il diritto romano ei suoi periodi. le partizioni

CAPITOLO PRIMO
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI.
LE PARTIZIONI
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Le fonti di cognizione più antiche. – 3. Il periodo
arcaico del diritto romano. – 4. Il periodo preclassico del diritto romano. – 5. Il
periodo classico del diritto romano. – 6. Il periodo postclassico del diritto romano. – 7. Le partizioni del diritto romano.
PREMESSA
3
1. Premessa
Oggetto del presente corso sono le istituzioni (insegnamento elementare)
di diritto romano privato. Per chiarire il concetto di “diritto romano” occorre
prima precisare il concetto di diritto. Ma questo è uno dei problemi più ardui
per qualunque giurista, storico o filosofo del diritto.
A me sembra, nonostante autorevoli orientamenti in senso contrario, che
diritto sia l’ordinamento proprio dell’organizzazione dello Stato, qualunque
forma questo abbia assunto nella storia: dalla città-Stato allo Stato accentrato di tipo orientale, fino alle moderne forme di Stato costituzionale. La formazione statale nasce, nelle società antiche, quando l’organizzazione tribale
o gentilizia (clanica) non è più in grado di mediare e risolvere in sé i conflitti
di classe derivanti dalla privatizzazione della ricchezza (essenzialmente, dei
mezzi di produzione) ad opera delle emergenti aristocrazie.
È il passaggio da una società tendenzialmente egualitaria a una basata su
profonde differenze di ricchezze e di prestigio sociale, che a lungo andare
postula l’esistenza di uno Stato col suo apparato coercitivo e con i suoi segni
esteriori, archeologicamente rilevabili: mura, fori, strade, templi, carceri,
etc. 1. Il diritto romano è perciò il diritto dell’antico Stato romano, dagli albori della città-Stato fino all’impero romano-bizantino.
Per questo esso si suole distinguere in vari periodi storici, di regola quattro: anzitutto un periodo arcaico, che va dalle origini della civitas (che la
tradizione canonica varroniana pone nel 754 a.C.) fino a un dies ad quem
che per taluni corrisponde al 367 a.C., anno di emanazione delle leges Liciniae Sextiae che sancirono il pareggiamento, sul piano formale, tra le due
classi in lotta, il patriziato e la plebe, ammettendo quest’ultima al consolato;
secondo altri, il periodo arcaico termina nel 264 a.C., ossia all’età delle
1
Significativo è che lo stesso Cicerone elenchi questi elementi quali caratteristici e
indicativi di una realtà statale: Cic. de off. 1.17.53: Interius etiam est eiusdem esse civitatis; multa enim sunt civibus inter se communia: forum, fana, porticus, viae ..., per poi
aggiungere gli aspetti giuridici o ordinamentali: leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines, etc.
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IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
guerre puniche, quando Roma, da comunità rurale e in certo qual senso
chiusa, si apre all’imperialismo e ai commerci transmarini, divenendo, con
la distruzione di Cartagine (146 a.C.), signora del Mediterraneo.
Circa l’inizio di tale periodo, va detto, però, che nessuna traccia archeologica vi è di una città-Stato nell’ottavo secolo a.C. Le indagini hanno posto
in risalto che in questo secolo, e in buona parte di quello successivo, il sito
di Roma fu sede solo di abitati capannicoli e di corrispondenti piccole necropoli isolate, per cui la tradizione varroniana appare sostanzialmente infondata.
Le prime tracce di esistenza di uno Stato affiorano nell’arco di tempo che
va dal 625 al 575 a.C., ossia all’età della dominazione etrusca. E tutto lascia
supporre che la società del tempo, già in movimento sotto il profilo della divisione in classi, abbia fortemente risentito della presenza degli Etruschi (ossia dei veri fondatori di Roma), i quali già conoscevano l’esperienza della
città-Stato, e avevano vari motivi per contribuire alla nascita di una città in
prossimità dell’isola Tiberina, luogo di scambio e guado naturale per la via
di terra tra l’Etruria meridionale (Caere) e la città di Capua, anch’essa etrusca. Tanto è vero che le insegne del comando, i riti e varie attività riguardanti il diritto pubblico di Roma, ossia l’organizzazione dello Stato romano, sono riportati di pari passo dalla società etrusca. Non per nulla la creazione
dell’ordinamento centuriato, che costituì per secoli la base del diritto pubblico di Roma, viene riferita a Servio Tullio, il Mastarna della tradizione etrusca.
Ma anche nel diritto privato questo influsso fu assai rilevante: il regime
stesso della proprietà era ispirato alla “disciplina etrusca” così come le assegnazioni coloniarie di terreno. Lo stesso heredium, i bina iugera che secondo la tradizione Romolo avrebbe assegnato ai singoli capi di famiglia, si collega in maniera irrefutabile all’acnua del diritto etrusco. Perciò dopo la cacciata dei Tarquini e il declino della potenza tirrenica, in occasione della redazione delle dodici tavole, Roma si rivolse a un altro tipo di cultura giuridica, ossia a quella greca, attraverso l’ambasceria in Grecia (o forse nella Magna Grecia), per studiarne le leggi. L’età di partenza del periodo arcaico va
perciò abbassata di parecchio, lasciando fuori i primi “re” della Storia di
Roma (Romolo, Numa, Tullo Ostilio e forse Anco Marcio), che appaiono
figure leggendarie o, nella migliore delle ipotesi, capi di leghe, organizzazioni molto diffuse in età precivica nell’antico Lazio. Si pensi, ad esempio,
alla lega del Septimontium, i sette più antichi colli di Roma. Circa il terminus ad quem, a mio avviso può essere accettata l’anticipazione al quarto secolo (367 a.C.), perché il pareggiamento tra le classi rompe il monopolio pa-
PREMESSA
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trizio dello Stato e, con la creazione di una nuova classe dirigente, la nobilitas patrizio-plebea, prelude (già con le guerre sannitiche) alle conquiste imperialistiche di Roma e alle conseguenti trasformazioni nel suo tessuto sociale. Inoltre, non mi sentirei di porre un giurista come Appio Claudio Cieco
(censore nel 312 a.C.) in età arcaica, così come non è arcaica la sua concezione dello Stato e del diritto.
Gli altri periodi della storia giuridica di Roma (che poi esamineremo da
vicino) sono il periodo preclassico (367-27 a.C.), che si conclude con l’ultima repubblica, fino all’assunzione, da parte di Augusto, dei poteri di princeps, ciò che apre la strada al principato (periodo classico del diritto romano). Questo si fa in genere terminare con l’abdicazione di Diocleziano (305
d.C.), l’ultimo difensore della classicità del diritto contro le tendenze volgarizzanti. Ma c’è da osservare che la giurisprudenza classica termina, in realtà, agli inizi del terzo secolo d.C., più o meno in coincidenza con l’emanazione della constitutio Antoniniana (212 d.C.). Con essa Antonino Caracalla concedeva la cittadinanza a tutti i sudditi dell’impero aprendo così la
strada, senza volerlo, all’imbarbarimento del diritto romano, o per lo meno
alla sua contaminazione con le consuetudini locali, talvolta molto diverse dal
diritto della madrepatria (es. in materia matrimoniale). E se talvolta Roma
accetta o impone il rinvio al mos regionis, alla consuetudo loci, in altri casi
il conflitto tra il diritto dei popoli (Volksrecht) e il diritto imperiale (Kaiserrecht) è violento ed irriducibile. Questo ha fatto sì che qualche studioso abbia posto l’inizio dell’età postclassica proprio nel 212 d.C.
Conclude il ciclo storico del diritto romano il periodo postclassico, che si
apre appunto con l’abdicazione di Diocleziano (305 d.C.) e si chiude, ben
oltre la caduta dell’impero romano di Occidente (476 d.C.), con la morte di
Giustiniano I (565 d.C.), il restauratore della classicità del diritto e l’artefice
di quel monumento imperituro che è il Corpus iuris civilis.
Per ciascuno dei quattro periodi della storia del diritto romano vedremo,
molto succintamente, dopo uno sguardo alla società, quali sono i principali
organi costituzionali e quali le fonti del diritto. A questo riguardo devo sottolineare che mi riferisco alle cosiddette fonti di produzione, vale a dire a
quel complesso di fatti o atti da cui scaturisce il diritto, come ad esempio la
consuetudine, la legge, etc., che sono cosa ben diversa dalle fonti di cognizione del diritto. Queste ultime infatti consistono in quei documenti che consentono la conoscenza del diritto antico, e possono essere fonti di cognizione
tecnica (es. il testo epigrafico di una legge, il Corpus iuris civilis, etc.) o fonti atecniche (es. una citazione giuridica in uno scrittore come Tito Livio o
Aulo Gellio).
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IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
2. Le fonti di cognizione più antiche
Occorre precisare che per l’età più antica le notizie circa lo stato del diritto ci provengono, a parte riferimenti nelle fonti giuridiche di età più tarda
(ad es., i riferimenti alle leges regiae o alle dodici tavole), da fonti atecniche,
a partire dagli scrittori più antichi di Roma (Livio Andronico, Nevio, Ennio,
Catone), fino agli storici (anche greci), agli eruditi, agli antiquari di età storica (Varrone, Verrio Flacco, Gellio, etc.). Il discorso vale non solo per il diritto pubblico, ma spesso anche per il diritto privato.
Ma dove attinsero questi scrittori le loro notizie, dal momento che i testi
scritti di età arcaica che noi possediamo sono pochissimi? A parte le iscrizioni strumentali scoperte in epoca relativamente recente (spesso recanti
nomi di gentes latine o etrusche), i documenti scritti più famosi dell’antichità latina sono, ad esempio, la stele arcaica (cippus) del Foro romano, sottostante al lapis niger (pietra nera), ritenuta la tomba di Romolo, scoperta dal
Boni nel 1899, ove, attraverso l’andamento bustrofedico della scrittura (una
riga da destra a sinistra, una da sinistra a destra, come si volge il bue quando
tira l’aratro), si legge una lingua assai arcaica, che probabilmente detta prescrizioni rituali (ma aventi indubbio carattere giuridico). Tra i documenti
privati, vi è l’iscrizione della fibula Prenestina (una spilla proveniente da
Preneste, oggi Palestrina), ove si legge Manios med fhefhaked Numasioi, ossia, in lingua arcaica, Manio mi fece per Numerio, il che sta ad indicare probabilmente l’attività artigiana svolta su commissione (la locatio operis di età
storica). Bisogna dire che di recente l’autenticità di questo documento è stata
messa in discussione. Altro documento privato con iscrizione è il cd. vaso di
Duenos, rinvenuto presso l’Esquilino, ove Duenos è sempre stato interpretato come un nome, mentre potrebbe significare semplicemente bonus (v.
duellum = bellum; Duellona = Bellona, divinità romana, ancora nel Sc. de
bacchanalibus del 186 a.C.).
Importante è il ritrovamento avvenuto nel 1977 a Satricum, città vicina
ad Anzio, negli scavi del tempio di Mater Matuta, di una iscrizione votiva
(lapis Satricanus) databile tra la fine del sesto e gli inizi del quinto secolo
a.C., incisa su pietra. L’iscrizione è mutila nella parte iniziale, dove oltretutto si leggono una o due parole di difficile interpretazione. Si tratta di due righe orizzontali di scrittura destrorsa, in cui si legge il nome di Publio Valerio (Popliosio Valesiosio: genitivo o dativo?), un riferimento ai sodales (suodales) ed il dativo Mamartei (a Marte). Il personaggio è stato identificato
con Valerio Publicola, console secondo la tradizione, ma probabilmente ma-
LE FONTI DI COGNIZIONE PIÙ ANTICHE
7
gistrato unico (tyrannos) dell’alta repubblica. Elementi degni di rilievo sono
la formula onomastica bimembre (praenomen individuale e nomen gentilizio, senza il cognomen) e l’attestazione dell’importanza della gens Valeria,
come da tradizione, agli albori della repubblica.
Vi è però testimonianza di storici (Dionigi più di Livio e lo stesso Polibio 2 che dichiarano di aver visto con i propri occhi testi di leggi o di trattati
internazionali, iscritti su materiali durevoli (epigrafi) 3. Una tendenza scettica
accetta il racconto della distruzione nell’incendio gallico del 390/387 di tutto
il materiale scritto 4, ma si tratta di evidente esagerazione, perchè, ad es., tra
l’altro, il cippo del Foro non è andato distrutto, nè la pietra reca segni di bruciatura.
Almeno dal 510/509 a.C. (cacciata dei Tarquini e istituzione della Repubblica, oltre che inaugurazione del tempio di Giove Capitolino) il trascorrere degli anni veniva scandito dal configgimento di un chiodo (il clavus annalis) nella parete del tempio ad opera del praetor maximus 5, ossia del supremo magistrato. Questo magistrato era detto eponimo, perché dava il nome all’anno. Da quando i magistrati furono due (consules), gli storici (ad es.
Livio) iniziano i loro racconti con andamento annuale, indicando all’inizio
del capitolo quali furono i consoli di quell’anno. Ma al di là di questi testi
epigrafici di leggi o di trattati esistenti ancora al loro tempo, tra le fonti degli
annalisti, cui si ispirano tutti gli storici di Roma, vi furono i commentari
pontificali, la tradizione orale, gli archivi gentilizi, oltre ad altri elementi, sacrali o laici.
2
V. Polib. 3.22, per il primo trattato tra Roma e Cartagine del 508 a.C.
V. Dion. 4.26.4-5, che attesta di aver visto nel tempio di Diana sull’Aventino, ancora al suo tempo, il testo, in greco arcaico, (etrusco?), dell’accordo tra Romani e Latini, inciso su una stele di bronzo al tempo di Servio Tullio; Dion. 4.58.4 per il trattato tra
Tarquinio il Superbo e Gabii nel tempio di Giove Fidio, inciso su legno ricoperto di
cuoio (si noti il particolare); Cic. pro Balbo 23.53 per il foedus Cassianum, visto da
bambino dietro i rostri del foro, e inciso su una stele di bronzo; Liv. 3.32.7 e Dion.
10.32.4 per il testo in bronzo della lex Icilia de Aventino publicando, nel tempio di Diana Aventina; Liv. 4.7.12 (che attinge, però, a Licinio Macro) per il testo del foedus Ardeatinus del 444 a.C.; Liv. 4.20.6 ss. e Prop. 4.10.23 ss. per l’iscrizione sulla corazza di
Lars Tolumnius, re di Veio, dedicata come spolia opima nel tempio di Giove Feretrio da
Aulo Cornelio Cosso, e ritornata alla luce all’età di Augusto.
4
Liv. 4.1; 6.1.2. Ma lo stesso Livio 6.1.10 dichiara che dall’incendio vennero salvate copie delle leges regiae e delle dodici tavole.
5
Liv. 7.3.5-8.
3
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IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
Le fonti 6 attestano l’esistenza di tabulae dealbatae (tavole imbiancate)
che i pontefici esponevano, di anno in anno, annotandovi, oltre i nomi dei
magistrati, i principali eventi dell’anno (quindi anche i principali provvedimenti legislativi o trattati internazionali).
Alla fine dell’anno la tavola passava negli archivi dei pontefici, e veniva
esposta una tavola nuova. L’insieme di queste tabulae (magari assieme ad
altro materiale scritto) dette origine ai cosiddetti commentari pontificali, o
annali. Publio Mucio Scevola, pontefice dal 130 a.C., avrebbe steso in forma
definitiva questi annali, chiamati Annales Maximi, in ottanta libri. Publio
Mucio Scevola fu un grande giurista, e non bisogna dimenticare il tradizionale monopolio pontificale del diritto e della giurisprudenza.
Altra fonte antica (sempre atecnica, e non certo sicura) è data dalla tradizione orale, che si esprimeva, in particolare, in cantici epici 7 che ricordavano le gesta degli antenati, in carmina convivialia 8 (cantati durante i banchetti), in laudationes funebri. In occasione dei funerali il ricordo delle gesta del
defunto, oltre che dei suoi antenati, prendeva corpo visivamente nel ius imaginum (diritto di esporre le immagini degli antenati, nato nell’ambiente gentilizio). Le gentes più importanti (per i Fabi, ad es., abbiamo esplicita testimonianza) avevano propri archivi, in cui venivano annotati i nomi degli esponenti più in vista, le loro gesta, la storia della gens e gli eventi più importanti a cui essa aveva partecipato 9 (si pensi alla tragica spedizione dei Fabi
al Crémera, contro gli Etruschi di Veio 10).
A queste fonti si ispirano gli annalisti, che da una certa epoca iniziarono
a redigere una storia “laica” di Roma, pur attingendo grandemente ai commentari pontificali 11. Ma questi annalisti appartenevano, come è ovvio, alle gentes più in vista (Fabi, Valeri, etc.) per cui i loro annali spesso erano
ispirati all’esaltazione delle gesta e delle origini della propria gens. Si venne anzi a creare una sorta di “industria delle origini”, per cui si facevano
discendere, oltre che la città, le gentes più in vista da divinità o da personaggi illustri, specie della saga omerica (Enea, Ulisse, Diomede, etc.).
6
Cic. de rep. 2.12.52; Liv. 1.32; Serv. ad Aen. 1.373.
Dion. 1.79.10; Plut. Numa 5.
8
Cic. Brut. 19.75.
9
Sugli archivi gentilizi v. Cic. Brut. 16.62; Or. 34.120.
10
Liv. 2.48-51; Dion. 9.15-18.
11
Sui commentari pontificali v. part. Cic. de rep. 2.31.54; Liv. 4.3.9; 6.1.2; Plut.
Numa 1.
7
LE FONTI DI COGNIZIONE PIÙ ANTICHE
9
Questo primo tentativo di storiografia (anche giuridica) romana, fu chiamata annalistica, poichè le opere di questi autori erano Annales, ossia seguivano l’andamento calendariale proprio degli annali dei pontefici. Anche il
poeta Ennio, come è noto, scrisse degli Annali.
Ma il primo annalista della storia di Roma fu Quinto Fabio Pittore (gens
Fabia), nato nel 254 a.C., che scrisse i suoi annali in greco, la lingua letteraria più diffusa al suo tempo, anche perchè già storici greci si erano interessati delle vicende di Roma antica. Alla stessa generazione di annalisti (prima
annalistica) appartiene Lucio Cincio Alimento, pretore nel 210 (gens Cincia,
alleata della gens Fabia). Anche egli scrisse in greco.
La prima storia romana scritta in prosa latina è costituita dalle Origines di
Marco Porcio Catone, detto il censore (234-149 a.C.). Catone per la prima
volta si staccò in parte dal ceppo “annalistico”, accorpando per materia parte
della sua storia. Egli può quindi essere considerato il primo vero storico di
Roma.
La seconda annalistica cade nell’età dei Gracchi (133-123 a.C.): i suoi
maggiori esponenti sono Lucio Cassio Emina (gens Cassia), Gneo Gellio,
Lucio Calpurnio Pisone (gens Calpurnia), Caio Sempronio Tuditano (gens
Sempronia). A questi vanno aggiunti lo storico Marco Emilio Scauro (gens
Aemilia), console nel 115, e Lucio Celio Antipatro.
L’ultima annalistica è di età sillana, quando l’esperienza dell’età graccana e quella delle guerre civili in atto (si pensi a Mario e Silla) potevano indurre a considerare gli avvenimenti del passato attraverso la lente delle vicende del loro tempo.
I principali esponenti dell’ultima annalistica furono Quinto Claudio Quadrigario (gens Claudia, antifabiana), Valerio Anziate (gens Valeria), Caio
Licinio Macro (gens Licinia, di origine etrusca), Quinto (o Lucio) Elio Tuberone (gens Aelia). Alcuni di questi annalisti ebbero a disposizione antichi
libri lintei, ossia annali o commentari scritti su lino, materiale scrittorio molto diffuso in antico in tutto il mondo mediterraneo 12.
A questi annalisti si rifanno gli storici di Roma (Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Polibio, etc.) nonchè antiquari, eruditi, e spesso (cosa per
noi importante) gli stessi giuristi, soprattutto attraverso i loro excursus storici (si pensi in particolare a Pomponio e a Gaio).
La commistione, infatti, o l’identità in antico tra fonti attinenti alla storia
politica di Roma e fonti attinenti alla storia giuridica (specie – ma non solo –
12
Sui libri lintei v. Liv. 4.1.12; 20.8; 23.3.
10
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
per il diritto pubblico), non deve farci dimenticare l’importanza delle notizie
tramandate dall’elaborazione più antica, specie allorché il diritto era repositum in penetralibus pontificum 13.
3. Il periodo arcaico del diritto romano
Il periodo arcaico, i cui limiti cronologici abbiamo già individuato, si distingue in una fase monarchica (sostanzialmente la monarchia etrusca) e una
fase repubblicana. La tradizione pone questo passaggio nel 509 a.C., anno
della cacciata di Tarquinio il Superbo, ma in realtà il processo di trasformazione delle strutture costituzionali fu, come sempre avviene nella storia,
molto più lento e graduale. E lo stesso declino della potenza etrusca avvenne
per gradi, e non in un solo momento, come mostrano molti eventi, tra cui la
presenza a Roma di Porsenna, lucumone di Chiusi (città dell’Etruria interna), e probabilmente del suo stesso figlio Arunte.
Res publica etimologicamente significa res populica, ossia res populi 14, in opposizione al regnum, visto ora dall’aristocrazia patrizia come tirannide.
Gli organi costituzionali della fase monarchica sono il rex, che assomma
in sé poteri politici, religiosi e giudiziari, con i suoi ausiliari: i quaestores
parricidii e i duoviri perduellionis, competenti per le inchieste giudiziarie in
materia di parricidio e di attentato alla costituzione (perduellio); i comitia
curiata, vale a dire l’assemblea del popolo riunito in curiae (ogni curia
comprendeva più gentes), e ripartito nelle tre tribù dei Ramnes, dei Tities e
dei Luceres, i cui nomi non sono affatto di origine etnica, al di là di labili e
talvolta assurde etimologie (Varrone riporta una testimonianza del tragediografo etrusco Volnius (Velna), che attesta l’origine etrusca di tutti e tre i nomi); il senato, ossia l’assemblea dei patres, degli esponenti più in vista delle
varie gentes, essendo lo Stato romano arcaico uno Stato gentilizio, dominato
da quei grossi gruppi parentali che erano le gentes patrizie. I senatori furono
in origine in numero di cento, poi il loro numero venne duplicato mediante
13
Liv. 9.46.5.
Publicus (poplicus, nelle fonti più antiche) deriva da populus (populicus) e res
publica da res populi: Cic. de rep. 1.25.39; 1.32.48; 3.31.43; 3.33.45; 3.34.46. V. pure
Pers. 4.1; SHA. vita Hadriani 8.2.
14
IL PERIODO ARCAICO DEL DIRITTO ROMANO
11
l’immissione dei patres minorum gentium 15. La competenza del senato riguardava, oltre la direzione della vita politica dello Stato (che si accentua in
età repubblicana), l’auctoritas senatus e l’istituto dell’interregnum.
In età monarchica il senato appare però più come consilium regis 16 che
come organo depositario della sovranità politica.
L’auctoritas senatus riguardava l’approvazione degli atti delle assemblee
popolari. L’interregnum era la prassi per cui, alla morte del re (ma l’istituto
resta in vita in età repubblicana), auspicia ad patres redeunt 17, ossia il potere (visto ancora in funzione religiosa) torna al Senato vale a dire all’assemblea dei patres, esponenti dell’aristocrazia gentilizia, i quali esercitano a turno, uno o più giorni ciascuno, le funzioni di interrex, fino alla designazione
del nuovo sovrano (in età repubblicana, del nuovo magistrato) 18.
Ma già con la costituzione di Servio Tullio il comizio curiato fu affiancato dal comizio centuriato (comitia centuriata), nel quale tutto il popolo (in
antico il popolo in armi: origine militare del comizio centuriato), patrizi e
plebei, era riunito in 193 centurie; queste ultime erano divise in cinque classi
in base al censo, ossia alla ricchezza dei vari cittadini (costituzione timocratica). La prima classe del censo comprendeva ottanta centurie, il cui voto (uno per centuria), unito a quello delle diciotto centurie di equites (la vecchia
cavalleria aristocratica), dava automaticamente la maggioranza assoluta nell’assemblea. Il comizio centuriato costituì la base dell’ordinamento repubblicano.
La repubblica vide la sostituzione del rex, secondo la tradizione, ad opera
dei due praetores o consules, che a differenza del primo non erano vitalizi,
ma duravano in carica un anno. In realtà il rex venne progressivamente esautorato dei suoi poteri civili e militari, fino a ridursi al rango di rex sacrorum
o rex sacrificulus, cioè di mero sacerdote. È discusso se la collegialità della
suprema magistratura romana sia stata pari sin dalle origini, o la città-Stato
abbia conosciuto un supremo magistrato unico. Una testimonianza di Livio
15
Dion. 3.67.1; 5.13.2; Suet. Oct. 2.1; Liv. 1.35.6; Cic. de rep. 2.20.35; Val. Max.
3.4.2; Flor. epit. 1.5.2; Zonar. 7.8.6; Auct. de vir. ill. 6.6, che attribuiscono il raddoppio
del numero dei senatori a Tarquinio Prisco. Lo attribuiscono invece a Giunio Bruto Tac.
ann. 11.25.2-3; Plut. Popl. 11.2; Serv. ad Aen. 1.426.
16
Cic. de rep. 2.8.14; Tusc. 4.1.1; Liv. 1.9.31 s.; Dion. 2.3; 3.26.32.
17
Cic. de leg. 3.3.8; Brut. 1.5.4.
18
Cic. de rep. 2.12.23; de leg. 3.3.9; Liv. 1.17.5 s.; 3.40.7; Dion. 2.57.1-3; 4.75.1;
Appian. bell. civ. 1.98; Fest. sv. interregnum (L. 98); Plut. Numa 7; Serv. in Verg. Aen.
6.809; Zonar. 7.5.
12
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
parla di una lex vetusta in base alla quale la figura del praetor maximus (che
esclude la collegialità pari per i primordi della repubblica, e che trova riscontro nella koin» etrusco-italica) dominava sugli altri magistrati, ed aveva
il compito (eponimia) di dare il proprio nome all’anno configgendo un chiodo (il clavus annalis) nella parete del tempio della triade capitolina: Giove,
Giunone, Minerva 19. Rito analogo è attestato, in ambiente etrusco, per la città di Norcia. A sua volta il supremo magistrato doveva esercitare poteri politici, civili, giudiziari e militari. Quel che è certo, è che ci troviamo in un
periodo di aspra lotta di classe, conseguente alla cacciata dei Tarquini e al
ripiegamento sulle vecchie forme di attività economica, essenzialmente l’agricoltura e la pastorizia, per la presenza degli Etruschi, pur sempre minacciosa, trans Tiberim. Per questo, in caso di particolare necessità dello Stato
romano, la magistratura collegiale dei consules era sostituita dal dictator o
magister populi (capo della fanteria) che durava in carica sei mesi ed aveva
come ausiliario il magister equitum (capo della cavalleria). Si è ipotizzato
che il carattere straordinario di questa magistratura non sia originario. È
probabile che tale carica risalga ai primissimi anni d’età repubblicana, quando venne attribuito a lui il difficile incarico di guidare Roma nella fase di
passaggio verso la Repubblica. In tal caso vi potrebbe essere coincidenza tra
questa carica e quella del praetor maximus. Soltanto in seguito, quando l’assetto costituzionale era oramai delineato – probabilmente dopo il decemvirato – si sarebbe passati alla nomina dei pretori o consoli. A questa fase si potrebbe far risalire la fine della dittatura come magistratura ordinaria.
Altra magistratura (straordinaria), che prese piede dopo l’età delle dodici
tavole, fu quella dei tribuni militum consulari potestate, ossia dei tribuni militari a cui veniva conferita la potestas consolare, senza che essi fossero consoli. Si trattò di un compromesso tra patriziato e plebe, che consentiva provvisoriamente ai plebei l’accesso ad una suprema magistratura che non fosse
il consolato, il quale restava patrizio, e tale rimase fino al 367 a.C.
Ad eccezione del magister populi, “creato” in età storica dai consoli, e
del magister equitum, designato dal primo, tutte le magistrature romane erano elettive, venivano cioè designate dall’assemblea popolare (comitium). Oltre ai consules, sia pure con istituzione in tempi diversi, altri magistrati repubblicani furono i censores, competenti in materia di cura morum, di censo
e di lectio senatus (scelta dei senatori tra gli ex magistrati), eletti ogni cinque
anni con durata in carica di diciotto mesi. L’istituzione della censura è di età
19
Liv. 7.3.
IL PERIODO ARCAICO DEL DIRITTO ROMANO
13
incerta. Secondo la tradizione essa risalirebbe al 443 a.C., anno di emanazione della lex de censoribus creandis. Si tratta di una magistratura non
permanente, caratterizzata da una collegialità impropria, mancando tra i censores il ius intercessionis. Si ritiene comunemente che si tratti di una magistratura priva di imperium; in caso di inottemperanza alla nota censoria (nel
quadro della cura dei costumi, della cura morum) i censori dovevano far ricorso alla coërcitio dei consoli. Essi avevano però il potere di comminare
multe (multae censoriae).
Altre magistrature erano: gli aediles curules (che vanno distinti dagli edili
plebei, ausiliari dei tribuni della plebe), competenti nella cura urbis (della città, sotto il profilo urbanistico), annonae (dei mercati, con funzioni anche giurisdizionali), ludorum (dei giochi pubblici); i praetores, quando vennero distinti dai consules (367 a.C.: praetor urbanus; 242 a.C.: praetor peregrinus),
che amministravano la giustizia; i quaestores, ausiliari dei consoli e custodi
dell’aerarium (ossia delle casse dello Stato), oltre ad altri magistrati minori.
Accanto a queste magistrature statali (fino al 367 appannaggio, specie le
più importanti, della classe patrizia), vi erano magistrature proprie della plebe, quali i tribuni plebis, istituiti dalla plebe con le leges sacratae di cui parlano le fonti, che con il loro carattere di sacrosancti potevano opporsi (intercessio) agli atti dei magistrati patrizi che danneggiassero la plebe, e i loro
ausiliari, gli edili plebei, che custodivano il tempio di Cerere, Libero e Libera (divinità plebee equivalenti a Demetra, Dioniso e Kore) e le casse della
plebe. Questi magistrati erano eletti dall’assemblea della plebe, i concilia
plebis tributa, in cui la plebe si riuniva in base al distretto territoriale (tribù)
di appartenenza. Le tribù territoriali furono quattro urbane e trentuno rustiche nel 242 a.C., a seguito di uno sviluppo progressivo delle tribù rustiche,
mentre le urbane rimasero sempre ferme a quattro 20 (Suburana, Palatina,
Esquilina, Collina). Le tribù rustiche più antiche portavano tutte nomi di
gentes (Fabia, Valeria, etc.).
A cavallo tra la fine dell’età arcaica e l’inizio dell’età successiva appare
sulla scena una nuova forma di assemblea di tutti i cittadini, il comitium tributum, in cui il popolo era riunito per tribù 21. Questo comizio affiancò quello centuriato ed ebbe, al pari di questo, competenza legislativa ed elettorale.
La seconda era ristretta ai magistrati minori, mentre i magistrati maggiori
20
Liv. 1.43.12; Fest.-Paul. sv. centumviralia iudicia (L. 47); Dion. 4.14.1-2; Varro
l.l. 5.9.56; Fest. sv. urbanas (L. 506); Plin. n.h. 18.3.13; Pap. Ox. 17.2088; Liv. 6.5.8;
7.15.12; 8.17.11; 9.20.6; 10.9.14; per. lb. 19.
21
Liv. 7.16.7; Cic. ad Att. 2.16; Arian. diss. epictet. 3.26.
14
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
erano eletti dai comizi centuriati. La prima lex tributa, votata dal popolo riunito per tribù, fuori del criterio del censo, sarebbe stata la lex Manlia de vicensima manumissionum del 357 a.C., che stabiliva una imposta del cinque
per cento sulla liberazione degli schiavi.
A parte il problema delle leges regiae (provvedimenti emanati dal rex, e
che sarebbero state raccolte da un pontefice Papirio 22 nel corpo del ius Papirianum), della cui natura ancora si discute, fonti del diritto in quest’epoca
furono i mores maiorum (ius Quiritium), le leges publicae populi Romani,
l’interpretatio pontificale 23.
I mores maiorum rappresentavano le vecchie consuetudini, risalenti agli
antenati e circondate da un’aureola di misticismo, in quanto i maiores erano
divinizzati dalla religiosità romana (di parentes).
Le leges publicae populi Romani erano i provvedimenti emanati dai comizi centuriati e dai comizi tributi, da quando questi furono creati 24. Quanto
ai comizi curiati si discute dell’esistenza o meno di altre leges curiatae oltre
la lex curiata de imperio, con la quale veniva conferito il potere di comando
ai supremi magistrati dopo la loro elezione ad opera del comizio centuriato.
Questi comizi intervenivano in alcuni atti che riguardavano il diritto di famiglia e le successioni, come l’adrogatio e il testamentum calatis comitiis.
Accanto alle leges esistevano i plebiscita, provvedimenti emanati dai concilii plebei e vincolanti, fino all’età preclassica, solo per la plebe 25. Momento
importante della legislazione romana fu l’emanazione della legge delle dodici tavole (lex duodecim tabularum) intorno al 450 a.C., sembra ispirata al
diritto greco, e che accoglieva la rivendicazione plebea alla certezza del diritto, prima repositum in penetralibus pontificum, ossia rimesso ai responsa
oracolari (interpretatio) dei pontefici 26. Ma con l’emanazione della legge
22
Sesto Papirio, secondo Pomponio D. 1.2.2.2 (Pomp. lib. sing. enchir.), che lo colloca in età monarchica, all’epoca di Tarquinio il Superbo, indicato per errore come figlio di Demarato di Corinto; Gaio Papirio per Dion. 3.36.4, che lo colloca ai primordi
della Repubblica.
23
Gai. 1.2 ss. riporta anche le fonti del diritto di età repubblicana, ad eccezione dei
mores maiorum. Sull’interpretatio pontificale v. pure Liv. 9.46.5: Civile ius, repositum
in penetralibus pontificum; Val. Max. 2.5.2: Ius civile per multa saecula inter sacra
caerimoniasque deorum inmortalium abditum solisque pontificibus notum; D. 1.2.2.6
(Pomp. lib. sing. enchir.).
24
Gai. 1.3: Lex est quod populus iubet atque constituit.
25
Gai. 1.3: unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri.
26
Vedine la più semplice ricostruzione in FIRA. 1.23 ss.
IL PERIODO PRECLASSICO DEL DIRITTO ROMANO
15
delle dodici tavole non cessò l’attività giurisprudenziale dei pontefici, supremi sacerdoti, i quali, in un mondo come quello arcaico, pervaso di concezioni magico-religiose, continuarono a interpretare non solo i vecchi mores,
ma le stesse nuove leggi, e ad essere i depositari delle formule processuali.
4. Il periodo preclassico del diritto romano
Il periodo preclassico (367-27 a.C.) è quello del pareggiamento politico
tra le classi (con l’ammissione dei plebei al consolato e al godimento dell’ager publicus, finora riservato ai patrizi), della formazione di una nuova
classe dirigente politica, la nobilitas patrizio-plebea, e dell’espansione imperialistica di Roma, con le conseguenti profonde modifiche nell’assetto socioeconomico e politico della civitas (guerre di conquista, latifondo, schiavitù,
commerci, monetazione). Gli organi costituzionali continuarono a ruotare
intorno alla triade senato-assemblee popolari-magistrature; maggiore importanza assunsero il concilio plebeo e la magistratura dei tribuni della plebe,
nata su base rivoluzionaria, ma dopo le leges Liciniae Sextiae progressivamente integrata nel sistema politico-costituzionale cittadino.
Fonti del diritto in quest’epoca, oltre i vecchi mores, furono la lex publica
(legge comiziale), il plebiscito (almeno dal 287 a.C.: lex Hortensia, che equiparò definitivamente i plebisciti alle leggi dopo il più blando intervento
della lex Publilia Philonis del 339 a.C. sulla cui base probabilmente si affermò solo una prassi politico-costituzionale più che una regola giuridica) 27,
i senatus-consulta (pronunce autoritative del senato, organo depositario della
sovranità politica, su proposta dei supremi magistrati) 28, gli editti magistratuali 29 e i responsa prudentium, ossia la giurisprudenza, prima pontificale,
poi laica, almeno sotto il profilo dell’interpretatio 30. Gli editti erano provvedimenti con i quali, all’inizio dell’anno di carica, i magistrati giusdicenti
27
Gai. 1.3: sed postea lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita universum populum tenerent; itaque eo modo legibus exaequata sunt. Sulla lex Hortensia v.
pure D. 1.2.8 (Pomp. lib. sing. enchir.).
28
Gai. 1.4: Senatusconsultum est quod senatus iubet atque constituit. Sul senatoconsulto v. pure D. 1.4.1.1 (Ulp. 1 inst.); Inst. 1.2.5; D. 1.3: de legibus senatusque
consultis et longa consuetudine; CI. 1.16: de senatus consultis.
29
Gai. 1.6. V. pure CI. 1.14: de legibus et constitutionibus principum et edictis.
30
Gai. 1.7.
16
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
enunciavano le regole e i criteri che avrebbero seguito nell’amministrazione
della giustizia (edictum perpetuum). Essi erano fonte di ius honorarium (ab
honore magistratuum dictum). Una lex Cornelia (proposta dal tribuno C.
Cornelio) del 67 a.C. stabilì che l’editto divenisse vincolante per il magistrato, di fronte alla precedente facoltà di discostarsene nel caso concreto (edictum repentinum) 31. Avevano il potere di emanare editti (ius edicendi): a) il
praetor urbanus, istituito nel 367 a.C. col compito di dicere ius inter cives
(giurisdizione limitata ai soli cittadini Romani); b) il praetor peregrinus, istituito nel 242 a.C., alla fine della prima guerra punica e con la conquista
della Sicilia e della Sardegna, col compito di dicere ius inter cives et peregrinos (tra romani e stranieri) o inter peregrinos in urbe Roma (tra stranieri
all’interno della città); c) gli aediles curules, i quali nel contesto della cura
annonae erano competenti a regolare le controversie nascenti nei mercati,
specie per la vendita di beni affetti da vizi occulti (cd. azioni edilizie); d) più
tardi, con la conquista delle province, i governatori di queste (praesides provinciarum), relativamente alla propria circoscrizione 32. Questi editti furono
fonte di ius honorarium, come vedremo 33, contrapposto al vecchio ius civile. I responsa dei prudentes (esperti di diritto) costituiscono la cd. giurisprudenza romana. Questa fu dapprima oracolare e riservata ai pontefici, poi laica, nel quadro di un più generale processo di laicizzazione della società romana.
Un momento fondamentale nel passaggio dalla giurisprudenza pontificale
a quella laica è dato dal pontificato di Tiberio Coruncanio, primo pontefice
massimo plebeo (253 a.C.), il quale iniziò per primo a publice profiteri 34,
ossia a dare risposte (responsa) ai quesiti posti dai cittadini e dai magistrati
giusdicenti non più in forma segreta e oracolare, ma pubblicamente. Già un
colpo al monopolio pontificale del diritto e della giurisprudenza si era avuto
nel 304 a.C., quando Gneo Flavio, liberto e scriba (segretario) del pontefice
Appio Claudio, divulgò (probabilmente su autorizzazione dello stesso Appio) i formulari delle actiones, ossia le formule processuali 35.
Le attività nelle quali si sostanziò l’opera della giurisprudenza romana fu31
Sulla lex Cornelia v. Dio Cass. 36.40.1-2.
Gai. 1.6.
33
Infra, n. 7. Sul ius honorarium v. per ora D. 1.1.7.1 (Papin. 2 definit.); D. 1.1.8
(Marcian. 1 inst.); D. 1.2.2.12 (Pomp. lib. sing. enchir.).
34
D. 1.2.2.35, 37 (Pomp. lib. sing. enchir.).
35
D. 1.2.2.7 (Pomp. lib. sing. enchir.).
32
IL PERIODO CLASSICO DEL DIRITTO ROMANO
17
rono essenzialmente tre: cavere, respondere e agere. Respondere era l’attività di dare responsa, ossia risposte e pareri su quesiti posti dai privati; l’agere
implicava il suggerimento della formula processuale, dello schema adatto
nel caso singolo; cavere (per cui si parla di giurisprudenza cautelare) fu l’attività volta a suggerire come nei casi concreti si potessero adattare i pochi
schemi negoziali dell’antico diritto per il raggiungimento di scopi diversi da
quello originario (adattamento funzionale).
Figure di spicco di giuristi di quest’epoca furono lo stesso Appio Claudio, autore, tra l’altro, di un trattato de usurpationibus 36; Sesto Elio Peto
“Cato”, autore di un’opera detta Tripertita, che probabilmente conteneva il
testo delle dodici tavole, il commento alle stesse e le legis actiones 37. Inoltre
da segnalare, tra i giuristi preclassici, Marco Porcio Catone, censore nel 184
a.C. (il Cato maior ciceroniano); Marco Giunio Bruto (pretore intorno alla
metà del secondo secolo), Manio Manilio (console nel 149 a.C.) e Publio
Mucio Scevola (console nel 133 a.C.), i tre che, a detta di Pomponio, fundaverunt ius civile; il ius civile come scienza, è da intendersi, e come scienza
laica, autonoma dal ius sacrum 38, a mio avviso.
Nell’ultimo secolo, forse quale riflesso dei conflitti politico-sociali e di
fazione, cominciarono ad affermarsi scuole giuridiche contrapposte. In primo luogo l’opposizione tra Muciani, dal giurista Quinto Mucio Scevola
(console nel 95 a.C.), e Serviani, da Servio Sulpicio Rufo, console nel 43,
allievo di Aquilio Gallo, e a sua volta a capo di una scuola di auditores Servi
(tra cui spicca la figura di Alfeno Varo).
Nello scorcio della repubblica rilevante fu la figura del giurista Caio Trebazio Testa, consigliere di Augusto e maestro di Labeone.
5. Il periodo classico del diritto romano
Il periodo classico inizia nel 27 a.C. con l’assunzione da parte di Augusto
dei poteri costituzionali di princeps, ossia la tribunicia potestas, in base alla
quale egli poteva interporre l’intercessio (veto) agli atti dei magistrati, come
i tribuni della plebe, senza subirla a sua volta, e l’imperium proconsulare
36
D. 1.2.2.7 (Pomp. lib. sing. enchir.).
D. 1.2.2.38 (Pomp. lib. sing. enchir.).
38
D. 1.2.2.39 (Pomp. lib. sing. enchir.).
37
18
IL DIRITTO ROMANO E I SUOI PERIODI. LE PARTIZIONI
maius et infinitum, ossia il potere di comando su tutte le province imperiali,
mentre il potere dei singoli proconsoli (consoli usciti di carica cui veniva
prorogato l’imperium) e dei singoli propretori riguardava una sola provincia.
A questo riguardo va detto che le province romane si distinguevano in province senatorie e province imperiali: le prime sotto il controllo politico del
senato, e amministrate da promagistrati (per lo più proconsoli); le seconde
sotto il diretto controllo del princeps, e amministrate da legati Caesaris pro
praetore. L’imperatore in genere riservava alla sua amministrazione le province militarmente strategiche e quelle più importanti sotto il profilo economico: ad esempio, l’Egitto, che fu a lungo il granaio di Roma (e non solo
questo).
Questo periodo termina, come abbiamo visto, con l’abdicatio di Diocleziano (305 d.C.), l’ultimo difensore della classicità del diritto.
Soprattutto nella prima fase (principatus) con Augusto e i suoi successori
(Tiberio, etc.), gli organi costituzionali repubblicani (senato, comizi, magistrature) rimasero in vita, ma subirono fortemente il potere (l’auctoritas) del
princeps, tanto che si è parlato – ma a mio avviso a torto – di un protettorato
del principe nei confronti della repubblica e dei suoi organi. In realtà il principato mise in moto dei meccanismi di esautorazione dei poteri repubblicani,
che gradualmente portarono alla seconda fase dell’impero, il dominatus, o
monarchia assoluta. In questa fase giunse a compimento anche un’evoluzione nel sistema delle fonti di produzione del diritto, che sarà enunciata, in
maniera semplificata, nel motto: quod principi placuit legis habet vigorem 39.
Le fonti del diritto rimasero quelle del periodo precedente, ma in progressivo declino: leggi, plebisciti, senatoconsulti, editti magistratuali, responsa
dei prudentes (giurisperiti) 40. Ad esempio, i senatoconsulti venivano richiesti o proposti, oltre che dai magistrati maggiori, anche dal princeps, attraverso una oratio in senatu: ebbene, man mano che la dialettica senatus-princeps
ridondò a favore di quest’ultimo, si parlò, anziché di senatus consultum, direttamente di oratio principis come fonte di diritto: quella del senato finì per
trasformarsi in una mera ratifica. Sul piano politico, poi, si ebbe un’ascesa
dei militari, che avevano un rapporto diretto col capo (imperator), e in epoca
più avanzata finirono talvolta per imporre dei principes allo stesso senato: a
questo proposito si parla talvolta di anarchia militare.
39
40
Inst. 1.2.6; D. 1.4.1 pr. (Ulp. 1 inst.).
Gai. 1.2-7.