza sia, per così dire, tautologica, cioè non faccia altro che replicare sé stessa.
Aristotele, infatti, precisa che l’intelligenza divina pensandosi si coglie come intellegibile
ovvero come essenza. In altri termini, pensandosi, Dio si distingue in pensante e pensato,
atto conoscitivo e contenuto della conoscenza. Il pensato, pur essendo l’altra faccia del
pensante, cioè pur essendo tutt’uno con esso, tuttavia se ne differenzia come “essenza”,
cioè come il principio che struttura il cosmo naturale, essendo il denominatore comune di
tutti gli essenti. E poiché l’essenza in Dio può essere solo essenza seconda, cioè forma, in
quanto Dio non ha nulla di materiale, Dio è pensiero completo e immediato della totalità
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
delle essenze seconde o forme che, organizzando la materia, costituiscono l’universo
naturale.
Al termine della sua indagine, dunque, la filosofia prima o metafisica giunge a scoprire che
esiste un essere perfetto immateriale e che le essenze formali non esistono solo in unione
con la materia ma anche allo stato puro in quanto contenuti del pensiero divino.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
FINALISMO ARISTOTELICO E TEORIA DEL “PRINCIPIO VITALE”
Uno dei maggiori problemi, per non dire enigmi, della scienza contemporanea è quello
dell’origine della vita. Per quanto fino a ora sappiamo, la vita è emersa sul nostro
pianeta tra 4,4 miliardi di anni fa, quando la Terra fu ricoperta d’acqua, e 2,7 miliardi di
anni fa, età cui risale la prima prova della fotosintesi.
Non solo, come è noto, nessun scienziato è finora riuscito a produrre artificialmente in
laboratorio un organismo vivente, ma non esiste attualmente nemmeno una teoria
condivisa dell’origine della vita dal momento che la comunità scientifica ha elaborato
molte e assai differenti ipotesi (compresa quella della “panspermia”, cioè dell’arrivo della
vita da altri pianeti), nessuna delle quali è ritenuta soddisfacente.
In compenso, sono ritenute attendibili le stime sull’ordine di non probabilità della nascita
della vita sulla Terra: le probabilità contrarie ad essa sarebbero dell’ordine di 10 elevato
a 40.000. E’ abbastanza nota, a questo riguardo, la battuta del fisico Fred Hoyle: “Le
probabilità che un processo casuale metta insieme un essere vivente sono analoghe a
quelle che una tromba d’aria, spazzando un deposito di robivecchi, produca un Boeing
747 perfettamente funzionante”.
Benché numerosi scienziati non si lascino impressionare da questa stima e sostengano
che, dato un periodo sufficientemente lungo di tempo, risorsa di cui certo l’universo non
sembra scarseggiare, la vita è nata per combinazioni casuali di elementi chimici, vi sono
altri scienziati che la pensano diversamente. Questi pensano che, anche concedendo un
lasso di tempo pari all’età dell’universo (13,7 miliardi di anni), l’origine casuale della vita
sia ampiamente improbabile. Come alternativa, essi ipotizzano che l’universo includa, fin
dal suo inizio, un “principio vitale”, cioè una legge specifica (accanto alle altre leggi
fisiche, come quella gravitazionale o quella quantistica) che lo fa evolvere verso la vita. In
altre parole, per questi scienziati, come per Aristotele, lo sviluppo dell’universo sarebbe
finalistico, salvo che il fine ultimo dell’universo non sarebbe un Dio immutabile e
trascendente ma la vita mutevole e del tutto immanente.
Va chiarito che l’ipotesi del “principio vitale” non ha nulla a che vedere con quella del
cosiddetto “disegno intelligente”, che invece, avvicinandosi maggiormente ad Aristotele,
sostiene che la vita si può spiegare soltanto con un finalismo teologico, dovuto cioè
all’azione creatrice consapevole di un Dio trascendente. I sostenitori del “principio vitale”,
infatti, ritengono che il finalismo biologico dell’universo sia una legge impersonale
intrinseca all’universo stesso.
Per approfondire: P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 4
ARISTOTELE: IL COSMO E’ DIVISO IN CELESTE E TERRESTRE
Delle realtà che sussistono per natura, alcune, ingenerate e incorruttibili,
esistono per la totalità del tempo, altre invece partecipano della generazione e
della distruzione. Circa le prime, che sono nobili e divine, ci tocca di aver
minor conoscenze, giacché pochissimi sono i fatti accertati dall’osservazione
sensibile a partire dai quali si possa condurre l’indagine su tali realtà, cioè su
quanto aneliamo di sapere. Quanto invece alle cose corruttibili, piante e
animali, la nostra conoscenza di esse è più agevole grazie alla comunanza di
ambiente. […] Ma entrambi i campi di ricerca hanno la loro bellezza. […] Non
si deve dunque nutrire un disgusto infantile verso lo studio dei viventi più
umili: in tutte le realtà naturali c’è qualcosa di meraviglioso.
Aristotele, De partibus animalium, 15
La “fisica” aristotelica, o “filosofia seconda”, è la scienza del cosmo fisico, ovvero la “scienza
della natura” (physis in greco significa natura). Essa comprende tutte le scienze empiriche
particolari, come astronomia, meteorologia, chimica, botanica, zoologia, ecc.
Per Aristotele due sono i principi costitutivi del cosmo fisico:
• la materia, intesa come una sostanza tridimensionale amorfa e disorganizzata;
• Dio, inteso come intelligenza immateriale e perfezione assoluta.
Sia Dio sia la materia sono eterni, cioè senza inizio e senza fine, e interagiscono
dall’eternità. Ciò comporta, secondo Aristotele, che anche il cosmo sia eterno e immutabile
nel suo insieme, ovvero che sia sempre stato e che sempre persista così com’è, cioè con lo
stesso ordine complessivo. Infatti, la materia da sempre e per sempre è attratta dalla
perfezione divina e dunque si dà una forma, ovvero un’organizzazione razionale, passando
incessantemente dalla potenzialità all’attuazione/compimento.
Il cosmo per Aristotele è una sfera. Per lui, dunque, lo spazio è di dimensioni finite ed è
assoluto, cioè costituisce un sistema di riferimento univoco per stabilire le posizioni, le
direzioni e le velocità dei movimenti di tutti i corpi. I punti cardinali di tale sistema sono il
centro della sfera – ovvero il punto più basso – e la superficie della sfera cosmica (la volta
celeste) – ovvero l’insieme dei punti più alti. In relazione ad essi è possibile determinare
l’altezza/bassezza di ogni luogo e la posizione di qualsiasi cosa per qualsiasi osservatore.
Nel Cielo – la superficie interna della sfera che racchiude il cosmo – sono infisse le stelle
del firmamento. La sfera celeste contiene al suo interno altre 55 sfere concentriche
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
trasparenti. Sull’equatore di 7 di esse sono infissi i 7 pianeti, tutti sferici, nel seguente
ordine ad altezza crescente: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno. Il centro
del cosmo è occupato dalla Terra, sferica anch’essa, il cui punto centrale coincide con il
punto centrale, e dunque più basso, del cosmo.
L’intero cosmo è spazialmente diviso in due regioni, caratterizzate da elementi naturali e
leggi fisiche diverse:
• la regione celeste, ovvero divina, che va dalla sfera della Luna al Cielo;
• la regione terrestre, ovvero umana, che va dalla sfera della Luna al centro della Terra.
La regione celeste è costituita da un solo elemento naturale, l’etere, e non è caratterizzata
da alcun tipo di mutamento (nascita-morte, alterazione, accrescimento-diminuzione), ad
eccezione del movimento circolare uniforme, causato dall’attrazione verso Dio/motore
immobile, immateriale e quindi “al di là” del Cielo.
Più precisamente, le sfere celesti ruotano intorno al proprio asse perché sono mosse da
divinità/motori immobili, in successione gerarchica dall’alto verso il basso. Esse cercano di
imitare la perfezione di Dio/primo motore, producendo il moto relativamente più perfetto,
perché più simile alla immobilità di Dio. Il moto circolare uniforme, infatti, è un
movimento fisso, che avviene cioè nello stesso luogo. In questo senso, Aristotele chiama
“fisse” le stelle del firmamento perché attribuisce loro un moto giornaliero circolare e
uniforme senza alcuna variazione di posizione/distanza di ognuna rispetto alle altre.
Chiama invece “pianeti” (“erranti”, “vagabondi”) la Luna, il Sole, Mercurio, Venere, Marte,
Giove, Saturno perché dotati anche di un moto annuale non circolare e non uniforme,
benché spiegabile come prodotto della combinazione dei moti circolari uniformi di più
sfere trasparenti interdipendenti (secondo la teoria di Eudosso  III viaggio, tappa 10).
La regione terrestre, per Aristotele, comincia sotto la sfera della Luna (per questo è detta
anche sub-lunare) e comprende l’atmosfera, la superficie e il sottosuolo terrestri. Ogni
corpo terrestre è composto da 4 elementi: terra, acqua, aria, fuoco, che possono combinarsi
ma anche trasformarsi l’uno nell’altro. Di conseguenza nella regione terrestre vi sono tutti i
tipi di mutamento: nascita/morte, alterazione, accrescimento/diminuzione, movimento.
La causa di fondo di ogni mutamento è sempre la tensione ad avvicinarsi alla perfezione
divina. I moti dei corpi terrestri, a differenza di quelli celesti, hanno velocità variabile, sono
in origine rettilinei (si incurvano a causa del contatto con altri corpi) con direzione dall’alto
verso il basso o dal basso verso l’alto. La velocità originaria di ogni corpo in moto è
proporzionale al suo peso, da cui dipende anche la sua direzione verso l’alto o verso il
basso.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il peso a sua volta è connesso al fatto che ogni elemento ha un proprio “luogo naturale” e
tende quindi a muoversi verso di esso: il fuoco ha il suo luogo naturale sotto la sfera lunare,
l’aria nell’atmosfera, l’acqua sulla superficie terrestre, la terra nel suolo e nel sottosuolo.
Pertanto, la terra è più pesante dell’acqua, questa dell’aria e l’aria del fuoco.
Aristotele, inoltre, distingue i moti terrestri in “naturali” e “violenti”. I primi sono quelli
che si dirigono verso il luogo naturale, i secondi quelli che vi si allontanano. I moti
“violenti” sono dovuti alle combinazioni/trasformazioni dei quattro elementi che
producono gli esseri naturali. P.e. l’acqua, che il calore solare trasforma in vapore, sale
verso l’alto e poi torna al suo luogo naturale cadendo come pioggia. In base a questa
impostazione, la condizione naturale di ogni elemento, e quindi di ogni corpo, è la quiete.
Un corpo/elemento si muove perché e finché è mosso per contatto diretto da un altro
corpo. Se un sasso lanciato da un uomo continua a “volare” per un po’, anche quando si è
staccato dalla mano umana, è solo perché è temporaneamente “spinto” dall’aria che sposta.
Benché sostenga la superiorità ontologica del mondo celeste su quello terrestre, Aristotele
attribuisce pari dignità alla conoscenza di entrambi. In altri termini, per Aristotele non
solo è possibile elaborare una fisica terrestre come scienza, ma essa ha lo stesso valore
conoscitivo della fisica celeste. Anzi, per un aspetto la fisica terrestre è superiore a quella
celeste: essa infatti dispone di un numero maggiore di osservazioni empiriche.
Nell’ambito della fisica terrestre, Aristotele predilige la biologia, cioè la scienza degli esseri
viventi. In particolare, egli può essere considerato il fondatore della biologia, in quanto, da
un lato, raccoglie una messe enorme di dati empirici, attingendo sia ai filosofi precedenti
sia ai resoconti di cacciatori, pescatori, macellai e allevatori; dall’altro, e soprattutto, per
primo li inquadra e lo ordina teoricamente, individuando dei criteri razionali sia di
classificazione delle specie sia di spiegazione delle loro diverse morfologie.
Il cardine dell’ordinamento teorico aristotelico dei fatti biologici è il concetto di “specie”
biologica, chiaramente improntato ai concetti metafisici di “forma” e di “essenza seconda”.
Secondo Aristotele, le specie animali non sono classi mentali, cioè astrazioni, ma insiemi
reali, cioè esistono come tali, e sono fisse e separate, cioè immutabili nel tempo e non
trasformabili l’una nell’altra. Ogni specie è costituita da un insieme peculiare e distinto di
forme che ordinano i corpi degli animali facendo in modo che ogni loro parte sia funzionale
all’intero. L’insieme di forme che caratterizza ogni specie a sua volta dipende dalla formacompimento della specie, quella finale che rappresenta il raggiungimento della sua
perfezione relativa.
In questo senso, la teoria biologica aristotelica è più finalistica che mai, perché è appunto
la causa finale (la forma-compimento) che spiega non solo nascita, crescita e riproduzione
261
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
di ogni animale, ma anche la sua morfologia. Infatti, per Aristotele, è la funzione che
sviluppa l’organo, p.e. è la capacità di volare (una forma) che fa sviluppare le ali delle
aquile. In parole semplici, ogni animale ha un certo corpo dotato di certi organi al fine di
poter svolgere determinate funzioni (volare, correre, nuotare, arrampicarsi sugli alberi,
nascondersi sottoterra, ecc.). Aristotele, inoltre, inventa un criterio semplice per la
classificazione delle specie in base alla loro definizione: indicare il loro genere e la loro
forma specifica, p.e., l’equino è un mammifero (genere) che cammina poggiando sul suolo
un solo dito degli arti (forma specifica).
In questo quadro, la matematica per Aristotele è la scienza che studia gli aspetti
quantitativi della realtà. Ma, poiché la realtà è anche e soprattutto qualitativa, la
matematica è una scienza settoriale come tutte le altre e la sua adozione non è il requisito
fondamentale della scientificità della conoscenza.
Inoltre, gli enti matematici come tali (linea, triangolo, prisma, ecc.) sono mere astrazioni
mentali. I corpi fisici, di conseguenza, non collimano con gli enti matematici ma possono
solo esser loro approssimati. Dunque, le misurazioni matematiche degli oggetti reali sono
sempre approssimative.
Insomma, per Aristotele le scienze possono e devono fare un uso parziale della
matematica, ma non possono né devono basarsi solo e soprattutto su essa.
262
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
LA FISICA DI ARISTOTELE E DI EINSTEIN
Le divergenze tra la teoria della relatività di Einstein e la cosmologia di Aristotele sono
numerose e radicali: per il primo l’universo è omogeneo, le leggi della fisica sono
invarianti, ogni corpo è sempre in moto, non vi può essere nessun centro assoluto perché
tutti i moti e tutti i luoghi sono relativi, lo spaziotempo è unico e varia per ogni sistema di
riferimento, i moti di rivoluzione dei pianeti sono ellittici e accelerati; per il secondo il
cosmo è diviso in due regioni differenziate, le leggi della fisica sono duplici, ogni corpo
tende alla quiete, vi è un centro assoluto (coincidente col centro della Terra) perché vi
sono uno spazio e un tempo distinti e assoluti, i moti dei pianeti sono circolari e a velocità
uniforme.
A maggior ragione, tuttavia, sono interessanti le convergenze che possiamo notare tra la
fisica einsteiniana e quella aristotelica:
 anche per Einstein, come per Aristotele, l’universo, benché enormemente più
grande, è finito e quasi-sferico;
 inoltre, per entrambi i moti di rivoluzione dei pianeti dipendono da una proprietà
dello spazio: per Aristotele dalle sfere concentriche che riempiono lo spazio e
trasportano i pianeti, per Einstein dal fatto che la massa solare (come tutte le
masse ma maggiormente data la sua maggiore grandezza) incurva lo spazio
circostante costringendo i pianeti a seguire una traiettoria curvilinea;
 infine, a lungo Einstein condivise e difese la teoria dell’universo stazionario,
analoga a quella aristotelica dell’universo eterno, contro l’ipotesi della nascita e
dell’evoluzione nel tempo dell’universo, e cambiò idea solo di fronte alle prove
sperimentali a favore della nuova teoria del big bang.
FINALISMO BIOLOGICO ED EVOLUZIONISMO
Per Aristotele le specie biologiche sono eterne come il cosmo: esse sono sempre state così e
tali rimaranno sempre, senza nessuna possibilità di una trasformazione di una specie in
un’altra. Questa posizione nella storia della biologia si denomina “fissismo”.
Come abbiamo visto, abbozzi di teorie evoluzionistiche delle specie viventi sono presenti
in Anassimandro, Empedocle e Anassagora. Tuttavia, l’evoluzionismo biologico moderno
nasce con Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), il quale teorizzò, con il sostegno di
numerose prove empiriche, che gli organismi si mutano nello sforzo di adattarsi
all’ambiente in cui vivono e poi trasmettono alla loro prole le mutazioni acquisite in modo
tale che, con il passare delle generazioni, una specie può dare origine a un’altra nuova
specie. Famoso da questo punto di vista l’esempio-prova delle giraffe, che per Lamarck
derivano dall’evoluzione di precedenti equini che nel corso del tempo hanno sempre più
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
allungato il loro collo al fine di mangiare le foglie più alte degli alberi, disponibili in
quantità più abbondante. Data questa impostazione, benché antitetico al fissismo
aristotelico, l’evoluzionismo lamarckiano condivideva la concezione finalistica della
natura, e in particolare dei viventi, propria di Aristotele, in particolare la tesi secondo cui
è la funzione che sviluppa l’organo (p.e. è l’alimentazione che ha sviluppato il collo delle
giraffe). Salvo che per Lamarck, a differenza che per Aristotele, il fine verso cui tende
l’evoluzione è l’adattamento sempre maggiore all’ambiente, ovvero la sopravvivenza più
duratura e prolifica.
Ma la teoria evoluzionistica contemporanea – il cosiddetto “neodarwinismo” – non si
basa tanto su Lamarck, quanto appunto su Charles Darwin e la sua famosa opera
L’origine delle specie, pubblicata nel 1859. Darwin, infatti, propose, sulla base di una
vasta messe di prove empiriche, una teoria dell’evoluzione antitetica a quella di Lamarck
perché di impianto non finalistico ma meccanicistico. Secondo Darwin, le specie si
evolvono perché la riproduzione dà origine ad alcuni individui caratterizzati da
mutazioni casuali rispetto ai loro genitori: se le mutazioni sono vantaggiose nella lotta
per la sopravvivenza, gli individui che ne sono portatori si riproducono maggiormente e
col tempo danno origine a una nuova specie; se le mutazioni sono svantaggiose, gli
individui portatori si estinguono. L’esempio paradigmatico della teoria darwiniana è
quello della farfalla Biston betularia nell’Inghilterra dell’800: prima della rivoluzione
industriale erano quasi tutte bianche perché si mimetizzavano meglio sul tronco bianco
delle betulle salvandosi dai predatori; in seguito all’industrializzazione, i tronchi delle
betulle si annerirono e progressivamente le farfalle divennero in maggioranza nere,
perché quelle bianche venivano predate mentre le “mutanti” nere, inizialmente rarissime,
sopravvivevano e si riproducevano.
E’ chiaro che per Darwin l’evoluzione non dipende da un fine, ma solo da variazioni
casuali dei caratteri genetici e dalla loro “selezione naturale” di tipo causalistico. In altre
parole, caso e necessità anziché finalità. In questo senso, la teoria dell’evoluzione di
Darwin è, al contempo, antilamarckiana e antiaristotelica, e rovescia anche la tesi “la
funzione sviluppa l’organo”: per Darwin è l’organo, derivato da una mutazione casuale,
che sviluppa la funzione (se poi questa è efficace l’individuo sopravvive, altrimenti
soccombe). Tuttavia, la teoria darwiniana conferma la tesi aristotelica secondo cui il
divenire naturale è un processo di perfezionamento (benché non ciclico ma lineare).
Anche l’evoluzionismo darwiniano, infatti, teorizza che le specie si evolvono nella
direzione di una maggiore efficacia di adattamento all’ambiente e di migliori prestazioni
(fitness). In questo senso, l’evoluzionismo darwiniano mantiene un certo finalismo, salvo
che lo considera solo un’apparenza, meglio un’emergenza di una legge più profonda e
diversa: è infatti la combinazione di mutazioni casuali e di selezione naturale che produce
il perfezionamento delle specie e quindi l’apparente finalismo dell’evoluzione. Come scrive
un famoso biologo neodarwinista, Richard Dawkins, la natura è un “orologiaio cieco”.
Per saperne di più: R. Dawkins: Il più grande spettacolo della Terra, Mondadori, 2010.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 5
ARISTOTELE: L’ESPERIENZA E’ INDISPENSABILE ALLA SCIENZA
E c’è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c’è un
intelletto attuato in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla
luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori potenziali colori
attuati. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto
per sua essenza: infatti ciò che agisce è sempre superiore a ciò che subisce e il
principio è superiore alla materia […] Separato, esso è solamente ciò che
appunto è, e questo solo è immortale ed eterno.
Aristotele, L’anima, 5, 430
Per Aristotele, ogni essere vivente, da una margherita a un uomo, possiede un’anima.
L’anima è, infatti, l’attuazione della potenzialità di vivere propria del corpo, ovvero il tipo
di forma che rende vivente la materia. In altri termini, essa è il principio organizzativo
proprio della vita, in sé puramente razionale ma inseparabile dalla fisicità corporea.
Aristotele distingue tre tipi di anima, corrispondenti alle tre partizioni fondamentali del
mondo biologico:
1. l’anima vegetativa, propria dei vegetali, dotata delle funzioni del nutrimento, della
crescita e della riproduzione;
2. l’anima sensitiva, propria degli animali, dotata delle funzioni dell’anima vegetativa e
inoltre della conoscenza sensibile, del desiderio e del movimento;
3. l’anima razionale o intellettiva, propria degli uomini, dotata delle funzioni delle anime
vegetativa e sensitiva e inoltre di quella della conoscenza razionale, cioè del pensiero.
Secondo Aristotele animali e uomini condividono la capacità della conoscenza sensibile.
Essa ha il suo presupposto fisiologico nei cinque sensi, ognuno dei quali è preposto a
ricevere uno specifico contenuto sensibile: l’udito i suoni, il gusto i sapori, ecc. Ma
Aristotele sostiene l’esistenza anche di un “senso comune”, dato dall’interazione
simultanea di due o più sensi. Esso registra contenuti sensibili generali legati a più sensi,
come il moto, la quiete, la forma esterna, la grandezza.
Ogni senso ha la potenzialità di sentire ma questa diventa attuazione del sentire, cioè una
sensazione effettiva, se, e solo se, l’organo di senso entra in contatto con un oggetto esterno
- direttamente (tatto, gusto) o attraverso un elemento intermedio (la luce per la vista, l’aria
per olfatto e udito). La sensazione consiste nella ricezione da parte del senso non
dell’oggetto come tale ma della sua forma sensibile. In altre parole sentire significa ricevere
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
l’impronta di una cosa – così come la neve, o la sabbia bagnata, riceve l’impronta/forma
della scarpa –, ma non la cosa stessa intesa come oggetto materiale. La forma sensibile
viene trasformata in un’immagine mentale dalla facoltà dell’immaginazione. A sua volta
l’immagine può essere conservata dalla facoltà della memoria. L’accumulo di immagini
memorizzate costituisce l’ “esperienza”.
Aristotele afferma che la sensazione è infallibile, cioè certamente vera, quando si basa sul
rapporto tra un senso e un suo contenuto specifico immediato, p.e. la vista e la proprietà
“giallo”; è invece probabile che sia vera quando si riferisce a un essente come intero cui
ineriscono molteplici proprietà oltre a quella del “giallo”, p.e. un girasole; è infine solo
possibile che sia vera quando concerne i caratteri sensibili comuni, p.e. il movimento.
Per Aristotele, dunque, la conoscenza deve partire dall’esperienza sensibile e non può fare
a meno di essa. Ciò significa che senza l’esperienza sensibile la mente umana non può
attivarsi e non può dunque avere nessun tipo di conoscenza. D’altra parte la conoscenza
sensibile è solo condizione necessaria ma non sufficiente della verità, cioè della scienza.
Per arrivare alla verità scientifica la conoscenza deve passare dal livello sensibile a quello
razionale, cioè deve entrare in funzione una facoltà mentale superiore, l’intelletto.
La funzione dell’intelletto è quella di conoscere la forma razionale della forma
sensibile/immagine ricevuta dalla sensazione. L’intelletto, cioè, è la facoltà capace di
isolare le forme razionali di ogni cosa, astraendole dagli interi, cioè depurandole e
separandole dalla materia e dalle caratteristiche accessorie/accidentali. La forma
razionale, ovvero l’essenza formale, isolata a livello mentale, costituisce il concetto.
Dunque la conoscenza razionale è conoscenza dei concetti, cioè degli elementi e dei
caratteri universali e necessari della realtà. Ciò significa che la verità, ovvero la scienza,
consiste per Aristotele nella conoscenza delle proprietà generali, regolari e permanenti
delle cose. La materia in sé, cioè priva di forma, e le proprietà individuali, irregolari e
variabili delle cose (gli “accidenti”) non possono essere conosciute scientificamente in
quanto in se stesse irrazionali.
Ma in che modo l’intelletto svolge la raffinata operazione di ricavare la forma razionale
dalla forma sensibile? Aristotele afferma che la forma sensibile/immagine ha la
potenzialità di offrire la sua forma razionale e che l’intelletto a sua volta ha la potenzialità
di riceverla. Ma questa doppia potenzialità non può attuarsi se non grazie all’intervento di
una facoltà intellettiva superiore che Aristotele chiama “intelletto attuato”.
Esso è conoscenza compiuta, ma non immediatamente cosciente, di tutte le forme
razionali/essenze di tutta la realtà. Grazie al suo intervento, l’intelletto potenziale, inferiore
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ma autocosciente, attua la sua potenzialità di cogliere la forma razionale/essenza, ovvero
isola e conosce il concetto corrispondente a una certa forma sensibile.
L’intelletto attuato è comune a tutti gli uomini e dunque nelle menti di tutti gli uomini
sono presenti le stesse forme razionali/essenze. Se dunque la conoscenza sensibile è
soggettiva e relativa, cioè non scientifica, perché legata all’esperienza di oggetti individuali
e pertanto differenti per ogni uomo, la conoscenza razionale è assoluta e oggettiva, cioè
scientifica, proprio perché si basa su forme razionali presenti identicamente nella mente di
ogni uomo e che inoltre sono le stesse che ordinano e strutturano la realtà naturale.
Facciamo un esempio. Guardiamo una penna. In realtà noi non vediamo immediatamente
una penna. “Penna”, infatti, è già un concetto, cioè un prodotto della conoscenza
razionale, ovvero il risultato finale del processo conoscitivo. A livello di sensazione, quello
che noi effettivamente vediamo è un oggetto cilindrico molto allungato, lungo circa 10-15
cm, di diametro inferiore a 1 cm, di colore nero, ecc. In base a questo grappolo di
sensazioni la nostra mente, secondo Aristotele, elabora l’immagine o forma sensibile
dell’oggetto, cioè una specie di disegno mentale che rappresenta unitariamente le
caratteristiche sopra elencate.
Questa immagine/forma sensibile viene collegata dall’intelletto potenziale ad altre
analoghe conservate dalla memoria e derivate da altre sensazioni di oggetti dello stesso
tipo. In questo modo l’intelletto potenziale stimola l’intelletto attuato a fornirgli la
corrispondente forma razionale/essenza. L’intelletto potenziale entra in attuazione
ricevendo e cogliendo la forma razionale/essenza fornita dall’intelletto attuato. In questo
modo l’intelletto conosce il concetto di “penna” e pensa “quella è una penna”.
Secondo Aristotele, come si è detto, l’intelletto attuato conosce tutte le essenze formali di
tutta la realtà. Poiché l’intelletto potenziale corrisponde alla coscienza individuale,
l’intelletto attuato rappresenta una specie di metacoscienza, cioè una coscienza superiore e
sovraindividuale, cioè universale. Essendo tale, la coscienza individuale non può averne
una consapevolezza immediata e totale. L’intelletto attuato, inoltre, essendo solo
attuazione e compimento, è pensiero puro, privo di potenzialità/materia, e dunque
ontologicamente distinto dal corpo.
In altri termini, mentre l’intelletto potenziale è vincolato al corpo, l’intelletto attuato è
separato e indipendente da esso. Ciò significa, sostiene Aristotele, che l’intelletto attuato
non è soggetto al deperimento del corpo. Se una persona anziana sembra perdere capacità
di conoscenza e pensiero, ciò non è dovuto, secondo Aristotele, all’indebolimento
dell’intelletto attuato ma a quello degli organi di senso, cioè del corpo. L’intelletto attuato
dunque non è soggetto al divenire e pertanto non solo non muore ma è eterno. Esso è la
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
componente divina dell’uomo. Il divino umano, dunque, per Aristotele non consiste nella
sua personalità individuale, ma nella sua razionalità universale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 6
ARISTOTELE: LA SCIENZA E’ RAGIONAMENTO
Sillogismo è un discorso (cioè un ragionamento) in cui, posti alcuni dati (cioè
le premesse), segue di necessità qualcos’altro distinto da essi, per il solo fatto
che questi sono stati posti. E con l’espressione “per il fatto che questi sono
stati posti” intendo il conseguire in forza di essi, e ulteriormente con
l’espressione “conseguire in forza di essi” intendo il non aver bisogno di alcun
termine estraneo in aggiunta perché abbia luogo la necessità.
Aristotele, Analitici primi, I, 4
Per quanto siano plurime e diversificate, tutte le scienze, secondo Aristotele, si basano su
uno stesso procedimento del pensiero. Aristotele lo chiama “sillogismo”, che in greco
letteralmente significa “discorso collegato” o “pensiero concatenato” e che corrisponde a
ciò che noi chiamiamo genericamente “ragionamento” e più precisamente “inferenza”.
Con questi termini si intende l’operazione logico-linguistica con la quale si ricava una
conseguenza da una premessa. P.e., dato un triangolo ne consegue che la somma dei suoi
angoli interni sia 180°.
Aristotele elabora una scienza degli elementi e modalità del ragionamento che egli chiama
“analitica” (in greco, scomposizione in elementi) e che corrisponde a ciò che noi
chiamiamo “logica”. L’obiettivo della logica aristotelica è stabilire le regole in base alle
quali il ragionamento può conseguire la verità. Dunque la logica, in quanto scienza del
ragionamento, è la scienza della verità, più precisamente è la scienza degli elementi e delle
regole mentali che ci permettono di conoscere la verità.
Ma cos’è per Aristotele la verità? La risposta è semplice: la verità è la copia mentale
dell’essente. In tal modo, dopo aver stabilito che l’essente in quanto essente è l’essenza,
Aristotele afferma che l’essente in quanto essente è il vero. Ma le due asserzioni non sono
discordanti, poiché per Aristotele il vero non è altro che la conoscenza dell’essenza, ossia è
il concetto in quanto configurazione mentale dell’essenza.
Dunque, gli elementi di base del ragionamento per Aristotele sono i concetti a livello
mentale e i termini che li designano a livello del linguaggio. Concetti e termini si
corrispondono e insieme corrispondono a loro volta alle essenze seconde (uomo, metallo,
bipede, ecc.) cioè alle forme della realtà. In altre parole per Aristotele vi è una
corrispondenza tra pensiero, linguaggio ed essere. Questa corrispondenza è colta dalla
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“definizione”. Per elaborare la corretta definizione di un termine, afferma Aristotele,
bisogna indicare il suo genere prossimo, cioè più vicino, e la sua caratteristica specifica,
cioè distintiva. P.e.: la rosa è un arbusto (genere prossimo) fornito di spine ricurve, foglie
pennato-composte e fiori profumati e variamente colorati (caratteristiche specifiche).
Aristotele, inoltre, distingue ulteriormente i concetti/termini in base a due criteri comuni a
ognuno di essi:
• l’estensione (o denotazione), cioè l’ampiezza quantitativa dei suoi elementi/casi,
ovvero il suo grado di generalità;
• l’intensione (o connotazione), cioè il numero e la dettagliatezza delle sue proprietà,
ovvero il suo grado di determinazione/specificazione.
P.e. “animale” ha più estensione e meno intensione di “canarino” e viceversa. E’ evidente
che estensione e intensione sono inversamente proporzionali.
La connessione di due o più concetti/termini costituisce a livello mentale un giudizio cui
corrisponde a livello linguistico una proposizione. La connessione può essere una
congiunzione (“ogni uomo è bipede”) oppure una disgiunzione (“gli uomini non hanno
branchie”). In questo senso i giudizi/proposizioni possono essere divisi, dal punto di vista
qualitativo, in affermativi e negativi. Inoltre, a seconda dell’estensione del soggetto, dal
punto di vista quantitativo, i giudizi/proposizioni si dividono in 3 tipi:
1. universali: quando il soggetto comprende tutti gli elementi di un concetto/termine
(p.e. “tutti gli uomini sono bipedi”);
2. particolari: quando il soggetto comprende una parte degli elementi di un
concetto/termine (p.e. “alcuni uomini sono calvi”);
3. singolari: quando il soggetto coincide con un solo elemento di un concetto/termine
(p.e. Socrate è un filosofo”).
I giudizi/proposizioni – a differenza dei termini/concetti – possono essere veri o falsi. Il
criterio più generale per stabilire se sono veri o falsi è sempre quello della loro
corrispondenza all’essenza formale. In altre parole un giudizio/proposizione è vero se la
connessione che stabilisce tra due concetti/termini corrisponde alla connessione delle
corrispettive forme reali. P.e.: “ogni uomo è bipede” è vera perché la congiunzione mentale
di “uomo” e “bipede” corrisponde alla loro congiunzione reale nell’essenza dell’uomo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In relazione ai giudizi/proposizioni, Aristotele enuncia la prima regola della logica: il
principio di non-contraddizione. Esso è così formulato:
 non è possibile pensare e affermare, nello stesso tempo e nello stesso senso, che
una cosa esista e non esista, né che abbia e non abbia una medesima proprietà.
Così definitolo, Aristotele usa il principio di non-contraddizione per classificare 4 tipi di
giudizi/proposizioni, così rappresentabili schematicamente:
“Tutti gli uomini sono magri”
“Nessun uomo è magro”
contrarie
A
subalterne
E
contraddittorie
I
subalterne
O
subcontrarie
“Alcuni uomini sono magri”
magri”
“Alcuni uomini non sono
(Le lettere A, I, E, O come contrassegno di ognuno dei 4 giudizi/proposizioni sono una
convenzione stabilita dai filosofi medievale, derivante da “A-df-I-rmo” e “n-E-g-O”.)
Aristotele stabilisce i seguenti rapporti logici tra i 4 tipi di giudizi da lui individuati:
 tra giudizi/proposizioni contraddittori : se uno è vero l’altro è necessariamente falso
(“Tutti gli uomini sono magri”/”Alcuni uomini non sono magri”; “Nessun uomo è
magro”/“alcuni uomini sono magri”);
 tra giudizi/proposizioni contrari: possono essere uno vero e uno falso (“Tutti gli
uomini sono bipedi”/“Nessun uomo è bipede”), ma anche entrambi falsi (come
nell’esempio della tabella: A-E);
 tra giudizi/proposizioni sub-contrari: possono essere uno vero e uno falso (“Alcuni
uomini sono bipedi”/“Alcuni uomini non sono bipedi”), ma anche entrambi veri
(come negll’esempio della tabella: I-O)
 tra giudizi/proposizioni subalterni: possono essere o entrambi veri o entrambi falsi
(vedi gli esempi della tabella: A-I e E-O).
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma come è possibile assicurarsi che un giudizio/proposizione rispecchi l’essenza della
realtà e quindi sia vero? In altre parole, in che modo possiamo essere certi che un
giudizio/proposizione sia vero? Aristotele risponde che il mezzo per accertarsi della verità
di un giudizio/proposizione è il “sillogismo” (letteralmente: “concatenazione”,
“collegamento”). Con questo nome Aristotele designa ciò che noi chiamiamo ragionamento
(a livello mentale) e argomentazione (a livello linguistico).
Secondo Aristotele, un ragionamento/argomentazione deve constare di 3
giudizi/proposizioni che concatenino 3 concetti/termini secondo l’ordine così
esemplificato:
A.
B.
C.
Tutti gli uomini (b) volano (a)
[PREMESSA MAGGIORE - PM]
Socrate (c ) è un uomo (b) [PREMESSA MINORE - pm]
Socrate (c) vola (a)
[CONCLUSIONE – C]
Dove:
(a) è detto estremo maggiore (EM),
(c) estremo minore (Em) e
(b) termine medio (TM).
Il “termine medio” è così chiamato da Aristotele perché è il termine/concetto che unisce e
concatena razionalmente le due premesse e, così facendo, connette i due termini/concetti
“estremi”, generando la conclusione, ovvero producendo – si potrebbe dire “partorendo” –
una conoscenza aggiuntiva rispetto alle due conoscenze contenute nelle due premesse.
In questo senso, per Aristotele le due caratteristiche fondamentali del “sillogismo”,
perlomeno di quello “apodittico” (dimostrativo), ossia del sillogismo per eccellenza, sono:
 la consequenzialità (o coerenza), ovvero la non-contraddittorietà: nell’esempio
indicato, non posso concludere “Socrate non vola”, perché questa conclusione
sarebbe in contraddizione con le premesse, ossia perché “Tutti gli uomini volano” e
“Socrate non vola” sono contraddittorie (in base a quanto stabilito dal “quadrato
degli opposti”, tenendo presente che i giudizi/proposizioni singolari sono casi-limite
di quelli particolari);
 la necessità, ovvero la certezza assoluta della conclusione, che proprio per questo,
afferma Aristotele, è “apodittica”, cioè indubitabilmente dimostrativa.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La consequenzialità riguarda il contenuto della conclusione, cioè la sussistenza di un
rapporto di congiunzione, anziché di disgiunzione (o viceversa) tra i due concetti/termini
che la costituiscono. La necessità concerne la modalità della conclusione, ossia il suo grado
di certezza, che altrimenti potrebbe anche essere solo quello della probabilità (“E’
probabile che Socrate voli”) o addirittura della mera possibilità (“Forse Socrate vola”, “E’
possibile che Socrate voli”).
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 7
ARISTOTELE: LA VERITA’ SI BASA SULLA VALIDITA’ DEL RAGIONAMENTO
Chiamo principi in ciascun genere quelli dei quali non è possibile dimostrare
che sono. Si assume quindi che cosa significhino i primi principi e ciò che da
essi discende; ma necessariamente si deve assumere che i principi sono, e
dimostrare invece il resto. Per esempio: si assume che cosa significhino unità
o retto e triangolo; ma necessariamente si deve assumere che l’unità o la
grandezza sono, e il resto dimostrarlo.
Aristotele, Analitici secondi, I, 10
Principio è la premessa immediata di una dimostrazione, ed è immediata la
premessa della quale non c’è un’altra premessa che sia anteriore. Premessa è
una delle due alternative di un enunciato nel quale un termine è predicato di
un altro. E’ dialettica la premessa che assume allo stesso modo qualsivoglia
dei due termini [predicabili]; è invece dimostrativa la premessa che assume
uno dei due termini in modo definitivo, in quanto vero.
Aristotele, Analitici secondi, I, 2
Abbiamo visto che “Gli uomini volano, Socrate è un uomo, dunque Socrate vola” è un
sillogismo valido, cioè la cui conclusione è logicamente necessaria, ossia univoca e certa.
Ma, ci si potrebbe sensatamente chiedere, se il sillogismo è lo strumento per accertarci
della verità di un giudizio/proposizione, com’è possibile che ci porti a concludere che
“Socrate vola”, tesi notoriamente falsa, in quanto non rispecchia un’azione reale di
Socrate?
Aristotele risponde che per comprendere in che modo il sillogismo ci porti alla verità,
dobbiamo innanzitutto preoccuparci della sua validità. Cosa intende per validità? La
validità di un sillogismo riguarda la sua forma logica pura, cioè consiste nella
consequenzialità e nella necessità della conclusione rispetto alle premesse, del tutto
indipendentemente dalla loro verità, cioè dai loro contenuti.
In questo senso il sillogismo può essere meglio formulato con simboli astratti, in questo
modo (utilizzando le lettere dell’alfabeto come simboli dei concetti/termini come indicato
convenzionalmente nell’esempio iniziale):
B⊂A
C∈B
C∈A
A
..C C
B
274
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Questa per Aristotele è la forma perfetta del sillogismo – da lui chiamata “I figura” – in
quanto dà sempre luogo ha una conclusione valida.
Ma Aristotele considera anche altre due possibilità: quella in cui il termine medio (B) sia
predicato in entrambe le premesse (II figura) e quella in cui il termine medio sia soggetto
in entrambe le premesse (III figura).
Un esempio del sillogismo di II figura è il seguente:
A. Tutti gli equini (A) sono quadrupedi (B).
B. Tutti i cavalli (C) sono quadrupedi.
C. Tutti i cavalli sono equini.
Questo sillogismo sembra valido, ma solo perché premesse e conclusione sono vere. In
realtà, è invalido perché la conclusione non è consequenziale rispetto alle premesse (cioè è
un “non sequitur”). Per comprenderlo consideriamo la formulazione simbolica del
sillogismo di II figura e la sua rappresentazione grafico-insiemistica:
A⊂B
C⊂B
C⊂A
B
A
..C
C
Le premesse non ci impongono di inserire l’insieme C nell’insieme A, ma solo nell’insieme
B. Dunque la conclusione C⊂A è invalida. Tuttavia quando la PM è universale affermativa
(p.e.: “Tutti gli equini sono quadrupedi”) e la pm universale negativa (“Nessun uomo è
quadrupede”) anche il sillogismo di II figura è valido perché in tal caso la sua conclusione
universale negativa (“Nessun uomo è equino”) è consequenziale (basta farne la
rappresentazione grafico-insiemistica per vederlo).
Invece, un esempio di sillogismo di III figura può essere il seguente:
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
A. Tutti i filosofi (B) sono bipedi (A).
B. Tutti i filosofi sono uomini (C).
C. Tutti gli uomini sono bipedi.
Anche in questo caso la conclusione è un non sequitur, cioè è invalida, a dispetto della sua
verità. Vediamo perché:
A
B⊂A
B⊂C
C⊂A
C
BB
Anche il sillogismo di III figura può essere valido, ma la conclusione deve essere
particolare anziché universale (“Alcuni uomini sono bipedi”).
Il sillogismo di III figura, però, è particolarmente interessante perché include come
sottospecie il ragionamento induttivo, quello che dall’osservazione di un consistente
numero di casi singolarti inferisce una proprietà generale. Consideriamo questo esempio:
Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele… sono bipedi.
Parmenide, Socrate, Platone, Aristotele… sono uomini.
Gli uomini sono bipedi.
Da quanto sappiamo, la conclusione universale è invalida. L’unica conclusione valida è
particolare: “Alcuni uomini sono bipedi”, e il fatto che il numero dei casi riscontrati
aumenti non cambia nulla, a meno che sia possibile osservare e considerare effettivamente
tutti i casi (passati e futuri compresi), il che è impossibile perché di numero indefinito. Per
questo motivo, secondo Aristotele, un’induzione non può mai arrivare a una conclusione
universale ma solo particolare. Questo, però, se ci si attiene alla modalità della necessità,
come Aristotele imponeva almeno per i giudizi scientifici. E’ chiaro, però, che i sillogismi
sia di II sia di III figura possono essere universalmente validi se rimodulati in base alla
possibilità: p.e. “Tutti i cavalli potrebbero essere equini” o “Tutti gli uomini potrebbero
essere bipedi”.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Così stabilite le regole di validità del sillogismo scientifico, Aristotele passa a individuare le
regole della sua verità, cioè a risolvere il problema: come fa un sillogismo ad essere vero?
Naturalmente, la prima regola della verità di un sillogismo è che sia valido. In altre parole,
per Aristotele, la validità è condizione necessaria della verità di un sillogismo, ovvero di un
sillogismo scientifico. Nessun sillogismo può essere vero se non è valido.
Tuttavia, la validità di un sillogismo non è condizione sufficiente perché la sua conclusione
sia vera. Qual è allora la seconda condizione della verità di un sillogismo? Perché un
sillogismo valido sia anche vero, risponde Aristotele, le sue premesse devono essere
entrambe vere. Dunque, sintetizzando entrambe le precedenti regole, secondo Aristotele
un giudizio/proposizione è vero quando è la conclusione di un ragionamento valido basato
su premesse vere.
In questo modo, però, sembra che il problema non sia risolto, ma solo spostato. Infatti
come assicurarsi che le premesse siano vere?
Basta, risponde Aristotele, che siano conclusioni di altri ragionamenti validi basati su
premesse vere. P.e. la premessa “tutti gli uomini sono mortali” è la conseguenza di un
ragionamento le cui premesse sono “tutti gli animali sono mortali” e “tutti gli uomini sono
animali”.
Anche in questo caso, però, sembra si tratti di un ulteriore spostamento sempre più a
monte del problema, non una sua effettiva risoluzione. Anzi, addirittura sembra che
Aristotele proponga un rimando all’infinito di premessa in premessa. Ma non è così,
perché, secondo Aristotele, esistono dei principi primi (definizioni, assiomi, postulati),
diversi per ogni scienza, che costituiscono il punto di partenza dei ragionamenti. P.e., per
la biologia: “tutti i viventi sono mortali”, ovvero la mortalità è una proprietà essenziale
degli esseri viventi.
Ma su cosa si fonda la verità dei principi primi? Sull’azione congiunta, chiarisce Aristotele,
dell’induzione e dell’intuizione intellettiva. L’induzione (epagoghè), come abbiamo visto, è
quel particolare tipo di ragionamento che a partire dall’esperienza di vari elementi/casi
singolari inferisce una conclusione generale. P.e. “Parmenide, Socrate, Platone… sono
morti”, “Parmenide, Socrate, Platone… sono uomini”, dunque “gli uomini sono mortali”.
L’induzione, però, secondo Aristotele, non può mai arrivare a una conclusione davvero
universale, cioè vera per tutti gli elementi/casi di una classe di cose. Infatti, per quanto
numerose siano le osservazioni, gli elementi/casi osservati sono sempre “alcuni”, mai
“tutti”.
Ma per Aristotele l’induzione può e deve essere integrata dall’intuizione intellettiva, cioè
dalla capacità dell’intelletto umano di cogliere immediatamente e infallibilmente la forma
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
essenziale di qualcosa sulla base dello stimolo dell’esperienza. Grazie all’intuizione il
giudizio/proposizione particolare “molti uomini sono morti” può trasformarsi in quello
universale “tutti gli uomini sono mortali”, che a sua volta, insieme ad altri analoghi, può
portare a stabilire che “tutti i viventi sono mortali”. Da questo principio primo possono poi
partire le deduzioni, ovvero i ragionamenti che da un giudizio/proposizione universale
inferiscono un giudizio/proposizione particolare.
Le scienze dunque, secondo Aristotele, consistono in un metodico intreccio di intuizioni,
induzioni e deduzioni.
Tuttavia, questa impostazione generale, per Aristotele, va diversamente modulata a
seconda del tipo di scienza. Le scienze, infatti, afferma Aristotele, si suddividono in due
generi:
1. le scienze del necessario – Filosofia prima, Fisica e Matematica – così definite
perché il loro oggetto è invariante e che, pertanto, possono utilizzare i sillogismi
apodittici (=dimostrativi) e arrivare così a conclusioni univoche e certe;
2. le scienze del possibile – che a loro volta si suddividono in poietiche (retorica,
poesia e in genere tutte le arti e le tecniche) e pratiche (etica e politica) – così
definite perché il loro oggetto è mutevole, in quanto dipendente dai bisogni e dalle
decisioni degli uomini che variano nel tempo, e le quali, di conseguenza, si basano
su sillogismi dialettici che permettono conclusioni plurime e solo possibili o
probabili.
Ma cos’è un sillogismo dialettico? E’ un sillogismo, risponde Aristotele, che, a differenza di
quello apodittico, non parte da un’unica premessa certamente vera, bensì da una premessa
duplice – p.e. “l’ornitornico è un uccello” e “l’ornitorinco è un mammifero” – in quanto
nessuna delle sue due versioni alternative è in grado di escludere la verità dell’altra. In
questo senso la duplice premessa dialettica non è necessaria ma solamente “possibile”.
Stando così le cose, afferma Aristotele, il sillogismo dialettico si basa sulla scelta della
premessa più probabile, cioè quella considerata più attendibile dalla maggioranza degli
uomini, oppure dai più esperti.
Ma, poiché parte da una premessa solo probabile, il sillogismo dialettico giunge a
conclusioni che non sono universali e necessarie, ma particolari e probabili, cioè che
possono essere vere in alcuni o molti casi ma non è detto che lo siano in molti o
quantomeno in tutti. Per questa loro caratteristica, i sillogismi dialettici per Aristotele
sono propri dei contesti conoscitivi dibattimentali, quelli cioè in cui si confrontano tesi
(premesse) diverse per metterne alla prova la maggiore o minore attendibilità e scegliere
così quella migliore, cioè la più probabile.
Benché non nasconda la sua preferenza per il sillogismo apodittico, Aristotele attribuisce
tuttavia una funzione importante al sillogismo dialettico in quanto esso per lui non
costituisce solo il nerbo metodologico delle scienze pratiche e poietiche ma anche uno
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
strumento ausiliario – e, in certi casi, perfino indispensabile – per accertare i principi
primi, in particolare le definizioni, delle stesse scienze del necessario o apodittiche.
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TAPPA 8
ARISTOTELE: LA MASSIMA FELICITA’ STA NEL CONOSCERE
Ritorniamo al bene che è oggetto della nostra ricerca. Che cosa mai può
essere? Infatti appare come una cosa in un’azione e in un’arte, come un’altra
in un’altra azione e in un’altra arte: infatti è altro in medicina, in strategia e
così di seguito nelle restanti arti. Che cos’è dunque il bene di ciascuna? Non è
forse ciò in vista del quale si compie il resto? Questo in medicina è la salute, in
strategia la vittoria, in ingegneria la casa, in un’arte una cosa, in un’altra
un’altra; ma in ogni azione e scelta è il fine. Infatti è in vista di questo che tutti
cpmpiono il resto. Di conseguenza, se qualcosa è fine di tutto ciò che è oggetto
d’azione, questo sarà il bene realizzabile nella prassi; e se vi sono più cose,
saranno queste. […]
Poiché i fini sono manifestamente molteplici e di questi noi scegliamo alcuni a
motivo di altro (ad esempio la ricchezza, i flauti e in generale gli strumenti), è
evidente che non sono tutti perfetti; invece il bene supremo è manifestamente
qualcosa di perfetto. Di conseguenza, se vi è un fine soltanto che è perfetto,
questo sarà il bene che cerchiamo; se sono molti, il più perfetto di questi.
Ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso diciamo che è più perfetto di ciò
che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a motivo di altro
diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili e per se stesse e a
motivo di altro; pertanto diciamo che è perfetto in senso assoluto ciò che è
sempre sceglibile per se stesso e mai a motivo di altro. Ora, una tale cosa tutti
ritengono che è soprattutto la felicità. Questa infatti noi scegliamo sempr4 per
se stessa e mai a motivo di altro; invece l’onore, il piacere, l’intelligenza ed
ogni virtù li scegliamo sì anche per se stessi (infatti sceglieremmo ciascuno di
essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio), ma li scegliamo anche in
vista della felicità, supponendo che mediante essi saremo felici. Invece
nessuno sceglie la felicità in vista di questi beni, né, in generale, a motivo di
altro.
Aristotele, Etica Nicomachea, I 5
Ora, va detto che ogni virtù, per la cosa di cui è virtù, ha per effetto che essa
sia in una buona condizione, e compie bene l’opera di quella cosa. Ad esempio
la virtù dell’occhio e rende valido l’occhio e rende valida la sua opera: infatti è
grazie alla virtù dell’occhio che vediamo. Parimenti la virtù del cavallo e rende
un cavallo valido e lo rende buono a correre ed a portare il cavaliere e a
resistere ai nemici. Pertanto, se così stanno le cose in tutti i casi, anche la
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
virtù dell’uomo sarà la disposizione da cui un uomo diventa buono e da cui
compirà bene la sua opera.
Come questo sarà, già l’abbiamo detto, ma in più sarà chiaro anche in questo
modo: se consideriamo di che specie è la natura della virtù.
Ora, in tutto ciò che è continuo, vale a dire divisibile, si può prendere il più, il
meno e l’uguale; e queste determinazioni possono essere o secondo l’oggetto
stesso o in relazione a noi.
L’uguale è una sorta di medio tra l’eccesso e il difetto. Chiamo medio della
cosa il punto che dista ugualmente da ciascuno dei due estremi, punto che è
unico ed identico per tutti; chiamo invece medio rispetto a noi ciò che né
eccede né difetta. Questo non è unico né identico per tutti. Ad esempio, se il
dieci è troppo e il due è poco, si prende il sei come medio secondo la cosa:
infatti supera ed è superato di uguale quantità. Questo medio è secondo la
proporzione aritmetica. Ma il medio rispetto a noi non va preso così: infatti se
per un uomo mangiare dieci mine è troppo e due mine è poco, il maestro di
ginnastica non gli prescriverà sei mine; forse infatti anche questa quantità è
troppa, o poca per la persona che l’assorbe. Per Milone [famoso atleta] infatti
è poca, ma per un principiante di esercizi ginnici è troppa. Parimenti è per la
corsa e per la lotta.
Così pertanto ogni persona che ha conoscenza fugge l’eccesso e il difetto;
invece è il giusto mezzo che cerca ed è questo che sceglie: il mezzo non
dell’oggetto, ma in rapporto a noi.
Pertanto, se ogni scienza così esegue bene il suo compito, fissando lo sguardo
sul mezzo ed indirizzando ad esso le sue opere (donde siamo soliti dire per le
opere ben riuscite che non vi è nulla da togliere e nulla da aggiungere,
supponendo che eccesso e difetto rovinino la perfezione, mentre la via di
mezzo la salvaguardaq, e i buoni artigiani, come diciamo, lavorano fissando lo
sguardo sul medio); e se la virtù è più esatta di ogni arte ed è migliore, come
pure la natura, allora essa tenderà al medio. Intendo la virtù etica: questa
infatti ha per oggetto le passioni e le azioni, e in queste vi sono eccesso, difetto
e il mezzo. Ad esempio, avere paura, esser coraggiosi, desiderare, adirarsi,
avere pietù, in generale provare delle sensazioni e provare dolore ammettono
un troppo e un poco, ed ambedue non vanno bene. Ma provare queste
passioni quando si deve e nelle circostanze in cui si deve e verso le persone
che si deve e in vista del fine che si deve e come si deve, è realizzare il medio e
al tempo stesso l’eccellenza: il che è proprio della virtù.
[…]
La virtù è dunque una disposizione che orienta la scelta deliberata,
consistente in una via di mezzo rispetto a noi determinata dalla razionalità,
cioè nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio. E’ una medietà tra due
vizi, uno per eccesso e l’altro per difetto. E lo è, inoltre, per il fatto che alcuni
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
vizi difettano, altri eccedono ciò che si deve sia nel campo delle emozioni sia
in quello delle azioni, mentre la virtù è ricerca e sceglie deliberatamente il
medio.
Aristotele, Etica Nicomachea, II, 5-6
Il presupposto della teoria etico-politica aristotelica è la tesi secondo cui “l’uomo per
natura è un animale comunitario”. La natura comunitaria dell’uomo si realizza
innanzitutto nella famiglia, poi nel villaggio e, al più alto livello, nello Stato. Lo scopo dello
Stato è realizzare il bene dell’uomo. Poiché la “politica” è la scienza della forma migliore di
Stato, essa ha il compito di individuare il tipo di Stato capace di realizzare al massimo
grado il bene dell’uomo.
Ma poiché l’uomo è innanzitutto un individuo e poiché lo Stato è una unione di individui,
la politica dovrà stabilire in primo luogo in cosa consiste il bene di ogni individuo. In altre
parole, l’etica (o morale), cioè la scienza del miglior modo di agire individuale, è concepita
e sviluppata da Aristotele come premessa della politica, cioè in funzione di essa.
Ogni individuo, afferma Aristotele, nel corso della sua vita persegue molti beni, p.e. vincere
una gara atletica, sposarsi, fare un viaggio, comprarsi una casa, ecc. Tutti questi beni, però,
sono relativi, in quanto da un lato sono obiettivi dell’agire individuale, dall’altro sono
mezzi per ottenere altri beni, per esempio vincere una gara per ottenere un premio,
sposarsi per avere dei figli, ecc. In questo senso ogni bene si fonderebbe su un altro in un
rimando infinito. Poiché tale rimando equivale alla mancanza di qualsiasi fondamento,
occorre un bene assoluto, ovvero un fine ultimo di tutti i beni relativi: la felicità. Dunque
l’etica è la scienza di che cos’è e di come si consegue la felicità.
Poiché l’essenza dell’uomo è la razionalità, la felicità dell’uomo consiste nella virtù intesa
come perfezionamento della sua razionalità. Ciò significa che la virtù è il comportamento
che permette all’individuo di sviluppare la sua intelligenza al massimo grado. Su questa
base Aristotele distingue innanzitutto due generi di virtù:
•
le virtù pratiche: sono quelle che consistono nel controllo razionale dei desideri
sensibili, delle emozioni e dei sentimenti che sono alla base dell’agire quotidiano;
•
le virtù teoretiche: sono quelle che consistono nell’esercizio dell’intelligenza in quanto
tale, ovvero sono le attività razionali fondamentali.
282
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il criterio unico e generale di tutte le virtù pratiche è il “giusto mezzo”. Ciò significa che per
Aristotele vi sono due tipi, opposti ma convergenti, di comportamenti sbagliati, cioè di vizi:
quello sbagliato per eccesso e quello sbagliato per carenza. P.e., la spericolatezza è un
eccesso, la vigliaccheria una carenza. La virtù consiste invece nel comportamento
“mediano”, cioè intermedio, p.e. il coraggio in quanto via di mezzo tra spericolatezza e
vigliaccheria. Insomma il principio dei vizi è l’esagerazione, quello delle virtù la
moderazione.
Il criterio del giusto mezzo, per Aristotele, si applica anche e innanzitutto al rapporto tra
razionalità e fisicità. Poiché l’uomo è per eccellenza un essere intelligente, ma è pur sempre
un animale, cioè è per essenza anche corporeo e sensibile, il comportamento virtuoso
include la valorizzazione dei beni materiali. P.e., sul piano economico, è virtù l’agiatezza,
intesa come giusto mezzo tra la povertà e la ricchezza. In questo senso Aristotele legittima
eticamente anche i piaceri fisici purché naturalmente siano moderati.
Le virtù pratiche sono comportamenti adeguati in quanto finalizzati a rendere possibile il
miglior esercizio delle virtù teoretiche. In questo senso il criterio della moderazione
coincide con quello della funzionalità allo sviluppo dell’intelligenza. Tale sviluppo si attua,
secondo Aristotele, a 5 livelli, corrispondenti ad altrettante virtù teoretiche:
1) l’arte: è la capacità razionale di produrre, ovvero la creatività artigianale e artistica, che
si manifesta p.e. nella produzione di un vaso, di un tempio, di una poesia, ecc.
2) la saggezza: è la capacità razionale di controllare e guidare desideri, emozioni e
sentimenti, dando luogo a comportamenti virtuosi, ovvero è la razionalità che produce
le virtù pratiche;
3) l’intelletto: è l’intuizione intellettiva, cioè la capacità razionale di conoscere i principi
primi di tutte le scienze;
4) la scienza: è la capacità razionale di dedurre le conseguenze dei principi primi, cioè di
trarre da essi delle conoscenze universali e necessarie.
5) la sapienza: è la fusione di intelletto e scienza e come tale è la virtù teoretica più alta,
coincidente con la conoscenza totale, ovvero con la conoscenza di tutte le “filosofie
seconde”, cioè le scienze, sul fondamento della “filosofia prima”, cioè la metafisica.
L’esercizio delle virtù teoretiche, afferma Aristotele, e soprattutto della sapienza, procura
all’uomo il massimo grado di felicità in quanto coincide con l’attuazione e il compimento
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
della sua eccellenza, cioè la razionalità. In questo senso la vita teoretica, cioè dedita alla
conoscenza, è la vita migliore per l’uomo, quella che lo rende simile a Dio.
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TAPPA 9
ARISTOTELE: LO STATO DEVE GARANTIRE PACE E TEMPO LIBERO
Guardando al modo in cui le cose nascono dal loro principio, anche in questo
campo, come negli altri, si otterranno risultati migliori. Prima di tutto è
necessario unire i termini che non possono sussistere separatamente, per
esempio la femmina e il maschio in quanto strumenti di generazione (e tali
non sono perché se lo propongono, ma perché è naturale per l’uomo come per
gli altri animali e piante il mirare a lasciare un qualche altro essere simile a
sé), chi è naturalmente disposto al comando e chi è naturalmente disposto ad
essere comandato, in quanto la loro unione è ciò per cui entrambi possono
sopravvivere, perché chi per le sue qualità intellettuali è in grado di prevedere
per natura comanda e per natura è padrone, mentre chi, per le doti inerenti al
corpo, è in grado di eseguire deve essere comandato ed è naturalmente
schiavo, sicché la stessa cosa è vantaggiosa al padrone e allo schiavo. Per
natura dunque son distinti la femmina e il servo, perché la natura non fa nulla
con la povertà con la quale gli artigiani fabbricano il coltello di Delfi, ma
destina ogni cosa a una sola funzione […].
Da queste due comunità sorge prima di tutto la famiglia, sicché giustamente
Esiodo disse poetando “innanzitutto la casa, la donna e il bue che ara” […].
La prima comunità, che deriva dall’unione di più famiglie volte a soddisfare
un bisogno non strettamente giornaliero, è il villaggio. […]
La comunità perfetta di più villaggi costituisce la città, che ha raggiunto quello
che si chiama il livello dell’autosufficienza: sorge per rendere possibile la vita
e sussiste per produrre le condizioni di una buona esistenza. Perciò ogni città
è un’istituzione naturale, se lo sono anche i tipi di comunità che la precedono,
in quanto essa è il loro fine e la natura di una cosa è il suo fine […].
Da ciò dunque è chiaro che la città appartiene ai prodotti naturali, che l’uomo
è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una
città, per la sua natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un
uomo […].
E chi è tale per natura è anche desideroso di guerra, in quanto non ha legami
ed è come una pedina isolata. Perciò è chiaro che l’uomo è animale più
socievole di qualsiasi ape e di qualsiasi altro animale che viva in greggi.
Infatti, secondo quanto sosteniamo, la natura non fa nulla invano, e l’uomo è
l’unico animale che abbia la favella: la voce è segno del piacere e del dolore e
perciò l’hanno anche gli altri animali, in quanto la loro natura giunge fino ad
avere e a significare agli altri la sensazione del piacere e del dolore.
Invece la parola serve a indicare l’utile e il dannoso, e perciò anche il giusto e
l’ingiusto. E questo è proprio dell’uomo rispetto agli altri animali: esser
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
l’unico ad avere nozione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e così
via. È proprio la comunanza di queste cose che costituisce la famiglia e la
città. […]
È dunque chiaro che la città è per natura e che è anteriore all’individuo
perché, se l’individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto
nella stessa relazione in cui lo sono le altri parti. Perciò chi non può entrare a
far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso,
non è parte di una città, ma o una belva o un dio.
Aristotele, Politica, a cura di C.A. Viano, Rizzoli, 2003, libro I, capp. 1-2, pp. 71-79
Una volta stabilito qual è e come si raggiunge il fine ultimo di ogni individuo, è possibile
per Aristotele affrontare il problema centrale della politica: qual è il miglior tipo di Stato?
Per risolvere tale problema Aristotele elabora innanzitutto la seguente classificazione degli
Stati storici:
obiettivo del governo
Fa l’interesse dei governati Fa l’interesse dei governanti
n° dei governanti
uno
alcuni
tutti
Monarchia
Aristocrazia
Civicrazia
Tirannide
Oligarchia
Democrazia
Tra le forme di governe classificate, Aristotele naturalmente ritiene preferibili monarchia,
aristocrazia e civicrazia ma afferma che nessuna di queste tre si può giudicare la migliore
in assoluto, bensì che ognuna può essere migliore relativamente a una specifica situazione
storico-sociale, p.e. a seconda del grado di civiltà di un popolo o della presenza di uno o più
uomini di grande levatura intellettuale ed etico-politica.
Tuttavia, Aristotele afferma che per i popoli più sviluppati, in condizioni normali, la forma
di Stato mediamente migliore è la “civicrazia”, cioè il governo della comunità civica o
cittadinanza, ovvero lo Stato in cui tutti gli individui maschi e proprietari sono considerati
cittadini “liberi e uguali” e quindi partecipano alle decisioni e concorrono a pari titolo alle
cariche pubbliche. Come tale, la civicrazia rappresenta, secondo Aristotele, il giusto mezzo
tra la democrazia e l’oligarchia.
Infatti, mentre la democrazia è il governo dei più poveri e l’oligarchia quello dei più ricchi,
la civicrazia è il governo della classe media. Mentre poveri e ricchi, essendo classi estreme,
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
non possono che avere rapporti conflittuali e sono quindi socialmente portati a governare
nel loro esclusivo o preminente interesse, la classe media, essendo una classe intermedia,
che quindi intrattiene rapporti economici sia con i ricchi sia con i poveri, è socialmente
portata a governare nell’interesse di tutti, perché il suo interesse di classe coincide con gli
interessi delle altre due classi.
La civicrazia, dunque, secondo Aristotele, realizza al massimo grado la funzione dello Stato
che è quella di rendere effettivamente possibile la felicità di ogni individuo. Infatti, per
Aristotele, sebbene lo Stato sia un’unione di individui e debba pertanto assumere come
proprio fine il fine etico di ogni individuo, cioè la felicità, è la felicità collettiva, garantita
dallo Stato, la condizione della felicità individuale e non viceversa.
L’individuo isolato, o anche in un piccolo gruppo, non sarebbe in grado di conseguire la
felicità, sia perché ha bisogno di una efficace difesa militare e di un’ampia cooperazione
socio-economica per raggiungere le migliori condizioni materiali sia perché necessita di
leggi e pubblici ufficiali che lo pungolino alla pratica continua delle virtù. Queste, infatti,
afferma Aristotele, si acquisiscono soltanto con l’esercizio sistematico, cioè con l’abitudine.
Lo Stato dunque ha un primato sull’individuo, analogo a quello del tutto sulla parte.
Ma allora cosa deve fare il governo dello Stato per realizzare la felicità collettiva,
condizione di quella individuale? Poiché, come ha stabilito l’etica, il grado più intenso di
felicità individuale deriva dall’attività conoscitiva, il governo dello Stato, afferma
Aristotele, deve rendere possibile la vita teoretica a tutti i cittadini, cioè deve permettere
loro di dedicarsi alla conoscenza. Per raggiungere questo scopo lo Stato deve garantire due
condizioni fondamentali, strettamente connesse: la pace e il tempo libero. La guerra
dunque deve essere finalizzata e limitata alla sola difesa; e i tempi di lavoro devono essere
ridotti il più possibile.
Se, per questo aspetto, la proposta politica aristotelica appare attuale, va evidenziata invece
la sua inattualità per quanto riguarda il principio dell’uguaglianza. Aristotele, infatti, non
solo esclude dalla cittadinanza, cioè dal godimento di ogni diritto politico, i residenti non
ateniesi (oggi diremmo gli immigrati, anche di seconda o terza generazione), le donne e gli
schiavi, ma addirittura teorizza che i “barbari” (cioè gli uomini non greci), le donne e gli
schiavi sono inferiori “per natura”. In tal modo Aristotele fornisce una giustificazione
scientifica al razzismo, al sessismo e allo schiavismo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
LO SCRIGNO
PAUL DAVIES: LA TEORIA DEL FINALISMO INTRINSECO DELL’UNIVERSO
In questa teoria, il carattere propizio alla vita dell’universo deriva da una
legge o principio di vasto respiro che costringe l’universo/multiverso a
evolvere verso la vita e la mente. La teoria ha il vantaggio di “prendere sul
serio la vita”, non trattandola né come una bella sorpresa completamente
priva di spiegazione [...], né come un mezzo di selezione puramente passivo
[...]. Essa evita la sensazione di “intrigo” che si avverte in D [la teoria del
“disegno intelligente” facente capo a un dio personale, ndr], sostituendo a un
dio manipolatore (naturale o soprannaturale) un principio finalistico più
sottile. In breve, introduce la finalità nei meccanismi del cosmo a un livello
fondamentale (invece che accidentale), senza postulare un agente
preesistente privo di spiegazione che immetta la finalità in modo miracoloso.
P. Davies, Una fortuna cosmica, Mondadori 2007, p. 335
MICHELE SARA’: GLI ORGANISMI SI SVILUPPANO IN MODO FINALISTICO
L’ordine che regola la vita dell’organismo è in primo luogo il risultato di un
programma genetico che si trova per intero nello zigote o uovo fecondato, e
che è solo parzialmente e diversamente attivato nelle cellule differenziate
dell’organismo pluricellulare, a causa della sua modulazione da parte delle
reti interattive d’informazione. L’attuazione di un programma prefissato
nello sviluppo dell’organismo rappresenta un tipo di finalismo al quale si dà il
nome di teleonomico per distinguerlo dal teleologico che presuppone
un’intenzione che è tipica delle azioni umane.
M. Sarà, L’evoluzione costruttiva, Utet 2005, p. 121
FRITJOF CAPRA: L’ORGANISMO E’ SCHEMA, STRUTTURA E PROCESSO
E’ mia convinzione che la chiave per una teoria completa dei sistemi viventi
stia nella sintesi di questi due approcci: lo studio dello schema (ovvero di
forma, ordine, qualità), e lo studio della struttura (ovvero di sostanza,
materia, quantità). […]
Per schema di organizzazione intendiamo quella configurazione di relazioni
che conferisce a un sistema le sue caratteristiche essenziali. La struttura di un
sistema è la materializzazione fisica del suo schema di organizzazione.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Per illustrare la differenza tra schema e struttura, consideriamo un sistema
non vivente noto a tutti: una bicicletta. Perché possiamo dare a un oggetto il
nome di bicicletta bisogna che esista un certo numero di relazioni funzionali
fra componenti che chiamiamo telaio, pedali, manubrio, ruote, catena,
corona eccetera. La configurazione completa di tali relazioni funzionali
costituisce lo schema di organizzazione della bicicletta. […] La struttura della
bicicletta è la materializzazione fisica del suo schema di organizzazione in
componenti dotati di una forma specifica, costruiti con materiali specifici. […]
In una macchina come la bicicletta le varie parti sono state progettate,
costruite e assemblate per formare una struttura di componenti fissi. In un
sistema vivente, al contrario, i componenti cambiano di continuo. Un flusso
incessante di materia attraversa gli organismi viventi. […] C’è crescita,
sviluppo ed evoluzione. […]
Questa straordinaria proprietà dei sistemi viventi suggerisce di utilizzare il
processo come terzo criterio per una descrizione completa della natura della
vita. Il processo della vita è l’attività necessario alla continua
materializzazione dello schema di organizzazione del sistema. Dunque il
criterio di processo costituisce il legame fra schema e struttura. Nel caso della
bicicletta, lo schema di organizzazione è rappresentato dai disegni del
progetto che vengono utilizzati per la costruzione, la struttura è l’oggetto
materiale costituito da una specifica bicicletta e il legame tra schema e
struttura è nella mente del progettista. Nel caso di un organismo vivente,
invece, lo schema di organizzazione è sempre materializzato nella struttura
dell’organismo, e il legame fra schema e struttura consiste nel continuo
processo di materializzazione.
Fritjof Capra, La rete della vita, Rizzoli, 1997, pp. 178-179-180 (ed. BUR)
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
LA SCOPERTA
IL PRIMATO DELLA VITA PRATICA
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
CANNOCCHIALE SU…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE
DELL’ETA’ ELLENISTICA (323-168 a.C.)
Lo sfaldamento dell’impero alessandrino e i nuovi regni ellenistici
Il biennio 323-322 a.C., gli anni delle morti successive di Alessandro Magno e di Aristotele,
rappresenta lo spartiacque simbolico tra l’età greca classica e la nuova età ellenistica. Sul
piano politico, il vasto ma effimero impero di Alessandro si divise in quattro regni
principali: il regno di Macedonia (comprendente la Grecia), il regno d’Egitto, il regno dei
Seleucidi (Siria, Palestina, Mesopotamia, Persia), il regno di Pergamo (Anatolia
occidentale). I nuovi Stati erano monarchie dispotiche in cui gli uomini erano sudditi, cioè
erano privi di diritti politici. Anche le poleis greche, pur mantenendo un certo grado di
autonomia, persero definitivamente l’indipendenza effettiva e i Greci smisero di essere
cittadini e diventarono sempre più sudditi. Se questo, da un lato, comportò una perdita di
libertà e di protagonismo politico, dall’altro favorì il superamento della dimensione
particolaristica dei Greci a vantaggio di un’apertura cosmopolitica.
A questa riorganizzazione verticistica e autoritaria del potere corrispose, tuttavia, una vera
e propria rivoluzione culturale. Le dinastie monarchiche dei nuovi regni rivaleggiarono tra
loro in mecenatismo, finanziando e promuovendo l’aumento dell’alfabetizzazione e lo
sviluppo culturale a tutti i livelli, da quello artistico a quello filosofico, da quello letterario a
quello scientifico, da quello religioso a quello tecnologico. Lo scopo di questa politica era
duplice: garantirsi il consenso delle élites intellettuali e rafforzare i propri apparati militari.
In particolare il mecenatismo delle nuove dinastie monarchiche si manifestò nella
costruzione e nella gestione di grandi biblioteche, le maggiori delle quali furono quelle di
Alessandria (che arrivò a contenere da 500.000 a 700.000 opere) e di Pergamo, i cui
funzionari erano inviati in ogni parte del mondo civile conosciuto allo scopo di procacciarsi
i testi che venivano trascritti su fogli di papiro o di pergamena (da Pergamo, dove si
produceva) e raccolti in rotoli.
La nascita di una nuova cultura cosmopolita
Anche grazie al sostegno economico statale, la cultura greca si diffuse in tutto il Medio
Oriente contaminandosi e fondendosi con le più antiche culture dell’Egitto, della Palestina,
della Siria, della Mesopotamia e della Persia. Il greco divenne così la lingua internazionale
degli intellettuali della vasta area geografica che andava dal Mediterraneo orientale
all’Indo. Di conseguenza gli intellettuali egiziani, ebrei, babilonesi, persiani cominciarono a
tradurre in greco gli scritti religiosi, filosofici, scientifici e letterari facenti parte delle loro
tradizioni culturali. Emblematica, in tal senso, fu la traduzione in greco della Bibbia
effettuata dagli ebrei. In questo modo, da un lato gli intellettuali Greci assorbirono i
patrimoni culturali mediorientali, dall’altro gli intellettuali mediorientali incamerarono il
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
patrimonio culturale greco. Da questa contaminazione e da questa fusione tra la cultura
greca classica e la più antica culturale mediorientale nacque una nuova cultura, chiamata
“ellenistica”, o anche “alessandrina”, forse meno originale ma certo non meno ricca ed alta
di quella ellenica.
Un’arte realistica e d’intrattenimento
Nell’ambito letterario, l’età ellenistica fu caratterizzata innanzitutto dall’estinzione della
tragedia, che aveva rappresentato il vertice della letteratura classica greca. Si conservò e
fiorì, invece, la commedia, ma in base a una radicale trasformazione: il coro diventò
marginale mentre centrali diventarono la vicenda e l’intreccio, i dialoghi e la
caratterizzazione psicologica dei personaggi, che sempre più si configurarono come tipi
umani (p.e. l’avaro, il misantropo, ecc.). Quanto ai contenuti, nella commedia sparì la
satira politica, a favore della descrizione della vita quotidiana, caratterizzata da passioni e
ambizioni materialistiche ed edonistiche, da comportamenti istintivi, e quindi immorali,
macchinazioni, sotterfugi, equivoci, eventi sorprendenti. In questo senso, la fine della
tragedia e il fiorire della “commedia nuova” furono il sintomo dell’abbandono di ogni
ideale eroico e di ogni problematica esistenziale, di cui rimangono solo gli echi in singoli
personaggi, unici e isolati, vere eccezioni alla regola, che soli conservano alcuni valori ideali
e il rispetto delle norme morali. Il principale commediografo ellenistico fu Menandro (342291 a.C.), le cui commedie furono poi tradotte dal romano Terenzio (185-159 a.C.) e
diventarono così i modelli della commedia latina.
Anche il genere poetico, nell’età ellenistica, abbandonò i temi storico-civili a favore di
quelli quotidiani e individuali, in particolare di carattere amoroso, e soprattutto a favore
della cura dello stile, sempre più ricercato e raffinato nonché infarcito di erudizione per lo
più mitologica ma a volte anche scientifica. Tra i poeti ellenistici, detti anche
“alessandrini”, emersero Callimaco, Teocrito e Apollonio Rodio.
Sebbene la maggior parte degli storici ellenistici cedesse alla sofisticazione retorica e al
gusto del meraviglioso, la storiografia ellenistica si sviluppò anche in controtendenza
grazie all’opera di Polibio. Nelle sue Storie, infatti, che trattano delle guerre puniche e della
conquista romana della Grecia, Polibio si attenne rigorosamente al criterio
dell’accertamento dei fatti reali e, al contempo, li generalizzò allo scopo di individuare delle
“leggi” dello sviluppo storico.
L’arte ellenistica ebbe caratteristiche analoghe alla letteratura. L’architettura fu improntata
alla monumentalità e al decorativismo, finalizzati a manifestare, rispettivamente, la
potenza e la magnificenza delle dinastie regnanti. La scultura puntò sempre più alla
spettacolarità, cioè a suscitare forti reazioni emotive di meraviglia o di compassione
(Galata morente, Marsia legato, Menelao e Patroclo) o di paura e orrore (Laocoonte). Le
divinità furono ancor più umanizzate e in tal senso le dee cominciarono a essere
rappresentate nude o comunque discinte (Afrodite accovacciata di Doidalsas, Afrondite di
Milo). Più in generale, le opere scultoree si fecero più dinamiche (Il fanciullo fantino),
impreziosite di dettagli (Nike di Samotracia), più realistiche, arrivando a rappresentare
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
anche figure umane brutte o grottesche (Vecchio pescatore, Vecchia ubriaca).
Parallelamente, nella pittura si accentuarono il colorismo e gli effetti di luce, con esiti di
tipo “impressionistico”.
La rivoluzione scientifica fallita
In ambito scientifico, l’età ellenistica fu caratterizzata da uno sviluppo senza precedenti,
favorito dal mecenatismo delle dinastie monarchiche che stipendiarono gli scienziati e
misero a loro disposizione strutture e strumenti di ricerca innovativi. Il più significativo
esempio fu il Museo (= casa delle muse) di Alessandria, una sorta di grande università
fornita di un osservatorio astronomico, sale di dissezione anatomica, un giardino
zoologico, un orto botanico, oltre alla già citata immensa Biblioteca. Nel Museo scienziati
di tutto il mondo ellenistico insegnavano e facevano ricerca scientifica.
Anche grazie a queste funzionali condizioni pratico-materiali, gli scienziati alessandrini –
come Euclide, Aristarco di Samo, Archimede, Eratostene – fecero notevoli progressi in
matematica, astronomia, fisica, medicina, biologia, geografia nonché nella meccanica,
anticipando, per esempio con l’eliocentrismo, teorie che si sarebbero affermate con la
rivoluzione scientifica moderna, cioè più di 1800 anni dopo. In questo senso si può parlare
di una semirivoluzione scientifica ellenistica in quanto essa si avviò ma si arrestò in corso
d’opera, rimanendo così incompiuta ( VIII viaggio – La felicità come ricerca scientifica).
La svolta etico-immanentistica della filosofia
In questo contesto, la filosofia perse parte della sua centralità a favore delle arti e
soprattutto della ricerca scientifica, ma da un lato approfondì come mai prima la ricerca
etica e dall’altro, anche grazie a questa specializzazione, ebbe una diffusione assai più
larga.
Dopo la devastazione della guerra del Peloponneso, la conquista macedone e il
declassamento della polis da Stato sovrano a organo amministrativo, l’uomo greco si
considerò sempre meno un “animale politico”, un elemento di una comunità civica,
secondo la famosa definizione di Aristotele. In altre parole, già alla fine dell’età classica e
durante l’età ellenistica avvenne una mutazione antropologica: l’uomo greco si sentì
innanzitutto e soprattutto un “individuo”, scoprì la dimensione “privata”, la privacy.
Questa mutazione antropologica, che è tutt’uno con la rivoluzione culturale ellenistica,
produsse una nuova domanda di etica, ovvero di criteri e modelli di comportamento
individuale e interindividuale.
In questo modo, l’etica, che nell’età classica faceva blocco con la politica, venne a costituirsi
come dottrina autonoma e addirittura ad acquisire il primato nell’ambito della ricerca
filosofica. Ciò non significò la riduzione della filosofia all’etica ma certamente la
finalizzazione etica delle altre branche della filosofia (fisica, logica) e soprattutto la
rinuncia alla metafisica. In altre parole, la filosofia ellenistica, in quanto centrata sull’etica,
fu altresì una filosofia dell’immanenza, una filosofia che individuava la realizzazione
dell’uomo nella dimensione terrena dell’individuo e del piccolo gruppo di amici.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il privilegiamento della dimensione individuale si abbinò all’esaltazione dell’interiorità
razionale, ovvero della “spiritualità”, e alla svalutazione dell’esteriorità corporea e
materiale. Ciò portò i filosofi ellenistici a elaborare per primi una tesi rivoluzionaria, quella
dell’uguaglianza spirituale – cioè soltanto interiore – di tutti gli uomini. Corollari di questa
tesi furono il cosmopolitismo – ovvero il considerarsi “cittadini del mondo” al di là di tutte
le differenze etnico-politiche –, l’antischiavismo e l’emancipazione femminile.
Questi nuovi valori etici sono indici quanto mai emblematici della radicalità della
rivoluzione culturale ellenistica.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
Meneceo,
non si è mai troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A
qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’anima. Chi sostiene che non
è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai è
troppo tardi, è come se andasse dicendo che non è ancora il momento di
essere felice, o che ormai è passata l’età. Da giovani come da vecchi è giusto
che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per sentirci sempre giovani
quando saremo avanti con gli anni in virtù del grato ricordo della felicità
avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per prepararci a non temere
l’avvenire. Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché
quando essa c’è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per averla.
Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali
per una vita felice. Prima di tutto considera l’essenza del divino materia
eterna e felice, come rettamente suggerisce la nozione di divinità che ci è
innata. Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o
contrario a tutto ciò che è felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto
alla felicità. Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono come crede la
gente comune, la quale è portata a tradire sempre la nozione innata che ne ha.
Perciò non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare, ma colui che i giudizi
del popolo attribuisce alla divinità.
Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni
false. A seconda di come si pensa che gli dei siano, possono venire da loro le
più grandi sofferenze come i beni più splendidi. Ma noi sappiamo che essi
sono perfettamente felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo
considerano estraneo. Poi abituati a pensare che la morte non costituisce
nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel
sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. L’esatta coscienza che la
morte non significa nulla per noi rende godibile la mortalità della vita,
togliendo l’ingannevole desiderio dell’immortalità.
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da
temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della
morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la
sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente
atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste
per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi.
Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come
requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi
sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il
più dolce. Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il vecchio a ben morire
è stolto non solo per la dolcezza che c’è sempre nella vita, anche da vecchi, ma
perché una sola è l’arte del ben vivere e del ben morire. Ancora peggio chi va
dicendo: bello non essere mai nato, ma, nato, al più presto varcare la porta
dell’Ade.
Se è così convinto perché non se ne va da questo mondo? Nessuno glielo vieta
se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per dire fa meglio a
cambiare argomento. Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto nostro,
ma neanche del tutto non nostro. Solo così possiamo non aspettarci che
assolutamente s’avveri, né allo stesso modo disperare del contrario. Così pure
teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono
naturali, altri sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari,
altri naturali soltanto. Ma fra i necessari certi sono fondamentali per la
felicità, altri per il benessere fisico, altri per la stessa vita.
Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondurre ogni scelta o rifiuto al
benessere del corpo e alla perfetta serenità dell’animo, perché questo è il
compito della vita felice, a questo noi indirizziamo ogni nostra azione, al fine
di allontanarci dalla sofferenza e dall’ansia. Una volta raggiunto questo stato
ogni bufera interna cessa, perché il nostro organismo vitale non è più
bisognoso di alcuna cosa, altro non deve cercare per il bene dell’animo e del
corpo. Infatti proviamo bisogno del piacere quando soffriamo per la
mancanza di esso. Quando invece non soffriamo non ne abbiamo bisogno.
Per questo noi riteniamo il piacere principio e fine della vita felice, perché lo
abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito. Ad esso ci ispiriamo per
ogni atto di scelta o di rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento del
piacere e del dolore. E’ bene primario e naturale per noi, per questo non
scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tralasciarne alcuni da cui può
venirci più male che bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai piaceri
stessi se un piacere più grande possiamo provare dopo averle sopportate a
lungo. Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li
scegliamo tutti. Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non tutti sono
sempre da fuggire.
Bisogna giudicare gli uni e gli altri in base alla considerazione degli utili e dei
danni. Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela per noi un male, invece
il male un bene. Consideriamo inoltre una gran cosa l’indipendenza dai
bisogni non perché sempre ci si debba accontentare del poco, ma per godere
anche di questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che
l’abbondanza si gode con più dolcezza se meno da essa dipendiamo. In fondo
ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
I sapori semplici danno lo stesso piacere dei più raffinati, l’acqua e un pezzo
di pane fanno il piacere più pieno a chi ne manca. Saper vivere di poco non
solo porta salute e ci fa privi d’apprensione verso i bisogni della vita ma
anche, quando ad intervalli ci capita di menare un’esistenza ricca, ci fa
apprezzare meglio questa condizione e indifferenti verso gli scherzi della
sorte. Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il
semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro
pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma quanto aiuta il corpo a
non soffrire e l’animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e
donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la
dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto,
al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di
immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza,
perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte
le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che
sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché
le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
Chi suscita più ammirazione di colui che ha un’opinione corretta e reverente
riguardo agli dei, nessun timore della morte, chiara coscienza del senso della
natura, che tutti i beni che realmente servono sono facilmente procacciabili,
che i mali se affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno
a lungo vuol dire che si possono sopportare? Questo genere d’uomo sa anche
che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno alcuni,
perché le cose accadono o per necessità, o per arbitrio della fortuna, o per
arbitrio nostro. La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il
nostro arbitrio è libero, per questo può meritarsi biasimo o lode.
Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai
racconti degli dei, che almeno offrono la speranza di placarli con le preghiere,
invece dell’atroce, inflessibile necessità. La fortuna per il saggio non è una
divinità come per la massa - la divinità non fa nulla a caso - e neppure
qualcosa priva di consistenza. Non crede che essa dia agli uomini alcun bene o
male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire l’avvio a grandi
beni o mali.
Però è meglio essere senza fortuna ma saggi che fortunati e stolti, e nella
pratica è preferibile che un bel progetto non vada in porto piuttosto che abbia
successo un progetto dissennato. Medita giorno e notte tutte queste cose e
altre congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai sarai preda dell’ansia.
Vivrai invece come un dio fra gli uomini. Non sembra più nemmeno mortale
l’uomo che vive fra beni immortali.
Epicuro, Lettera a Meneceo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VII VIAGGIO
ALLA RICERCA DELLA FELICITA’ TERRENA
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
LA FELICITA’ COME RIFIUTO DELLA CIVILTA’: CINISMO ED EPICUREISMO
A partire dal IV secolo a.C., in Grecia nascono e si affermano nuove correnti filosofiche
accomunate dal concepire la filosofia come ricerca della felicità individuale. Per questo,
nella periodizzazione della filosofia antica, il lasso di tempo che va dal III secolo a.C. al
III d.C., comprendente l’età ellenistica e l’età romana, è stato denominato “periodo etico”.
Ciò non significa che i pensatori di questi secoli, con l’eccezione parziale dei cinici,
smisero di occuparsi di fisica, conoscenza, logica, bensì significa che essi subordinarono
la ricerca in campo fisico, gnoseologico e logico alla ricerca etica, cioè alla ricerca del
modo di vivere e dei comportamenti capaci di garantire la felicità all’uomo in quanto
individuo. In altre parole, le teorie fisiche, gnoseologiche e logiche furono concepite come
strumenti della teoria etica in nome del primato della vita pratica sulla vita teoretica.
Tuttavia, rispetto al periodo precedente, quello di Platone e Aristotele, i nuovi filosofi etici
archiviarono la ricerca metafisica, in quanto convinti dell’inesistenza di una realtà
razionale separata dal mondo fisico, ovvero trascendente. In questo senso il primato
della vita pratica, da loro sostenuto, si abbina alla tesi dell’unicità della dimensione
materiale, cioè immanente, e la felicità viene concepita come un obiettivo conseguibile
soltanto nel corso della vita terrena, dal momento che l’uomo è ritenuto un essere
unicamente corporeo e dunque del tutto mortale.
Il movimento cinico, nato già nel IV secolo a.C. come “scuola socratica”, cioè come
interpretazione autentica dell’insegnamento di Socrate, fu cronologicamente il primo
movimento etico e il più anticonformista. Esso, infatti, da un lato, concepisce la filosofia
come stile di vita, e dunque il filosofare non tanto come pensare e parlare, ma come agire
e comportarsi; dall’altro, segue e diffonde uno stile di vita decisamente controcorrente –
rispetto alle tradizioni, alle convinzioni sociali e perfino alle leggi statali – ispirato al
comportamento degli animali e imperniato su una vita povera, vagabonda, sregolata e
politicamente del tutto disimpegnata. In tal senso i cinici pensano che il segreto della
felicità sia l’assoluta libertà individuale.
La scuola epicurea condivide il rifiuto cinico della civiltà, ma lo declina in modo più
moderato. Gli epicurei, innanzitutto, valorizzano, seppur parzialmente e
strumentalmente, la vita teoretica, e quindi anche la ricerca scientifica, e, in secondo
luogo, propongono e praticano un modello di vita basato su piccole comunità residenziali
e sul soddisfacimento moderato e razionalmente guidato dei bisogni e dei desideri.
Infatti, per gli epicurei, la felicità coincide con il piacere autentico.
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VITE DI CAPITANI
ANTISTENE, DIOGENE, EPICURO
Fondatore della scuola cinica fu Antistene, figlio di un ateniese e di una tracia (cioè di
una “barbara”), vissuto tra la fine del V sec. e l’inizio del IV, che fu inizialmente discepolo
di Gorgia e poi di Socrate, da cui riprese e di cui radicalizzò il motivo conduttore del
cinismo, ovvero l’autosufficienza individuale come fondamento della libertà. La
denominazione di “cinismo” (da kunismós, “imitazione dei cani”) pare sia nata dal fatto
che Antistene insegnava nel ginnasio detto Cinosarge (cane agile). In seguito, lui e i suoi
discepoli furono chiamati “cinici” perché rifiutavano la civiltà e proponevano di vivere in
modo del tutto naturale, come i cani.
Ma il più significativo e famoso rappresentante del cinismo antico fu Diogene che fece
proprio apertamente e provocatoriamente l’appellativo “il Cane” e fu anche chiamato “il
Socrate pazzo”. Nato a Sinope, figlio di un banchiere, forse banchiere egli stesso, fuggì dalla
sua città per evitare la condanna come falsario. Visse ad Atene, dove divenne discepolo di
Antistene, e a Corinto, dove morì forse nel 323 a.C., nello stesso anno di Alessandro il
Grande. Di Diogene è stato tramandato che viveva in una botte e di giorno andava in giro
con una lanterna accesa dicendo: “Cerco l’uomo”. Ma l’aneddoto più rappresentativo della
sua filosofia di vita è quello del suo incontro con Alessandro il quale, attirato dalla sua
fama di sapiente, volle avvicinarlo e gli offrì di dargli tutto quello che avrebbe chiesto, al
che Diogene, che stava prendendo il sole, rispose: “Lasciami il mio sole”, ovvero: “Togliti
di lì, che mi fai ombra”. Nessuno degli scritti di Diogene ci è pervenuto.
Epicuro, fondatore ed eponimo dell’epicureismo, nacque a Samo da padre ateniese.
Allievo di filosofi prima platonici e poi democritei, intorno al 307 a.C. fondò la sua scuola chiamata “il Giardino” perché si trovava nella compagna fuori porta di Atene - aperta a
tutti compresi schiavi, donne e perfino ex prostitute. Il Giardino fu una comunità di vita e
un modello sociale alternativo ed Epicuro più che un filosofo fu ben presto considerato una
sorta di profeta o di “salvatore” dell’umanità (in modo simile all’indiano Gothama
Siddharta, chiamato Buddha, cioè “risvegliato”). Si tramanda che scrisse circa 300 opere,
ma –anche a causa dell’anatema culturale scagliato contro di lui dalla chiesa cristiana – a
noi sono giunti soltanto alcuni frammenti, 3 lettere (A Meneceo, A Erodoto, A Pitocle) e 2
raccolte di massime.
300
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
I CINICI: LA FELICITA’ E’ LIBERTA’ INDIVIDUALE
Talvolta [i cinici] si cibano soltanto di erbaggi e in ogni modo bevono soltanto
acqua fresca; ogni alloggio è buono, anche una botte, in cui viveva Diogene, il
quale era solito dire che è proprio degli dèi non aver bisogno di nulla, di chi è
simile agli dèi aver bisogno di poco.
Diogene Laerzio, VI, 66
Lodava [Diogene] quelli che stavano per sposarsi e non si sposavano, quelli
che stavano per intraprendere un viaggio e vi rinunciavano, quelli che stavano
per dedicarsi alla vita politica e non vi si dedicavano, quelli che volevano
crearsi una famiglia e non se la creavano, e quelli che si accingevano a vivere
insieme con i potenti e poi se ne astenevano.
Diogene Laerzio, VI, 29
Ammetteva [Diogene] la comunanza delle donne, non riconosceva il
matrimonio, la convivenza concordata fra uomo e donna. In conseguenza,
anche i figli dovevano essere comuni.
Diogene Laerzio, VI, 72
Alla base del cinismo vi è una duplice rivoluzione filosofica. In primo luogo, i cinici
concepiscono la filosofia come “miglior modo di vivere”, cioè come modello di vita
effettivamente praticato. In altre parole, per i cinici, la filosofia non è teoria ma pratica, un
insieme coerente di comportamenti, e la stessa comunicazione filosofica altro non è che
descrizione verbale e argomentazione razionale di un modo di vivere. L’unico che permetta
di conseguire il vero bene: la felicità.
Anzi, in questa prospettiva, il linguaggio filosofico più appropriato è quello gestuale e
l’argomentazione filosofica più coerente ed efficace è l’esempio comportamentale:
possedere solo un mantello, una bisaccia e un bastone, abitare in una botte, girare di
giorno con la lanterna, entrare a teatro al termine dello spettacolo, sbeffeggiare o
addirittura maltrattare i ricchi e i potenti.
Il secondo aspetto rivoluzionario del cinismo è il rifiuto della civiltà e della cultura in nome
del ritorno alla dimensione di vita naturale. Questa drastica posizione è la conseguenza
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
della scelta della libertà individuale come valore fondamentale e anzi assoluto dell’uomo.
In altri termini, secondi i cinici l’uomo si realizza solo se è un individuo assolutamente
libero, ossia la libertà individuale è sinonimo di felicità e viceversa. Ma come si fa allora a
essere individui assolutamente liberi? La risposta dei cinici è: conseguendo l’autarchia,
l’autosufficienza, ovvero bastando a se stessi e facendo sì che nulla di esterno a sé sia
indispensabile alla propria vita.
In questo senso, Diogene sostiene che bisogna assumere come modello gli animali, e più
precisamente un topo che corre qua e là senza alcuna meta. Ciò significa rifiutare la civiltà
a un duplice livello:
1. sia nei suoi aspetti materiali, dai cibi cotti e dal vino alle abitazioni, ai letti, alle
calzature, insomma a tutte le invenzioni e le tecniche con cui gli uomini si sono resi la
vita più comoda e agiata;
2. sia nei suoi aspetti sociali, politici, religiosi e ideali, dal matrimonio allo Stato, ai doveri
civici, al galateo, ai riti religiosi, all’avere un scopo.
Per i cinici, infatti, questi aspetti della civiltà sono altrettante catene che imprigionano
l’individuo e gli impediscono di essere libero e quindi felice. Apparentemente lo agevolano
e gli rendono la vita più piacevole, ma in realtà alla lunga l’individuo ne viene fiaccato e
debilitato, si assuefà ad essi e ne diventa dipendente, non ne può più fare a meno e in
questo modo perde la sua libertà diventando sempre più infelice.
Proprio la condizione di assuefazione agli agi e ai piaceri, e quindi di infiacchimento e
schiavizzazione, cui la civiltà ha condotto gli uomini, rende necessarie l’adozione e la
pratica sistematica di un metodo di autoliberazione imperniato sull’esercizio della fatica.
In altre parole, per raggiungere l’autarchia, e con essa la libertà/felicità, l’individuo deve
allenarsi in modo continuo e progressivo a “faticare”, cioè a fare a meno degli agi e dei
piaceri fisici e psichici, ad apprezzare la frugalità e la rudezza della vita naturale e a
sopportarne le asprezze.
In questo senso, il cinismo nega l’esistenza di virtù innate e di predisposizioni elettive,
ovvero di qualsiasi forma di superiorità congenita, per nascita. Per i cinici, insomma,
campioni si diventa, non si nasce, ossia ogni uomo può realizzarsi grazie all’ “esercizio”,
cioè all’impegno e al merito personali. Ciò è comprovato, sostengono i cinici, dal fatto che i
bravi artigiani, così come i grandi artisti o anche gli atleti più valenti sono tali unicamente
grazie ad anni e anni di assiduo e intenso esercizio.
Il metodo di decondizionamento dai vincoli della civiltà ha come obiettivo il
raggiungimento di una pratica completa della libertà individuale. Da questo punto di vista,
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secondo i cinici la libertà autentica ha due aspetti essenziali: la libertà di parola e la libertà
d’azione.
La “libertà di parola” consiste, per così dire, nel non aver peli sulla lingua, ossia nell’essere
sempre schietti e franchi, anche e soprattutto quando si deve comunicare qualcosa di
spiacevole per l’altro. E’ evidente che la libertà di parola implica a monte, e quindi include,
la libertà di pensiero, la libera opinione, ovvero la capacità di pensare in modo personale,
originale, anticonformistico e critico. Si tratta di un principio che acquista tanto più
significato e spessore in quanto, per i cinici, deve essere praticato senza lasciarsi limitare
dal pietismo nei confronti degli altri e soprattutto senza lasciarsi intimidire qualora
colpisca sapienti, ricchi o potenti.
La “libertà d’azione” consiste, invece, nel comportarsi, per così dire, anarchicamente, ossia
senza rispettare alcuna regola o convenzione sociale. Ciò può significare, per esempio,
mangiare nella piazza del mercato così come orinare, defecare, masturbarsi o anche avere
rapporti sessuali quando e dove si vuole, anche in un luogo pubblico. La libertà d’azione,
dunque, ha per i cinici un significato radicale, per non dire estremo, che si fonda e si
giustifica, da un lato, in base al modello del comportamento istintivo, spontaneo e
deregolamentato degli animali; e, dall’altro, in nome della critica all’artificialità e al
relativismo delle norme e delle convenzioni sociali.
Obiettivo polemico privilegiato della libertà di parola e d’azione dei cinici è l’amore.
Secondo i cinici, infatti, non solo bisogna rifiutare il matrimonio, in quanto istituzione
imposta dalla società in contrasto con gli istinti naturali, ma anche lo stesso sentimento
amoroso, in quanto illusione generata dal bisogno di piacere sessuale e causa della
dipendenza nei confronti di un altro individuo, ovvero in entrambi i casi fonte di schiavitù
e quindi di infelicità.
Riguardo alla pratica del rapporto tra uomini e donne, i cinici, però, si differenziano.
Alcuni praticano la rinuncia a qualsiasi rapporto stabile con un’altra donna; altri accettano
un rapporto continuativo, ma non esclusivo, con una donna, purché questa aderisca al
cinismo, cioè viva in tutto e per tutto da cinica; altri ancora, infine, praticano il rapporto
sessuale come mero soddisfacimento di un bisogno naturale, privo di qualsiasi
componente sentimentale.
Il rifiuto dell’amore da parte del cinismo è emblematico della sua posizione riguardo alla
sfera psichico-emotiva. Le emozioni sono considerate potenziali “passioni”, ovvero forze
psichiche capaci di rendere l’individuo dipendente da oggetti o da persone o anche da
credenze e ideali. In questo senso, il cinismo identifica la libertà con l’ “apatia” – cioè con
l’impassibilità, l’assenza di passioni – e considera l’apatia condizione necessaria e
ingrediente essenziale della felicità.
303
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma come si mantengono i cinici? Escluso il lavoro, in quanto innaturale, mero prodotto
della civiltà, i cinici vivono dei frutti spontanei della natura e soprattutto di elemosina. Ma
essi considerano le elargizioni ricevute come qualcosa di loro dovuto. Infatti, da un lato le
ritengono il giusto riconoscimento della propria funzione filosofica di modelli viventi di
vita; dall’altro sostengono che ogni cosa appartiene agli dei e che i filosofi, in quanto amici
degli dei, possono disporre di ogni cosa.
In questo senso, la maggior parte dei cinici, pur rigettando riti e credenze religiosi, non
negano l’esistenza di divinità. Tra questi, alcuni credono in un unico dio. Tuttavia, altri
cinici sostengono, più o meno apertamente, l’ateismo.
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TAPPA 2
EPICURO: LA FELICITA’ E’ IL PIACERE QUIETO
Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai
piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento – come ritengono
alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente
–, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono, infatti, le
bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne,
né il gustare pesci e altre cibarie quante ne porta una tavola riccamente
imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento
assennato, che esamina le cause di ogni scelta e rifiuto, e che elimina le
opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime.
Epicuro, Epistola a Meneceo
Epicuro concepisce e pratica la filosofia come una terapia psicologica finalizzata a
conseguire la felicità individuale. In questo senso la filosofia epicurea si propone come un
“quadrifarmaco”, cioè come una cura delle quattro fondamentali malattie della mente
umana:
1) la paura degli dei;
2) la paura della morte;
3) la paura del dolore;
4) la paura della frigidità, cioè dell’incapacità di provare piacere.
Dunque, la filosofia, per Epicuro, è l’attività teorica e pratica capace di liberare l’uomo
dalle paure infondate e di permettergli così di provare il piacere, condizione necessaria e
suffciente della felicità.
Per Epicuro, la realtà è totalmente materiale. La materia è composta da infiniti
“indivisibili” (àtoma), cioè da particelle minime non riducibili, che si muovono a causa del
loro peso, ovvero “cadono” nello spazio vuoto infinito. Di conseguenza i loro moti sono
originariamente rettilinei e paralleli. Tuttavia, essi si scontrano tra loro perché talvolta
deviano casualmente dalla loro traiettoria rettilinea. Gli scontri tra indivisibili provocano la
loro aggregazione che porta alla formazione di infiniti mondi e di infiniti esseri naturali.
Tutti i processi fisici sono effetti di moti di aggregazione, disgregazione e riaggregazione
degli indivisibili. Dunque, l’universo si è formato e funziona in modo del tutto autonomo,
cioè in base a leggi causali di natura. Queste, però, non sono non di tipo deterministico, dal
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momento che le catene di rapporti di causa ed effetto a volte sono interrotte da eventi
casuali.
Nonostante non abbiano alcun ruolo nella formazione e nel funzionamento dell’universo,
gli dei esistono, afferma Epicuro. Secondo lui, infatti, tutte le immagini presenti nella
mente umana derivano dall’esperienza sensibile. Questa è infallibile, in quanto consiste
nell’impronta che gli oggetti esterni producono sui nostri sensi. Tale impronta o è diretta,
come quando tocchiamo qualcosa, o è indiretta, come quando vediamo qualcosa. In questo
caso l’organo di senso è colpito dagli invisibili micromodelli materiali che tutte le cose
emanano in continuazione.
Poiché tutti gli uomini hanno immagini mentali degli dei esse derivano necessariamente
dall’impronta dei micromodelli degli dei sui nostri sensi. Dunque gli dei esistono e sono
materiali. La materia di cui sono fatti è capace di rigenerarsi e dunque sono esseri
immortali. Però gli dei non governano il cosmo né si occupano in alcun modo degli uomini.
Infatti, sostiene Epicuro, in caso contrario, l’esistenza del dolore umano comporterebbe
che gli dei siano o malvagi o impotenti, il che è assurdo in quanto in contraddizione con la
nozione di dio.
Da questa concezione fisica, conseguono due decisive verità:
a) nessun uomo deve temere punizioni divine e nemmeno aspettarsi favori da parte degli
dei;
b) la vita di ogni uomo non è determinata né dagli dei, né dalle leggi fisiche, ma soltanto
dalla libera scelta di ogni individuo, che quindi, in qualsiasi momento, ha la facoltà di
modificare la propria condizione esistenziale per conquistare la felicità.
Per riuscirci, secondo Epicuro, l’uomo, una volta liberato dalla paura degli dei, deve
liberarsi anche dalla paura della morte. La terapia della paura della morte parte dalla tesi
della materialità di tutto ciò che esiste, compresa l’anima (psyché), cioè il principio della
vita, anch’essa composta di indivisibili che differiscono da quelli corporei solo perché sono
più piccoli e mobili. Dunque anche l’anima nasce per aggregazione di indivisibili e muore
per la loro disgregazione. Di conseguenza, con la morte del corpo, l’anima non inizia una
seconda vita ultraterrena ma smette completamente di esistere. Morire, pertanto, sostiene
Epicuro, non può significare soffrire. Infatti, per soffrire dobbiamo essere sensibili e
coscienti. Ma nel momento in cui moriamo, sensibilità e coscienza si annullano, in quanto
la morte consiste nella disgregazione degli indivisibili che compongono tutte le parti
dell’individuo, compresa l’anima, ossia la coscienza. In questo senso Epicuro dichiara che
fin quando esistiamo la morte non c’è e quando arriva non esistiamo più noi. In altre
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parole, secondo Epicuro la morte è per definizione un’esperienza impossibile, ossia una
non-esperienza, e dunque è del tutto insensato temerla.
Ancora più semplice, per Epicuro, è liberarsi dalla paura del dolore. Basta infatti
considerare che il dolore può essere o leggero o intenso. Nel primo caso è facile
sopportarlo; nel secondo non può che essere breve.
Infatti un forte dolore non può che essere conseguenza di un grave stato patologico del
corpo. Pertanto o l’organismo si rimette rapidamente oppure muore. In entrambi i casi il
dolore cessa presto, e dunque è facilmente sopportabile.
L’eliminazione delle paure degli dei, della morte e del dolore è la condizione necessaria ma
non sufficiente per il conseguimento della felicità. Per essere felici, afferma Epicuro,
occorre procurarsi il piacere. Sembrerebbe un obiettivo facile da raggiungere, ma in realtà
non è così perché la maggior parte degli uomini si lascia ingannare da piaceri apparenti che
in realtà sono dolori mascherati. Qual è allora il piacere autentico e come si può
riconoscerlo?
Chiarito preliminarmente che qualsiasi tipo di piacere ha un fondamento fisico-sensibile,
Epicuro risponde stabilendo innanzitutto i due requisiti indispensabili del vero piacere:
a) l’analgesia, cioè l’assenza di dolore fisico;
b) l’imperturbabilità, cioè l’assenza di dolore psichico.
In secondo luogo, Epicuro distingue 2 modalità di piacere:
1) il piacere movimentato (o dinamico), cioè il piacere che si prova nel momento in cui si
soddisfa un bisogno/desiderio, p.e. mentre si beve un bicchiere d’acqua o si mangia
una fetta di torta;
2) il piacere quieto (o statico), cioè il piacere che si prova dopo aver completamente
soddisfatto un bisogno/desiderio, ovvero la condizione dell’appagamento, p.e. sentirsi
dissetati o sazi.
Su queste basi, Epicuro sostiene che il piacere autentico è il piacere quieto, in quanto esso
possiede al massimo grado i requisiti dell’analgesia e dell’imperturbabilità. Infatti, il
piacere movimentato da un lato comporta sempre un certo grado di bisogno e dunque di
sofferenza psico-fisica; dall’altro tende a prolungare illimitatamente il godimento
danneggiando l’equilibrio psico-fisico. P.e., mentre mangio la fame non si è ancora del
tutto placata e se proseguo a mangiare illimitatamente non potrò che stare male.
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D’altra parte senza il piacere movimentato non si può raggiungere il piacere quieto.
Dunque, afferma Epicuro, il piacere movimentato va perseguito ma considerandolo e
godendolo solo come mezzo per conseguire il fine del piacere quieto. In questo modo il
piacere movimentato viene limitato e reso funzionale al raggiungimento della condizione
di appagamento, cioè di assenza di dolore.
Ma come si fa a finalizzare il piacere movimentato al piacere quieto? Epicuro risponde
fornendo una ricetta dettagliata sulla base della seguente classificazione dei bisogni umani:
1) bisogni naturali e necessari, cioè i bisogni psico-fisici fondamentali, indispensabili alla
sopravvivenza, p.e. mangiare, dissetarsi, vestirsi, ripararsi, avere amici, ecc.;
2) bisogni naturali ma non necessari, cioè i bisogni psico-fisici superflui, derivanti dalla
sofisticazione dei bisogni naturali, p.e. mangiare cibi raffinati e gustosi, bere vini
pregiati, indossare bei vestiti, avere rapporti sessuali, ecc.
3) bisogni artificiali, cioè bisogni che non hanno alcun legame con la nostra costituzione
psico-fisica, ma che sono indotti dalle convenzioni sociali, p.e. la ricchezza, la fama, la
gloria, il potere politico, l’immortalità, ecc.
Per conseguire e mantenere il piacere quieto, ovvero l’analgesia e l’imperturbabilità,
secondo Epicuro, bisogna sodddisfare sempre e completamente i bisogni naturali e
necessari; raramente e in modo controllato i bisogni naturali ma non necessari; mai e in
nessuna misura i bisogni artificiali.
Tra i bisogni artificiali spicca quello di immortalità. Epicuro si impegna in modo
particolare a dimostrarne l’insensatezza. Egli sostiene che il vero piacere, cioè il piacere
quieto, ovvero l’appagamento, è qualcosa di finito, limitato, non suscettibile di incremento.
In altre parole, quando l’individuo raggiunge il piacere quieto lo prova immediatamente al
massimo grado possibile e dunque non può goderne di più né quantitativamente né
qualitativamente.
A un piacere e quindi a una felicità finiti non può che corrispondere una vita finita. La vita
mortale infatti è più che sufficiente a permetterci di gustare tutto il piacere possibile,
mentre una esistenza infinita sarebbe inutile e insensata dal momento che non potrebbe
farci raggiungere un grado di felicità maggiore. Il bisogno di immortalità è dunque per
Epicuro un falso bisogno, un bisogno artificiale, del quale ogni uomo deve liberarsi.
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VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
EPICURO E LA FISICA QUANTISTICA
Secondo Epicuro, gli “indivisibili”, di cui sono composte tutte le cose, sono dotati di un
movimento rettilineo che, tuttavia, del tutto casualmente e quindi imprevedibilmente, a
volte può avere una improvvisa deviazione. Per questo la fisica materialisticomeccanicistica di Epicuro, a differenza di quella di Democrito, si può, a buon ragione,
definire indeterministica.
In questo senso, la fisica epicurea ha trovato una conferma con la fisica quantistica, nata
all’inizio del 1900 e sviluppatasi nel corso del secolo successivo fino ai giorni nostri. Essa
sostiene che l’energia, che costituisce la materia, è composta da unità minime – dette
“quanti” di energia – le quali si muovono in modo irregolare e imprevedibile, tanto da
poter essere considerate in più luoghi contemporaneamente.
In particolare, sulla base degli esperimenti relativi al comportamento dei quanti, il fisico
quantista Heisenberg nel 1927 formulò il principio di indeterminazione, secondo il quale
la precisione nella misurazione della posizione di un quanto è inversamente
proporzionale a quella nella misurazione della sua velocità, per cui è impossibile
calcolare precisamente lo stato fisico di un quanto.
In seguito il principio di indeterminazione fu interpretato da alcuni scienziati come una
proprietà oggettiva dei quanti – ovvero in sintonia con la fisica epicurea – da altri, tra
cui Einstein, come un limite soggettivo delle capacità conoscitive dell’uomo. Gli
esperimenti più recenti hanno avvalorato l’interpretazione oggettivistica. Va tuttavia
chiarito che il comportamento quantistico è attribuito solo alle particelle elementari, non
ai corpi macroscopici, benché questi siano aggregati di particelle elementari.
Come questo sia possibile è l’enigma principale della fisica contemporanea.
Per approfondimenti: Robert Gilmore, Il quanto di Natale, Cortina 1999
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ROTTA SU…
FELICITA’ COME ADATTAMENTO AL DESTINO RAZIONALE: LO STOICISMO
Rispetto agli epicurei e ai cinici, gli stoici assumono un atteggiamento di accettazione,
seppur condizionata, della civiltà, ovvero delle tradizioni, delle convenzioni sociali e delle
leggi statali. Essi, infatti, rivisitando le filosofie dei primi cosmologi, in particolare di
Eraclìto, pensano che ogni aspetto e ogni evento della realtà siano determinati in modo
necessario da una legge razionale divina che realizza un bene sempre maggiore fino al
raggiungimento della perfezione. Poiché è dotato di una mente razionale, l’uomo è l’unico
essere che può e deve comprendere la legge razionale divina e adattarsi intenzionalmente
ad essa. Data questa impostazione, è evidente che gli stoici valorizzano la condizione
civile dell’umanità e quindi prescrivono di ottemperare a tutti i doveri sociali e politici.
Tuttavia, gli stoici ammettono che la razionalità della legge divina include eventi
momentanei irrazionali, ossia ingiusti o dolorosi, benché comunque positivi nel lungo
periodo in quanto mezzi necessari per raggiungere un maggior grado di razionalità.
Come antidoto all’ingiustizia e al dolore momentanei, essi propugnano il rifugio
nell’interiorità della mente, cioè il libero esercizio del pensiero, che niente e nessuno può
impedire e che è immune alle sofferenze corporali. Sviluppando questo atteggiamento, gli
stoici praticano l’adattamento alle convenzioni sociali e alle leggi statali come mera
rappresentazione teatrale, cioè come finzione, affermando che lo stoico deve recitare il
suo ruolo sociale come un attore, cioè mantenendo un completo distacco interiore dalla
parte recitata. In questo modo, gli stoici sono convinti che si possano accettare
impassibilmente anche le peggiori disgrazie.
D’altra parte, in condizioni di estrema e improduttiva sofferenza, gli stoici proclamano il
ricorso al suicidio.
310
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITE DI CAPITANI
ZENONE, CLEANTE, CRISIPPO
La prima scuola stoica, cioè lo stoicismo antico, ebbe tre maestri: Zenone, Cleante e
Crisippo.
Zenone, il fondatore, nacque a Cizio, sull’isola di Cipro, intorno al 335 a.C. da genitori
fenici e si trasferì ad Atene poco più che ventenne. Ci è stato tramandato che in una bottega
di libri, udì leggere un passo dei Memorabili di Senofonte sul comportamento di Socrate.
Ammaliato, Zenone chiese dove poteva trovare uomini come Socrate e gli fu indicato il
cinico Cretete, di cui effettivamente si fece discepolo. Intorno al 300, Zenone aprì la
propria scuola, collocata nella stoà poikìle (“portico dipinto”), il grande portico pubblico
vicino all’agorà (piazza centrale) ateniese. Anche con questa collocazione nel centro della
più grande città greca, Zenone si differenziò da Epicuro, che aveva scelto di vivere fuori
delle mura, e dai cinici, che vagabondavano senza fissa dimora.
Vittima di un male incurabile e doloroso, Zenone si diede volontariamente la morte nel 262
a.C. Nonostante fosse straniero, in onore alla sua filosofia, fu seppellito nel cimitero di
Atene, a spese della pòlis e con una cerimonia pubblica ufficiale.
Delle sue opere, andate tutte perdute, ci rimangono solo testimonianze indirette.
Cleante nacque a Asso, nella Troade. Una testimonianza ci ha tramandato che
inizialmente svolse l’attività di pugile. Trasferitosi ad Atene divenne allievo di Zenone e si
mantenne lavorando di notte come portatore d’acqua. Alla morte di Zenone, Cleante gli
successe come caposcuola, ma volle continuare a lavorare per mantenersi. Nel 232, a 99
anni, decise di lasciarsi morire digiunando, a causa, sembra, di una grave ulcera.
Della sua opera ci rimangono 40 versi dell’Inno a Zeus, nel quale, in forma poetica, aveva
sintetizzato la filosofia stoica. Dei numerosi trattati che scrisse ci sono rimasti solo
frammenti e testimonianze.
Crisippo nacque a Soli, nei pressi di Tarso, sulla costa meridionale dell’Anatolia, verso il
277. Forse in seguito a un dissesto economico, si traferì ad Atene dove fu prima allievo e
poi successore di Cleante. Morì tra il 208 e il 204. Ci è stato tramandato che sarebbe morto
per le risate vedendo che il suo asino, cui aveva dato del vino, cercava di mangiare dei fichi.
Delle sue numerosissime opere, circa 700, ci rimangono solo alcuni frammenti.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
GLI STOICI: IL COSMO E’ MATERIA RAZIONALE E DIVINA
O più glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente,
Zeus, signore della natura, che con la legge governi ogni cosa,
Salve; perché sei tu che i mortali han diritto d'invocare.
Da te infatti siam nati, provvisti dell'imitazione che esercita la parola,
Soli tra tutti gli esseri che vivono e si muovono sulla terra;
Così io ti celebrerò e senza sosta canterò la tua potenza.
E’ a te che tutto il nostro universo, girando attorno alla terra,
Obbedisce ovunque lo conduci, e volentieri subisce la tua forza;
Così grande é lo strumento che tieni tra le tue mani invitte,
Il fulmine a due punte, fiammeggiante, eterno.
Sotto i suoi colpi, tutto si rafferma;
Per suo mezzo reggi la Ragione universale, che attraverso tutte le cose
Circola, mista al grande astro e ai piccoli;
Grazie ad esso sei diventato così grande ed eccoti re sovrano attraverso i
[tempi.
Senza di te, o Dio, non si fa niente sulla terra,
Né nel divino etere del cielo, né nel mare,
Tranne che quel che ordiscono i malvagi nella loro follia.
Ma tu sai riportare gli estremi alla misura,
Ordinare quel che é senz'ordine, e i tuoi nemici ti divengono amici.
Perché tu hai armonizzato così bene insieme il bene e il male
Che vi é per ogni cosa una sola Ragione eterna,
Quella che fuggono e abbandonano i perversi tra i mortali,
Disgraziati, che desiderano senza sosta il possesso dei (pretesi) beni,
E non badano alla legge universale di Dio, né l'ascoltano,
Mentre, se le obbedissero con intelligenza avrebbero una nobile vita;
Da se stessi si gettano, insensati, da un male all'altro;
Questi, spinti dall'ambizione, alla passione delle contese;
Quelli, volti al guadagno, senza alcun principio;
Altri, sfrenati nella licenza e nei piaceri del corpo,
(Insaziabili) vanno da un male all'altro
E fan di tutto perché succeda loro proprio il contrario di quel che desiderano.
Ah! Zeus, benefattore universale, dai cupi nembi, signore della folgore,
Salva gli uomini dalla loro funesta ignoranza;
Dissipa questa, o padre, lungi dalle loro anime; e concedi loro di scorgere
Il pensiero che ti guida per governare tutto con giustizia,
Affinché, onorati da te, ti rendiamo anche noi grande onore,
312
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Cantando continuamente le tue opere, come si conviene
A un mortale, poiché né per gli uomini é più grande privilegio
Né per gli dèi, di cantare per sempre, nella giustizia, la legge universale.
Cleante, Inno a Zeus
Come ben sai i nostri Stoici sostengono questo: in natura esistono due realtà
dalle quali tutto deriva, la causa e la materia. La materia giace immobile,
come un essere pronto a ogni trasformazione, e però di per sé sarebbe inerte
se qualcosa non la muovesse. Invece, la causa, cioè la Ragione, dà forma alla
materia e la trasforma in tutto ciò che vuole, producendo a partire da essa gli
esseri più diversi. Deve esistere, quindi, un “ciò da cui” le cose si generano, e
un “ciò a causa di cui” le cose si generano: quest’ultimo è la causa, il primo è
la materia.
Seneca, Epistole, 106, 2
Secondo gli stoici, il cosmo è una realtà unicamente materiale organizzata, governata e
perennemente trasformata da una legge razionale unica, la Ragione. Infatti la materia che
costituisce ogni cosa possiede due aspetti, opposti ma complementari:
1) un aspetto passivo, irrazionale e informe che costituisce il sostrato ovvero la
consistenza fisica di ogni cosa;
2) un aspetto attivo, razionale e formativo che costituisce il principio dell’organizzazione
e del mutamento di ogni cosa.
L’aspetto attivo, o Ragione, è ulteriormente connotato dagli stoici come Soffio infuocato,
cioè come una sorta di vento caldo. In questo modo gli stoici, pur ribadendone la natura
materiale, ne evidenziano la specificità, ovvero il carattere per così dire microscopico, e
quindi impercettibile. In altre parole il Soffio consiste in una materia talmente sottile e
rarefatta da renderlo invisibile, impalpabile e imponderabile.
Il principio del cosmo, in senso proprio, è il Soffio/Ragione. Il Soffio/Ragione è infatti
eterno e, in origine, è l’unico essente, a uno stato puro, concentrato e indifferenziato. In
questo senso il Soffio/Ragione è chiamato dagli stoici Dio, benché non sia da loro inteso
come una persona ma come una legge impersonale. Il cosmo, dunque, secondo gli stoici, è
il prodotto della trasformazione di Dio/Soffio/Ragione. Una sua parte, infatti,
rarefacendosi ed espandendosi, diventa materia passiva. Poiché la materia passiva è
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
infinitamente divisibile, il Soffio razionale e divino è in grado di penetrarla e permearla
totalmente fino ad amalgamarsi completamente con essa.
In questo modo, il Soffio ordina e trasforma la materia passiva dal suo interno,
differenziandola innanzitutto nei quattro elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco) e poi
in tutte le cose individuali. Il passaggio dall’unità omogenea alla molteplicità eterogenea,
per gli stoici, è mediato dalle “ragioni seminali”, le parti unitarie del Dio/Soffio/Ragione,
che sono al contempo i principi generativo-organizzativi di tutte le specie di cose. Esse
infatti stabiliscono le proporzioni delle mescolanze dei 4 elementi che danno origine a ogni
tipo di essere naturale.
La compenetrazione totale di Dio/Soffio/Ragione e della materia passiva implica che
l’aspetto attivo e l’aspetto passivo della materia sono due facce della stessa medaglia, ossia
che essi sono ontologicamente una cosa sola e che il cosmo dunque è essenzialmente
unitario e omogeneo. Da questo punto di vista, la distinzione tra Dio/Soffio/Ragione e
materia passiva ha un valore soltanto conoscitivo, cioè è solo un’astrazione mentale
finalizzata alla comprensione scientifica della realtà. Insomma, gli stoici sostengono un
rigoroso panteismo, cioè pensano che Dio e cosmo/natura coincidano: ogni cosa è dunque
una parte di Dio e Dio non è altro che la totalità di tutte le cose.
L’espansione/trasformazione del Dio/Soffio/Ragione, affermano gli stoici, produce un
cosmo sferico e finito, oltre il quale c’è un vuoto infinito coincidente con il nulla. Poiché gli
elementi naturali più pesanti tendono al centro, questo è occupato dalla Terra, composta
prevalentemente di terra e acqua. La Terra è circondata dall’aria e la restante parte del
cosmo, la regione celeste, è composta unicamente di fuoco, l’elemento naturale più simile
al Soffio divino e razionale. In questo senso tutti gli astri (pianeti e stelle fisse) sono esseri
intelligenti e divini, cioè divinità minori. Esse corrispondono agli dei politeistici
tradizionali, interpretati però filosoficamente come aspetti e articolazioni dell’unico grande
Dio cosmico.
Secondo gli stoici, l’alternanza di costruzione e distruzione, nascita e morte, espansione e
contrazione, è una legge naturale che si manifesta in tutte le cose. Essa è dunque una
proprietà del Soffio divino e razionale. Pertanto, l’intero cosmo, sostengono gli stoici, dopo
la sua generazione ed espansione, al termine del “grande anno”, è destinato all’esplosione e
alla contrazione. In altri termini, il cosmo tornerà alla sua condizione originaria, cioè alla
concentrazione, alla purezza e alla totale omogeneità del Dio/Soffio/Ragione.
Ma cosa avverrà dopo l’esplosione e il ritorno alla condizione originaria? Tutto ricomincerà
da capo, rispondono gli stoici. Insomma, all’esplosione/contrazione del cosmo seguirà una
sua nuova generazione/espansione fino a una nuova esplosione/contrazione e così via in
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
eterno. Soprattutto, però, secondo gli stoici, ogni nuova fase di generazione/espansione si
realizzerà allo stesso modo di tutte quelle precedenti e successive. In altre parole ogni volta
si genereranno le stesse cose e si ripeteranno per filo e per segno gli stessi eventi. P.e.,
rinascerà lo stesso Socrate, che comincerà a chiedere a tutti gli ateniesi “che cos’è … ?”, che
sarà processato e infine morità bevendo la cicuta tra i suoi più fedeli discepoli.
Ma come argomentano gli stoici la loro tesi dell’infinito ripetersi degli stessi avvenimenti?
Essi affermano innanzitutto che il cosmo e il suo divenire sono perfetti, in quanto sono
costituiti e governati dal Dio/Soffio/Ragione. Ciò significa che il numero e la varietà degli
esseri naturali e insieme il concatenarsi e il susseguirsi degli avvenimenti sono generati e
organizzati in modo tale da concorrere a un unico fine positivo, cioè producono il massimo
bene. In questa prospettiva ogni cosa e ogni evento sono dominati da un destino
ineluttabile, ovvero sono necessari e immodificabili. Ma tale destino è razionale, e come
tale è non solo finalistico ma anche provvidenziale, ovvero si attua sempre in modo tale da
produrre alla fine il maggior bene possibile per ogni essere. Gli eventi negativi, in questo
senso, sono solo apparentemente tali, in quanto sono solo mezzi transitori per realizzare
un bene maggiore.
Dunque, tutti gli eventi cosmici devono ripetersi eternamente in quanto anche il minimo
cambiamento per gli stoici equivarrebbe a un peggioramento, cioè sarebbe irrazionale.
L’ordine finalistico necessario del cosmo si manifesta e al contempo si basa su un criterio
gerarchico. Ciò significa che il regno minerale, il regno vegetale e il regno animale
costituiscono una scala gerarchica caratterizzata dal grado decrescente della materia
passiva e dal grado crescente di materia attiva, ovvero da un sempre maggiore livello di
organizzazione razionale. Alla gerarchia dei 3 regni corrisponde la gerarchia delle varie
specie all’interno di ognuno di essi. In questa prospettiva la specie umana rappresenta il
vertice dell’ordine gerarchico di tutte le specie del mondo terrestre.
La gerarchia cosmica si connette al finalismo in quanto questo consiste nel fatto che ogni
specie gerarchicamente inferiore è finalizzata a quella superiore, cioè ha come scopo
l’esistenza di quest’ultima. Dal momento che la specie umana occupa il primo posto della
gerarchia terrena, ciò comporta che tutte le altre specie naturali siano finalizzate alla sua
esistenza. Il determinismo finalistico degli stoici ha dunque un carattere decisamente
antropocentrico. L’antropocentrismo stoico, tuttavia, trova un limite negli astri che, in
quanto divini, sono superiori all’uomo.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
LA COSMOLOGIA STOICA E LA FISICA CONTEMPORANEA
Ancor più dei principi dei primi filosofi ionici, il concetto stoico di Soffio si avvicina al
concetto fisico contemporaneo di energia, segnatamente per quanto riguarda il principio
einsteiniano della reciproca trasformabilità della massa ( materia passiva) e
dell’energia ( materia attiva).
Ancor più significativa è l’analogia tra la cosmogonia stoica e la teoria del big bang e non
solo perché entrambe sostengono l’origine nel tempo dell’universo sulla base di un moto
espansivo. Infatti la teoria stoica dell’esplosione/contrazione finale del cosmo
corrisponde a una delle tre ipotesi che i fisici contemporanei hanno elaborato a proposito
del futuro dell’universo, quella cosiddetta del big crunch. Secondo questa ipotesi
l’universo raggiunto un certo livello di espansione imploderebbe su se stesso a causa del
fatto che la forza gravitazionale attrattiva diverrebbe superiore a quella centrifuga
espansiva derivata dal big bang. Le altre due ipotesi prevedono invece o che continui a
espandersi all’infinito, disperdendosi nello spazio, o che raggiunga un equilibrio e si
stabilizzi.
Attualmente, però, è quest’ultima l’ipotesi di decorso futuro più accreditata.
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TAPPA 2
GLI STOICI: LA FELICITA’ E’ L’IMPASSIBILITA’
Per questo motivo il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo
la natura singola e la natura dell’universo, nulla operando di ciò che suole
proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per
tutto l’universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell’universo. Ed in
ciò consiste la virtù dell’uomo felice e il facile corso della vita, quando tutte le
azioni compiute mostrino il perfetto accordo del demone che è in ciascuno di
noi col volere del signore dell’universo.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro VII
Gli Stoici proclamano la comunanza delle donne tra i sapienti, sì che ogni
uomo possa avere relazione con ogni donna [...]. Ameremo così tutti i bambini
di uguale amore paterno e avrà fine la gelosia derivata dall’adulterio.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Laterza, 1976
Secondo gli stoici tutto il cosmo è permeato e guidato da Dio/Soffio/Ragione. Per essi
dunque natura e ragione, leggi naturali e leggi razionali coincidono. In altri termini la
natura è in sé stessa razionale. Da questo punto di vista, per gli stoici qualsiasi essere si
comporta bene quando segue la natura, cioè quando agisce in base al principio
natural/razionale dell’ “appropriazione”. Con questo concetto gli stoici intendono al tempo
stesso:
 l’agire che si conforma alla natura cosmica, cioè a Dio/Soffio/Ragione;
 l’agire che realizza effettivamente la natura propria di ogni essere, come specie e
come singolo.
Questi due aspetti dell’appropriazione, quello individuale e quello universale, sono
condizione e insieme conseguenza l’uno dell’altro. In altre parole, l’appropriazione, in
generale, è la tendenza di ogni cosa a conservarsi e accrescersi in rapporto all’ambiente di
cui è parte. Tale rapporto comporta sia un adattamento passivo, cioè un conformarsi agli
elementi e alle leggi dell’ambiente, sia un adattamento attivo, cioè un utilizzo/sfruttamento
dell’ambiente. Il primo è condizione del secondo.
Il principio comportamentale dell’appropriazione si declina nelle specifiche leggi naturali
di ogni regno e di ogni specie di esseri. P.e., negli animali l’appropriazione si manifesta e si
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
attua nella modalità dell’istinto. Da questo punto di vista, la specie umana si differenzia da
tutte le altre perché in essa l’appropriazione si realizza in modo coscientemente razionale.
La natura peculiare dell’uomo infatti coincide con la sua intelligenza e pertanto
appropriarsi di sé stesso per l’individuo umano significa appropriarsi innanzitutto e
soprattutto della sua intelligenza. La condizione generale perché l’uomo possa appropriarsi
della sua intelligenza è l’appropriarsi, cioè il rendersi conforme, alla ragione universale,
cioè al destino. In altre parole l’uomo deve far coincidere la propria ragione individuale con
la ragione universale che governa tutte le cose e tutti gli eventi.
Per chiarire questa loro concezione, gli stoici utilizzano l’allegoria di un cane legato a un
carro in movimento. Il cane può muoversi volontariamente nella stessa direzione del carro,
oppure può cercare di muoversi in altre direzioni piuttosto che rimanere inerte. Qualunque
cosa faccia si muoverà comunque nella direzione imboccata dal carro. Nel primo caso però
starà bene, nel secondo soffrirà o addirittura morirà. E’ appena il caso di precisare che il
carro rappresenta il destino e insieme la natura/ragione, mentre il cane l’uomo e più in
generale ogni essere naturale. L’allegoria del carro e del cane è sintetizzata da Seneca nella
massima “il destino accompagna chi lo vuole, trascina chi gli si oppone” (Ducunt volentem
fata, nolentem trahunt). L’indicazione pratica conseguente è che ogni uomo deve
comprendere con la sua ragione quale sia il corso del destino e scegliere di assecondarlo,
cioè di contribuire alla sua attuazione. Insomma la libertà umana per gli stoici consiste
nell’aderire volontariamente e attivamente al destino.
Su queste basi, a giudizio degli stoici l’appropriazione umana si realizza in due modi
fondamentali:
1) il vizio;
2) la virtù.
Vizio e virtù rappresentano rispettivamente il minimo e il massimo grado di
appropriazione. Il vizio consiste nel comportamento irrazionale, cioè nel comportamento
che non si basa sulla ragione individuale e non si conforma alla Ragione universale. Il
comportamento vizioso infatti è guidato dalle passioni, cioè dalle emozioni istintive che
l’uomo appunto patisce, ossia subisce passivamente, in quanto implicano la rinuncia
all’uso della ragione e quindi alla libera scelta volontaria. In parole semplici le passioni
rendono l’uomo schiavo, o burattino, dei suoi istinti e quindi l’uomo vizioso o malvagio è
l’uomo che si comporta meccanicamente e sotto coercizione. Al tempo stesso l’azione
viziosa o malvagia è quella più erronea e inefficace, ovvero quella che conduce prima o poi
all’infelicità.
La virtù, cioè l’appropriazione massima, coincide invece con l’uso e l’attuazione della
razionalità, cioè con il comportamento più razionale. In questo senso la virtù coincide con
l’impassibilità, cioè con uno stato d’animo lucidamente sereno perché non offuscato né
agitato da alcuna passione. Il comportamento virtuoso è dunque l’unico comportamento
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
davvero libero, dal momento che si basa sulla scelta consapevole e volontaria della ragione
che sottrae l’uomo alla schiavitù nei confronti delle passioni. Esso è al contempo il
comportamento più efficace, cioè quello capace di garantire all’uomo la felicità.
Queste definizioni generali della virtù e del vizio, nello specifico, portano gli stoici ad
accogliere le virtù filosofiche tradizionali (prudenza, moderazione, giustizia, coraggio, ecc.)
e a respingere i vizi filosofici tradizionali (viltà, ingiustizia, intemperanza, spericolatezza,
ecc.), a cui, tuttavia, aggiungono la compassione, l’umiltà e l’amore (cui contrappongono la
virtù dell’amicizia).
Tra i comportamenti virtuosi e quelli viziosi esiste, però, secondo gli stoici, una terza specie
intermedia di comportamenti che sono eticamente neutri, cioè di per sé né viziosi né
virtuosi. Tali comportamenti sono quelli relativi alle diverse condizioni materiali possibili,
p.e. la salute e la malattia, la ricchezza e la povertà, ecc. Tutte le condizioni materiali,
affermano gli stoici, sono eticamente “indifferenti”, nel senso che la scelta tra virtù e vizio
non dipende da esse. In altre parole può esserci un vizioso povero tanto quanto un vizioso
ricco, così come un virtuoso malato tanto quanto in perfetta salute fisica.
Tuttavia, una volta stabilito che l’uomo può e deve essere virtuoso quali che siano le sue
condizioni materiali, gli stoici sostengono anche che beni indifferenti quali la bellezza, la
forza, la ricchezza, la salute, la fama, il piacere, la nobiltà sono da preferire; mentre
indifferenti quali la bruttezza, la debolezza, la povertà, la malattia, il dolore, il disonore, la
volgarità sono da evitare. Di conseguenza, gli stoici chiamano “convenienti” i
comportamenti volti a conseguire, conservare e accrescere gli indifferenti preferibili e
“sconvenienti” i comportamenti opposti. Tra i comportamenti convenienti gli stoici
annoverano anche e innanzitutto i doveri sociali e politici, cioè amare i genitori e la patria,
obbedire alle leggi, svolgere le proprie funzioni civiche, ecc. In questo senso, l’etica stoica si
caratterizza come un’etica del dovere (contrapposta all’etica del piacere epicurea e all’etica
della licenza cinica).
L’ideale etico degli stoici è rappresentato dalla figura del saggio, cioè dell’uomo
stabilmente virtuoso che agisce sempre perfettamente. Il saggio gode della massima felicità
in quanto la felicità è, per così dire, una proprietà intrinseca della virtù. In altre parole la
virtù è condizione necessaria e sufficiente della felicità. Ciò comporta, da un lato, che la
felicità non può essere conquistata se non grazie alla virtù; dall’altro, che il comportamento
virtuoso non ha bisogno di alcun premio né terreno né ultraterreno. Naturalmente ciò vale
anche, simmetricamente, per il vizio: esso è la punizione di se stesso, in quanto procura
l’infelicità, e dunque non c’è bisogno per punire il malvagio di alcun castigo né umano né
divino.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nella loro valorizzazione della virtù, gli stoici giungono ad affermare che il saggio gode di
una condizione divina. Dio, infatti, è razionale, impassibile e libero, e quindi felice, non più
di quanto possa esserlo un uomo che raggiunga la virtù perfetta.
Gli stoici stabiliscono una netta linea di demarcazione tra i pochi uomini saggi e la
maggioranza degli uomini stolti. In questo senso essi sostengono una sorta di elitarismo
intellettuale ed etico che ha il suo rovescio nello sprezzo dell’uomo comune. Tuttavia gli
stoici sono i primi filosofi a sostenere apertamente e totalmente che tutti gli uomini
possono diventare saggi indipendentemente da ogni differenza di classe, di razza e di
nazionalità. Insomma per gli stoici è possibile che uno schiavo barbaro sia saggio e dunque
che egli sia il vero nobile mentre il suo padrone il vero schiavo.
Il fondamento di questa rivoluzionaria tesi è la natura uniforme della specie umana, dalla
quale consegue non solo che tutti gli uomini sono dotati della stessa capacità razionale ma
anche che esiste una legge naturale universale che spinge tutti gli uomini ad unirsi
socialmente e politicamente. In questo senso gli stoici si sentivano e si dichiaravano, prima
ancora e più che cittadini di uno stato storico, cittadini del mondo e anzi del cosmo intero,
dal momento che anche gli dei sono accomunati agli uomini dalla stessa legge naturale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
GLI STOICI: IL RAGIONAMENTO DEVE ESSERE PROPOSIZIONALE
Dicono gli Stoici che alla nascita dell’essere umano la parte direttiva [la
ragione] della sua anima è come una pergamena ben disposta ad essere
impressa dalla scrittura, e in essa viene segnata di volta in volta ogni nozione.
La prima forma di tale scrittura è la sensazione.
Aezio, Placita, libro IV, 11
Zenone questa stessa cosa la rappresentava con gesti. Mostrando
all’interlocutore in faccia la mano aperta con le dita tese, diceva: “La
rappresentazione è così”. Poi, contraendo un poco le dita: “L’assenso è così”.
Stretta poi la mano a pugno, diceva: “Questa è la comprensione”: e proprio da
questo paragone fu indotto a dare a questa un nome che prima non esisteva,
katàlepsis. Accostata poi alla destra la sinistra, e con questa afferrato
fortemente e compresso ad arte il pugno chiuso, diceva che quella era la
scienza, e che era cosa tale che nessuno, fuorché il sapiente, poteva
rendersene padrone.
Cicerone, Academica priora, libro II, 144
Dicevano che vi sono tre cose strettamente collegate l’una con l’altra, il
significato, il significante, l’oggetto vero e proprio: significante è
l’espressione, per esempio il nome “Dione”; significato la realtà che esso
indica e di cui noi abbiamo comprensione come di qualcosa che si pone di
fronte al nostro pensiero (i barbari non lo afferrano, pur intendendo il suono
materiale della voce); l’oggetto è ciò che è esterno al pensiero, in questo caso,
per esempio, Dione in carne ed ossa. Di queste cose, due sono corporee,
l’espressione vocale e l’oggetto; una, la realtà significata, è invece incorporea,
e prende appunto il nome di “significato”.
Sesto Empirico, Adversus logicus, libro II, 11
La dimostrazione, essi dicono, è un ragionamento che, attraverso premesse
convenute, per via deduttiva rivela una conclusione non evidente. Ciò che
intendono dire risulterà più chiaro da quanto segue. Ragionamento è un
insieme composto di premesse e conclusione. Si dicono premesse di esso le
proposizioni assunte di comune accordo per stabilire la conclusione;
conclusione, invece, la proposizione stabilita a partire dalle premesse. Per
esempio in questo ragionamento: “Se è giorno, c’è luce; ma è giorno, dunque
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
c’è luce”, la parte “dunque c’è luce” è la conclusione, mentre le altre sono
premesse.
Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, libro II, 135
Secondo gli stoici, come abbiamo visto, il requisito essenziale della felicità è l’impassibilità,
cioè un comportamento per nulla influenzato dalle emozioni ma dettato unicamente dalla
ragione. Solo l’esercizio della propria ragione, infatti, dà all’uomo la capacità di
comprendere la Ragione cosmica – il Pneuma-Dio – di tutte le cose e quindi gli permette di
conformare le proprie azioni ad essa, stante che la felicità consiste proprio nella sintonia
tra l’agire individuale e la Legge razionale che permea e governa tutta la realtà.
Ma l’esercizio della ragione altro non è che la ricerca conoscitiva, ossia la scienza. Pertanto,
l’attività scientifica per gli Stoici, da un lato, è lo strumento fondamentale per raggiungere
il fine etico della felicità, dall’altro è in se stessa suo conseguimento, in quanto il suo
svolgimento infonde già di per sé felicità. Data questa prospettiva, gli stoici si impegnano a
fondo nell’elaborazione della Logica, intesa in senso lato come teoria della conoscenza e,
stricto sensu, del linguaggio e del ragionamento (o argomentazione).
Il soggetto della conoscenza, sostengono gli stoici, è l’anima (psyché=respiro). Essa è
materiale come il resto del corpo ma di una materialità diversa da quella corporea, in
quanto uguale a quella finissima del Pneuma, ed è articolata in otto parti cui
corrispondono altrettante funzioni: generante, tattile, odorante, gustante, udente, vedente,
parlante e pensante. In particolare, la parte pensante dell’anima, cioè la mente o
autocoscienza razionale, è chiamata dagli stoici “egemonico”, in quanto è quella che dirige
e unifica tutte le altre. In questo senso, l’egemonico in primo luogo percepisce, cioè si
rende coscienti le sensazioni colte dai cinque sensi; in secondo luogo, dà il suo assenso alle
percezioni, discriminando tra quelle vere e quelle false; in terzo luogo, decide le azioni
corporee; e infine ragiona, cioè elabora le percezioni vere producendo conoscenza.
In ogni sua funzione, l’anima interagisce col corpo. Senza questa interazione essa non
potrebbe sentire, percepire, assentire, decidere, ragionare e generare. Questo, per gli stoici,
è l’argomento decisivo a favore della materialità dell’anima: se essa infatti fosse
immateriale non potrebbe interagire con il corpo e quindi non potrebbe svolgere le sue
funzioni. In altri termini, solo il comune denominatore materiale di anima e corpo
permette la loro indispensabile comunicazione.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Secondo gli stoici, ma solo in prima approssimazione, alla nascita la mente umana è come
un foglio bianco che in seguito viene sempre più scritto a causa delle sensazioni. Dunque
per gli stoici la sensibilità è condizione necessaria della conoscenza. Ma non sufficiente. Le
sensazioni, infatti, sono solo l’avvio del processo conoscitivo. Per esemplificarlo, gli stoici
ricorrono a un’altra similitudine, quella di una mano con le dita tese che poi si incurvano
fino a chiudersi nel pugno che infine viene avvolto e stretto dall’altra mano. L’analogia
gestuale indica che il processo conoscitivo consta di quattro momenti/operazioni:
1. la mano aperta rappresenta la sensazione, intesa come l’impronta che l’oggetto
esterno produce sul corpo, e che viene immediatamente percepita dalla mente, cioè
trasformata in “rappresentazione” (o immagine) mentale cosciente (che la memoria
può conservare);
2. la mano semichiusa rappresenta l’assenso che la mente può accordare o non
accordare alla rappresentazione a seconda che la giudichi vera o falsa;
3. la mano chiusa a pugno corrisponde alla “rappresentazione apprensiva”, cioè
all’apprendimento effettivo (anziché all’ignoranza), all’incameramento mentale, del
contenuto conoscitivo della sensazione che ha ricevuto l’assenso, ossia che è stata
giudicata vera;
4. l’unione di entrambe le mani rappresenta la scienza, intesa come accumulo ma
anche e soprattutto concatenamento, ovvero ordinamento, di rappresentazioni
apprensive.
Superficialmente, la teoria della conoscenza stoica si potrebbe classificare come
“sensismo”, dal momento che si fonda sulla sensazione. Ma, come si è visto, non tutte le
sensazioni, secondo gli stoici, sono fonte di conoscenza. In altre parole, gli stoici sono
consapevoli del carattere ingannevole di molte sensazioni (p.e. i miraggi, ma anche il
semplice movimento del Sole). E infatti, per gli stoici, l’operazione conoscitiva preliminare
è la selezione delle sensazioni vere, cioè reali, oggettive, effettivamente esistenti, sulla base
dell’assenso/dissenso della mente.
In questa cornice, il problema cruciale diventa il criterio dell’assenso. In altri termini, qual
è il metro in base al quale la mente può giudicare una rappresentazione vera piuttosto che
falsa? Gli stoici rispondono: l’evidenza, ossia l’intuizione immediata e indubitabile, e
quindi del tutto persuasiva, della verità di qualcosa (p.e. della levigatezza di un tavolo). Ma
si tratta di un’evidenza oggettiva, cioè imposta alla mente dalla sensazione stessa, o
soggettiva, cioè stabilita e quindi scelta dalla mente? In altri termini, l’evidenza per gli
stoici è una proprietà della sensazione o un criterio della mente? La risposta è sia l’una sia
l’altra, o meglio l’unione/corrispondenza dell’una e dell’altra. Non bisogna dimenticare,
infatti, che per gli stoici tutte le cose sono pervase dal Pneuma-Ragione e che la mente
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
umana è una parte del Pneuma-Ragione. Dunque la mente umana non può non avere una
capacità autonoma di riconoscimento del vero, a maggior ragione perché essa è solo
materia attiva e razionale, al contrario dei corpi, fonti delle sensazioni, che sono un misto
di materia passiva e irrazionale e di materia attiva e razionale.
Dunque, se di sensismo si può parlare, a proposito della teoria della conoscenza stoica, si
tratta di un sensismo sofisticato, di un “razionalsensismo”. Questa classificazione ibrida è
confermata dal fatto che, secondo gli stoici, il risultato finale del processo conoscitivo –
cioè la scienza – non è soltanto e tanto accumulo di singole “rappresentazioni apprensive”
derivate da sensazioni vere.
La scienza, per gli stoici, è costituita anche e soprattutto da rappresentazioni intellettive
universali, ossia da concetti. In questo modo, gli stoici sostengono che la conoscenza
sensibile non è fine a se stessa ma è il mezzo per costruire una conoscenza razionale, cioè
logico-concettuale. Addirittura, in questo senso, essi affermano che i prodotti della
conoscenza razionale, cioè i concetti, sono qualcosa di assolutamente immateriale. Ma
allora in cosa consistono i concetti e qual è la loro genesi?
La concezione del concetto degli stoici è strettamente legata alla loro teoria del linguaggio,
secondo la quale il linguaggio è costituito da tre elementi fondamentali:
1. il significante, cioè un insieme di suoni o di segni grafici, ovvero una parola detta
o scritta, p.e. “cavallo”, che ha la funzione di contrassegnare e comunicare un
determinato significato;
2. il significato, cioè il concetto, ovvero il contenuto mentale universale, che il
significante designa, p.e. “mammifero quadrupede che nitrisce”;
3. la cosa reale individuale – ovvero una singola rappresentazione apprensiva – cui
il significato/concetto si riferisce, p.e. un singolo cavallo corporeo, come
Bucefalo.
L’enunciato “Bucefalo è un cavallo”, secondo gli stoici, è una conoscenza razionale in
quanto contiene i tre elementi sopra definiti. Questo significa che la conoscenza razionale
per gli stoici coincide con il linguaggio, o quantomeno con l’uso rigoroso e quindi veritiero
del linguaggio, ossia con il linguaggio scientifico. Ma la dottrina stoica del significato
spiega anche e soprattutto la natura dei concetti. Dal momento che le cose reali, ossia
fisiche, sono sempre individuali, i concetti, in quanto sono universali, non sono cose reali,
ma “espressioni”, cioè costruzioni linguistiche, ossia dei prodotti artificiali della mente.
Ma in che modo la mente costruisce i concetti, ovvero il linguaggio scientifico? Attraverso
operazioni mentali di confronto, scombinazione e ricombinazione delle rappresentazioni
apprensive, rispondono gli stoici, confermando così che per loro la mente umana non è
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
solo un foglio bianco “scritto” dalle sensazioni, ma è anche un elaboratore attivo delle
sensazioni, necessariamente dotato pertanto di criteri autonomi di elaborazione.
L’attività e la produttività della mente, secondo gli stoici, raggiungono il massimo livello
nei ragionamenti, che costituiscono il traguardo e il vertice della scienza. Dunque la
scienza, per gli stoici, parte dalle sensazioni vere (o rappresentazioni apprensive) per
utilizzarle come elementi di base per la costruzione di concetti con i quali produrre
ragionamenti le cui conclusioni costituiscono la conoscenza vera e propria.
Di conseguenza, gli stoici dedicano grande attenzione alla teoria dei ragionamenti, da essi
denominata “dialettica”. La loro prima novità in questo senso è che il ragionamento deve
essere inteso e condotto come una connessione di proposizioni, anziché di termini. La
realtà naturale, infatti, non è un insieme di cose separate e statiche, ma è un processo, cioè
un sistema di eventi correlati. Mentre i termini si riferiscono alle cose, le proposizioni – i
cui elementi decisivi sono i verbi, cioè le parole che designano le azioni – corrispondono
agli eventi. Pertanto, concludono gli stoici, solo i ragionamenti proposizionali ci
permettono di conoscere scientificamente la realtà.
In secondo luogo, gli stoici distinguono due tipi di ragionamenti proposizionali:
 quelli ipotetici, basati su una premessa “se p allora q” (“Se piove, allora si formano
pozzanghere”);
 quelli disgiuntivi, basati su una premessa “o p o q” (“O piove o nevica”), nella quale
ognuno dei due eventi esclude l’altro.
Fatta questa distinzione, il nucleo della dialettica stoica consiste nello stabilire la
concludenza dei ragionamenti, ovvero la loro validità. A tal fine, gli stoici individuano
cinque modelli – due ipotetici e tre disgiuntivi – di ragionamenti validi:
1. Se p allora q; ma p, dunque q (Se piove ci sono nuvole; ma piove, dunque ci sono
nuvole).
2. Se p allora q; ma non q, dunque non p (Se piove ci sono nuvole; ma non ci sono
nuvole, dunque non piove).
3. Non sia p sia q; ma p dunque non q (Non si può nuotare e rimanere asciutti; ma lui
nuota, dunque non è asciutto).
4. O p o q; ma p dunque non q (O è giorno o è notte; ma è giorno, dunque non è notte).
5. O p o q; ma non q, dunque p (O è giorno o è notte; ma non è notte, dunque è
giorno).
Dai primi due modelli si ricava che i ragionamenti ipotetici sono quelli basati su
un’implicazione (pq), ossia su una correlazione non reversibile (a differenza di quella di
equivalenza p↔ q), e che essi sono validi solo in due casi: quando all’affermazione
dell’antecedente (p) segue l’affermazione del conseguente (q) e quando alla negazione del
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
conseguente segue la negazione dell’antecedente. Nei casi contrari le conclusioni sono
invalide (“Ci sono le nuvole, dunque piove” , “Non piove, dunque non ci sono le nuvole”).
Una volta che sia valido, secondo gli stoici, un ragionamento è anche vero quando le sue
premesse sono vere, cioè si basano su rappresentazioni apprensive. Ma gli stoici non si
accontentano di garantirsi la verità in generale, ma vogliono raggiungere soprattutto la
verità scientifica, che per loro consiste nell’individuazione delle cause dei fenomeni
naturali. In questo senso, gli stoici chiamano i ragionamenti scientifici “dimostrativi”,
appunto in quanto sono quelli che dimostrano le cause effettive degli eventi. E’ nei
ragionamenti dimostrativi che la forma ipotetica (se p allora q) appare quella più adeguata
a codificare e così a conoscere i rapporti reali di causa ed effetto. Essi possono essere di tre
tipi, a seconda che la conclusione valga per il presente, il passato o il futuro:
1. Se c’è fumo nel bosco, allora c’è un incendio; ma c’è fumo nel bosco, dunque c’è un
incendio.
2. Se una donna ha latte nel seno, allora ha partorito; ma questa donna ha latte nel
seno, dunque ha partorito.
3. Se la pressione si alza, verrà il bel tempo; ma la pressione si sta alzando, dunque
verrà il bel tempo.
Quest’ultimo esempio, quello di ragionamento dimostrativo relativo al futuro, assume per
gli stoici un valore particolare perché rende la scienza capace di previsione, permettendo
agli uomini di prepararsi nel migliore dei modi agli eventi futuri, sfruttandone al massimo i
vantaggi o diminuendone il più possibile i danni, e, più ingenerale, consentendo loro di
sintonizzarsi al massimo grado con il corso razionale del Destino, condizione necessaria e
sufficiente per godere della felicità.
Infine, gli stoici valorizzano la riflessione logica sui paradossi, ovvero su proposizioni
autocontraddittorie scoperte da altri filosofi (soprattutto da Eubulide di Megara). I due
casi più interessanti sono i seguenti:
 Il paradosso del Mentitore: Epimenide il cretese afferma: “Tutti i cretesi mentono”.
L’affermazione di Epimenide non può essere giudicata né vera né falsa perché
appare sia vera sia falsa: infatti, se la consideriamo vera allora Epimenide, essendo
cretese, deve aver mentito, quindi la sua affermazione è falsa; ma anche se la
consideriamo falsa, allora Epimenide ha mentito, dunque, essendo cretese, la sua
affermazione è vera.
 Il dilemma del coccodrillo: un coccodrillo ghermisce un bimbo, la mamma se ne
accorge e lo prega di ridarglielo, il coccodrillo allora le promette che glielo ridarà
solo se la mamma indovinerà se lui accetterà oppure no la sua richiesta; poiché la
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
mamma gli risponde che avrebbe mangiato il suo bimbo, il coccodrillo le replica che
non poteva darle il figlio in quanto in tal caso lei non avrebbe indovinato le sue
intenzioni e dunque lui non era tenuto a soddisfare la sua richiesta, ma a sua volta la
mamma controbatte che lui non poteva divorare suo figlio perché in tal caso lei
avrebbe indovinato le sue intenzioni e lui pertanto avrebbe dovuto restituirle il
figlio.
In entrambi i casi (il secondo è una variante elaborata del primo), il problema logico
consiste nel fatto che una proposizione può implicare due conseguenze logiche tra loro
contraddittorie senza che sia possibile stabilire quale tra le due sia quella valida. Di più,
ognuna delle due conseguenze implica la verità dell’altra che però contraddice la prima,
cioè ne attesta la falsità. In altre parole, questi due paradossi violano la regola logica dei
ragionamenti disgiuntivi, secondo la quale se è vero p allora q è falso e viceversa, in quanto
in tal caso sia p sia q sono entrambi sia veri sia falsi. Ma tale regola altro non è che quella
del principio di non-contraddizione. Dunque i paradossi logici sembrano mettere in dubbio
il fondamento stesso della logica, e quindi della conoscenza umana, attestandone la
limitatezza e la fallibilità. Ma gli stoici li considerano invece dei problemi che si possono
risolvere e che stimolano la ricerca di regole logiche più profonde e più complesse.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
I PARADOSSI NELLA LOGICA CONTEMPORANEA
Nel ‘900, il paradosso del Mentitore venne riscoperto, in versione logico-formale, da
Bertrand Russell (1872-1970). Perseguendo il suo programma di fondazione logica della
matematica come sistema assiomatico-deduttivo, Russell scoprì una contraddizione che
colpiva proprio il principio fondamentale della sua costruzione logico-matematica,
ovvero il concetto di “classe” (un insieme di elementi). Esso implica che ci sia una “classe
di classi”. Questa è una classe che riunisce altre classi come propri elementi: per esempio
la classe mammiferi in quanto unifica le classi primati, felini, canini, ecc. In questo senso,
secondo Russell, alcune classi sembra possano includere se stesse tra i propri elementi,
altre no. Per esempio la classe “tutto” deve contenere se stessa altrimenti non sarebbe
completa. Invece la classe “mammifero” non è necessario che contenga se stessa come
proprio elemento.
Su queste basi, Russell individua una classe particolare, definita come “la classe che
raccoglie le classi che non contengono se stesse come propri elementi”. Il problema è:
questa classe contiene o non contiene se stessa come proprio elemento? Entrambe le
risposte possibili a questa domanda si dimostrano contraddittorie rispetto alla
definizione di partenza . Infatti: se si risponde sì, allora la classe contiene se stessa: ma
ciò comporta che essa contenga una classe che contiene se stessa; se si risponde no, allora
la classe non contiene se stessa: ma ciò comporta che essa non contenga tutte le classi che
non contengono se stesse.
Russell fornisce anche una versione semplificata e più gradevole del suo paradosso,
immaginando un villaggio in cui risiede un unico barbiere che rade solamente i residenti
che non si radono da soli. Il problema in questo caso è: chi rade il barbiere? Entrambe le
soluzioni possibili sono ugualmente contraddittorie rispetto alla premessa.
Pochi anni dopo, riprendendo e applicando il paradosso del Mentitore alla logica
matematica, Kurt Gödel (1906-1978) nel 1931 scoprì i due Teoremi di incompletezza,
validi per tutti i sistemi assiomatico-deduttivi (la matematica può essere considerata un
sistema assiomatico-deduttivo), i cui requisiti fondamentali erano stati individuati nella
coerenza (ossia, la non-contraddittorietà) e nella completezza (ossia, la dimostrazione
totale) di tutti i suoi enunciati.
Secondo il primo Teorema di incompletezza, ogni sistema assiomatico-deduttivo contiene
un enunciato indecidibile, ovvero un enunciato né dimostrabile come vero né confutabile
come falso. Si tratta dell’enunciato “Questo enunciato non è dimostrabile”. Infatti, tale
enunciato se fosse dimostrabile sarebbe falso, e quindi il sistema sarebbe incoerente
(conterrebbe una contraddizione); se non fosse dimostrabile sarebbe vero, ma allora la
sua verità non sarebbe dimostrabile dal sistema, che dunque risulterebbe incompleto.
Il secondo Teorema di incompletezza è un corollario del primo. Esso afferma che un
sistema assiomatico-deduttivo non può dimostrare la propria coerenza. Infatti, poiché
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
contiene almeno un enunciato indecidibile (“Questo enunciato non è dimostrabile”), non è
possibile stabilire se esso è coerente o contraddittorio rispetto agli assiomi del sistema
stesso.
Tuttavia, Gödel stesso chiarì che i suoi due teoremi non confutavano la completezza e la
coerenza della matematica, ma solo della matematica interpretata come sistema
assiomatico-deduttivo. Dunque i Teoremi di incompletezza, furono pensati e proposti da
Gödel per confutare la fondazione formalistica della matematica e sostenerne la
fondazione alternativa, cioè quella idealistica. Per Gödel, infatti, la matematica si fonda,
come per Platone, sull’intuizione razionale degli oggetti matematici, che sono idee
immutabili realmente esistenti.
Nell’ambito della logica, una possibile soluzione del paradosso del mentitore è stata
proposta da Alfred Tarski (1902-1983), il quale, sviluppando un’idea di Russell, sostenne
che i paradossi contengono un errore logico, quello dell’autoreferenzialità. In altre
parole, per Tarski è una regola logica che un enunciato non possa mai riferirsi a se
stesso. P.e. l’enunciato “Io sto mentendo” può riferirsi solo ad altri enunciati precedenti o
successivi (p.e. “Io non ero a Roma il 12 aprile del 2012”) ma non a se stesso, per cui esso
attesta che effettivamente le cose che sto dicendo sono false. Analogamente, se Epimenide
il cretese dice “Tutti i cretesi mentono”, l’affermazione non riguarda anche Epimenide e
dunque non risulta autocontraddittoria. In questo senso Tarski stabilisce che la logica
deve includere una distinzione tra due livelli logici, da lui chiamati il “linguaggiooggetto” e il “metalinguaggio”. Per verificare se un enunciato, p.e. “Io sto mentendo”, è
vero o falso è necessario considerarlo come l’oggetto di un enunciato di livello superiore
(metalinguaggio), p.e. “ ‘Io sto mentendo’ è falsa perché quello che sto dicendo è vero.”;
Oppure “ ‘Io sto mentendo’ è vera perché quello che sto dicendo è falso.”
Per saperne di più: Francesco Berto, Tutti pazzi per Gödel, Laterza 2008.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
LO SCRIGNO
LEON LEDERMAN: L’“EFFETTO TUNNEL”
Un altro fenomeno controintuitivo è l’“effetto tunnel”. Abbiamo già parlato
della possibilità di scagliare degli elettroni contro una barriera d’energia.
L’analogo classico è il far rotolare una pallina su per un pendio. Se date alla
pallina una spinta iniziale sufficiente, essa riuscirà ad andare oltre la
sommità. Se l’energia iniziale è troppo debole, la pallina tornerà indietro. [...]
Descrivendo quello che succede agli elettroni scagliati contro una barriera
energetica o a un elettrone intrappolato fra due barriere, invece, dobbiamo
usare onde di probabilità. Succede che qualcuna delle onde possa “sgusciare”
attraverso la barriera (nei sistemi atomici o nucleari la barriera è elettrica
oppure è un’interazione forte), e perciò c’è una probabilità finita che la
particella si liberi dalla trappola.
L. Lederman, La particella di Dio, Mondadori 1996, pp. 195-196
NORMAN DOIDGE: ECCITAZIONE E APPAGAMENTO
La pornografia è più eccitante che appagante, poiché nel cervello abbiamo due
distinti sistemi del piacere, uno che ha a che fare con l’eccitazione, e un altro
che regola la soddisfazione del piacere. Il sistema dell’eccitazione è in
relazione con il piacere “appetitivo” che proviamo immaginando qualcosa che
desideriamo, che si tratti di sesso o di un pasto gustoso. Dal punto di vista
neurochimico, questo sistema è ampiamente connesso con la dopamina e
aumenta il nostro livello di tensione. Il secondo sistema del piacere ha a che
fare con la gratificazione, o “piacere consumatorio”, il quale accompagna
un’esperienza sessuale concreta o la consumazione di un pasto gustoso,
quindi un piacere rilassante e appagante. Dal punto di vista neurochimico,
questo sistema si basa sul rilascio delle endorfine, sostanze oppiacee che
danno un senso di profonda rilassatezza e benessere.
N. Doidge, Il cervello infinito, Ponte delle Grazie, 2007 (2007), pp. 121-122
VITO MANCUSO: L’ENERGIA CONTIENE UN PRINCIPIO ORDINATORE
IMPERSONALE
La sede del divino è dentro ogni cosa, dentro ogni ente naturale, dentro ogni
fenomeno ordinato. Se l’essere è energia, come insegna la fisica, e se l’energia
produce fenomeni ordinati, come attestano i nostri sensi, ciò significa che
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
l’energia è abitata da una forma orientata all’ordine, è mossa da una logica
che la porta verso livelli sempre più complessi di organizzazione. [...]
Il mondo è governato, e lo dimostra la progressiva crescita
dell’organizzazione [...] ma è governato da un principio ordinatore
impersonale, il che costituisce l’unica garanzia perché la libertà, il vero scopo
della creazione, possa essere effettivamente reale. Proprio perché il fine del
mondo è la generazione dello spirito, il mondo deve essere libero, ma non c’è
modo di garantire la libertà se non mediante ciò che io chiamo principio
ordinatore impersonale, il quale nella Bibbia è noto […] come “sapienza”,
presso i cinesi come tao, presso gli antichi egizi come maat, presso i Greci
come logos, presso gli indù e i buddisti come dharma.
C. Augias e V. Mancuso, Disputa su Dio, Mondadori 2009, p. 230 e p. 145
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
LA FELICITA’ COME ACCETTAZIONE DEL NON-SENSO DELLA VITA:
LO SCETTICISMO
Riprendendo il relativismo conoscitivo ed etico dei sofisti (che da questo punto di vista si
possono considerare, degli scettici ante litteram) – e soprattutto del più radicale dei
sofisti, cioè Gorgia – gli scettici incardinano la loro proposta etica sulla tesi
dell’inesistenza di qualsiasi ordine razionale della realtà e della conseguente impossibilità
per l’uomo di possedere qualsivoglia verità.
Essi, pertanto, a livello teorico-metafisico, rigettano qualsiasi ricerca e qualsiasi
discussione; e a livello pratico, propugnano l’indifferenza, ossia un atteggiamento basato
sulla convinzione che qualsiasi condizione di vita va accettata e vissuta, in quanto è
equivalente a tutte le altre.
Tuttavia, a questa posizione di principio gli scettici affiancano una ricetta di vita
caratterizzata dal pragmatismo, cioè dalla scelta del comportamento più efficace al fine
di conseguire la felicità, intesa come imperturbabilità. In questo senso, a livello
conoscitivo, essi ammettono una ricerca empirica basata sul confronto delle sensazioni e
finalizzata a individuare parziali uniformità di proprietà ed eventi; a livello pratico,
giungono, invece, a proporre il conformismo, cioè l’adeguamento allo stile di vita e alle
regole di comportamento della comunità civile di cui si fa parte.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI CAPITANI
PIRRONE E TIMONE
Iniziatore dello scetticismo (dal greco skèpsis=indagine, nel senso di ricerca continua in
antitesi alla convinzione di possedere la verità definitiva, ovvero al dogmatismo) fu
Pirrone che nacque a Elide, nel Peloponneso, tra il 365 e il 360 a.C. e fu discepolo prima
di filosofi socratici, in particolare dei megarici, e poi di un allievo di Democrito.
Ma la sua esperienza decisiva fu la partecipazione alla spedizione militare di Alessandro
Magno in Oriente, grazie alla quale entrò in contatto diretto con le tradizioni sapienziali
mediorientali – come quella dei magi persiani, sacerdoti del mazdeismo (o religione
zoroastriana) – e perfino con quella indiana dei “gimnosofisti”, i quali teorizzavano e
praticavano una condotta di vita ascetica.
Morto Alessandro, Pirrone tornò a Elide dove insegnò fino alla sua morte tra il 275 e il 270
a.C. Seguendo il modello filosofico socratico, non scrisse nulla (ad eccezione di un carme
elogiativo di Alessandro), ma il suo insegnamento orale fu trascritto dal suo discepolo
Timone di Fliunte (città del Peloponneso dove nacque nel 325/320), delle cui opere ci
rimangono però solo alcuni frammenti e varie testimonianze.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
GLI SCETTICI: FELICITA’ E’ INDIFFERENZA E CONFORMISMO
Orbene, egli dice che Pirrone mostra che le cose sono ugualmente
indifferenziate, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre
sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. Per
conseguenza, non bisogna accordare a esse fiducia, ma bisogna essere senza
opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa
che è non più di quanto non è, oppure che è e non è, oppure che né è né non è.
Coloro che si mettono in questa disposizione conseguiranno, dice Timone, in
primo luogo l’afasia e l’imperturbabilità.
Aristocle, Frammenti, fr. 6 Heiland
Il termine “scetticismo” deriva dal greco skèpsis che significa “indagine”. Gli scettici
adottano questo nome perché essi credono che la vita debba essere una ricerca continua e
senza fine, ossia senza alcuna conclusione certa e definitiva. Il presupposto di questa
concezione è la tesi secondo cui la realtà non è “essere”, cioè non è costituita da nessun
principio unitario e universale, sia fisico – come acqua, indivisibili, soffio, ecc. – sia
metafisico – come le idee o le essenze. Di conseguenza per gli scettici tutte le cose sono:
 indifferenziate, cioè non organizzate e ordinate in base a criteri universali che
permettano di distinguerle e classificarle;
 immisurabili, cioè non determinabili quantitativamente ma anche più in generale
non definibili né valutabili;
 indiscriminabili, cioè non distinguibili e non selezionabili nel senso che di nessuna
si può stabilire che sia superiore o migliore rispetto a un’altra.
In una parola, secondo gli scettici la realtà non possiede alcun ordine razionale, cioè è caos
ossia disordine.
Dato che la realtà è caotica, per gli scettici non hanno alcun fondamento veritativo né la
conoscenza sensibile né la conoscenza razionale. Di conseguenza gli scettici indicano come
unico comportamento teoretico adeguato quello basato:
334
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
 a livello mentale individuale, sull’astensione da ogni giudizio conoscitivo (o
“epoché”, termine greco entrato poi nel vocabolario filosofico), ovvero sull’evitare
qualsiasi elaborazione razionale sulla natura ultima e universale delle cose;
 a livello comunicativo, sull’afasia, ovvero sul non affermare, cioè esprimere e
manifestare, alcun giudizio conoscitivo e quindi sull’evitare di farsi coinvolgere in
alcuna discussione relativa alla natura ultima e universale delle cose.
Sia l’epoche sia l’afasia hanno un implicito fine pratico: la prima quello di evitare
frustrazioni, data l’impossibilità umana di giungere a elaborare teorie veritiere; la seconda
quello di inquietarsi lasciandosi coinvolgere in dispute irrisolubili e quindi vane.
In questa prospettiva, gli scettici sostengono provocatoriamente che su ogni cosa si
possono fare solo le seguenti affermazioni:
1)
2)
3)
che è non più di quanto non è;
che è e che non è;
che né è né non è.
In altre parole gli unici giudizi e proposizioni che gli scettici ammettono sono quelli
contraddittori, ovvero quelli che negano ciò che affermano e affermano ciò che negano.
(Oggi li chiameremmo nonsense.) Ma soprattutto in questo modo gli scettici rigettano
quello che i filosofi razionalisti avevano considerato come il primo principio razionale,
ordinatore della realtà e del pensiero, cioè il principio di non-contraddizione.
All’astensione dal giudizio e all’afasia teoretiche corrisponde sul piano pratico il principio
etico dell’indifferenza (adiaforìa). In altri termini, per gli scettici ogni cosa, ogni
situazione, ogni attività vale l’altra. Lo scettico dunque può fare le cose più umili e
ripugnanti come quelle più onorevoli e attraenti nello stesso modo, ovvero con totale
distacco. Ciò vale anche nel caso in cui ci si trovi in situazioni pericolose, offese oppure
conflitti.
In questa prospettiva, gli scettici giungono a sostenere addirittura che nei confronti della
realtà bisogna essere “insensibili”. Questa tesi risulta comprensibile considerando che ogni
sensazione implica un’interpretazione valutativa, ovvero l’attribuzione di un significato a
ciò che sentiamo, e di conseguenza induce a una reazione emotiva e attiva. P.e., se vediamo
e udiamo qualcuno insultarci noi interpretiamo e giudichiamo offensivi i tratti del suo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
volto e le sue parole e immediatamente ci sentiamo irritati, aggressivi e siamo portati a
rispondergli per le rime. In questo caso, la massima scettica del “non sentire”, significa che
dobbiamo invece limitarci a registrare dei movimenti facciali e dei suoni, senza
interpretarli e valutarli e dunque senza avere alcuna reazione emotiva, rimanendo cioè del
tutto distaccati.
Attraverso l’indifferenza e l’insensibilità, secondo gli scettici, si consegue la disposizione
psichica e pratica ottimale, cioè l’imperturbabilità (atarassìa), ossia una totale rilassatezza
interiore ed esteriore.
Proprio perché tutti i giudizi conoscitivi e tutti i comportamenti sono equivalenti, una volta
acquisita questa consapevolezza, per gli scettici è però possibile seguire anche una linea di
condotta teorica e pratica moderata e realistica, ovvero pragmatica. In questo senso, a
livello teoretico, fermo restando che non esiste né è conoscibile alcun “essere”, cioè alcun
ordine razionale unitario della realtà, è lecito credere liberamente all’apparenza sensibile,
ossia ai fenomeni così come sono soggettivamente percepiti dai nostri sensi. P.e., non
posso né pensare né dire che il miele in generale è dolce, ma posso pensare e dire che
questo miele che sto assaggiando qui e ora è dolce per me.
In altre parole, riducendo l’essere all’apparire e la conoscenza alla credenza soggettiva, è
vantaggioso pensare e comunicare. Si tratta però di un pensare e di un comunicare non
dogmatici, ma aperti e tolleranti, e pertanto immuni dall’agitazione emotiva e
comportamentale. In questa direzione, alcuni scettici propongono come criterio di
selezione delle conoscenze quello dell’opinione più ragionevole, altri quello dell’opinione
più probabile. E’ chiaro che i criteri di ragionevolezza e probabilità sono accomunati
dall’essere relativi e cioè flessibili e negoziabili e dunque modificabili.
Analogamente sul piano pratico, fermo restando che non esiste alcun comportamento o
modo di vivere migliore in assoluto di un altro, gli scettici propongono di comportarsi
secondo i costumi della comunità socio-politica di cui si è parte. In questo senso gli scettici
teorizzano un’etica conformistica, cioè basata sull’adeguarsi alle norme comportamentali
stabilite da una società, cioè alle tradizioni, agli usi e alle abitudini di una popolazione. Il
conformismo scettico, però, è consapevole del valore relativo dei costumi di qualsiasi
popolo e dunque induce a praticarli senza fanatismo e anzi con distacco, per mera
convenienza pratica.
Nei suoi sviluppi più avanzati, lo scetticismo procede a confutare in modo sistematico tutti
i capisaldi delle precedenti filosofie razionalistiche. In questo senso assumono particolare
rilievo le confutazioni dei ragionamenti deduttivo e induttivo e addirittura del rapporto di
causa ed effetto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La deduzione viene confutata dagli scettici in quanto circolo vizioso. Infatti la proposizione
universale (p.e., “tutti gli uomini sono mortali”) da cui si deduce la proposizione singolare
(p.e. “Socrate è mortale”), per gli scettici, si basa surrettiziamente su una generalizzazione
induttiva di proposizioni singolari (p.e. “Socrate è mortale”, “Platone è mortale”, ecc.).
A sua volta l’induzione viene confutata sostenendo che i casi singolari su cui si basa sono
infiniti, dunque non possono mai essere vagliati tutti, quindi è sempre possibile che ci
siano uno o più casi anomali. P.e. se dall’osservazione di molti casi di uomini senza coda
traggo la conclusione che “nessun uomo ha la coda”, sbaglio perché non è escluso che
possano esserci uno o più uomini con la coda.
La confutazione scettica del rapporto di causa ed effetto, invece, si basa
sull’argomentazione che tale rapporto postula sia un legame necessario, e quindi costante,
di affinità/continuità sia una netta distinzione tra l’oggetto causante e l’oggetto causato.
Allora delle due l’una: o l’oggetto causato è considerato parte dell’oggetto causante, cioè un
suo prolungamento, e allora non potrebbe essere giudicato effetto dell’oggetto causante;
oppure l’oggetto causato è tutt’altra cosa da quello causante ma allora non ha nulla a che
fare con questo, il quale pertanto non potrebbe essere giudicato sua causa.
Se gli scettici cercano di confutare sistematicamente i filosofi razionalisti, questi ultimi non
sono certo da meno nel contrattaccare i loro avversari. In particolare la più acuta
confutazione dello scetticismo è quella che rileva come la tesi “nulla è vero” è
autocontraddittoria: infatti, se la consideriamo vera confuta quello che sostiene perché in
tal caso ci sarebbe almeno una verità, ossia appunto che “nulla è vero”; se invece si
interpreta la tesi scettica come anch’essa non vera ne consegue che è falso che nulla è vero,
dunque è vero che tutto è vero.
Gli scettici più sofisticati replicano a questa confutazione affermando che essi sostengono il
dubbio non in modo dogmatico, cioè perentorio, ma in modo critico, cioè appunto senza
alcuna certezza. Pertanto l’affermazione “nulla è vero” non va intesa come una tesi assoluta
e quindi certa, bensì come una tesi relativa e quindi solo probabile. Ma che non sia assoluta
non implica che non abbia alcun valore conoscitivo. Al contrario, dato che le tesi assolute e
certe sono false, solo una tesi relativa e probabile può avere un valore conoscitivo effettivo,
seppure parziale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIII VIAGGIO
LA FELICITA’ COME RICERCA SCIENTIFICA
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
LA I RIVOLUZIONE SCIENTIFICA?
E’ da tempo un fatto consolidato della storia del pensiero filosofico e scientifico che l’età
ellenistica fu un periodo di grande sviluppo delle scienze matematico-naurali, ossia di
matematica, astronomia, fisica, geografia, meccanica, biologia. Nell’ultimo ventennio,
però, lo sviluppo della ricerca archeologica e filologica ha portato a una radicale
reinterpretazione della portata e del valore del progresso scientifico nell’età ellenistica.
La critica filosofico-scientifica più recente, infatti, è giunta a sostenere che la scienza
moderna, ovvero la scienza sperimentale, nacque nei regni ellenistici nel III e nel II secolo
a.C. In altre parole la rivoluzione scientifica moderna – considerata tradizionalmente la I
rivoluzione scientifica –, attuatasi nel 1500 e nel 1600 a opera di Copernico, Galilei e
Newton, sarebbe stata anticipata dalla rivoluzione scientifica ellenistica cui dunque
spetterebbe il titolo di prima effettiva rivoluzione scientifica.
Secondo questa interpretazione, la rivoluzione scientifica ellenistica ebbe tre fattori
fondamentali:
 l’elaborazione filosofica e scientifica della Grecia classica dal VI al IV secolo;
 la contaminazione culturale tra civiltà greca e civiltà mediorientale conseguente
alle conquiste di Alessandro Magno;
 la formazione e il mecenatismo delle monarchie ellenistiche dopo la morte di
Alessandro Magno.
Le nuove dinastie monarchiche dei regni ellenistici, infatti, promossero e finanziarono la
ricerca culturale e in particolare quella scientifica. Nel regno d’Egitto i Tolomei fecero
costruire ad Alessandria il famoso Museo e l’ancor più famosa Biblioteca. Il Museo, il
primo istituto di ricerca pubblico, una vera e propria università dei saperi antichi
articolata in dipartimenti, era dotato di mensa, sale di lettura, sala anatomiche, un
osservatorio astronomico, un giardino zoologico e un orto botanico. Intellettuali e
scienziati vi convivevano e questo favoriva grandemente lo sviluppo culturale e
scientifico. La Biblioteca, riservata agli studiosi, giunse a raccogliere, almeno secondo le
stime più generose, fino a 700.000 libri (nella forma di rotoli di papiri). Una sua sezione
staccata, il Serapeo, era a disposizione del pubblico e giunse a possedere oltre 40.000
libri. Nel regno di Pergamo, gli Attalidi a loro volta fecero costruire una biblioteca
seconda solo a quella di Alessandria e promossero in particolare gli studi di botanica,
agronomia, ingegneria civile e navale. In Mesopotamia, i Seleucidi diedero impulso alla
ricerca matematica, astronomica e allo sviluppo della tecnologia navale. Più in generale,
l’interesse per la scienza e la tecnologia erano diffusi in maniera maggiore o minore in
tutto il mondo ellenistico.
Lo sviluppo della rivoluzione scientifica ellenistica fu però interrotto dalla conquista
romana a partire dalla metà del II secolo a.C. I romani da un lato eliminarono le dinastie
ellenistiche e dall’altro si disinteressarono alla promozione della scienza e della
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
tecnologia. Le istituzioni culturali dei regni ellenistici decaddero e in alcuni casi
scomparvero. Cominciò così un regresso culturale e scientifico in seguito al quale, già
pochi secoli dopo, i nuovi scienziati e intellettuali dell’epoca romana non solo non
disponevano di molte opere, andate distrutte, dei loro predecessori ellenistici, ma
soprattutto non riuscivano a comprendere molte parti di quelle che si erano salvate dalla
distruzione.
Tuttavia, pur riconoscendo la plausibilità e il valore euristico della nuova tesi
interpretativa della “rivoluzione scientifica fallita”, ovvero soffocata prima che potesse
completarsi, rimane aperto un interrogativo: senza l’intervento distruttivo delle legioni
romane, davvero lo sviluppo delle scienze nell’età ellenistica sarebbe arrivato ai risultati
della rivoluzione scientifica moderna? In altre parole, sarebbe effettivamente stato
rivoluzionario?
Fermo restando che è impossibile rispondere in modo certo sia affermativamente sia
negativamente, è ragionevole nutrire dei dubbi sulla tesi che, senza l’intervento romano,
gli scienziati ellenistici sarebbero giunti agli stessi risultati conseguiti quasi due millenni
dopo dagli scienziati moderni, soprattutto tenendo conto dei limiti difficilmente
superabili che la mentalità politeistico-astrologica – diffusa anche tra gli scienziati
ellenistici – poneva alla teorizzazione di leggi matematico-razionali universali (p.e. la
legge di gravità di Newton). Infatti, le teorie scientifiche degli scienziati moderni si
fondarono su una visione materialistico-meccanicistica e insieme teologico-monoteistica
del cosmo fisico: il cosmo era concepito come un’immensa e mirabile macchina che
funzionava autonomamente in base a leggi matematiche impersonali stabilite da un
unico Dio, onnipotente creatore e quindi signore assoluto di tutti gli esseri fisici. In questa
prospettiva, il cosmo era considerato unico e omogeneo, in quanto tutte le creature erano
sullo stesso piano rispetto a Dio, ovvero tutte ugualmente subordinate alle sue leggi.
Semmai, nel periodo umanistico-rinascimentale, non a caso immediatamente precedente
all’inizio della rivoluzione scientifica moderna, era stato l’uomo a venire considerato
relativamente superiore a tutte le altre creature – angeli compresi! – ma solo in quanto
Dio gli aveva assegnato il compito di ammirare la sua creazione, ovvero di studiarla
scientificamente. Insomma, secondo i rinascimentali, l’uomo proprio in quanto
scienziato, cioè in quanto capace di scoprire le leggi matematiche che governano la
natura, poteva diventare la creatura superiore del cosmo, la più simile a Dio proprio
perché l’unica in grado di comprendere la sua opera.
A sostegno di questa interpretazione sta il dato di fatto che tutti i protagonisti della
rivoluzione scientifica moderna furono cristiani credenti e molti, in particolare Keplero e
Newton, si ispirarono all’idea di Dio creatore matematico del cosmo per motivare e
orientare le proprie lunghe ricerche scientifiche e per arrivare alla fine a trovare le
conferme delle loro grandi scoperte. Newton, in particolare, era anche uno studioso di
teologia e scrisse anche opere teologiche.
Al contrario, gli scienziati ellenistici avevano come retroterra culturale una visione
organicistico-finalistica e astrologico-politeistica del cosmo. In altre parole, il cosmo era
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
da loro concepito come un grande organismo vivente le cui parti agivano per conseguire
il fine del massimo bene complessivo e inoltre alcune di queste parti – i pianeti-dei:
Mercurio, Marte, Elio, ecc. – erano ritenuti superiori alle altre e si credeva che
esercitassero la loro influenza sugli esseri terrestri a loro quindi subordinati. In questa
cornice, era difficile, per non dire impossibile, concepire delle leggi matematiche
universali, cioè tali da governare allo stesso modo tutti gli esseri naturali. Infatti, in
primo luogo il cosmo terrestre risultava diverso e inferiore rispetto a quello celeste; in
secondo luogo, vi erano leggi diverse a seconda degli dei e soprattutto non erano vere e
proprie leggi naturali a governare il mondo terrestre, in quanto le influenze divine erano
personali, cioè coincidevano con le decisioni e gli umori degli dei, e dunque potevano
variare nel tempo. Non a caso la visione antica del cosmo aveva la sua più coerente
espressione nell’astrologia, che era considerata appunto la scienza della conoscenza e
della previsione degli influssi astrali, cioè delle variabili “leggi” degli dei/pianeti.
Certo, i filosofi Greci avevano elaborato una più razionale versione del politeismo, ed è
scontato che gli scienziati ellenistici non condividessero la mentalità religiosa popolare
ma semmai seguissero l’interpretazione filosofica della religione antica. Ma benché
razionale il politeismo dei filosofi ne conservava i limiti: p.e. sia Platone sia Aristotele
concepirono il cosmo come diviso in due regioni, quella celeste divina, e perciò superiore,
e quella terrestre fisica e perciò inferiore; il loro monoteismo relativo ( l’idea di UnoBene-Bellezza-Verità e il Dio motore immobile) ammetteva comunque l’esistenza di
potenze divine inferiori ma dotate di poteri autonomi, cioè di diversi e variabili poteri di
influenza sugli eventi terreni; l’uomo, secondo loro, era subordinato ai pianeti-dei e
quindi non poteva essere la creatura capace di conoscere pienamente le leggi del
funzionamento del cosmo.
Non è dunque un caso, forse, che anche quando qualche scienziato ellenistico superò i
limiti della concezione antica del cosmo – p.e. il pitagorico Aristarco di Samo che elaborò
la teoria eliocentrica quasi due millenni prima di Copernico – non ebbe credito nemmeno
dai suoi colleghi contemporanei e che, di conseguenza, la sua teoria fu accantonata senza
dare frutti. Tanto è vero che né Aristarco né nessun altro scienziato ellenistico si avvicinò
alla scoperta delle tre leggi di Keplero per non dire a quella della legge di gravità di
Newton.
In conclusione, è plausibile pensare che il salto di qualità della scienza, che
indubbiamente si registrò nel periodo ellenistico, non sarebbe arrivato a compiere quella
rivoluzione scientifica che certamente avvenne tra il Cinquecento e il Seicento d.C., anche
se Roma non avesse mai invaso il Medio Oriente. Infatti, perché si potesse attuare la
rivoluzione scientifica moderna, era forse necessario non solo il passaggio dalla religione
politeistica a quella monoteistica ma anche la lunga evoluzione della teologia
monoteistica cristiana, quella che avvenne gradualmente durante l’Alto e il Basso
Medioevo e che, a maggior ragione, dovrà essere attentamente presa in considerazione.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITE DI CAPITANI
GLI SCIENZIATI ELLENISTICI
I protagonisti della scienza ellenistica furono: Euclide, matematico, astronomo e ottico,
insegnante del Museo di Alessandria e autore di Elementi (300 a.C.), celeberrimo trattato
di geometria in 13 libri; Apollonio di Perga, matematico e astronomo, nato intorno al
260 a.C., studente del Museo di Alessandria e insegnante a Pergamo e ad Alessandria,
autore di Coniche, trattato sull’ellisse, la parabola e l’iperbole; Aristarco di Samo (310240), astronomo, di cui ci è rimasta solo un’opera minore, Sulle dimensioni e le distanze
del Sole e della Luna; Ipparco di Nicea (185-125), astronomo, insegnante a Rodi,
scopritore del moto di precessione degli equinozi, di cui ci è restata un’unica opera minore,
Commentario ai “Fenomeni” di Arato e Eudosso; Eratostene di Cirene (273-192),
geografo, bibliotecario del Museo di Alessandria; Archimede di Siracusa (287-212),
studente del Museo di Alessandria, matematico, astronomo, fisico, ingegnere idraulico e
meccanico, di cui ci sono rimaste le seguenti opere: Sulla misura del cerchio, La
quadratura della parabola, Sulle spirali, Sulla sfera e il cilindro, Sugli sferoidi e i conoidi,
Arenario (in cui calcola il numero di granelli di sabbia che il cosmo potrebbe contenere),
Sull’equilibrio dei piani, Sui corpi galleggianti, Metodo; Ctesibio, vissuto nel III secolo
a.C., fondatore della pneumatica, ingegnere meccanico, autore di due opere perdute,
Dimostrazioni pneumatiche e Commentari, in cui erano descritte numerose macchine;
Filone di Bisanzio (III-II sec.), continuatore dell’opera di Ctesibio, autore di
Pneumatica; Erone di Alessandria (I sec.), autore di una Meccanica e di una
Pneumatica; Erofilo di Calcedonia (IV-III sec.) ed Erasistrato di Ceo (310-250)
entrambi medici.
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TAPPA 1
LA RICERCA MATEMATICA
1)
2)
3)
4)
5)
[E’ possibile] tracciare un segmento da ogni punto a ogni punto.
[E’ possibile] prolungare con continuità un segmento in una retta.
[E’ possibile] tracciare una circonferenza con qualsiasi centro e raggio.
Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro.
Se una retta intersecandone altre due forma nello stesso semipiano
angoli interni la cui somma è minore di due retti, allora le due rette si
incontrano su quel semipiano.
Euclide, Elementi
Come abbiamo visto (Cannocchiale su… L’orizzonte storico-culturale dell’età ellenistica),
il periodo ellenico, cioè greco classico, rappresenta il momento di gestazione della scienza
matematica, cioè quello in cui se ne costruiscono alcuni elementi fondamentali. Tra questi
il più significativo è il metodo dimostrativo che permette la fondazione di “teoremi”, cioè di
sistemi di relazioni matematiche, una sorta di leggi della matematica, validi per un’infinità
di casi dello stesso tipo, p.e. il teorema di Pitagora valido per tutti i possibili triangoli
rettangoli.
Non si può dire, però, che la matematica ellenica raggiunga pienamente lo status di
scienza. Essa infatti accumula molti elementi della scienza matematica ma non tutti e
soprattutto non li assembla in un tutto, cioè non li collega fino a comporre un insieme
unitario esauriente. Nell’età ellenistica invece viene raggiunto proprio questo risultato, ad
opera del matematico Euclide. Per questo possiamo dire che Euclide fu il padre della
matematica come vera e propria scienza.
La ricerca matematica dell’età ellenica aveva aperto una serie di problemi:
 non era chiaro quale fosse il rapporto tra concetti matematici e mondo reale;
 il metodo dimostrativo sembrava comportare che ogni dimostrazione dovesse
fondarsi su un’altra dimostrazione logicamente anteriore, cadendo così in un
regresso all’infinito;
 la scoperta dell’incommensurabilità da parte dei pitagorici () e i paradossi di
Zenone () avevano evidenziato il dualismo tra quantità continue e quantità
discrete e i paradossi del concetto di infinito.
Euclide trasforma in scienza il sapere matematico greco affrontando e risolvendo questi
problemi. Egli infatti assume gli enti matematici come enti teorici, cioè come enti
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
costitutivamente distinti dagli enti reali con i quali però possono avere rapporti di
corrispondenza in base a precise regole. In altre parole, la matematica in quanto teoria
scientifica non si identifica con la realtà fisica ma si può applicare ad essa in base al criterio
dell’approssimazione.
In secondo luogo, Euclide cataloga in modo rigoroso gli enti matematici (angoli, figure
piane, solidi, ecc.) riducendoli alle loro parti elementari (punti, rette, piani) e offrendone in
questo modo delle precise definizioni. Per evitare il regresso all’infinito Euclide poi fonda
tutte le dimostrazioni su cinque “postulati”, cioè su cinque regole che devono essere
accettate senza dimostrazione, e su alcuni assiomi, cioè su alcune verità considerate
evidenti (p.e. la parte è sempre minore del suo tutto). Infine Euclide stabilisce che ogni
altra conoscenza matematica, cioè ogni altra affermazione sulle proprietà degli enti
matematici e sui loro rapporti, per essere valida deve essere dimostrata, ossia deve essere
dedotta logicamente dalle definzioni, dai postulati e dagli assiomi. In questo modo Euclide
configura la scienza matematica come un rigoroso sistema ipotetico-deduttivo, ovvero
come un insieme organico di conoscenze basate su alcuni principi primi (ypo-tèsis in greco
significa fondamento di una tesi) dai quali devono essere dedotte tutte le tesi che dunque
risultano tra loro logicamente concatenate.
La scienza matematica di Euclide tratta sia le quantità discrete sia le quantità continue. Le
prime sono rappresentate dai numeri interi aritmetici, le seconde dalle grandezze
geometriche (lunghezze, perimetri, aree, ecc.).
Il teorema “vi sono più numeri primi che in ogni quantità [finita] data di numeri primi”
implica al tempo stesso un esempio di dimostrazione e di trattazione sia di quantità
discrete sia del concetto di infinito. La sua dimostrazione parte dall’assunzione di un
insieme finito qualunque di numeri primi diversi da 1 e dall’individuazione di un numero k
uguale al loro minimo comune multiplo (ovvero al loro prodotto) più 1. Ne consegue che k
non può essere multiplo di nessuno dei numeri primi dell’insieme qualunque iniziale.
Chiamando m un fattore primo di k diverso da 1, m non può far parte di quell’insieme. In
altre parole, c’è sempre almeno un numero primo ulteriore rispetto a qualsiasi insieme di
numeri primi per quanto vasto esso possa essere. Questa dimostrazione tratta l’infinito –
in quanto dimostra che i numeri primi sono infiniti – senza cadere in paradossi zenoniani
poiché riduce e risolve il problema dell’infinito in relazioni tra quantità finite.
In riferimento, invece, al problema delle grandezze, cioè delle quantità continue, Euclide
affronta la questione dell’incommensurabilità consistente nell’indeterminatezza del
rapporto tra due grandezze, p.e. il lato (a) e la diagonale (b) di un quadrato. Infatti,
essendo a e b privi di un sottomultiplo comune, non è possibile che xa sia uguale a yb (dove
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
x e y sono due numeri interi) ovvero che il rapporto a/b sia uguale a quello x/y. Stando così
le cose, quale può essere dunque il significato teorico del rapporto tra a e b? Com’è
possibile che abbiano un rapporto?
Euclide, sviluppando e sistematizzando la teoria delle proporzioni di Eudosso, riesce a
determinare matematicamente il rapporto tra incommensurabili elaborando e utilizzando
la sua definizione di proporzione: quattro grandezze formano una proporzione – a:b=c:d –
quando per essa vale almeno una delle seguenti relazioni (dove x e y sono 2 numeri
naturali qualsiasi):
 xa>yb e simultaneamente xc>yd
 xa=yb e allo stesso tempo xc=yd
 xa<yb e contemporaneamente xc<yd.
In questo modo anche un rapporto tra incommensurabili può costituire una proporzione e
trovare così un significato matematico. Infatti essendo a e b lato e diagonale del quadrato A
e c e d lato e diagonale del quadrato B vale a:b=c:d in base alla relazione di uguaglianza di
cui al punto 2.
Un ulteriore apporto di enorme importanza per lo sviluppo della scienza matematica è
rappresentato dallo sviluppo e dall’uso del “metodo di esaustione”, scoperto da Eudosso,
da parte di Archimede. Il metodo di esaustione (che fu chiamato così dai matematici
moderni) è un’ulteriore e più potente modalità di determinazione ed uso matematico del
continuo e dell’infinito. Archimede lo applicò per risolvere il problema di calcolare l’area di
un segmento di parabola. Sulla base del postulato che se due aree sono disuguali esiste un
multiplo della loro differenza che è maggiore di esse, Archimede costruisce all’interno del
segmento di parabola il triangolo ABC in cui A e B sono gli estremi della base del segmento
di parabola e C il punto dell’arco di parabola più distante da AB. Ne consegue che la sua
area è maggiore della metà dell’area del segmento di parabola.
Quindi Archimede costruisce un nuovo triangolo CBD con base un lato del triangolo ABC e
vertice il punto più distante dal segmento di parabola CB dell’arco di parabola di CB. L’area
del triangolo CBD è 1/8 di quella di ABC. Lo stesso procedimento si può ripetere
costruendo triangoli con base CD e DB e così via all’infinito fino ad approssimare – ovvero
a “esaurire” – l’area definita dalla parabola. Pur senza usare il termine “limite”, Archimede
ne scopre e ne utilizza il concetto, ovvero scopre e utilizza il calcolo infinitesimale,
fondando su di esso la geometria differenziale.
In tutti i casi sopra indicati, i matematici ellenistici riescono, per così dire, a domare,
ovvero ad addomesticare, l’infinito, che per i Pitagorici era il fantasma dell’irrazionalità,
cioè del caos. Essi, infatti, trova il modo di descrivere e calcolare matematicamente
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
l’infinito usando solo concetti finiti ed evitando così di incappare nei paradossi messi in
luce da Zenone.
E’ la prima vittoria della scienza matematica sull’infinito, ma certamente non l’ultima – la
storia della matematica è anche una guerra continua contro l’infinito – visto che ancora
oggi si è ben lontani da quella definitiva, che è ragionevole pensare che nemmeno ci sarà
mai.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
MATEMATICA ELLENISTICA E MATEMATICA MODERNA
La trattazione euclidea dell’infinito tramite quantità finite coincide con il metodo usato
nell’analisi matematica contemporanea che è alla base della teoria matematica degli
insiemi finiti di Cantor. La definizione euclidea di proporzione fu ripresa dai matematici
contemporanei Weierstrass e Dedekind che la usarono per fondare la moderna teoria dei
numeri reali, comprensivi dei numeri irrazionali (espressioni matematiche degli
incommensurabili). Il “metodo di esaustione” di Archimede aveva già definito il concetto
di “limite” (pur senza usare un termine greco equivalente per denominarlo). Il suo
metodo fu ripreso alla fine del 1600 da Newton e da Leibniz, considerati a torto gli unici
“inventori” del calcolo infinitesimale.
La matematica moderna e contemporanea non ha superato quella ellenistica a livello di
rigore logico e metodologico, ma a livello di estensione e di potenziamento delle capacità
di calcolo. Infatti la compilazione delle tavole logaritmiche e la loro stampa (1614) rese
per la prima volta il calcolo numerico (basato sulla numerazione posizionale scoperta
sempre dai matematici ellenistici ma da loro sottoutilizzata) più semplice e rapido,
consentendo di invertire il rapporto aritmetica (algebra)/geometria: mentre i
matematici ellenistici risolvevano i problemi algebrici impostandoli in modo geometrico
(con riga e compasso), i matematici moderni cominciano a fare l’opposto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
LA RICERCA ASTRONOMICA
Doveva pensare [Timeo] che la Terra fosse stata progettata non confinata e
stabile ma rivolgentesi e ruotante, come successivamente affermarono
Aristarco e Seleuco, il primo assumendolo solo per ipotesi, e Seleuco invece
provandolo?
Plutarco, Platonicae quaestiones, 1006C
Il problema principale della teoria geocentrica ( I Viaggio, Tappa 4) – messa a punto
scientificamente da Eudosso e canonizzata metafisicamente da Aristotele (VI Viaggio,
Tappa 4) – era costituto dalle “stazioni” e dalle “retrogradazioni” cicliche dei moti
planetari. In altre parole, mentre la teoria prediceva dei moti circolari, unidirezionali e a
velocità uniforme, l’osservazione visiva evidenziava che, in determinati periodi,
ricorrentemente i pianeti rallentavano, si fermavano, e invertivano momentaneamente il
loro cammino per poi riprenderlo regolarmente come prima. Per “salvare i fenomeni”, cioè
per conciliare la teoria con le osservazioni empiriche, Eudosso (V Viaggio, Tappa 10) era
ricorso a un complesso ma brillante sistema di combinazioni di più moti circolari uniformi.
La teoria di Eudosso, però, non riusciva a collimare coi moti orbitali di Venere e Marte e
soprattutto non spiegava la loro variazione di luminosità, segno di avvicinamento e
allontanamento rispetto alla Terra. Apollonio di Perga, già autore di un trattato
matematico sulle coniche (ellisse, parabola, iperbole), per risolvere questi problemi,
riforma la teoria geocentrica ipotizzando che ogni pianeta sia incastonato su una piccola
sfera ruotante su se stessa (epiciclo) con il centro in un punto della circonferenza massima
di una sfera molto più grande (deferente) ruotante a sua volta intorno a un punto a poca
distanza dal centro della Terra. In questo modo Apollonio riesce ad approssimare molto
meglio le orbite di Venere e Marte e a spiegare la variazione della loro distanza dalla Terra.
Per risolvere gli stessi problemi, lo scienziato pitagorico Aristarco di Samo abbandona il
geocentrismo e teorizza per primo che il Sole occupa il centro del cosmo e che tutti i pianeti
si muovono intorno al Sole in orbite circolari. Su questa base Aristarco attribuisce
esplicitamente alla Terra 2 movimenti:
 un moto annuale di rivoluzione intorno al Sole;
 un moto giornaliero di rotazione intorno al proprio asse, inclinato rispetto al piano
dell’orbita intorno al Sole.
Secondo Aristarco, la teoria eliocentrica è in grado di “salvare i fenomeni”, ossia di spiegare
le apparenti stazioni e retrogradazioni dei pianeti, in modo più semplice di quella
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
geocentrica, in quanto ricorre alla combinazione di 2 soli moti circolari, quello della Terra
e quello di ogni pianeta. Data infatti la diversa lunghezza delle orbite planetarie, la Terra
ciclicamente viene avvicinata e superata dai pianeti interni (cioè più vicini al Sole:
Mercurio e Venere) e si avvicina e supera i pianeti esterni (più lontani dal Sole: Marte,
Giove, Saturno). Di conseguenza a un osservatore terrestre sembra che i pianeti
ciclicamente rallentino (fase di avvicinamento), si fermino (fase di affiancamento) e poi
tornino indietro (fase di allontanamento).
La teoria eliocentrica di Aristarco, dunque, spiega l’osservazione dei moti di
retrogradazione dei pianeti in base alla relatività ottica. Il principio di relatività ottica dei
moti era già stata teorizzata da Euclide. Il poeta latino Lucrezio (I sec. a.C.) l’avrebbe
ripresa nel De rerum natura (IV libro) col famoso esempio dei passeggeri della nave in
moto parallelamente alla costa ai quali sembra che sia la costa a muoversi. Allo stesso
modo, il moto circolare giornaliero delle stelle e del Sole intorno alla Terra in direzione
ovest (antioraria) poteva essere spiegato con il moto circolare giornaliero della Terra sul
proprio asse in direzione est (oraria).
I moti della Terra, però, pongono un difficile problema. Infatti, a differenza di una nave o
di un altro oggetto in movimento, in base alla stima nota delle dimensioni terrestri di
Eratostene (VIII Viaggio, Tappa 3), alla Terra si attribuiva una velocità di rotazione di
circa 1.600 km/h. Di conseguenza non si poteva fare a meno di pensare che il moto della
Terra avrebbe dovuto produrre effetti fisici clamorosi per non dire terrificanti, p.e. un
vento ciclonico permanente da est verso ovest.
Per risolvere questo problema gli scienziati ellenistici (oltre a Aristarco, anche Archimede,
Ipparco e Seleuco) sviluppano in senso più radicale la relatività ottica, arrivando a
teorizzare la relatività come il principio fisico secondo il quale ogni moto è relativo
all’osservatore e le osservazioni empiriche non descrivono oggettivamente il moto dei
corpi, ma il rapporto tra l’osservatore e i corpi osservati. Su questa base infatti si può
sostenere che la Terra (atmosfera compresa) si muove insieme a un osservatore terrestre.
Questi pertanto non può rilevare coi sensi il moto della Terra. Per farlo avrebbe bisogno,
infatti, di un punto di riferimento esterno e immobile rispetto alla Terra.
Ma questo punto di riferimento, c’è ed è rappresentato dalle stelle del firmamento, che gli
astronomi geocentrici avevano chiamato “stelle fisse” per la perfetta circolarità del loro
moto apparente giornaliero e per l’invarianza delle loro reciproche posizioni e distanze.
Dunque, se la Terra si muove, dovrebbe essere possibile per un osservatore terrestre notare
uno spostamento rispetto alla posizione di una stella fissa in un dato momento della
giornata, posizione che è sempre la stessa ogni giorno.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Infatti, poiché il punto di vista dell’osservatore cambia nel corso dell’anno, a causa del
moto di rivoluzione, una stessa stella è osservabile in base a due prospettive diverse ed è
possibile rilevare la “parallasse” della stella rispetto alla Terra, cioè l’angolo tra le due rette
che congiungono la stella a ognuno dei due diversi punti di osservazione.
Poiché invece le osservazioni non gli permettono di rilevare alcuna parallasse, mentre gli
astronomi geocentrici asseriscono che questa è un’altra prova dell’immobilità della Terra,
Aristarco afferma che la parallasse è troppo piccola per essere vista. Da questa conclusione
Aristarco deduce la tesi che la distanza tra la Terra e le stelle fisse è immensa, mettendo in
discussione le ridotte dimensioni del cosmo sostenute dai geocentrici.
La teoria eliocentrica di Aristarco, tuttavia, non individua le cause fisiche dei moti
planetari. E’ Ipparco a elaborare una teoria dinamica del cosmo. Basandosi sull’analogia
con un sasso che ruota in una fionda antica, egli teorizza che le orbite circolari dei pianeti
sono la combinazione di due moti rettilinei: uno centrifugo, proprio di ogni pianeta, e uno
centripeto, dovuto all’attrazione esercitata dal Sole su ogni pianeta. In questo modo
Ipparco giunge a sostenere l’inerzia – cioè la tendenza di ogni corpo a muoversi all’infinito
– e la forza gravitazionale solare, che secondo lui si trasmette attraverso i raggi solari per
contatto diretto.
Ipparco inoltre sostiene per primo che le stelle fisse hanno un moto proprio diverso da
quello apparente giornaliero. Egli deduce questa tesi dal fatto che la teoria di Aristarco
spiega il moto circolare delle stelle come un’apparenza ottica del moto di rotazione
terrestre. Ciò significa per Ipparco che le stelle fisse non sono trasportate dalla sfera che
racchiude il cosmo, come sostenevano i geocentrici. Da un lato dunque esse sono libere da
vincoli, dall’altro devono muoversi per analogia con i pianeti. Data l’enorme distanza, già
teorizzata da Aristarco, tra Terra e stelle, i moti stellari per Ipparco appaiono lentissimi a
un osservatore terrestre e quindi non sono rilevabili nell’arco di una o più vite umane. Per
questo Ipparco compila una mappa delle posizioni delle stelle e affida ai posteri l’incarico
di verificare i loro spostamenti.
Aristarco non aveva fornito un’argomentazione decisiva a favore della superiorità della
teoria eliocentrica su quella geocentrica. In base alla sua opera le due teorie risultavano
ugualmente plausibili. La teorizzazione ipparchea dell’attrazione solare favoriva
l’eliocentrismo perché si abbinava meglio a una posizione centrale e preminente del Sole.
Ma nemmeno questa era un’argomentazione risolutiva. E’ Seleuco, basandosi sulla teoria
delle maree, a individuare una prova empirica consistente a favore dell’eliocentrismo.
Eratostene aveva teorizzato la dipendenza delle maree dalla Luna sulla base della
coincidenza tra intensità e fasi delle maree e posizioni e fasi della Luna. L’esistenza di
un’attrazione esercitata dalla Luna sulla Terra poneva il problema del perché la Terra non
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
si scontrasse con la Luna. Secondo Seleuco tale problema può essere risolto solo
attribuendo alla Terra una forza centrifuga – dovuto a un moto rotatorio mensile intorno al
baricentro del sistema Terra-Luna – capace di controbilanciare la forza attrattiva lunare.
Dunque la Terra non può essere ferma al centro del cosmo. Seleuco, inoltre, giunge ad
affermare che il cosmo è infinito e aperto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
LA RICERCA FISICA
Certo la Luna è trattenuta dal cadere dallo stesso moto e dalla rapidità della
sua rotazione, proprio come gli oggetti posti nelle fionde sono trattenuti dal
cadere dal moto circolare. Il moto secondo natura guida infatti ogni corpo, se
non è deviato da qualcos’altro.
Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 923 C-D
Come infatti il Sole attira a sé le parti in cui consiste, così anche la Terra […].
Plutarco, De facie quae in orbe lunae apparet, 924E
Il primo trattato ottico conosciuto è quello di Euclide. La sua ottica individua come proprio
oggetto i raggi visuali cui è attribuita la proprietà della propagazione rettilinea. I filosofi
antichi avevano sostenuto che le apparenze visive sono ingannevoli. Platone, p.e., aveva
rilevato che la distanza fa vedere più piccoli gli oggetti e aveva contrapposto la misurazione
matematica delle grandezze alla loro stima visiva. Euclide invece offre una spiegazione
scientifica delle percezioni visive in base a semplici corrispondenze tra percezioni e raggi
visuali che uniscono l’occhio agli oggetti visti. Egli può così ricondurre la grandezza
apparente degli oggetti alla loro grandezza angolare e dedurne così la grandezza reale.
In questo modo l’ottica euclidea collega la geometria alle scienze della visione. Innanzitutto
all’astronomia, permettendole stime della grandezza dei corpi celesti nonché la costruzione
degli astrolabi. Ma anche alla geografia, per il rilievi topografici, e alle arti figurative
(pittura, scenografia), alle quali consentì di elaborare e praticare la tecnica della
prospettiva, soprattutto quella assiale, ma anche quella centrale.
Dopo Euclide, Archimede ed Erone sviluppano la “catottrica”, cioè lo studio delle leggi
della riflessione, che serve loro per progettare ogni genere di specchi, compresi i famosi
specchi “ustori”, cioè specchi parabolici che possono concentrare i raggi solari in un unico
punto (ma che non servono a bruciare le navi). Erone scopre il teorema per cui un raggio di
luce A che si riflette su specchio piano e arriva nel punto B percorre il cammino più breve
tra tutti quelli tra A e B che toccano lo specchio: si tratta del principio di minimo più antico
di cui abbiamo notizia.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
La geografia diventa scienza assumendo come proprio obiettivo la descrizione
quantitativo-matematica precisa di tutto il mondo conosciuto. Essa si serve del “principio
di triangolazione” in base al quale è possibile stabilire la distanza di un punto inaccessibile
misurando le direzioni in cui è visto da due punti a distanza nota. Matematicamente il
principio di triangolazione implica l’uso della trigonometria che viene sviluppata anche in
relazione all’astronomia, ovvero per misurare le distanze tra i corpi celesti.
Il primo geografo scientifico è Dicearco, un allievo di Aristotele che individua un parallello
stabilendo tutte le località da Gibilterra alla Persia che si trovano alla stessa latitudine. Ma
il più grande geografo ellenistico è Eratostene, autore della prima mappa scientifica – cioè
basata sul latitudini e longitudini – del mondo da Gibilterra all’India e dal circolo polare
artico alla Somalia. Eratostene riuscì anche a stimare la lunghezza del meridiano terrestre
con un errore inferiore all’1%.
La meccanica, intesa come scienza delle macchine, si deve a Ctesibio di Alessandria, Filone
di Bisanzio, Erone ma soprattutto Archimede. Essa nasce come ricerca dei principi di
funzionamento delle leve e dei metodi di determinazione dei baricentri delle figure piane.
L’obiettivo fondamentale della meccanica è come spostare un peso P a un’altezza h usando
una forza F<P. Il rapporto P/F è il “vantaggio meccanico” della macchina. Grazie alla
scienza meccanica per la prima volta è possibile calcolare teoricamente il vantaggio
meccanico e quindi progettare teoricamente una macchina che abbia il vantaggio
meccanico voluto.
La meccanica di Archimede è strettamente legata alla geometria di Euclide da cui mutua
l’impostazione e l’organizzazione sistematica. In questo modo Archimede usa la meccanica
anche per scoprire nuovi teoremi di geometria. In particolare egli scopre la formula per
trovare il volume della sfera immaginando di equilibrare un oggetto sferico e uno cilindrico
posti sui due piani di una bilancia.
Anche la scienza dell’acqua è opera di Archimede, che la fonda sul seguente postulato: “Se
porzioni di liquido sono contigue e allo stesso livello, la porzione più compressa caccia via
la meno compressa. Ogni porzione è compressa dal peso del liquido che è sopra di sé in
verticale, purché il liquido non sia rinchiuso in qualcosa e compresso da qualcos’altro”.
Il noto principio dei vasi comunicanti è implicito in questo postulato e dunque Archimede
lo conosceva e ne faceva uso, sebbene esso sia attribuito tradizionalmente a Erone.
Esplicitamente, invece, Archimede deduce dal postulato il famoso principio che porta il suo
nome secondo cui un corpo immerso in un liquido sposta una quantità di liquido di peso
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pari al suo. In base questo principio Archimede determina le linee di galleggiamento di
solidi immersi in liquidi e la stabilità delle loro posizioni di equilibrio.
Più noto come astronomo, Ipparco, in stretta relazione con la sua teoria dei moti celesti
(Viaggio VIII, Tappa 2), elabora anche una teoria relativa ai moti dei corpi terrestri,
unificando almeno parzialmente fisica celeste e fisica terrestre. Egli teorizza innanzitutto
un moto “naturale” rettilineo uniforme proprio di tutti i corpi che può variare solo per
intervento di corpi o forze esterne. Inoltre, Ipparco (ma anche gli altri scienziati dell’epoca)
elabora e utilizza il concetto di “attrito” come resistenza opposta dal suo mezzo (aria, piano
di un tavolo, ecc.) al moto naturale di un corpo. In altre parole Ipparco comprende il
principio di inerzia, pur senza chiamarlo così e senza darne una definizione completa e
rigorosa.
In secondo luogo, per spiegare il moto dei gravi terrestri, Ipparco ricorre alla combinazione
del moto naturale rettilineo e della forza di gravità, intesa come “spinta” di tutti i corpi
verso il proprio centro. Egli sostiene che questa “spinta” diminuisce all’avvicinarsi di un
corpo al centro e aumenta al suo allontanarsi dal centro. In sostanza, Ipparco sostituisce
alla teoria aristotelica dei “luoghi naturali”, una teoria dell’attrazione gravitazionale e
sostiene anche che la gravità non è causa del moto di un corpo, ma della sua variazione di
velocità, cioè della sua accelerazione.
Il punto di partenza del metodo scientifico ellenistico è indubbiamente la tecnica
dimostrativa messa a punto dai filosofi antichi. L’uso della tecnica dimostrativa, cioè di
concatenazioni deduttive, implica l’individuazione esplicita e precisa di principi di
partenza, chiamati “postulati” o “assunzioni” o anche “ipotesi” (il cui significato primo è
“fondamenti”). Un primo elemento specifico e decisivo del metodo scientifico ellenistico è
l’individuazione dei “fenomeni”, cioè delle esperienze sensibili, come criterio di scelta delle
ipotesi iniziali. In altre parole le premesse di ogni scienza sono selezionate in base alla loro
capacità di trarne deduzioni che possano spiegare le apparenze osservative. P.e., Aristarco
sceglie l’ipotesi del moto di rivoluzione terrestre in quanto da esso è deducibile la
spiegazione dei fenomeni della stazione e della retrogradazione dei pianeti.
Dunque la scienza è concepita come una teoria ipotetico-deduttiva legata all’osservazione
empirica. Questa però è concepita come una “apparenza” che cela o dissimula la vera
realtà, alla quale si può giungere solo attraverso una spiegazione razionale dell’apparenza,
cioè grazie alla teoria. A sua volta la ricostruzione teorica della realtà si basa sulla
misurazione matematica e ha i suoi criteri di verifica nell’esperimento e nell’applicazione
tecnica. Gli scienziati ellenistici, infatti, non verificano le loro teorie sulla base
dell’esperienza naturale, ma sulla base di esperienze costruite artificialmente grazie all’uso
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di strumenti e apparecchi tecnici. L’esempio più semplice, dovuto a Filone di Bisanzio, è
quello della candela accesa in una campana sommersa dall’acqua per misurare gli effetti
della combustione sul livello dell’acqua contenuta nella campana. In questo senso la
scienza ellenistica produsse, e al tempo stesso utilizzò per svilupparsi, un grande numero
di importanti innovazioni tecnologiche quali: argano, leva, puleggia, cuneo, vite, ruota
dentata, pompe, lenti, cannocchiali, orologi a acqua, catapulte a torsione lanciapietre,
giunti cardanici, astrolabio piano, macchine per sollevamento dell’acqua, vite di Archimede
o coclea, mulini a vento e ad acqua, macchine a vapore, differenziale, alberi a camme,
meccanismi di retroazione, automi, macchine agricole automatiche, organo idraulico.
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TAPPA 4
LA RICERCA NELLE SCIENZE EMPIRICHE
Erofilo ammette una capacità motoria nei nervi, arterie e muscoli. Egli pensa
che il polmone abbia una tendenza a dilatarsi e a contrarsi. La naturale
attività del polmone, egli dice, è l’aspirazione del soffio (pneuma)
dall’esterno.
Pseudo-Galeno, De historia philosopha, 103
Erofilo dice che i sogni “mandati da un dio” si hanno necessariamente, i
naturali invece si presentano quando la psiche forma le immagini di ciò che è
a proprio vantaggio e di ciò che certamente accadrà; i sogni composti si
formano poi spontaneamente, al sopraggiungere delle immagini, ogni volta
che sogniamo ciò che desideriamo, come accade agli uomini innamorati
quando nei loro sogni fanno l’amore con le donne che amano.
Pseudo-Galeno, De historia philisopha, 106
Il salto di qualità dalla medicina come tecnica alla medicina come scienza è costituito dalla
nascita dell’anatomia e della fisiologia basate sulla dissezione del corpo umano. Questo
sviluppo decisivo si deve a Erofilo di Calcedonia. Erofilo è il primo a descrivere il fegato e
l’apparato digerente. Egli distingue le parti dell’intestino, usando nomi (duodeno, digiuno)
rimasti nella nomenclatura della scienza medica.
Ancora più importanti sono le sue scoperte relative al sistema nervoso. Erofilo non solo
comprende la funzione direttiva del cervello – a differenza di Aristotele che pensava
servisse a raffreddare il sangue – ma scopre i nervi e li distingue in sensori e motori.
Inoltre, studia l’apparato circolatorio, scoprendo le cavità e le valvole del cuore, e quello
riproduttivo, scoprendo le ovaie, le tube di Falloppio e l’epididimo. A proposito
dell’apparato respiratorio, attribuisce ai polmoni la capacità non solo di inspirare aria ma
anche di veicolarla nel sangue arterioso. Per la prima volta, infine, descrive la retina, la
cornea, l’iride e la coroide.
Erofilo sviluppa anche le conoscenze diagnostiche e terapeutiche. Si deve a lui
l’introduzione della misura della frequenza del battito cardiaco - di cui scopre la
correlazione con la temperatura corporea e con l’età - come strumento diagnostico
fondamentale. Per misure il battito cardiaco Erofilo si fa costruire un orologio ad acqua
tarabile a seconda dell’età.
A livello di terapia, Erofilo sostiene l’importanza dell’esercizio fisico, delle diete (anche a
scopo preventivo) e di farmaci di origine naturale. Sua è l’emblematica affermazione:
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“Sono le medicine le mani degli dei”. Soprattutto Erofilo riconosce l’inutilità di
somministrare medicine in alcuni casi estremi come quelli dei malati di colera. Il che è
forse la riprova più convincente del suo approccio scientifico alla cura del corpo umano.
Erofilo è anche il fondatore della psichiatria. Egli è infatti il primo a descrivere e catalogare
i sintomi delle patologie psichiche, che precedentemente erano state considerate
manifestazioni divine. Nell’ambito dei suoi studi della psiche umana, Erofilo elabora anche
una teoria naturale dei sogni, sostenendo che essi sono la manifestazione dei desideri
umani e che, come tali, rappresentano attraverso immagini situazioni o azioni in cui essi
vengono soddisfatti.
In questo senso, per Erofilo, i sogni possono anche prefigurare il futuro, non perché siano
una forma di divinazione, ma perché manifestano la volontà e gli scopi profondi che gli
individui celano nella loro psiche e che dunque possono spingerli ad attuare azioni simili a
quelle sognate. E’ probabile che si debba a Erofilo anche la tesi del carattere simbolico dei
sogni, secondo cui nei sogni cose e persone reali sono rappresentati analogicamente da
altre cose e persone.
L’importanza attribuita da Erofilo alla matematica come strumento fondamentale della
conoscenza è attestata dalla sua scoperta della misurazione del battito cardiaco. Egli è
probabilmente il primo scienziato a porsi il problema di determinare un’unità di misura
per durate temporali dell’ordine di un secondo. Egli risolve questo problema scegliendo la
durata media del battito di un neonato. Inoltre Erofilo per analizzare i ritmi cardiaci fa uso
della matematica, determinando i rapporti tra durata della sistole e durata della diastole e
distinguendoli in rapporti razionali e rapporti irrazionali.
Erofilo da questo punto di vista mostra familiarità con i concetti e i termini degli Elementi
di Euclide ma anche con i termini musicali e metrici che utilizza per denominare i vari tipi
di ritmi cardiaci. Vi sono inoltre rapporti evidenti degli studi e delle tecniche di Erofilo con
la meccanica e la pneumatica di Ctesibio, rispettivamente per l’uso di orologi tarati e per il
funzionamento di pompe e valvole. Un ulteriore elemento di scientificità della medicina di
Erofilo è costituito dalla sua scelta di rinunciare alla terminologia naturale, legata al
linguaggio corrente, a favore di una terminologia convenzionale legata a un linguaggio
specialistico e alla consapevolezza del carattere teorico, ovvero ipotetico-deduttivo, della
conoscenza medica.
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La scientificità della medicina ellenistica è però attestata in modo ancor più significativo
dalla pratica della dissezione dei cadaveri nonché da quella della sperimentazione in vivo,
cioè sui corpi di condannati a morte. Ciò significa che la medicina praticata da Erofilo si
basava non solo e non tanto sull’esperienza quanto soprattutto sull’esperimento. A questo
proposito disponiamo di una testimonianza emblematica su un esperimento realizzato da
Erasistrato di Ceo, che proseguì e allargò la sua ricerca.
Erasistrato teorizza che gli animali emanino materia non visibile a occhi nudi. Per
verificarlo chiude in un contenitore, dopo averlo pesato, un animale senza nutrirlo. Dopo
alcuni giorni lo ripesa insieme ai suoi escrementi e confronta peso iniziale e peso finale. Il
carattere “moderno” di questo esperimento è attestato non solo dalla sua progettazione
teorica e dalla sua dimensione artificiale ma anche e soprattutto dalla sua impostazione
quantitativo-matematica.
I più significativi sviluppi della ricerca scientifica in campo biologico si devono a Teofrasto,
allievo di Aristotele e suo successore alla guida del Liceo. Interessato soprattutto alla
botanica, Teofrasto abbozza una teoria di fisiologia vegetale basandosi sia sul patrimonio
passato di conoscenze empiriche sia su osservazioni ed esperimenti da lui stesso svolti. Egli
poi si concentra in particolare sul problema dei cambiamenti degli esseri viventi nel
passaggio da una generazione all’altra. Da questo punto di vista, Teofrasto distingue
innanzitutto cambiamenti spontanei e cambiamenti dovuti ai mutamenti dell’ambiente
esterno.
In secondo luogo egli afferma che i cambiamenti spontanei, sia nelle piante sia negli
animali, avvengono nel seme, sono ereditari e possono portare a cambiamenti consistenti
nel succedersi di più generazioni. In terzo luogo, su questa base, Teofrasto critica
l’interpretazione finalistica del vivente di Aristotele. Poiché nella sua Fisica, Aristotele
riporta, per confutarla, un’interpretazione delle mutazioni biologiche basata
sull’interazione tra mutazione casuale e selezione naturale, è plausibile che sia Teofrasto
l’autore di questa teoria.
La nascita della chimica empirica è attestata innanzitutto da descrizioni di composti e
reazioni chimiche connessi alla produzione artigianale di coloranti, metalli, vetro,
cosmetici, profumi, medicine nonché imitazioni dell’oro, dell’argento, delle gemme e della
porpora. Ma l’attribuzione di un carattere scientifico alla chimica ellenistica si base
soprattutto su l’acquisizione di nozioni teoriche quali:
 la distinzione tra sostanze eterogenee, miscele e composti chimici;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
 il concetto di ònkos (tradotto in latino moles), che comunemente significava
volume, massa, mole, usato per indicare quella componente ultima di una sostanza
che però, a differenza dell’atomo, può subire trasformazioni in base una
scomposizione e riagreggazione delle sue parti: ciò che in età moderna verrà
chiamato “molecola”;
 la divisione delle sostanze in parti caratterizzate da un peso misurato dalla bilancia;
 il principio di conservazione della massa, sulla base dell’idea che qualsiasi consumo
apparente di materia consiste in una sua trasformazione che a volte può dar luogo a
sostanze impercettibili;
 il concetto di acido.
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LA SCOPERTA
LA REALTA’ COME CREAZIONE DI UN DIO INFINITO
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Cannocchiale su…
L’ORIZZONTE STORICO-CULTURALE
DELL’ETA’ ROMANA (168 a.C.-529 d.C.)
L’assimilazione della cultura greca da parte della civiltà romana
Dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.), con la quale i romani stroncarono definitivamente il
regno di Macedonia, la Grecia, prima, e successivamente tutto il Medio Oriente furono
conquistati da Roma. Nell’area mediterranea finì l’età ellenistica e incominciò l’epoca
romana. Se nell’età ellenistica la cultura greca si era fusa con quelle mediorientali dando
origine alla cultura ellenistica, nell’età romana la cultura ellenistica – che già aveva
cominciato a diffondersi negli ambienti intellettuali romani nel III secolo a.C. in seguito
alla conquista della Magna Grecia – venne assorbita da quella romana dando origine alla
cultura romana dell’età imperiale, una cultura sempre più cosmopolita. Questa cultura
costituì il collante dell’unificazione socio-politica della popolazione dell’impero romano
che raggiunse il suo culmine con l’editto di Caracalla (Constitutio antoniniana) del 212
d.C. in base al quale i maschi liberi di tutte le province imperiali acquisirono piena e uguale
cittadinanza romana.
L’assimilazione della cultura greco-ellenistica fu promossa dal partito innovatore, facente
capo alla famiglia degli Scipioni, ma all’inizio fu duramente avversata e frenata dal partito
tradizionalista capeggiato da Marco Porcio Catone (detto il Censore) e sostenitore del mos
maiorum sintetizzato nelle leggi delle 12 Tavole (V secolo a.C.). Essa riguardò innanzitutto
la letteratura ma subito dopo si allargò alla filosofia. Ancora più di quella della letteratura
greca, la penetrazione della filosofia greca a Roma si scontrò con le istituzioni politiche,
non solo inizialmente, e cioè nell’età repubblicana, ma anche in una fase più avanzata,
quando ormai Roma si era trasformata in un impero. In altri termini, i filosofi, dapprima
Greci poi anche romani, furono spesso oggetto di provvedimenti repressivi non solo da
parte dei senatori tradizionalisti, ispirati da Catone, ma anche da imperatori quali Tiberio,
Nerone, Vespasiano. Solo a partire da Adriano, cioè dal II secolo d.C., la filosofia cominciò
a essere tollerata e poi anzi onorata.
Per comprendere meglio sia l’avversione dei tradizionalisti romani alla filosofia sia il modo
in cui gli innovatori romani recepirono la filosofia, è necessario ricordare che per i romani
la forma più importante di cultura, ovvero la regina delle discipline conoscitive e quindi
scolastiche, era la retorica, intesa come l’arte di saper fare discorsi convincenti. La ragione
di questo privilegio è nota: la civiltà romana era essenzialmente un’organizzazione politicomilitare, l’individuo era innanzitutto un civis, e dunque la capacità di parlare, tanto per far
valere le proprie ragioni nei dibattiti politici quanto per incitare i soldati a combattere, era
considerata la dote prioritaria di ogni romano. Il romano, sosteneva Catone, doveva essere
vir bonus et dicendi peritus, un uomo “buono” – ossia ubbidiente al mos maiorum – ed
esperto nel parlare, cioè nel tenere discorsi in pubblico. Di conseguenza, i tradizionalisti
romani rifiutarono la filosofia in quanto era costituita da saperi (metafisica, gnoseologia,
fisica) che essi ritenevano superflui e dispersivi, mentre gli innovatori, almeno
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
inizialmente, accolsero sì la filosofia ma selezionandone e valorizzandone quelle branche
(etica, politica, retorica) che erano consonanti con la mentalità romana e dunque
privilegiando i filosofi e le scuole che più avevano dato spazio ad esse.
La stasi e la decadenza della ricerca scientifica
In questa prospettiva, in particolare, i romani si disinteressarono quasi completamente
della componente scientifica della filosofia. I saperi scientifici – matematica, astronomia,
fisica, biologia, medicina – si erano sviluppati sin dall’inizio nel seno della filosofia, o
comunque in rapporto ad essa, e, nell’età ellenistica, avevano raggiunto un livello tale di
fioritura da dare avvio a una vera e propria rivoluzione scientifica, che avrebbe potuto
anticipare di due millenni la rivoluzione scientifica moderna. La conquista romana del
Mediterraneo orientale, invece, fece abortire la rivoluzione scientifica ellenistica. I romani,
infatti, al contrario delle monarchie ellenistiche postalessandrine, non promossero,
finanziandola, la ricerca scientifica e lasciarono deperire le istituzioni scientifiche dell’età
ellenistica. Emblematico, in tal senso, il fatto che la conquista di Alessandria d’Egitto da
parte di Cesare nel 48 a.C. provocò, in seguito a un incendio, la distruzione di una parte,
piccola ma ugualmente significativa, dell’immenso patrimonio librario della Biblioteca
regia, che sarebbe poi stata ancor più danneggiata dalla guerra tra l’imperatore Aureliano e
la regina Zenobia nel III secolo d.C., e poi distrutta definitivamente dagli arabi nel VII
secolo. Ciò spiega come mai lo sviluppo scientifico della civiltà romano-mediterranea si
arrestò nel II secolo d.C. e perché dopo questo secolo il livello delle conoscenze scientifiche
calò drasticamente. Infatti, le più significative opere scientifiche romane, quali il D e
architectura (29-23 c.ca a.C) di Vitruvio e la Naturalis historia (77 d.C.) di Plinio il
Vecchio, ebbero un carattere meramente enciclopedico e divulgativo, erano cioè opere di
erudizione che raccoglievano e diffondevano il sapere acquisito dalle civiltà greca ed
ellenistica senza aggiungervi quasi nulla di nuovo.
Ancor più emblematico della stasi e della decandenza delle scienze nell’epoca romana è il
caso dell’astronomo Claudio Tolomeo, vissuto nella seconda metà del II secolo d.C., che
seppur ancora dotato di ottime cognizioni matematico-scientifiche, disponeva però di un
livello di conoscenza scientifica inferiore a quello dei grandi scienziati dei secoli precedenti,
come Archimede e Ipparco. Tolomeo elaborò una nuova più precisa e unitaria versione
della teoria geocentrica, ma il suo merito maggiore, benché non di poco conto, fu quello di
sintetizzare in un unico sistema le invenzioni teoriche degli astronomi geocentrici dell’età
ellenistica. Soprattutto, pur conoscendola direttamente, Tolomeo rifiutò la raffinata teoria
eliocentrica di Aristarco di Samo (III secolo a.C.), la confutò teoricamente e fu il principale
responsabile scientifico dell’oblio dell’eliocentrismo fino alla sua ripresa da parte di
Copernico nel XVI secolo.
Parzialmente controcorrente fu la ricerca scientifica in campo medico, dato che l’utilità
della medicina risultava, naturalmente, evidente anche ai romani. In particolare, Claudio
Galeno (129-212 d.C.) sintetizzò nella sua opera la tradizione scientifica medica
dell’antichità. La scienza medica, secondo Galeno, doveva basarsi sulla teoria dei 4 umori
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
del corpo umano: il flegma (freddo e umido), la bile nera (fredda e secca), la bile gialla
(calda e secca), il sangue (caldo e umido). Il prevalere in ogni corpo umano di uno di questi
umori determina il carattere dell’individuo, che dunque può essere, rispettivamente,
flemmatico, malinconico, bilioso o sanguigno. Il benessere psicofisico è dato dall’equilibrio
perfetto tra i quattro umori, le malattie sono provocate dai loro diversi squilibri. La terapia
medica deve quindi mirare al riequilibrio, utilizzando sì farmaci o interventi chirurgici, ma
solo come stimoli per attivare la naturale capacità di autoguarigione dell’organismo. La
scienza medica moderna, comunque, si svilupperà da una critica e da un superamento
della scienza galenica, soprattutto perché sostituirà alla spiegazione finalistica del
funzionamento del corpo, tipica di Galeno, quella meccanicistica.
Per quanto riguarda, invece, le cosiddette arti, ossia i saperi pratico-tecnici, come p.e. l’arte
meccanica, è emblematica la condanna di Cicerone nel De officiis: “[…] tutti gli operai
esercitano una professione degradante; il lavoro manuale non può avere alcun segno di
nobiltà. Minimamente poi devono riscuotere approvazione quelle professioni destinate a
soddisfare i piaceri materiali”. Le uniche arti che Cicerone salvava erano l’architettura e
l’agricoltura.
L’arrivo e lo sviluppo della filosofia a Roma
Per quanto riguarda, invece, gli aspetti non scientifici della filosofia, la prima
testimonianza significativa del contatto tra la cultura romana e la filosofia greca fu quella
dell’ambasceria a Roma, nel 156/155, dei tre più rinomati e celebri filosofi Greci di quel
momento: Carneade, scolarca dell’Accademia media, ad indirizzo scettico; Critolao,
scolarca del Peripato (o Liceo) aristotelico; Diogene (di Seleucia), caposcuola dello
stoicismo. I tre maestri trovarono modo di esporre pubblicamente le proprie dottrine.
Carneade in particolare diede una mirabile dimostrazione di tecnica dialettica tessendo
prima l’elogio della giustizia e confutandone, invece, il giorno successivo, il valore. In
breve, i tre filosofi Greci furono espulsi da Roma e rispediti in Grecia. Il principale
fomentatore della loro espulsione fu, naturalmente, Catone. L’anno successivo, arrivarono
a Roma due filosofi Greci epicurei e tentarono anche loro di diffondere le loro idee, ma
furono anch’essi immediatamente espulsi. In seguito, però, il romano Gaio Amafinio
scrisse in latino un trattato divulgativo della filosofia epicurea, che, tra la fine del II secolo
a.C. e l’inizio del I, diede origine a un movimento epicureo diffuso soprattutto tra la classe
plebea. Ancora nel I secolo a.C. il ricco Calpurnio Pisone, suocero di Cesare, fu convertito
all’epicureismo dal siriano Filodemo e, insieme a lui, promosse la formazione di un circolo
epicureo aristocratico nella sua villa di Ercolano. Ma il massimo cultore e diffusore latino
della filosofia epicurea fu il poeta Lucrezio che visse nella prima metà del I secolo a.C. e
scrisse il poema De rerum natura, nel quale espose fedelmente la filosofia di Epicuro
utilizzando lo stile poetico come mezzo per comunicarla e diffonderla, non solo
intellettualmente ma anche emotivamente, a un più vasto pubblico. Tuttavia, la filosofia
epicurea in età romana rimase una filosofia d’élite, coltivata soprattutto da plebei, gruppi
di intellettuali e qualche circolo aristocratico, tutti accomunati dall’opposizione
363
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
all’establishment romano. In altre parole, l’epicureismo romano fu una filosofia del
dissenso e di dissidenti, e non poteva che essere tale considerando che Epicuro aveva
sostenuto il rifiuto della vita politica e pubblica a favore di una vita ritirata e vissuta in un
piccolo gruppo di amici.
Contemporaneamente, a Roma cominciò a diffondersi lo stoicismo, attraverso i due
capiscuola del mediostoicismo, e cioè Panezio di Rodi, della seconda metà del II secolo
a.C., e Posidonio di Apamea (Siria), della prima metà del I secolo a.C. Panezio soggiornò a
lungo a Roma, ospitato e protetto dal Circolo degli Scipioni; Posidonio, che insegnava a
Rodi, ebbe come ascoltatori Cicerone e Pompeo, e moltissimi giovani delle famiglie
aristocratiche romane furono mandati da lui a completare i loro studi. In questo modo lo
stoicismo divenne progressivamente la filosofia dell’establishment romano, della sua classe
dominante e dirigente. Ciò si spiega sia con la maggiore compatibilità tra il mos maiorum e
la filosofia stoica originaria, sia con la revisione moderata e accomodante che Panezio e
Posidonio fecero dello stoicismo originario, anche in seguito all’influenza esercitata su di
loro dalla civiltà romana. In questo senso, per esempio, Panezio e Posidonio sostennero
che, tra i beni “indifferenti” ve ne sono alcuni “preferibili” (agiatezza, salute, forza, ecc.),
cioè da valorizzare e utilizzare per rendere più facile la pratica della virtù, cosicché le azioni
“intermedie” per procurarseli devono essere considerate dei “doveri”. Una posizione,
questa, che calzava perfettamente con la mentalità romana.
All’inizio del I secolo a.C. si verificò anche una rinascita del pensiero aristotelico, che
dall’inizio del III secolo a.C. non aveva più avuto sviluppi di rilievo. In questo modo anche
l’aristotelismo cominciò a diffondersi a Roma, in particolare grazie a Stasea di Napoli,
Aristone di Alessandria e Cratippo di Pergamo. Nell’86 a.C., poi, Silla saccheggiò Atene e
portò a Roma la biblioteca del Liceo, o Peripato, la scuola aristotelica, cosicché negli anni
successivi cominciarono a essere pubblicati a Roma alcuni scritti di Aristotele. Ma fu
soprattutto l’ordinamento e la pubblicazione del Corpus Aristotelicum, cioè dell’opera
completa di Aristotele, ad opera di Livio Andronico, nella seconda metà del I secolo, a
rilanciare il pensiero aristotelico. Infatti, precedentemente, in Grecia, al di fuori del Liceo,
circolavano solo gli scritti essoterici (cioè rivolti al pubblico esterno), mentre non erano
mai stati pubblicati gli scritti esoterici (cioè riservati agli studenti del Liceo). Stimolata dal
Corpus Aristotelicum, la corrente peripatetica continuò a svilupparsi fino a Alessandro di
Afrodisia, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., per poi esaurirsi. Mentre gli
aristotelici precedenti Livio Andronico interpretarono Aristotele in senso naturalisticomaterialistico, quelli successivi lo interpretarono sempre più in senso platonico.
Intorno all’88 a.C. il nuovo scolarca dell’Accademia platonica, Filone di Larissa, si trasferì
a Roma, dove aprì una scuola e nell’87 pubblicò due suoi libri. Filone abbandonò l’indirizzo
scettico dell’Accademia di Carneade a favore di un nuovo orientamento aperto alla
contaminazione delle tesi ritenute più valide di altre scuole filosofiche. Questo nuovo
orientamento è chiamato “eclettismo”. Tra i romani che frequentarono la scuola di Filone,
vi fu Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che divenne iniziatore e principale esponente
dell’eclettismo romano, che si può considerare l’apporto più originale e tipico che la cultura
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romana seppe dare allo sviluppo della filosofia. L’eclettismo infatti si confaceva alla
mentalità romana, poco incline alle sottigliezze e alle distinzioni teoretiche, e più
pragmaticamente interessata all’esito pratico del pensiero. Cicerone, studioso e quindi
conoscitore di tutte le diverse filosofie greche – pitagorismo, platonismo, aristotelismo,
epicureismo, stoicismo, scetticismo – partiva dall’assunto, di origine scettica, della
relatività veritativa di ogni scuola filosofica per giungere a sostenere che è però possibile
individuare l’opinione più “probabile”, cioè più vicina possibile alla verità, confrontando le
diverse tesi e scegliendo per ogni questione quella che risulti migliore, indipendentemente
dalla scuola alla quale la si attinge. In tal senso Cicerone mise a punto un collage, o un
patchwork, filosofico, rifacendosi a tutte le tradizioni filosofiche da lui conosciute, con
l’eccezione dell’epicureismo, di cui affermò di non condividere niente, e del cinismo, che
per lui non era nemmeno degno di essere considerato una filosofia.
Negli anni successivi alla morte di Cicerone, cioè nella seconda metà del I secolo a.C., ad
Alessandria d’Egitto fu fondata una scuola neoscettica ad opera di Enesidemo (80-10 a.C.)
che si era staccato dall’Accademia quando, con Filone di Larissa, questa aveva
abbandonato l’impostazione scettica per abbracciare quella eclettica. Il neoscetticismo fu
poi portato avanti, tra gli altri, da Agrippa, nella seconda metà del I secolo d.C., dal medico
empirico Menodoto e soprattutto da Sesto Empirico, nella prima metà del II secolo d.C., il
quale sviluppò lo scetticismo come fenomenismo sensista.
Il cinismo giunse a Roma tardi, a causa del declino del movimento filosofico nel II e nel I
secolo a.C., ma anche perché di tutte le filosofie greche era certamente quella più
inconciliabile col mos maiorum, tanto che anche il tollerante ed eclettico Cicerone giunse a
sostenere che il cinismo doveva essere “respinto in blocco” perché “contrario alla
verecondia”. Ciò nonostante, a partire dal I secolo d.C., anche il cinismo cominciò a
diffondersi a Roma, prima con Demetrio e poi con Dione Crisostomo. Entrambi però
ebbero vita difficile: il primo fu espulso da Roma nel 71 d.C. dall’imperatore Vespasiano, il
secondo esiliato nell’82 d.C. da Domiziano, ma poi riaccolto e onorato da Traiano. Dal II
secolo d.C. il cinismo, o meglio la “vita cinica”, divenne la filosofia più diffusa nei ceti
popolari, mantenendo la sua valenza anticivile.
L’evoluzione della filosofia nei primi secoli dell’impero
L’influenza di Panezio e Posidonio e l’affinità elettiva tra la tradizione romana e lo
stoicismo fecero sì che, a partire dal I secolo d.C., nascesse e si sviluppasse una nuova fase
dello stoicismo – il neostoicismo o nuova stoà – del tutto romana, di cui furono principali
esponenti Seneca (4 a.C-65 d.C.), Epitteto (50-120 d.C.) e Marco Aurelio (121-180 d.C.).
Questo stoicismo romano si caratterizzò per il prevalente o esclusivo interesse per l’etica,
per un’apertura eclettica ad altre correnti filosofiche, in particolare al platonismo, e per la
sua curvatura intimistico-religiosa, ovvero per l’importanza assunta dalla problematica del
rapporto tra l’interiorità dell’individuo e la divinità.
Nel I secolo a.C., in particolare dopo il saccheggio di Atene da parte di Silla, l’Accademia
platonica, che nell’ultima sua fase aveva abbracciato un indirizzo eclettico, si disciolse. Nel
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corso del I secolo d.C., però, il platonismo rinacque ad Alessandria d’Egitto. Questa nuova
fase di sviluppo del platonismo è chiamata “medioplatonismo”, proseguì fino alla fine del
II secolo d.C. ed ebbe come principali esponenti Plutarco di Cheronea, vissuto tra il I e II
secolo d.C., autore delle celebri Vite parallele; Apuleio di Madaura, vissuto nella prima
metà del II secolo d.C. e autore di Metamorfosi (o L’asino d’oro); Celso vissuto nella
seconda metà del II secolo d.C. Il medioplatonismo valorizzò il versante trascendente della
filosofia di Platone, sviluppandola in senso teologico-religioso.
Sempre nel I secolo, e proprio in ambiente romano, emerse il “neopitagorismo”. E’
Cicerone stesso che indica Publio Nigidio Figulo come l’iniziatore della ripresa e della
evoluzione dell’antica filosofia pitagorica, mai del tutto spenta nei secoli precedenti.
Nigidio Figulo in particolare organizzò una vera e propria scuola pitagorica. Tra la fine del
I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. Quintino Sestio ne fondò un’altra. Altri esponenti del
neopitagorismo nel I e nel II secolo d.C. furono Moderato di Gades e Apollonio di Tania,
contemporanei di Nerone e dei Flavi, e Numenio di Apamea, vissuto nella seconda metà
del II secolo d.C. Il neopitagorismo romano si caratterizzò per la valorizzazione
dell’immaterialità dei principi primi (Monade e Diade) e dell’anima umana, per una
tendenza “monoteistica” a far derivare tutta la realtà, anche la Diade, dall’unico principio
della Monade, per la tensione mistico-religiosa.
La genesi della filosofia cristiana e di altre filosofie religiose
Si è visto come nei primi secoli dell’impero romano, le diverse correnti filosofiche avessero
assunto un orientamento religioso. Questo cambiamento va inserito nella più generale
tendenza dell’intera cultura romana verso un nuovo sentimento religioso, molto diverso da
quello tradizionale. La religione politeistica romana, che aveva inglobato le divinità dei
popoli italici e poi si era fusa con la religione olimpica greca, era una religione politica, cioè
tutt’uno con le autorità e le attività dello Stato romano. Oltre alla religione ufficiale esisteva
una religiosità popolare strettamente legata alle attività lavorativo-produttive, alla
riproduzione dei figli e, più in generale, al benessere psico-fisico individuale e famigliare.
Ma entrambe le religioni, quella ufficiale e quella popolare, erano religioni
dell’immanenza, cioè religioni credute e praticate al fine di assicurare una più felice
condizione terrena. L’aldilà, la dimensione dell’esistenza dopo la vita terrena, era concepito
come un regno di ombre, buio e cupo, dove si sopravviveva in modo larvale, un luogo
tutt’altro che attraente, la cui unica funzione era quella di consentire una comunicazione
con i parenti morti.
Tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., però, cominciarono a diffondersi a Roma
nuove religioni di origine orientale che promettevano la salvezza eterna, cioè la
sopravvivenza dell’anima individuale, dopo la morte del corpo, in una dimensione
ultraterrena positivamente connotata. La diffusione delle religioni salvifiche, p.e. esempio
il culto di Mitra o la religione di Iside, attesta l’emergere di un nuovo bisogno religioso
proiettato nella dimensione trascendente, ossia l’esigenza di una vita immortale ancora più
felice di quella mortale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Nel I secolo d.C. fu elaborata la prima filosofia dichiaratamente basata su una religione
orientale, e precisamente sull’ebraismo. Autore ne fu Filone di Alessandria (25 a.C.-40
d.C.), la città in cui, nel III secolo a.C., la Bibbia ebraica era stata tradotta in greco. Filone
fu il primo filosofo a sostenere la tesi dell’identità tra la verità dell’Antico Testamento
ebraico e la verità della filosofia greca. A tal fine, però, la Bibbia non andava recepita
letteralmente ma interpretata allegoricamente. Lo scopo ultimo della filosofia era per lui
l’unione mistica con Dio.
A partire soprattutto dal II secolo d.C., una delle tante religioni salvifiche che pullulavano
nella società romana, e che inizialmente era diffusa solo all’interno delle comunità
ebraiche, il cristianesimo, cominciò a organizzarsi in comunità autonome e a diffondersi
sempre più ampiamente soprattutto tra le classi medie urbane, in qualche caso anche tra
elementi della classe dominante. Nello stesso secolo i primi intellettuali cristiani gettarono
le basi della filosofia ispirata al cristianesimo, detta “patristica”, in quanto opera dei
“padri” della Chiesa, ovvero i primi intellettuali cristiani, coloro che gettarono le
fondamenta della dottrina teologica cristiana. La filosofia patristica del I-II secolo d.C. fu
chiamata “apologetica” perché aveva come scopo principale la difesa del cristianesimo
dagli attacchi dei filosofi legati alla tradizione classica. Il primo “padre”-apologeta di rilievo
fu Giustino (nato nei primi anni del II secolo d.C. e giustiziato come cristiano nel 165 d.C.)
che sostenne che i filosofi Greci avevano plagiato la Bibbia ma anche che alcuni di loro
avevano anticipato verità cristiane in quanto tutti gli uomini posseggono parzialmente quel
logos divino che Cristo avrebbe poi posseduto totalmente. L’apologetica cristiana provocò
la reazione dei filosofi legati alla religione politeistica greco-romana. Emblematico in
questo senso il Discorso vero (180 d.C.) in cui il medioplatonico Celso ribaltò contro il
cristianesimo l’accusa di minare l’impero e di aver plagiato i filosofi Greci, soprattutto
Platone.
Ma la reazione della cultura filosofico-religiosa tradizionale si espresse ancor più
significativamente in una serie di scritti del II-III secolo d.C. che tentarono una sintesi di
filosofia e religione diffondendola come trascrizione di antichissime e originarie tradizioni
sapienziali mediorientali scaturite da una rivelazione divina. Le più importanti opere di
questo nuovo genere furono il Corpus Hermeticum e gli Oracoli Caldaici. Il Corpus
Hermeticum, costituito da 17 trattati, fu composto da vari autori, tutti sconosciuti, ma
diffuso come opera di Ermete Trismegisto (= tre volte grandissimo), denominazione
dell’antico dio egizio della scrittura e della conoscenza Thoth (corrispondente all’Hermes
greco, ovvero al Mercurio latino). Il suo contenuto, proposto come sapienza egizia del II
millennio a.C. ed espresso in uno stile in parte narrativo-simbolico in parte logicoargomentativo, è imperniato su un Dio-Luce unico e trascendente da cui derivano il Logos,
suo primogenito, l’Intelletto demiurgico, suo secondogenito, l’Anthropos, l’uomo
incorporeo, suo terzogenito, destinato a “cadere” nella materialità e, successivamente, a
salvarsi recuperando la propria natura puramente spirituale e “indiandosi”, cioè unendosi
misticamente a Dio. Gli Oracoli Caldaici, scritti, in questo caso pare effettivamente, da
Giuliano detto “il Teurgo”, si rifacevano alla sapienza babilonese, ovvero alla religione
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
mesopotamica del sole/fuoco, erano presentati come rivelazione di Ecate, dea della magia,
e contenevano una dottrina della divinità simile a quella ermetica ma soprattutto una
tecnica, detta appunto teurgia, che utilizzava immagini magiche e formule orali per
avvicinarsi a Dio fino a congiungersi con lui.
Nello stesso periodo, tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., all’interno della patristica
cristiana emerse un orientamento decisamente antifilosofico. Ne fu iniziatore Tertulliano
(155-230 d.C. circa), nato a Cartagine, la cui tesi fondamentale fu successivamente
sintetizzata nella famosa sentenza “credo quia absurdum” (credo proprio perché è
assurdo). In altri termini, Tertulliano, basandosi anche sui passi delle epistole di S. Paolo
che definivano la fede cristiana “scandalo” e “follia”, sosteneva che la fede era negazione e
rifiuto della ragione e dunque di qualsiasi filosofia. La posizione di Tertulliano prevalse
nella patristica latina, mentre la patristica greca seguì e sviluppò l’orientamento di
Giustino, favorevole alla mediazione tra fede cristiana e filosofia greco-romana, con
Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-284). Il primo attribuì alla filosofia il
ruolo di introduzione alla fede cristiana; il secondo scrisse il Contra Celsum, cioè la
confutazione delle critiche che Celso aveva mosso contro il cristianesimo, e sostenne che la
filosofia acquista un senso e un’utilità solo se illuminata dalla fede.
L’evoluzione della filosofia nel tardo impero: il neoplatonismo
Nel corso del III secolo d.C. ebbe inizio il declino dell’impero romano, o meglio della sua
parte occidentale. Dopo la dinastia dei Severi, dal 235 al 284, imperversarono la guerra
civile, la peste, il calo demografico, la recessione economica. In questa situazione il
cristianesimo aumentò notevolmente la sua diffusione facendo sempre più breccia nella
classe dirigente romana. Eppure proprio nel III secolo la cultura greco-romana si dimostrò
capace di reagire e di produrre una nuova filosofia di altissimo livello: il neoplatonismo,
cioè una nuova versione della filosofia di Platone che rifondeva al suo interno spunti e
apporti di tutte le diverse correnti filosofiche dell’età ellenistica e romana. Il fondatore del
neoplatonismo fu Plotino (204-270), nativo di Licopoli in Egitto, autore delle Enneadi, il
quale chiamò Uno il principio primo di tutto e lo configurò, al tempo stesso, come
immateriale e infinito, e concepì e praticò la filosofia come un ritorno all’Uno culminante
nell’estasi, cioè nell’abbandono del proprio io per fondersi con l’Uno-Tutto. Il
neoplatonismo fu ulteriormente sviluppato poi da Porfirio (234-305), discepolo di Plotino;
Giamblico (245-325), discepolo di Porfirio; Giuliano (331-363), l’imperatore romano
bollato dai cristiani come l’Apostata, cioè il traditore, perché aveva cercato di restaurare il
politeismo; Ipazia di Alessandria (370-415), caso unico di donna filosofo nell’antichità,
nonché di donna martire della filosofia, poiché fu seviziata e uccisa da cristiani fanatici
aizzati dal vescovo di Alessandria Cirillo; Proclo (412-485), che sintetizzò nella sua filosofia
tutto il pensiero neoplatonico precedente.
A partire dall’editto di Costantino (313), la chiesa cristiana, ormai strutturata
gerarchicamente, cominciò ad acquisire funzioni e poteri politici, fino a quando
l’imperatore Teodosio, con l’editto di Tessalonica (380), lo proclamò unica religione di
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Stato. Come attesta l’assassinio di Ipazia, lo sviluppo del neoplatonismo fu sempre più
osteggiato dai cristiani.
Ma paradossalmente il neoplatonismo, nato come risposta e alternativa al cristianesimo,
finì con l’essere colonizzato e utilizzato proprio dal cristianesimo e gli consentì, in tal
modo, di conquistare l’egemonia culturale, sconfiggendo definitivamente la tradizione
filosofica greco-romana. Infatti, in particolare a Milano verso la fine del IV secolo, per
iniziativa del vescovo Ambrogio, si formò un circolo di chierici-intellettuali dedito allo
studio della filosofia neoplatonica e alla sua conciliazione con la religione cristiana.
L’artefice dell’innesto del neoplatonismo sul tronco del cristianesimo fu uno dei membri
del circolo ambrosiano, Agostino di Tagaste (354-430), che elaborò così il primo sistema
filosofico cristiano complessivo capace di rivaleggiare con le grandi filosofie greco-romane.
Nel corso del V secolo d.C., mentre l’impero romano d’Occidente cessava d’esistere del
tutto con la deposizione di Romolo Augustolo (476), la religione e la filosofia cristiane
conquistarono la maggioranza della classe dirigente. Il neoplatonismo si ridusse sempre di
più fino a essere definitivamente soppresso, insieme con tutte le altre superstiti filosofie
antiche, da un editto del 529 con il quale l’imperatore d’Oriente Giustiniano, che era
riuscito a riconquistare la penisola italiana, ordinò la chiusura di tutte le scuole filosofiche
non cristiane.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
IX VIAGGIO
DIO COME INFINITA’ IMPERSONALE
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MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
E’ questo il significato della famosa prescrizione dei misteri: “Non divulgare
nulla ai non iniziati”: proprio perché il Divino non dev’essere divulgato, fu
proibito di manifestarlo ad altri, a meno che questi non abbia già avuto per se
stesso la fortuna di contemplare.
Poiché, dunque, non erano due, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto
visto (“unito”, dunque, non “visto”), chi allora divenne tale quando si unì a
Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un’immagine di Lui; egli,
però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna
differenziazione né rispetto a se stesso né rispetto alle altre cose; non c’era in
lui alcun movimento; né collera né desiderio erano in lui, una volta salito a
quell’altezza, e nemmeno c’era ragione o pensiero; non c’era nemmeno lui
stesso, insomma, se proprio dobbiano dir così. E invece, quasi rapito o
ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non
conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più si aggira
intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa
immobilità.
Egli ha trasceso ormai le stesse cose belle, anzi, ha trasceso il Bello stesso e il
coro delle virtù: è simile ad uno che, entrato nell’interno del penetrale, abbia
lasciato dietro di sé le statue collocate nel tempio, quelle statue che, quando
egli uscirà nuovamente dal penetrale, gli si faranno avanti per prime, dopo
aver avuto l’intima visione e dopo essersi unito non con una statua, con una
immagine, ma con Lui stesso: quelle statue che sono, dunque, di secondo
ordine.
Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un’estasi,
una semplificazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio di
adattamento; solo così si può vedere ciò che v’è nel penetrale; ma se si guarda
in altra maniera, tutto scompare.
Tutto ciò è soltanto un’immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti
sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato; ma un saggio
sacerdote che comprenda l’allusione, può giungere alla vera visione solo che
entri all’interno del penetrale. Anche se non vi entra, cioè se pensa che questo
penetrale sia qualcosa di invisibile, la sorgente e il Principio, egli sa tuttavia
che solo il Principio vede il Principio e che solo il simile si unisce al simile; e
non trascurerà alcuno degli elementi divini che la sua anima è capace di
contenere, già prima della visione; e il resto, poi, lo esigerà dalla visione
stessa; ma il resto, per chi ha trasceso tutto, è Colui che è prima di tutte le
cose.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’anima, infatti, non può mai arrivare al non-essere assoluto; se scende in
basso, scende al male, e cioè verso il non-essere, ma non al non-essere
assoluto; invece, se corre sulla via opposta, giunge non ad un altro ma a se
stessa; e così, poiché non è in un altro, non può essere in nulla ma solo in se
stessa; ma “essere in sé sola e non nell’essere”, vuol dire “in Lui”; e il
contemplante diventa non essenza, ma “al di là dell’essenza”, poiché si unisce
a Lui.
Se uno si vede già trasformato in Lui, egli possiede dunque in sé un’immagine
di Lui e se passa da sé, che è copia, all’originale, ha toccato finalmente il
termine del suo viaggio. Ma se decade dalla contemplazione, egli può
risvegliare la virtù che è in lui e, meditando sul suo ordine interiore, ritroverà
la sua leggerezza e salirà all’Intelligenza sulla via della virtù e, mediante la
saggezza, a Lui.
Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti
cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga di solo a
solo.
Plotino, Enneadi, libro VI, trattato 9, pragrafo 11
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ROTTA SU…
IL NEOPLATONISMO
Di diritto il fondatore della filosofia neoplatonica fu Ammonio Sacca, il quale però non
mise mai per iscritto il suo pensiero. Di conseguenza, di fatto fu il suo discepolo Plotino,
autore di 54 trattati intitolati Enneadi, il capostipite della scuola neoplatonica, destinata
a tener banco per tre secoli, dall’inizio del III all’inizio del VI secolo d.C., ovvero fino alla
fine della filosofia antica. In questo senso il neoplatonismo rappresentò, per così dire,
l’ultimo canto del cigno della filosofia e, più in generale, della cultura greco-romana, cioè,
fuori di metafora, l’ultima grande creazione filosofica dell’antichità classica.
Il nome “neoplatonismo” segnala in modo fin troppo netto che la nuova filosofia avviata
da Plotino si pone in continuità con la grande filosofia di Platone. Addirittura Plotino
presenta il suo pensiero come una riesposizione fedele del pensiero platonico, solo in
forma di trattato, anziché in quella del dialogo, e completa, comprensiva, cioè, anche dei
cosiddetti Insegnamenti orali, che Platone non aveva mai trascritto ma che erano stati
appuntati da alcuni dei suoi discepoli, innanzitutto Aristotele, e comunque erano stati
tramandati oralmente all’interno dell’Accademia.
In realtà, pur ispirandosi soprattutto a Platone, quella di Plotino è una filosofia originale
e, in tal senso, si avvale di tutte le filosofie postplatoniche, a cominciare da quella
aristotelica, rifondendone vari aspetti all’interno del suo pensiero benché valorizzando
soprattutto quelli ebraico-religiosi di Filone di Alessandria. Per questo, si può a buon
diritto affermare che il neoplatonismo è una sintesi di tutte le filosofie antiche. Ciò non
vuol dire che il neoplatonismo sia una forma di eclettismo, in quanto è semmai un
raffinato esempio di sincretismo. Infatti Plotino rifuse elementi delle filosofie precedenti
all’insegna del platonismo, cioè interpretandoli platonicamente e adattandoli ai capisaldi
del platonismo.
Il fulcro della sintesi plotiniana è la nuova concezione del principio primo di tutte le cose.
Mentre in tutte le filosofie precedenti l’infinitezza del principio, o dei principi, si abbina
alla materialità, e, invece, la sua immaterialità alla finitezza, Plotino spariglia le carte e
coniuga infinitezza e immaterialità, scoprendo un nuovo concetto dell’infinito, un infinito,
cioè, non quantitativo ma qualitativo, non potenziale ma attuale. In tal modo, Plotino
conferisce al principio primo, da lui chiamato “Uno” ma anche “Dio”, una potenza e una
trascendenza mai prima concepite. Dopo essersi posto un problema inedito – qual è il
principio del principio – e aver proposto la propria soluzione, Plotino spiega la
costituzione del mondo fisico elaborando una teoria del tutto originale, quella della
“prosecuzione”, ovvero dell’ “irradiazione”, del principio. Corollario di questa teoria è una
nuova concezione della materia, intesa non più come principio indipendente
contrapposto all’essere, cioè all’ordine razionale, ma come non-essere relativo, ossia
come privazione dell’essere.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Infine, Plotino riprende e rilancia la teoria antica dell’uomo come dio decaduto e delinea
la strada conoscitiva, etica ed erotico-estetica per il suo ritorno all’originaria condizione
divina, ma le aggiunge un esito finale del tutto inedito, quello dell’estasi, cioè della
possibilità per l’uomo di unirsi all’Uno-Dio mentre è ancora in vita e di raggiungere così
una felicità assoluta, in quanto infusa dall’infinità trascendente.
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VITA DI UN CAPITANO
PLOTINO
Plotino nacque a Licopoli, città del centro dell’Egitto (oggi Asyut), nel 204 d.C. Delle sue
origini e della sua famiglia non si hanno notizie perché Plotino stesso si rifiutò di
comunicarle a chiunque sostenendo che non avevano alcuna rilevanza. Appassionatosi alla
filosofia a ventotto anni, si trasferì ad Alessandria d’Egitto per seguire le lezioni dei
numerosi maestri che vi insegnavano. Ma di nessuno fu soddisfatto fino a quando non
conobbe Ammonio Sacca, filosofo platonico, di cui fu discepolo per undici anni. Nel 243,
Plotino lasciò Alessandria per unirsi alla spedizione contro i Persiani dell’imperatore
Gordiano III, con l’intento di fare conoscenza diretta delle filosofie dei maghi persiani e dei
gimnosofisti indiani. Ma, in seguito alla sconfitta di Gordiano, si ritrovò sbandato in mezzo
alla Persia. Rischiando più volte la vita, riuscì fortunosamente a raggiungere Antiochia.
Dopo la brutta avventura persiana, si trasferì a Roma, dove aprì una sua scuola,
frequentata anche da molte donne, e insegnò per molti anni. Mentre fino al 254, Plotino,
seguendo la prescrizione del suo maestro Ammonio, emulo in questo di Socrate, svolse un
insegnamento unicamente orale, cioè senza scrivere alcun testo proprio, a partire dal 254
cominciò a mettere per iscritto la sua filosofia e negli anni successivi compose 54 trattati. Il
suo più affezionato discepolo, Porfirio, autore anche di una sua biografia, ne curò la
pubblicazione raggruppandoli in 6 libri di 9 trattati ciascuno, da cui il titolo di Enneadi.
Dopo il travagliato ritorno dalla Persia, la vita di Plotino trascorse apparentemente nella
monotonia più totale. Porfirio, però, ci testimonia che, in realtà, Plotino visse la più
straordinaria delle esperienze, quella della cosiddetta “estasi”, ovvero dell’abbandono della
dimensione terrena, e della stessa coscienza individuale, e del congiungimento con il
principio divino e trascendente di tutte le cose, che Plotino denominava preferibilmente
“Uno”. Secondo la testimonianza di Porfirio, Plotino, nel corso di tutta la sua vita,
raggiunse l’estasi quattro volte.
Già cinquantenne Plotino soffriva di angina pectoris in forma stabile. Dopo i sessant’anni,
la sua malattia si aggravò seriamente, la vista gli si indebolì e la voce gli divenne rauca
tanto da rendere le sue parole poco comprensibili. Plotino decise così di porre fine alle sue
lezioni, abbandonò Roma e si trasferì in Campania nel podere rurale del suo amico e
discepolo Zeto. Né prima né dopo il suo trasferimento in campagna Plotino volle mai farsi
curare, perché riteneva che un uomo non si dovesse dare pena dei malanni e dei dolori del
proprio corpo. Per lo stesso motivo, durante la sua vita, non si era mai voluto far ritrarre da
pittori o scultori. Porfirio testimonia che una volta che un suo discepolo gli propose di
lasciarsi fare un ritratto gli disse: “Non è abbastanza portare quest’immagine che la natura
ci ha messo intorno, e bisognerà anche permettere che di questa immagine rimanga
un’altra immagine più duratura, come se essa fosse degna di uno sguardo?”.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Prima di morire, Plotino pronunciò, quale testamento spirituale, queste parole: “Io mi
sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo”. Correva l’anno 270
d.C.
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TAPPA 1
PLOTINO: TUTTO E’ UNO INFINITO E IMMATERIALE
Tutti gli enti sono enti per l’Uno, sia quelli che sono tali in primo grado, sia
quelli che partecipano in qualche modo dell’Essere. Che cosa sarebbero,
infatti, se non fossero uno? Poiché nessuno di essi, privato della sua unità, è
più quello. Per esempio: non c’è l’esercito se non è uno, né sono il coro e il
gregge, se non sono uno; neppure sono la casa e la nave se non hanno unità,
perché la casa e la nave sono uno e, tolta l’unità, la casa non sarebbe più casa,
né la nave più nave. […]
Inoltre, anche i corpi delle piante e degli animali, essendo uno ciascuno, se
sfuggono all’unità si dividono in molte parti e perdono l’essere che avevano; e
se diventano qualcosa di diverso, anche il nuovo essere esiste in quanto uno.
Plotino, Enneadi, VI, 9, 1, Rusconi 1992, a cura di Giuseppe Faggin
Ma neppure Egli è limitato. Da chi lo sarebbe? E nemmeno è illimitato come
grandezza. Dove avrebbe bisogno di estendersi e che cosa diventare, dato che
non ha bisogno di nulla? Egli possiede l’infinitezza in quanto potenza, poiché
né attinge altrove, né si esaurisce, poiché anche le cose che non si esauriscono
sono tali per opera sua.
La sua infinitezza dipende dal fatto che egli non è “più di uno” e che non c’è
nulla che possa limitare qualcuna delle cose che sono in Lui; proprio perché è
Uno, Egli non è misurabile né numerabile. Egli non trova un limite né in altri
né in se stesso, perché se così fosse, sarebbe dualità. Non ha dunque figura, in
quanto non ha parti, né forma.
Non cercarlo dunque con occhi mortali, come il nostro discorso va dicendo; e
non credere di poterlo vedere come pretenderebbe chi suppone che tutte le
cose siano sensibili e nega ciò che vale più di ogni cosa. In realtà sono proprio
le cose che si credono come le maggiormente esistenti che non esistono
affatto. Ma il Primo è sorgente dell’Essere ed è molto superiore all’essenza.
Plotino, Enneadi, V, 5, 10-11, ed. cit.
Bisogna concepirlo anche infinito, non perché sia interminabile in grandezza
o in numero, ma perché la sua potenza non è limitata. Infatti, se tu lo pensi
come Intelligenza o Dio, egli è da più; se lo raccogli in unità col tuo pensiero,
allora Egli è uno ancora più di quanto possa rappresentarlo il tuo pensiero,
poiché egli è in sé e per sé senza alcuna accidentalità. Quanto alla sua
autosufficienza, nessuno potrà negarne l’unità. Infatti, se fra tutti gli esseri
Egli è il più dotato e il più autosufficiente, ne consegue che Egli non ha
assolutamente bisogno di nulla. Tutto il molteplice e il non-uno è manchevole
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
perché consta di molti: perciò la sua essenza ha bisogno dell’unità; l’Uno,
invece, non ha bisogno di se stesso perché Egli stesso è uno. […] Di fatto, a Lui
non manca nulla né per avere l’essere né per avere il benessere né per
possedere il suo fondamento: poiché, essendo causa per le altre cose, Egli non
trae ciò che è da queste cose; quanto poi al benessere, potrebbe trovarsi fuori
di Lui? Insomma, per Lui il benessere non è accidentale, ma è Lui stesso. […]
Perciò nulla è bene per l’Uno, e quindi non avrà voglia di nessun bene, anzi
Egli è Super-Bene, e non è bene per se stesso, ma è bene per gli altri esseri che
possono parteciparne.
Plotino, Enneadi, VI, 9, 6, ed. cit.
Innanzitutto e soprattutto, Plotino denomina il principio primo di tutte le cose “Uno”. Ma
al contempo Plotino afferma che “Uno” non è il suo unico nome e, ancor di più, che non è il
suo vero nome, ma è, per così dire, solo uno dei suoi possibili epiteti. Infatti, il principio
primo di tutto (come approfondiremo in seguito) a rigore è innominabile, in quanto nessun
nome è sufficiente a connotarlo, cioè è in grado di significare la sua identità. Tuttavia, per
Plotino “Uno” è comunque la sua denominazione preferibile poiché ne esprime la prima
delle sue proprietà essenziali: l’essere senza parti e indifferenziato, cioè assolutamente
omogeneo. E’ proprio questa caratteristica che rende l’Uno principio della realtà fisica,
ovvero suo fondamento ontologico, e pertanto rende possibile argomentarne l’esistenza a
partire dall’osservazione delle cose sensibili.
Infatti, argomenta Plotino, se consideriamo qualunque cosa sensibile - una roccia, un
albero, un cane, ecc. - non possiamo non rilevare che essa è un composto di più e differenti
parti. P.e., un albero, si compone di radici, tronco, rami, foglie, è un insieme di molte e
diverse cose, cioè è una molteplicità. Ma se esiste come un albero, quell’albero lì, poniamo
quel pino, non può essere molteplice. Dunque, perché quel pino possa esistere, deve esserci
qualcosa che unifichi le parti che lo compongono. Questo qualcosa è appunto l’Uno, l’unità.
Per usare un’analogia esemplificativa, si può dire che l’Uno è come un collante che unifica i
vari e diversi aspetti di ogni cosa, rendendola una determinata cosa, ossia una roccia o un
cane o un albero, e facendola quindi esistere come tale. Ma se ogni cosa, conclude Plotino,
esiste in quanto è costituita dall’unità, allora l’esistenza delle cose attesta necessariamente
l’esistenza dell’Uno come principio di tutte le cose.
Nell’analogia utilizzata per esemplificare e semplificare, l’Uno è apparentato a un collante.
Ma bisogna ora rilevare una differenza fondamentale: mentre il collante è qualcosa di
fisico, l’Uno, cioè il criterio dell’unità, secondo Plotino non è invece fisico. Questa tesi è
intuitivamente comprensibile: quando diciamo o pensiamo “uno” o “unità”, ci riferiamo a
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
qualcosa di astratto, cioè a un principio puramente razionale, ovvero ideale. Plotino ricava
così una seconda proprietà fondamentale dell’Uno: la sua immaterialità appunto, da cui
conseguono necessariamente l’immutabilità e l’eternità. A queste caratteristiche Plotino ne
aggiunge una ulteriore e decisiva: l’infinitezza, intesa però non in senso quantitativo ma
qualitativo. Infatti, non essendo fisico, l’Uno non è spazio-temporale, dunque non è né
alto, né largo, né lungo, né può avere estensione o grandezze di qualunque tipo (volume,
peso, velocità, ecc.). L’Uno, sostiene Plotino, è infinito in quanto è infinita “potenza”,
ovvero come infinita attività produttiva, infinita energia (enérgheia in greco antico
significava azione, forza attiva) creativa. In altri termini, la potenza è l’attività in virtù della
quale l’Uno è principio di tutte le cose, le fa esistere.
In questo senso, l’Uno per Plotino non è un “infinito potenziale” (nel senso attribuito
all’espressione da Aristotele, il quale per “potenza” intendeva potenzialità, possibilità), cioè
qualcosa che si può accrescere indefinitamente, p.e. una retta; bensì un “infinito attuale o
in atto” (secondo Aristotele inconcepibile e quindi non reale), cioè del tutto completo e
compiuto, effettivamente attuato. In quanto infinito attuale, ovvero potenza creatrice,
l’Uno comprende tutte le qualità – essere, intelligenza, bellezza, bene, giustizia, ecc. – al
massimo grado, cioè a un grado infinito. Pertanto, secondo Plotino, l’Uno è oltre l’essere,
l’intelligenza, il bene, la bellezza, la giustizia, in quanto queste sono qualità determinate e
quindi finite, limitate. L’Uno, in tal senso, non esiste, ma super-esiste, o meta-esiste; non è
intelligente, ma super-intelligente, o meta-intelligente, e così via. Dunque possedendo non
solo tutte le qualità ma possedendole anche in misura infinita è perfetto, anzi superperfetto.
In questo modo, Plotino riesce a motivare e a fondare, più di ogni altro filosofo precedente,
la superiorità assoluta del principio rispetto a tutte le cose. L’Uno, infatti, risulta
effettivamente trascendente, dal momento che tutte le cose, non solo quelle fisiche ma
anche quelle ideali (essere, intelligenza, bene, ecc.) sono finite o al massimo infiniti
potenziali. Ma se è immateriale, immutabile, eterno, infinito, perfetto e trascendente,
allora l’Uno è divino e pertanto Plotino lo chiama anche Dio.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 1
Ogni cosa è composta di parti
Per esistere come una cosa deve possedere un principio unificatore
L’Uno è il principio di ogni cosa
indifferenziato
immateriale
infinito attuale
eterno
immutabile
non quantitativamente ma
qualitativamente
è super-essere, super-bene,
super-intelligenza
è effettivamente
trascendente
è Dio
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
PLOTINO: L’UNO E’ INEFFABILE
Perciò Egli è, in verità, ineffabile. Poiché qualsiasi cosa tu dica, tu dici sempre
qualche cosa. Ma l’espressione “al di là di tutto e al di là della Santissima
Intelligenza” è, di tutte le espressioni, la sola vera, perché non è un nome
diverso da Lui, né è una cosa fra tutte le altre, perché nulla veramente
possiamo dire di Lui; ma, dentro i limiti del possibile, cerchiamo di dare, così
fra di noi, un cenno su di Lui. […]
Plotino, Enneadi, V, 3, 13, ed. cit.
Ma perché allora parliamo di Lui? Veramente, noi diciamo solo qualche cosa
di Lui, ma non affermiamo nulla di Lui e non abbiamo di Lui né conoscenza
né pensiero.
E come dunque possiamo parlare di Lui se non lo possediamo? E’ vero, non lo
possediamo con la conoscenza, né lo possediamo pienamente: lo possediamo
però in tal modo da poter parlare di Lui senza però dirlo veramente. Noi
diciamo infatti quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è.
Plotino, Enneadi, V, 3, 14, ed. cit.
Ma che cos’è ciò che non ebbe l’esistenza?
Dobbiamo andarcene in silenzio e, messi in imbarazzo dai nostri argomenti,
sospendere ogni ricerca. Cosa dovrebbe cercare chi non ha più dove
procedere, allorché ogni ricerca è arrivata a un principio e si ferma lì? […]
Dobbiamo perciò eliminare il motivo dell’aporia, sopprimendo in Lui ogni
luogo ed escludendo da Lui ogni posto, e non affermare che Egli si trovi in
esso e abbia qui la sua dimora eterna, né che vi sia arrivato; diciamo soltanto
che “Egli è come è”, dicendo che “è” per necessità del discorso, e
riconosciamo che il luogo, come le altre cose, è posteriore, e posteriore a
tutto. Pensandolo, come noi lo pensiamo, non-spaziale e non ponendo nulla
intorno a Lui, noi non riusciamo a circondarne l’estensione e dobbiamo
riconoscere che Egli non ha estensione; e neppure la qualità, poiché nessuna
forma, nemmeno intellegibile, può esserci in Lui, e nemmeno alcuna
relazione con altro: Egli è infatti in sé stesso ed esisteva prima di ogni altra
cosa.
Che cosa possono dire dunque le parole “gli accadde di essere così?” Come
potremmo pronunciarle, quando anche le altre che si dicono di Lui
consistono in una negazione? Perciò è più giusto affermare che “non gli
accadde di essere così” piuttosto che “gli accadde di essere così”, poiché l’
“accadere” non gli appartiene affatto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Plotino, Enneadi, VI, 8, 11, ed. cit.
Poiché Egli è il Bene in sé e non “un bene”, è necessario che Egli non abbia
nulla in sé, dal momento che non ha nemmeno un bene. Ciò che Egli avesse in
sé, lo dovrebbe avere o come bene, o come non-bene: nel Bene in senso stretto
e primario non potrebbe esserci il non-bene, né il Bene può avere il bene.
Se dunque Egli non è né il bene né il non-bene, non ha veramente nulla. E se
non ha nulla, Egli è solo e privo di ogni cosa. Perciò, se le altre cose o sono
buone, pur non essendo il Bene, o non sono buone, Egli non ha né il bene né il
non-bene e, non avendo nulla, e proprio perché non ha nulla, è il Bene.
Plotino, Enneadi, V, 5, 12-13, ed. cit.
Che cosa è dunque? L’Uno è la potenza di tutte le cose; se esso non fosse, nulla
esisterebbe, né l’Intelligenza, né la Vita prima, né la Vita universale. Ciò che è
al di sopra della vita è causa della vita; l’attività della vita, che è tutte le cose,
non è la prima, ma scaturisce da esso come da una sorgente. Si immagini una
sorgente che non ha alcun principio e che a tutti i fiumi si espande senza che i
fiumi la esauriscano, e rimane sempre calma; i fiumi che escono da essa
scorrono tutti assieme prima di dirigersi verso punti diversi, ma ciascuno sa
già dove i flutti lo porteranno. Oppure <s’immagini> la vita di un albero
grandissmo, la quale trascorre in esso, mentre il suo principio rimane
immobile senza disperdersi per tutto l’albero, poiché risiede nelle radici.
Plotino, Enneadi, III, 8, 10, ed. cit.
Secondo Plotino, il principio di tutte le cose, l’Uno, è potenza immateriale infinita e
dunque trascendente, cioè al di là di ogni cosa finita, compresa la mente dell’uomo. Di
conseguenza niente e nessuno può conoscere l’Uno, nessun uomo, nemmeno il più
intelligente dei filosofi, può giungere a comprendere chi o cosa è. In questo senso, Plotino
afferma che l’Uno, in quanto infinito, è inconcepibile, cioè impensabile da parte della
mente umana, e dunque è “ineffabile”, cioè indefinibile e inesprimibile. Addirittura, come
già si è visto, non potremmo, a rigore, nemmeno nominarlo, neanche chiamarlo “Uno”, né
in alcun altro modo, perché qualsiasi nome ha un significato determinato, dunque finito, e
pertanto non può esprimere la sua infinitezza.
In tal modo sembra, ed è Plotino stesso ad ammetterlo, che la filosofia plotiniana si infili in
un vicolo cieco da cui è impossibile uscire, ovvero si trovi di fronte a un’aporia
indistricabile. Infatti, se l’Uno non si può pensare né dire, sembrerebbe impossibile
sviluppare una ricerca razionale sull’Uno. Ma così la filosofia di Plotino finirebbe ancor
prima di cominciare. In realtà, Plotino esce abilmente dal vicolo cieco e il modo in cui lo fa
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
costituisce uno dei più originali e significativi contributi alla storia del pensiero. Egli,
infatti, scopre quella che a buon diritto possiamo oggi chiamare la “logica dell’infinito”,
una logica specifica e quindi diversa dalla logica tradizionale, che così non è più la logica
ma diventa una logica, ovvero la “logica del finito”. In altri termini, per Plotino l’Uno, in
quanto infinito, è “ineffabile” se cerchiamo di concepirlo e di esprimerlo con la logica
normale, cioè la logica del finito; ma non lo è se invece ci sforziamo di pensarlo e
manifestarlo in base a una logica speciale, la logica dell’infinito.
In cosa consiste allora la scoperta di Plotino, ovvero la “logica dell’infinito”, il discorso
razionale capace di parlare di ciò di cui non si può parlare (se ci si attiene alla logica del
finito)? Plotino ne indica e ne utilizza quattro modalità:
1) la negazione;
2) il paradosso;
3) l’iperbole;
4) la metafora.
La logica dell’infinito consiste innanzitutto nel definire l’Uno non positivamente, ma
negativamente. Per esempio, dell’Uno non bisogna dire che è bene, piuttosto che alto,
oppure che è verde, ecc. Al contrario, per comprenderlo bisogna dire che non è bene, che
non è alto, che non è verde, e così via elencando tutte le cose e le proprietà. In altri termini,
anziché affermare ciò che è, bisogna negare che sia qualsiasi cosa, ovvero che abbia
qualsiasi proprietà. Perché? Perché qualsiasi cosa o qualsiasi proprietà che gli si
attribuisca, ovvero qualsiasi sua connotazione o determinazione, sarebbe finita e quindi
non solo inappropriata ma anche fuorviante in quanto ridurrebbe l’infinito a finito. Invece,
negando che sia qualsiasi cosa o abbia qualsiasi proprietà, ovvero qualsiasi connotazione o
determinazione, solo così è possibile esprimere l’Uno in modo appropriato, in quanto se ne
evidenzia appunto l’indeterminatezza e quindi l’infinità. Questa modalità della plotiniana
logica dell’infinito – che successivamente fu etichettata “teologia negativa” – raggiunge il
suo vertice, cioè la massima capacità di pensare e dire l’Uno infinito, nell’enunciato
negativo “l’Uno non è nulla” (usando la doppia negazione linguistica dell’italiano), ovvero
“l’Uno è nulla” (usando la negazione unica della logica e del latino), equivalente a “l’Uno
non è”. Infatti, la negazione di ogni cosa o proprietà è il nulla come negazione assoluta di
tutto ciò che è finito. Dunque il nulla è il non finito, cioè appunto l’infinito. E, in tal senso,
l’Uno, in quanto infinito, “non è”, dal momento che anche l’essere/esistere è una
determinazione finita, e l’Uno è al di là, ovvero prima, a monte, dello stesso essere.
In secondo luogo, la logica plotiniana dell’infinito utilizza i paradossi, ovvero asserzioni
contraddittorie, in quanto consistenti in una doppia contemporanea negazione di due cose
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
o proprietà opposte. Per esempio, “l’Uno non è né bene né non-bene (ovvero male)”,
enunciato che, naturalmente, si può variare utilizzando tutti gli opposti possibili: verofalso, bello-brutto, perfino unità e molteplicità. In tal senso, a rigore si deve dire anche che
“l’Uno non è né unità né molteplicità”, ovvero “né uno né non-uno”. Se consideriamo, poi,
che per Plotino l’Uno è il principio di ogni cosa, visto che ogni cosa è costituita dall’unità,
risulta conseguente, benché Plotino non lo espliciti, che si può parlare dell’Uno anche con
paradossi positivi, cioè attribuendogli contemporaneamente due cose o proprietà opposte,
p.e. “l’Uno è sia uno sia non-uno (cioè molteplice)”; e, ancora meglio, con paradossi sia
positivi sia negativi come “l’Uno non è né uno né molteplice ed è sia uno sia molteplice”. In
questo modo Plotino scopre che il principio di non-contraddizione è valido per la
conoscenza della realtà finita e che, invece, per conoscere l’infinito occorre basarsi sulla
contraddizione. In altri termini, la logica dell’infinito è incardinata sul principio di
contraddizione.
Una terza modalità della logica dell’infinito è l’iperbole, cioè l’uso di termini o espressioni
“eccessivi” quali Super-Bene, Super-Essere, Super-Vita, Perfettissimo, Purissimo, Supremo
o “al di là di tutto”, “Padre degli dei”, “Padre dell’Intelligenza”, “Re dei re”. L’uso
dell’iperbole è correlato a quello della contraddizione, in quanto ne esplicita il senso,
ovvero rimanda a qualcosa che è oltre gli opposti perché è più di essi: p.e., l’Uno è sia
essere sia non-essere e, insieme, non è né essere né non-essere perché non è un essere
finito ma un essere infinito, appunto un Super-Essere, cioè un essere di livello superiore.
Ma forse la locuzione più iperbolica, e insieme paradossale, con la quale Plotino indica
l’Uno è: “il trascendente di se stesso”; ovvero l’Uno è talmente trascendente da trascendere
anche la sua stessa trascendenza, il che sarebbe come dire che è talmente infinito da essere
maggiore di se stesso, cioè ancora più infinito di quanto sia infinito.
Infine, la logica dell’infinito si serve del linguaggio metaforico, cioè di figure retoriche quali
la metafora in senso stretto o la similitudine. In tal caso, l’Uno viene identificato o
paragonato con un ente fisico dotato di un forte valore simbolico, p.e. una fonte di luce, in
particolare il Sole, un fuoco che emana calore, un profumo che si diffonde, una sorgente
d’acqua, un albero. In tutti questi casi, gli enti fisici sono utilizzati da Plotino, per così dire,
come “controfigure” dell’Uno, cioè come immagini parziali dell’Uno capaci di
esemplificarlo e di avvicinarci alla comprensione di ciò che è veramente.
In questa prospettiva le immagini possibili dell’Uno, pensiamo a quella del Sole,
raggiungono il loro scopo di avvicinarci alla comprensione dell’Uno in un primo momento
per la loro immensa potenza, p.e. la capacità di illuminare del Sole da secoli e per secoli,
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ma soprattutto in un secondo momento, cioè quando si evidenzia che esse, nonostante
tutta la loro potenza, sono piccola cosa rispetto alla potenza infinita dell’Uno.
Cosa hanno in comune queste quattro modalità di pensare e dire l’Uno? Ovvero, qual è la
caratteristica peculiare della logica dell’infinito? La sua allusività, cioè essa non definisce in
alcun modo l’Uno, ma rinvia all’Uno, non lo esibisce ma allude ad esso. Solo con
l’allusione, secondo Plotino, è possibile avvicinarsi il più possibile alla comprensione
dell’Uno.
Per usare una metafora matematica, il pensiero dell’Uno può essere solo un “passaggio al
limite”. Oppure, utilizzando una più immediata metafora corporea, è come arrivare sul
ciglio di un burrone e sporgersi con il busto e la testa oltre di esso per averne un fuggevole
colpo d’occhio.
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MAPPA della TAPPA 2
L’Uno è infinito
L’Uno è al di là di ogni cosa, anche della mente dell’uomo
L’Uno è ineffabile, ovvero impensabile
Ma allora
Com’è possibile una filosofia dell’Uno?
Bisogna rinunciare alla logica classica, basata sul principio di non
contraddizione, perché è valida ma solo relativamente al finito
Bisogna adottare una logica dell’infinito, una
logica allusiva basata su:
la negazione:
dire ciò che
l’Uno non è, cioè
negarne ogni
proprietà finita
il paradosso:
attribuire
all’Uno
proprietà
opposte
l’iperbole:
indicare l’Uno
con superlativi
assoluti o con
locuzioni
esagerate
l’analogia:
paragonare
l’Uno al Sole,
alla sorgente di
un fiume, a un
fiore profumato
386
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI&VIAGGI DI OGGI
PLOTINO E GLI INSIEMI INFINITI DI CANTOR
Già prima di Plotino il problema dell’infinito aveva dato filo da torcere non solo a filosofi
come Aristotele ma anche a scienziati come Eudosso e Archimede. Ma sicuramente
Plotino lo rilanciò in modo clamoroso e infatti dopo di lui non ci fu quasi filosofo che non
si misurò con esso. A livello scientifico, in particolare in campo astronomico e
matematico, la ricerca intorno all’infinito riprese, almeno in Europa, con la rivoluzione
scientifica moderna e portò alla fine del Seicento alla messa a punto del calcolo
infinitesimale da parte del fisico Newton e del filosofo Leibniz.
Ma una svolta decisiva alla concezione matematica dell’infinito fu data due secoli dopo
da Georg Cantor (1845-1918) con l’elaborazione della teoria degli insiemi infiniti. Cantor,
innanzitutto, denominò “cardinalità” il numero degli elementi di un insieme e stabilì che
due insiemi hanno la stessa cardinalità, cioè sono equivalenti, quando ogni elemento di
un insieme può essere posto in corrispondenza biunivoca con un elemento di un altro
insieme. Ciò stabilito, Cantor prese in considerazione l’insieme infinito dei numeri
razionali (numeri interi più le frazioni ovvero i numeri decimali finiti o periodici) e
dimostrò che un sottoinsieme dei numeri razionali, p.e. i numeri naturali (lo zero più gli
interi positivi), ha la stessa cardinalità dell’insieme dei numeri razionali di cui fa parte.
Per comprendere meglio il risultato della dimostrazione di Cantor possiamo assumere un
esempio più semplice, quello dell’insieme dei numeri naturali e quello dell’insieme dei
numeri naturali pari, che naturalmente è un sottoinsieme del primo. In questo caso la
dimostrazione di Cantor attesta che l’insieme di tutti i numeri naturali (pari e dispari) è
equivalente all’insieme dei numeri naturali pari. Ciò significa che in un insieme infinito di
questo tipo un sottoinsieme ha la stessa cardinalità (cioè lo stesso numero di elementi)
dell’insieme di cui è parte. Detto più semplicemente, e più stupefacentemente: benché i
numeri naturali (pari e dispari) siano il doppio dei numeri naturali pari essi sono lo
stesso numero di quelli pari. In parole povere, il doppio è uguale alla sua metà.
Uno degli assiomi della geometria di Euclide sanciva che “il tutto è sempre maggiore di
una delle sue parti”. La dimostrazione di Cantor attestava invece che, per l’insieme
infinito dei numeri razionali, il tutto è uguale a una delle sue parti. Insomma, un
paradosso. Cantor aveva certificato matematicamente ciò che Plotino aveva
argomentato filosoficamente: la logica classica, incardinata sul principio di noncontraddizione, non è tutta la logica, ma è una logica del finito, cioè valida limitatamente
alle grandezze finite; per le grandezze infinite entra in campo un’altra logica, una logica
paradossale, basata cioè sulla contraddizione.
Per diradare ogni residuo dubbio a questo proposito, Cantor fece una scoperta ancora
più stupefacente e paradossale della precedente. Dopo aver considerato l’insieme infinito
dei numeri razionali, rivolse la sua attenzione a un altro, diverso insieme infinito, quello
dei numeri reali (i numeri razionali più i numeri irrazionali, cioè i decimali infiniti non
387
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
periodici). In base a quanto dimostrato per l’insieme dei numeri razionali, l’insieme dei
numeri reali e quello dei numeri razionali avrebbero dovuto esibire la stessa cardinalità,
dato che il secondo è un sottoinsieme del primo. E, invece, Cantor scoprì che i numeri
reali non potevano essere posti in corrispondenza biunivoca con quelli razionali, ovvero
che i primi erano più numerosi dei secondi. Dunque, esistono infiniti più grandi di altri
infiniti, ovvero infiniti di diverso tipo, di diversa potenza. Proseguendo nella sua ricerca
Cantor scoprì un terzo tipo di infinito, maggiore dell’infinito dei numeri reali, l’infinito di
tutte le funzioni continue e discontinue della retta reale, ovvero l’infinito “esponenziale”,
dato da due elevato all’infinito del primo tipo, quello dei numeri razionali.
Concludendo: per Cantor alcuni infiniti sono equivalenti alla loro metà e, al contempo, vi
sono infiniti maggiori di altri infiniti. Plotino non avrebbe potuto chiedere di meglio come
attestato della fondatezza della sua logica paradossale dell’infinito. Inoltre, la distinzione
di Cantor tra diversi tipi di infinito fornisce una chiave di lettura e comprensione
matematica delle distinzione plotiniana tra l’infinitezza dell’Uno, l’infinitezza della Mente
e l’infinitezza dell’Anima: la prima si può far corrispondere all’infinito di terzo tipo, o
infinito esponenziale; la seconda all’infinito di secondo tipo, o infinito dei numeri reali; la
terza all’infinito di primo tipo, quello “minore”, cioè l’infinito dei numeri razionali.
Per saperne di più basta leggere Il mistero dell’alef di Amir. D. Aczel, Net-Saggiatore,
2002.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 3
PLOTINO: L’UNO SI AUTOCREA
Poiché dunque non c’è nulla prima di Lui ed Egli è il Primo, dobbiamo
fermarci qui e non dire più nulla di Lui, ma cercare invece come siano sorte le
cose dopo di Lui; né dobbiamo cercare come Egli sia nato, perché Egli in
realtà non è mai nato.
Ma come? Se non è mai nato, ma è come è, non è padrone della sua essenza? E
se non è padrone della sua essenza, ma è quello che è e non s’è dato da se
stesso l’esistenza ma si è accettato così com’è, Egli è necessariamente quello
che è, e non diverso.
No, Egli non è così com’è perché non possa essere diverso, ma è così perché è
perfetto.
Plotino, Enneadi, VI, 8, 10, ed. cit.
E nemmeno è giusto dire che “Egli esiste per caso”, poiché il caso esiste
soltanto nelle cose molteplici e secondarie; ma del Primo non possiamo dire
né che esista per caso, né che non sia padrone del suo nascere, poiché Egli
non è mai nato. Ed è assurdo dire che Egli non è libero perché crea conforme
alla sua natura: è come sostenere che la libertà ci sia soltanto quando Dio crei
o agisca contro natura. […]
Ma poiché quella che noi chiamiamo “esistenza” è identica alla sua “azione” –
esse qui non sono diverse, se nemmeno lo erano nell’Intelligenza – allora
affermare che “Egli agisce conforme al suo essere” non è per nulla meglio che
affermare che “Egli è conforme al suo agire”. Il Bene, dunque, non possiede
un’attività conforme alla sua natura; la sua attività, cioè la sua vita, non può
venire predicata dalla sua cosiddetta essenza; ma la sua cosiddetta essenza è
unita e come nata insieme con la sua attività sin dall’eternità; Egli crea se
stesso dal suo essere e dal suo atto e appartiene a se stesso e a nessuno.
Plotino, Enneadi, VI, 8, 7, ed. cit.
Se dunque gli attribuiamo degli atti e se i suoi atti si compiono, diciamo così,
per mezzo della sua volontà (che Egli non può agire senza volere), e se questi
atti costituiscono la sua cosiddetta essenza, la sua volontà e la sua essenza
saranno identiche. Ma allora, se è così, Egli è come vuole. […] Egli dunque è
padrone di sé poiché il suo essere dipende dalla sua libertà. […].
Non si può pensare un bene che sia privo della volontà di essere, per se stesso,
ciò che è: Egli è perciò concorde con se stesso, in quanto vuole essere quello
che è ed è quello che vuole, e la sua volontà e il suo essere sono una cosa sola,
e tuttavia Egli non è meno unità, poiché non c’è differenza fra ciò che Egli si
trova ad essere e ciò che voleva essere.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Che cosa infatti avrebbe voluto essere se non ciò che è?
Supponiamo che Egli scelga di diventare ciò che vuole e che gli sia concesso di
mutare la sua natura in qualcosa di diverso; mai Egli vorrebbe diventare
qualcosa di diverso, né mai potrebbe biasimare se stesso come se soltanto per
necessità Egli fosse ciò che è, cioè quello stesso Essere che Egli stesso sempre
volle e vuole essere.
La natura del Bene è realmente la sua volontà: Egli non è sedotto né attratto
dalla sua propria natura, ma sceglie liberamente se stesso, poiché non c’è
nient’altro da cui Egli possa essere attratto. […]
Perciò il nostro ragionamento ha scoperto che Egli ha creato se stesso: se
dunque la volontà deriva da Lui ed è, per così dire, opera sua, ed è inoltre
identica alla sua esistenza, vuol dire che Egli stesso si è dato l’esistenza: non è
dunque per caso ciò che è, ma è quello che Egli stesso ha voluto.
Plotino, Enneadi, VI, 8, 13, ed. cit.
Stabilito in che modo sia possibile svolgere la ricerca filosofica intorno all’Uno, Plotino dà
avvio alla sua indagine ponendosi una domanda inedita, una delle più radicali domande
filosofiche, se non la più radicale in assoluto: perché esiste l’Uno? Chi o cosa l’ha fatto
esistere? Qual è la causa o chi è l’artefice della sua esistenza? In altre parole, a differenza di
tutti i filosofi precedenti, Plotino non si chiede solo quale sia il principio di tutte le cose ma
anche quale sia il principio dello stesso principio, una questione di per sé al limite del
pensabile, ma che risulta ancora più tale considerando che apparentemente è una sola ma
in realtà implicitamente è triplice. Chiedersi, infatti, quale sia il principio del principio per
Plotino significa chiedersi:
1) perché esiste il principio, ovvero qual è la causa o la ragione della sua esistenza;
2) perché esiste la realtà piuttosto che il nulla, dal momento che dall’esistenza del
principio deriva quella di ogni altra cosa;
3) perché il principio è così e non altrimenti, cioè è Uno, Infinito, Super-Bene,
Trascendente, ecc.; ovvero ha quell’identità piuttosto che un’altra.
Per risolvere questa formidabile questione una e trina, Plotino, seguendo la sua logica
dell’infinito, comincia con il confutare tutte le modalità possibili con le quali normalmente
pensiamo che qualcosa accada e quindi spieghiamo l’esistenza di qualcosa:
a) la mera possibilità del caso;
b) la necessità della causalità meccanica o finalistica;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
c) la contingenza del libero arbitrio, intesa come possibilità di scegliere
indifferentemente un’opzione piuttosto che un’altra, p.e. di essere verde
anziché rosso.
Tutte queste modalità, afferma Plotino, presuppongono il divenire, cioè il mutamento e la
molteplicità. Ma il principio è al di là, ovvero a monte, del divenire e dunque è immobile e
unico. Pertanto non può essere stato prodotto né dal caso, né da una necessità, né dal
libero arbitrio. Ma allora da cosa e come è stato prodotto?
Plotino comincia a dipanare l’intricata questione, ricordando e ribadendo che l’Uno, in
quanto principio, è potenza produttiva infinita, ovvero attività infinita. Ciò non significa
che si muova o muti, perché l’Uno è immateriale e indifferenziato, e dunque è azione
puramente razionale, pensiero puro. In prima approssimazione, dunque, Plotino afferma
che in quanto l’Uno è attività produttiva infinita la sua esistenza è implicita nella sua
essenza di potenza generatrice infinita.
In parole più semplici: poiché l’identità del principio, la sua connotazione più propria, è
essere attività generatrice senza limiti, il principio non può che autogenerarsi. Insomma, il
principio dell’Uno è l’Uno stesso in quanto, per essenza, è capace di autoprodursi. Detto
ancora in un altro modo: l’Uno è causa di se stesso, fondamento della sua esistenza, o, in
una parola sola, “autoesistenza”. Ciò implica che l’esistenza dell’Uno sia correlata alla sua
attività, ovvero che l’essere dell’Uno sia una cosa sola con il suo agire. Dunque, l’Uno non
esiste e quindi agisce, ma esiste in quanto agisce e agisce in quanto esiste.
In questo modo Plotino argomenta l’esistenza del principio e quindi spiega perché esiste la
realtà anziché il nulla. Ma la sua argomentazione non è ancora completa, è ancora
insufficiente. Infatti, l’argomento con cui Plotino ha motivato l’esistenza dell’Uno è quello
della sua essenza attiva, ma allora si impone un’altra domanda: perché l’Uno ha questa
essenza, perché è così e non altrimenti?
Plotino comincia col precisare che, a rigore, l’Uno, in quanto potenza infinita, è al di là
della stessa essenza, ovvero non può avere una natura prestabilita, cioè necessaria, cui
debba cogentemente essere conforme. Dunque non è così com’è perché è costretto a
adeguarsi alla sua essenza. Lo è, invece, per volontà, perché si vuole così. Questo passaggio
è cruciale e rivoluzionario: l’Uno non è necessità ma volontà, ovvero libertà. D’altra parte
ciò non significa che l’Uno scelga in modo arbitrario una delle tante – anzi, infinite! –
identità a sua disposizione, ossia che avrebbe potuto anche sceglierne una qualsiasi delle
altre. Pur avendo a disposizione infinite possibilità, la sua libertà consiste nello scegliere
una sola identità, la sua, ma non perché necessitato ma perché non può volere che quella.
Perché? Perché la sua identità – Uno come potenza infinita – è la massima e la migliore e
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
non avrebbe potuto volere un’identità minore e peggiore quando poteva sceglierne una
maggiore e migliore. In questo senso, l’Uno non poteva che volere liberamente la sua
propria e unica identità, quella appunto di potenza infinita. L’Uno è libero effettivamente
perché e in quanto sceglie il meglio e solo quello.
Per far capire a fondo l’intero ragionamento, Plotino lo risvolge utilizzando la
determinazione del Bene. Il principio, l’Uno, infatti, è anche e soprattutto Bene, Bene con
la maiuscola per indicare che è un Super-Bene, cioè un bene infinito, trascendente
qualsiasi bene finito, ovvero qualunque sua definizione da parte della mente umana. Ora,
in quanto è Bene, l’Uno vuole esistere, dal momento che sarebbe assurdo, irrazionale, che
ciò che è infinitamente bene non voglia esistere. D’altra parte in quanto esiste, l’Uno non
può che volersi così com’è, cioè non può che voler essere Bene, perché sarebbe altrettanto
assurdo e irrazionale che possa volersi anche solo un po’ meno bene.
Utilizzando la logica classica, l’argomentazione di Plotino non sfugge alla contestazione
della fallacia di petitio principii: la volontà di essere Bene, cioè l’essenza dell’Uno, e la sua
volontà di essere, cioè l’esistenza stessa dell’Uno, rimandano l’una all’altra, si fondano
l’una sull’altra. L’esistenza dell’Uno presuppone il suo essere Bene, ma a sua volta l’essere
Bene dell’Uno presuppone la sua esistenza. Sia il Bene sia la volontà d’esistenza sono
argomento del loro argomento. Per capirlo in modo più intuitivo si può ricorrere alla
famosa immagine del barone di Münchhausen che riesce a uscire dalle sabbie mobili in cui
era caduto afferrando con una mano i suoi lunghi capelli e sollevandosi così verso l’alto.
Ma, come si è visto, la logica classica è una logica del finito, mentre per parlare dell’Uno
dobbiamo ricorrere alla logica dell’infinito. Da questo punto di vista, secondo Plotino, il
circolo logico tra volontà di Bene (o di Attività produttiva) e volontà di esistere non è
filosoficamente vizioso ma virtuoso, ovvero non ci allontana dalla Verità ma ci avvicina ad
essa. Nell’Uno, infatti, e solo nell’Uno, non vi può essere alcuna differenziazione e pertanto
solo una relazione logica di circolarità tra differenti determinazioni può approssimarci alla
comprensione di ciò che l’Uno è.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 3
Perché esiste il principio, ovvero
perché esiste qualcosa anziché nulla?
Né per caso, né per necessità, né per libero arbitrio
L’Uno esiste perché, essendo produttività infinita, si autoproduce volontariamente
Infatti
L’Uno è Bene e dunque vuole esistere perché ciò che è Bene è assurdo non voglia esistere
Ma al tempo stesso
In quanto esiste, l’Uno vuole essere Bene perché sarebbe assurdo
che volesse essere meno o peggiore di com’è
L’Uno è Libertà
La libertà dell’Uno non consiste nello scegliere una cosa piuttosto che
un’altra, ma nello scegliere razionalmente la cosa migliore
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VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
PLOTINO E L’ORIGINE DEL BIG BANG
Il 29 maggio 1998 sulla rivista online Physical Review fu pubblicato un articolo del fisico
statunitense J. Richard Gott e del fisico cinese Li-Xin Li, entrambi dell’università di
Princeton, nel quale veniva presentata una nuova teoria dell’origine dell’universo che
presenta sbalorditive analogie con la teoria dell’autocreazione dell’Uno di Plotino, in
quanto sono entrambe incardinate sul concetto di “causa sui”. Gott e Li partivano
naturalmente dalla teoria della relatività generale di Einstein, secondo la quale spazio e
tempo sono una cosa sola – lo spaziotempo o cronòtopo – e inoltre sono incurvati dalla
massa in modo tale che un’alta concentrazione di massa può produrre un ripiegamento
dello spaziotempo su se stesso. In linea di principio, sostenevano Gott e Li, la curvatura
dello spaziotempo rende possibili i viaggi nel tempo. Infatti viaggiando alla velocità della
luce, secondo la teoria della relatività generale, il tempo cessa di scorrere e quindi
oltrepassando la velocità della luce il tempo scorrerebbe all’indietro. Ma la teoria della
relatività stabilisce anche che la velocità della luce è insuperabile all’interno dell’universo
e dunque che non è possibile viaggiare a ritroso nel tempo. Secondo Gott e Li, però, forti
incurvature dello spaziotempo producono dei “cunicoli di tarlo” (wormholes) che
congiungono regioni molto lontane dello spaziotempo e costituirebbero perciò delle specie
di scorciatoie che permettono di tornare indietro nel tempo.
Il clou, cioè il nucleo più interessante, dell’articolo di Gott e Li consisteva nell’applicazione
di questa teoria del viaggio nel tempo alla spiegazione dell’origine dell’universo.
Precedentemente l’ipotesi teorica più accreditata sulla genesi dell’universo era quella
della “singolarità”, secondo cui in origine esisteva solo un grumo puntiforme di energia di
densità e massa quasi infinite e quindi lo spaziotempo era quasi del tutto arrotolato su se
stesso. Questa singolarità avrebbe dato luogo a un big bang, a una grande esplosione,
ovvero a una continua espansione sia dello spaziotempo sia dell’energia, la quale poi
avrebbe prodotto la materia. Ma come si era formata la singolarità? Ovvero, cosa
l’aveva prodotta?
Gott e Li nel loro articolo fornivano una soluzione a questo problema. Essi si avvalsero
innanzitutto della nuova teoria degli “universi a bolla” basata sull’effetto tunnel descritto
dalla teoria quantistica e sperimentalmente testato. Per dirla in parole semplici, grazie
alla fluttuazione quantistica dell’energia, si possono formare ed espandere dal “nulla”
“bolle” di spaziotempo che danno luogo a molteplici universi. Secondo Gott e Li ogni
“bolla” spaziotemporale appena formatasi si ripiega su se stessa fino ad assumere la
forma di un anello, per poi continuare a espandersi linearmente. In tal modo può tornare
indietro nel tempo fino all’istante in cui aveva avuto inizio e innescare il processo stesso
che aveva dato origine alla sua formazione, cioè la fluttuazione quantistica che produce
la bolla. In termini metaforici, grazie al viaggio nel tempo, l’universo è insieme madre e
figlio di se stesso. Fuor di metafora, l’universo, per Gott e Li, è causa sui, causa di se
stesso. Questo significa che l’effetto è causa della sua causa, ovvero che la causa è effetto
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
del suo effetto. Dunque tra universo-madre e universo-figlio c’è lo stesso rapporto
circolare che Plotino aveva posto all’origine dell’Uno, salvo che per lui l’universo-madre
era il Bene e l’universo-figlio la Volontà di esistere.
Chi ha voglia di approfondire legga Viaggiare nel tempo di J.R. Gott, Mondadori, 2002.
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TAPPA 4
PLOTINO: L’UNO CREA IL COSMO FINITO
Come dunque e cosa vede l’Intelligenza? E come esiste e come nacque da Lui,
così da poterlo vedere? Ora, certamente, l’Anima è conscia della necessità che
le realtà intellegibili siano così, ma desidera approfondire questo problema,
già discusso dagli antichi pensatori: cioè come dall’Uno quale noi l’abbiamo
concepito, sia venuta all’esistenza ogni altra cosa, molteplicità, Diade, o
numero; oppure, come Egli non sia rimasto in se stesso, e abbia invece
generato una siffatta molteplicità quale si constata fra gli esseri, e che noi
postuliamo dover risalire a Lui.
Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit.
Ma come il Tutto può derivare dal semplice Uno, dal momento che in questo
non si può manifestare nessuna varietà e molteplicità? Ora, proprio perché è
in Lui, tutto può derivare da Lui; affinché l’Essere sia, Egli per questo non è
essere, ma soltanto il genitore dell’essere, e questa che chiamerò genitura è
prima. Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha
bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera
un’altra cosa.
Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit.
Ma come le [le proprietà delle cose a partire dall’esistenza] dona? O perché le
ha, o perché non le ha.
Ma come può dare ciò che non ha? Se le ha, Egli non è semplice; se non le ha,
come può derivare da Lui la molteplicità? Che un’unità possa effondere da sé
un semplice, si può anche concedere, quantunque potremmo anche chiederci
come mai il semplice possa derivare da ciò che è assolutamente uno; qui
tuttavia potremmo anche dire che esso ne derivi come l’irraggiamento della
luce. Ma della molteplicità che diremo? Certamente, ciò che procede da Lui
non deve essere identico a Lui; ma se non può essere identico, tanto meno può
essere migliore. Infatti che cosa potrebbe essere migliore dell’Uno, o
addirittura al di là dell’Uno? Sarà dunque inferiore, cioè più manchevole. Ma
che cos’è più manchevole dell’Uno? Il non-uno, vale a dire il molteplice: il
quale, tuttavia, aspira all’Uno: e cioè l’uno-molti. Difatti, ogni non-uno è
conservato dall’Uno ed è quello che è per opera dell’Uno; effettivamente, se
esso, pur essendo fatto di molti elementi, non diventa unità, non si può dire
che “è”; e se anche si sappia dire ciò che è ciascuno di essi, questo avviene
perché ciascuno di essi è uno e identico.
Plotino, Enneadi, V, 3, 15, ed. cit.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In che maniera, dunque, e che cosa dobbiamo pensare del Primo, se Egli resta
immobile? Un irradiamento che si diffonde da Lui, da Lui che resta immobile,
com’è nel sole la luce che gli splende tutt’intorno; un irradiamento che si
rinnova eternamente, mentre Egli resta immobile. Tutti gli esseri, finché
sussistono, producono necessariamente dal fondo della loro essenza, intorno
a sé e fuori di sé, una certa esistenza, congiunta alla loro attuale virtù, che è
come un’immagine degli archetipi dai quali è nata: il fuoco effonde da sé il suo
calore, e la neve non conserva il freddo soltanto dentro di sé; un’ottima prova
di ciò che stiamo dicendo la danno le sostanze odorose, dalle quali, finché
sono efficienti, deriva qualcosa tutt’intorno, di cui gode chi gli sta vicino.
Plotino, Enneadi, V, 1, 6, ed. cit.
Dopo aver affrontato e risolto la triplice questione relativa al principio dell’Uno, Plotino si
misura con un altro, conseguente problema: perché e in che modo il principio, cioè l’Uno,
genera tutte le cose? Si tratta di un problema tradizionale che però nella filosofia di Plotino
assume uno spessore di gran lunga maggiore e dunque risulta molto più arduo da risolvere.
Infatti, nessun filosofo, prima di Plotino, aveva marcato come lui la differenza ontologica
del principio rispetto a tutte le cose. In modo più esplicito: dal momento che l’Uno è
assolutamente omogeneo, semplice, immateriale, immutabile, infinito, come può produrre
cose molteplici e differenziate, materiali, mutevoli, finite, cioè del tutto opposte a esso?
Com’è possibile che il “trascendente di se stesso” generi l’immanente?
Anche per risolvere questo problema, Plotino, innanzitutto, fa leva ancora una volta sulla
natura dell’Uno, cioè sul suo essere infinita attività produttiva. In quanto infinita la sua
produttività è sovrabbondante, per così dire straripa da se stessa e va oltre se stessa. Per
caratterizzare questa sorta di esondazione dell’Uno, Plotino usa prevalentemente tre
termini:
a) “prosecuzione” (proodòs, letteralmente “andare avanti”, ma anche nelle accezioni di
“uscire” e “mostrarsi in pubblico”),
b) “irradiazione” (perìlampsis),
c) “defluire” (aporrèin).
La pluralità e la valenza analogica di questi termini attestano che essi vanno compresi e
usati – come del resto tutte le parole che si riferiscono all’Uno, a cominciare da “Uno”
medesimo – come allusioni e non come definizioni. Ciò chiarito, in prima approssimazione
si può dire che per Plotino il mondo, le cose, sono la “prosecuzione” dell’Uno, il suo
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
oltrepassamento, ossia lo strabordare da se stesso e proseguire oltre se stesso, oltre ciò che
è originariamente e propriamente. Però, pur fuoriuscendo da se stessa, l’infinita energia
generatrice dell’Uno rimane intatta e immota in se stessa. La stessa infinitezza, infatti, che
fa sì che l’energia generatrice tracimi dall’Uno, comporta anche che essa permanga
invariata nell’Uno, ovvero che l’Uno resti sempre indefettibilmente uguale a sé.
La prosecuzione dell’Uno, in quanto effetto della sua infinita sovrabbondanza, in prima
battuta appare una sua conseguenza necessaria, un evento non intenzionale. In tal caso,
l’Uno si sarebbe voluto, ma non avrebbe voluto il mondo, la realtà. Ma le cose non stanno
così per Plotino. Infatti, come si è visto, l’Uno si vuole infinita potenza produttiva, ovvero si
vuole sovrabbondante. Poiché la sua prosecuzione è implicita nella sua sovrabbondanza,
l’Uno volendosi infinito ipso facto si vuole oltrepassante. Dunque, proprio volendosi
infinita potenza produttiva, l’Uno si vuole anche prosecuzione di se stesso e, pertanto,
vuole produrre la realtà finita.
Ma come va intesa la prosecuzione dell’Uno, ovvero la sua irradiazione, o anche il suo
defluire, ovvero la sua effusione? Più precisamente: perché la prosecuzione equivale alla
generazione della realtà finita? Si potrebbe rispondere che la prosecuzione è un
accrescimento, ovvero, data la natura qualitativa dell’infinita attività produttiva dell’Uno,
un miglioramento. Ma, dal momento che l’Uno è l’infinito, cioè il massimo, non può
accrescersi né migliorarsi. Dunque l’unico modo per oltrepassarsi è sminuirsi/peggiorarsi:
il mondo, la prosecuzione dell’Uno, è un suo depotenziamento e peggioramento.
Paradossalmente – ma come sappiamo il paradosso si addice all’infinito – l’Uno si espande
ridimensionandosi, si accresce sminuendosi. Ma se l’Uno è infinito la sua sminuizione è
appunto il finito. Ecco dunque che la prosecuzione spiega come l’infinito possa generare il
suo opposto, il finito.
Per rendere più intuitiva, ma anche più suggestiva, la sua concezione dell’irradiazione
dell’Uno che genera il mondo, Plotino ricorre anche a varie analogie: quella del fuoco che
espande il suo calore, quella della sorgente da cui si diramano molti fiumi, quella della
radice che dà nutrimento e vita all’albero, quella del Sole che irradia la sua luce.
Quest’ultima è l’analogia più emblematica e la più rivelativa, nonché quella più legata alla
tradizione filosofica, in particolare a Platone e al suo mito della caverna. Il Sole è la
massima fonte d’energia vitale del mondo fisico e in questo senso è la migliore immagine
dell’Uno. Ma naturalmente l’energia vitale dell’Uno è infinitamente superiore a quella pur
enorme che possiamo attribuire al Sole. L’irradiazione del Sole è come la prosecuzione
dell’Uno, salvo che l’irradiazione solare consuma l’energia presente nel Sole e si estende in
una misura comunque finita, mentre quella dell’Uno non ne riduce minimamente la
potenza e si espande infinitamente.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Ma l’analogia col Sole permette a Plotino non solo di esemplificare ma anche di
approfondire la sua teoria della prosecuzione. Infatti, l’irradiazione luminosa del Sole, che
rappresenta la generazione della realtà, diminuisce d’intensità in proporzione al suo
allontanamento dal centro solare. Dunque essa avrà diversi e continuativamente
decrescenti gradi di intensità.
In tal modo l’irradiazione rappresenta analogicamente anche il passaggio dall’unicità
dell’Uno alla molteplicità della realtà, nonché la struttura gerarchica della realtà: tutte le
cose si differenziano per la loro appartenenza a successivi e decrescenti livelli di intensità
della prosecuzione dell’Uno. Inoltre, e infine, l’analogia con l’irradiazione solare, chiarisce
anche che il mondo fisico è costituito dalla stessa sostanza di cui è fatto l’Uno, benché
fortemente indebolita, cioè finitizzata. Ciò sta a significare che l’Uno è il principio unico di
tutta la realtà.
A questo punto possiamo arrivare a una conclusione di grande rilevanza: la produzione
della realtà da parte dell’Uno è qualcosa di sostanzialmente diverso da quanto avevano
teorizzato tutti i filosofi precedenti. Plotino, infatti:
a) in primo luogo esclude che esista un principio materiale indipendente da quello
ideale;
b) in secondo luogo, sostiene che la produzione della realtà è un atto voluto dell’unico
principio ideale.
In questo modo Plotino fa una nuova scoperta filosofica: il concetto di “creazione”, cioè
appunto il concetto di una produzione intenzionale del mondo fisico ad opera di un
(meta)essere puramente razionale senza ricorso ad alcun altro principio coesistente con
esso.
In questo senso, in riferimento alle precedenti teorie filosofiche della derivazione del
mondo dal principio, si devono usare i termini di “produzione” o di “generazione”, mentre
l’uso dei termini “creazione”/”creare” va riservato alla filosofia di Plotino e dei filosofi a lui
successivi.
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MAPPA della TAPPA 4
L’Uno è infinita produttività
L’energia infinita, che l’Uno è, prosegue, s’irradia, defluisce oltre l’Uno
Essendo il massimo, l’Uno si oltrepassa sminuendosi/peggiorandosi
L’Uno produce il finito, ossia la molteplicità, rimanendo infinito
Come
Una sorgente d’acqua
che dà vita a molti
fiumi
Il Sole che irradia la sua
luce intorno a sé
Un fiore che spande
il suo profumo
Nuovo concetto di
creazione
La produzione del mondo finito è
volontaria e non si basa su un
principio materiale indipendente
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 5
PLOTINO: L’AUTOCOSCIENZA DELL’UNO E’ LA MENTE
Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e di nulla ha bisogno;
e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un’altra cosa.
Ma l’Essere così generato si volge a Lui e tosto ne è riempito e, una volta nato,
guarda a se stesso, e questa è l’Intelligenza [o Mente]. Il suo orientarsi verso
l’Uno genera l’Essere; lo sguardo rivolto a se stesso genera l’Intelligenza. Ma
poiché l’Intelligenza per contemplarsi deve persistere in se stessa, diviene
insieme Intelligenza ed Essere. E così l’Essere, essendo simile a Lui, genera
ciò che gli è affine, riversando fuori la sua grande potenza; ma anche questa è
un’immagine di colui che, prima di lui, manifestò la sua potenza. Questa forza
che procede dall’Essere è l’Anima, ma questa diviene, mentre l’Intelligenza è
immobile, poiché anche l’Intelligenza nacque mentre Colui che è prima di lei
persiste nella sua immortalità.
Plotino, Enneadi, V, 2, 11, ed. cit.
E’ dunque necessario che il pensiero, quando pensa, si trovi in una dualità; e
allora, o uno dei due termini è fuori, oppure i due termini sono identici. Il
pensiero implica sempre un’alterità e, necessariamente, anche un’identità; e
gli oggetti pensati, in senso stretto, sono, rispetto all’Intelligenza, identici e
insieme diversi.
Plotino, Enneadi, V, 3, 10, ed. cit.
Da Lui l’Intelligenza trae la potenza di generare e di restare incinto della sua
stessa prole, poiché il Bene offre ciò che Egli stesso non possiede. Dall’Uno
deriva, per Intelligenza, la molteplicità: incapace di contenere la potenza che
porta in sé, l’Intelligenza la frantuma e riduce l’unità a molteplicità per
poterla sostenere a parte a parte.
Plotino, Enneadi, VI, 7, 15, ed. cit.
L’Uno crea la realtà oltrepassandosi, ovvero irradiandosi. Ma, secondo Plotino, l’Uno non
crea immediatamente la realtà fisica, il cosmo naturale, ma un’altra realtà preliminare a
quella: la realtà razionale, ovvero il mondo ideale. Innanzitutto, infatti, l’Uno crea due
copie dirette – per così dire, due alter ego – di se stesso: la Mente (Noùs) e l’Anima
(Psychè). Esse, come l’Uno, sono realtà immateriali, eterne e infinite; ma, a differenza
dell’Uno, non si autocreano, in quanto sono create appunto dall’Uno, e, come sue
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
irradiazioni successive, ne costituiscono un indebolimento, seppure infinitesimale, e
dunque sono sì infinite, ma la loro infinitezza è inferiore a quella dell’Uno. Così
configurate, Mente e Anima costituiscono due strutture razionali, ovvero due tipologie di
ordinamento, due sistemi di organizzazione isomorfi e contigui, entrambi indispensabili
all’esistenza, e quindi alla creazione, del mondo fisico.
La mente, in prima approssimazione, si può definire come l’Uno che pensa se stesso,
ovvero come il pensiero o l’autocoscienza dell’Uno. Il pensiero, infatti, o meglio il pensare,
implica necessariamente la distinzione tra:
a) il suo oggetto, cioè il “pensato”, ciò che viene pensato, il contenuto della conoscenza;
b) il suo soggetto, il “pensante”, colui che pensa l’oggetto, ovvero lo conosce.
P.e., proviamo a immaginare una mela, l’ultima che abbiamo visto e magari mangiato.
Nella nostra mente, per così dire, c’è l’immagine della mela ma c’è anche la nostra
coscienza che la guarda. Con una similitudine più tecnologica, possiamo paragonare il
pensiero a un film, in quanto questo è la sintesi di una serie di oggetti (le persone umane,
gli animali, le cose che abbiamo filmato) e di una cinepresa che li ha filmati: gli oggetti
corrispondono ai pensati, la cinepresa al pensante.
Ora, il fatto che il pensare presupponga l’articolazione in pensato e pensante equivale a
dire che il pensare è costitutivamente dualistico, implica una differenziazione. Certo, il
pensare è la correlazione di pensato e pensante, ma non ci può essere correlazione senza
preventiva distinzione. Di conseguenza, afferma Plotino, l’Uno non può pensare, è al di là
anche del pensiero, perché è unità assoluta, del tutto indifferenziata. Ma l’Uno è potenza di
pensiero e dunque crea il pensiero, ovvero la Mente, e quindi pensa attraverso ciò che è
altro da lui, in quanto sua prosecuzione, ma che è anche lui perché proviene da lui.
Il fatto che l’Uno, al tempo stesso, non sia e sia la Mente risulta più chiaro considerando
che la Mente, secondo Plotino, si costituisce in un duplice e convergente modo:
 da un lato, si rivolge all’Uno, lo riflette in sé e se ne riempie;
 dall’altro si rivolge a se stessa e così riflette l’Uno riflesso in sé.
Per comprendere meglio queste due facce della Mente, possiamo paragonare la Mente a un
duplice specchio: il primo specchio è quello che rispecchia l’Uno; il secondo è quello che
rispecchia il primo specchio, cioè che rispecchia l’immagine dell’Uno già riflessa nel primo
specchio. Il primo specchio è quello “oggettivo”, cioè corrisponde al pensiero pensato,
ovvero all’Essere in quanto realtà puramente razionale; il secondo è quello “soggettivo”,
ovvero il corrispettivo del pensiero pensante, ovvero della coscienza razionale. Poiché il
primo specchio si rispecchia nel secondo, la Mente è duplice, ma questa duplicità è
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ricondotta ad unità, cioè è unificazione di distinti, in quanto i due rispecchiamenti che
costituiscono la Mente rispecchiano la stessa cosa, cioè l’Uno.
Se consideriamo che due specchi che si rispecchiano l’un l’altro moltiplicano infinitamente
l’immagine che riflettono, possiamo facilitarci la comprensione dell’infinitezza della
Mente. La Mente, infatti, non è solo e tanto unità di una dualità. E’, afferma Plotino, unità
di una molteplicità infinita, di cui la dualità pensato/pensante è solo il grado minimo
iniziale, il punto di partenza. Ciò significa che l’Essere che costituisce l’oggetto della Mente
è infinitamente molteplice, cioè differenziato e articolato in infinite parti o determinazioni.
Come e perché dalla dualità della Mente scaturisce una molteplicità infinita? Plotino lo
spiega con la relativa debolezza della Mente rispetto all’Uno. Poiché è un infinito di livello
inferiore a quello dell’Uno, la Mente non è in grado di sostenere la visione dell’Uno nella
sfolgorante potenza della sua interezza uniforme. Dunque la Mente può avere solo una
visione attenuata dell’Uno, cioè appunto quella dell’Uno diviso in parti. Ma, poiché la
Mente è la contemplazione medesima dell’Uno, cioè consiste tutta e solamente nel pensare
l’Uno, essa stessa risulta divisa in parti.
Ma cosa sono queste parti? Plotino risponde che sono le idee, cioè le forme razionali,
unitarie, immutabili e perfette, di tutti gli esseri fisici, e quindi anche di tutti i loro principi
e proprietà matematici, logici, etici, estetici. In altre parole, la Mente corrisponde al mondo
delle idee di Platone, ma con una decisiva differenza. Le idee non sono più oggetti razionali
indipendenti, ma sono i contenuti razionali di una coscienza pensante, che, come tale, ne
costituisce il principio di unificazione, in quanto, pensandole, le correla tutte
riconducendole alla propria unità. Il mondo delle idee di Platone in Plotino si trasforma in
un pensiero che fluisce incessantemente trascorrendo da un’idea all’altra e che tutte in tal
modo le connette dinamicamente.
In tal senso si può paragonare la Mente a un circuito elettrico costituito da una serie di
elementi o componenti (sorgente, resistenza, condensatori, trasformatori, ecc.) tra loro
collegati in modo tale da consentire il continuo passaggio tra essi della corrente elettrica:
gli elementi e i collegamenti del circuito corrispondono alle idee e alla loro correlazione
unitaria, cioè al pensiero pensato, e la corrente che scorre nel circuito al pensiero pensante.
Ancor meglio, si può comparare la Mente alla rete neuro-cerebrale: i neuroni
rappresentano le idee, le sinapsi i loro collegamenti, il pensiero umano il pensiero della
Mente. Salvo che la Mente è del tutto immateriale, il cervello umano invece fisico; le idee e
le loro relazioni sono infinite, neuroni e sinapsi in numero enorme (circa 100 miliardi solo
i neuroni) ma pur sempre finito; il pensiero della Mente fluisce sempre in tutte le idee, il
pensiero umano solo in un certo numero di neuroni in uno stesso istante.
403
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 5
UNO
Pensiero pensato:
rispecchiamento dell’Uno
Pensiero pensante:
rispecchiamento del
rispecchiamento dell’Uno
Essere, ovvero il mondo delle
idee
Coscienza razionale che conosce
unitariamente le idee
MENTE
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
LA MENTE E LA TEORIA DELL’AUTOCOSCIENZA
Come si è visto, per spiegare cos’è la Mente in quanto autocoscienza dell’Uno, Plotino
ricorre alla similitudine degli specchi, sostenendo che la Mente può essere paragonata a
due specchi: il primo rispecchia l’Uno, il secondo rispecchia l’immagine dell’Uno riflessa
nel primo. L’analogia di Plotino può essere applicata anche alla nostra mente, ovvero
alla spiegazione della nostra autocoscienza.
A tale proposito è interessante confrontarla con alcune delle più recenti acquisizioni della
scienza cognitiva, cioè della scienza della mente, una scienza recente e articolata, in
quanto si avvale dei contributi di vari tipi di ricerca scientifica: quella neurocerebrale,
quella psicologica (in particolare la psicologia della percezione e la psicologia dello
sviluppo), quella linguistica, quella etologica. Una delle direzioni di ricerca della scienza
cognitiva è appunto quella che si propone di comprendere che cos’è l’autocoscienza e
come funziona. In tal senso, la forma più semplice di autocoscienza, ovvero la sua
funzione elementare, ma anche la più antica dal punto di vista evolutivo, è considerato il
“riconoscimento di sé” da parte di un individuo. Per riconoscimento di sé si intende il
riconoscimento della propria voce, del proprio odore, delle proprie mani, ecc., e infine
della propria immagine, cioè della raffigurazione complessiva del proprio corpo.
L’autoriconoscimento implica il possesso di una rappresentazione riflessiva di sé, cioè di
uno schema mentale del proprio corpo che viene confrontato con la sua immagine
esterna.
Una delle forme più comuni e significative, se non la più significativa, di
autoriconoscimento è il riconoscersi allo specchio. Gli scienziati cognitivisti, infatti, si
sono avvalsi dello specchio per organizzare molti dei loro esperimenti, in particolare
quelli mirati a stabilire se gli animali e i bambini sono in grado di autoriconoscersi.
Questi esperimenti hanno accertato che solo alcune specie di animali sono in grado di
riconoscersi allo specchio, e quindi mostrano di possedere il grado minimo di
autocoscienza: scimpanzé, oranghi, bonobo, delfini, elefanti. Per quanto riguarda i
bambini, si è appurato che fino ai due anni circa essi non riconoscono la propria
immagine allo specchio, cioè credono che sia un’immagine di qualcosa d’altro da loro.
Questi risultati sperimentali possono essere utilizzati per impostare un esperimento
mentale utile a comprendere meglio la concezione plotiniana dell’Uno, della Mente e della
loro correlazione. Proviamo a immaginare che rappresentazione mentale potevamo
avere del nostro volto prima della prima volta che l’abbiamo riconosciuto nello specchio,
ovvero prima di averlo guardato allo specchio. Buio? Vuoto? Risposta esatta! Astraendo
dal tatto, ovvero dal fatto che toccandoci il viso avremmo potuto scoprire che il nostro
volto è fatto di rilievi e concavità, non potevamo avere nessuna immagine visiva del
nostro volto. Dunque non potevamo che intuirlo come un tutt’uno indifferenziato, un
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
qualcosa del tutto uniforme, insomma similmente all’Uno di Plotino. Nel momento in cui
ci siamo riconosciuti per la prima volta allo specchio, in primo luogo ci siamo distinti in
due, ossia in me che guardo lo specchio e nella mia immagine guardata nello specchio,
analogamente alla Mente secondo Plotino; in secondo luogo, abbiamo distinto le varie
parti del nostro volto (naso, occhi, sopracciglia, ecc.) potendole finalmente guardare
nitidamente nella nostra immagine speculare, così come la Mente, secondo Plotino,
contemplando l’Uno lo divide e lo moltiplica nelle varie idee.
Per chi vuole saperne di più: L’autocoscienza, di P. Perconti, Laterza, 2008.
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TAPPA 6
PLOTINO: L’INDIVIDUALIZZAZIONE DELL’UNO E’ L’ANIMA
Il compito dell’anima razionale è il pensare ma non soltanto il pensare,
perché, allora, che cosa la distinguerebbe dall’Intelligenza? Poiché essa
aggiunge al suo essere intellettuale qualche cosa d’altro, per il quale acquista
la sua propria essenza, l’Anima non resta pura Intelligenza, ma ottiene
anch’essa una sua particolare funzione, come qualsiasi altro ente. Ma quando
guarda a ciò che è prima di essa, l’Anima pensa; quando guarda se stessa, si
conserva; quando guarda ciò che le è posteriore [il mondo fisico], l’anima
ordina, regge e governa su di esso. Poiché l’universo non poteva fermarsi al
piano dell’Intelligenza, dal momento che c’era la possibilità che qualcosa
d’altro [la materia] venisse dopo, inferiore sì ma necessario, essendo
necessario anche ciò che è sopra di essa.
Plotino, Enneadi, IV, 8, 3, ed. cit.
Perciò ogni anima rifletta anzitutto su questo: che essa ha generato tutti i
viventi infondendo in essi la vita; quelli che nutre la terra e che nutre il mare,
quelli che abitano nell’aria e gli astri divini che sono nel cielo; che ha generato
il sole e questo cielo immenso e lo ha adornato; essa lo fa girare in un
determinato ordine, pur essendo una natura diversa dalle cose che ordina,
muove e vivifica: l’anima perciò vale necessariamente più di esse, poiché,
mentre queste nascono e muoiono, qualora essa le abbandoni o dia loro la
vita, essa invece sussiste eternamente poiché non abbandona mai se stessa.
[…]
Anche il cielo, pur essendo molteplice e vario, è unitario in virtù della potenza
dell’Anima e in virtù di essa anche questo mondo è un dio. E anche il sole è un
dio perché è animato, e le altre stelle; e anche noi stessi, se pur siamo
qualcosa, lo siamo per questa ragione, poiché “i cadaveri vanno gettati via più
che il letame” [Eraclito, fr. B96].
Plotino, Enneadi, V, 1, 2, ed. cit.
Se questo è detto bene, necessariamente l’Anima dell’universo contemplerà
gli esseri migliori e tenderà sempre verso la natura intellegibile e verso Dio;
essa se ne riempie e da lei, una volta riempita e quasi ricolma, nasce
un’immagine che è al suo limite estremo ed è ciò che produce le cose. E’
l’ultima potenza produttrice: al di sopra c’è la parte superiore dell’anima che è
riempita <di forme> dall’Intelligenza; al di sopra di tutto c’è l’Intelligenza
demiurgica, che all’anima che viene dopo dà <le forme> le cui tracce sono
nella realtà di terzo grado. Perciò si dice giustamente che il mondo è
un’immagine che sempre si rinnova, mentre la prima e la seconda realtà sono
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
immutabili ed immutabile è anche la terza, benché essa si muova per
accidente nella materia. Finché ci sarà un’Intelligenza e un’Anima, le ragioni
le proseguiranno nella specie inferiore dell’anima, come, finché ci sarà il sole,
da esso irradierà ogni splendore.
Plotino, Enneadi, II, 3, 18, ed. cit.
Essa fa vivere così le altre cose che non vivrebbero per se stesse e dà loro
quella vita di cui essa stessa vive. E poiché essa vive in una forma razionale, dà
al corpo una forma razionale che è un’immagine di quella che possiede –
infatti tutto ciò che essa dà al corpo è un’immagine della vita – e dà ai corpi le
forme di cui possiede le ragioni. L’anima possiede anche le ragioni degli dei e
di tutte le cose. Perciò il mondo possiede tutto.
Plotino, Enneadi, IV, 3, 10, ed. cit.
La creazione del mondo fisico da parte dell’Uno, non si basa solo sulla Mente ma anche su
un altro principio puramente razionale, che Plotino chiama Anima (psyché). L’Anima
discende dalla Mente come la Mente dall’Uno. Poiché costituisce un ulteriore grado di
irradiazione dell’Uno è più lontana dall’Uno della Mente e dunque possiede una potenza
infinita qualitativamente inferiore a quella della Mente.
Di conseguenza, mentre la Mente è originariamente duplice, l’Anima è originariamente
triplice, in quanto si articola in:
a) anima suprema,
b) anima dell’universo,
c) anime individuali molteplici.
L’Anima suprema è l’attività con cui l’Anima si rivolge alla Mente e la contempla,
contemplando così, attraverso la Mente, anche l’Uno, e dunque correlandosi a entrambi. In
questo senso, si può dire che l’Anima suprema è un terzo specchio che rispecchia quello
della Mente come pensiero pensante (che a sua volta, ricordiamoci, rispecchia lo specchio
che rispecchia direttamente l’Uno, cioè il pensiero pensato).
In altre parole: come la Mente è una copia dell’Uno, l’Anima è una copia della Mente, cioè
una copia della copia dell’Uno; per così dire, un’immagine più sbiadita dell’Uno.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’Anima universale è l’attività con cui l’Anima ordina e governa la materia producendo così
il cosmo fisico. Questa seconda funzione dell’Anima è strettamente consequenziale alla
prima. I criteri dell’ordinamento e del governo della materia sono, infatti, le idee della
Mente contemplate dalla funzione superiore dell’Anima, che, come tali, rappresentano i
principi razionali che regolano e guidano la produzione di tutte le cose fisiche.
L’Anima universale svolge la funzione di applicare le idee, in quanto principi razionali, alla
materia, producendo così effettivamente le cose fisiche, ovvero gli esseri naturali. Se l’Uno
è, dunque, la potenza (o energia) creatrice, e la Mente l’ordine creatore, l’Anima è l’attività
che crea effettivamente, l’esecutrice della creazione.
Per creare le cose fisiche, che come tali sono individuali, l’Anima deve però configurare
individualmente le idee, che in sé sono uniche e universali. Pertanto deve, per così dire,
tradurre le idee, cioè i principi razionali universali, in progetti (o disegni) razionali
individuali, che, come tali, sono delle “immagini”, cioè delle copie, delle idee, cioè
possiedono un grado di razionalità inferiore, ma indispensabile per poter adattare le idee
alla materia. Le anime individuali sono appunto questi stessi progetti/disegni razionali –
chiamati anche da Plotino forme razionali, o ragioni formali, o ragioni seminali – che
costituiscono ogni cosa fisica, ovvero sono i principi organizzatori di tutti gli esseri naturali
e dunque ciò che infonde loro la vita.
Le anime individuali sono molteplici (una molteplicità di gran lunga maggiore a quella
delle idee, perché per ogni idea universale vi sono molti esseri naturali) e separate, in
quanto ognuna è contenuta in un corpo; ma, dal momento che in ogni anima individuale
c’è l’intera Anima, seppur configurata in un modo singolare, tutte le anime individuali,
afferma Plotino, sono unite, sono sempre anche un unico principio. Ciò comporta che tutti
gli esseri naturali siano collegati gli uni agli altri da una “simpatia”, ovvero che siano
armonicamente correlati tra loro.
Da questo punto di vista, si può paragonare l’Anima di Plotino a un’orchestra sinfonica: il
direttore d’orchestra, che rappresenta l’Anima suprema, riceve e interpreta lo spartito
musicale, cioè la musica (solo scritta) che dovrà far suonare, dal compositore corrispettivo della Mente; l’insieme dei diversi spartiti di ogni orchestrale, ognuno dei
quali adatta la musica a uno specifico strumento, rappresenta l’Anima dell’universo; i
diversi orchestrali che suonano la musica leggendo i loro diversi spartiti rappresentano le
anime individuali, gli strumenti gli esseri naturali, la sinfonia effettivamente suonata
l’esistenza e il funzionamento ordinato del cosmo fisico.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 6
MENTE
Anima suprema, che
contempla la Mente
ANIMA
Anima dell’universo che
produce i progetti
razionali delle cose
Anime individuali
che sono i principi
vitali di ogni cosa
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 7
PLOTINO: IL MASSIMO DEPOTENZIAMENTO DELL’UNO E’ LA MATERIA
Come devo pensare l’assenza di grandezza della materia? E come puoi tu
pensare la materia senza qualità? E quale nozione ne hai tu e come la
comprendi tu col pensiero? […]
E a questo pensava Platone quando disse che essa è “percepibile con un
ragionamento spurio”.
E che cos’è dunque l’indeterminatezza dell’anima? E’ ignoranza completa e
impossibilità di enunciare alcunché?
No, l’indeterminato è oggetto di una positiva enunciazione, e come per
l’occhio l’oscurità è la materia di ogni cosa invisibile, così anche l’anima, dopo
aver soppresso nelle cose sensibili quanto è simile alla luce <cioè le qualità> e
diventata incapace di determinare ciò che rimane, diventa simile all’occhio
nell’oscurità e si fa in un certo modo identica all’oscurità, che essa in un certo
senso vede. Ma la vede veramente?
Certo, per quanto si può vedere la bruttezza stessa, senza colore, senza luce ed
anche senza grandezza; se no, <l’anima> le attribuirebbe una figura.
E così questa affezione dell’anima non è lo stesso che se essa non pensasse
nulla? No, quand’essa non pensa nulla, nemmeno dice nulla, anzi, non ha
impressione alcuna; ma quando pensa alla materia, riceve in sé passivamente
come l’impronta di ciò che non ha forma.
Plotino, Enneadi, II, 4, 10, ed. cit.
Il ricettacolo delle forme non deve dunque essere un volume, ma col diventare
volume riceve anche le altre qualità; lo si immagina come un volume, perché è
capace di ricevere questo per primo. Ma come volume vuoto: perciò alcuni
hanno detto la materia identica al vuoto. […] Perciò non si dica che questo
indeterminato è soltanto grande o soltanto piccolo, ma che è grande e piccolo,
è dunque un volume, ma inesteso, in quanto è materia del volume; esso si
contrae da grande a piccolo e da piccolo si estende e diventa grande e <la
materia>, per così dire, lo percorre. L’infinità della materia è un volume
simile, ricettacolo della grandezza nella materia; ma questa non è che
un’immagine.
Plotino, Enneadi, II, 4, 11, ed. cit.
Dunque la materia è necessaria alla qualità e alla grandezza e quindi anche ai
corpi: ed essa non è un nome insignificante, ma un reale soggetto, benché
invisibile e inesteso. Se essa non è, diremo che per la stessa ragione non sono
né le qualità né la grandezza: infatti si potrebbe dire che esse non sono
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
alcunché di reale, se vengono considerate in se stesse. Ma se esistono, benché
ciascuna esista oscuramente, a più forte ragione deve esistere la materia,
benché non sia chiara né sia percepibile dai sensi: non <è percepita> dagli
occhi, perché non è colorata, non dall’udito, poiché non è sonora; né <la
percepisce> quindi il gusto o il naso o la lingua.
Plotino, Enneadi, II, 4, 12, ed. cit.
Che diremo dunque di essa? Come può essere materia degli esseri?
In quanto essa è in potenza.
Dunque essa, in quanto è già in potenza, non è ancora ciò che poi diventerà,
ma il suo essere è soltanto l’essere futuro che in lei s’annunzia: così, il suo
essere si riduce a ciò che sarà. […]
Essa è dunque un fantasma in atto, e quindi una menzogna in atto, cioè una
vera menzogna, o meglio il reale non-essere.
Plotino, Enneadi, II, 5, 5, ed. cit.
In tutto ciò che promette essa mentisce: se è immaginata grande, è piccola; se
maggiore è minore, e l’essere che immaginiamo di lei è un non-essere, simile
a un gioco fugace, ed illusorio è quanto crediamo esistere in lei, mero
fantasma in un fantasma, proprio come in uno specchio in cui l’oggetto
appare in un luogo diverso da quello in cui realmente si trova. <Lo specchio>
sembra pieno di oggetti, eppure non ha nulla e sembra aver tutto. Ciò che
entra e ciò che esce sono immagini degli esseri e fantasmi <che entrano> in
un fantasma senza forma, e poiché essa è senza forma, ciò che si vede in essa
sembra agire su di essa, e invece non produce nulla, poiché sono cose
inconsistenti, deboli e prive di solidità; e poiché anche la materia non ha
solidità, esse la attraversano senza dividerla, come <oggetti> nell’acqua, o
come forme che vengono poste dentro il cosiddetto spazio vuoto.
Plotino, Enneadi, III, 6, 7, ed. cit.
Però l’assoluto non-essere non può unirsi all’essere; ne deriva questo fatto
strano: che esso pur non partecipando <dell’essere> ne partecipa e trae ogni
cosa come dalla sua vicinanza ad esso, benché per la sua natura non possa,
per così dire, amalgamarsi con esso.
Plotino, Enneadi, III, 6, 14, ed. cit.
Tutto qui è tenuto insieme dalle forme dal principio alla fine; anzitutto, la
materia dalle forme degli elementi; poi, sulle forme altre se ne
sovrappongono ed altre ancora di nuovo, sicché è difficile trovare la materia
nascosta sotto tante forme. Ma poiché anch’essa è una forma infima, questo
universo è forma e tutte le cose sono forme, poiché il modello era già forma.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Plotino, Enneadi, V, 8, 7, ed. cit.
Anche la materia, se esiste dall’eternità, non può, appunto perché esiste, non
partecipare di quella potenza [l’Uno] che dispensa a tutti il bene secondo le
possibilità di ciascuno; e se la sua nascita è una necessaria conseguenza di
cause anteriori, non deve tuttavia essere separata dal suo principio, come se
questo principio, che le donò, come per grazia, l’esistenza, si arrestasse poi
per impotenza di giungere sino ad essa.
Plotino, Enneadi, IV, 8, 6, ed. cit.
Ma il male assoluto non esiste, grazie alla potenza e alla natura del bene,
poiché si mostra necessariamente chiuso nei vincoli del bello, come un
prigioniero coperto da catene d’oro […].
Plotino, Enneadi, I, 8, 15, ed. cit.
L’Uno, la Mente e l’Anima per Plotino sono i principi ideali che creano la realtà puramente
razionale, cioè le idee della Mente, declinate dall’Anima in progetti razionali singolari, cioè
in anime individuali. Ma perché le anime individuali diventino cose fisiche, ovvero corpi,
cioè per spiegare l’esistenza del mondo fisico, occorre un ulteriore componente: la materia.
Infatti, il cosmo fisico, secondo Plotino, è costituito dall’unione delle anime individuali e
della materia, ossia dalla materializzazione delle anime individuali.
Ma che cos’è la materia e qual è la sua origine? Plotino, in prima battuta, risponde che è
non-essere. Poiché l’essere, in senso stretto, è la Mente, cioè il pensiero delle idee, ossia
delle forme razionali universali, dire che la materia è non-essere significa dire che è
qualcosa di privo di razionalità, cioè di ordine, di organizzazione. In una parola, la materia
è l’indefinito.
In questo senso, Plotino la descrive come un “contenitore” del tutto amorfo, ovvero come
uno “spazio vuoto”, in quanto capace di accogliere e ospitare, ma uno spazio privo di
qualsiasi connotazione, persino del volume, cioè della tridimensionalità, e quindi di ogni
grandezza. Sempre in tal senso, Plotino lo paragona a uno specchio che, proprio perché
non possiede disegni e colori propri, può rispecchiare in sé qualsiasi cosa. In altre parole,
proprio in quanto non-essere, cioè in quanto priva di qualsiasi configurazione, la materia è
ciò che può assumere qualsiasi configurazione.
Tuttavia, anche se è assenza di razionalità, non-essere appunto, la materia esiste. Allora da
cosa deriva e come? Plotino risponde che anche la materia deriva dall’Uno, né potrebbe
essere altrimenti, visto che l’Uno è il principio unico di tutto, la potenza creatrice di tutto
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ciò che esiste. Ma se l’Uno è super-essere, o super-razionalità, come può creare il nonessere, ciò che è privo di razionalità? Plotino chiarisce che la materia è sì non-essere, ma
non come opposto dell’essere, ovvero come sua antitesi assoluta, bensì come “diverso”
dall’essere, cioè come non-essere relativo, come estrema riduzione d’essere. In altre parole,
l’irradiazione dell’Uno, che crea ogni cosa, si svolge come una progressiva diminuzione di
energia vitale, ovvero di essere, e dunque tende allo zero. Ma naturalmente l’energia
creativa dell’Uno non può annullarsi altrimenti non sarebbe infinita, quale invece è.
L’irradiazione dell’Uno, dunque, si approssima infinitesimalmente all’annullamento ma
non si annulla mai del tutto.
Usando una similitudine matematica, si può dire che la materia, in quanto non-essere, è il
limite tendente a zero dell’energia creativa dell’Uno. Oppure, facendo ricorso all’analogia
plotiniana dell’irraggiamento solare, la materia è il confine del cono di luce prodotto dal
sole, ovvero il punto in cui la luce si esaurisce a favore dell’oscurità. Sviluppando questa
analogia, risulta che il buio, pur non essendo luce, è prodotto dalla luce, in quanto senza la
diversità della luce non potrebbe esistere come buio.
Fuor di metafora, creando l’essere, l’Uno implicitamente crea anche il non-essere, per
differenza, per massima diversità appunto. Senza l’essere infatti il non-essere non potrebbe
esistere. In questo senso Plotino afferma che l’Uno donò l’esistenza alla materia e che
anche la materia partecipa della potenza infinita dell’Uno.
Ma c’è di più. Finora ci siamo riferiti alla materia in sé, cioè alla materia come sarebbe se
non fosse organizzata dall’Anima dell’universo, ovvero riempita delle sue anime individuali
o forme razionali. Ma la materia in sé, ovvero come completo non-essere, diversità totale, è
qualcosa di meramente potenziale, ha sì un’esistenza, ma del tutto virtuale, è appunto,
come dice Plotino, un fantasma o uno specchio vuoto. Poiché l’Anima è eterna, ab aeterno
ha ordinato la materia, e dunque di fatto la materia non è mai esistita realmente in sé e per
sé, cioè come mero non-essere, ma da sempre ospita le forme razionali dell’Anima e
dunque da sempre possiede un certo grado d’essere, cioè di organizzazione. Solo che la
materia è un mero recettore passivo di questo ordine, non lo possiede di per sé, e quindi
non lo attiva, bensì lo subisce soltanto.
Però, pur sempre lo riceve e quindi lo acquisisce. Pertanto, per così dire, la materia, pur
essendo disordine, si piega all’ordine, pur essendo non-essere è predisposta all’essere, cioè
è malleabile per l’Anima del mondo. Dunque anche la materia ha una sua razionalità. Certo
quello della materia è il grado minimo di organizzazione, cioè di razionalità, ma è pur
sempre qualcosa. In tal senso Plotino afferma che anche la materia è “forma”, benché
“forma infima”.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Il cosmo fisico, la natura, i corpi, cioè tutti gli esseri fisici, sono il risultato
dell’ordinamento che l’Anima immette nella materia, o meglio, come precisa Plotino, che la
materia assume in quanto è inglobata, come assorbita, nell’Anima. L’Anima, infatti, fluisce
dentro la materia e, al contempo, l’abbraccia, la circonda. L’ordinamento dell’Anima
comincia dall’inserimento nella materia di quattro forme primarie, quelle che, in quanto
poste nella materia, vengono a costituire i quattro elementi naturali: terra, acqua, aria,
fuoco. Simultaneamente la materia riceve anche l’estensione, cioè la tridimensionalità
spaziale, e di conseguenza volume, massa, peso, grandezza.
In altre parole, da spazio potenziale o virtuale, la materia diventa spazio reale,
tridimensionale. In questo senso la materia virtuale si può paragonare a una creta informe
capace di estendersi elasticamente e di assumere le più diverse configurazioni.
L’inserimento delle anime individuali comporta poi la mescolanza di parti dei quattro
elementi naturali in proporzioni diverse per ogni anima. Da tale mescolanza, prodotta
dalle anime, derivano i singoli corpi, p.e. una roccia di basalto, un’orchidea, un gatto, un
uomo, una nuvola, un pianeta, ecc.
Essendo ordinato dall’Anima, il cosmo fisico è essere, ma, poiché è costituito anche dalla
materia, cioè dal non-essere, possiede un rango ontologico ovviamente inferiore a quello
dell’Anima, della Mente e dell’Uno, cioè delle tre realtà che Plotino chiama “ipostasi”, cioè
autoesistenze o autosussistenze, e che quindi sono eterne. In tal senso, Plotino sostiene che
il cosmo fisico è un’immagine, una copia sbiadita dell’Anima, ovvero delle stesse anime
individuali. Ricorrendo ancora all’analogia, Plotino definisce i corpi come i “riflessi” delle
anime nello “specchio” costituito dalla materia.
Oggi, potremmo dire che, secondo Plotino, i corpi sono come “ologrammi”, cioè immagini
fotografiche tridimensionali prodotte da un laser, cioè da un fascio di luce iperconcentrato.
In questa similitudine, la materia corrisponde appunto alla luce laser in quanto capace di
far sembrare tridimensionale una fotografia bidimensionale.
La natura per così dire evanescente o fantasmatica degli esseri fisici, ovvero il loro statuto
ontologico inferiore, a metà tra essere e non-essere, è tutt’uno con il loro divenire, cioè con
il loro incessante trascorrere, con il loro costante mutamento, che naturalmente implica la
loro nascita e la loro morte. Le anime individuali, però, non muoiono, sono eterne e
immutabili. Sono solo i loro riflessi nello specchio materiale che vanno e vengono,
producendo così l’apparenza della nascita e della morte.
Ma il divenire – la nascita, la morte, il cambiamento, il moto – implica il tempo. Si è visto
come la materia si possa considerare spazialità potenziale e dunque come possa spiegare la
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tridimensionalità spaziale del mondo fisico. Il tempo, però, non è inerente alla materia. Da
cosa è prodotto allora? La risposta di Plotino è: dall’Anima. In che modo? L’Anima,
afferma Plotino, dispone in successione, cioè secondo il criterio del prima e del poi, ciò che
nella Mente è diviso in parti ma è simultaneo, ovvero le idee in quanto sono conosciute
simultaneamente nelle loro relazioni dalla Mente stessa. Per comprendere meglio questa
tesi di Plotino, possiamo usare l’esempio analogico di un film cinematografico, come noto
composto da migliaia di fotogrammi. Se possedessimo una vista straordinaria, potremmo
vedere tutti i fotogrammi simultaneamente, allo stesso modo, cioè, in cui la Mente conosce
tutte le Idee; invece, poiché disponiamo di una vista normale, li vediamo in successione,
vediamo appunto un film con un inizio e una fine (possibilmente lieta), cioè al modo in cui
l’anima riordina le idee. In altre parole, l’Anima dell’universo, traducendo le idee in disegni
razionali, ossia in anime individuali, per adattarle alla materia, sostituisce il loro
collegamento sincronico con una connessione diacronica, ossia le pone in successione
cronologica. Sviluppando l’analogia del film, viene spontaneo concludere che per Plotino
gli esseri fisici sono “cartoni animati”!
Ma qual è il giudizio complessivo di Plotino sul mondo fisico? Da un lato, Plotino ne
evidenzia il carattere illusorio, dovuto al suo legame con il non-essere, cioè con la materia.
In questo senso, poiché l’essere/ordine equivale al bene, cioè è benessere, la materia in
quanto non-essere/disordine equivale al male. Ma così come la materia è non-essere nel
senso di massima privazione dell’essere, allo stesso modo il male è massima privazione del
bene, ovvero non è un principio maligno antitetico e concorrenziale a quello del bene.
In quanto il mondo fisico è anche materiale include dunque il male, ma si tratta tuttavia di
un male parziale, che nemmeno incrina la superiorità del bene. Insomma: in quanto copia
sfocata del mondo ideale il mondo fisico è imperfetto e dunque contiene una dose di
negatività, tuttavia è la migliore delle copie possibili e dunque la sua negatività è limitata e
il bene in esso è di gran lunga preponderante.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 7
L’Uno crea l’essere
Implicitamente
L’Uno crea il non-essere relativo, come massima privazione dell’essere
Il non-essere è contenitore, spazio senza determinazione, simile a uno specchio
L’Anima lo ordina, assorbendolo in sé e infondendogli le anime individuali
Le cose fisiche sono i riflessi delle anime individuali nello specchio della materia
Il divenire è il continuo andirivieni e alternarsi dei riflessi nello specchio materiale
Il tempo è creato dall’anima universale che sostituisce alla connessione sincronica
delle idee la successione diacronica delle anime individuali
Il mondo fisico, essendo legato al non-essere, implica il male, ma essendo
soprattutto essere in esso il bene è preponderante rispetto al male
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VIAGGI DI IERI & VIAGGI DI OGGI
L’ANIMA, L’ENTANGLEMENT E IL PRINCIPIO OLOGRAFICO
La teoria plotiniana dell’anima dell’universo che innerva e governa il mondo, con il suo
corollario della simpatia universale che connette ogni cosa a ogni altra cosa, fu ripresa e
sviluppata dalla filosofia rinascimentale, ma, con la rivoluzione scientifica moderna, fu
soppiantata dalla opposta teoria meccanicistica. Tuttavia, con la rivoluzione scientifica
contemporanea, a cavallo dei secoli XIX e XX, e in particolare con la scoperta della teoria
dei quanti – ossia delle particelle elementari – la visione meccanicistica della scienza
moderna è stata messa in discussione. Per capire come, consideriamo uno dei più
stupefacenti fenomeni quantistici: l’entanglement, traducibile “intreccio”, “correlazione”.
Il termine significa che due particelle elementari, p.e. due fotoni, possono interagire
istantaneamente anche se distano tra loro un milione di anni-luce. Per esempio, se il
fotone A cambia la direzione del suo spin (la rotazione su se stesso) immediatamente il
correlato fotone B la muta. Alcuni esperimenti hanno accertato che due particelle
elementari correlate sono al tempo stesso divise e unite, ovvero, p.e. esempio, due fotoni
sono separati ma anche uno stesso fotone. Addirittura, nel 1997 due gruppi di scienziati
sono riusciti a teletrasportare lo stato quantistico di una singola particella a un’altra,
realizzando effettivamente (pur in modo alquanto diverso) il teletrasporto
fantascientifico di Star Trek.
Per spiegare l’entanglement, i fisici quantistici sostengono che le particelle elementari
sono non-locali o alocali, cioè non sono localizzate, non hanno una posizione spaziale
precisa. Su questa base, essi sono giunti a ipotizzare che tutte le particelle elementari
(fotoni, protoni, neutroni, elettroni, ecc.) siano in uno stato di entanglement, cioè sono
tutte correlate tra loro. Poiché ogni corpo fisico è fatto di particelle elementari, ogni
corpo fisico è collegato a tutti gli altri. In questo senso, molti fisici quantistici usano
espressioni quali “magia quantistica” o “danza magica” dei quanti.
Ma questa non è l’unica, e forse nemmeno la più clamorosa, somiglianza tra la filosofia
plotiniana e la fisica contemporanea. Un’altra è quella relativa alla scoperta della
cosiddetta “energia del vuoto” (altrimenti detta “energia oscura”). Mentre la fisica
classica meccanicistica credeva nell’esistenza di uno spazio infinito in massima parte del
tutto vuoto, cioè privo di massa e energia, la fisica quantistica contemporanea ha
accertato che ogni porzione di spazio pullula di particelle (elettroni, positroni, fotoni)
“virtuali”, cioè di particelle che apparentemente non esistono ma che improvvisamente si
manifestano per minuscole frazioni di secondo per poi di nuovo sparire. Questo
fenomeno, che viene chiamato anche “fluttuazione quantistica”, ha portato a ridefinire lo
spazio vuoto: esso non è più uno stato di energia/massa nulla, bensì uno stato di
energia/massa minima. In termini plotiniani il non-essere (o nulla) non è l’assenza totale
dell’essere ma il grado minimo dell’essere, per cui il nulla, inteso come non-essere
assoluto, non esiste.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
Un’ulteriore somiglianza tra neoplatonismo e fisica attuale concerne la teoria delle
stringhe, che, nei suoi più recenti sviluppi, è giunta a ipotizzare che il mondo reale giaccia
su una “membrana”, cioè su una superficie elastica nastriforme a due dimensioni. Su
queste basi, alcuni fisici hanno elaborato una teoria della realtà basata sul principio
olografico: tutte le cose sono ologrammi, cioè immagini tridimensionali di dati scritti in
minuscoli pixel (a loro volta collezioni di informazioni numeriche binarie) su una
superficie bidimensionale.
Per approfondimenti, leggere Entanglement, di A.C. Aczel, Cortina, 2004, e Il Paesaggio
cosmico, di L. Susskind, Adelphi 2007.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 8
PLOTINO: L’UOMO E’ UN’ANIMA CADUTA
E noi? Chi siamo noi? Forse che noi siamo quell’Essere oppure siamo ciò che
s’avvicina all’Essere e diviene nel tempo? Ancor prima che nascessimo, noi
eravamo lassù, uomini alcuni ed altri anche dei, anime pure e intelligenze
unite all’Essenza intera, parti del mondo intelligibile, né separate né divise,
ma appartenenti al Tutto: infatti, anche oggi non ne siamo separati.
Oggi, purtroppo a quell’uomo spirituale si è aggiunto un altro uomo che vuole
esistere; egli ci ha trovati poiché non eravamo fuori dell’universo e si è
accostato a noi e si è rivestito di quell’Uomo che ciascuno di noi era allora. […]
Noi siamo diventati così una coppia di due uomini e non siamo più quello che
eravamo prima; anzi, qualche volta, siamo soltanto quel secondo uomo che si
aggiunge quando quel primo uomo non opera più ed è, in un certo senso,
lontano.
Plotino, Enneadi, IV, 4, 14, ed. cit.
Ma per quale causa le anime, pur essendo parti del mondo superiore e
appartenenti completamente ad esso, si sono dimenticate di Dio loro Padre e
ignorano se stesse e Lui? Per loro il principio del male fu la temerarietà e il
nascere e l’alterità originaria e il desiderio di appartenere a se stesse. In tal
modo soddisfatte di quella loro manifesta decisione, dopo aver abusato del
loro movimento e aver corso in senso contrario, una volta allontanatesi di
molto, ignorarono finalmente se stesse e il loro luogo d’origine: simili a
fanciulli che, troppo presto rapiti ai loro genitori e allevati per molto tempo
lontani da loro, non riconoscono più né se stessi né i loro genitori.
Plotino, Enneadi, V, 1, 1, ed. cit.
Finché rimangono nel mondo intelligibile insieme con l’Anima universale,
esistono senza alcun affanno; unite nel cielo all’Anima universale,
condividono con essa il governo del mondo, simili a re che siano accanto al
supremo Signore e governino insieme con lui senza discendere
personalmente dalle loro dimore regali: allo stesso modo stanno insieme,
allora, le anime e nella stessa sede. Ma esse si allontanano dal Tutto sino ad
essere anime parziali: ciascuna vuole appartenere a se stessa e, come stanca
di essere in comunione con le altre, si ritrae in se stessa. Qualora l’anima
faccia questo per lungo tempo fuggendo il Tutto e distinguendosi dal Tutto, e
più non rivolga lo sguardo all’Intelligibile, essa diventa un frammento, si
isola, perde il suo vigore e, dedicandosi alle faccende pratiche, guarda
soltanto alle cose particolari; separata dal Tutto, si abbassa a qualsiasi cosa
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
parziale e fuggendo ogni altra realtà, va incontro a questo unico oggetto, in
contrasto con tutti gli altri; allontanatasi dall’universo, essa governa con
fatica l’essere particolare e rimane in contatto con esso, si dedica alle cose
esterne ed è loro presente e vi si sprofonda dentro in buona parte. Le accade
allora ciò che si dice di essa, cioè che “perdette le ali” e che “cadde nelle
catene del corpo”, poiché abbandonò quell’innocenza con cui si curava prima
di cose più alte e che possedeva accanto all’Anima universale; e questo stato
anteriore era assolutamente migliore di quello dell’anima retrocessa.
Plotino, Enneadi, IV, 8, 4, ed. cit.
Tutto ciò che va verso il peggio è involontario; ma poiché ci si va col
movimento proprio, si può dire che il male è il castigo delle azioni compiute.
Ma poiché questo patire e questo agire sono ineluttabili per l’anima secondo
una legge eterna della natura, poiché ogni evento che le accade in questa sua
discesa finisce per essere utile a qualche altro essere in quanto discende da
una regione superiore, chi dicesse che è Dio che l’ha inviata giù non sarebbe
in contrasto né con la verità né con se stesso. Anche le ultime conseguenze
devono risalire tutte a un primo Principio, anche se gli esseri intermedi sono
molti.
La colpa <dell’anima> è duplice: l’una è quella che ha dato luogo alla discesa,
l’altra consiste nelle cattive azioni che essa compie, una volta venuta quaggiù;
il castigo della prima colpa è il fatto stesso di discendere; nel secondo caso,
quanto meno l’anima si immerge in corpi via via diversi, tanto più presto ne
riemerge conforme e un giudizio di merito – qui con la parola “giudizio” si
vuole indicare ciò che accade per decreto divino –; ma ad ogni grado enorme
di malvagità corrisponde un degno castigo sotto la vigilanza di demoni
vendicatori.
E così l’anima, benché sia un essere divino e venga dagli spazi superiori,
discende all’interno del corpo; essa, che è l’ultima entità divina, con
inclinazione spontanea viene quaggiù per esercitare la sua potenza e porre
ordine in ciò che si trova dopo di essa; e se poi riesce a fuggire al più presto,
non riceve alcun danno per aver sperimentato il male e aver conosciuto la
natura del vizio, ma rivela le sue azioni e le sue operazioni, le quali sarebbero
inutili nel mondo corporeo perché rimarrebbero sempre inattuate […].
Plotino, Enneadi, IV, 8, 5, ed. cit.
Queste cose dunque vanno dette contro coloro che considerano come esseri i
corpi cercando una prova della verità nella testimonianza degli urti e nei
fantasmi derivanti dalle sensazioni; assomigliando così a coloro che sognano
e che considerano evidente tutto ciò che vedono in sogno. La sensazione
infatti è dell’anima che dorme, poiché la parte dell’anima che è nel corpo è
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
dormiente; il vero risveglio consiste nel levarsi davvero senza il corpo e non
con esso.
Plotino, Enneadi, III, 6, 6, ed. cit.
Essa [l’anima] ha tuttavia la capacità di riemergere nuovamente dopo aver
acquisito l’esperienza di ciò che vide e sofferse quaggiù, e di comprendere che
cosa voglia dire essere lassù e di conoscere più chiaramente, attraverso il
raffronto con il suo contrario, ciò che è il Bene. Poiché l’esperienza del male
porta a una conoscenza più precisa del Bene in quegli individui nei quali la
potenza è troppo debole per poter conoscere il male con pura scienza ancor
prima di averlo provato.
Plotino, Enneadi, IV, 8, 7, ed. cit.
L’uomo corporeo, l’uomo di carne ed ossa, non è per Plotino l’uomo originario – e dunque
non è nemmeno l’uomo autentico, genuino – ma è una sua trasformazione o, per così dire,
una sua copia.
L’uomo originario e autentico, secondo Plotino, era infatti pura anima, ossia faceva parte
dell’Anima nelle sue tre componenti: come anima individuale possedeva una propria
coscienza e una personalità unica, come Anima dell’universo partecipava al governo del
cosmo fisico e come Anima suprema contemplava la Mente e dunque era unito al cosmo
ideale, ovvero all’Essere intellegibile.Come mai allora l’uomo è diventato corporeo?
Plotino risponde che l’uomo corporeo è l’esito di una “caduta”, o di una “discesa”,
dell’uomo incorporeo, cioè è il risultato della sua acquisizione di una costituzione
ontologica inferiore, di un grado minore di essere, quello proprio del mondo fisico. Ma
perché l’uomo incorporeo è “sceso” nella dimensione fisica, acquisendo così un corpo?
Plotino lo spiega ricorrendo a quattro concetti, tutti da interpretare:
a) la temerarietà, o meglio l’audacia (tòlma), cioè la tendenza dell’anima umana a
osare, a oltrepassare coraggiosamente, ma anche rischiosamente, i propri limiti;
b) la nascita, o meglio la generazione (génesis), cioè la volontà di produrre qualcosa di
proprio, cioè di riprodursi sessualmente ma anche di creare opere intellettuali o
artistiche;
c) l’alterità originaria, cioè la prima creazione dell’Uno, in quanto l’idea di diversità da
se stesso è il presupposto razionale della creazione di ogni altra idea e di ogni altra
cosa, il che significa che anche l’anima umana, in quanto creata dall’Uno, vuole
diventare diversa da ciò che originariamente è;
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
d) la volontà di appropriarsi della propria individualità, di essere padrone di sé, nel
senso sia di darsi origine sia di conquistarsi, ovvero realizzarsi, in modo autonomo.
In sintesi, come tutto ciò che l’Uno irradia, anche l’anima umana reca in sé l’impronta
dell’Uno, cioè è simile a esso, e dunque non può che imitarlo, cioè non può che volere
anch’essa svilupparsi ulteriormente e per farlo non può che differenziarsi e per
differenziarsi non può che “abbassarsi”, cioè entrare nello specchio della materia e divenire
il riflesso fisico di se stessa, ovvero “rivestirsi” di un corpo. In questo senso, in modo simile
all’Uno, anche per le anime la differenziazione coincide con la molteplicità.
Infatti, le anime sono sì individuali ma originariamente, essendo parti di un’unica Anima,
non sono separate ma si coappartengono, sono in perfetta comunione tra loro. La caduta
nella fisicità, cioè l’acquisizione dei corpi, scinde le anime, le separa e le contrappone, fa
loro acquisire un’individualità indipendente e conflittuale, e dunque le fa passare da
molteplicità ordinata a molteplicità disordinata. In tal senso, l’anima, una volta
incarnatasi, fa esperienza del male.
Dunque la caduta delle anime nella dimensione fisica per Plotino è senz’altro un
peggioramento della loro condizione originaria e, come tale, implica una duplice colpa. La
prima è la discesa stessa, cioè il passaggio dalla dimensione razionale a quella materiale.
Però, come si è visto tale passaggio è inevitabile, è voluto dall’Uno stesso, tanto è vero che
ha un fine positivo: migliorare la materia e al tempo stesso arricchire la conoscenza delle
anime umane. L’uomo corporeo, sostiene Plotino, esercitando la sua potenza sulla materia,
da un lato ne incrementa l’ordine, facendo così il suo bene, dall’altro accresce la sua
esperienza e quindi attua se stesso in un modo più ampio, completandosi.
La corporeità, infatti, offusca l’anima ma non la elimina e pertanto l’esperienza fisica si
aggiunge a quella razionale arricchendola. In questo senso, Plotino afferma che in linea di
principio un’anima potrebbe incarnarsi senza patire il male ma limitandosi a farne
esperienza per poi immediatamente risalire, cioè tornare alla sua condizione originaria.
Dunque, la colpa connessa alla caduta non si può considerare una colpa effettiva.
Ma allora perché Plotino la chiama colpa? Perché lo può diventare in quanto costituisce il
presupposto di una seconda colpa, quella, per così dire, di uno sprofondamento nella
dimensione fisica, cioè di un’adesione completa al mondo fisico e agli esseri naturali. Una
volta caduta nella dimensione spazio-temporale, e quindi incarnatasi in un corpo, l’anima
può dimenticare del tutto la sua origine e rivolgersi sempre più verso il “basso”, cioè
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
scendere ulteriormente, interessandosi solo alle cose fisiche e, in particolare, dedicando la
sua vita al godimento dei piaceri sensibili e abbrutendosi, cioè trasformandosi
completamente in un animale. Come tale, l’uomo corporeo basa tutta la sua conoscenza
sulle sensazioni e in tal modo egli non fa altro, dice Plotino, che sognare le cose fisiche che
crede di percepire, e dalle quali si lascia sedurre, in quanto esse sono solo immagini
oniriche, costruzioni della fantasia. Dunque l’uomo corporeo è un dormiente, crede di
vivere ma in realtà dorme, la sua vita è un lungo sonno.
A differenza della prima caduta, la seconda caduta, questo sprofondamento nelle sabbie
mobili della fisicità, non è voluta dall’Uno, ovvero non è la realizzazione di un’inclinazione
dell’anima, ma è una sua degenerazione voluta dall’uomo diventato corporeo. In altre
parole, l’uomo corporeo, pur potendolo evitare, si lascia tuttavia irretire dalla fisicità e
sceglie di abbrutirsi, di diventare un essere totalmente fisico. Dunque la seconda caduta
comporta una vera e propria colpa che rende colpevole anche la prima caduta in quanto è
in un rapporto di continuità con essa. La colpa che così l’uomo corporeo si assume spiega e
al contempo giustifica le sofferenze della vita fisica. Infatti, da un lato, tali sofferenze sono
l’effetto inevitabile della rottura della comunione originaria delle anime e della
conseguente conflittualità interindividuale; dall’altro, esse sono la punizione della colpa
commessa.
Eppure Plotino aggiunge che anche la seconda caduta ha un senso positivo. Infatti, mentre
gli uomini dotati di un’anima più forte possono acquisire la conoscenza del male senza
commetterlo, altri uomini, dotati di un’anima più debole, per conoscere il male devono
commetterlo e devono dunque soffrirne le inevitabili conseguenze.
In entrambi i casi, l’acquisizione della conoscenza del male, ovvero della condizione
materiale, è però finalizzata a una maggiore comprensione di cos’è il Bene, ovvero della
superiorità della condizione spirituale. Dunque la colpa delle anime più deboli è per esse
un mezzo necessario per rafforzarsi, cioè per arricchirsi conoscitivamente. In altre parole,
anche la seconda caduta, in ultima analisi, è un bene perché produce un miglioramento
delle anime e le spinge a tornare alla loro condizione originaria.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
MAPPA della TAPPA 8
Uomo incorporeo, ovvero pura anima
Audacia
Generazione
Alterità
originaria
Autonomia
Prima caduta inevitabile
Uomo corporeo
Attaccamento alla fisicità e abbrutimento
Seconda caduta volontaria e colpevole
Conflittualità e sofferenza, cioè esperienza del male
Aumento della consapevolezza del bene
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 9
PLOTINO: LA MASSIMA FELICITA’ E’ L’ESTASI
L’anima, dopo la sua caduta, è imprigionata e messa in ceppi ed agisce
soltanto per mezzo dei sensi poiché è impedita di agire, almeno all’inizio,
mediante la sola intelligenza. Essa è, come si dice, “nel sepolcro” e “nella
caverna”; ma quando si volge al pensare, si libera dalle catene e risale, non
appena la reminiscenza le abbia offerto l’avvio alla contemplazione
dell’Essere: essa infatti conserva sempre un qualcosa che, malgrado tutto,
rimane in alto.
Plotino, Enneadi, IV, 8, 4, ed. cit.
Necessariamente, la potenza sensitiva dell’anima percepisce non le cose
sensibili, ma piuttosto le impronte che si producono nel vivente dopo la
sensazione; e queste sono intelligibili. Perciò la sensazione esterna è il riflesso
di questa <propria dell’anima>, la quale è più vera e più reale di quella,
essendo una contemplazione impassibile delle forme.
Plotino, Enneadi, I, 1, 7, ed. cit.
Perciò queste sensazioni sono pensieri oscuri e i pensieri intellegibili sono
sensazioni chiare.
Plotino, Enneadi, VI, 7, 7, ed. cit.
La nostra anima ha una parte che è sempre presso gli intelligibili, un’altra che
è presso le cose <sensibili>, un’altra che è tra le due; essa è una natura unica
con parecchie potenze, che ora si raccoglie tutta in quella parte che è la parte
migliore di lei e dell’essere, ora la sua parte inferiore precipitando trascina
con sé la parte media: perché non è permesso che l’anima sia trascinata
tutt’intera.
Plotino, Enneadi, II, 9, 1, ed. cit.
Poiché [l’anima] è in mezzo [tra il mondo intellegibile e il mondo sensibile],
essa li percepisce entrambi; si dice che pensi gli Intelligibili allorché riesce a
ricordarsene se si avvicina ad essi; essa infatti li conosce perché è, in certo
modo, gli Intelligibili stessi e li conosce non perché abbiano in essa la loro
dimora, ma perché li possiede in qualche modo e li vede ed è, un po’
confusamente, quegli esseri stessi; ma quando essa si scuote, diciamo così,
dal suo sonno oscuro, essi diventano più chiari e passano dalla potenza
all’atto.
Plotino, Enneadi, IV, 6, 3, ed. cit.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’anima, purificata, diventa dunque una forma, una ragione, si fa tutta
incorporea, intellettuale ed appartiene interamente al divino, ov’è la fonte
della bellezza e donde ci vengono tutte le cose dello stesso genere. L’anima,
dunque, ricondotta all’Intelligenza, è molto più bella. Ma l’Intelligenza e ciò
che ne deriva è per l’anima una bellezza propria, non estranea, perché l’anima
allora è veramente sola. Per questo si dice giustamente che il bene e la
bellezza dell’anima consistono nel rassomigliare a Dio, poiché da Lui derivano
il Bello e la natura essenziale degli esseri. […] Bisogna porre anzitutto che il
Bello è lo stesso che il Bene, dal quale l’Intelligenza trae la sua Bellezza: e
l’anima è bella per l’Intelligenza; le altre bellezze – quelle delle azioni e delle
occupazioni – sono tali, poiché l’anima le informa.
Plotino, Enneadi, I, 6, 6, ed. cit.
Poiché “necessariamente i mali esistono quaggiù e s’aggirano intorno a questi
luoghi terreni”, e poiché l’anima vuole fuggire i mali, “bisogna fuggire di qui”.
Che cos’è questa fuga? “Diventare simili a Dio” dice <Platone>. E noi
otterremo questo, se, mediante la prudenza e in generale con la virtù,
diventeremo giusti e pii.
Plotino, Enneadi, I, 2, 1, ed. cit.
E’ chiaro che non c’è in lei [l’anima] nessun desiderio di cosa turpe: desidera
il mangiare e il bere non per sé, ma per soddisfare <i bisogni del corpo>, né
ricerca i piaceri d’amore, o soltanto, io credo, quelli naturali che non abbiano
un cieco impulso; e se fa questo, lo fa con una fantasia già dominata.
Plotino, Enneadi, I, 2, 5, ed. cit.
No, egli conoscerà queste <virtù inferiori> [le virtù civili] e possederà tutto
ciò che ne deriva, fors’anche agirà conformandosi ad alcune di esse, se le
circostanze lo richiederanno. Ma, arrivato a principi e a norme superiori,
agirà secondo queste, non col riporre la sua temperanza nel limitare <i
desideri>, ma con l’isolarsi completamente, per quanto sarà possibile, <dal
corpo>; egli non vive più la vita dell’uomo dabbene, come esige la virtù civile,
ma la abbandona, scegliendone un’altra, quella degli dei: perché a questi, e
non agli uomini dabbene vuol rassomigliare.
Plotino, Enneadi, I, 2, 7, ed. cit.
Eros conduce dunque ogni anima verso la natura del bene; l’Eros dell’Anima
superiore è un Dio che la congiunge eternamente al Bene, quello dell’anima
mista <alla materia> è un demone.
Plotino, Enneadi, III, 5, 4, ed. cit.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
L’anima dev’essere nuda di forme, se veramente desidera che nulla
intervenga a ostacolare la pienezza e la folgorazione in lei da parte della
Natura prima. Se è così, essa deve staccarsi da tutte le cose esteriori,
rivolgersi alla sua interiorità, completamente, non piegarsi più verso qualcosa
di esterno, ma spegnendo ogni conoscenza, prima attraverso la propria
disposizione, poi, di fatto, negli stessi contenuti di pensiero, spegnendo altresì
la conoscenza del proprio essere, deve abbandonarsi alla contemplazione di
Lui.
Plotino, Enneadi, VI, 9, 7, ed. cit.
Poiché, dunque, non erano due, ma il veggente era una cosa sola con l’oggetto
visto (“unito”, dunque, non “visto”), chi allora divenne tale quando si unì a
Lui, se riuscisse a ricordare, possederebbe in sé un’immagine di Lui; egli,
però, in quel momento, era uno di per sé e non aveva in sé alcuna
differenziazione né rispetto a se stesso né rispetto alle altre cose; non c’era in
lui alcun movimento; né collera né desiderio erano in lui, una volta salito a
quell’altezza, e nemmeno c’era ragione o pensiero; non c’era nemmeno lui
stesso, insomma, se proprio dobbiano dir così. E invece, quasi rapito o
ispirato, è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non
conosce turbamenti, e non si allontana più dall’essere di Lui, né più si aggira
intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa
immobilità. […]
Quella però non fu una vera visione, ma una visione ben diversa, un’estasi,
una semplificazione, una dedizione di sé, brama di contatto, quiete e studio di
adattamento; solo così si può vedere ciò che v’è nel penetrale; ma se si guarda
in altra maniera, tutto scompare. […]
Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle restanti
cose di quaggiù, vita che non si compiace più delle cose terrene, fuga di solo a
solo.
Plotino, Enneadi, VI, 9, 11, ed. cit.
L’uomo corporeo, secondo Plotino, può abbrutirsi e dimenticare di essere un uomo
incorporeo, ma mai totalmente. Per quanto si abbrutisca, egli conserva in sé intatta la
propria anima e non può non possedere una consapevolezza di essa, ancorché minima.
Persino le sensazioni, che avvinghiano l’uomo corporeo al mondo fisico, sono un prodotto
dell’attività dell’anima, e quindi rimandano ad essa. Infatti le sensazioni, afferma Plotino,
solo apparentemente sono provocate dalle impronte che gli altri corpi producono sul
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
nostro corpo. I corpi e le loro affezioni sono solo immagini, ombre, riflessi del grande
specchio della materia.
In realtà, quando il nostro corpo sembra subire l’urto di un altro corpo, è la nostra anima
che al suo interno percepisce la forma razionale del corpo che ci ha urtato, grazie al fatto
che essa, in quanto parte dell’Anima universale, possiede in sé le forme razionali di tutti i
corpi. In questo senso anche la sensazione è pensiero, ma è un pensiero oscuro, il livello
più basso di razionalità.
Tuttavia, la conoscenza sensibile stimola l’uomo corporeo a un livello superiore di
conoscenza, cioè a chiarire il suo pensiero. L’uomo corporeo può così pervenire alla
conoscenza razionale, cioè alla conoscenza dei progetti razionali di tutte le cose e delle loro
correlazioni. Si tratta della conoscenza propria dell’Anima dell’universo, una razionalità
dimostrativa, cioè basata su ragionamenti e argomentazioni.
A sua volta la conoscenza razionale intermedia stimola l’uomo corporeo a raggiungere la
conoscenza intellettiva, cioè la conoscenza dialettica delle idee, quella propria dell’Anima
suprema che contempla la Mente. In questo modo l’uomo corporeo, afferma Plotino, può
risalire nel luogo dal quale era caduto, cioè può riconquistare la piena consapevolezza del
suo vero essere – l’Anima, appunto – e ritornare alla sua condizione originaria.
Ma il ritorno dell’anima alla propria origine non è solo un cammino conoscitivo ma è
anche, al tempo stesso un cammino etico e un cammino erotico-estetico. I tre cammini per
Plotino procedono insieme e si intrecciano fondendosi in un unico cammino. Ognuno di
essi, infatti, stimola gli altri ed è stimolato da essi.
Il cammino etico consiste nella pratica sempre più completa delle virtù. Inizialmente
bisogna acquisire le virtù civili, cioè quelle connesse alla vita terrena all’interno della
società e dello Stato, in quanto già queste virtù – saggezza, coraggio, giustizia, temperanza
– permettono di limitare e moderare i desideri del corpo e il godimento dei piaceri
sensibili. Ma in un secondo momento la pratica delle virtù civili deve essere abbandonata e
sostituita da quella delle virtù “catartiche”, cioè dalle virtù che purificano l’anima
liberandola progressivamente da ogni desiderio fisico del corpo. In altre parole, Plotino
propone un’etica ascetica, di graduale rinuncia al godimento dei piaceri corporei fino allo
spegnimento di ogni desiderio di godimento fisico. Solo così, infatti, l’anima può liberarsi
della zavorra del corpo e salire verso il mondo ideale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
A sua volta il cammino erotico-estetico fornisce un’ulteriore spinta all’ascesa dell’anima
grazie alla forza dell’amore suscitata dalla bellezza. Anche a questo livello, inizialmente
l’anima coglie la bellezza dei corpi, in quanto immagini delle forme razionali, e si innamora
di essi; ma successivamente la bellezza dei corpi è sostituita dalla superiore bellezza delle
anime e quindi dalla ancora maggiore bellezza delle idee, e allora l’amore per i corpi si
trasforma in amore per l’Anima, prima, e poi in amore per la Mente, e trascina l’anima fino
alla sua condizione originaria.
In questa ascesa erotico-estetica, per Plotino svolge un ruolo fondamentale anche l’arte,
nella misura in cui non imita le cose naturali, ma invece raffigura le anime e le idee da cui
derivano le cose naturali. In questo modo l’arte può comunicare la Bellezza ideale, la
Bellezza della Mente, e farci sentire che il massimo e più autentico amore che possiamo
provare è quello per la Bellezza in sé, cioè per la Bellezza della Mente e dunque per la
Mente.
Se il percorso di risalita per tornare alla dimora originaria è in generale comune a tutte le
anime, le sue modalità e i suoi tempi, afferma Plotino, variano per ogni anima individuale.
Alcune anime, come si è visto, possono purificarsi e risalire già al termine di una sola vita
terrena; altre, invece, devono attraversare più vite terrene, ovvero reincarnarsi in altri
corpi umani, ma anche in animali e perfino in vegetali, per potersi purificare e ripristinare
la loro condizione originaria. In ogni caso, prima o poi, dopo un’ultima morte, tutte le
anime tornano da dove erano partite.
Ma soprattutto Plotino mette in evidenza un’altra possibilità di risalita, una possibilità
straordinaria, in quanto può realizzarsi già nel corso della vita terrena, prima cioè della
morte. Quando il corpo è ancora vivo, sostiene Plotino, l’anima che ha raggiunto la piena
purificazione può momentaneamente separarsi dal corpo e ascendere non solo alla Mente
ma addirittura all’Uno. Ma l’ascesa fino all’Uno non può avvenire che unendosi a lui, cioè
diventando lui, come una goccia di pioggia che giunge nell’oceano e diventa oceano,
perdendo la sua individualità. In questo senso Plotino chiama l’unione dell’anima
individuale con l’Uno “estasi”, che significa “emersione”, “fuoriuscita”.
Ma fuoriuscita da cosa? Da ogni cosa: dalla fisicità, ma anche dalle forme razionali
dell’Anima e dalle idee della Mente, e perfino dalla propria individualità, ossia dal proprio
io, dalla propria coscienza. E non potrebbe essere altrimenti perché l’Uno è
l’assolutamente indifferenziato e omogeneo e dunque in lui non può esserci la distinzione
io/tu. Non è cioè possibile per Plotino che un’anima contempli l’Uno dal momento che per
contemplarlo l’anima dovrebbe essere altro da lui e dunque lo perderebbe. La
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
“contemplazione” dell’Uno, l’unica possibile, non può che consistere nell’immedesimarsi
totalmente con l’Uno, nel farsi unità assoluta con lui e in lui. E in tal senso Plotino chiama
l’estasi anche “semplificazione”.
Ma se l’anima individuale si spoglia di tutto, della sua conoscenza sensibile, ma anche
razionale e intellettiva, della sua virtù, del suo amore per la bellezza, non si annulla, ovvero
non si abbandona all’irrazionalità più totale, all’assoluto caos? Plotino risponde di no, in
quanto diventare uno con l’Uno significa per lui acquisire un’iperrazionalità, una
supervirtù, un iperamore per una metabellezza, una bellezza superiore alla stessa bellezza
della Mente.
L’esperienza dell’estasi per Plotino è temporanea, ma ugualmente conferisce alla vita di un
uomo un senso assoluto, permettendogli di immunizzarsi da tutti i dolori fisici e di
conseguire così una completa felicità.
Tenendo presente questa tesi, per concludere vale la pena evidenziare che il ritorno dopo la
caduta permette alle anime individuali non solo di tornare alla loro condizione originaria
ma addirittura di superarla per giungere ancora più in alto, ovvero fino alla massima
altezza, quella dell’Uno.
In questa prospettiva, l’esperienza della caduta perde ogni traccia di negatività e si disvela
come il mezzo necessario all’uomo per compiersi totalmente diventando egli stesso
assoluto, ovvero il Dio.
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MAPPA della TAPPA 9
Ritorno dell’anima alla sua origine divina
CAMMINO
CONOSCITIVO
CAMMINO ETICO
CAMMINO EROTICOESTETICO
Conoscenza
sensibile
Vizi
Amore per la
bellezza dei corpi
Conoscenza
razionale
Virtù civili
Amore per la
bellezza delle anime
Conoscenza
intellettiva
Virtù
catartiche
Amore per la bellezza
delle opere artistiche che
rappresentano le idee
ESTASI
Raggiungimento di una felicità piena già durante la vita
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LO SCRIGNO
ALEX VILENKIN: L’UNIVERSO E’ CONTRADDITTORIO
La concezione del mondo che è emersa dai nuovi sviluppi è a dir poco
straordinaria. Per parafrasare Niels Bohr (scienziato del primo ‘900, uno dei
padri della fisica quantistica, ndr), è abbastanza pazzesca per essere vera.
Tale visione del mondo combina, in modo sorprendente, alcune
caratteristiche apparentemente contraddittorie: l’Universo è sia infinito sia
finito, evolve pur essendo stazionario, è eterno eppure ha avuto un inizio.
Alex Vilenkin, Un solo mondo o infiniti?, Cortina, 2007 (2006), p. 16
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
X VIAGGIO
DIO PERSONA ONNIPOTENTE E AMOREVOLE
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MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA
Dio mio, ch’io mi ricordi di ringraziarti e di confessare le tue misericordie a
mio riguardo. Siano pervase le mie ossa del tuo amore e dicano: “Signore, chi
è simile a Te? Tu hai spezzate le mie catene; farò un sacrificio di lode”.
Racconterò in qual modo le hai spezzate e tutti i tuoi adoratori, udendolo,
esclameranno: “Benedetto il Signore nel cielo e sulla terra; grande e
ammirabile il nome suo”.
Le tue parole mi erano rimaste scolpite nel più profondo del cuore e d’ogni
parte ero assediato da Te. Della tua vita eterna avevo certezza, quantunque
l’avessi vista in enigma e quasi attraverso uno specchio.
Tuttavia ogni dubbio sull’incorrutibile sostanza e perché da essa derivi ogni
sostanza m’era stato tolto ed io desideravo non di avere maggiore certezza di
Te, ma più sicura stabilità in Te.
Intanto nella mia vita temporale tutto vacillava: dovevo mondare il cuore dal
fermento vecchio. Mi piaceva la via ch’è il Salvatore stesso, ma ancora mi
rincresceva andare per le sue strettezze.
Ma Tu mi facesti venire in mente, e la cosa parve buona ai miei occhi, di
recarmi da Simpliciano, che mi appariva un servo tuo buono: in lui splendeva
la tua grazia.
Avevo sentito dire che fin dalla sua gioventù era vissuto con tutta dedizione a
Te. Ora, però, egli era già vecchietto e avendo trascorso la lunga vita nel
seguire con tanto impegno la tua via, mi pareva che avesse molta esperienza:
ed era veramente così.
Perciò volevo metterlo a parte della mia agitazione perché mi indicasse,
travagliato com’ero, il modo migliore di camminare nella tua via.
Vedevo infatti piena la Chiesa e chi andava per una strada e chi per un’altra.
A me spiaceva vivere nel mondo e mi era di gran peso. E non erano più le
passioni ad infiammarmi, come solevano, con la speranza di onore e lucro, a
sopportare una schiavitù così gravosa.
Ormai tutte quelle cose non mi attiravano più in confronto della tua dolcezza
e della bellezza della tua casa che amavo: però mi teneva ancora tenacemente
avvinto la donna. […]
Io avevo già scoperta la perla preziosa e avrei dovuto vendere tutti i miei averi
per comprarla; eppure ero esitante. […]
Così due volontà in me, una vecchia e l’altra nuova, una carnale e l’altra
spirituale, combattevano fra di loro e il loro conflitto lacerava l’anima mia.
Così capivo per mia stessa esperienza quel passo che avevo letto: come la
carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito contrari alla carne. Ed io
provavo gli uni e gli altri; ma ero più forte in quelli che dentro di me
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
approvavo che in quelli da me disapprovati: in questi, difatti, non era ormai il
mio io, perché in gran parte li subivo contro voglia più che agire io stesso
volontariamente. […]
E non avevo più la scusa solita di prima, quando mi pareva che se non
disprezzavo il mondo per servirti, la ragione si era perché non ero sicuro del
possesso della verità.
Ora invece ne avevo certezza. Ma intanto io, ancor tutto legato alla terra,
ricusavo di militare per Te e temevo di esser liberato da ogni impedimento
come si deve temere d’esserne intricato.
Così il peso del mondo, come suol accadere nel sonno, mi opprimeva
dolcemente e i pensieri che avevo per Te erano simili appunto ai tentativi di
coloro che vogliono svegliarsi, ma vinti di nuovo s’immergono nel sonno
profondo. […]
Inutilmente mi compiacevo della tua legge secondo l’uomo interiore, mentre
nella mie membra una legge diversa combatteva contro la legge del mio
spirito e mi conduceva schiavo sotto la legge del peccato che era nelle mie
membra.
La legge del peccato è la violenza dell’abitudine, da cui l’anima è trascinata e
posseduta anche contro suo volere; meritatamente, perché volendo vi si è
lasciata andare. Me infelice! Chi mi avrebbe liberato dal corpo di questa morte
se non la tua grazia, per opera di Gesù Cristo Signore nostro? […]
In quella grande rissa della mia casa interiore, che io avevo scatenato violenta
contro l’anima mia nella stanza del mio cuore, con faccia e anima sconvolte
assalgo Alipio esclamando: “Che cosa ci tocca di vedere? Che accade? Che hai
sentito? Sorgono gli ignoranti e si portano via il cielo e noi con la nostra
scienza, senza senno, ecco dove ci voltoliamo: nella carne e nel sangue! Ci
hanno preceduti; ci vergogniamo di seguirli. E non ci vergogniamo di non
seguirli almeno?”.
Dette press’a poco queste parole, in preda alla mia agitazione mi strappai a
lui; egli in silenzio, attonito mi guardava. Infatti non era quello il mio solito
parlare; meglio delle parole che mi sfuggivano esprimevano il mio stato
d’animo la fronte, le guance, il colore, gli occhi, il tono della voce.
Un giardino faceva parte della nostra casa ospitale, ed era a nostra
disposizione, come tutta la casa, che non era abitata dal nostro ospite padrone
della casa.
La tempesta della mia anima mi aveva portato là, dove nessuno avrebbe
potuto impedire la mischia ardente che avevo impegnato con me, fino a
quell’esito che Tu sapevi ed io no.
Ma frattanto impazzivo per aver senno e morivo per aver vita, conscio
d’essere un grande male, inconsapevole del bene che tra poco sarei diventato.
[…]
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Mi strappai i capelli, mi battei la fronte, conserte le dita, abbracciai le
ginocchia: tutto ciò feci perché volli. Avrei potuto vederlo e non farlo, se non
mi avessero obbedito le membra con la loro agilità. […]
Io quando andavo deliberando di servire ormai il mio Dio Signore, come da
molto avevo disposto, ero io che volevo, ero io che non volevo; io, io ero. Non
volevo totalmente, né totalmente non volevo: quindi ero in contesa con me
stesso e dividevo me da me stesso.
Questa divisione avveniva certo contro mia volontà, e mi dimostrava non già
l’esistenza di un’anima di natura diversa, ma il tormento dell’anima mia. […]
Sgorgarono fiumi di pianto dai miei occhi, sacrificio a Te gradito.
Non con queste parole, ma in questo senso Ti dissi a lungo: “E Tu, o Signore,
fino a quando? Fino a quando, o Signore, sarai adirato? Fino alla fine? Non
ricordare le iniquità nostre antiche”. Sentivo di essere schiavo e mandavo
gemiti strazianti. “Fino a quando, fino a quando, domani e domani? Perché
non ora? Perché non è questa l’ora che segna la fine delle mie turpitudini?”.
Così dicevo e piangevo con tutta l’amara desolazione del mio cuore.
Quand’ecco sento venire dalla casa vicina un canto, come di un bimbo o di
bimba, che diceva e spesso poi ripeteva: “Prendi, leggi; prendi, leggi”. Subito
mutai faccia.
Con tutta attenzione mi posi a riflettere se era costume dei fanciulli in qualche
loro gioco cantare simile ritornello: non ricordavo per nulla d’averlo udito
mai.
Frenato l’impeto delle lacrime, mi rialzai sicuro di interpretare quello come
un comando divino di aprire il libro e di leggere il primo passo che vi avessi
trovato.
Avevo, infatti, sentito raccontare che Antonio dalla lettura del Vangelo, a cui
era per caso sopraggiunto, aveva accolto, come un avviso detto a lui, quel
tratto che si leggeva: “Va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri; e avrai
un tesoro nel cielo. Poi vieni e seguimi”. Per tale oracolo subito si era
convertito a Te.
Pertanto, in fretta tornai al luogo, in cui era seduto Alipio: là avevo deposto il
libro dell’Apostolo, quando m’ero alzato. Lo afferrai, l’apersi, e, in silenzio,
lessi il versetto che per primo mi cadde sott’occhio: “Non nelle gozzoviglie e
nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e nelle impudicizie, non nella
discordia e nell’invidia; ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non
prendetevi cura della carne nella concupiscenza”.
Non volli leggere oltre: non ce n’era bisogno.
Alla fine di questo passo subito, come se fosse infusa nel mio cuore una luce di
certezza, tutte le tenebre del dubbio si dileguarono.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ROTTA SU…
NEOPLATONISMO ED ESISTENZIALISMO CRISTIANI
Agostino di Tagaste è giustamente considerato il maggior esponente della Patristica, cioè
della filosofia cristiana che, nata già nel II secolo d.C., si sviluppa nel periodo tardoimperiale e nell’Alto Medioevo. Agostino, infatti, è il primo pensatore cristiano che
elabora una filosofia cristiana complessiva e sistematica in grado di rivaleggiare a pieno
titolo con le filosofie antiche di matrice politeistica.
La sua impresa filosofica si basa sulla fusione della filosofia neoplatonica, ma più in
generale di tutta la tradizione filosofica platonica, con la precedente filosofia patristica e
con la dottrina religiosa dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento. Tenendo
presente che il neoplatonismo aveva già rifuso al suo interno elementi di quasi tutte le
altre correnti filosofiche antiche (dall’aristotelismo allo scetticismo, allo stoicismo), è
sensato dire che Agostino è il principale artefice di una operazione ideologico-culturale di
portata epocale, di cui Agostino stesso è pienamente consapevole tanto da chiamarla
esplicitamente “furto sacro”: l’appropriazione da parte della chiesa cristiana della
filosofia antica allo scopo di fornire alla propria dottrina religiosa un fondamento
razionale e una dignità culturale e di imporre così la propria egemonia ideologica sulla
classe dominante e sull’élite intellettuale romana. In altre parole, con la sua filosofia
Agostino dà un contributo decisivo alla sconfitta definitiva del politeismo e della filosofia
antica utilizzando contro di loro proprio le armi filosofico-culturali che il neoplatonismo
aveva forgiato e usato per combattere il cristianesimo.
In questa prospettiva, il nodo preliminare da sciogliere per Agostino è quello del
rapporto tra fede, ovvero dottrina cristiana, e ragione, ossia filosofia antica. Conciliando
le diverse posizioni espresse dai precedenti padri della Chiesa, cioè dai primi filosofi
cristiani, Agostino prospetta un rapporto di reciproco sostegno e potenziamento tra fede
e ragione, e dunque si schiera nettamente a favore dell’accoglimento della tradizione
filosofica antica, a partire però dal saldo e indiscutibile presupposto del primato della
fede, cioè della verità rivelata da Dio nella Bibbia cristiana, composta dall’Antico ma
soprattutto dal Nuovo Testamento (i quattro Vangeli, gli Atti degli apostoli, l’Apocalisse).
Posto tale rapporto, ne consegue che l’accoglimento del neoplatonismo da parte di
Agostino è tutt’altro che incondizionato. In parole più esplicite, Agostino non copia
affatto il neoplatonismo, ma al contrario ne filtra rigorosamente le tesi, scartando quelle
incompatibili con la dottrina cristiana (p.e. la dissoluzione del corpo) e modificandone
altre (p.e. la teoria della caduta dell’uomo) in modo da renderle pienamente coerenti con
essa. Da questa reinterpretazione creativa del neoplatonismo, ispirata dalla fede
cristiana, nascono i cardini della filosofia agostiniana, che sono altrettanti cardini della
nascente dottrina della chiesa cristiana: la teoria della verità come illuminazione delle
menti umane da parte di Dio; la teoria della creazione della materia dal nulla da parte di
un Dio assolutamente trascendente e onnipotente; la teoria della personalità e dell’amore
di Dio; la teoria del tempo come prodotto della mente umana; la teoria del male, come
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effetto del peccato originale dell’uomo; la teoria della salvezza attraverso la grazia
divina; la teoria dello Stato come “città dell’uomo” - fondata sulla violenza e destinata a
una fine violenta - e della chiesa come “città di Dio”, fondata sull’amore e destinata
all’eternità; la teoria della storia come processo rettilineo segnato dall’evento centrale e
discriminante dell’incarnazione di Dio come Gesù Cristo; la teoria dell’uomo come
“immagine” di Dio e unità di anima e corpo.
Se, per quanto detto finora, la filosofia di Agostino si configura come un neoplatonismo
cristiano, bisogna però aggiungere che la creatività filosofica di Agostino presenta anche
un’altra faccia, non meno importante e certamente ancor più originale: quella che si può
denominare “esistenzialismo cristiano”, cioè una ricerca filosofica centrata sul mistero
dell’esperienza vissuta unica e irripetibile dell’uomo in quanto singolo individuo e
finalizzata a indicare la fede cristiana come la sola soluzione possibile a tale mistero. Le
confessioni, l’opera più nota di Agostino, è proprio quella che contiene questa seconda e
ancor più originale faccia della sua filosofia. Essa è una sorta di diario interiore,
introspettivo, nel quale Agostino si mette a nudo, si confessa appunto, analizzando
apertamente e impietosamente tutte le sue debolezze, i suoi difetti, le sue cattive azioni,
ma anche cercando e alla fine trovando proprio dentro di sé, proprio nel suo io limitato e
manchevole, la via che conduce alla verità e alla felicità, cioè a Dio.
Da questo punto di vista, la filosofia di Agostino segna una rottura e una svolta rispetto a
tutte le filosofie antiche e inaugura un indirizzo che avrà un seguito limitato in alcuni
successivi filosofi per così dire solisti, di nicchia, quali Montaigne (XVI secolo), Pascal
(XVII secolo), Kierkegaard (XIX secolo), ma che nel Novecento si affermerà come uno dei
più rilevanti e diffusi, la “filosofia dell’esistenza” appunto.
439
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
VITA DI UN CAPITANO
AGOSTINO DI TAGASTE
Agostino di Tagaste rappresenta una rivoluzione nella storia della filosofia innanzitutto a
livello biografico, non solo per le sue multiformi e tormentate vicende esistenziali, ma
anche perché è il primo filosofo a scrivere un’autobiografia filosofica: Le confessioni.
Dunque, nel suo caso disponiamo non solo di testimonianze altrui ma anche di
informazioni biografiche di prima mano e non solo di informazioni parziali, relative ad
alcuni episodi (desunte per esempio da lettere), ma complete, cioè relative a buona parte
della sua lunga vita (Le confessioni furono scritte tra il 396 e il 400, Agostino morì nel
430).
Agostino, infatti, nacque nel 354 a Tagaste (nel territorio dell’attuale Algeria, ma vicino al
confine con l’attuale Tunisia), nella provincia romana della Numidia, figlio di un piccolo
proprietario terriero e funzionario imperiale di religione politeistica e di una cristiana,
entrambi berberi. Dunque, fin dalla nascita in Agostino convivono il vecchio – la religione
politeistica tradizionale connessa alla cultura classica greco-romana – e il nuovo, una
religione monoteistica legata alla cultura mediorientale ebraico-cristiana.
Alla sua nascita regnava Costanzo II, figlio di Costantino il Grande, l’imperatore che aveva
promulgato l’editto di Milano (313), legalizzando il cristianesimo, attribuendo beni e
funzioni giudiziarie ai vescovi e avviando in tal modo la trasformazione della chiesa
cristiana in un’istituzione con funzioni anche politiche. Anche per questo, nel corso del IV
secolo aumentò il numero dei romani della classe media ma anche dell’aristocrazia che si
convertivano al cristianesimo. Agostino aveva sette anni quando cominciò il breve regno di
Giuliano, filosofo neoplatonico, che cercò di restaurare il culto politeistico come religione
di Stato, fallendo e passando così alla storia come “l’Apostata”, cioè il rinnegato, marchio
d’infamia attribuitogli dai cristiani di allora. Così si arrivò, nel 379, quando Agostino era
25enne, al regno di Teodosio, l’imperatore che, emanando l’editto di Tessalonica (380),
proclamò definitivamente il cristianesimo unica religione di Stato e mise fuorilegge il culto
politeistico, dando un nuovo, decisivo impulso all’adesione dei romani alla chiesa cristiana.
Dunque, Agostino nacque e trascorse la sua infanzia e la sua giovinezza nel trentennio di
massima contrapposizione e transizione tra due civiltà, quella antica e quella medioevale,
ovvero di più conflittuale e rapido passaggio dal vecchio al nuovo. E, come vedremo, nella
sua vita Agostino incarnò dentro di sé sia questo scontro di civiltà sia questo cambiamento
epocale, diventandone l’emblema individuale.
La sua formazione scolastica fu quella tradizionale romana, finalizzata a intraprendere la
carriera di funzionario o oratore: la scuola di grammatica latina (Agostino non imparò mai
il greco) a Tagaste, quindi a Madaura (città natale di Apuleio), e poi gli studi di retorica
latina a Cartagine, dove iniziò la sua convivenza con una donna da cui ebbe un figlio nel
373. Ma non ancora 20enne, Agostino si appassionò alla lettura dell’Ortensio (il dialogo in
440
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
cui Cicerone elogia e propaganda lo studio della filosofia), scoprendo in sé il bisogno
filosofico, l’esigenza di rispondere ai grandi interrogativi sul fine ultimo della vita, e quindi
sul suo senso, suscitati dall’esperienza delle tante sofferenze che affliggono l’esistenza.
Per rispondere a questi interrogativi, Agostino aveva a disposizione anche la Bibbia, alla
cui lettura era sollecitato dalla madre Monica, che fin da piccolo gli aveva insegnato i
fondamenti del cristianesimo, ma in questa fase della sua vita la rifiutò, perché la giudicava
di basso livello culturale, a ragione del suo stile rozzo e dell’infantile concezione
antropomorfica di Dio. Così, per nove anni, dal 374 al 383, Agostino soddisfò il suo
bisogno di filosofia seguendo il manicheismo, una religione salvifica di origine persiana,
che sosteneva l’esistenza di due principi divini contrapposti, uno positivo e uno negativo,
di uguale potenza, e che considerava il mondo fisico, cioè la materia, come una produzione
della divinità maligna, spiegando in tal modo la presenza del male nella vita umana e
proponendo la vita spirituale ultraterrena come unica alternativa alla sofferenza. Agli occhi
del ventenne Agostino il manicheismo sembrava offrire una spiegazione razionale della
realtà fisica, e soprattutto della presenza in esso del male, e una giustificazione
all’immoralità della sua vita, in particolare alla sua irresistibile attrazione per i piaceri
fisici, innanzitutto quelli sessuali.
In questi anni Agostino diventò maestro di grammatica a Tagaste e poi di retorica a
Cartagine. Nel 382, ormai convinto di poter insegnare a Roma, vi si trasferì con la sua
convivente e il figlio. Nell’Urbe, Agostino fu subito apprezzato e in breve gli fu proposta
una cattedra di retorica a Milano. Si trattava di un incarico di grande prestigio perché
Milano, a partire da Diocleziano, era diventata la capitale dell’Impero romano d’Occidente.
Sul piano filosofico, nel breve soggiorno romano, Agostino, rendendosi sempre più conto
dei limiti dottrinali del manicheismo, se ne allontanò e abbracciò lo scetticismo, ovvero si
convinse dell’impossibilità umana di conoscere la verità intorno ai grandi problemi della
vita.
Trasferitosi a Milano, dove cominciò subito a insegnare, Agostino fu raggiunto dalla madre
che lo convinse ad abbandonare la sua convivente, in modo da poter combinare un
matrimonio con una cattolica di famiglia ricca. Tuttavia, una volta che la sua compagna
partì per l’Africa, Agostino, in attesa del matrimonio, concordato per due anni dopo a
causa della giovane età della promessa sposa, iniziò una convivenza con un’altra donna.
Ma soprattutto a Milano, incuriosito dalla sua fama di oratore, Agostino andò ad ascoltare
le prediche del vescovo Ambrogio e ne fu sempre più affascinato. Ambrogio era un
esponente dell’antica famiglia aristocratico-senatoriale degli Aurelii, che si era convertita al
cristianesimo già nel III secolo a.C. anticipando la scelta successiva di molte altre famiglie
aristocratiche e in seguito dell’intera aristocrazia romana. Prima di diventare vescovo di
Milano aveva frequentato le migliori scuole di Roma, aveva studiato anche filosofia e in
particolare il neoplatonismo. Dopo la sua nomina imperiale a vescovo, aveva costituito
intorno al lui un circolo religioso-filosofico che si proponeva di conciliare cristianesimo e
neoplatonismo. Questo spiega come mai Agostino fu affascinato dalle prediche di
Ambrogio: esse univano lo stile retorico ciceroniano all’interpretazione allegorica, ossia in
441
SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
chiave filosofico-razionale, della Bibbia, rendendo così letterariamente e razionalmente
dignitosi per Agostino quei testi che in gioventù aveva disprezzato per la loro sciatteria
stilistica e per il semplicismo dei loro contenuti. Agostino che, fino a quel momento, non
avendo imparato il greco, aveva conosciuto la filosofia platonica indirettamente, attraverso
le opere di Cicerone, e forse anche attraverso le traduzioni latine del Timeo e del Fedone, fu
indotto a leggere le nuove traduzioni delle opere di Plotino e del discepolo Porfirio,
intuendo innanzitutto che la concezione di Cristo come Verbo (il Lògos) proposta dal
Vangelo di Giovanni era il fulcro su cui far leva per arrivare a una sintesi tra cristianesimo
e neoplatonismo, ovvero tra fede e ragione.
Questa intuizione fu il catalizzatore della conversione al cristianesimo di Agostino, che
comunque avvenne lentamente tra il 384 e il 386, dal momento che comportò il sofferto
abbandono della sua seconda convivente, la rinuncia al suo incarico di insegnante di
retorica, il rigetto dei suoi progetti di carriera politica e lo scioglimento della sua promessa
di matrimonio, cioè un radicale e totale cambiamento della sua vita, incoraggiato e
confortato dalla madre. La decisione definitiva della conversione avvenne in un paesino
della Brianza dove Agostino si era ritirato con la madre e alcuni amici per fare esperienza
di una vita comunitaria dedita alla ricerca filosofico-religiosa. Agostino nelle Confessioni
racconta che i giorni passavano, lui continuava a meditare, a riflettere, ma finiva sempre
con il rinviare la decisione definitiva, vergognandosi e tormentandosi per la sua
irresolutezza, finché non sentì provenire da una casa vicina una cantilena fanciullesca che
ripeteva “prendi e leggi”. Poiché le parole non corrispondevano a quelle di nessuna
cantilena infantile, Agostino si convinse che fosse la voce divina che lo esortava ad aprire a
caso la Bibbia e a leggere, così aprì la Bibbia e lesse un brano della Lettera ai Romani di
Paolo che esortava ad abbandonare i vizi della carne per abbracciare lo spirito di Cristo.
Agostino sentì che questa esortazione era mirata proprio a lui, dato che ciò che gli
impediva di fare il grande passo era proprio il suo indomabile desiderio di piaceri fisici.
L’emozione fu tale che in quel momento credette davvero e decise definitivamente di
convertirsi. In seguito, Agostino commentò la sua conversione dicendo che il suo problema
era che cercava Dio fuori di sé, cioè esigendo delle prove della sua esistenza nel mondo,
mentre Dio stava dentro di lui, cioè nella sua interiorità, dove alla fine lo aveva trovato.
Così nel 387, a 33 anni, Agostino si fece battezzare da Ambrogio e poi decise di tornare a
Tagaste, nel podere di famiglia, insieme al figlio e alla madre, che però morì poco prima
della partenza. A Tagaste fondò con alcuni amici una comunità cattolica laica e approfondì
la sua conoscenza del neoplatonismo e della Bibbia. In seguito alla morte del figlio nel 391,
decise di fondare un monastero a Ippona – una città dell’allora Numidia, attuale Algeria –
ma la comunità cattolica e il vescovo di Ippona lo convinsero a ordinarsi sacerdote e a
impegnarsi come tale nella diocesi. Nel 396, a 42 anni, Agostino diventò vescovo di Ippona
e da allora, nei suoi restanti 34 anni, diresse la diocesi, combatté i manicheisti e i
movimenti cristiani considerati eretici (donatismo e pelagianesimo), insegnò e scrisse le
sue opere più importanti: Le confessioni (396-400) che, insieme al precedente Soliloqui
(386) e al finale Ritrattazioni, contengono la filosofia esistenzialistica di Agostino; La
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Trinità (399-419), La città di Dio (413-426), La grazia e il libero arbitrio (427), che sono
invece i suoi più importanti trattati di contenuto filosofico-teologico.
In particolare, la composizione di La città di Dio è strettamente legata agli eventi storici
dell’inizio del V secolo. Nel 405-406, una nuova ondata di popoli germanici invase l’impero
romano d’Occidente. Nel 410, uno di questi popoli, i Visigoti, al comando di Alarico,
espugnò e saccheggiò Roma. Per i cittadini dell’impero fu un evento epocale: Roma,
considerata città invincibile e quindi eterna, era stata conquistata e distrutta da un’orda di
barbari. Le emozioni che il primo sacco di Roma suscitò negli uomini dell’epoca sono
paragonabili a quelle suscitate in noi uomini contemporanei dalla distruzione delle Twin
Towers di New York nel 2001. L’evento spinse Agostino a scrivere La città di Dio, allo
scopo di rassicurare i suoi contemporanei indicando nella Chiesa l’istituzione capace di
sostituire lo Stato romano.
Negli anni successivi, i Vandali, un altro popolo germanico, guidati da Genserico, dalla
penisola iberica giunsero nel 429 nell’Africa romana e nel 430 posero l’assedio a Ippona.
Durante l’assedio vandalo, Agostino morì.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 1
AGOSTINO: LA VERITA’ E’ ILLUMINAZIONE DIVINA
Dio stesso, che cerchiamo, ci aiuterà, spero, perché il nostro sforzo non sia
infruttuoso e perché comprendiamo come lo scrittore santo abbia potuto dire
nel Salmo: Si rallegri il cuore di coloro che cercano Dio: cercate Dio e siate
forti; cercate sempre il suo volto. Sembra, infatti, che ciò che si cerca sempre,
non si trovi mai e come allora si rallegrerà e non si rattristerà invece il cuore
di coloro che cercano, se non avranno potuto trovare ciò che cercano? Perché
il Salmista non dice: “Si rallegri il cuore di coloro che trovano”, ma: di coloro
che cercano il Signore? E che tuttavia Dio Signore si possa trovare, quando lo
si cerca, lo testimonia il profeta Isaia, quando afferma: Cercate il Signore e
appena lo troverete, invocatelo; e quando si sarà avvicinato a voi, l’empio
abbandoni le sue vie e l’iniquo i suoi pensieri. Se dunque, cercandolo, si può
trovare Dio, perché è scritto: Cercate sempre il suo volto? Sarà forse che,
anche una volta che lo si è trovato, bisogna cercarlo ancora? È così infatti che
bisogna cercare le cose incomprensibili perché non ritenga di aver trovato
nulla colui che abbia potuto trovare quanto è incomprensibile ciò che cercava.
Perché allora cerca, se comprende che è incomprensibile ciò che cerca, se non
perché non deve desistere, fino a quando progredisce nella ricerca
dell’incomprensibile e diventa sempre migliore cercando un bene così grande,
che si cerca per trovarlo e lo si trova per cercarlo? Perché lo si cerca per
trovarlo con maggior dolcezza, lo si trova per cercarlo con maggiore ardore. È
in questo senso che si può intendere l’affermazione che l’Ecclesiastico pone in
bocca della Sapienza: Coloro che mi mangiano avranno ancora fame e coloro
che mi bevono avranno ancora sete. Mangiano infatti e bevono, perché
trovano, e, poiché hanno fame e sete, cercano ancora. La fede cerca,
l’intelligenza trova; per questo il Profeta dice: Se non crederete, non
comprenderete. E d’altra parte l’intelligenza cerca ancora Colui che ha
trovato; perché Dio guarda sui figli dell’uomo, come si canta nel Salmo
ispirato, per vedere se c’è chi ha intelligenza, chi cerca Dio. Dunque per
questo l’uomo deve essere intelligente, per cercare Dio.
Agostino, La Trinità, 2-2
AGOSTINO: Dunque, per iniziare dalle cose più evidenti, ti chiedo anzitutto se
tu stesso esisti. Temi forse di ingannarti in questo dialogo? Ma se tu non esistessi
non potresti nemmeno ingannarti.
EVODIO: Vai pure avanti.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
AGOSTINO: Dunque poiché ti è evidente che esisti e non lo sarebbe se non
vivessi, è anche evidente che vivi. E comprendi che queste due cose sono
assolutamente vere?
EVODIO: Lo capisco perfettamente.
AGOSTINO: Dunque ti è chiara anche questa terza cosa: che tu comprendi.
EVODIO: Sì, mi è chiaro.
Agostino, Il libero arbitrio, libro II, 3-7
Né si può mettere in dubbio che la natura immutabile, che è al di sopra
dell’anima razionale, sia Dio e che dove si trovano la prima vita e la prima
essenza là si trova anche la prima sapienza. Questa infatti è la verità immutabile
che, a buon diritto, è detta legge di tutte le arti e arte dell'artefice onnipotente.
Quindi l'anima, in quanto si rende conto che non giudica della bellezza e dei
movimenti dei corpi in base a se stessa, bisogna che riconosca che, se la propria
natura è superiore a quella di ciò che giudica, invece è inferiore a quella in base
alla quale giudica e della quale in nessun modo può giudicare. Io posso dire per
quale motivo vi deve essere corrispondenza simmetrica tra le parti simili di
ciascun corpo, perché mi compiaccio di quella somma proporzione che di certo
non scorgo con gli occhi del corpo ma con quelli della mente. Pertanto giudico
ciò che scorgo con gli occhi tanto migliore quanto più, per sua stessa natura, è
più vicino a ciò che colgo con l’anima. Perché poi le cose stiano così nessuno lo
può dire, come pure nessuno potrebbe in modo rigoroso affermare che devono
essere così, quasi che potessero essere diversamente.
Agostino, La vera religione, 31-57
Riconosci quindi in cosa consista la suprema armonia: non uscire fuori di te,
ritorna in te stesso: la verità abita nell'uomo interiore e, se troverai che la tua
natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando trascendi
te stesso, che trascendi l’anima razionale: tendi, pertanto, là dove si accende il
lume stesso della ragione. A che cosa perviene infatti chi sa ben usare la
ragione, se non alla verità? Non è la verità che perviene a se stessa con il
ragionamento, ma è essa che cercano quanti usano la ragione. Vedi in ciò
un’armonia insuperabile e fa’ in modo di essere in accordo con essa. Confessa
di non essere tu ciò che è la verità, poiché essa non cerca se stessa; tu invece
sei giunto ad essa non già passando da un luogo all’altro, ma cercandola con la
disposizione della mente, in modo che l’uomo interiore potesse congiungersi
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
con ciò che abita in lui non nel basso piacere della carne, ma in quello
supremo dello spirito.
Ma se non ti è chiaro ciò che dico e dubiti che sia vero, guarda almeno se non
dubiti di dubitarne; e, se sei certo di dubitare, cerca il motivo per cui sei certo.
In questo caso senz’altro non ti si presenterà la luce di questo sole, ma la luce
vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo. Essa non si può
percepire né con questi occhi né con quelli con cui sono pensate le
rappresentazioni che gli occhi stessi imprimono nell’anima, ma con quelli con
cui alle stesse rappresentazioni diciamo: “Non siete voi ciò che io cerco, e non
siete neppure il principio in base al quale vi dispongo in ordine; ciò che trovo
di brutto in voi lo disapprovo, mentre approvo ciò che trovo di bello; ma,
poiché il principio per cui disapprovo e approvo è più bello, lo approvo di più
e lo antepongo non solo a voi, ma anche a tutti i corpi dai quali vi ho attinte”.
Quindi questa regola che tu constati formulala così: chiunque comprende che
sta dubitando, comprende il vero e di ciò che comprende è certo; dunque è
certo del vero. Ciò vuol dire che chiunque dubita dell'esistenza della verità, ha
in se stesso il vero, per cui non può dubitarne. Ma il vero è tale unicamente
per la verità; perciò non deve dubitare della verità chi ha potuto dubitare per
qualche motivo. Queste cose appaiono manifeste dove risplende la luce che
non si estende né nello spazio né nel tempo e che non può essere
rappresentata né in forma spaziale né in forma temporale. Tali cose possono
corrompersi da qualche parte? No, benché perisca o diventi vecchio tra gli
esseri carnali inferiori chiunque possiede l’uso di ragione. In realtà, il
ragionamento non crea tali verità, ma le scopre. Esse perciò sussistono in sé
prima ancora che siano scoperte e, una volta scoperte, ci rinnovano.
Agostino, La vera religione, 39-73
Il presupposto della filosofia di Agostino è la fede in Dio in quanto verità assoluta. Come
tale Dio si rivela attraverso Bibbia. La fede in Dio, dunque, per Agostino consiste nella
totale accettazione della rivelazione, ossia nell’assunzione dell’Antico e del Nuovo
Testamento come fonti indubitabili e inoppugnabili di verità. Ma allora, se la verità divina
è già stata rivelata all’uomo nella Bibbia, e l’uomo deve sottomettersi ad essa, che funzione,
e dunque che valore, può avere la ragione, ossia la ricerca filosofica e più in generale la
conoscenza umana?
Questo è il problema di partenza della filosofia agostiniana, e più in generale di ogni
filosofia religiosa, ossia basata sulla fede in una rivelazione divina depositata in una sacra
scrittura. Un problema insidioso, perché, almeno in prima battuta, la verità razionale, cioè
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
cercata e scoperta dall’uomo, sembra essere incompatibile con la verità divina, cioè esterna
all’uomo e da lui passivamente ricevuta.
Agostino affronta questo problema e lo risolve trasformando innanzitutto la difficoltà in un
opportunità. Egli sostiene, infatti, che senza la fede in una verità originaria ed eterna la
ragione umana è priva di un criterio di orientamento, si degrada a curiositas, cioè si
disperde in una molteplicità di nozioni futili, e in ultima analisi non riesce ad approdare ad
alcun risultato, cioè non riesce a conseguire alcuna salda verità. In questo modo, la ragione
non può che perdere fiducia in se stessa e abbandonarsi al dubbio, cioè cadere
nell’abbraccio soffocante dello scetticismo.
Secondo Agostino, la fede è l’unico rimedio a tale deriva rinunciataria della ragione, in
quanto innanzitutto offre alla ragione la certezza nell’esistenza della verità e, in secondo
luogo, le indica dove trovarla: in Dio e nel cammino che conduce a lui. Usando una
metafora, si potrebbe dire che per Agostino la fede è la bussola del viaggio conoscitivo che
altrimenti non saprebbe che direzione seguire.
D’altra parte, sostiene Agostino, la fede non rende affatto superflua la ragione e anzi ne ha
bisogno in quanto indispensabile complemento. Anche la fede, infatti, è perenne ricerca di
Dio, ovvero è un processo acquisitivo interminabile, e la ragione le è indispensabile per
trovare Dio, ossia per poter approfondirsi e rafforzarsi fino a raggiungere la sua meta
ultima: la salvezza eterna. Ma in che modo la ragione può favorire la fede?
Aiutandoci, risponde Agostino, a comprendere la verità rivelata. Infatti, la ricezione della
parola di Dio da parte dell’uomo non può essere soltanto passiva, ma deve implicare
un’attività interpretativa, ovvero deve essere mediata dalla ragione umana. In altri termini,
la ragione ha il compito di decifrare l’autentico messaggio contenuto nel testo biblico
poiché la verità divina, data la sua complessità, non è contenuta immediatamente nella
lettera di alcuna singola parte della Bibbia, ma è presente mediatamente nello spirito
dell’intero testo biblico.
In questo senso, Agostino prospetta un circolo virtuoso tra fede e ragione, che è stato poi
sintetizzato nella formula esortativa “credi per conoscere e conosci per credere” (crede ut
intelligas, intellige ut credas). In termini più attuali, Agostino sostiene un rapporto di
feedback, di retroazione, cioè di continuo rafforzamento reciproco, tra fede e ragione: la
fede orienta e sprona la ragione, la ragione chiarisce e potenzia la fede che in tal modo
orienta ancora più precisamente e sprona con ancor maggior vigore la ragione, e così via. Si
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
tratta, afferma Agostino, di un circolo perenne, destinato a durante quanto la vita di ogni
uomo, perché Dio è infinito e dunque è infinita la verità, ovvero la comprensione della
parola biblica. Ogni volta che la ragione, indirizzata e spronata dalla fede, trova Dio, questo
risultato è a sua volta la base per cominciare una nuova più vasta e approfondita ricerca
dell’inesauribile verità divina. Insomma, grazie al rapporto circolare fede/ragione l’uomo,
secondo Agostino, acquisisce sempre più conoscenza ma al tempo stesso non la esaurisce
mai: la sua identità consiste proprio nell’incremento continuo della propria conoscenza del
mondo in quanto strumento per intensificare il più possibile la propria fede in Dio.
La fecondità conoscitiva del circolo fede/ragione è posta da Agostino alla prova della
questione preliminare della filosofia, ovvero la possibilità stessa che l’uomo possieda una
ragione, cioè la sua capacità di conoscere la verità. Allo scetticismo, che aveva confutato
tale capacità, Agostino ribatte con un fuoco di fila di argomentazioni controconfutative, che
possono essere così sintetizzate:
1. L’atto mentale stesso del dubitare presuppone l’esistenza e la comprensione della
verità, in quanto dubitare di qualcosa significa giudicare che non è vera, ma non
potremmo giudicare che qualcosa non è vero se non possedessimo il criterio della
verità.
2. Si fallor, sum, cioè se mi inganno, esisto: anche qualora il mio pensiero si
ingannasse, io possiedo una verità certa, cioè l’indubitabile esistenza del pensiero,
in quanto l’errore del pensiero presuppone la sua esistenza, cioè l’attività pensante.
3. Non possiamo dubitare di vivere, in quanto il dubitare presuppone l’esistenza del
dubitante; perfino se sognassimo sempre, anche da svegli, sarebbe certo che
viviamo, perché non si può sognare senza vivere; dunque il fatto che viviamo è una
verità indubitabile e il fatto che sappiamo di vivere attesta che la ragione umana è in
grado di conoscere la verità.
Così argomentato che la ragione umana è in grado di conoscere la verità, Agostino spiega
come sia possibile che l’uomo la conosca e delinea il metodo conoscitivo con cui l’uomo
può effettivamente giungere ad essa. Agostino comincia col rilevare che la fonte primaria
della nostra conoscenza, cioè la sensazione, non ha una natura fisica ma mentale. Non è il
corpo che sente, ma è la mente che sente utilizzando il corpo come un mezzo. Infatti,
innanzitutto è solo grazie all’attenzione (intentio), cioè a un’operazione mentale, che
l’uomo può conoscere la modificazione prodotta sui propri organi di senso dalle cose
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
fisiche (tant’è vero che quando siamo distratti non sentiamo). In secondo luogo, in base
allo stimolo di questa modificazione, la mente trae da se stessa la rappresentazione delle
cose fisiche. In altre parole, è la mente che produce le effettive sensazioni.
Oltretutto, continua Agostino, la conoscenza sensibile è solo il punto di partenza. Per
giungere a una conoscenza completa, e dunque vera, occorre la conoscenza razionale la
quale innanzitutto giudica le sensazioni, cioè ne stabilisce l’effettivo contenuto conoscitivo
(p.e., se vediamo un remo spezzato in acqua la ragione decreta che è un’apparenza ottica),
e in secondo luogo ordina i contenuti delle sensazioni classificandoli (p.e., “questo è un
pesce”) e riconducendoli a regolarità generali (p.e., “il fuoco brucia il legno”).
I criteri in base ai quali la ragione umana giudica e ordina le sensazioni, secondo Agostino,
non derivano dalle sensazioni stesse, cioè dall’esperienza sensibile, ma sono innati nella
mente. Infatti, argomenta Agostino, le sensazioni sono singolari e mutevoli, mentre i criteri
della conoscenza razionale sono universali e immutabili. Per esempio, chiarisce Agostino,
se giudichiamo un viso simmetrico, lo possiamo fare perché cogliamo un rapporto unitario
tra le parti e il tutto, e al contempo riconduciamo alcune parti all’uguaglianza e altre alla
differenza. Ma appunto unità, uguaglianza, differenza, e quindi simmetria, sono criteri
mentali universali e immutabili, non derivabili dall’esperienza, dal momento che
l’esperienza è sempre singolare, molteplice e mutevole.
Ma da dove derivano, allora, i criteri razionali della mente? Agostino argomenta che essi
non possono essere un prodotto della stessa mente umana, dal momento che il pensiero
umano è mutevole e oltretutto fallibile, e conclude che essi non possono che essere
l’impronta nella mente umana di enti puramente razionali esterni ad essa, cioè delle idee.
Ma come si spiega l’esistenza delle idee? Ovvero: cosa sono effettivamente le idee? La
risposta, per Agostino, è semplice: le idee altro non sono che concetti di Dio, cioè i
contenuti della sua mente.
Dunque, la mente umana può giungere a una conoscenza vera perché Dio, cioè la Verità
assoluta e totale, le ha infuso i criteri razionali necessari a ricercare e trovare la verità,
fermo restando che, essendo finita, la mente umana potrà conoscere solo parzialmente la
verità. In questo senso, Agostino afferma che la mente umana può conoscere perché Dio la
illumina. Dio, infatti, in quanto Verità, è come la luce che rende possibile la visione fisica
degli oggetti sensibili. Fuor di metafora, la mente umana può cogliere e applicare i criteri
razionali indispensabili per conoscere solo grazie al fatto che è correlata e in
comunicazione con Dio e dunque è pervasa dalla razionalità divina.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In conclusione, la ricerca conoscitiva per Agostino parte e si svolge principalmente non
fuori della mente, ma all’interno della mente, non cercando nel mondo fisico, ma dentro di
sé, nella propria interiorità, nella propria anima razionale.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
TAPPA 2
AGOSTINO: LA CREAZIONE DEL MONDO E’ UN ATTO D’AMORE DI DIO
Il potere del vero Dio è tale che non può rimanere nascosto totalmente alla
creatura razionale, una volta che abbia cominciato a far uso della ragione…
tutta la specie umana confessa che Dio è creatore del mondo.
Tralasciando anche la testimonianza dei profeti, il mondo stesso, con la sua
ordinatissima verietà e mutabilità, e con la bellezza di tutti gli oggetti visibili,
proclama tacitamente di essere stato fatto, e fatto da Dio ineffabilmente e
invisibilmente grande, ineffabilmente e invisibilmente bello.
Agostino, La città di Dio
Tu non ami certamente che il bene, perché buona è la terra con le alte
montagne, le modulate colline, le piane campagne; buono il podere ameno e
fertile, buona è la casa ampia e luminosa, dalle stanze disposte con
proporzioni armoniose, buoni i corpi animali dotati di vita; buona l’aria
temperata e salubre; buono il cibo saporito e sano; buona la salute senza
sofferenze né fatiche; buono il viso dell’uomo, armonioso, illuminato da un
soave sorriso e vivi colori; buona l’anima dell’amico per la dolcezza di
condividere gli stessi sentimenti e la fedeltà dell’amicizia; buono l’uomo
giusto e buone le ricchezze, che ci aiutano a trarci d’impaccio; buono il cielo
con il sole, la lune e le stelle; buoni gli Angeli per la loro santa obbedienza;
buona la parola che istruisce in modo piacevole e impressiona in modo
conveniente chi l’ascolta; buono il poema armonioso per il suo ritmo e
maestoso per le sue sentenze. Che altro aggiungere? Perché proseguire ancora
nell’enumerazione’ Questo è buono, quello è buono. Sopprimi il questo e il
quello e contempla il bene stesso, se puoi; allora vedrai Dio, che non riceve la
sua bontà da un altro bene, ma è il Bene di ogni bene. Infatti fra tutti questi
beni noi non potremmo dire che uno è migliore dell’altro, se non fosse
impressa in noi la nozione del bene stesso. E’così che noi dobbiamo amare
Dio. Non come questo o quel bene, ma come il Bene stesso.
Agostino, La Trinità
5. II mondo è il più grande degli esseri visibili, Dio il più grande degli esseri
invisibili. Noi percepiamo l'esistenza del mondo, l'esistenza di Dio la
crediamo. E crediamo che Dio abbia creato il mondo perché nessuno ne può
dare la certezza che ne dà Dio stesso. Dove abbiamo udito la sua voce? In
nessun luogo frattanto così bene come nelle Scritture sante, in cui ha detto un
suo Profeta: Nel principio Dio creò il cielo e la terra. Questo Profeta non era
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
presente quando Dio creò il cielo e la terra, ma v’era la sapienza di Dio,
mediante la quale furono fatte tutte le cose. Essa si svela nelle anime sante,
forma gli amici di Dio e i Profeti, fa conoscere nel silenzio le opere di lui.
Parlano loro anche gli angeli di Dio che vedono sempre la faccia del Padre e
annunziano il suo volere a chi è dovuto. Uno di essi era il Profeta che ha detto
e scritto: In principio Dio creò il cielo e la terra. Ed egli è teste tanto idoneo a
farci credere in Dio appunto perché mediante l'ispirazione divina, con cui
conobbe queste verità rivelategli, ha previsto anche tanto tempo prima che si
sarebbe avuta la nostra fede.
21. Egli dunque ha intuito che è bene ciò che ha fatto dove ha intuito che è
bene il farlo. E non ha duplicato o aumentato in qualche aspetto la propria
scienza perché ha intuito l'opera dopo che era stata fatta, come se avesse una
scienza minore prima di fare ciò che intuiva. Egli non produrrebbe le cose
nella loro interezza mediante una scienza nella sua interezza, se non perché
ad essa non viene aggiunto nulla da parte delle opere prodotte. Pertanto se ci
si dovesse far sapere soltanto chi ha fatto la luce, basterebbe dire: "Dio ha
fatto la luce"; se invece non soltanto chi l'ha prodotta, ma per mezzo di che
cosa l'ha prodotta, basterebbe questa frase: E Dio ha detto: Sia fatta la luce e
la luce fu fatta. Apprendiamo così non soltanto che Dio l'ha prodotta ma che
l'ha prodotta per mezzo del Verbo. Siccome era opportuno che
principalmente tre concetti ci fossero comunicati sul creato, chi l'ha creato,
per mezzo di che cosa l'ha creato, perché l'ha creato, è scritto: Dio ha detto:
Sia fatta la luce e la luce fu fatta. E Dio vide che la luce era buona. Se dunque
chiediamo chi l'ha prodotta, si risponde: Dio; se per mezzo di che cosa: Ha
detto: Sia fatta, ed è stata fatta; se perché è stata fatta: Perché è buona. E non
vi è autore più eccellente di Dio, idea più efficiente del Verbo, ragione più
buona che un essere buono fosse creato da un Dio buono.
Agostino, La città di Dio, Libro XI
2. 4. Supponiamo però che non dicano: "Come mai Dio decise all'improvviso
di creare il cielo e la terra?", ma tolgano dalla frase l'avverbio "all'improvviso"
e dicano soltanto: "Perché Dio decise di creare il cielo e la terra?". Noi infatti
non diciamo che questo mondo è coevo a Dio, poiché l'eternità di questo
mondo non è la medesima di quella di Dio; certamente Dio fece il mondo e
così, con la stessa creatura che Dio fece, i tempi iniziarono ad essere, e perciò
sono detti tempi eterni. I tempi tuttavia non sono eterni com'è eterno Dio, per
il fatto che Dio esiste prima della successione dei tempi essendo lui l'artefice
dei tempi; allo stesso modo che sono buone tutte le cose create da Dio, ma non
sono buone com'è buono Dio poiché è stato lui a crearle, mentre quelle sono
state create. Dio però non le ha generate dal proprio essere affinché fossero
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
ciò che è lui, ma le ha create dal nulla affinché non fossero uguali né a lui, dal
quale sono state create, né al proprio Figlio per mezzo del quale sono state
create, poiché ciò è giusto. […]
5. 9. […] Quanto invece all'affermazione della Scrittura: Nel principio Dio
creò il cielo e la terra, con l'espressione "cielo e terra" viene indicato tutto
l'universo creato e ordinato da Dio. Queste realtà sono denotate con un
termine proprio di quelle visibili a causa della debolezza dei piccoli, che sono
meno capaci di comprendere le realtà invisibili. Da principio fu dunque creata
la materia confusa e disordinata, affinché a partire da essa fossero fatte le
cose ora distinte e formate; credo che ciò i Greci lo chiamino chàos. Così
infatti anche in un altro passo della Scrittura, tra le lodi di Dio, leggiamo la
frase: Tu che hai creato il mondo da una materia senza forma, o, come hanno
altri manoscritti: da una materia invisibile.
6. 10. Ecco perché è assolutamente conforme alla ragione credere che Dio
creò tutto dal nulla poiché, anche se tutte le cose con le loro forme particolari
furono create a partire da questa materia, tuttavia questa stessa materia fu
creata dal nulla assoluto. Noi infatti non dobbiamo assomigliare a siffatti
individui i quali non credono che Dio onnipotente potesse creare qualcosa dal
nulla in quanto vedono che gli artefici e gli operai di qualsiasi specie non
possono costruire alcun oggetto se non hanno una materia con cui foggiare o
fabbricare qualcosa. In realtà, perché possa compiere la sua opera, al
carpentiere occorre il legname, all'argentiere l'argento, all'orefice l'oro, al
vasaio l'argilla. Se infatti essi non si servono della materia con cui fanno un
oggetto, non possono far nulla, in quanto non sono essi a creare la materia.
Non è certamente il carpentiere che crea il legno e così dicasi di tutti gli altri
di simil genere. Dio onnipotente, al contrario, non aveva bisogno di servirsi
d'alcuna cosa non creata da lui per compiere ciò che voleva. Poiché, se per le
cose che voleva creare gli fosse servita qualcosa ch'egli non aveva creato, non
era onnipotente; ma credere una simile cosa è un sacrilegio.
Agostino, La Genesi contro i manichei, Libro I
Secondo Agostino, Dio, oltre a essere Verità assoluta, è anche il creatore unico del mondo,
cioè del cosmo fisico. La teoria agostiniana della creazione presuppone dunque la tesi
dell’esistenza di Dio. Questa tesi, a sua volta, scaturisce, come si è visto, dalla fede nella
rivelazione che Dio fa di sé attraverso la Bibbia. Tuttavia, la ragione è in grado di
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
corroborare questa primaria verità di fede. Per questo, Agostino propone tre
argomentazioni razionali a favore dell’esistenza di Dio:
1. La prima – chiamata in seguito “consensus gentium” (condivisione universale) – si
basa sulla premessa che tutti gli uomini, in tutti i tempi e in ogni luogo, hanno avuto
e hanno l’idea che il mondo sia stato prodotto da Dio. Da questa premessa, Agostino
inferisce che Dio esiste necessariamente, sottintendendo che un accordo così
generale e perenne tra gli uomini (che per il resto hanno opinioni diversissime e
variabilissime) si spiega soltanto grazie alla potenza rivelativa (la “luce”) di Dio.
2. La seconda argomentazione fa leva sulla constatazione che il cosmo ha una
dimensione enorme, contiene miriadi di enti tra loro diversissimi e oltretutto in
continuo mutamento, eppure è incredibilmente bello, ovvero è armonicamente
ordinato. Agostino ne inferisce che il cosmo debba essere stato generato da Dio,
sottintendendo che solo un essere intelligente e onnipotente può generare un cosmo
con quelle caratteristiche.
3. La terza argomentazione si impernia sul rinvenimento nel mondo di diversi tipi e
gradi di bene, cioè di cose e proprietà buone per l’uomo: p.e. il calore del sole,
piuttosto che l’ombra degli alberi o il latte fornito dalle mucche. Agostino ne
inferisce che deve esistere un bene assoluto, ossia Dio, perché altrimenti ci
mancherebbe il metro di giudizio per poter stabilire che un bene terreno è superiore
o inferiore a un altro.
Val la pena di notare, che Agostino elabora le tre argomentazioni dell’esistenza di Dio en
passant, “di sfuggita”, ossia non le considera centrali per la sua riflessione filosofica e le
enuncia in modo sintetico, quasi solo abbozzato. E non potrebbe essere altrimenti, visto
che per lui l’esistenza di Dio è, più che qualsiasi altra tesi, una verità di fede raggiungibile
attraverso una ricerca individuale dentro di sé, cioè scandagliando la propria esperienza di
vita.
Al contrario, Agostino dedica molto impegno all’elaborazione della sua teoria della
creazione, che indubbiamente costituisce una svolta nel pensiero filosofico occidentale, a
maggior ragione perché avviene subito dopo, e sulla base, di un’altra grande svolta, quella
di Plotino, basata appunto sull’invenzione del nuovo concetto della “creazione”. Com’è
possibile, allora, che la teoria di Agostino rappresenti un’ulteriore svolta rispetto a quella
di Plotino?
Perché la creazione di Dio, secondo Agostino, avviene dal nulla, a partire semplicemente
dalla sua “parola” (“E Dio disse…”), ovvero dal suo pensiero. In altri termini, Dio, in
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quanto pura mente razionale, evoca il mondo, e in primis la materia che lo costituisce,
senza usare niente, ovvero non si serve né di una sostanza indipendente da lui (come la
chòra-chàos del demiurgo platonico) né della sua stessa sostanza puramente razionale
(come l’Uno di Plotino). In seguito, questa tesi agostiniana verrà canonizzata nella
definizione di creazione come produzione del mondo da parte di Dio “ex nihilo sui et
subiecti”, cioè da niente di se stesso e da niente di qualcosa che gli sia inferiore, ossia che
sia comunque altro da lui.
Le implicazioni di questa ridefinizione del concetto di creazione sono molteplici e
dirompenti, e ci fanno comprendere ancora di più e ancor meglio la portata della svolta di
Agostino (e in generale del pensiero filosofico cristiano). La teoria agostiniana della
creazione:
 da un lato, assolutizza la trascendenza divina: in quanto produce il mondo ex nihilo
sui – cioè in quanto il mondo non è il prodotto di una trasformazione della sostanza
divina, e dunque non ha alcuna commistione con Dio, ossia è totalmente altro da lui
–, Dio non è solo infinitamente superiore al mondo, ma è assolutamente diverso dal
mondo, perché il mondo è fatto di qualcosa (la materia spaziotemporale) che è
assolutamente differente da ciò di cui è fatto Dio (pura razionalità senza tempo né
spazialità);
 dall’altro lato, massimizza l’onnipotenza di Dio: in quanto produce il mondo ex
nihilo subiecti – cioè in quanto il mondo non deriva da una materia autonoma ma
da una materia prodotta esclusivamente dal pensiero divino – Dio ha un dominio
totale sul mondo fisico, la sua potenza è infinita, senza limiti.
Per entrambi questi aspetti, Agostino enfatizza la consapevolezza e la volontarietà della
creazione. Proprio perché Dio è assolutamente trascendente e infinitamente potente, la
creazione del mondo è più che mai una decisione cosciente e intenzionale. In altre parole,
Dio, essendo onnipotente, avrebbe anche potuto non creare il mondo. Se lo ha creato, ha
voluto crearlo, e se ha voluto crearlo deve aver avuto un motivo razionale. Ma, proprio
perché le cose stanno così, Agostino non può non porsi una domanda: perché Dio ha creato
il mondo? Qual è la ragione che ha motivato la sua decisione di creare? La risposta è
perché Dio è amore. In altre parole, Dio ha deciso di creare il mondo per amore delle
creature, cioè di tutti gli esseri che ha creato; la creazione è dunque per Agostino un atto
d’amore. Ciò significa che Dio vuole e fa il bene delle creature, ma non per un freddo e
distaccato ragionamento, o per semplice compassione, ma per il più intenso dei
sentimenti, l’amore appunto.
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
In quanto è cosciente, vuole e ama, Dio non è un principio impersonale, o una legge, ma è
un essere personale. In altre parole, Dio è una persona come l’uomo, salvo che l’uomo è
una personalità finita, Dio una personalità infinita. Un aspetto dell’infinitezza della
pesonalità divina è, per Agostino, il suo carattere trinitario: Dio è, a un tempo, tre persone
distinte. In questo senso, la teoria dell’amore di Agostino è strettamente legata alla sua
interpretazione filosofica del dogma della trinità divina. Per Agostino, infatti, tale dogma
significa che Dio è una sola essenza (o sostanza) distinta in tre persone: il padre, ossia
l’essere; il figlio, ossia il conoscere; lo spirito santo, cioè l’amare.
Insomma, Dio è l’unità di tre distinte facoltà: l’esistenza, l’intelligenza e l’amore. Essendo
Dio infinito, queste facoltà divine, a differenza di quelle umane, sono infinite. La creazione
si spiega solo considerando tutte e tre: Dio amando infinitamente il mondo decide di
crearlo finalizzandolo al massimo bene; possedendo infinitamente l’essere trae la materia
dal nulla; essendo infinitamente intelligente le impone l’ordine che le permetta di
raggiungere il più alto livello di bene possibile.
Ma com’è possibile che Dio sia al tempo stesso una persona e tre persone? Agostino lo
spiega sostenendo che le tre personalità divine non appartengono all’essenza di Dio, che
dunque rimane assolutamente unica, ma alla sua relazionalità, cioè al fatto che l’essenza
unica di Dio possiede l’attributo della relazione: Dio è sia “padre di” sia “figlio di” e sia
“amore reciproco di”, e ognuna di queste relazioni rimanda alle altre due, senza le quali
non potrebbe sussistere.
Ma, ciò chiarito, Agostino afferma anche che la trinità divina resta un mistero, cioè una
verità di ordine superiore, che l’uomo può solo avvicinare ma mai comprendere in modo
esaustivo. In questo senso, Agostino, pur dicendo che Dio è una persona in modo analogo
all’individuo umano, sottolinea che Dio è una persona infinita, a differenza dell’uomo che è
una persona finita, e che dunque l’uomo può comprendere Dio conoscendo ciò che Dio non
è, più che ciò che Dio è. In parole più semplici, l’uomo può conoscere solo parzialmente
Dio, l’infinita essenza divina è imperscrutabile. Per spiegarlo Agostino usa una icastica
similitudine: per l’uomo voler conoscere Dio nella sua totalità sarebbe come cercare di
travasare il mare in una buca scavata nella spiaggia.
Proprio perché ama infinitamente il creato e quindi ne desidera il massimo bene, Dio,
secondo Agostino, non crea il mondo già compiutamente realizzato, ma gli concede una
certa autonomia, cioè lo crea in modo tale che esso raggiunga la sua perfezione attraverso
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
un graduale processo di sviluppo e miglioramento. In parole più semplici, Dio, afferma
Agostino, ha creato i semi razionali di tutte le cose, cioè i loro programmi di svolgimento,
facendo sì che da tali semi tutte le cose si formino e si sviluppino in molteplici e
diversificati modi e in vari e differenti tempi.
Ma, ci si potrebbe chiedere in conclusione, qual è il fondamento della teoria agostiniana
della creazione? Ovvero quali sono gli argomenti che attestano che Dio ha prodotto il
mondo dal nulla di sé e di qualsiasi altra sostanza indipendente da lui, con tutto quello che
ne consegue e che abbiamo analizzato?La risposta di Agostino è semplice e immediata: la
Bibbia, in particolare il suo primo libro, il Genesi. Questa risposta ribadisce ed esemplifica
il rapporto religione/filosofia teorizzato e praticato da Agostino. La filosofia, nella
fattispecie la teoria della creazione, consiste nell’interpretazione e nella chiarificazione
razionale della rivelazione divina presente nella Bibbia, che dunque ne rappresenta il
fondamento assolutamente certo e incontrovertibile.
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TAPPA 3
AGOSTINO: IL TEMPO E’ UNA COSTRUZIONE DELLA MENTE UMANA
14. 17. Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché
il tempo stesso l'hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te, poiché tu sei
stabile, mentre un tempo che fosse stabile non sarebbe tempo. Cos'è il tempo?
Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene
anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale
parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni?
Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando
ne udiamo parlare altri. Cos'è dunque il tempo? Se nessuno m'interroga, lo
so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so. Questo però posso dire
con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo
passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla
che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi,
il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il
secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza
tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il
presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire
anche di esso che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi
non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto
tende a non esistere.
[…]
16. 21. Eppure, Signore, noi percepiamo gli intervalli del tempo, li
confrontiamo tra loro, definiamo questi più lunghi, quelli più brevi,
misuriamo addirittura quanto l'uno è più lungo o più breve di un altro,
rispondendo che questo è doppio o triplo, quello è semplice, oppure questo è
lungo quanto quello. Ma si fa tale misurazione durante il passaggio del tempo;
essa è legata a una nostra percezione. I tempi passati invece, ormai
inesistenti, o i futuri, non ancora esistenti, chi può misurarli? Forse chi
osasse dire di poter misurare l'inesistente. Insomma, il tempo può essere
percepito e misurato al suo passare; passato, non può, perché non è.
[…]
20. 26. Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È
inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe
esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente,
presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo
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nell'animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il
presente del presente la visione, il presente del futuro l'attesa. Mi si
permettano queste espressioni, e allora vedo e ammetto tre tempi, e tre tempi
ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro,
secondo l'espressione abusiva entrata nell'uso; si dica pure così: vedete, non
vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si
dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo
esattamente; per lo più ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa
vogliamo dire.
21. 27. Dissi poc'anzi che misuriamo il tempo al suo passaggio. Così possiamo
dire che questa porzione di tempo è doppia di quella, che è semplice, o lunga
quanto quella; oppure, misurandola, indicare qualsiasi altro rapporto fra
porzioni di tempo. In tal modo, come dicevo, misuriamo il tempo al suo
passaggio. Se mi si chiedesse: "Come lo sai?", risponderei: "Lo so perché
misuriamo, e non possiamo misurare ciò che non è, e non è né il passato né il
futuro". Il tempo presente, poi, come lo misuriamo, se non ha estensione? Lo
si misura mentre passa; passato, non lo si misura, perché non vi sarà nulla da
misurare. Ma da dove, per dove, verso dove passa il tempo, quando lo si
misura? Non può passare che dal futuro, attraverso il presente, verso il
passato, ossia da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione,
verso ciò che non è più. Ma noi non misuriamo il tempo in una certa
estensione? Infatti non parliamo di tempi semplici, doppi, tripli, uguali, e di
altri rapporti del genere, se non riferendoci a estensioni di tempo. In quale
estensione dunque misuriamo il tempo al suo passaggio? Nel futuro, da dove
passa? Ma ciò che non è ancora, non si misura. Nel presente, per dove passa?
Ma una estensione inesistente non si misura. Nel passato, verso dove passa?
Ma ciò che non è più, non si misura.
22. 28. Il mio spirito si è acceso dal desiderio di penetrare questo enigma
intricatissimo. Non voler chiudere, Signore Dio mio, padre buono, te ne
scongiuro per Cristo, non voler chiudere al mio desiderio la conoscenza di
questi problemi familiari e insieme astrusi. Lascia che vi penetri e
s'illuminino al lume della tua misericordia, Signore. […] Noi parliamo di
tempo e tempo, di tempi e tempi. "Quanto tempo fa lo disse!", "Quanto tempo
fa lo fece!", e: "Da quanto tempo non lo vedo!", e: "Questa sillaba ha una
durata di tempo doppia di quell'altra, breve": così diciamo e udiamo, così ci
facciamo comprendere e comprendiamo. Sono espressioni chiarissime,
usatissime; eppure sono estremamente oscure, e astrusa è la loro spiegazione.
[…]
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
24. 31. Mi comandi di approvare chi dicesse che il tempo è il movimento di un
corpo? No certo. Nessun corpo si muove fuori dal tempo; questo lo intendo: tu
lo dici. Ma che il movimento stesso del corpo sia il tempo, questo non lo
intendo: tu non lo dici. Di un corpo che si muove, misuro col tempo la durata
del movimento, da quando inizia a quando finisce. Se non ho visto quando
iniziò, e continua a muoversi di modo che non vedo quando finisce, mi è
impossibile misurarlo, a meno di misurarlo da quando inizio a quando finisco
di vederlo. Vedendolo a lungo, riferisco soltanto che è un tempo lungo, senza
riferire quanto, poiché, per dire anche quanto, facciamo un confronto, ad
esempio: "Questo è quanto quello", oppure: "Questo è doppio di quello", e
così via. Se invece avremo potuto rilevare nello spazio il punto da cui è partito
e il punto in cui arriva un corpo in movimento, oppure le sue parti, qualora si
muova come un tornio, possiamo dire in quanto tempo si è effettuato il
movimento del corpo o di una sua parte da un punto a un altro. Il movimento
del corpo è dunque cosa distinta dalla misura della sua durata. E chi non
capisce ormai a quale delle due nozioni conviene dare il nome di tempo?
Infatti, se anche un corpo alternamente si muove e sta fermo, noi misuriamo
col tempo non soltanto il suo movimento, ma anche la stasi. Diciamo: "Stette
fermo tanto, quanto si mosse", oppure: "Stette fermo due, tre volte più di
quanto si mosse"; oppure indichiamo altri rapporti, misurati con precisione o
a stima, più o meno, come si suol dire. Dunque il tempo non è il movimento
dei corpi.
[…]
27. 36. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro di me: è
così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti
turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose
producono in te al loro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è
quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è
quanto misuro, allorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è
il tempo che misuro. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale
silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il
pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo
riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione
temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col
pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro
sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li
recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha
prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in
silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o
meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente
si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione
presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione
del futuro, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato.
28. 37. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è,
e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello
spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell'attesa,
dell'attenzione e della memoria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto
dell'attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora?
Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che il passato
non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E
chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che
passa? Tuttavia perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua
scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma
un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato,
inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato.
Agostino, Le confessioni, Libro XI
La sua nuova teoria della creazione costringe Agostino a confrontarsi con la questione del
tempo e lo stimola a elaborare la sua teoria della temporalità che, pur rifacendosi a Plotino,
è quantomai originale e innovativa.
Agostino prende le mosse dagli avversari del cristianesimo, soprattutto i manichei, i quali
cercano di confutare la teoria della creazione, rilevando che, se Dio ha creato il mondo in
un certo istante, allora:
 o prima aveva già deciso di crearlo, ma in tal caso è assurdo che non l’abbia creato
subito;
 oppure, se ha deciso proprio in quell’istante di crearlo, ne segue che la sua volontà è
mutata e dunque non è perfetto.
Nel ribattere a queste obiezioni, Agostino prende esplicitamente le distanze dai suoi stessi
confratelli che replicavano: “Prima della creazione Dio preparava l’inferno per chi osa
penetrare i suoi misteri”. Questa, afferma Agostino, non è una risposta, ma una presa in
giro fuori luogo, perché il problema posto è più che fondato e va affrontato seriamente.
Agostino, pertanto, lo affronta razionalmente e lo risolve affermando che prima della
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
creazione il tempo non esisteva. La soluzione agostiniana appare fin troppo semplice, ma
in realtà contiene delle acute e profonde implicazioni:
1. il tempo è stato creato da Dio insieme al mondo, dunque ha un’origine e una fine (il
giudizio universale, ossia la fine del mondo);
2. il tempo, insieme allo spazio, è una proprietà fondamentale del mondo fisico, ossia è
del tutto relativo alla dimensione materiale;
3. Dio, pura razionalità, non è spazio-temporale, dunque non è nel tempo, ma fuori del
tempo e senza tempo: questo è il vero significato della sua eternità, cioè assenza di
qualsiasi temporalità.
Ma a questo punto, Agostino è costretto ad affrontare un altro problema, ancora più
spinoso: appurato che la temporalità ha avuto un’origine, e quindi avrà una fine, ovvero
che il tempo è derivato e… temporaneo, che cos’è allora il tempo? In cosa consiste?
Agostino prende in esame, innanzitutto, la teoria platonica secondo cui il tempo è la
rotazione del Sole e degli astri. Egli ribatte che, se il tempo fosse il movimento perenne e
uniforme di qualcosa, allora anche un corpo terrestre, p.e. anche un tornio, potrebbe
spiegare il tempo anche in assenza di qualsiasi astro. Ma in tal caso, il movimento di un
corpo sarebbe la misura del tempo. Eppure, continua Agostino, per misurare la durata del
moto di un corpo bisogna stabilire un inizio e una fine del moto, e questo già presuppone il
tempo. In altre parole, com’è possibile che il moto sia il fondamento del tempo se il tempo
è il presupposto per misurare la durata del moto? Agostino ne conclude che il tempo non è
riconducibile al moto né degli astri né dei corpi terrestri.
Tuttavia, sostiene Agostino, è indubbio che noi viviamo nel tempo e misuriamo i tempi
delle nostre azioni, p.e. della lettura di uno scritto, perfino della durata di una sillaba, e che
possiamo stabilire, p.e., che la durata di una parola, o di un suono, è doppia rispetto a
quella di un’altra. Com’è possibile allora la nostra misurazione temporale? Il tempo, da un
lato, sembra che esista inoppugnabilmente ma, dall’altro, no! Si può risolvere
quest’enigma? E se sì, come?
Agostino comincia a dipanare l’intricata matassa, rilevando che il tempo si compone di tre
parti: il passato, il futuro e il presente. Si tratta allora di analizzare cosa siano passato,
futuro e presente. Cos’è il passato? Ciò che non è più, risponde Agostino, qualcosa che non
esiste più, un non-essere, nulla! Cos’è il futuro? Ciò che non è ancora, qualcosa che può
esistere ma per il momento non esiste, dunque anch’esso un non-essere, nulla! Cos’è il
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
presente? Ciò che avviene tra il passato e il futuro. Ma se il passato e il futuro sono nulla,
come può esistere qualcosa tra due nulla? Inoltre, continua Agostino, il presente è l’attimo
immediato. Ma proviamo a cogliere quest’attimo: esso arriva dal futuro, ma non appena
non è più futuro è già trascorso, cioè è subito diventato passato. In altre parole, il futuro si
trasforma immediatamente in passato, il presente sfugge, è inafferrabile, incoglibile.
Dunque anch’esso è nulla. In conclusione: il tempo è l’insieme di passato, futuro e
presente, ma passato, futuro e presente non esistono, dunque anche il tempo non esiste.
Questa conclusione, però, sembra rendere l’enigma del tempo ancora più oscuro e
indecifrabile. Come è possibile che non esista qualcosa che mi sembra esistere
indiscutibilmente e che uso in ogni momento per pensare e agire? Possibile che il tempo
sia un’illusione così radicata in noi da impedirci di renderci conto del suo carattere
illusorio?
E’ a questo punto che Agostino trova la soluzione dell’enigma del tempo: esso è irrisolvibile
se noi crediamo che il tempo sia qualcosa di oggettivo, ossia di esterno alla nostra
coscienza. Il tempo oggettivo, afferma Agostino, questo sì, è davvero un’illusione, un
inganno. Ma il tempo non è qualcosa di oggettivo, bensì qualcosa di soggettivo, è un
prodotto della mente umana, una modalità del pensiero. Come?
Il passato, risponde Agostino, è la memoria, cioè la facoltà mentale capace di conservare e
recuperare le nostre esperienze (p.e. l’estate passata è l’insieme dei ricordi delle mie
vacanze); il presente è l’attenzione, cioè l’operazione mentale grazie alla quale la coscienza
si concentra su uno stimolo e così acquisisce delle sensazioni (p.e. il presente è la visione
delle lettere e delle sillabe di queste parole che sto leggendo); e il futuro è la disposizione
mentale dell’attendersi, o aspettare, qualcosa, è il nostro perenne farsi delle nostre
aspettative (p.e. il futuro è l’attendermi di finire di leggere questa tappa, di svelare del tutto
l’enigma del tempo e di andare poi a rilassarmi con una passeggiata in un parco).
Insomma, passato, presente e futuro sono il nome che diamo a tre attività mentali – il
ricordarsi, l’attenzionarsi, l’aspettarsi –, ovvero sono tre prodotti della nostra mente.
In conclusione, per Agostino il tempo non esiste oggettivamente, non è una realtà fisica;
ma esiste soggettivamente, è una produzione del pensiero umano. Ciò non significa che
Agostino neghi la realtà oggettiva del divenire, cioè del mutamento di tutte le cose fisiche e
quindi anche del corpo umano.
Anzi il tempo soggettivo ha nel divenire oggettivo un indispensabile correlato. Grazie al
divenire oggettivo, infatti, il tempo soggettivo può adattarsi alla realtà esterna e misurare il
mutamento fisico. Tuttavia, rimane fermo che è solo in base al nostro tempo mentale che
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SAVERIO MAURO TASSI – LE (DIS)AVVENTURE DEL PENSIERO FILOSO/SCIENTI-FICO – EDIZIONI ALICE
possiamo rilevare e cronometrare tutti i moti dei corpi, a cominciare da quelli degli astri,
ma anche le nostre esperienze e lo scorrere della nostra vita.
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TAPPA 4
AGOSTINO: IL MALE E’ COLPA DELL’UOMO
5. 7. Cercavo l'origine del male cercando male e non vedendo il male nella mia
stessa ricerca. Davanti agli occhi del mio spirito ponevo l'intero creato, tutto
ciò che ne possiamo scorgere, ossia la terra, il mare, l'aria, gli astri, gli alberi,
gli animali mortali, e tutto ciò che ci rimane invisibile, ossia il firmamento
celeste sopra di noi, tutti gli angeli e tutti gli spiriti che lo abitano, spiriti che
la mia immaginazione distribuiva pure in vari luoghi, quasi fossero corpi; così
feci del tuo creato un'unica massa enorme, ove spiccavano secondo il loro
genere i corpi, sia veri e reali, sia spirituali, resi arbitrariamente corporei
dalla mia immaginazione, e feci enorme questa massa, non quanto era
effettivamente, perché non potevo concepirlo, ma quanto mi piacque
immaginare, però finita in tutte le direzioni, avvolta e penetrata da ogni parte
da te, Signore, che pure rimanevi in tutti i sensi infinito, come un mare che si
stenda dovunque e da dovunque per spazi immensi infinito, un unico mare
che contenga nel suo interno una spugna grande a piacere, però finita e
ripiena evidentemente in ogni sua parte del mare immenso. Così concepivo la
tua creazione, finita e ripiena di te infinito. Dicevo: "Ecco Dio, ed ecco le
creature di Dio. Dio è buono, potentissimamente e larghissimamente
superiore ad esse. Ma in quanto buono creò cose buone e così le avvolge e
riempie. Allora dov'è il male, da dove e per dove è penetrato qui dentro? Qual
è la sua radice, quale il suo seme? O forse non esiste affatto? Perché allora
temere ed evitare una cosa inesistente? Se lo temiamo senza ragione, è
certamente male il nostro stesso timore, che punge e tormenta invano il
nostro cuore, e un male tanto più grave, in quanto non c'è nulla da temere,
eppure noi temiamo. Quindi o esiste un male oggetto del nostro timore, o il
male è il nostro stesso timore. Ma da dove proviene il male, se Dio ha fatto, lui
buono, buone tutte queste cose? Certamente egli è un bene più grande, il
sommo bene, e meno buone sono le cose che fece; tuttavia e creatore e
creature tutto è bene. Da dove viene dunque il male? Forse da dove le fece,
perché nella materia c'era del male, e Dio nel darle una forma, un ordine, vi
lasciò qualche parte che non mutò in bene? Ma anche questo, perché? Era
forse impotente l'onnipotente a convertirla e trasformarla tutta, in modo che
non vi rimanesse nulla di male? Infine, perché volle trarne qualcosa e non
impiegò piuttosto la sua onnipotenza per annientarla del tutto? O forse la
materia poteva esistere contro il suo volere? O, se la materia era eterna,
perché la lasciò sussistere in questo stato così a lungo, attraverso gli spazi su
su infiniti dei tempi, e dopo tanto decise di trarne qualcosa? O ancora, se gli
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venne un desiderio improvviso di agire, perché con la sua onnipotenza non
agì piuttosto nel senso di annientare la materia e rimanere lui solo, bene
integralmente vero, sommo, infinito? O, se non era ben fatto che chi era
buono non edificasse, anche, qualcosa di buono, non avrebbe dovuto
eliminare e annientare la materia cattiva, per istituirne da capo una buona, da
cui trarre ogni cosa? Quale onnipotenza infatti era la sua, se non poteva
creare alcun bene senza l'aiuto di una materia non creata da lui?". Questi
pensieri rimescolavo nel mio povero cuore gravido di assilli pungentissimi,
frutto del timore della morte e della mancata scoperta della verità. Rimaneva
tuttavia saldamente radicata nel mio cuore la fede nella Chiesa cattolica del
Cristo tuo, signore e salvatore nostro. Certo una fede ancora rozza in molti
punti e fluttuante oltre il limite della giusta dottrina; però il mio spirito non
l'abbandonava, anzi se ne imbeveva ogni giorno di più.
[…]
12. 18. Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non
potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni.
Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non
avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno,
ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione
non è danno, il che non può essere, o, com'è invece certissimo, tutte le cose
che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il
bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più
corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma
può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta
migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non
esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che
esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se
fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora
sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma
questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si
rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna
sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose
uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte
insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai.
13. 19. In te il male non esiste affatto, e non solo in te, ma neppure in tutto il
tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere
l'ordine che vi hai imposto. Tra le parti poi del creato, alcune ve ne sono, che,
per non essere in accordo con alcune altre, sono giudicate cattive, mentre con
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altre si accordano, e perciò sono buone, e buone sono in se stesse. Tutte
queste parti, che non si accordano fra loro, si accordano poi con la porzione
inferiore dell'universo, che chiamiamo terra, la quale è provvista di un suo
cielo percorso da nubi e venti, ad essa conveniente. Lontano d'ora in poi da
me l'augurio: "Oh, se tali cose non esistessero!". Quand'anche vedessi soltanto
tali cose, potrei certo desiderarne di migliori, ma non più mancare di lodarti
anche soltanto per queste. Che ti si debba lodare, lo mostrano infatti sulla
terra i draghi e tutti gli abissi, il fuoco, la grandine, la neve, il ghiaccio, il
soffio della tempesta, esecutori della tua parola, i monti e tutti i colli, gli
alberi da frutto e tutti i cedri, le bestie e tutti gli armenti, i rettili e i volatili
pennuti; i re della terra e tutti i popoli, i principi e tutti i giudici della terra, i
giovani e le fanciulle, gli anziani con gli adolescenti lodino il tuo nome. Ma,
poiché anche dai cieli salgono verso di te le lodi, ti lodino, Dio nostro,
nell'alto tutti gli angeli tuoi; tutte le potenze tue, il sole e la luna, tutte le
stelle e la luce, i cieli dei cieli e le acque che stanno sopra i cieli, lodino il tuo
nome. Ormai non desideravo di meglio: tutte le cose abbracciavo col mio
pensiero, e se le creature superiori sono meglio di quelle inferiori, tutte
insieme sono però meglio delle prime sole. Con più sano giudizio davo questa
valutazione.
[…]
16. 22. E capii per esperienza che non è cosa sorprendente, se al palato
malsano riesce una pena il pane, che al sano è soave; se agli occhi offesi è
odiosa la luce, che ai vividi è amabile. La tua giustizia è sgradita ai malvagi, e a
maggior ragione le vipere e i vermiciattoli che hai creato buoni e in accordo
con le parti inferiori del tuo creato. A queste i malvagi stessi si accordano
nella misura in cui non ti assomigliano, mentre si accordano alle parti
superiori nella misura in cui ti assomigliano. Ricercando poi l'essenza della
malvagità, trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, la
quale si distoglie dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose
più basse, e, ributtando le sue interiora, si gonfia esternamente.
Agostino, Le confessioni, Libro VII
Il problema del perché il mondo sia affetto dal male è uno dei problemi più spinosi, e
proprio per questo ricorrenti, della storia della filosofia. Per Agostino, però, è di gran lunga
più spinoso e arduo da risolvere che per tutti i filosofi a lui precedenti. Non solo perché
l’epoca in cui vive Agostino è particolarmente travagliata o perché Agostino ha una
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maggiore sensibilità per la sofferenza, ma anche e soprattutto perché nessuno, prima di lui,
aveva concepito il mondo come il prodotto di un essere assolutamente onnipotente che
crea per amore verso le sue creature. Di conseguenza, mentre i filosofi precedenti potevano
addebitare il male al fatto che il principio fisico del mondo possedeva un’indipendenza
irriducibile o che il principio divino era indifferente alle vicende terrene, Agostino sembra
costretto ad ammettere che, dato che l’esperienza del male nel mondo è incontrovertibile, o
Dio non è onnipotente o non è buono e amorevole.
E in effetti Agostino, nel corso della sua esistenza, si tormenta a lungo intorno a questa
contraddizione nel tentativo di trovare una via d’uscita, ossia di conciliare l’onnipotenza e
l’amore di Dio con l’indiscutibile presenza del male nel mondo. Alla fine, Agostino giunge a
trovare una soluzione, o quantomeno raggiunge la convinzione di averla trovata.
Data la complessità del problema del male, la soluzione agostiniana è particolarmente
ampia e articolata. Per sintetizzarla e facilitarne la comprensione, la possiamo distinguere
e affrontare a tre livelli successivi:
1. a livello ontologico;
2. a livello cosmologico;
3. a livello antropologico.
A livello ontologico, il problema del male consiste nel chiedersi se esso sia un principio
costitutivo ed eterno dell’essere, cioè della realtà, oppure un suo fenomeno secondario, e
quindi relativo, parziale e occasionale. In altre parole: il male esiste in senso forte e
permanente, cioè sostanziale ovvero essenziale; oppure “capita”, ossia c’è ma in quanto
evento accidentale? La tesi di Agostino è che il male non è un essere, dunque non esiste
veramente, ovvero non è un principio sostanziale (essenziale) del mondo. Infatti,
argomenta Agostino, se l’essere fosse male, non potremmo farne esperienza, così come se il
nostro corpo fosse costitutivamente malato non potremmo ammalarci. Al contrario, se ci
ammaliamo è proprio perché siamo costitutivamente sani, e, analogamente, se facciamo
esperienza del male è solo perché l’essere è essenzialmente bene.
Ma allora cos’è il male? Perché ne facciamo esperienza? Agostino risponde: il male è
carenza di bene. L’essere è Dio e ciò che è creato da Dio, cioè il mondo. In entrambi i casi
l’essere è bene, afferma Agostino, e non può che essere solamente bene. Ma il bene può
avere vari gradi/quantità, da quello infinito e sommo di Dio, a quelli finiti propri delle
creature. Ognuno dei decrescenti gradi del bene, successivi a quello divino, implica una
diminuzione sempre maggiore del bene, fino a un grado minimo, fino cioè al bene infimo,
che è la massima privazione possibile di bene. La privazione totale di bene sarebbe il nulla,
ma il nulla non esiste per definizione. Quindi, il male assoluto non esiste, esiste solo il male
relativo, che però in realtà è bene sminuito. Dunque solo il bene “è”, cioè esiste
effettivamente, il male propriamente “non è”, cioè non esiste come tale ma solo come una
modalità del bene, una sua evenienza.
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A livello cosmologico, il problema del male consiste, per Agostino, nel chiedersi perché il
cosmo, creato da Dio per amore, contenga il male relativo, cioè gradi di bene finiti e
decrescenti. In altre parole: posto che il male è solo diminuzione progressiva del bene,
perché il creato non possiede il grado massimo di bene? Agostino risponde affermando che
il massimo grado di essere/bene è quello infinito di Dio in quanto creatore e che dunque il
creato, in quanto necessariamente inferiore al creatore, e perciò finito, non può che avere
un grado inferiore di essere/bene. Ma perché allora il cosmo possiede tutti i gradi
decrescenti del bene, fino al minimo, anziché solo quello immediatamente inferiore al
massimo?
Perché, risponde Agostino, solo così è possibile che esistano la maggiore varietà e il
maggior numero di creature e soprattutto perché proprio dall’interazione di tutti i tipi
possibili di creature, ognuno necessariamente con un grado diverso di essere/bene, deriva
quell’armonia grazie alla quale il cosmo nel suo insieme possiede il massimo grado di bene
possibile nella dimensione spazio-temporale, cioè nella dimensione della finitezza. In
questo senso, considerando il cosmo nella sua totalità, afferma Agostino, il male presente
in esso è minimo, poco più che niente. Se, per esempio, l’uomo di fronte a una puntura di
una vespa a un bambino pensa che il mondo contenga il male e che Dio avrebbe potuto fare
a meno di creare le vespe, la sua credenza nel male e la sua critica a Dio è, secondo
Agostino, solo il frutto della sua ignoranza, cioè della sua incapacità di capire che anche le
vespe hanno una funzione fondamentale per mantenere l’equilibrio biologico di tutte le
specie e quindi per garantire il massimo bene cosmico possibile.
A questo punto, forte della posizione guadagnata, Agostino affronta lo scontro diretto con
il vero male, quello antropologico, quello che si riferisce al male subìto ma anche provocato
dall’uomo. Innanzitutto, riconosce Agostino, gli uomini soffrono e le sofferenze che
provano sono, per intensità e numero, di gran lunga superiori a quel minimo di male
relativo che il cosmo necessariamente alberga in quanto perfezione finita. In altre parole,
Agostino ammette apertamente che l’umanità da sempre soffre di mali incompatibili con
l’armonia divina che governa il mondo. Ma com’è possibile? Forse che Dio ha posto l’uomo
ai margini dell’armonia cosmica e, unico tra le sue creature, gli ha inflitto il massimo grado
di male relativo, cioè di privazione di bene?
No, non può essere così, perché la Bibbia, anzi, ci rivela proprio il contrario: “Dio fece
l’uomo a sua immagine e somiglianza”, pertanto l’uomo è la creatura più amata, quella cui
Dio ha conferito il massimo grado di essere/bene rispetto a tutte le altre. Ma allora, a
maggior ragione, come mai l’uomo soffre? Paradossalmente, afferma Agostino, proprio
perché è stato il più beneficato e il più beneficiato da Dio. Agostino asserisce, infatti, che il
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conferimento all’uomo del più alto livello di essere, e quindi di bene, coincide con il dono
del libero arbitrio: Dio ha creato l’uomo simile a lui dandogli la possibilità di scegliere
liberamente come comportarsi. E, infatti, appena creato, nel giardino dell’Eden, l’uomo
non soffriva, partecipava pienamente dell’armonia cosmica, della quasi completa
perfezione originaria del mondo fisico. Addirittura gli era risparmiata l’esperienza della
morte! Ma, in seguito, continua Agostino, l’uomo ha abusato del suo libero arbitrio, ha
trasgredito l’unico divieto che Dio gli aveva imposto – quello di mangiare il frutto
dell’albero della conoscenza –, dunque si è contrapposto per superbia al suo creatore,
macchiandosi così del “peccato originale”.
Dio è amore, ma anche giustizia, continua Agostino, e dunque punisce l’uomo cacciandolo
dall’Eden, costringendolo a lavorare “con fatica” e a partorire “con dolore”. In altre parole,
secondo Agostino, dopo il peccato originale il mondo si è trasformato in un carcere nel
quale l’uomo deve scontare la pena per il peccato di superbia commesso. Ecco perché il
mondo terreno include una quantità di dolore di gran lunga superiore a quello che aveva
nella sua costituzione originaria, cioè nell’Eden, morte corporea compresa. Ma il dolore
che l’uomo patisce sulla terra non è ingiusto, non solo perché è la giusta punizione del suo
errore, ma soprattutto perché ha la funzione di rendere l’uomo consapevole del suo errore
e di emendarlo, cioè di riabilitarlo. Dunque, in ultima analisi, il dolore terreno non è male,
ma bene, perché è finalizzato al bene dell’uomo, al suo miglioramento.
Ma non basta. E’ lo stesso Agostino a sostenere che la quantità del male che l’umanità
prova è ancora superiore a quella che gli è stata inflitta da Dio come punizione del suo
peccato originale. Il fatto è, afferma Agostino, che una volta cacciato dall’Eden, l’uomo
continua a peccare, anzi, subisce, per così dire, l’inerzia del peccato originale, e così pecca
ancora più facilmente e sempre più spesso. Di qui la quota maggiore del dolore che
l’umanità patisce: le azioni peccaminose degli uomini – p.e. le percosse, i furti, gli omicidi,
le guerre, ecc. – da un lato, di per se stesse, provocano dolore, dall’altro causano ulteriori
punizioni, e quindi ulteriori sofferenze.
In conclusione, secondo Agostino, il vero male, il pesantissimo insieme dei dolori che tutti
gli uomini provano nella loro vita, è pur sempre male relativo, cioè privazione del bene, ma
è il grado infimo del bene, la sua massima privazione possibile. Soprattutto, il vero male è
causato non da Dio, ma esclusivamente dall’uomo; è un male antropologico, meglio un
male morale, cioè dovuto alla malvagità dell’uomo, alla sua incapacità di comportarsi
moralmente, cioè bene.
Dunque, Dio per Agostino è del tutto innocente, la presenza del male nel mondo non
inficia minimamente né l’onnipotenza divina né l’amore di Dio per le sue creature.
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Ma Agostino si rende conto che la sua argomentazione lascia ancora irrisolto un problema.
Posto che il vero male è il frutto avvelenato della scelta dell’uomo, se il male, a livello
ontologico, non esiste, come può l’uomo scegliere il male, cioè appunto qualcosa che non
esiste? Detto altrimenti: l’uomo per scegliere il male deve volerlo, ma in questo caso come
fa a volere qualcosa che non c’è? O, al contrario, dato che è inconfutabile che l’uomo abbia
voluto e voglia il male, questo non attesta che il male esiste?
Agostino risolve anche quest’ultimo problema basandosi ancora una volta sulla sua teoria
dei molteplici e decrescenti gradi di bene finito. L’uomo, quando vuole e sceglie il male,
non fa che preferire a un bene maggiore – innanzitutto a Dio, bene massimo – un bene
inferiore, cioè il bene proprio di una creatura che possiede un grado di essere/bene
inferiore al suo. P.e., il peccato di gola, che consiste nel mangiare più del necessario,
consiste nel volere mangiare quanto un animale, cioè appunto nello scegliere il bene
proprio di una specie inferiore. Dunque, conclude Agostino, l’uomo quando vuole e sceglie
il male non vuole e sceglie il nulla, il che sarebbe assurdo, ma un minor bene rispetto a
quello che gli è proprio, a quello consono al suo statuto ontologico, e pertanto il fatto che
l’uomo voglia e scelga il male non significa che il male “è”.
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TAPPA 5
AGOSTINO: SOLO LA GRAZIA DIVINA CI LIBERA DAL MALE
1. 3. A. - Certo che se le cose stanno così, è già risolto il problema che hai
proposto. Se l'uomo è un determinato bene e se non potesse agire secondo
ragione se non volendolo, ha dovuto avere la libera volontà, senza di cui non
poteva agire moralmente. Infatti non perché mediante essa anche si pecca, si
deve ritenere che per questo Dio ce l'ha data. È ragione sufficiente che doveva
esser data il fatto che senza di essa l'uomo non può vivere moralmente. Si può
inoltre comprendere che per questo scopo è stata data anche dal motivo che
se la si userà per peccare, viene punita per ordinamento divino. Ma sarebbe
ingiusto se la libera volontà fosse stata data non solo per vivere secondo
ragione ma anche per peccare. Come infatti sarebbe giustamente punita la
volontà di chi l'ha usata per un'azione per cui è stata data? Quando invece Dio
punisce il peccatore, sembra proprio dire: "Perché non hai usato la libera
volontà per il fine cui te l'ho data? "; cioè per agir bene. Se l'uomo fosse privo
del libero arbitrio della volontà, come si potrebbe concepire quel bene per cui
si pregia la giustizia nel punire i peccati e onorare le buone azioni? Non
sarebbe appunto né peccato né atto virtuoso l'azione che non si compie con la
volontà. Conseguentemente, se l'uomo non avesse la libera volontà, sarebbero
ingiusti pena e premio. Fu necessario dunque che tanto nella pena come nel
premio ci fosse la giustizia poiché questo è uno dei beni che provengono da
Dio. Fu necessario quindi che Dio desse all'uomo la libera volontà.
Agostino, Il libero arbitrio, Libro II
18. 52. Non c'è da meravigliarsi che l'uomo o per ignoranza non abbia il libero
arbitrio della volontà, con cui scegliere il da farsi secondo ragione, ovvero che
per la resistenza dell'abito della passione, sviluppatosi in certo senso come
un'altra natura a causa della illibertà nella propagazione della specie, egli
conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa compierlo. È pena giustissima del
peccato che si perda ciò che non si è voluto usar bene, sebbene fosse possibile
senza alcuna difficoltà, se si volesse. È quanto dire che chi, pur conoscendo,
non agisce secondo ragione, perde la conoscenza di ciò che è ragionevole e chi
non ha voluto agire secondo ragione potendolo, ne perde la possibilità quando
lo vuole. Vi sono in realtà per l'anima che pecca queste due condizioni di
pena: l'ignoranza e la debolezza. A causa dell'ignoranza ci toglie dignità
l'errore, a causa della debolezza ci tormenta il dolore. Ma affermare il falso a
posto del vero fino ad errare involontariamente e non poter trattenersi da
azioni passionali, perché reagisce con tormento la sofferenza della soggezione
alla carne, non è natura dell'uomo in quanto tale, ma pena dell'uomo
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condannato. Ma quando si parla della libera volontà di agire secondo ragione,
si parla di quella, in cui l'uomo è stato creato.
Agostino, Il libero arbitrio, Libro III
13. Appena avvenuta la trasgressione del comando, i progenitori rimasero
sconvolti dalla nudità dei propri corpi, perché la grazia divina li aveva
abbandonati. Perciò con foglie di fico, che eventualmente per prime si offrirono
al loro sbigottimento, coprirono le parti che suscitavano il loro pudore. Erano le
stesse di prima ma non erano oggetto