LUISS Guido Carli
Dipartimento di Scienze Giuridiche – Facoltà di Giurisprudenza
Via Parenzo, 11 - tel. 06/85225.810
OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Seminario su:
I DIRITTI FONDAMENTALI E LE CORTI IN EUROPA
Incontro del 3 giugno 2005 sul tema
“La Corte europea dei diritti dell'uomo e i diritti nazionali”
(introdotto dal Giudice Vladimiro Zagrebelsky)
Resoconto redatto dalla Dott. Andrea De Petris
Bollettino n. 6/2005
Il calendario ed i resoconti degli incontri dell’Osservatorio Costituzionale, assieme ad altra documentazione,
sono reperibili sul sito Internet dell’Università Luiss Guido Carli (http://www.luiss.it/semcost/index.html)
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Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (2001-2003)
Vladimiro Zagrebelsky ringrazia dell’invito, che gli da modo di trattare un tema importante
per la Corte di Strasburgo, e che – come si vedrà nel corso dell’introduzione – è di particolare
rilevanza soprattutto in Italia. Da un lato verrà presa in considerazione in questa sede la
Convenzione come trattato internazionale - con la Corte Europea di Strasburgo in veste di
organismo giudiziario nel sistema della Convenzione -, e dall’altro i diritti nazionali interni,
dotati di una loro strutturazione alquanto complessa, non soltanto sul piano giudiziario. Le
Corti costituzionali nazionali hanno a disposizione le rispettive Costituzioni le quali, magari
con formulazioni differenti, ma con contenuti sostanzialmente simili, prevedono un catalogo
analogo dei diritti della Convenzione. Tra questi due ambiti possono crearsi dunque problemi
di concorrenza, differenziazione e sovrapposizione, cosicché a volte essi convivono con
difficoltà.
Cos’è la Convenzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, emanata nel 1950 ed
introdotta nell’ordinamento italiano nel 1955? Nel caso Mamatkulov contro Turchia, una
importante sentenza di Grande Chambre, la Corte ha recentemente ribadito un elemento
fondamentale nella struttura della Convenzione sia il ricorso dell’individuo contro uno o più
Stati per violazioni dei diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa. La Corte definisce il
ricorso individuale come “uno dei pilastri essenziali del sistema europeo di tutela dei diritti
fondamentali: (…) la Corte deve tener conto del carattere singolare della Convenzione,
trattato di garanzia collettiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. A differenza
dei trattati internazionali di tipo classico, la Convenzione va oltre il quadro della semplice
reciprocità tra gli Stati contraenti. Oltre alla rete di obbligazioni sinallagmatiche bilaterali,
essa crea delle obbligazioni oggettive, che a termine del suo preambolo beneficiano di una
garanzia collettiva”. Si afferma dunque la natura oggettiva del sistema: ciò era stato già detto
in qualche misura nella decisione della Commissione di ricevibilità del ricorso dell’Austria
contro l’Italia, con una decisione del 1961, quindi agli inizi dell’attività del sistema della
Convenzione: in quella occasione si era detto che gli Stati non avevano inteso concedersi
delle obbligazioni e dei diritti reciproci, ma che gli obblighi assunti dagli Stati contraenti nella
Convenzione hanno essenzialmente un carattere oggettivo per il fatto che tendono a
proteggere i diritti fondamentali degli individui contro le violazioni degli Stati contraenti,
piuttosto che a creare diritti soggettivi reciproci di questi ultimi. Un ulteriore argomento
spesso utilizzato è quello per cui, soprattutto trattando e descrivendo quella parte del sistema
quantitativamente marginale ma molto importante che è il ricorso di uno o più Stati contro un
altro, questi non fanno valere interessi propri – tanto che in un ricorso possono non essere
coinvolti i cittadini dello Stato ricorrente o chiamati in causa interessi di cui esso sia
portatore: è il caso classico del ricorso dell’Olanda e di altri Paesi contro la Grecia dei
Colonnelli, nel quale i Paesi Bassi hanno fatto valere il sistema oggettivo della Convenzione.
Tutto questo differenzia profondamente la Convenzione dai trattati internazionali classici. Il
sistema in questione è stato considerato come uno strumento costituzionale dell’ordine
pubblico europeo, da cui dipende la stabilità democratica del continente: è questa la formula
recentemente utilizzata da una dichiarazione del Comitato dei Ministri del Consiglio
d’Europa, che ha così qualificato la Convenzione, riprendendo formule presenti anche nella
giurisprudenza della Corte. Questa formula, “ordine pubblico europeo”, meriterebbe di essere
di per sé oggetto di una discussione, che forse porterebbe molto lontano dalle nozioni interne
di ordine pubblico, ma che probabilmente non condurrebbe a grandi conclusioni quanto a
concrete modalità di funzionamento del sistema: l’impressione è che essa non sia d’aiuto
nell’identificazione di nuovi diritti, ma che serva soprattutto alla Corte per collocare e
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qualificare sé stessa nel sistema. A parte questo, però, il punto è che il sistema della
Convenzione introduce una garanzia oggettiva: gli Stati non agiscono in quanto sono
interessati di volta in volta a far valere uno dei diritti, ma in quanto tutti insieme – e questo è
chiaro nel preambolo della Convenzione – hanno ritenuto che la tutela dei diritti
fondamentali, quelli del catalogo iniziale più i protocolli che nel tempo lo hanno integrato, è
condizione per il mantenimento della pace nel continente europeo ed è espressione dei valori
comuni. Naturalmente la comunanza di valori fondamentali non era attuale nel 1949-50, né
nel 1989-91, ai tempi del grande allargamento successivo alla caduta del sistema sovietico.
Gli Stati contraenti della Convenzione non condividevano storicamente valori e tradizioni
costituzionali, di rispetto della libertà e della democrazia: si diceva che tutto questo c’era per
affermare, in realtà, che si stava lavorando per crearlo. E’ quanto accaduto recentemente con
l’allargamento massiccio del Consiglio d’Europa e dunque della competenza della Corte,
provocando problemi non irrilevanti, in quanto sono entrati nel sistema Stati che non hanno
queste tradizioni, alla cui costruzione si sta appunto lavorando.
Accanto a questa natura della Convenzione e dei diritti ivi elencati, altro punto fondamentale
del sistema giudiziario di tutela dei diritti è il ruolo sussidiario della Corte: con ciò s’intende
non tanto che la Corte fa un passo indietro, o è posta nel sistema in posizione defilata rispetto
agli Stati, quanto che gli Stati ed il loro sistema interno, in particolare quello giudiziario, sono
chiamati ad esercitare per primi in modo efficace la tutela dei diritti riconosciuti dagli Stati
contraenti ed elencati nella Convenzione. Non si tratta di un ridimensionamento del sistema
giudiziario europeo, quanto piuttosto di una chiamata alla responsabilità degli Stati contraenti.
Infatti, mentre si dice che l’individuo che ricorre alla Corte per violazione di uno dei diritti
della Convenzione vedrà dichiarato irricevibile il suo ricorso ove non abbia esaurito le vie
giudiziarie interne, si afferma contemporaneamente all’art. 13 della Convenzione che gli Stati
sono obbligati ad introdurre nel loro sistema interno un ricorso efficace. Il che significa che i
primi applicatori e difensori dei diritti della Convenzione sono le autorità pubbliche, in
particolare quelle giudiziarie, negli Stati membri. Se gli Stati fossero tutti in grado di tutelare
pienamente e con buona volontà i diritti della Convenzione, l’intervento della Corte si
rivelerebbe in fondo marginale, o addirittura inesistente, o comunque finirebbe per colpire
situazioni assolutamente eccezionali. Non è così nella realtà, per una serie di motivi derivanti
in parte dalle condizioni dei sistemi di alcuni Stati, in parte dalle difficoltà di carattere politico
di gestire alcune violazioni massicce di diritti fondamentali, come ad es. in Turchia quanto
meno fino agli ultimi anni, in relazione al conflitto interno con la popolazione curda. Diverso
è il caso di violazioni come quelle relative alla tutela del diritto di proprietà nella transizione
dai sistemi collettivi a quelli di mercato libero, che riconoscono la proprietà privata: un
fenomeno storico, a cui se ne aggiunge un altro di segno contrario, con problemi di tutela dei
diritti di chi legittimamente o in buona fede ha usufruito del sistema precedente, e che si vede
espropriato senza ricevere grandi indennizzi da coloro che rivendicano un diritto nell’ottica
sia del sistema precedente che di quello nuovo ora in vigore. Problemi in ordine ai quali la
Corte qualche volta fa un passo indietro, riconoscendo un largo margine di apprezzamento
agli Stati. Il discorso relativo alla sussidiarietà, secondo il quale è negli Stati che si tutelano in
primo luogo questi diritti, è teoricamente molto semplice, ma nella realtà soffre di grosse
difficoltà.
Si tratta di vedere che cosa accada negli apparati interni di tutela dei diritti quando nei sistemi
giuridici, in particolare in quello italiano, vengono introdotti corpi di norme e di
giurisprudenza esterni rispetto al sistema nazionale. In Italia la questione è particolarmente
dolente, sia da un punto di vista dei principi che nella pratica attuazione, mentre altrove certi
sistemi normativi che hanno risolto più efficacemente il problema: è il caso della Francia,
dove, accanto alla Dichiarazione del 1789 nel preambolo della Costituzione la Convenzione,
pur non essendo costituzionalizzata, si trova un gradino sopra la legislazione ordinaria. E’
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capitato che la Cassazione francese disapplicasse direttamente senza grosse difficoltà la
normativa interna in contrasto con la Convenzione. E’ quanto accaduto quando è stata
disapplicata la normativa interna sul divieto di pubblicare l’esito di sondaggi elettorali nei
dieci giorni antecedenti le elezioni, ritenendo ciò in contrapposizione con l’articolo 11 della
Convenzione che tutela la libertà di manifestazione del pensiero (in realtà si sarebbe potuto
forse bilanciare diversamente la questione tenendo in considerazione altre esigenze). La legge
è stata poi cambiata limitando il divieto in oggetto alle 48 ore precedenti alla consultazione
elettorale.
Alcuni sistemi presentano al loro interno questa facilità normativa per il funzionamento della
Convenzione. Altri offrono quanto meno una prassi ampiamente acquisita delle Corti interne
di argomentare tenendo conto sia della Convenzione che della giurisprudenza di Strasburgo.
Si vedono molto spesso le Corti supreme nazionali, come recentemente la Corte danese in un
caso relativo alla libera manifestazione del pensiero, operare sulla base di argomentazioni
tutte incentrate sui precedenti di Strasburgo. E’ poi accaduto che l’esito del procedimento
danese non abbia soddisfatto il giornalista che aveva pubblicato certe notizie, e il suo ricorso
alla Corte di Strasburgo sosteneva che la Corte danese non avesse propriamente compreso la
giurisprudenza stessa di Strasburgo. Nel caso in esame, quindi le due Corti parlavano delle
stesse cose con lo stesso linguaggio, anche se nel caso specifico sono giunte a conclusioni
diverse (Pedersen c. Danimarca).
Non è però il caso della situazione italiana. E’ noto come ormai la Corte costituzionale abbia
ritenuto che né l’art. 2, né l’art. 10, né l’art. 11 della Costituzione permettano di assegnare alla
Convenzione o al catalogo dei diritti della stessa uno status costituzionale: tuttavia, nella
sentenza 10/1993 la Corte ha qualificato la Convenzione ed il Patto internazionale dei diritti
civili e politici come norme derivanti da una fonte riconducibile ad una competenza atipica, e
come tale non abrogabile o modificabile da disposizioni di legge ordinaria, senza diffondersi
in motivazione, né indicare le conseguenze. La Corte non ha spiegato nell’occasione se la
ragione vada ravvisata nel contenuto di questi atti, cioé nel fatto che si tratti di diritti umani;
ove avesse ritenuto ciò, allora sarebbe stato sufficiente l’art. 2 per affermare la
costituzionalizzazione. Probabilmente la Corte Costituzionale ha fatto riferimento alla dottrina
Conforti, sostenuta per certi versi anche da Paladin, secondo cui quando esiste un trattato
internazionale, a prescindere dal suo oggetto, la legge di ratifica presenta in realtà due
contenuti, due volontà espresse dal legislatore: una si riferisce al tipo di disciplina che certi
rapporti ottengono con quel trattato, l’altra – che rende atipica la fonte in questione – è la
volontà che gli obblighi internazionali assunti dai Governi siano rispettati nell’ambito dei
sistemi interni. Questo spiegherebbe dunque la atipicità di queste leggi ordinarie di ratifica e
la loro resistenza quanto meno rispetto ad abrogazioni tacite o non esplicite da parte di altre
leggi ordinarie, allo stesso livello nella gerarchia delle fonti. A parte cio’, poichè comunque la
Corte non ha ritenuto necessario nell’occasione spiegare la propria posizione, restano ad ogni
modo delle domande insolute: se si tratta di una fonte atipica, se non può essere modificata da
altra legge ordinaria, allora quando il contrasto si verifica, cosa succede? I giudici
disapplicano la normativa ordinaria diversa da quella della Convenzione? Secondo
Zagrebelsky, dall’obbligo di tenere conto del fatto che le norme della Convenzione sono
qualcosa di più rigido e resistente delle altre, si potrebbe tranquillamente trarre che, almeno
sul piano della interpretazione sistematica, occorra adottare l’interpretazione adeguatrice della
normativa interna rispetto alla Convenzione. Quando cio’ pero’ si verifica, rarissimamente
viene esplicitato che si tratta di un riferimento alla Convenzione, mentre l’impressione è che
in realtà si adotti una interpretazione adeguatrice rispetto alla Costituzione nazionale e alla
giurisprudenza della Corte costituzionale. Dal momento che in Italia la tutela dei diritti anche
per effetto della stessa giurisprudenza costituzionale è di alto livello, si arriva comunque ad
un risultato accettabile. Va peraltro segnalato che, seppure è possibile dire che in linea di
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massima i risultati rispetto all’interpretazione costituzionale della normativa interna sono
accettabili, qualche volta persino più avanzati rispetto alla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo (che assicura il livello minimo europeo), non si può escludere che vi siano
situazioni in cui le due possibili interpretazioni adeguatrici siano in conflitto. Recentemente,
nel caso Von Hannover contro Germania, dove c’era da bilanciare il diritto al rispetto della
vita privata ed il diritto alla libera manifestazione del pensiero (nella fattispecie relativa alla
pubblicazione di fotografie della ricorrente e dunque all’attività del giornalista), il Tribunale
Costituzionale federale tedesco, che aveva deciso lo stesso caso, ha dato la prevalenza alla
libera manifestazione del pensiero del giornalista, mentre la Corte di Strasburgo ha preferito
favorire la protezione della vita privata. Si tratta di un esempio in cui sul piano
dell’interpretazione adeguatrice possono ipotizzarsi dei risultati confliggenti.
Un’altra sentenza importante della Corte costituzionale italiana è la 388 del 1999, in cui nella
motivazione si legge che “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o
regionali, come quella europea, trovano riconoscimento nell’art. 2 della Costituzione”, e sono
di “grande importanza, sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea, anche perché al
di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si
integrano, completandosi reciprocamente, nella interpretazione”. A giudizio di Zagrebelsky,
la Corte dovrebbe tuttavia dire qualcosa di più chiaro: cosa vuol dire, infatti, la formula “al di
là della coincidenza dei cataloghi”? In verità, tale coincidenza può non esserci, ed infatti non
c’è: lo stesso diritto di proprietà, ad es., nell’espressione letterale della Convenzione (più che
nella relativa giurisprudenza) è molto più rigido e indirizzato alla tutela dell’individuo che
non le formule che usa la Carta costituzionale italiana nel delineare i limiti e le funzioni della
proprietà. Come detto, comunque la sentenza n.388 prosegue affermando che “le diverse
formule che li esprimono si integrano, completandosi a vicenda nell’interpretazione”. Ciò
dovrebbe significare che la diversità di livello nella gerarchia delle fonti forse non scompare,
ma certamente perde di importanza, in quanto se si insiste nel diverso rango delle norme
costituzionali e delle norme ordinarie della Convenzione, allora non si può prospettare una
integrazione reciproca: è la Costituzione che si impone sul piano dell’interpretazione della
normativa ordinaria, e non anche viceversa. Invece, nella formula citata le norme in questione
sembrano poste sullo stesso piano, e tutte insieme forniscono, per così dire, l’indicazione
dello stato della cultura e del diritto in questa materia. Anche su questo c’è da chiedersi se
basti che la Corte italiana affermi quanto ora ricordato.
Questa dubbia collocazione della Convenzione ha come conseguenza una incertissima
giurisprudenza ordinaria, a cominciare da quella della Corte di Cassazione. C’è una varietà
straordinaria di posizioni nella giurisprudenza ordinaria italiana sul punto in oggetto: si passa
dalla disapplicazione pura e semplice della normativa interna – come hanno fatto la Corte
d’Appello di Genova e di Roma, ad es., in materie tanto particolari quanto opinabili -, a
posizioni come quella della Corte di Cassazione, la quale continua a sostenere che l’art. 5 par.
4 della Convenzione, che dà diritto a essere rapidamente giudicati o scarcerati, non è
applicabile in quanto norma programmatica non self-executing. Le conseguenze di tali
posizioni non sono comunque sempre drammatiche, in quanto spesso il dispositivo della
decisione della Corte di Cassazione potrebbe venire motivato diversamente e rimanere lo
stesso. Ma la motivazione è comunque molto importante, e qui abbiamo una reiterata ed
espressa dichiarazione di inapplicabilità di una norma per altro fondamentale all’interno della
Convenzione. Recentemente, la Corte di Strasburgo (Ospina Vargas c. Italia) ha affermato che
il ricorso per Cassazione in materia di libertà – nella fattispecie in merito alla durata della
custodia cautelare – non è ricorso efficace ai fini della Convenzione, proprio perché i supremi
giudici italiani dichiarano di non poterla applicare. Non essendo un ricorso efficace per la
Corte di Strasburgo esso non è nemmeno un ricorso da esaurire prima di adire questa ultima:
affermazione gravissima nell’economia del sistema costituzionale italiano, che avrebbe
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dovuto determinare scandalo, essendo la Cassazione l’organo di massima e finale tutela
rispetto alle sentenze ed ai provvedimenti relativi alla libertà personale. In un altro campo,
quello della annosa questione della cosiddetta espropriazione indiretta - istituto creato in via
giurisprudenziale per disciplinare le violazioni del diritto di proprietà in caso di
espropriazione - la Cassazione continua ad es. a sostenere la conformità di quella
giurisprudenza alla Convenzione, quando decine di sentenze della Corte di Strasburgo
sostengono il contrario, cioé che tale giurisprudenza non esclude la violazione dell’artricolo 1,
Prot.1 della Convenzione. Talvolta, quindi, si verifica o una esplicita contrapposizione con la
giurisprudenza di Strasburgo, o addirittura un rifiuto di applicare una norma chiave della
Convenzione. Le stesse sezioni penali della Cassazione nel 1988 e nel 1994, in sentenze
molto importanti come Polo Castro e Medrano, avevano invece dato diretta applicazione della
Convenzione, esprimendo anche delle dichiarazioni di principio che sembravano coprirla per
intero, e proclamandone la diretta applicabilità. Si avverte dunque un grande sconcerto
giurisprudenziale in una materia in cui occorrerebbe assicurare la massima certezza e stabilità:
in un ambito del genere la sicurezza, la prevedibilità e la stabilità dovrebbero rappresentare
valori preminenti. Recentemente, invece, in sentenze molto interessanti sull’applicazione
della cosiddetta Legge Pinto, che ha introdotto nel sistema nazionale la possibilità di un
ricorso per riparare la violazione del diritto alla ragionevole durata dei procedimenti, la
Cassazione ha dato una risposta che riflette pienamente le attese del sistema della
Convenzione in merito all’applicazione del diritto interno in sintonia con la Convenzione, ma
sul punto dello status della Convenzione essa afferma espressamente che non è necessario
affrontare il tema citato: ciò sta ad indicare una incertezza molto forte sull’argomento, che
invece meriterebbe di essere finalmente superata.
Come farlo? Certamente, ci sono delle novità forti rispetto agli anni in cui la Corte
costituzionale italiana ha disegnato il sistema descritto, secondo Zagrebelsky insufficiente. Il
nuovo art. 117 della Costituzione, a meno che tra qualche mese non venga ulteriormente
modificato, prevede che la legislazione regionale e nazionale debbano essere conformi ai
vincoli derivanti sia dall’ordinamento comunitario che da quelli internazionali, e dunque
anche alla Convenzione: questo costituisce una novità assoluta rispetto alle sentenze
costituzionali italiane citate in precedenza. C’è poi la Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione, anche se dotata di uno status abbastanza indefinito. Ad ogni modo, la Carta
esiste e contiene delle norme di raccordo con la CEDU, nel senso che si afferma che dove è
previsto lo stesso diritto, il suo contenuto è quello della Convenzione; addirittura, nel
preambolo della Carta dei diritti si fa riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo
come fonte a cui bisogna raccordarsi. Anche il Trattato istituivo della Costituzione Europea
riprende nella parte II la Carta dei diritti fondamentali, finalmente assegnandole un valore
costituzionale. C’è comunque una giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia che da
molti anni, afferma che i diritti della Convenzione fanno parte dei principi fondamentali del
diritto comunitario. E da Maastricht in poi cio’ è scritto nei Trattati. Si potrebbe ipotizzare
oggi che la Convenzione e la relativa giurisprudenza fanno parte del diritto comunitario (che
copre ormai campi vastissimi). La disciplina che la Corte costituzionale da tempo ha
compiutamente assegnato al diritto comunitario direttamente applicabile e sovraordinato
rispetto alla legge nazionale, potrebbe essere il riferimento per definire lo status della
Convenzione.
Se avvenisse questo, se si dicesse cioè da parte della Corte costituzionale che il diritto della
Convenzione è direttamente applicabile al pari del diritto comunitario, la cosa farebbe
certamente molto piacere alle istituzioni di Strasburgo, ma probabilmente sorgerebbero dei
problemi. In primo luogo, la stessa soluzione che la Corte costituzionale diede nel 1984,
molto abile ed equilibrata per l’epoca, e cioè di tenere fuori dal sistema normativo nazionale
l’apparato normativo comunitario, sostenendone la diretta applicazione con disapplicazione
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della normativa interna se in contrasto con esso, ma senza per questo sostenere l’esistenza di
un unico corpo di norme con gerarchia interna, ha risolto il problema politico nei confronti
della intergrazione comunitaria (ed anche quello dei rapporti tra le due Corti, perché se
ciascuna è sovrana nel suo ambito non si pone un problema di primazia ed il conflitto non è
ipotizzabile).
Tuttavia, dal 1984 in poi le materie di cui le Comunità si occupavano rispetto alle competenze
attuali dell’Unione sono enormemente aumentate: è difficile immaginare un confine, una
convivenza non conflittuale tra questi due ambiti. Soprattutto, la materia dei diritti
fondamentali è per sua natura pervasiva, non tollera steccati, tali che fino ad un certo limite ci
si troverebbe in ambito comunitario, ed oltre in quello nazionale, con conseguente ripartizione
di competenze tra la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale.
In secondo luogo, in merito alla diretta applicazione della Convenzione e della giurisprudenza
che la Corte di Strasburgo ha elaborato, Zagrebelsky ritiene che occorra tener conto di una
caratteristica del sistema giudiziario italiano che lo distingue dagli altri sistemi giudiziari
europei, vale a dire una netta strutturazione in termini di “potere diffuso”. Tutto il potere
giurisdizionale è cioè in mano al giudice che decide la causa, con scarsissima influenza del
precedente, persino di quello della Cassazione: dunque, un’enorme peso del singolo giudice
che ha in mano una causa. Ciò rappresenta un aspetto che ha effetti positivi, ma allo stesso
tempo favorisce la disgregazione degli orientamenti giurisprudenziali, cosi’ ponendo un
problema grave dal punto di vista della Convenzione. Essa infatti, ha come fondamento la
nozione di Stato di diritto e di preminenza della legge: legge non come atto dotato di certe
caratteristiche formali, ma come atto caratterizzato, sul piano sostanziale, da conoscibilità e
prevedibilità dell’applicazione che delle disposizioni normative faranno le autorità nazionali,
in modo da evitare sorprese per i cittadini, abusi e crisi della sicurezza giuridica degli
individui. In questa materia dei diritti fondamentali incertezze, sbandamenti, oscillazioni
legate alla persona del singolo giudice difficilmente potrebbero essere considerate un dato
positivo.
In terzo luogo, si ha l’impressione che il sistema della tutela dei diritti fondamentali a livello
costituzionale e comunque nell’ambito della normativa interna, a livello comunitario - sia
pure senza ricorso diretto, per il modo in cui è disciplinato nel diritto comunitario l’intervento
della Corte di Giustizia Europea-, e a livello di Consiglio d’Europa con la Corte di
Strasburgo, richieda uno studio ed una soluzione, eventualmente a livello legislativo, a
carattere sistematico e complessivo. Se si scegliesse di ammettere l’applicazione della
Convenzione europea direttamente da parte di ciascun giudice, il quale disapplicherebbe la
normativa interna quando la ritenesse in conflitto con la Convenzione, si introdurrebbe un
sistema di applicazione diffusa con riferimento al solo caso sub judice, che dovrebbe
convivere con quello della eccezione di costituzionalità, che porterebbe la questione davanti
alla Corte costituzionale. Occorre in proposito tener presente che normalmente il diritto
fondamentale di riferimento è tutelato allo stesso tempo sia dalla Convenzione, che dalla
Costituzione. A parere di Zagrebelsky le due vie non potrebbero convivere senza problemi, né
la soluzione di lasciare al giudice la scelta di seguire l’una o l’altra è priva di
controindicazioni.
Relativamente al valore della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che spesso viene
chiamata in causa accanto alla Convenzione, è bene sottolineare come nella visione che la
Corte di Strasburgo ha della propria attività, esso deriva dalla norma della Convenzione che le
assegna tutte le questioni attinenti all’interpretazione della Convenzione (articolo 32). La
Convenzione é un catalogo molto generico, con enunciazioni molto ampie e generali. Essa
risale inoltre al 1950. Sulla base delle enunciazioni convenzionali è stata elaborata una massa
enorme di decisioni della Corte, che oggi esprime il contenuto effettivo delle previsioni della
Convenzione. Lo sviluppo della giurisprudenza della Corte è avvenuto nel quadro di un
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sistema di precedente vincolante per la Corte. Un precedente giurisprudenziale viene superato
dalla Corte con meccanismi molto pesanti e garantiti, al fine di rendere la Corte pienamente
consapevole del mutamento del proprio orientamento, quando esso si verifica. I precedenti
giurisprudenziali rappresentano quindi la indicazione del futuro orientamento della Corte.
Con le proprie decisioni la Corte annuncia il diritto per il futuro riguardo alla Convenzione: si
tratta di un metodo casistico che accumula precedenti vincolanti e cosi’ definisce/crea il
diritto. Secondo una celebre formula del Giudice Holmes, “il diritto è ciò che diranno i
giudici”. La Corte in questo senso promette che dirà in futuro cio’ che ha detto in passato.
Dunque la Convenzione è i precedenti della Corte, come si vede bene sia nell’argomentazione
delle sentenze della Corte, sia nell’argomentazione di quei giudici nazionali che alla
giurisprudenza della Corte fanno riferimento. Non è tutto: in un caso molto grave, Irlanda
contro Regno Unito del 1978, riguardante la condizioni di certi detenuti in Irlanda del Nord,
la Corte ha detto che anche quando la controversia specifica dell’individuo o dello Stato
ricorrente si sia risolta in quanto lo Stato convenuto in giudizio ha modificato la propria
normativa – come aveva fatto il Regno Unito nel caso di specie – risolvendo la vicenda anche
con gli indennizzi possibili ed utili ad acquietare le vittime, ove sia utile per segnare,
insegnare o designare per gli altri Stati quali sia il contenuto della Convenzione, la Corte puo’
comunque rifiutare di cancellare la causa da ruolo ed invece pronunciare sentenza. Per la
Corte di Strasburgo (ma non per tutte le Corti nazionali) la Convenzione è ciò che la Corte
dice e ha detto nell’interpretarla, sia pure con il continuo cauto, ma necessario adeguamento al
mutare della realtà in cui la Convenzione opera.
Ricordando infine come con la sentenza 30 settembre 2003 nella causa C-224/01 la Corte
Europea di Giustizia, sviluppando la dottrina della sentenza Francovich abbia sostenuto
chiaramente che le decisioni dell’ordine giudiziario esprimono la posizione dello Stato e
quindi la sua responsabilità, Zagrebelsky conclude affermando che se i Giudici nazionali non
seguono la giurisprudenza della Corte, che conoscono e che sanno che troverà ulteriore
applicazione, essi espongono a condanne lo Stato che, attraverso l’art. 1 della Convenzione ha
preso l’impegno di non violarla, accettando la giurisdizione della Corte.
Nazzareno PIETRONI, avvocato della Camera dei Deputati, ricorda in primo luogo come la
Camera dei Deputati abbia recentemente redatto un quaderno che riporta la sintesi delle
sentenze della Corte EDU che hanno interessato in particolare lo Stato italiano. Per quanto
riguarda il dibattito, fa invece presente come sia stata approvata da poco in seconda e terza
Commissione una risoluzione nella quale il Governo viene impegnato ad adottare misure
anche di carattere normativo finalizzate a dare attuazione alle sentenze della Corte di
Strasburgo, nonché come sia stata presentata una proposta di legge coerente con questa
risoluzione, mirante a introdurre nell’ordinamento italiano delle misure applicative delle
sentenze della Corte EDU. In buona sostanza, attraverso questi due provvedimenti si sta
cercando di dare una strumentazione concreta a quella che appare essere una volontà politica
trasversale a tutte le forse in campo, ovvero di approntare gli strumenti appropriati per un più
efficace adeguamento del nostro ordinamento e delle azioni amministrative alle sentenze della
Corte EDU.
Silvia NICCOLAI ritorna sulla questione della rilevanza del precedente nell’operato della
Corte di Strasburgo, che sembra legarsi all’attenzione che la Corte mostra nei confronti dello
Stato di diritto, dunque della certezza e della legalità della e nella giurisprudenza. D’altra
parte, quando si leggono alcune sentenze della Corte, come quella recente sul caso Turchia e
velo islamico, alcune interpretazioni ne hanno tratto la conclusione che la Corte presti molta
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attenzione al contesto in cui certi problemi si declinano. Nel caso Turchia la Corte si sarebbe
dimostrata particolarmente sensibile ad istanze che andavano nel senso di convalidare certi
divieti, che magari in un contesto diverso potevano essere valutate differentemente, in un
senso più vicino ad aspetti di tutela della libertà personale, o di svolgimento della personalità
connessi a certi comportamenti. Ciò conduce anche al tema della discrezionalità degli Stati
nel valutare attraverso le loro politiche i loro contesti peculiari: tuttavia, vale la pena
chiedersi, se è vero che c’è una attenzione al contesto storico e politico, come tutto questo
conviva con l’attenzione al precedente.
Vladimiro ZAGREBELSKY osserva in primo luogo che la citata sentenza sul velo islamico
in Turchia non è definitiva, in quanto c’è già in preparazione una sentenza di Grande
Chambre sul ricorso presentata contro la sentenza della Camera. Certamente, è un caso in cui
si mette a dura prova la questione del precedente: la difficoltà, ma anche l’interesse di essere
giudice in quella Corte è in fondo proprio questa. Da un lato infatti c’è una massa di casi
ripetitivi o quasi, nei quali il valore del precedente è prevalente o pressoché automatico e nel
complesso esprime un valore che può considerarsi positivo. Altre volte, come nel caso
chiamato in causa, i precedenti, benché citati – in quanto c’è sempre un apparato
argomentativo che fa riferimento alla casistica antecedente – non possono assumere un ruolo
da solo decisivo nel giudizio. Nella fattispecie, si trattava di un caso nuovo (perché le
controversie precedenti relative al velo islamico riguardavano ad es. delle insegnanti, come in
un ricorso contro la Svizzera), riguardante una studentessa di medicina dell’università di
Istanbul che faceva valere tre diritti: il diritto alla vita privata, il diritto alla manifestazione
della propria appartenenza religiosa ed il diritto all’istruzione. La Corte nella sua prima
sentenza ha escluso la violazione della Convenzione da parte della Turchia con una
motivazione che sottolinea con grande forza la particolarità della situazione turca, in cui la
costituzionalizzazione della laicità rappresenta un elemento originario e fondativo
dell’ordinamento stesso della Repubblica turca. Ove non vi fosse stato ricorso alla Grande
Chambre contro tale sentenza, che tipo di precedente essa rappresenterebbe per il futuro?
Riguarderebbe solo la Turchia? O anche altri Paesi eventualmente con la stessa storia? O
riguarderebbe anche la Francia, ora anch’essa dotata di una legislazione sul divieto di esporre
segni di appartenenza religiosa nelle scuole? E’ difficile dare una risposta: certamente sarebbe
una situazione in cui la Corte, pur rimanendo assai legata ai propri precedenti, avrebbe una
certa libertà nel ritenere pertinente o non pertinente il precedente. Va ricordato come la Corte
venga sempre investita dell’esame di un caso concreto, che consiste non solo della storia
contingente del ricorrente e del convenuto in giudizio, ma anche di questa storia calata in
contesto cronologico, spaziale, culturale, etc. Quindi può capitare, ed il caso in esame è uno di
quelli, di dover specificare la decisione entrando minuziosamente nei dettagli –che peraltro
nella fattispecie non sono meri particolari, ma rappresentano addirittura il retroterra storicopolitico-culturale del Paese interessato –, con risultati certo opinabili, ma molto legati al caso
concreto. Non va dimenticato comunque che la Corte ha una composizione molto articolata:
essa è composta da un giudice per ogni Paese, dunque complessivamente 46; la formazione
professionale dei giudici è diversa, perché circa un terzo di loro sono stati giudici nei loro
Paesi d’origine, un terzo circa sono stati professori universitari di diritto, un terzo ancora sono
stati avvocati o hanno esercitato altre attività. Ciò fa sì che la discussione che scaturisce sia
molto ricca di prospettive ed interessante, soprattutto su temi come quello ora considerato. I
commenti e le critiche della dottrina, infine, sono utili e necessari allo sviluppo della
giurisprudenza della Corte.
Melina DECARO si domanda in primo luogo se, invece di ricostituire una rivista dei diritti
umani, vista la pervasività della materia non sarebbe più semplice che la Corte si dotasse di
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un motore di ricerca informatico per cogliere tutti i commenti che, indipendentemente dalla
loro presenza su una rivista sui diritti umani, si facciano su questi temi e che riguardino anche
i diritti nazionali. Entrando più nel vivo della questione, Melina Decaro chiede quale sia la
sensazione della Corte riguardo al suo reale ambito di azione e di riferimento: è stata citata la
sentenza della Corte costituzionale, l’esistenza di due ambiti giurisdizionali di riferimento,
quello nazionale e quello internazionale, tra i quali si interpone quello comunitario. Sia ha
l’impressione che attraverso la formula dei precedenti l’attività della Corte in questi 55 anni
sia stata produttiva di interpretazioni adeguatrici di una sorta di costituzionalismo dei diritti
umani in fase di costruzione: in questo senso la Corte di Strasburgo, insieme a quella di
Lussemburgo e alle Corti costituzionali nazionali, si è resa artefice della stagione di
protagonismo del potere giudiziario in senso lato ai fini della realizzazione di quel patrimonio
costituzionale comune che va oramai al di là della logica del trattato internazionale. Le Corti
rappresentano in questo senso uno dei colegislatori di questo patrimonio costituzionale
comune, che ha una memoria recente, dal 1950, e un futuro molto promettente e strategico. In
questo quadro, più che la soluzione formale dei rapporti fra gli ordinamenti, i cui confini oggi
sono assai poco definiti e pervasivi per quanto riguarda i contenuti – indipendentemente dalla
loro coincidenza, i cataloghi detengono comunque una sostanza -, le Corti stanno sviluppando
rapporti comuni tra di loro, che sembra superare quella situazione di “gelosia” rispetto
all’esclusività della propria competenza. C’è invece una fase di colloquio su questo piano: la
Corte di Strasburgo ha la sensazione di questa funzione e quindi della necessità che questo
dialogo venga incentivato?
Gaetano AZZARITI approfitta dell’occasione in primo luogo per esprimere una sua
opinione sul ruolo della Corte di Strasburgo, la quale sembra aver trovato una certa conferma
anche nell’esposizione di Vladimiro Zagrebelsky: ritiene infatti Azzariti che la Corte EDU
rappresenti certamente una giurisdizione autorevole, ed anzi che fondi la propria capacità di
far valere le proprie decisioni più sulla base della sua autorevolezza e capacità di essere tale
che non sulla Convenzione, trattandosi essenzialmente di una Corte che non esprime
sovranità, o comunque che non è all’interno di uno Stato sovrano - dunque non una Corte
“suprema” in senso tradizionale, con ciò intendendo una Corte che dice l’ultima parola su una
controversia giurisdizionale. L’introduzione di Zagrebelsky, nel momento in cui richiamava la
possibilità di contrasto tra le Corti, sembra confermare questa impressione. Il rischio che si
prospetta è che nel conflitto tra giudici nazionali e Corte di Strasburgo questa rischi di essere
perdente, in quanto nonostante viga l’obbligo da parte degli Stati membri del rispetto della
Convenzione, in conclusione sembrerebbe fare stato l’interpretazione delle Corti
costituzionali nazionali. Se ciò è vero, andrebbe considerato come molto acuto da parte della
Corte EDU l’aver proseguito una lunga stagione di dialogo tra le Corti: sembra che tanto da
parte delle Corti nazionali, ma ancor più da parte della Corte di Strasburgo si sia tentato di
smussare le possibili cause di conflitto tra le diverse sedi giurisdizionali. Vale la pena
domandarsi se le ragioni del dialogo siano sostenute dalla percezione che, laddove si pervenga
ad un conflitto, sia la Corte di Strasburgo a perdere di fronte alle Corti nazionali. In secondo
luogo, dall’esposizione di Zagrebelsky Azzariti ritiene di aver tratto l’impressione che questa
stagione di dialogo poc’anzi citata sia al momento in crisi, forse perché in qualche modo si è
avuto un arricchimento del “giardino dei diritti”. Il fatto che in Europa si scriva prima una
Carta dei diritti, e che poi si tenda a far sì che la Corte di Lussemburgo si occupi di diritti
ampliando il suo tradizionale ambito di competenze giurisdizionali, accentua in qualche modo
anche dal punto di vista meramente statistico la possibilità di un conflitto. Azzariti concorda
pienamente con un’osservazione di Zagrebelsky, il quale richiamava una sentenza della Corte
costituzionale italiana, secondo cui il catalogo dei diritti nazionale, quello della Convenzione,
e quello europeo, sono nominativamente molto spesso identici ma sostanzialmente diversi: ad
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es., la configurazione del diritto di proprietà data nella Convenzione del 1950 o nella
Costituzione italiana pressappoco della stessa epoca, è diversa da quella contenuta nella Carta
dei diritti di quattro anni fa. Ove sia confermata una crisi del dialogo, come si può superarla?
Riguardo all’ipotesi di una attuazione diretta da parte dei giudici nella logica della
disapplicazione, più tradizionalmente imputabile al diritto comunitario, non vi è il rischio che,
affidando direttamente ai giudici tante accezioni diverse del medesimo diritto senza il filtro di
una Corte di rango costituzionale (ovvero, per rimanere all’esempio citato, il diritto proprietà
come inteso dalla Carta costituzionale italiana, dalla Convenzione e dalla Carta dei diritti), si
lasci alla scelta soggettiva del singolo giudice quale accezione applicare di volta in volta, dal
momento che manca il precedente, oppure di non risolvere affatto il problema, o ancora di far
perdere nel conflitto quella tra le Corti che sia soltanto autorevole ma priva di capacità
normativa - per cui la prima a rischiare di recedere potrebbe essere proprio la Corte di
Strasburgo? L’altra strada potrebbe essere quella della “costituzionalizzazione” della
Convenzione, a cui sostegno sono stati portati argomenti solidi come il riferimento al nuovo
art. 117 della Costituzione italiana, la Carta dei diritti, i rinvii della Corte europea e
quant’altro. Parlando di questo, viene alla mente il recente riferimento al costituzionalismo
multilivello, mentre la logica dell’introduzione sembrava andare in direzione diversa, alla
ricerca di una qualche forma di superiorità intesa in termini tradizionali della Convenzione
rispetto quanto meno alla legislazione ordinaria, se non alle Costituzioni nazionali. Si ha
insomma l’impressione che, invece di andare verso l’integrazione degli ordinamenti, si
persegua la restaurazione in qualche forma della gerarchia delle fonti. Infine, un’ultima
domanda riguarda la possibile spiegazione dell’atteggiamento nettamente differente
dimostrato dalla Corte costituzionale nei confronti del Trattato di Roma e dell’integrazione
europea in quanto tale, delle sentenze emanate sulla base dell’art. 11 della Costituzione dal
1964, che ha coperto tutta la normativa ed ha in qualche modo risolto molti problemi di
legittimità costituzionale, rispetto alla ritrosia della medesima Corte verso un documento
anch’esso di livello costituzionale: se l’art. 11 è servito ad aprire l’ordinamento italiano
all’ordinamento comunitario, perché lo stesso articolo, a cui avrebbero potuto aggiungersi gli
artt. 10 o 2 della Costituzione italiana, non è riuscito ad aprire almeno un poco il nostro
ordinamento rispetto alla Convenzione?
Vladimiro ZAGREBELSKY non è certo di riuscire a fornire una risposta precisa a tutte le
questioni appena evidenziate. Certamente, le problematiche esposte sono relative alle
difficoltà legate alla convivenza di raccolte normative diverse e di Corti caratterizzate in
primo luogo da una diversa composizione e collocazione. La giurisprudenza di Strasburgo
esprime un livello minimo di tutela, nel senso che gli Stati possono a loro volta specificare il
loro livello di tutela progredendo, ma non arretrando rispetto a tale livello: ad ogni modo, il
valore della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è comunque paneuropeo. Il fatto che
siano chiamati in causa 46 Paesi, comprendendo anche contesti nei quali ci sono stati dei
conflitti, e ciononostante si elabori insieme la giurisprudenza sui diritti fondamentali, è
certamente un elemento degno di nota: la discussione in camera di consiglio presso la Corte di
Strasburgo è sempre molto interessante, perché mostra proprio come si arrivi ad un punto
europeo di identificazione del diritto provenendo da storie, tradizioni, culture e religioni
differenti. Non solo, ma in più la Corte di Strasburgo è esterna ai singoli sistemi nazionali,
mentre quella di Lussemburgo, nonostante sia un organo appartenente ad un ordinamento
sovranazionale come le Comunità Europee, è una Corte interna a quel sistema (un sistema che
produce norme, che gestisce fondi, che opera politicamente ed ha una sua propria, ancorché
limitata, funzione giudiziaria). Le tre Corti –Corte Costituzionale, Corte di Giustizia Europea,
Corte europea dei diritti umani- sono strutturalmente diverse, la struttura di ciascuna ne
identifica la missione, fornendo il tono, l’ottica, il punto di vista da cui si muove in ciascun
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caso. Se parlare di conflitti è forse eccessivo anche sul piano terminologico, le divergenze
sono fisiologiche. La Corte di Strasburgo cerca di evitare la diretta contrapposizione
soprattutto con le Corti costituzionali, sebbene qualche volta risulti impossibile: è stato ad es.
dichiarato che la procedura del Tribunale Supremo spagnolo nel giudizio de amparo violava
la Convenzione relativamente ad un punto del contraddittorio, e che i tempi lunghi di
decisione del Tribunale Costituzionale federale tedesco violavano la Convenzione, ma con
questo non si arriva ad un vero conflitto di principio: piuttosto, si rileva, quando è necessario,
un aspetto delle modalità di funzionamento di un ordinamento. Pertanto, non si è assistito a
delle reazioni forti contro tali decisioni della Corte di Strasburgo. Quanto all’Italia le due
sentenze Cordova sono note in materia di immunità parlamentare: era ovvio per la Corte di
Strasburgo che si stava toccando un elemento estremamente delicato, su cui la giurisprudenza
della Corte italiana aveva sviluppato una forte evoluzione, pervenendo ad una posizione che
appariva ormai stabile sulla questione dei limiti dell’immunità. Se si analizzano le due
sentenze della Corte di Strasburgo citate, si vede come in verità esse, sul punto di diritto,
risultino essere la traduzione in lingua francese delle formule utilizzate dalla Corte
costituzionale italiana sul tema: nell’occasione la Corte di Strasburgo ha curato al massimo il
coordinamento con la posizione della Corte costituzionale nazionale (che essa condivideva e
poiché essa lo condivideva). Ancora: la recente e molto significativa evoluzione
giurisprudenziale a Strasburgo rappresentata dalla sentenza del giugno 2004 nella causa
Broniowski c. Polonia, in cui la Corte ha ravvisato una violazione “strutturale” del diritto di
proprietà da parte della Polonia, derivante dalla normativa in vigore, ed ha indicato in
dispositivo in quale direzione la legge debba essere modificata. E’ evidente quanto delicata
sia una indicazione di tal genere –richiesta alla Corte da una delibera di carattere generale del
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo della esecuzione delle sentenze della
Corte-. Non è un caso –a proposito di contrasti e di coordinamento delle giurisprudenze delle
diverse Corti- che la prima di tali sentenze riguardi una vicenda in cui già la Corte
costituzionale polacca aveva già statuito nello stesso senso, senza ottenere una corrispondente
reazione attuativa in sede parlamentare. Nel caso Sejdovic contro Italia, inerente alla
disciplina del processo in contumacia -la cui sentenza è oggetto di ricorso del Governo alla
Grande Chambre- mancava invece una sentenza conforme della Corte costituzionale italiana:
vi era una decisione di inammissibilità di ricorso, dunque una mancanza di presa di posizione
da parte del giudice costituzionale italiano.
L’aspetto qui rilevante della vicenda, che ben mostra come il sistema europeo di tutela dei
diritti fondamentali sia complesso e si muova con movenze non solo di carattere giudiziario,
consiste nel fatto che la sentenza, attestante la violazione da parte dell’Italia ed indicante nel
dettaglio al Governo come esso debba operare per rimuovere le cause che hanno provocato e
possono ulteriormente provocare la violazione constatata dalla Corte, avrebbe potuto suscitare
reazioni vivaci in sede nazionale nei confronti dei giudici di Strasburgo. Invece, la reazione è
stata di segno opposto: in pochissimi giorni è stato emanato un decreto-legge. Nel preambolo,
per giustificare la necessità ed urgenza, esso richiama l’esigenza di dare esecuzione alla
sentenza della Corte europea. A prescindere dal contenuto del decreto-legge, ciò che colpisce
è stata la reazione istituzionale italiana per tempi e modi dell’intervento normativo. Ci si può
chiedere il motivo di un tale comportamento da parte del Governo, che avrebbe potuto ad es.
anche attendere qualche mese per reagire alla decisione di Strasburgo, oppure rinviare ogni
intervento a dopo l’esito del ricorso della Grande Chambre. Ma probabilmente ha pesato la
considerazione che, in caso di mancato adeguamento italiano alla sentenza in oggetto,
nessuno degli altri Paesi europei avrebbe più consegnato un condannato in contumacia
all’Italia. Se c’era una vera urgenza, dunque, non era tanto quella di dare esecuzione alla
sentenza Sejdovic, il quale comunque non era stato estradato dalla Germania ed era stato
liberato. In realtà probabilmente sull’Italia ha pesato soprattutto la “paura” del consenso
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europeo in favore delle sentenze di Strasburgo. Questo è quel che si intende per “sistema”
europeo. Un altro esempio in tal senso viene dalla Turchia: quanto nelle importanti modifiche
costituzionali e legislative introdotte in quel Paese derivano dalla necessità di eseguite le
sentenze di Strasburgo e quanto invece dal desiderio di presentarsi in modo indiscutibile alle
trattative per l’adesione alla Unione europea?
E’ visibile nel “sistema europeo” un di gioco di squadra tra istituzioni diverse che insieme, sia
pure forse in modo non sempre coordinato e sistematico, riescono a raggiungere gradualmente
l’obiettivo di un maggiore rispetto dei diritti fondamentali in Europa.
Francesco CERRONE intende esprimere alcune perplessità emerse dall’ascolto
dell’introduzione e del conseguente dibattito. Da un lato, non si può che concordare con la
critica alla sentenza nr. 10 del 1993 emanata dalla Corte costituzionale italiana, rimasta non a
caso isolata; d’altra parte, nella sua relazione Zagrebelsky ha parlato anche della sentenza nr.
388 del 1999, insistendo su come da questa sentenza affiori in qualche modo la difficoltà della
Consulta di provare a ricostruire in termini sistematici i rapporti tra le fonti del diritto, in
quanto piuttosto che far questo essa parla di integrazione e completamento tra le
interpretazioni delle norme costituzionali da un lato, e di quelle dei trattati dall’altro. E’
appunto su questo aspetto che sorgono delle perplessità, dal momento che in primo luogo le
difficoltà di ricostruzione sistematica delle fonti non colpiscono solo la Corte costituzionale:
del resto, una ricostruzione che voglia fare della gerarchia il criterio cardine
dell’organizzazione dei rapporti tra le fonti del diritti era già stata oggetto di critiche da parte
di Vezio Crisafulli. D’altro canto, con Maastricht e con i fenomeni della globalizzazione, la
possibilità di ragionare in termini rigorosamente sistematici probabilmente è entrata in una
crisi profonda, se non irreversibile. Secondariamente, Zagrebelsky ha osservato come,
all’esigenza che un vincolo di legalità debba soddisfare in termini di prevedibilità del diritto la
Corte di Strasburgo abbia risposto innanzi tutto con il valore del precedente. Al contrario, a
livello nazionale molto spesso le Corti costituzionali sembrano non aver puntato a sufficienza
– o addirittura per nulla – sul valore del precedente, e dunque sulla coerenza
dell’orientamento della propria giurisprudenza. Osserva quindi Cerrone che oggi più che
tentare una inverosimile riorganizzazione sistematica dei rapporti tra le fonti, forse dovrebbe
essere ricercata una effettiva coerenza delle interpretazioni giurisprudenziali, coerenza che
non può d’altro canto ignorare il fatto che oggi esistono livelli differenti di protezione dei
diritti fondamentali in Europa, e che quindi sarebbe necessario coordinare i propri
orientamenti giurisprudenziali nazionali con quelli delle altre istanze giudiziali. Ciò
naturalmente spinge di nuovo a domandarsi se in questo contesto giurisdizionale multilivello
prevalgano alla fine le divergenze o le similitudini. In realtà, nella dottrina europea ormai non
si parla nemmeno più di divergenze, ma di vere e proprie “guerre” tra Corti in materia di
protezione dei diritti, sebbene Cerrone non condivida questa lettura così radicale dei rapporti
tra massime istanze giurisdizionali nazionali e sopranazionali in Europa rispetto
all’interpretazione da dare alle norme CEDU. Per riassumere la prima domanda: questa
esigenza di rendere in qualche modo di nuovo praticabile l’idea che ci si trovi al cospetto di
uno Stato di diritto, va individuata attraverso il tentativo di ricostruire un sistema di fonti
molto coerente e coeso, o non piuttosto incentivando l’esigenza di coerenza interna delle
giurisprudenze e la ricerca di un dialogo più intenso tra le Corti? La seconda considerazione
riguarda lo stato dei rapporti tra la Corte di Strasburgo e quella di Lussemburgo, in particolare
il sindacato della Corte EDU sugli atti comunitari. Per lungo tempo la Corte di Strasburgo
sembra aver fondato il proprio self-restraint su questa materia su due principi: quello della
insindacabilità rationae personae degli atti dell’Unione Europea, e quello della protezione
equivalente. E’ noto come attraverso la sentenza Matthews, per altro preceduta da altre
sentenze che avevano in qualche modo avviato tale pronuncia, siano state sollevate non poche
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perplessità: il passaggio secondo il quale il Regno Unito, congiuntamente all’insieme delle
altre parti contraenti del Trattato di Maastricht, è responsabile per non aver previsto elezioni
europee nel territorio di Gibilterra, è stata intesa da alcuni nel senso di un superamento di detti
principi. I dubbi continuano comunque a sussistere, apparentemente non fugati ma anzi forse
ulteriormente alimentati dalla successiva giurisprudenza di Strasburgo. Ad es., l’oggetto del
giudizio della sentenza Matthews era veramente un atto comunitario, o era piuttosto un
comportamento del Regno Unito posto in essere in esecuzione dell’atto comunitario? In
quest’ultimo caso, infatti, non ci sarebbe nulla di nuovo nella decisione in questione. Ancora,
ci si potrebbe legittimamente domandare se, qualora nella sentenza si intendesse sindacare un
atto comunitario, in che cosa consistesse la ragione di questo sindacato. Procedendo per
ipotesi, la ragione poteva forse ravvisarsi nel fatto che in quel frangente l’atto comunitario era
di rango costituzionale, e dunque non sindacabile dalla Corte di Lussemburgo: in questo caso,
si sarebbe potuto argomentare che avrebbe trovato applicazione il criterio della protezione
equivalente, con un intervento sussidiario della Corte di Strasburgo. D’altra parte, è stato
anche sostenuto che la Corte di Strasburgo avrebbe inteso sottoporre a sindacato anche gli atti
comunitari secondari, che nel caso di specie il riferimento all’insindacabilità da parte della
Corte Europea di Giustizia di quell’atto servisse soltanto ad attestare la ricevibilità del ricorso
ai sensi del I Paragrafo dell’art. 35 della CEDU, e che ove fosse stata questa l’interpretazione
da preferire sarebbe davvero stata superata la giurisprudenza sulla protezione equivalente, la
quale per altro continua a suscitare perplessità: se, come è stato ricordato da Zagrebelsky e
come la Corte di Strasburgo ha più volte affermato, il sistema CEDU è finalizzato a tutelare
un ordine pubblico europeo, diventa difficile comprendere in che modo possa effettivamente
funzionare il meccanismo della protezione equivalente, che nella giurisprudenza soprattutto
del Tribunale Costituzionale tedesco è correlato ad una tutela generale ufficialmente
soddisfacente del diritto in questione di volta in volta, sebbene nel caso di specie la persona
coinvolta nella controversia veda leso il proprio diritto in modo incompatibile con il ruolo che
la stessa Corte di Strasburgo si è riconosciuta. Tutto questo suscita ulteriori dubbi sulla
effettiva capacità di andare oltre le divergenze e valorizzare invece il dialogo tra le Corti.
Certamente, questo è un obiettivo fondamentale, che andrebbe sistematicamente perseguito da
tutti i soggetti interessati: d’altro canto, si ha anche l’impressione che sicuramente
nell’interpretazione dei giudici esista questa tensione verso il dialogo, ma poi, specialmente se
si considerano certi filoni interpretativi delle Corti, che esistano delle strategie di queste
ultime che, più che alimentare un dialogo, sembrerebbero mirare a proteggere l’arroccamento
di ciascun organismo giurisdizionale interessato su posizioni esegetiche consolidate. Tutto
questo, però, rischia di creare delle difficoltà all’avvio di un dialogo più franco ed aperto tra le
Corti.
Sergio LARICCIA ritiene di poter rilevare un deficit di conoscenza del diritto europeo che
ancora caratterizza il mondo professionale e della magistratura, su cui vorrebbe conoscere la
posizione del Giudice Zagrebelsky: questa valutazione è tratta dalla lettura delle sentenze, che
spesso danno l’impressione che i problemi del diritto europeo vengano occasionalmente
sollevati da avvocati più attenti a questi profili, ma che poi nelle decisioni giurisprudenziali la
rilevanza di questi aspetti finisca quasi sempre per scomparire in modo anche piuttosto rapido.
Si tratta di un problema grave, che influisce sulla possibilità che vi sia un rispetto del diritto
europeo delle norme della Convenzione e della Carta dei diritti, se da parte del mondo
giudiziario e forense si ravvisa una sostanziale insensibilità per l’importanza delle norme di
diritto europeo in questa fase storica.
Giorgio REPETTO osserva che, quali che saranno le sorti del Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa, questo ha avuto indubbiamente il merito di rimuovere i principali
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ostacoli posti in passato all’adesione dell’Unione europea alla CEDU. Tale prospettiva è stata
positivamente accolta in dottrina, ma – al tempo stesso – ha contribuito ad alimentare i dubbi
di chi ritiene che da una futura adesione deriverebbero ulteriori problemi di coordinamento tra
i diversi sistemi di tutela dei diritti fondamentali. È stato notato, infatti, che
dall’assoggettamento dell’intero corpus normativo e giurisprudenziale europeo al sindacato
dei giudici di Strasburgo discenderebbero seri rischi di “snaturamento” del sistema
comunitario di tutela dei diritti: sia per la difficoltà di salvaguardare la peculiarità della
costruzione comunitaria rispetto alle realtà nazionali, sia perché la giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo sarebbe espressione di una “grande Europa” molto meno
omogenea – quanto a tradizioni e a cultura dei diritti fondamentali – rispetto all’Unione
europea. Tali posizioni critiche, tuttavia, sembrano sottovalutare – oltre alle implicazioni
dell’allargamento dell’UE stessa – anche e soprattutto il modo in cui la Corte di Strasburgo ha
saputo modulare nel corso degli anni il rapporto tra minimum di tutela garantito dalla
Convenzione e rispetto per la diversità delle condizioni sociali, politiche e culturali a livello
nazionale. Attraverso la dottrina del margine di apprezzamento, infatti, la Corte europea è
riuscita ad accordare un’interpretazione dinamica ed evolutiva ad una serie di diritti e di
clausole contenuti nella Convenzione (ad es. la nozione di “società democratica”), giungendo
a far leva anche sulle molteplici realtà statali per la determinazione del contenuto di tali diritti.
In altre parole, non facendo prevalere in maniera incondizionata il ruolo “unificante” della
Convenzione, bensì integrandolo con strumenti interpretativi quali il ricorso alla normativa e
prassi nazionale, i giudici di Strasburgo hanno spesse volte mirato – più che ad affermare un
primato incondizionato della CEDU negli ordinamenti nazionali – a stabilire una forma di
“pluralismo ordinato”. Se a ciò si aggiunge che, nonostante la formale estraneità dell’Unione
europea alla CEDU, la Corte di Giustizia delle Comunità europee – soprattutto di recente – ha
guardato in maniera sempre più consapevole alla Convenzione e alle pronunce della Corte
europea, l’impressione che si trae è che dall’adesione possa discendere un arricchimento del
dialogo intergiudiziale e un apporto significativo nella direzione di un sistema comunitario di
tutela dei diritti più aperto e processuale. Giorgio Repetto chiede riguardo a questi temi
l’opinione di Vladimiro Zagrebelsky.
Alessandra DI MARTINO segnala una sentenza significativa in merito al problema dei
rapporti tra le Corti: si tratta della decisione del Tribunale Costituzionale tedesco dell’ottobre
2004, alla quale è seguito per altro un fitto dibattito sugli organi di informazione tra il
Presidente della Consulta tedesca e di quello della Corte di Strasburgo. La controversia,
relativa al diritto di famiglia, mirava a stabilire a chi spettassero i diritti di visita e di custodia
di un minore, ed il caso è stato deciso in maniera discorde dalla giurisprudenza tedesca e da
quella della Corte EDU. Il Bundesverfassungsgericht ha in realtà deciso due volte sul caso,
una prima volta antecedentemente, ed una seconda successivamente alla deliberazione della
Corte di Strasburgo, ed è appunto questa seconda deliberazione della Corte tedesca che viene
richiamata in questa sede. I Giudici di Strasburgo, mantenendo fede ai propri precedenti in
materia, aveva assicurato i diritti di custodia e di visita al padre del bambino rispetto alla
famiglia affidataria, mentre i loro colleghi tedeschi avevano deciso in modo opposto. La
sentenza tedesca può essere divisa in due parti: la prima, molto criticata dalla dottrina tedesca,
cerca di affrontare sul piano teorico il problema dei rapporti tra le Corti e va considerata
congiuntamente alla sentenza Hannover contro Germania della Corte di Strasburgo. In essa il
Tribunale Costituzionale si attribuisce l’ultima parola in materia di sovranità, e che i rapporti
tra ordinamento interno ed internazionale devono ancora essere letti secondo la logica del
dualismo, la quale risulta estremamente problematica ove utilizzata per regolamentare le
relazioni tra ordinamenti. La critica della dottrina tedesca al Bundesverfassungsgericht
stigmatizzava appunto la facilità con la quale questo si era sbarazzato di questa problematica.
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La seconda parte della sentenza tedesca affronta invece in maniera specifica il problema
dell’efficacia delle decisioni della Corte EDU negli ordinamenti interni, definendo in modo
molto più attento la portata dell’art. 46 della Convenzione, distinguendo con attenzione i
profili di efficacia personale, temporale e materiale delle sentenze della Corte di Strasburgo
negli ordinamenti interni. Alessandra Di Martino si domanda allora, alla luce di quanto è stato
affermato nella prima parte della sentenza e poi ripetuto dal Presidente del Tribunale
Costituzionale federale in una serie di interviste, quale impatto potrebbe avere una decisione
del genere, considerata anche l’influenza che il Bundesverfassungsgericht detiene nei
confronti di altre Corti costituzionali, in particolare quelle dell’Europa centro-orientale, e se
invece la Corte cercherà di evitare di affrontare la questione in maniera così diretta.
Alberto VESPAZIANI fa riferimento in primo luogo alla prima parte dell’introduzione, nella
quale si è parlato della Convenzione come di uno strumento diverso dai dispositivi
internazionalistici classici, in quanto esclude il principio di reciprocità e definisce una natura
oggettiva delle previsioni e delle garanzie collettive. Sia la letteratura internazionalistica che
l’analisi dei trattati relativi alla protezione internazionale dei diritti umani, tendono sempre ad
evidenziare il grande successo del funzionamento della Convezione e della Corte EDU,
specialmente se confrontato con altri strumenti di diritto internazionale. E’ dunque legittimo
domandarsi quali siano le ragioni di questo successo della Corte di Strasburgo, dal momento
che anch’essa, al pari di altri organismi giurisdizionali sopranazionali, è priva di “spada e di
borsa”, e ciononostante sembra che gli Stati diano volontariamente implementazione alle sue
decisioni. In secondo luogo, Vespaziani si richiama all’affermazione fatta da Zagrebelsky
secondo cui la solidità della Convenzione è assicurata dal principio del precedente della Corte
EDU, e si domanda in che misura anche le opinioni concorrenti e dissenzienti concorrano
nell’influenzare questa immagine secondo cui il diritto della Convenzione è il diritto della
Corte, visto che i giudici appunto dissentono tra di loro.
Vladimiro ZAGREBELSKY risponde in primo luogo all’ultima delle questioni poste.
Innanzi tutto, i giudici di Strasburgo abitualmente si considerano purtroppo “vittime” del
successo della Corte europea, dal momento che vengono presentati annualmente ben oltre
40.000 ricorsi, 45.000 nel solo 2004. Come è ovvio, la Corte non è in grado di rispondere a
tutti, e quando lo fa non può che operare con tempi lunghi: ciononostante, è certamente
corretto parlare di successo, nel senso che queste cifre sono l’espressione di una fiducia
diffusa nell’ambito di efficacia della Convenzione (comprendente 800 milioni di cittadini, più
tutti gli ospiti) nei confronti dei giudici di Strasburgo. Il meccanismo è straordinariamente
semplice, nel senso che per presentare un ricorso è sufficiente inviare alla Corte una lettera
nella propria lingua nazionale; a ciò si aggiunge una certa “mitologia” sul ruolo della Corte
(“c’è un giudice a Strasburgo!”), che porta in certi casi ad ignorare le regole procedurali
previste, per cui ad es. a volte non si esperiscono tutte le vie giurisdizionali interne prima di
ricorrere a Strasburgo. Tutto questo esprime però d’altro canto una crescita della
consapevolezza dell’esistenza di un livello di diritti condiviso da tutti i cittadini europei, con
la possibilità di ricorrere anche contro il proprio Stato per assicurarne la tutela. In certi Paesi,
l’idea di poter convenire in giudizio in sede internazionale il proprio Stato costituisce una
rottura forte sul piano della cultura politica di quella società. Altri sistemi giurisdizionali
sopranazionali non godono certamente dello stesso successo.
Rispetto alla questione delle opinioni dissenzienti (e concorrenti), è certo che
esistono delle sentenze, magari anche di Grande Chambre, nelle quali la divisione tra
maggioranza e giudici dissenzienti è talmente esigua che gli argomenti della decisione, pur
essendo giuridicamente vincolanti nel caso di specie, risultano ridimensionati dal punto di
vista della loro autorevolezza. Le opinioni separate sono tuttavia molto importanti per la
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Corte, innanzi tutto perché assicurano un principio di trasparenza. Esiste un obbligo
deontologico implicito, per cui chi vota contro l’opinione della maggioranza deve motivare la
propria posizione, e motivando non solo esprime la ragione del dissenso, ma rivela di chi sia il
voto contrario: se ciò non accadesse, si avrebbe un dispositivo approvato a maggioranza senza
che si possa sapere chi ha sostenuto e chi ha bocciato quella decisione. In un caso di circa un
anno e mezzo fa, una sentenza di Grande Chambre ha rovesciato la giurisprudenza che
sembrava assestata in relazione al trattamento dei transessuali nel Regno Unito: si era detto in
alcune sentenze precedenti che il regime non contrastava con le esigenze della Convenzione.
Ma le opinioni dissenzienti erano gradualmente crescenti per numero, fino a quando con la
sentenza in oggetto la Grande Chambre ha adottato all’unanimità l’opinione dei dissidenti: si
tratta di un fenomeno che fa parte della lenta, cauta e prudente evoluzione della
giurisprudenza. D’altro canto, occorre domandarsi se sia autorevole una unanimità apparente,
di cui in realtà si sa che non è veramente tale e che probabilmente soffre della necessità di
compromessi argomentativi. Forse l’esplicitazione degli argomenti favorevoli e contrari è un
fatto positivo.
Per quanto riguarda la questione della gerarchia, Zagrebelsky non immagina un ricorso alla
stretta dottrina della gerarchia delle fonti: già il solo fatto che alcuni livelli o corpi normativi
abbiano una loro tutela giurisdizionale autonoma impedisce di ragionare in termini
tradizionali di gerarchia. Piuttosto, si può ipotizzare – rispetto alla giurisprudenza
costituzionale italiana – una attenzione a definire gli effetti delle clausole che si utilizzano:
sugli effetti occorre essere, altrimenti l’obbligo di disciplina che hanno il nostro legislatore e
la nostra Corte costituzionale non viene adempiuto, e i risultati si vedono nella giurisprudenza
ordinaria. Oltre le corti supreme, per altro, non c’è più nessuno, e dunque ci si può muovere
con una certa libertà creativa: anche la Corte di Cassazione italiana, ha recentemente
affermato con la sua Sezione Tributaria che lo Statuto del contribuente ha un valore superiore
delle leggi di disciplina specifiche di certi tributi, in quanto contiene un quadro generale dei
valori di riferimento di tale settore. Nella nozione abituale di gerarchia delle fonti questa
affermazione è inusuale, eppure nel caso in questione il giudice ne ha fatto derivare delle
conseguenze interpretative. Zagrebelsky si domanda se anche la Corte costituzionale non
potrebbe operare in questo modo. Già la sola difficoltà della Corte costituzionale italiana nel
citare la giurisprudenza di Strasburgo è emblematica, da questo punto di vista. Probabilmente,
si tratta di una difficoltà anche di ordine psicologico, in quanto le Corti supreme di norma non
amano riconoscere che ce ne sono anche delle altre: ciascuna si considera suprema nel proprio
ordine.
L’intervento di Giorgio Repetto sembra dare un’interpretazione positiva del pluralismo
europeo e dell’attenzione mostrata dalla Corte di Strasburgo alle diverse situazioni. D’altra
parte è reale il problema posto da Silvia Niccolai: costituisce un valore sempre positivo la
attenzione prestata alle diverse realtà politico-giurisdizionali, foriera di una giurisprudenza
che può oggettivamente diversificarsi sul vasto territorio del Consiglio d’Europa, oppure essa
pone dei problemi sul piano del valore del precedente, del significato della presa di posizione
della Corte, etc.? Secondo Zagrebelsky entrambe le osservazioni e preoccupazioni riflettono
aspetti reali ed ineliminabili dell’operare della Corte di Strasburgo (e non solo di essa).
Relativamente al rapporto tra la Corte di Strasburgo e quella di Lussemburgo, Zagrebelsky
osserva che la sensazione espressa nel corso del dibattito rispetto ai vari segni di incertezza
della giurisprudenza della Corte puo’ essere fondata, nel senso che essa lascia ancora spazio a
dubbi ed esprime un certo grado di imbarazzo. C’è in attesa di pubblicazione una sentenza di
Grande Chambre, Bosforus c. Irlanda, riguardante un caso in cui una compagnia aerea turca
aveva preso a nolo degli aerei della compagnia di bandiera jugoslava durante il periodo
dell’embargo: gli aerei jugoslavi non potevano volare fuori del loro spazio aereo nazionale,
perché sarebbero stati messi a terra in base ad una decisione del Consiglio di Sicurezza
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dell’ONU, a cui si aggiungeva una presa di posizione nello stesso senso da parte dell’Unione
Europea, a cui gli Stati membri erano chiamati a dare attuazione. L’aereo in questione è
atterrato a Dublino, e le autorità irlandesi hanno proceduto al sequestro del velivolo, con
danno per la compagnia aerea. Ne sono seguiti vari ricorsi interni, il ricorso della Corte
Suprema irlandese alla Corte di Giustizia Europea in via pregiudiziale sulla conformità della
disciplina irlandese alla normativa comunitaria, con risposta positiva della Corte di
Lussemburgo, ed infine la conclusione della vicenda interna con il sequestro dell’aereo fino al
momento in cui l’embargo viene tolto ed il velivolo riconsegnato. A questo punto viene
presentato ricorso alla Corte di Strasburgo per violazione del diritto di proprietà: la sentenza,
ancora da pubblicare, sarà interessante in quanto si tratta di un caso in cui il margine di
discrezionalità da parte dello Stato membro dell’Unione Europea era inesistente, era cioè
palese come nel caso in oggetto l’Irlanda abbia semplicemente dato attuazione alla normativa
comunitaria, per cui valutando la condotta dell’Irlanda si dà in realtà una valutazione della
normativa comunitaria.
Zagrebelsky si augura che, per l’importanza che essa rivestirà, tanto la sentenza, quanto le
opinioni separate che l’accompagnano, vengano lette e commentate con forte spirito critico e
propositivo.
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