1.1) Dalla Preistoria al Traforo del Sempione

Dalla Preistoria al traforo del Sempione
Tullio Bertamini
II breve schizzo storico qui proposto vuole offrire solo
qualche indicazione cronologica e qualche riferimento
più specificatamente ossolano, quasi un disegno in rilievo, sulla storia delle regioni più vicine e più vaste come
la Lombardia, il Piemonte e l’Italia settentrionale, storia
che dobbiamo in gran parte supporre a tutti nota o comunque facilmente accessibile. Saranno anche trascurati molti fatti di interesse troppo locale, puntando invece
su quelli che coinvolgono l’intiera regione ossolana.
Dalla preistoria alla fine dell’Impero Romano d’Occidente (sec. V)
L’archeologia ci dice che l’Ossola fu abitata dagli uomini fin da epoca immemorabile. I ritrovamenti di utensili, armi e suppellettili di pietra, di bronzo, di ferro e di
ceramica ci informano che insediamenti umani dovettero essere già presenti almeno nel Neolitico e successivamente nell’età del bronzo e sempre più intensivamente nell’età del ferro, cioè almeno dal terzo millennio prima di Cristo. Cacciatori e raccoglitori di frutti prima e,
poi, pastori, agricoltori e ricercatori di minerali, contribuirono a conoscere la regione, dissodarne i campi ed i
prati e bonificare le zone di pascolo oltre il limite della vegetazione arborea. Furono naturalmente scelti per
primi i luoghi più sicuri ed a solatio sui pendii delle valli, ricchi di terreno fertile, prossimi alle sorgenti e sicuri dalle fiere e dagli altri nemici.
Gli storiografi che accennano all’Ossola sono molto tardivi. Il primo che ce ne dà una indicazione è il geografo Tolomeo (II sec. d.C.) il quale ricorda confusamente
una Oscella Lepontiorum, cioè una regione abitata da
un popolo chiamato dei Leponzi e, probabilmente, la
sua capitale (Domodossola). I Leponzi abitavano tutta
l’Ossola e le regioni vicine del Canton Ticino ed erano
affratellati con un altro gruppo detto più propriamente
Uberi che abitavano nell’altro versante delle Alpi oltre il
Gottardo. Difficile stabilire quale fosse l’origine dei Leponzi. Alla loro formazione probabilmente contribuirono sia i discendenti dei popoli che nel Neolitico si
erano insediati in queste regioni e successivamente altri
provenienti dalla pianura padana (Liguri) e dalle regioni transalpine (Celti). Pare che un profondo amalgama
di popoli sia avvenuto in questa regione nel VI secolo
avanti Cristo quando i Galli calarono in Italia e si scontrarono con gli Etruschi e poi con i Romani. I Leponzi ebbero certamente una propria cultura ed un proprio
linguaggio, ma subirono l’influenza degli Etruschi loro
confinanti a sud, da cui ebbero l’alfabeto. I pochi documenti scritti in lingua lepontica (non ancora perfettamente decifrati) sono stati formulati con quell’alfabeto. Solo dopo la conquista romana adotteranno l’alfabeto latino. I ritrovamenti tombali ci informano che i Leponzi erano soprattutto agricoltori e pastori, ma capaci anche di fondere il bronzo e lavorare i metalli. Armi
ed arnesi di lavoro ci parlano di un popolo forte e tenace nella coltivazione dei campi e nella difesa della propria libertà. Furono infatti fieri, come tutti i popoli alpini, della loro indipendenza e perciò si opposero anche ai Romani che, dopo aver superato gli Etruschi, si
affacciavano alla pianura padana. Perciò dopo la prima
guerra punica ci fu uno scontro durissimo fra i Romani ed i popoli della Gallia Cisalpina, Leponzi compresi. I Romani, vittoriosi, con la disfatta degli Insubri e la
conquista di Milano loro capitale (222 a.C.), imposero
le colonie militari di Cremona e Piacenza. Quando poi
Annibale attraversò le Alpi (218 a.C.), i Leponzi si unirono a lui e parteciparono alla battaglia del Ticino che,
vinta da Annibale, costrinse i Romani a ripassare il Po.
Ma dopo la battaglia di Zama i Romani ritornarono ad
occupare la pianura padana, spingendosi probabilmen-
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te fino al lago Maggiore ed al fiume Sesia (187 a.C.).
Negli anni seguenti le relazioni fra i Romani ed i Leponzi migliorarono. I popoli alpini si avvantaggiarono
soprattutto dai commerci che avvenivano attraverso le
Alpi dei cui passi essi erano i padroni. Ne è segno anche
in Ossola la frequente monetazione romana repubblicana. Molti prodotti italici cominciarono ad apparire anche nell’Ossola, come attestano i ritrovamenti tombali
di Ornavasso, Gravellona ecc.
Ma le Alpi, dopo la spericolata traversata di Annibale,
non erano più un baluardo insuperabile alle orde barbariche che cercavano in Italia migliori sedi. I Romani,
già padroni della Provenza e del Norico, vigilavano affinché questo non avvenisse. Ma i Cimbri ed i Teutoni, popoli provenienti dal Nord, dopo aver chiesto invano a Roma di entrare in Italia ed avere scorazzato per
mezza Europa, ed aver vinto anche alcuni eserciti romani, ritentarono l’impresa. Essi trovarono in Provenza un
potente esercito romano comandato da Mario. Allora
si divisero in due corpi: i Teutoni cercarono un passaggio nelle Alpi Marittime ma furono completamente distrutti da Caio Mario alle Aquae Sextiae, i Cimbri risalirono il Rodano affrontando probabilmente i passi alpini ossolani. Frattanto un esercito romano al comando di Lutazio Catulo si era attestato nel versante opposto costruendo un doppio campo fortificato congiunto da un ponte a cavallo del fiume Toce, che lo storico
Plutarco chiama Atosis, probabilmente proprio fuori di
Domodossola nel luogo che prese il nome di Castellazzo. Ma i Cimbri, costruita una grossa diga alle forre di
Pontemalio, produssero una piena artificiale che mise
in gran pericolo il ponte romano e tutto il sistema difensivo. Il console Lutazio Catulo credette allora opportuno mettersi in testa ai suoi soldati in fuga e riparare
nella pianura padana. Poco dopo però, ai Campi Raudii
presso Vercelli, le forze romane di Caio Mario distrussero completamente le orde dei Cimbri (101 a.C.).
Le relazioni fra i Romani ed i Leponzi si guastarono alla
fine del I secolo a.C. quando, pare, le comunicazioni fra
i due versanti alpini divennero insicure a causa dei continui ladroneggi. Roma intraprese una guerra in piena
regola e tutti i popoli alpini furono assoggettati al suo
imperio (14 a.C.). Questo successo fu esaltato con un
monumento a La Turbie (in Francia) su cui una lun18
ga iscrizione, riportataci anche da Plinio il Vecchio, ricorda tutti i popoli alpini sottomessi e pacificati; fra essi
anche i Leponzi.
La pace augustea che ne seguì ebbe felici conseguenze anche nell’Ossola, dove aumentò il benessere economico e prese avvio la cultura. Oscella fu probabilmente elevata al grado di municipio e, secondo il De Vit,
fu sede del procuratore romano preposto alla provincia
delle Alpi Atrezziane, provincia che durò fino all’epoca dell’imperatore Diocleziano (284-305) che l’ascrisse
definitivamente all’Italia. Tracce di questo benessere si
riscontrano abbondantemente nei reperti tombali. Furono anche potenziate le vie di comunicazione, in cui
i Romani erano maestri. Oscella era collegata non solo
con Novara e Milano, ma anche con Seduno (Sion) e
Octoduro lungo quella che poi fu l’asse sempioniana,
ma che in quell’epoca utilizzava probabilmente con più
frequenza i passi della valle Antigorio, della val Bognanco e della valle Antrona. Un lungo tratto di strada romana esiste ancora sulla sponda sinistra del Toce, da
Cosasca a Mergozzo, ricordata anche dalla famosa iscrizione su roccia di Vogogna che la fa risalire all’intervento di un procuratore delle Alpi Atrezziane al tempo di
Settimio Severo (196 d.C.).
La romanizzazione si riflette puntualmente anche nei
nomi di persona e nei cognomi, alcuni dei quali come
quello attestatoci dalla ricca tomba di Claro Fuenno a
Domodossola sono in parte romani e in parte ancora
leponzi. Analogamente avviene per la religione. Assieme al culto tradizionale delle divinità lepontiche, come
le Matrone, compare quello delle divinità importate,
come Silvano, Giove e Iside (ara trovata a Candoglia).
Un tempietto scoperto a Roldo di Montecrestese e risalente ai primi anni dell’era moderna è tutto ciò che ci
resta degli edifici sacri di quel tempo. Ma nel IV secolo la religione pagana subisce una crisi mortale con l’avvento del Cristianesimo che lentamente, ma inesorabilmente, sostituisce l’antica religione pagana nelle città e
poi anche nelle province più lontane dell’Impero. Con
Costantino ebbe il diritto all’esistenza e con Teodosio il
Cristianesimo divenne religione di Stato (385). In Ossola il Cristianesimo si affermò abbastanza presto, utilizzando anche gli edifici religiosi pagani esistenti e riconvertendoli al nuovo culto. Grande fu in questo tem-
po l’opera di evangelizzazione guidata dal Vescovo Ambrogio di Milano che spedì missionari e vescovi in tutta la Gallia.
Forse anche Oscella ebbe inizialmente il suo vescovo,
ma certamente ebbe un presbiterio o gruppo di sacerdoti che cominciarono a interessarsi a questa regione.
Il documento più antico che ci parla della presenza del
Cristianesimo in Ossola è una lapide mortuaria rinvenuta sul colle di Mattarella, dove probabilmente una
chiesa dedicata alla B.V. Maria ricalca un tempio dedicato alle Matrone, e che risale all’inizio del VI secolo.
Ma anche sul Montorfano di Mergozzo, all’interno della chiesa di S. Giovanni, è stato ritrovato un fonte battesimale che può risalire alla stessa epoca.
Le vicende dei secoli seguenti nell’Ossola si possono riassumere nella situazione generale creatasi nell’Italia settentrionale e specialmente a Novara e Milano fino alla
caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.).
Dall’età barbarica al Mille
L’indebolimento dell’Impero romano permise a molti
popoli barbari di superare i confini e penetrare in un
territorio coltivato e ricco di prede.
Cedono le difese della Germania e della Pannonia permettendo ai Goti di Alarico di raggiungere e saccheggiare Roma (410). Nel contempo (443) i Burgundi
prendono stabile dimora lungo la Soana ed il Rodano
a ridosso dell’arco alpino ossolano. È poi la volta degli
Ostrogoti di Teodorico il quale vince Odoacre che era
stato proclamato re (476) da truppe mercenarie germaniche al servizio dell’Impero, e fa di Ravenna la sua capitale. La guerra degli Ostrogoti sotto la guida di Teodorico, iniziata nel 493, coinvolge anche l’Italia occidentale e quindi l’Ossola che fu sottoposta alle scorrerie dei Burgundi, chiamati forse da Bisanzio in aiuto di
Odoacre. Le scorrerie dei Burgundi causarono la distruzione ed il saccheggio di molte città e paesi, dai quali
furono portati via e condotti in schiavitù molti abitanti. Una iscrizione su una roccia, letta dallo storico ossolano Giovanni Capis, in località Mizzoccola presso Cosasca, accennerebbe al passaggio per l’Ossola di un corpo di spedizione di Burgundi al comando del loro re
Gundobaldo.
Cominciò dunque in quell’epoca il decadimento di
Oscella che vide distrutti i suoi palazzi e deserte le sue
case dalle quali furono dedotti schiavi gli abitanti. I
municipi che subirono maggiori danni furono Milano,
Novara e Vercelli. Ennodio, scrittore di quell’epoca, ci
dice però che i vescovi cominciarono a esercitare una
grande influenza anche nel mondo civile, facendo valere il prestigio del loro potere religioso al servizio dei popoli. S. Lorenzo vescovo di Milano, Epifanio vescovo di
Pavia, si recarono infatti alla corte del re Gundobaldo
ottenendo da lui e dal fratello Godiscilo che risiedeva a
Ginevra, la liberazione dei prigionieri che pensiamo siano ritornati attraverso i passi alpini ossolani.
Il regno di Teodorico (493-526) fu di relativa stabilità e prosperità in Italia, sebbene le popolazioni rurali fossero state ridotte ad un forte impoverimento, dovuto ad una redistribuzione dei beni ed a tasse in favore dei barbari occupanti. La successiva guerra, iniziata
nel 535 e protrattasi per 18 anni, che permise ai generali bizantini Belisario e Narsete di cacciare i Goti e restaurare il dominio dell’Impero non fece che aumentare
le distruzioni ed i disagi dei popoli. Fu probabilmente
sotto il dominio di Teodorico o, al più tardi, sotto quello di Narsete che non solo fu fortificato ulteriormente
il Castellazzo di Oscella (dove un tempo furono le fortificazioni romane) contro i Burgundi, ma fu anche costruito ex novo il potente castello di Mattarella, dove
tuttavia si hanno tracce di costruzioni più antiche, di
epoca romana e tracce di insediamenti preistorici.
Ma il grande colpo che ridusse l’Italia settentrionale allo
stremo e la imbarbarì per parecchi secoli fu quello dovuto all’invasione dei Longobardi sotto la guida di Alboino, penetrati nel Friuli, e che successivamente conquistarono Milano e Pavia nel 572, dove posero la loro
capitale.
La prima parte del dominio longobardo fu durissima,
segnata da violenze, espropri, saccheggi, incendi, spogliazioni di ogni genere, specialmente del clero e delle chiese, contro le quali i Longobardi, ariani, si accanirono particolarmente. Ciò fu causa di un rapido e drastico regresso della civiltà. La popolazione, già decimata dalla fame e dalla peste, si ridusse notevolmente. Le
lettere e le arti decaddero quasi completamente. I Longobardi pretendevano di vivere di razzia prelevando i
beni prodotti dai popoli soggetti, ma, condotti a mi19
glior consiglio dagli insuccessi militari, dovettero anch’essi adattarsi al lavoro e divenire agricoltori come i
popoli soggetti.
Dopo un periodo di anarchia, sotto re Autari (584-590)
che sposò la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera, le cose mutarono. Con il successore Agilulfo, secondo sposo di Teodolinda, e con il concorso del papa
S. Gregorio Magno, inizia la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, il che favorisce l’amalgama con
i popoli soggetti. Tuttavia mentre questi mantengono la legge romana, i Longobardi con l’Editto di Rotari (636-652) codificano la loro tradizione vivendo con
leggi proprie. Il regno longobardo è in continua espansione nel secolo VII con la creazione di nuovi ducati,
ma presenta anche forti sintomi di debolezza dovuti alla
disunione dei duchi. L’Ossola è inclusa nel ducato di S.
Giulio d’Orta, sulla cui omonima isola probabilmente
il duca si era costruito per maggior sicurezza un castello. Oscella perde le caratteristiche di capitale dell’Ossola perché la sede del potere civile e militare longobardo
è nel castello di Mattarella da cui dipendeva il territorio sotto forma, probabilmente, di giudicaria, retta da
uno sculdascio. Quando, sotto il re Agilulfo irrompono
i Franchi dai passi alpini ossolani e ticinesi il duca Mainulfo di S. Giulio d’Orta tradisce il suo re e lascia libero passo ai Franchi. Ma, cacciati questi, Agilulfo si vendica facendo tagliare la testa al duca fellone e riducendo
sotto il suo diretto dominio il ducato. L’Ossola quindi
dipenderà direttamente dalla Corte di Pavia. In questo
tempo grandi territori sono concessi ai milites ed alle
fare arimanniche longobarde nelle Alpi che essi dovevano difendere dalle invasioni nemiche. Gli uomini liberi sono ancora numerosi, ma molti sono anche i servi e
gli aldioni semiliberi e molto sviluppata è la servitù della gleba in una economia che è solo agricolo-pastorale.
Questa situazione non cambia neppure dopo che Carlo Magno, con la vittoria sull’ultimo re longobardo Desiderio (774), instaura il dominio franco in Italia. L’Ossola diventa una contea dipendente dal regno italico; il
suo centro amministrativo e militare è sempre il castello di Mattarella (Corte di Mattarella). Ma con la venuta dei Franchi continua quel processo di feudalizzazione che sottrae praticamente al diretto dominio del re alcuni territori che vengono dati in feudo a signori laici
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ed ecclesiastici per loro particolari benemerenze, i quali vi esercitano il dominio teoricamente alle dipendenze del re a cui giurano fedeltà, ma di fatto valendosene
con molta libertà. Vassalli maggiori e minori si legano
in una instricabile società che è spesso fortemente suddivisa dagli interessi famigliari ed individuali a spese del
popolo minuto, dei servi della gleba e coloni costretti ad un duro lavoro nei campi e nei boschi ed alla costruzione dei numerosi castelli che sorgono come funghi un po’ dappertutto.
A questo processo di feudalizzazione è soggetta anche l’Ossola, dove alcuni signori hanno vasti territori
e partecipa anche il vescovo di Novara che costruisce a
Oscella, presso la chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio il
suo castello (castrum novum, ricordato nel 1001). Ma il
dominio del vescovo si estende soprattutto sulla città di
Novara, attorno al lago d’Orta ed in moltissime altre località, dove le chiese possiedono beni immobili. L’Ossola intanto è governata da un conte palatino, ma il territorio si è andato restringendo a causa della crescita dei
feudi donati dal re ai signori, tanto che viene definita
comitatulo quella parte che ancora dipende dalla corte
di Mattarella, dopo le riduzioni subite a causa della feudalizzazione. Ma in Ossola hanno i loro beni monasteri
come quello di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, fondato
dal re longobardo Liutprando, e chiese anche di diocesi
diverse da quella di Novara.
I vescovi di Novara continuando con qualche fortuna
l’opera di accrescimento del dominio temporale della
Chiesa iniziatosi con la immunità concessa da Ludovico
il Pio (814-840) e progredito con le donazioni e conferme di Lotario I, di Carlomanno e di Berengario I (901),
si trovarono tuttavia a dover scegliere fra i vari pretendenti alla corona d’Italia ed a quella imperiale. Così Berengario II sottrasse alla Chiesa novarese la Riviera di S.
Giulio e perseguitò il vescovo che non appoggiava la sua
candidatura alla corona imperiale. Ma Ottone I di Germania, sconfitto Berengario, restituì al vescovo di Novara (962) la Riviera, l’isola di S. Giulio e la giurisdizione su Novara e dintorni. Da questo momento i vescovi
di Novara appoggeranno pressoché costantemente i re e
gli imperatori di Germania, i quali, per questa fedeltà,
saranno generosi di riconoscimenti e di nuove donazioni. L’occasione più propizia fu colta nella lotta che op-
pose Arduino marchese d’Ivrea, pretendente alla corona d’Italia, ed il re germanico Enrico II. Il vescovo Pietro di Novara, schieratosi al momento opportuno con
Enrico II, fu perseguitato da Arduino, per cui dovette
fuggire e subire notevoli danni nei suoi possedimenti.
Sconfitto Arduino, il vescovo Pietro, recatosi alla corte
dell’imperatore Enrico, ebbe in dono, per la sua fedeltà
e in risarcimento dei danni subiti, il comitatulo ossolano cioè la pars publica dell’antica contea dipendente dal
castello di Mattarella. Il solenne diploma concesso alla
Chiesa Novarese nel 1014 segna dunque l’inizio del dominio feudale della medesima nell’Ossola, dominio che
durerà circa tre secoli.
Cronache dei secoli XI e XII
La società ed il sistema politico feudale sono al massimo sviluppo nel secolo XI, ma contemporaneamente si
intravvedono i segni di una grave crisi. Il tentativo da
parte degli imperatori di riaffermare il proprio potere su
una società disgregata e pullulante di mille contraddizioni politiche cozza con quello dei signori laici ed ecclesiastici. L’imperatore poi ha uno scontro diretto con
la Chiesa a causa delle investiture ecclesiastiche collegate con i feudi da esse dipendenti.
Nella lotta che ebbe per protagonisti il papa Gregorio
VII ed il re Enrico IV i vescovi di Novara si mantennero dalla parte dell’imperatore e molti di essi ricevettero da lui l’investitura senza essere riconosciuti dal Papa
e quindi sono spesso ricordati come «invasori della cattedra di S. Gaudenzio». Grande era anche la decadenza dei costumi del popolo e del clero, dovuta al fatto che gli ecclesiastici erano più impegnati negli affari politici ed economici che non nel ministero pastorale. Il clero era poi spesso viziato dalla eresia dei Nicolaiti per cui, contravvenendo alla disciplina della Chiesa cattolica latina, molti preti prendevano moglie. Anche su questo punto dobbiamo notare che i vescovi di
Novara sono fra quelli che, come il vescovo di Vercelli e
l’arcivescovo di Milano, si oppongono alla riforma del
clero, ostacolando quel movimento popolare detto dei
Patàri, sorto a Milano, che riuniva tutti gli uomini desiderosi di eliminare tale piaga. In questo tempo subisce il martirio il diacono Arialdo di Milano, capo della
Patarìa, che viene ucciso nell’isola Madre del lago Mag-
giore da due preti nicolaitici su ordine di Oliva, nipote dell’arcivescovo Guido di Velate. Il mondo cristiano è frattanto sollecitato a muoversi per opporsi all’avanzata dell’Islamismo divenuto padrone della Palestina e pronto ad estendere il suo dominio in Africa ed in
Europa. Dopo vari tentativi andati a vuoto, finalmente una Crociata organizzata dai principi cristiani riesce
a riconquistare Gerusalemme e la Palestina, dando origine ad un regno cristiano (1099), il cui primo re fu il
glorioso Goffredo di Buglione.
Tutti questi eventi produssero effetti sociali importanti. Il popolo cominciò a partecipare attivamente alle vicende politiche e religiose, al movimento della Patarìa
ed alle Crociate, organizzandosi in varie corporazioni
nelle città e liberandosi dalla servitù della gleba nelle
campagne. A Milano nasce il Comune con i suoi consoli e magistrature nuove. La nobiltà è costretta a inurbarsi e riconoscere l’autorità del Comune. Il movimento comunale si estenderà lentamente alle campagne fino
a coinvolgere anche i centri più piccoli.
Frattanto in Ossola e nel Novarese i signori laici, già
aderenti a re Arduino, cercano di riprendersi quei beni
che gli imperatori Enrico II e Corrado II avevano assegnato alla Chiesa novarese. I signori di Pombia, poi denominati Conti di Biandrate, i Conti di Castello, i conti di Crusinallo estendono i loro possessi nel Novarese, nel Vercellese, attorno al lago Maggiore e nell’Ossola. I vescovi novaresi tengono a mala pena il castello
e le terre dipendenti dalla Corte di Mattarella in Ossola, ma anche questo feudo viene qua e là occupato da
quei signori.
Fortunatamente dopo una serie troppo lunga di vescovi intrusi, risolta almeno in parte la questione delle investiture, sulla sede di S. Gaudenzio di Novara salgono
vescovi legittimi, cominciando da Riccardo e seguito da
Litifredo (1124-1151) con i quali si ha un deciso miglioramento religioso e civile. Le lotte precedenti in cui
il clero fu parte attiva avevano infatti molto diminuito il fervore cristiano del popolo che i preti nicolaitici
non avevano provveduto a istruire e guidare. Ecco perché, dopo le mirabili chiese con cui si chiude il secolo
X, come S. Bartolomeo di Villa e S. Maria di Trontano,
non sorgono nuovi edifici religiosi se non nel secolo XII
come S. Martino di Masera, S. Maria Maggiore in val
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Vigezzo, S. Maria di Montecrestese, S. Stefano di Crodo ecc. Il vescovo Litifredo ottenne dal papa Innocenzo
II, nel 1133, una Bolla dalla quale sappiamo che in Ossola vi sono solo tre pievi o parrocchie: la pieve di Domodossola, la pieve di Vergonte e la pieve di Mergozzo.
Da ognuna di queste pievi dipendevano le chiese sussidiarie costruite da tempo in tutte le valli. Con il vescovo
Litifredo si avvia, crediamo, il processo di separazione
delle varie parrocchie dalla pieve-madre che, secondo la
necessità e le circostanze, condurrà alla situazione presente. Sono prime a separarsi le parrocchie vallive di val
Vigezzo con S. Maria Maggiore, di val Antigorio con S.
Stefano di Crodo, di val Divedro con S. Maria di Crevola, di valle Antrona con S. Bartolomeo di Villa, seguite da altre. Domodossola riprende intanto il suo ruolo
di capitale dell’Ossola superiore, non solo per il mercato settimanale del sabato che vi si faceva da epoca immemorabile, ma soprattutto perché centro della vita religiosa della pieve.
La sua chiesa pievana o Duomo sostituirà l’antico nome
di Oscella e sarà Duomo di Oscella o Domodossola. All’inizio del secolo XII prende anche il nome di Borgo.
Infatti numerosi signori vi hanno le loro abitazioni ed il
vescovo pone alcuni funzionari e uffici nel suo palazzo
in servizio della comunità.
L’Ossola inferiore, parte della valle Vigezzo, della val
Formazza, della val Divedro ed alcuni luoghi attorno
a Domo, come Vagna, Montecrestese, Caddo e Masera
sono di proprietà almeno parziale dei Conti di Castello, di Biandrate e di altri signori.
Morto il vescovo Litifredo nel 1151 gli successe Guglielmo Tornielli. Nel 1154 scende in Italia l’imperatore
Federico, duca di Svevia, detto il Barbarossa, allo scopo
di sottomettere all’autorità imperiale quei comuni che,
come Milano, si stavano apertamente emancipando. Il
vescovo Tornielli, essendo l’imperatore a Casale, ottenne un diploma di conferma di tutti i beni e diritti feudali concessi dai re ed imperatori precedenti.
In questo diploma datato 3 gennaio 1155 è esplicitamente ricordato il castello di Mattarella con tutte le sue
pertinenze (castrum Mattarellae cum omnibus pertinentiis suis). Ma lo stesso imperatore aveva nel 1152 confermato i feudi dei conti di Biandrate fra cui il castello di Megolo con tutto il comitato dell’Ossola. Eviden22
temente non poteva essere intenzione dell’imperatore
di dare lo stesso territorio in feudo a due enti diversi.
Si deve quindi ammettere che, data la complessa situazione giurisdizionale del territorio, il comitato ossolano
confermato ai conti di Biandrate fosse altra cosa dal comitatulo ossolano dipendente dalla Corte di Mattarella e dal vescovo.
Il Comune di Novara, il suo vescovo ed i potenti signori di Biandrate e di Castello continuarono a mantenersi
fedeli all’imperatore anche in occasione della sua seconda discesa in Italia nel 1158, e dopo la scomunica che
contro i partigiani di Federico Barbarossa aveva lanciato il legato del papa Alessandro III nel 1160.
Anzi i Novaresi, e con essi gli Ossolani, parteciparono
alla presa di Milano ed alla sua distruzione nel 1162.
Tornato in Italia il Barbarossa nel 1166 trovò però i popoli molto malcontenti del governo imperiale. Molte
città si distaccano dall’imperatore e fanno lega con Milano. Anche il Comune di Novara ed il nuovo vescovo Guglielmo Falletto aderiscono il 15 marzo 1158 alla
Lega. I Conti di Biandrate, i Conti di Castello ed altri
signori si mantengono invece fedeli all’imperatore.
Quando il Barbarossa seppe che Novaresi e Vercellesi
avevano aderito alla Lega Lombarda fu fortemente irritato contro Vercelli e Novara, ma intanto le milizie
di questi due comuni distruggevano il castello di Biandrate giurando poi di impedirne sempre la ricostruzione. La Lega si perfezionò e ingrandì negli anni seguenti con l’adesione di altri comuni come Pavia. Lo scontro fra le milizie della Lega Lombarda e quelle imperiali
si ebbe nella memorabile giornata del 29 maggio 1176
a Legnano in cui il Barbarossa fu vinto ed a stento poté
salvare la vita.
Egli dovette poi concedere ai Comuni il privilegio di
Costanza il 23 giugno 1183, con cui questi ebbero una
certa autonomia. I Comuni avrebbero eletto liberamente i consoli ed altri magistrati e l’imperatore avrebbe dato ad essi l’investitura. Sulla falsariga dei comuni
maggiori si organizzarono in seguito tutte le comunità, fatto che riscontriamo puntualmente anche in tutta l’Ossola.
Cronache del secolo XIII
II Comune di Novara nel secolo XIII è proteso a sotto-
porre tutto il territorio della diocesi di Novara. È quindi naturale che in questo disegno dovessero essere eliminati tutti i signori feudali che possedevano beni in
quel territorio, compreso il vescovo. I Novaresi tentano
anzitutto di ridurre i Conti di Biandrate e di Castello
a riconoscere l’autorità del Comune. Il 19 agosto 1218
Guido fu Raineri Conte di Biandrate fu anzi costretto a
vendere al Comune di Novara tutti i suoi beni e castelli dell’Ossola e specialmente quello di Megolo e Medoletto, mantenendo la giurisdizione sui luoghi che però
era esercitata in nome del Comune di Novara. Anche i
Conti di Castello dovettero cedere le loro terre ed i castelli dell’Ossola e della valle Intrasca e sottoporsi al Comune di Novara. Ma i popoli soggetti non furono affatto contenti di questo cambio di autorità, né tanto meno
il vescovo che vedeva lesi molti dei suoi diritti su terre di
sua proprietà che venivano arbitrariamente sottoposte
ai consoli del Comune di Novara. Anche con il vescovo la lotta si fece aspra e fu difficile al vescovo impedire che i podestà del Comune di Novara esercitassero la
loro giurisdizione anche nelle valli ossolane dipendenti dalla Corte di Mattarella. La situazione era molto ingarbugliata giacché si ritrova che nella stessa comunità
esistevano uomini che dipendevano dal vescovo ed altri che, essendo stati soggetti ai Conti di Biandrate o di
Castello, dovevano sottoporsi alla giurisdizione del Comune di Novara. L’Ossola è come la pelle di un leopardo dove vescovo e comune hanno piccoli territori sparsi e disuniti fra loro.
Dopo l’ultima guerra in cui i Conti di Biandrate e di
Castello si appoggiarono ai Vercellesi per liberarsi dalle
pretese del Comune di Novara, alla quale parteciparono anche gli Ossolani ad essi sottoposti, e che si concluse con la presa e distruzione di Pallanza da parte dei Novaresi nel 1223, tutta l’Ossola inferiore cadde nel dominio del Comune di Novara, il quale pose i suoi podestà
nel borgo di Vergonte. In questo tempo i Novaresi costruirono anche il borgo di Intra ed elevarono Mergozzo al grado di borgo. Questi borghi tendono a chiudersi
con una cinta muraria. Nel 1233 il Comune di Novara
ed il vescovo Oldeberto eleggono dei rappresentanti per
fare un accurato censimento degli uomini e dei beni appartenenti alle due giurisdizioni, fissando anche la rigorosa proibizione che uomini e beni passassero in alcun
modo da una giurisdizione all’altra. Un secondo censimento fu necessario all’epoca del vescovo Sigebaldo fra
il 1260 ed il 1267.
Nell’Ossola Superiore intanto si verifica un fatto notevole. In occasione della discesa in Italia dell’imperatore
Ottone IV, il nobile Guido de Rodis, padrone di molti possessi in val Antigorio e in val Formazza, ne ottiene l’investitura con atto solenne del 25 aprile 1210, costituendosi valvassore dell’Impero e quindi indipendente dalla Corte di Mattarella. In Formazza, a Salecchio,
ad Agaro i discendenti di Guido de Rodis, con le varie
denominazioni (de Baceno, de Cristo ecc.) svilupparono lo sfruttamento degli alpeggi con notevoli vantaggi
economici. In questi luoghi essi avevano probabilmente
alcuni servi della gleba a cui si aggiunsero con un contratto enfiteutico numerosi nuclei famigliari di origine
walser provenienti dalla vicina Svizzera. Anche i possessi dei Conti di Castello e di Biandrate nelle parti più
alte delle valli Anzasca (Macugnaga) e Divedro (Gondo, Sempione) furono sfruttati con questo sistema degli insediamenti walser. Un gruppo di essi anzi venne
ad abitare anche ad Ornavasso ed a Migiandone invitati dai signori locali.
Nacquero nell’Ossola, sulla falsariga di quello che avveniva a Novara ed a Milano, i partiti Guelfi e Ghibellini qui detti degli Spelorci e dei Ferrari rispettivamente. Queste fazioni si combatterono aspramente fino alla
fine del secolo XVI.
Il vescovo per mantenere il proprio potere era costretto
ad appoggiarsi ai signori locali, i De Rodis, i Baceno, i
Silva, i Campieno ecc. verso i quali fu generoso di elargizioni e favori, concedendo investiture di decime ecclesiastiche spettanti alla mensa episcopale.
Ma tutte le vicende politiche che mutano governo a
Milano ed a Novara si riflettono puntualmente anche
nell’Ossola. Emergono a Milano le potenti famiglie dei
Della Torre o Torriani e loro consorteria ed allora vediamo che membri di questa famiglia assumono la podesteria non solo del Comune di Novara, ma anche della
Corte di Mattarella. La caduta dei Torriani ed il prevalere dei Visconti, per opera soprattutto del vescovo Ottone Visconti, costringe anche il vescovo di Novara a
valersi di questi signori per mantenere il suo potere.
Molto utile all’Ossola fu la permanenza sulla sede di S.
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Gaudenzio del vescovo Papiniano della Rovere, dotato
di eminenti qualità politiche ed ecclesiastiche. Egli diede coraggiosamente inizio ad una riforma civile e religiosa della diocesi e dei suoi domini temporali con un
Sinodo (1298) di cui rimangono i canoni promulgati.
Provvide anche a difendere il dominio episcopale impedendo trapassi di giurisdizione.
Meritano anche un cenno alcuni avvenimenti dell’Ossola Inferiore. Il borgo di Pieve Vergonte subì una distruzione quasi completa per opera del torrente Marmazza. Fu quindi necessario costruire un altro borgo in
vicinanza e prese il nome di Pietrasanta, dove risiedeva
il Podestà dell’Ossola dipendente dal Comune di Novara. Ma anche questo borgo durò poco giacché subì ripetute devastazioni da parte del fiume Anza e nel 1328 fu
necessario abbandonarlo. Prese allora il titolo e la funzione di borgo l’abitato di Vogogna.
Cronache del secolo XIV
Nella lotta fra i partiti guelfo e ghibellino anche l’Ossola ebbe la sua parte nel secolo XIV. Durante la vacanza
della sede episcopale novarese il vescovo di Sion Bonifacio di Challant, ghibellino, scese in Ossola per il passo
del Sempione nel 1301 e devastò il paese saccheggiando il borgo di Domodossola. Non era la prima volta che
Quadro votivo. Domesi in processione contro le piene del Bogna (1690).
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l’Ossola subiva dai vicini Vallesani questo trattamento
poco amichevole. Ai borghigiani domesi parve necessario difendersi meglio cingendo l’abitato di una solida
cerchia muraria. L’idea venne condivisa anche dal nuovo vescovo Bartolomeo Quirino (1302-1304) il quale,
venuto a Domo, diede inizio al lavoro con la posa della prima pietra. Anche il successore Uguccione dei Borromei parve sulle prime propenso alla realizzazione di
questa importante difesa, ma successivamente, indotto nel sospetto che con l’erezione delle mura i Domesi
si sarebbero ribellati al vescovo conte per erigersi in comune autonomo, cercò di far fallire il progetto in parte già realizzato. Per tranquillizzare i Domesi fece un
accordo con il vescovo di Sion (1306) che incontrò al
Sempione e il 24 marzo 1307 ordinò esplicitamente la
sospensione dei lavori. Dubitando poi della fedeltà degli Ossolani il 27 aprile seguente convocò nella chiesa
plebana di Domo una Credenza Generale e tutti i rappresentanti delle comunità ossolane dipendenti dalla
Corte di Mattarella gli giurarono fedeltà come signore
temporale. Il sospetto del vescovo Uguccione era fondato. Il partito che anelava e tramava l’indipendenza organizzò una fiera opposizione al vescovo valendosi anche
di uomini rissosi e violenti. Nell’estate del 1307, mentre il vescovo Uguccione dei Borromei era a Domodos-
sola, un gruppo di armati guidato dal signor Guglielmo
di Pallanzeno, detto il Petrazzano, sorprese in casa il vicario o giudice del castellano di Mattarella, assieme al
notaio, il giurisperito Bernando de’ Marsili di Parma,
Enrico di Olevelo ed il sergente Guglielmo di Cortona
e li uccise. Assalì poi la casa del vescovo, cioè il palazzo
episcopale, ed Uguccione fu costretto a fuggire nel vicino campanile della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio,
dove restò assediato per tre giorni senza che alcuno gli
recasse aiuto. Nel contempo il Petrazzano riuscì anche
con uno stratagemma a penetrare nel castello di Mattarella e saccheggiarlo.
Liberato finalmente dalla sua incomoda abitazione, il
vescovo Uguccione, il 21 luglio 1307, lanciò l’interdetto sul borgo di Domo e scomunicò i suoi assalitori, allontanandosi dall’Ossola per cinque anni. Contro i Domesi ribelli fu mandato anche un piccolo esercito comandato da Ottobono Visconti, ma l’esito fu negativo. Nel 1310 con la venuta a Novara dell’imperatore
Enrico VII si ebbe una generale pacificazione dei partiti guelfi e ghibellini ed il vescovo Uguccione ottenne
nell’aprile del 1311 un diploma di conferma di tutti i
suoi diritti feudali. Nell’estate seguente un corpo militare di 400 uomini guidato da Pietro di Monteformoso,
castellano di Mattarella, assalì Domodossola, ma i Domesi con l’aiuto del Petrazzano e della sua banda di facinorosi respinsero l’attacco. In questa piccola guerra soffrirono anche i paesi vicini che avevano accettato di legarsi ai Domesi ribelli; Villa fu saccheggiata e subì l’incendio di 150 case. Ma anche il castellano Pietro da
Monteformoso fu respinto verso il Toce dove perdette
ben 200 uomini. Nel 1312 Uguccione ritornò in Ossola. Gli animi erano evidentemente cambiati, giacché
il 27 aprile, nel palazzo episcopale posto nel castello di
Mattarella davanti a lui compare il Petrazzano che chiede perdono dei suoi misfatti. Il vescovo gli confiscò tutti i beni posti nel territorio della sua giurisdizione temporale e lo mandò a domicilio coatto a Porto Val Travaglia. Le relazioni con i Domesi migliorarono negli anni
seguenti tanto che questi nell’autunno del 1314 si sottomisero al vescovo chiedendo di essere liberati dall’interdetto. Ma il Petrazzano che aveva frattanto ottenuto il permesso di mutare il domicilio coatto fissandolo
a Trontano, riuniti nel 1315 i compagni della sua ban-
da, si vendicò delle requisizioni fatte dal vescovo e saccheggiò molti dei beni episcopali specialmente a Villa.
Anche i capi ribelli domesi ripresero le armi e la costruzione delle mura del borgo rimasta sospesa; perciò il vescovo il 24 marzo 1317 rinnovò il precetto di sospendere la costruzione. Ma i Domesi si appellarono all’arcivescovo di Milano come metropolita ottenendo una sentenza favorevole. Il vescovo Uguccione fu allora costretto ad appellarsi al Papa che in quell’epoca risiedeva ad
Avignone. Il processo davanti agli uditori pontifici ebbe
inizio il 28 ottobre 1318 e si concluse con un compromesso negli arbitri Tebaldo Brusati prevosto di Novara
e Guglielmo Revelli decano di Burlazio della diocesi di
Castro, uditore apostolico, il 27 agosto 1321.
La sentenza, dell’11 dicembre successivo, riconobbe i
diritti del vescovo e impose ai Domesi l’abbattimento
delle mura, la multa di 1600 fiorini e la piena sottomissione al loro signore temporale. Ma Uguccione fu magnanimo con i Domesi, permettendo che le mura rimanessero e facendo piena pace con essi. Durante questo periodo di discordie molti furono tuttavia i dispetti,
le violenze e i disordini che avvelenarono l’animo degli
Ossolani. Nel 1331 divenne vescovo di Novara Giovanni Visconti, uomo potente ed astuto, il quale nell’anno
seguente, con uno stratagemma rimasto famoso, si fece
riconoscere signore generale di Novara. La strapotenza
dei Visconti costrinse gli Ossolani alla calma. Dal 1342
al 1354 Giovanni Visconti tenne poi la sede arcivescovile di Milano, ma mantenne la signoria del Novarese.
È questo il tempo in cui furono completate le difese di
Vogogna con la costruzione del castello, della rocca e
del Pretorio. Sulla sede di S. Gaudenzio fu posto invece Guglielmo Amidano il quale era uomo di molta religione e capacità di governo. Egli cercò di sopire le rivalità fra i partiti e le famiglie nobili ossolane. Ma le fazioni rispuntarono immediatamente con il successore Oldrado (1357-1388) di carattere completamente opposto. Spelorci e Ferrari si azzuffarono in continuità, favoriti dagli avvenimenti succedutisi nella seconda metà
del secolo XIV.
Con la morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti di Milano (1354) i nipoti Barnabò e Galeazzo si divisero il
vasto dominio. A Galeazzo toccò il Novarese e quindi anche l’Ossola Inferiore. Ma essendo sorta una lega
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contro i Visconti, costituita dagli Estensi, dai Gonzaga e dal Marchese di Monferrato, il Novarese fu invaso e saccheggiato dalle milizie mercenarie al soldo della lega, mentre il marchese di Monferrato, per il quale
parteggiava il partito ossolano degli Spelorci, occupava
l’Ossola inferiore e Vogogna. Con la pace dell’8 giugno
1358 Galeazzo Visconti tornò in possesso del Novarese
ed anche dell’Ossola inferiore, dopo un periodo nefasto
di lotte e rapine fra i partiti opposti. Vista la assoluta impotenza del vescovo conte a tenere a freno i suoi sudditi, gli Ossolani della Corte di Mattarella pensarono di
sottomettersi ai Visconti con alcune condizioni: che pagando 1000 fiorini annui fossero liberi da ogni altra tassazione e che fossero rimesse tutte le condanne per i delitti commessi nella precedente guerra, restituendo tuttavia ai castellani i loro stipendi e tutte le cose rubate.
L’atto fu firmato il 26 agosto 1358. Pare che il vescovo
Oldrado non abbia fatto alcuna opposizione a questo
atto di dedizione degli Ossolani ai Visconti.
Nel 1361 riprende la guerra fra i Visconti ed il marchese di Monferrato con tutte le conseguenze luttuose che
accompagnano simili eventi. Ci furono distruzioni vastissime, una gravissima carestia e poi la peste, portata dalle famigerate milizie mercenarie inglesi. A Novara per la peste morirono due terzi della popolazione,
77000 persone a Milano ed un numero enorme nelle campagne e centri minori. Ad aggiungersi venne nel
1364 il flagello delle cavallette che in forma di grandi
nubi di insetti scendevano sui campi, sui prati e sui boschi per divorare ogni cosa verde. Fu in questo tempo
che, a seguito dei voti dei montanari furono costruite
molte cappelle ed oratori dedicati a S. Bernardo di Aosta, protettore dalle infestazioni demoniache e tale pareva quella delle cavallette divoratrici.
Intanto contro i Visconti si muove anche il papa Gregorio XI che contro di essi bandisce una crociata e li scomunica. Si costituisce contro i Visconti una nuova lega
a cui partecipa anche il conte Amedeo VI di Savoia.
Tutti i popoli sottomessi vengono dal Papa invitati a ribellarsi. Gli Ossolani che per due secoli erano stati governati dai vescovi di Novara avevano frattanto, nei pochi anni in cui erano sottoposti ai Visconti, provato la
durezza del nuovo regime e quindi rinacque in essi il
desiderio, appena sopito, dell’indipendenza. Per otte26
nerla essi avrebbero anche seguito l’invito del Papa alla
ribellione ed a questo scopo inviarono ambasciatori segreti alla Corte di Avignone. Ma pare che il Papa non
approvasse il progetto dell’indipendenza che avrebbe
sottratto alla Chiesa novarese il feudo da essa posseduto. Il Papa spedì molte lettere ai personaggi più in vista
dell’Ossola affinché la ribellione fosse realizzata al più
presto. Al medesimo scopo inviò frate Valentino Moriggia, già guardiano del convento dei Frati Minori di
Domo, per legare insieme i nobili e capi delle varie fazioni e spingerli alla rivolta armata. Capitano fu scelto
il nobile Garbellino di Semonzio di Crevola, la cui famiglia prenderà successivamente il nome dei Dal Ponte,
dopo che, distrutte le sue case nelle lotte di questi tempi, il figlio Lorenzo costruì il suo palazzo presso il ponte sulla Diveria a Crevola. Sollecitati dal Papa gli Ossolani di parte Spelorcia si ribellarono ai Visconti, occupando il borgo di Domo, il castello di Mattarella ed altri luoghi, ma la parte ferraria non si mosse e fece fiera opposizione. Anzi, una compagnia di milizie spelorcie che tentava di giungere a Vercelli per dare aiuto al
nunzio papale nell’assedio di quella città, fu distrutta
dalla parte ferraria presso Anzola nel 1374. Ma la parte spelorcia si rivalse saccheggiando ed occupando momentaneamente Vogogna. Vista la incapacità del vescovo Oldrado di attendere ai suoi obblighi e la sua completa sottomissione ai Visconti, il Papa lo sospese, mandando in Ossola come vicari due canonici di Sion ed un
nuovo capitano nella persona di Merino de Ulmo, bergamasco, per nuove e più vaste operazioni militari. La
lotta infatti era degenerata nel brigantaggio. Venuta finalmente la pace, firmata a Samoggia il 19 luglio 1375,
il Novarese ritornò in mano di Galeazzo Visconti.
Gli Ossolani, abbandonati a se stessi, continuarono la
guerra in proprio con ogni sorta di violenza pubblica
e privata. Alla fine ne furono stanchi e nauseati e non
trovarono di meglio che ritornare a sottomettersi ai Visconti. Lo fecero comunque con quella dignità e saggezza che permise loro di sentirsi più liberi. L’atto di
dedizione fu firmato nel refettorio dei Frati Minori di
Domo il 19 marzo 1381 da rappresentanti di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù, i signori Andrea dei Pepoli e Pietro di Muralto, ed i procuratori delle Comunità dell’Ossola superiore. La convenzione del 1381 dava
agli Ossolani una certa autonomia amministrativa, li liberava mediante lo sborso annuo di 750 fiorini da ogni
tassazione, permetteva ad essi il libero commercio delle granaglie ed altri beni di consumo sui mercati della
Lombardia e del Novarese, otteneva la reintegrazione
nei beni di quelli che avevano subito confische durante il periodo bellico. Il vescovo di Novara Oldrado ancora una volta non si oppose, e solo qualche tentativo
fu fatto più tardi dai suoi successori per tornare in possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio. Analogamente, con atto dell’11 aprile 1381, anche l’Ossola inferiore di parte ferraria si accordò con Gian Galeazzo Visconti.
I Visconti già nel 1379 erano venuti in possesso per
compera della terra di Ornavasso che apparteneva ai
Conti di Crusinallo ed era passata nel secolo XIII in
mano dei Conti di Castello. Su questa terra avanzava
pretese anche il vescovo di Sion per certi legami con la
famiglia detentrice del feudo che aveva residenza anche nel Vallese. Così tutta l’Ossola, eccettuato il piccolo feudo dei De Rodis-Baceno di Formazza, Agaro e Salecchio, entrò nel dominio visconteo.
Fu mantenuta in Ossola la divisione fra le due giurisdizioni con sedi rispettivamente a Vogogna ed a Domodossola, ognuna vivendo secondo le proprie leggi e statuti. In questo periodo però i Visconti giustamente promossero riforme statutarie al fine di uniformare le leggi su tutto il territorio e favorirne l’unità amministrativa e civile. Sotto Gian Galeazzo Visconti furono riformati gli antichi statuti della Corte di Mattarella e fatti molti altri.
Prima di chiudere la cronaca del secolo XIV, ricordiamo che il vescovo Pietro Filargo, poi divenuto papa col
nome di Alessandro V, rivendicò formalmente il possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio con
un diploma che egli ottenne dall’imperatore Venceslao,
assieme al titolo di duca per Gian Galeazzo Visconti
(1395) di cui era grande amico e favoreggiatore. Si presume però che a questo atto formale non seguisse alcun
che. Probabilmente Gian Galeazzo Visconti provvide a
tacitare il vescovo di Novara assegnando alla sua mensa
alcune sicure entrate delle quali si riscontrano le tracce
nei secoli seguenti, come i diritti sulle miniere di ferro,
di laugera ed altri.
Cronache del secolo XV
Alla morte di Gian Galeazzo Visconti si creò nel ducato di Milano una situazione politica incerta e nell’Ossola le fazioni degli Spelorci e dei Ferrari ripresero a
combattersi assoldando spesso anche bande di facinorosi. Dalla parte spelorcia è ricordata una vittoria riportata sulla parte avversa nel 1406 (21 marzo) che diede
origine ad un voto a S. Benedetto.
In questa incerta situazione politica il vescovo di Novara Capogallo si intromise per pacificare gli Ossolani.
Nel 1404 ottenne dal duca di Milano a questo scopo la
reintegrazione nel dominio temporale dell’Ossola superiore. Riuscì nel 1404 a mettere pace in valle Antigorio la quale però esigette il riconoscimento di una certa indipendenza ed una parziale separazione dalla Corte di Mattarella con l’erezione di una nuova vicaria che
ebbe la sua sede a Crodo e che durerà fino al 1861.
Il 10 luglio 1406 anche la valle Vigezzo elegge i suoi
procuratori per una pacificazione seguita dal perdono
generale dato dal vescovo Capogallo il 13 dicembre del
medesimo anno. Si era nel contempo guastata anche la
pace con gli Svizzeri confinanti. Nel 1407 la parte spelorcia si riappacificò anche con essi, cioè con i Vallesani ed il vescovo di Sion. Si trattò però di una pace puramente interlocutoria. I Cantoni svizzeri infatti premevano per accedere al versante sud delle Alpi, verso
la Lombardia, che in quell’epoca era una delle regioni
più ricche d’Europa. Esportatori di milizie mercenarie,
gli Svizzeri, tenevano in gran conto ogni piccolo sgarbo per giustificare la loro presenza in Ossola. Prendendo dunque motivazione da alcuni sequestri di bestiame
fatti dai Formazzini a danno dei Leventinesi, in quel
tempo dominati dai Cantoni svizzeri di Uri e Unterwald, oltre 300 Svizzeri scesero in Ossola venendo dal
Gottardo e dal Sempione, occuparono Domodossola
esigendo dagli Ossolani il giuramento di fedeltà, del
cui valore si può dubitare. Lasciato un presidio in Ossola se ne andarono. Ma poco dopo questo fu cacciato.
Tornarono in maggior numero gli Svizzeri l’anno seguente, rioccupando Domo e spingendosi fino a Vogogna. Gli Ossolani chiesero segretamente aiuto al conte Amedeo VIII di Savoia che inviò attraverso il Sempione un robusto corpo di armati sotto la guida del capitano Pietro di Chivron, costringendo verso la fine di
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maggio del 1411, gli Svizzeri a ritirarsi. Anche Amedeo
VIII di Savoia ottenne il giuramento di fedeltà dagli
Ossolani di parte spelorcia.
Nel 1415 gli Svizzeri discesero nuovamente in Ossola
sorprendendo le scarse milizie savoiarde poste alla difesa dell’Ossola. Occuparono Domodossola ed il castello di Mattarella e per tutelarsi ulteriormente inviarono numerose squadre di Ossolani a distruggerlo, lasciandovi un gran cumulo di rovine. Rinforzi mandati
dal Duca di Savoia ottennero il ritiro degli Svizzeri dall’Ossola fino al febbraio del 1417, quando un numeroso gruppo di essi scese dal Gottardo lungo il lago Maggiore e risalì l’Ossola da Sud. Le milizie savoiarde furono imbottigliate in val Divedro e in gran parte massacrate. Con questa spedizione gli Svizzeri occuparono
tutta la regione sulla sponda destra del Toce, da Villa in
su fino a Pontemaglio e tutta la valle Antigorio e Formazza, ponendo numerosi presidi armati per circa cinque anni. Il vescovo di Novara tentò ancora una volta
di recuperare il dominio temporale in Ossola promuovendo un processo contro gli Svizzeri occupanti davanti al Papa. Il processo fu fatto e concluso con la sentenza
del 16 dicembre 1420 in cui essi vennero scomunicati
e condannati, ma l’Ossola rimase nelle loro mani fino
al 1422, quando milizie scelte ducali, al comando del
famoso capitano Conte di Carmagnola, inflissero agli
Svizzeri la tremenda sconfitta di Arbedo presso Bellinzona (30 giugno 1422), costringendoli allo sgombero
di tutti i territori occupati. Tre anni dopo, nel 1425, gli
Svizzeri approfittando del fatto che il duca di Milano
Filippo Maria Visconti doveva tener testa ad una coalizione che comprendeva Venezia, Firenze ed il Duca di
Savoia, ritentarono la conquista dell’Ossola con un piccolo esercito di 500 armati al comando di Peterman Risigh di Switt che scelse la via del Gottardo e del Gries,
mentre forti gruppi di Vallesani penetravano attraverso
i passi del Sempione, della val Bognanco ed Antrona.
I capitani ducali viscontei dovettero ritirarsi nella bassa Ossola, dove si riorganizzarono e si raccolsero sotto il
comando del capitano Piccinino, il quale era giunto in
Ossola con un buon gruppo di milizie ducali. Gli Svizzeri, vista la situazione, si ritirarono non solo dall’Ossola, ma anche dalla valle Leventina e da Bellinzona.
Alcuni storici svizzeri affermano che tale ritirata non fu
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dovuta al timore delle armi viscontee, quanto piuttosto
al denaro sborsato dagli emissari ducali ai capitani svizzeri (1426).
Le continue invasioni svizzere favorirono nel secolo XV
in Ossola non solo le lotte fra i partiti dei Ferrari, generalmente fedeli al Duca di Milano, e degli Spelorci, più
propensi all’indipendenza, ma anche la nascita di un
consistente partito filosvizzero, rendendo la difesa dell’Ossola ancora più problematica. La pressione svizzera infatti continuò, favorita anche dalla litigiosità degli
Ossolani sugli alpeggi confinanti, da ruberie di bestiame, da angherie, incendi e omicidi in val Antrona, in
val Bognanco, in val Divedro ed in valle Antigorio. Tuttavia il 1° aprile 1448 fu firmato un compromesso fra il
Vallese e l’Ossola superiore allo scopo di evitare il peggioramento della situazione ed un’altra guerra.
Morto il duca Filippo Maria Visconti (1447), subentrò
per poco tempo la così detta Repubblica ambrosiana,
ma il Ducato di Milano cadde quasi subito nelle mani
del capitano Francesco Sforza dal quale gli Ossolani ottennero il 26 marzo 1450 la conferma dei loro privilegi. Con Francesco Sforza si apre un periodo di relativa tranquillità in Ossola dove vengono anche rinnovati tutti gli Statuti delle Comunità e si tenta di dare più
unità e conformità ai medesimi. La necessità tuttavia di
ottenere fondi sufficienti per le continue guerre in atto
costringe i Duchi di Milano a cedere in feudo poco alla
volta gran parte dell’Ossola, nonostante le rimostranze
degli Ossolani che vantavano il privilegio di essere completamente esenti da queste infeudazioni. Già il duca
Filippo Maria Visconti aveva dato Ornavasso in feudo ai fratelli Ermes e Lancillotto Visconti, feudo che fu
eretto in baronia nel 1413. Era un modo di gratificare
personaggi meritevoli per il Ducato.
In valle Vigezzo già alla fine del 1300 la giustizia era
amministrata da un vicario sia per la parte dipendente
dalla Corte di Mattarella che per quella dipendente da
Vogogna; ma nel 1430 il distacco è definitivo. Nel 1431
Mergozzo fu unito a Vogogna. Nel 1446 il duca Filippo Maria Visconti diede in feudo a Vitaliano Borromeo
tutta l’Ossola inferiore da Mergozzo a Masera, da Migiandone a Pallanzeno e tutta la valle Anzasca, imponendo il giuramento di fedeltà al feudatario. Si verificarono
forti resistenze all’infeudazione, specie in valle Anzasca,
resistenze che vennero superate con accordi stabiliti il 3
agosto 1449 e con l’approvazione degli Statuti presentati dalle comunità soggette. Vogogna fu la capitale del
feudo dei Borromei. Poco dopo, 5 maggio 1450, anche
l’intera valle Vigezzo venne da Francesco Sforza data in
feudo al conte Vitaliano Borromeo. Una costituzione
particolare fu scelta per le comunità di Trontano, Masera, Beura e Cardezza che in seno al dominio feudale dei
Borromeo ebbero una propria vicaria che fu detta delle
Quattro Terre. Il dominio feudale dei Borromei estendentesi anche nelle zone limitrofe della valle Cannobina e sul lago Maggiore cesserà alla fine del secolo XVIII
con l’abolizione generale dei feudi seguita alla occupazione francese dell’Italia.
Il 1487 è un anno memorabile per l’Ossola. Gli Svizzeri rinnovano infatti il tentativo di occupare l’Ossola.
I motivi o, meglio, i pretesti per mascherare il loro disegno antico di arrivare sulle sponde dei laghi subalpini erano naturalmente sempre gli stessi, del tutto insignificanti, sebbene raccolti con molta cura. Gli Sviz-
zeri avevano fama di soldati imbattibili e la loro tracotanza diceva che ne erano molto convinti. L’anima di
queste spedizioni era il vescovo di Sion, Jost von Sillinen (1482-1494). Già nel 1484, avvisato dal podestà di
Vogogna Bertolino Albasino dei preparativi che si stavano facendo al di là delle Alpi, Lodovico il Moro che
reggeva il ducato di Milano per il duca Giovanni Galeazzo Maria Visconti, rinforzò i corpi militari di guardia e difesa dell’Ossola, mandandovi come comandante il celebre capitano conte Gian Pietro Bergamino. Il
28 ottobre 1484 il vescovo di Sion dichiara la guerra al
duca di Milano ed invia immediatamente un esercito,
comandato dal fratello Albino, attraverso il Sempione.
Occupata momentaneamente la valle Divedro, appena
questi si accorge di aver di fronte un grosso contingente di armati ducali pronti al combattimento, riporta in
fretta i suoi oltre le Alpi, con grave disappunto del vescovo Jost. Nel 1487, col pretesto di vendicare delle offese fatte ai Vallesani in val Divedro, il vescovo Jost invia un altro esercito più numeroso ed agguerrito in Os-
Domodossola, Colle di Mattarella, torre d’angolo del castello (sec. XI - XIV).
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sola, sempre al comando del fratello. Prima del 18 aprile, giorno in cui fu dichiarata la guerra, già un buon numero di armati era stato concentrato dal conte Gilberto Borromeo a Vogogna, sebbene non riuscisse a convincere gli uomini dell’Ossola Superiore ad unirsi con
lui per difendere la val Divedro, forse per l’antico antagonismo di parte. Fortunatamente il 18 aprile un altro
contingente di truppe al comando del capitano Zenone
de Cropello, con 500 fanti e 50 schioppettieri, giunse a
rinforzare la difesa del borgo di Domo. Si aspettava anche l’arrivo in Ossola con le sue genti armate del condottiero ducale Renato Trivulzio, fratello del più famoso Gian Giacomo. La mattina del 20 aprile dalla gola
di Crevola si affacciarono i 6000 Vallesani a cui si erano aggiunte altre bande di Lucernesi. Questi, dopo aver
mandato ad occupare e presidiare la val Antigorio, puntarono sul borgo di Domo. Convinti dalle artiglierie del
capitano Zenone e da quelle di Gian Antenore Traversa, che in quel tempo comandava il presidio di Domo,
girarono al largo e si accamparono sul colle di Mattarella fra i ruderi del castello, non senza aver devastato i
luoghi circostanti.
Il giorno dopo, il 21 aprile, eccoli a incendiare ed a razziare da Calice fino a Villa. Il conte Gilberto Borromeo
in una lettera del 20 aprile al Duca, informa che prima
ancora di accamparsi a Mattarella questi thodeschi hanno corso li a cerchio fin appresso a Villa mettendo a focho
e fiama ogni cosa et amazando fin a li puti picoli, per non
poterli obviarli non havendo altra gente che paesani, quali sono voluti restare a casa loro per guardia de le sue cose.
Tornarono gli Svizzeri il giorno seguente (22 aprile) in
numero di circa 400 per assaltare Villa, ma vi trovarono una resistenza accanita da parte della gente del luogo
in cui aiuto erano accorsi i robusti montanari della val
Anzasca. I predatori svizzeri, tornarono a mani vuote,
dopo essersi vendicati bruciando qualche casolare.
In quel medesimo giorno giunse in Ossola il Trivulzio
col suo esercito e si fece un piano di guerra. Ma gli uomini della valle Anzasca e della valle Antrona che avevano fatto buona resistenza a Villa, o per timore o per
calcolo, dubitando forse che qualche gruppo di Vallesani giungesse alle loro spalle, come altre volte, attraverso i passi del Monscera, di Saas e del monte Moro, non
vollero partecipare alla battaglia, cercando di mettere
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in salvo le loro robe e dando così appiglio all’accusa di
essersi segretamente intesi coi Vallesani. I timori degli
Antronesi erano giustificati. Giovan Battista del Ponte scrive il 18 aprile al Duca di Milano: quilli (todeschi)
quali sono venuti per la valle di Antigorio sono secundo se
dice gente de la Liga del Bo, et ho inteso che bruxano et
hano bruxato case et quelle gente che trovino de detta valle, menano tutty per ly terri. De hora in hora aspectamo un
altro assalto per la valle de Bugnanco da quilli frieri (frilli) quali erano nel campo di Saluzo... Aviso V. Excellentia
como domatina Deo danti me porto da qui et vado in la
valle Antrona et con li homeni de dicta valle che sono a numero di circha 600 homini et valenthomini et con certi altri homini de questa vostra jurisdictione farò tuto il podere mio per andare a bruxare a disfare una valle del Vescovo de Valese nominato Valzosia (Saas) quale confinia con
dicta valle de Antrona et de tutto quello che se farà, ne avisarò V. Excellentia. Non pare che il disegno del capitano
Del Ponte sia stato condotto a termine, ma gli uomini
di Antrona fecero buona guardia alla loro Valle.
Non ci furono scontri importanti fino al giorno 27 aprile, tanto che la notte del 25 aprile 2000 Vallesani salirono in val Vigezzo a far bottino. Giungevano frattanto in
Ossola altri rinforzi ai ducali ed in special modo il conte
Gian Pietro Bergamino con 2000 fanti; così che i ducali
potevano schierare in campo circa 3500 uomini.
Il 27 aprile Renato Trivulzio volendo saggiare la consistenza del nemico avanzò da Vogogna verso Beura con
50 balestrieri. La piccola schiera fu avvistata dagli Svizzeri dal castello di Mattarella e 500 di essi calarono sul
piano di Calice. Un gruppetto di ducali guidati dal capitano Jacopo dal Corte non esitò ad attraversare il Toce
ed attaccare duramente i Vallesani che lasciarono sul
terreno 50 morti e dovettero fuggire.
Questo assaggio era stato parecchio amaro per gli Svizzeri ed il loro comandante Albino di Sillenen ne trasse cattivi auspici. Mandò in fretta a richiamare dalla val
Vigezzo quelli che erano saliti a bottinare perché si affrettassero verso il ponte di Crevola dove anch’egli si
diresse coi suoi, lentamente, per guadagnare l’imbocco
della val Divedro e non vedersi tagliata la via dai ducali.
Mossisi gli Svizzeri da Mattarella verso Preglia, i capitani Zenone e Traversa che erano in Domo ne mandarono avviso a Vogogna dove il Trivulzio ed il Bergami-
no stavano concertando un piano di guerra. Il capitano
Jacopo dal Corte raggiunge Domo e coi suoi balestrieri sorprende gli Svizzeri a Preglia. Giunti anche Zenone e Traversa vengono attaccate le retroguardie svizzere
e costrette a impegnarsi. Sopraggiunge anche il Trivulzio che manda immediatamente un corpo di fanti scelto per il ripido sentiero che da Preglia porta in val Divedro ad occupare il ponte dell’Orco sulla Diveria, nel
punto cioè in cui la strada del Sempione salendo da
Crevola passa sulla sponda destra del Diveria, poco prima della frazione S. Giovanni, tagliando così la ritirata agli Svizzeri. La battaglia si accende quindi nel piano
fra Preglia e Crevola e nei pressi del ponte. Gli Svizzeri si ritirano lentamente aspettando di congiungersi con
il gruppo dei bottinatori saliti in val Vigezzo. Appena
questi furono visti scendere dai colli di Trontano con il
frutto delle loro razzìe, Jacopo dal Corte con un gruppo
di balestrieri a cavallo lascia Preglia e, passato il Toce, si
fa loro incontro. Gli Svizzeri si fermano e si chiudono
in difesa, ma pur essendo forniti di molte armi e anche
di schioppi ebbero notevoli danni dai balestrieri ducali. Ma poiché, nonostante i danni subiti si mantenevano chiusi in difesa, Jacopo dal Corte simulando una fuga, riuscì a sparpagliarli sul terreno, caricandoli poi duramente così che ne restarono uccisi un migliaio, abbandonando il bottino ed ogni cosa. Pochi riuscirono
a ricongiungersi coi loro, mentre la maggior parte degli
scampati fu braccata e trucidata dai montanari di Trontano e Masera.
La notizia di questo scontro e del risultato, giunta a
Crevola, portò il morale dei ducali alle stelle. Sopraggiunti anche il Bergamino ed il Borromeo con gli uomini di armatura pesante, si schierò l’esercito e fu dato
l’attacco al ponte di Crevola. La battaglia fu durissima e
combattuta con valore da ambo le parti. La sorte per gli
Svizzeri volse in sfavore quando un gruppo di cavalleria
ducale riuscì a passare la Diveria e prenderli alle spalle,
cosa che fece anche Jacopo dal Corte giungendo in quel
frattempo da Masera per la piana di Montecrestese. Gli
Svizzeri cominciarono a cedere, lasciando il ponte sotto il quale a centinaia si ammucchiavano i cadaveri ad
arrossare le acque del fiume e cercarono la difesa nelle vicine case tentando contemporaneamente di guadagnare la strada della salvezza. Ma questa era sbarrata al
ponte dell’Orco. Lungo l’angusta strada che si inerpica
sul monte furono facile bersaglio delle balestre puntate
su di loro e dei grossi massi rotolati dall’alto. Quelli che
non precipitarono nel fiume furono circondati e uccisi
o braccati dai paesani che non mancarono di incrudelire su di loro per vendicarsi di tante violenze passate.
Si dice che almeno 2000 Svizzeri morissero in questa
che fu una delle più gravi sconfitte subite da essi. Gli
Ossolani in ringraziamento dell’ottenuta vittoria, proprio sul luogo della battaglia al ponte di Crevola, costruirono un oratorio dedicato a S. Vitale, padre dei
Santi soldati Gervasio e Protasio, facendo anche voto di
visitarlo nel giorno della festa.
Dopo questa battaglia Ludovico il Moro venne in Ossola, pagò i soldati, visitò la valle ordinando gli opportuni restauri al castello di Mattarella ed alle altre torri
di difesa ossolane e gli sbarramenti al Passo di Premia
ed al Passo di Croveo contro possibili invasioni svizzere. Venne anche riorganizzato il sistema di rapide informazioni per mezzo di una rete di segnali che dalle valli
estreme erano rimandati da torre in torre fino a Milano.
La pace fu firmata il 23 maggio 1487 a Domodossola e completata con altra firmata a Milano il 9 gennaio
1495. Con questa il vescovo di Sion rinunciava ad ogni
pretesa sull’Ossola; tuttavia il ducato di Milano e quindi anche l’Ossola perdette definitivamente tutta la zona
che da Gondo, dove passa l’attuale confine italo-svizzero, giunge a Lattinasca, ossia all’attuale Gabi, comprendente la val Vaira, detta attualmente Schwitzbergental.
La pesante lezione della battaglia di Crevola non era
però stata sufficiente agli Svizzeri. Il vescovo Jost, sollecitato da Carlo VIII di Francia, rinnova l’attacco al ducato di Milano cercando di rendersi padrone dell’Ossola. Il 23 marzo 1495, mentre un gruppo di Svizzeri al
comando del famoso capitano Giorgio Supersaxo, che
tuttavia si era opposto in sede di consiglio a questa spedizione, evitando Domodossola, scendeva ad occupare
Villa e Piedimulera, il vescovo Jost con un altro gruppo
puntò su Domodossola sotto le cui mura però fu battuto e dovette riguadagnare il Sempione.
La val Formazza, stanca del dominio feudale dei De Rodis-Baceno chiese a Lodovico il Moro di esserne finalmente liberata e di dipendere direttamente dal Ducato
di Milano. Dopo lunghe insistenze, paventando forse
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che i Formazzini di origine walser decidessero di darsi
ai vicini Svizzeri, il Duca tolse il feudo ai De Rodis-Baceno, né valse una causa da essi fatta contro tal provvedimento a recuperarlo. Restò comunque ad essi Salecchio ed Agaro che passò in feudo ai Marini di Crodo e
successivamente fu comperato dal conte Giulio Monti di Valsassina.
Gli Ossolani rinnovarono anche la richiesta di conferma degli antichi privilegi ed il duca Ludovico il Moro
la concesse il 28 febbraio 1495.
Un cenno deve essere fatto anche di due avvenimenti
che commossero la devozione degli Ossolani. Nel 1492
un dipinto della Madonna nella chiesa di Cravegna si
rigò di sudore e di lacrime. Nel 1494 è l’immagine della Beata Vergine dipinta sulla facciata della chiesa di Re
che, percossa dalla sacrilega sassata di Giovanni Zuccone di Londrago, emana ripetutamente ed alla presenza
di persone eminenti del clero, dei magistrati locali ed
anche di molto popolo, un fiotto di sangue dalla fronte colpita. Ambedue questi fatti furono sottoposti a immediata ed attentissima indagine con processi che ne testimoniano l’oggettività e storicità, in documenti originali ancora esistenti negli archivi e registrati.
Cronache del secolo XVI
Ludovico il Moro con la sua politica ambiziosa non
mancò di attirarsi le odiosità dei sudditi e le gelosie
dei principi che vantavano qualche diritto sul ducato
di Milano. Primo fra tutti il nuovo re di Francia Luigi
XII, succeduto a Carlo VIII, la cui venuta in Italia aveva
scombussolato l’intera penisola. Vantava il re francese la
discendenza da Valentina Visconti data in sposa da Gian
Galeazzo nel 1389 a Ludovico duca di Turenna, fratello
di Carlo VI e figlio di Carlo V re di Francia. Tutto questo era noto e non mancarono di sorgere numerosi partigiani per il dominio francese in Italia e sul ducato milanese in particolare, indirettamente favoriti dalla politica di Ludovico il Moro che si era creato attorno molte inimicizie. Gian Giacomo Trivulzio non esitò a porsi al servizio del re di Francia e a capitanare un esercito francese che, sceso in Italia nel 1499, costrinse Ludovico il Moro a rifugiarsi in Tirolo mentre il re francese
Luigi XII, il 23 settembre entrava trionfalmente in Milano, ritornando però subito in Francia portando seco
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il conte Francesco Sforza ancora fanciullo.
Incominciarono così tutte le traversie del Ducato Milanese conteso entro la fine del 1400 e la metà del 1500
fra gli Sforza, i Francesi e gli Spagnoli.
Tutti questi avvenimenti in rapida successione si riflettono puntualmente anche nell’Ossola dove prendono
nuovamente forza i partiti locali. Tramontati apparentemente il guelfismo e ghibellinismo, ossia i partiti degli Spelorci e dei Ferrari, si parteggia per il duca di Milano o per il re di Francia oppure addirittura per la Lega
Svizzera dei 12 Cantoni.
I capi delle fazioni sono sempre quei nobili che avevano scelto di conservare e crescere le loro fortune militando sotto le bandiere ducali o francesi, reclutando anche in Ossola quelle milizie di cui avevano bisogno, ed
alle quali assegnavano talvolta gli stipendi impegnando
i propri beni. Favorevoli al Duca di Milano sono i Ponteschi, facenti capo alla famiglia del Ponte discendente da quel capitano Garbellino di Semonzio di Crevola, il cui figlio aveva abbandonato le sue case in Semonzio perché distrutte nelle guerre del secolo XIV per costruirsi una abitazione presso il ponte di Crevola, donde il nome.
D’altra parte, favorevoli al re di Francia sono i Brenneschi, un ramo dei De Rodis-Baceno ai quali si erano
uniti i Della Silva e De Rido di Crevola.
Tutte le altre famiglie nobili o particolarmente fornite di censo erano costrette ad entrare nell’una o nell’altra delle due consorterie; ma anche i piccoli proprietari o fittavoli che tenevano da questi signori gran parte
dei loro beni in enfiteusi o avevano verso di essi obblighi particolari erano necessitati a seguirli. I partiti ed i
loro aderenti amavano distinguersi anche esternamente non solo dai colori delle proprie bandiere, ma anche nei vestiti, nelle decorazioni degli ambienti e perfino scegliendo posti separati nelle chiese e valendosi di
porte diverse.
Impadronitisi i Francesi del Ducato Milanese, furono
mandati commissari anche nell’Ossola ed il 17 ottobre 1499 troviamo a Domo in questa funzione il signor
Giovanni Domenico dei Rizzi luogotenente di Manfredo Tornielli governatore dell’Ossola per il re di Francia.
Il 18 novembre seguente il suo posto è preso dal capitano Bernardino de Baceno luogotenente del capitano
conte Giovanni di Neufchatell.
Frattanto una sollevazione di popolo, causata dalla sfrenata licenza e tracotanza dei soldati francesi, restituisce
momentaneamente Milano a Ludovico il Moro che nel
febbraio del 1500 rientra a Milano. In aiuto del Duca
erano scesi 6000 Svizzeri fra cui molti del Vallese il cui
vescovo Matteo Schinner parteggiava apertamente per
il Moro. Queste truppe scendendo dal Sempione costrinsero i Francesi ad abbandonare Domo. Infatti il
19 febbraio 1500 riprende il suo posto nella Curia di
Mattarella il commissario ducale Giovanni Luchino dei
Crivelli di Milano che già possedeva questo ufficio prima dell’arrivo dei Francesi.
Ludovico il Moro non riuscì però a riconquistare il Ducato. Il 3 aprile 1500, fatto prigioniero dai Francesi all’assedio di Novara, fu mandato a morire in Francia.
Pochi giorni dopo i Francesi sono nuovamente in Ossola, dove ritorna il governatore e capitano Giovanni di
Neufchatell.
Gli Ossolani devono ora prestare il giuramento di fedeltà al re di Francia. Il 13 aprile 1500 c’è una procura da parte del notaio Giovanni Muzzeti (i Muzzeti
sono un ramo dei De Rodis-Baceno) nei signori Bartelino degli Albasini di Vogogna, Simone degli Albertazzi di Vogogna, Filippo di Pontemaglio di Domo e Giovanni Giacomo della Porta di Domo e Antonio de Baceno di Domo, tutti notai per giurare fedeltà al cristianissimo re dei Francesi. Questa procura, fatta al Ponte
di Villa dovette essere il primo atto di sottomissione al
re francese.
In questo periodo deve essere avvenuto anche un fatto
che è riportato dal Bascapè. Antonio Chilino creato dal
duca Ludovico il Moro castellano di Mattarella, mentre
si recava in Ossola per entrare nell’ufficio assegnatogli,
fu spogliato dei suoi bagagli dai soldati del Conte Borromeo e consegnò poi al Neufchatell il borgo ed il castello di Domo colla condizione di riavere il suo bagaglio e di andar libero.
Il pontefice Giulio II non sopportava che nell’Italia predominassero i Francesi e fece ogni sforzo per togliere ad
essi il Ducato di Milano e darlo al duca Massimiliano
Sforza figlio di Ludovico il Moro. A questo scopo, col-
l’aiuto dell’imperatore Massimiliano e della Repubblica di Venezia, costituisce la Lega Santa (5 ottobre 1511)
che al grido di fuori i barbari dovrebbe cacciare i Francesi dall’Italia. Per realizzare i suoi disegni il Papa si valse
di Matteo Schinner vescovo di Sion, uomo della taglia
mentale e del coraggio di Giulio II, abile diplomatico e
capace di guidare, se fosse stato necessario, un esercito
in battaglia. Lo Schinner fu da Giulio II creato amministratore perpetuo della diocesi di Novara, dopo la deposizione del cardinale Sanseverino che si era compromesso intervenendo al Conciliabolo di Pisa. Ciò avvenne il
9 febbraio 1511, secondo il Bascapè. Il 10 marzo 1511
fu fatto cardinale e con bolla papale del 9 gennaio 1512
nunzio apostolico speciale nell’Italia Superiore, in Germania e presso i Confederati Svizzeri. Il nuovo vescovo
di Novara si affrettò con atto del 1° febbraio 1512 ad
accaparrarsi le simpatie degli Ossolani concedendo, su
preghiera del conte Lancillotto Borromeo, alle popolazioni delle valli Vigezzo, Anzasca e Strona il privilegio
dell’uso dei latticini durante la Quaresima, Settimana
Santa esclusa, privilegio che fu poi esteso a tutta l’Ossola. Riuscì allo Schinner di convincere i Confederati
Svizzeri a scendere in Italia per cacciare i Francesci, ed
assoldato un forte esercito di mercenari nel giugno del
1512 costrinse i Francesi a lasciare Milano rimettendo
nel Ducato Massimiliano Sforza il quale, il 29 dicembre
1512, fece il suo ingresso solenne in Milano.
I Francesi tennero però i castelli dell’Ossola Superiore
ed il borgo di Domo fino all’agosto del 1512. In quell’epoca un grosso contingente di armati svizzeri della
Lega di Urania o del Bue vennero per loro conto e col
benestare di molti Ossolani specialmente di quelli che
parteggiavano per i Francesi a prendere in consegna i
castelli ed il borgo di Domo. Anche questi si fecero giurare fedeltà degli Ossolani. Il 10 agosto 1512 giurarono
quelli di Villa e della valle Antrona. Il 15 agosto i Francesi fecero la consegna dei castelli e del borgo e attraverso il Sempione ripassarono le Alpi.
Sebbene alleati del Duca di Milano, gli Svizzeri tennero
l’Ossola in proprio e non vollero cederla al Duca di Milano, Antonio Zich di Urania era il commissario e capitano della Curia di Mattarella per la Lega dei XII Can-
Tipo del Sacro Monte Calvario di Domodossola eseguito dall’arch. Pier Maria Perini nel 1772.
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toni, ma talvolta vi troviamo suoi luogotenenti quelli
stessi che lo avevano aiutato ad entrare nel borgo e che
si opponevano alla consegna al Duca di Milano. Voglio dire il capitano Paolo della Silva rimasto nell’Ossola e che il 5 settembre 1512 è commissario e capitano della Corte di Mattarella. Comincia in questo periodo a prendere forza un partito favorevole agli Svizzeri
e che, dimentico delle antiche e recenti offese, vorrebbe l’Ossola confederata con i Cantoni Svizzeri. Il comportamento degli Ossolani dell’Ossola Superiore irritò
specialmente i conti Borromeo i quali, dopo essere stati
partigiani dei Francesi, erano tornati all’ubbidienza del
Duca di Milano. Lancillotto Borromeo tentò di prendere il borgo di Domo, ma fu battuto dagli Ossolani collegati cogli Svizzeri. Si vendicò il Borromeo impedendo
la libera circolazione delle merci, imponendo gravi dazi
sulle importazioni del grano dal Novarese e Milanese,
angariando i mercanti ed impedendo in tutti i modi le
comunicazioni fra le due Ossole. Alle rimostranze degli Ossolani rispondeva il Borromeo: «avete voluto stare
cogli Svizzeri piuttosto che con noi? Andate ora da essi
perché vi diano il grano e le vettovaglie! Per conto nostro vogliamo assolutamente farvi morire di fame». Fu
una dura carestia che fece soffrire soprattutto i più poveri e che provocò la peste, sempre pronta a comparire
in queste occasioni. Il flagello, scoppiato nel 1513, durò
da luglio a dicembre e mieté molte vittime.
Il seguente anno, 1514, gli uomini dell’Ossola Superiore sotto la guida del capitano Paolo della Silva, che aveva sempre mantenuto vicino a Domo un buon gruppo di fedeli armati, coll’aiuto anche di un piccolo corpo di Svizzeri, fecero un’azione di forza puntando direttamente su Vogogna. Il borgo cadde subito nelle mani
di questi armati esasperati i quali si diedero al saccheggio, distrussero i caselli del dazio e si fecero giurare con
atto pubblico che per l’avvenire ogni dazio sarebbe stato
abolito (17 luglio 1514). I poveri abitanti di Vogogna
si salvarono in parte rifugiandosi in val Anzasca. Poco
dopo (27 luglio) analoga spedizione fu fatta a Mergozzo, Omegna e Pallanza dove ugualmente si volle il giuramento di esenzione da ogni dazio. Gli invasori si ritirarono poi da Vogogna non senza prima aver diroccato
il castello, ma mantennero alcune fortezze che occuparono a titolo cautelativo. Ne nacque fra il conte Borro-
meo e l’Ossola Superiore una lite che fu portata davanti
ai capi della Lega dei XII Cantoni. La sentenza costrinse gli uomini dell’Ossola Superiore a restituire le fortezze e i territori occupati, ma fece obbligo ai Borromeo di
lasciare libero il passaggio ai grani e vettovaglie. Il laudo fu pubblicato a Domo il 3 gennaio 1515 da Ulderico Flauder di Lucerna allora commissario della Corte di Mattarella.
Morto Luigi XII senza eredi legittimi, sul trono di Francia salì Francesco I, anch’egli discendente da Valentina
Visconti, e quindi aspirante al dominio del ducato di
Milano. Massimiliano Sforza gli oppose un esercito di
mercenari svizzeri, ma non riuscì ad impedire al re francese di scendere in Lombardia. La battaglia decisiva del
14 settembre a Marignano, in cui perirono 15000 svizzeri e 6000 francesi permise a Francesco I di entrare da
signore in Milano e impadronirsi del Ducato, mentre
il duca Massimiliano, costretto ad abdicare, era spedito
prigioniero in Francia.
Dopo questi avvenimenti i capitani della Lega non si
sentirono più sicuri in Ossola. Oltre tutto sei squadre o
bandiere di Svizzeri, che tornavano dalla sfortunata battaglia di Marignano alla loro patria attraverso l’Ossola, rubarono e saccheggiarono quando poterono senza
risparmiare nulla e nessuno. Ne soffrì soprattutto Villa come ricorda il Capis ed i poveri paesani, già provati dalle precedenti calamità dovettero subire ancora una
volta i saccheggi, gli incendi e le umiliazioni di queste
orde scatenate che non risparmiarono neppure le chiese.
Gli Svizzeri si ritirarono dall’Ossola e per un certo tempo questa regione fu terra di nessuno, tanto che il 23
settembre gli Ossolani dell’Ossola Superiore, ritenendosi ancora legati alla Lega Svizzera, scrissero condolendosi della sconfitta di Marignano e chiedendo aiuto e
consigli. A sostituire il capitano e commissario svizzero
Ulderico Flauder di Lucerna, allontanatosi dall’Ossola
il 25 giugno 1515, fu mandato Giovanni Stolez di Basilea del quale trova luogotenente nella Curia di Mattarella il signor Pietro di Breno, dottore in diritto, fino
al 29 settembre 1515. Un esercito francese intanto entrava nell’Ossola, mentre i pochi svizzeri rimasti tornavano in patria e l’8 ottobre, se si deve credere al Capis,
un corpo di 500 uomini al comando del capitano Lautrec occupa Domo, dove i Francesi si abbandonarono
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ad ogni dissolutezza e violenza. Fortunatamente il capitano Lautrec e la sua compagnia, dietro le lamentele fatte giungere dagli Ossolani direttamente al re di Francia,
furono sostituiti e la piazza di Domo fu tenuta dal capitano Predemelges che si fece onore tenendo in disciplina la sua compagnia.
Un altro atto distensivo del re di Francia fu quello con
cui il 10 marzo 1516 tolse all’Ossola Superiore il contributo di 600 lire imperiali dovute alla camera ducale,
condonando anche i debiti contratti con la stessa dall’epoca di Luigi XII.
Col ritorno della pace si stabilisce un modus vivendi
anche fra i partiti ossolani. Probabilmente anzi ci fu un
atto di pacificazione giacché vediamo ritornare in Ossola i fratelli Francesco e Benedetto del Ponte che erano stati messi al bando da Luigi XII. Il 26 ottobre 1515
anzi troviamo Francesco del Ponte per un po’ di tempo luogotenente del commissario della Corte di Mattarella. Ma il personaggio più in vista con la vittoria delle armi francesi è il capitano Paolo della Silva che aveva
posto la sua spada e la sua compagnia al servizio del re
francese dal quale era tenuto in grande considerazione.
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Egli spese gran parte delle sue ricchezze nel dare lustro
e decoro all’Ossola dove chiamò architetti ed artisti ad
abbellire il palazzo che andava costruendo a Domo e le
chiese di Crevola e Domodossola.
Colla salita di Carlo V al trono di Spagna il dominio
del Ducato di Milano viene rimesso in discussione. Il
nuovo imperatore ed il Papa appoggiavano Francesco II
Sforza, fratello di Massimiliano, il quale poté assoldare
un esercito di mercenari svizzeri e tedeschi e con questi il 19 novembre 1521 riprese Milano costringendo i
Francesi a tornare in patria. Nell’Ossola, Benedetto del
Ponte, capitano di milizie ducali, costrinse i Francesi a
lasciare il borgo di Domo, cosa che avvenne verso la fine
di giugno 1522. L’8 luglio seguente i deputati ossolani
si recarono a Milano per giurar fedeltà al Duca. Il seguente anno gli Ossolani inviano al Duca una supplica
per ottenere la pacificazione generale ed il perdono per
tutti quelli che nelle guerre passate avevano parteggiato
per la Francia, in particolare per il capitano Paolo della
Silva e suoi luogotenenti banderali, nonché il riconoscimento degli antichi privilegi. Il 16 giugno 1523 si ebbe
notizia che la supplica era stata accolta.
Ma la partita non era ancora finita. Francesco I di Francia nel settembre del 1523 invia un forte esercito in Italia al comando dell’ammiraglio Bonnivet. Ripresero le
speranze i fautori della Francia in Ossola, sollecitati dal
capitano Paolo della Silva, il quale anzi cercò di ottenere subito l’adesione da parte delle comunità ossolane, mandando perfino un suo rappresentante nel borgo
di Domo per chiedere il giuramento di fedeltà. Il commissario ducale Tommaso Morone ed il capitano Benedetto del Ponte si meravigliarono di questa richiesta del
Della Silva; anzi uno dei presenti, un certo prete Pietro
Viscardi di Trontano, non trovò altra risposta che quella di dare un tremendo colpo di spada sulla testa del povero ambasciatore che morì all’istante. Saputo di questo trattamento, il capitano Paolo della Silva che aveva
con sé un buon contingente di armati raccolti sul posto,
pose l’assedio a Domo, impedendo l’entrata delle vettovaglie e deviando la roggia dei Borghesi. In una scaramuccia del 14 ottobre 1523 morì Francesco del Ponte,
fratello di Benedetto e suo luogotenente. L’assedio continuò fino al maggio 1524.
Tutti questi sconvolgimenti politici avevano ridotto i
paesani ossolani a non saper più a chi credere e a chi
affidarsi, giacché tutto si rivolgeva a loro danno. Perciò vediamo che a Villa non si ha mai difficoltà a giurare a questo o a quello a seconda delle circostanze, purché si potesse sopravvivere a tanto sconquasso. A titoli
di esempio valga il fatto che il 21 marzo 1524 al Ponte
di Villa si riunisce una vicinanza in cui i consoli od i vicini eleggono Antonio del Gaggio e Giovanni di Basaluxia come procuratori della comunità a giurare fedeltà al duca Francesco Sforza di Milano e far da esso approvare certi capitoli. Il giorno seguente (22 marzo) al
Sasso di S. Maurizio il console di Villa Antonio Cassoli a nome suo e dell’altro console Antonio Toxelli e con
essi i due deputati del precedente strumento, prestano
il giuramento nelle mani del capitano Paolo della Silva
che lo riceve a nome del re di Francia. Tanto erano confuse le situazioni in quei tempi!
Poco dopo le truppe francesi che erano state battute a
Robecco ritornarono lentamente in patria attraverso il
Sempione sotto la protezione del capitano Della Silva.
Nell’autunno del 1524 Francesco I di Francia con un
esercito di 36000 uomini attraversò le Alpi ed occu-
pò Milano. Il capitano Paolo della Silva che si era subito portato al campo del re francese mandò immediatamente in Ossola dei rappresentanti per far giurare fedeltà al nuovo padrone.
Paolo della Silva tornò poi in Ossola e vi raccolse una
banda di alcune migliaia di armati e si portò a Pavia
dove il re Francesco I stava assediando la città. Questa
banda di Ossolani che il Della Silva pagava coi suoi denari, combatté nella sfortunata battaglia di Pavia (24
febbraio 1525), in seguito alla quale Carlo V costrinse il re di Francia a rinunciare definitivamente al Ducato di Milano. Sfasciatosi l’esercito francese, Paolo della Silva tornò coi compatrioti superstiti a Domo dove
giunse poco dopo anche il capitano Benedetto del Ponte a chiedere agli Ossolani il giuramento di fedeltà al
duca Francesco Sforza. Gli uomini di Villa, il 18 marzo
1525, deputarono Filippo Filippi e Giacomo Baldana a
fare tale giuramento di fedeltà nelle mani di Giacomo
Morone commissario ducale della Curia di Mattarella.
Il giuramento ebbe luogo il 20 marzo seguente.
Poco dopo il castello di Domo fu tenuto da capitani e
soldati spagnoli, resisi subito famosi per la loro crudeltà ed ingordigia, così da far rimpiangere i francesi. Ci fu
anche una congiura per ammazzare il castellano Francesco Alarçon ed una sollevazione, che questo domò facendo sparare le artiglierie del castello contro il borgo.
Poco dopo però il famigerato castellano finì la vita colpito da una archibugiata sparata da uno sconosciuto.
Di questa situazione approfittò il capitano Giovan Pietro del Ponte che venne a Domo con 500 soldati ducali
e ottenne per il duca il giuramento di fedeltà degli Ossolani (1527).
Frattanto Don Antonio de Leyva generale di Carlo
V sollecitava ripetutamente gli Ossolani ad abbandonare il duca di Milano e a riconoscere l’autorità dell’imperatore Carlo V. Domodossola, difesa dal capitano Giovan Pietro del Ponte, resistette fino al gennaio
del 1529, all’assedio fatto dal capitano Pietro Gonzales, dal conte Ludovico Belgioioso e dal capitano Pietro Maria del Maino a nome di Gian Giacomo Medici marchese di Musso, alle dipendenze di Don Antonio
de Leyva. Le capitolazioni del 29 gennaio 1529 liberarono Domo dall’assedio mentre il Del Ponte passò al
servizio del marchese di Musso, con uno stipendio di
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100 scudi annui (3 gennaio 1530). Nel 1531 Francesco
Sforza recupera il Ducato, ma è completamente in balia di Carlo V.
L’8 luglio 1531 gli Ossolani ottengono la conferma dei
loro privilegi. Morto il duca Francesco Sforza senza prole (1535), Don Antonio de Leyva generale di Carlo V,
inviava nuovamente in Ossola il capitano Giovan Pietro del Ponte per esigere il giuramento di fedeltà. Il borgo di Domo lo presta il 26 dicembre 1535 e nei giorni
seguenti lo fanno gli altri comuni ossolani.
Le guerre che quasi ininterrottamente si erano succedute nell’Ossola, il passaggio di tanti eserciti e di gruppi di
sbandati dediti alle rapine ed al saccheggio avevano frattanto influito gravemente rovinando l’economia ed anche la vita pubblica di questi montanari costretti a subire le violenze e quindi portati essi stessi all’esasperazione della violenza. Le case diventarono dei fortilizi e tutti
andavano in giro armati contro ladri e briganti che dettavano legge. I partiti legati alle potenti famiglie in lotta fra loro avevano influito a rendere paurosamente abituale la violenza ed il sopruso, le cui lezioni erano impartite dai capipartito e dai signori che amavano mantenere un gruppo di armati al proprio servizio, e della peggiore risma, dai quali erano sempre accompagnati anche quando si recavano in chiesa o nelle pubbliche
adunanze. Il banditismo diventa dalla metà del 1500
fino alla metà del 1600 una piaga dell’Ossola, contro
la quale il governo spagnolo si limita spesso a lanciare
le sue gride e la cui estirpazione sarà occasione di enormi spese da parte delle comunità obbligate a restituire quanto i mercanti in transito o chiunque perdevano,
essendo esse obbligate a mantenere sicure a proprie spese le strade nei propri territori. Spesso a nulla valevano
gli allarmi dati con la campana a martello e l’accorrere
della gente; questi banditi armati di fucili a ruota tenevano facilmente testa alla gente inerme o armata solo di
lance e di falcetti. Antonio Pizzoletto di Crevola, Giovanni Trivelli di Varzo, Antonio Gelminetto detto Sirigon, Giovanni Ruffino, Matteo Allena, Giovanni del
Gatto ed altri si resero famosi in val d’Ossola colle loro
rapine, omicidi e violenze. Contro di essi tuonarono le
gride del governatore dello Stato di Milano. Ogni tanto qualcuno era preso e impiccato sul gabbio delle forche di Domo, all’entrata di porta Castello, per incutere
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un salutare timore a tutti i delinquenti. Molti altri finivano sotto il piombo dei birri incaricati del loro sterminio o, presi, erano condannati alle galere.
Gravissimi fatti erano accaduti in Ossola per odio di
parte. Famoso fra tutti l’uccisione dei due fratelli Gaspare e Baldassarre de Baceno, figli del capitano Bernardino e cognati del capitano Paolo della Silva, perpetrata, forse, da sicari del capitano Giovan Pietro del
Ponte.
Anche contro le fazioni intervennero i governatori spagnoli. Alcune gride proibivano perfino di parlare di fazioni sotto pena della vita e confiscazione dei beni. Perdura comunque una grave insicurezza ed un’atmosfera di
continuo pericolo. Un’ordinanza del 29 luglio 1595 disponeva che i muri fiancheggianti le strade fossero più
alti di 2 metri o rasi al suolo perché non fossero facile ricetto di banditi ed assassini; così anche i boschi in vicinanza delle strade dovevano essere tagliati e molte case
abbattute o chiuse in modo da non servire da ricettacolo o rifugio di banditi. Si ha notizia di alcuni paesi o frazioni sia della valle Antigorio che della val Vigezzo dove
tutti o quasi tutti gli abitanti non disdegnavano l’esercizio del brigantaggio come quello di una professione.
Il ricordo delle loro gesta è ancora vivo nelle tradizioni
popolari locali.
Si cercò un rimedio a questo stato di cose mediante un
tentativo di pacificazione generale che eliminasse le radici di tante e sì testarde discordie. Il governatore dello Stato di Milano Don Pietro Padillo incaricò di ciò il
conte Renato Borromeo dandogli ampi poteri per convocare i capi partito, i faziosi e perfino i briganti famosi dell’Ossola.
Riuscì al conte dopo molti tentativi di fissare i termini di una generale conciliazione che venne solennemente giurata il 15 agosto 1595 ad Arona davanti alle porte della chiesa parrocchiale, ma il fenomeno delle fazioni e del brigantaggio, se momentaneamente parve arrestarsi, riprese poi con rinnovata violenza.
Altra piaga sopravvenne nel settembre del 1598 fino
al gennaio 1599. Dieci compagnie di soldati spagnoli vennero a stanziarsi in Ossola e, naturalmente a spese degli Ossolani, gettando le popolazioni nella costernazione, nella paura e nella miseria per le loro brutalità, ruberie ed estorsioni. Antonio Giavinelli prevosto
Il borgo di Domodossola chiuso a pentagono dalle mura in una stampa del secolo XIX.
di Pieve Vergonte e poi parroco di Seppiana, testimone
oculare, così ricorda: Tutte le parti dell’Ossola Inferiore et
Superiore... sono rimase con grandissimo danno, et spavento, ma più la superiore per essersi affermati tanto, che appena si ritrovava vittovaglia per pascerli; et li padroni erano, chi battuti, chi spaventati, chi fuggiti, et chi diventati
miserabili. Le ova non si ritrovavano a comperare ne anco
a duoi soldi l’uno, perché s’avevano ammazzate et mangiate le galline; pure bisognava trovar robba per forza. In fine
si misero a far delli assassinamenti per le strade con pigliar
li danari et robba a li poveri viandanti.
Cronache del secolo XVII
Durante il periodo di dominazione spagnola che va dal
1536 al 1713, 1’Ossola avrebbe potuto godere di un felicissimo tempo di pace e di benessere, dopo un secolo
di disastrose invasioni, di lotte e cambiamenti di governo. Invece non fu così.
Dopo il Concilio di Trento, per opera di alcuni vescovi zelanti, anche la diocesi di Novara e l’Ossola ebbero
slanci e fervori nuovi di fede che produssero un notevole rinnovamento della vita religiosa e civile. Il vescovo Carlo Bascapè nella sua permanenza sulla cattedra di
S. Gaudenzio (1593-1615), diede un grande impulso
alla riforma dei costumi del clero e del popolo, visitando ripetutamente e minuziosamente la diocesi, informandosi di ogni cosa e disponendo secondo le necessità. Il suo libro Novaria, stampato nel 1612, oltre che il
primo tentativo di una storia della diocesi di Novara, è
anche una preziosa miniera di notizie, storielle, artistiche e geografiche dell’Ossola, di cui egli può con pieno
titolo essere considerato il primo studioso. Il giureconsulto Giovanni Capis se ne valse con somma ammirazione per l’autore nella compilazione della prima opera
storica di carattere prettamente ossolano Memorie della
Corte di Mattarella, ossia del Borgo di Domodossola e sua
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giurisdizione che egli scrisse nei primi decenni del 1600,
ma che vedrà la luce per le stampe solo nel 1673 a cura
del figlio Giovanni Matteo Capis. Dopo il Bascapè merita di essere ricordato il vescovo cardinal Taverna, a lui
immediatamente successo, al quale risalgono molte iniziative in campo religioso e morale, ma anche in quello della organizzazione e amministrazione delle parrocchie, delle chiese e dei benefici. Egli vagheggiò perfino
il disegno di istituire un seminario a Domo per meglio avviare ed istruire il clero locale; ma non poté realizzarlo.
Il rinnovamento religioso fu cospicuo in questo periodo, ma non si può dire altrettanto di quello politico, civile e amministrativo. Mancò al governo spagnolo una
vera politica sociale ed economica che si traducesse in
un progresso autentico. Lo squilibrio fra i ricchi ed i
poveri andò aumentando fino ad apparire non solo ingiusto, ma insultante. Pochi nobili, ricchi e insensibili
alle miserie del popolo, si preoccupavano di ostentare la
loro opulenza e spesso il disprezzo per i diritti sacrosanti dei coloni e dei meno abbienti. Anche in Ossola sono
essi che costruiscono i loro nuovi pretenziosi palazzotti dove ogni tanto, al passaggio di qualche personaggio
importante, danno ampia ospitalità e fastose imbadigioni, e vivono serviti da uno stuolo di servi e di armati. Essi amavano farsi beffe della legge, esimersi da ogni
gravezza, mentre i poveri erano alla mercé del Fisco.
La giurisdizione di Domodossola comprendeva tutta
l’Ossola Superiore con esclusione della val Vigezzo, delle Quattro Terre (Trontano, Masera, Beura e Cardezza) e della valle Antigorio. Questa giurisdizione aveva
i suoi Reggenti generali ed il suo Consiglio generale in
cui i rappresentanti dei comuni si riunivano alla presenza del pretore di Domo, per ogni decisione importante. In casi di necessità tutta l’Ossola Superiore si riuniva
a consiglio per eleggere alcuni deputati onde far valere i
propri diritti e interessi presso il Governo.
Le misere condizioni degli Ossolani in questo tempo sono per lo più attribuite alla notoria sterilità delle terre, a calamità naturali ricorrenti, al clima particolarmente avverso i cui eccessi distruggevano i già scarsi raccolti. Tuttavia il maggiore colpevole di tanta miseria fu il Governo spagnolo che con una fiscalità metodica ed esasperante, ricorrendo a tutti i mezzi afflisse
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le popolazioni ossolane con una martellante pressione.
Egli si valeva anche di investigatori e delatori autorizzati i quali con occhi di Argo ricercavano ogni possibilità
di cavar denaro per il Fisco. La squallida figura di questi solerti burocrati, dediti a tale odioso mestiere, ci appare dalle infinite querele che gli Ossolani dovettero sostenere con il Fisco. Nei primi decenni del 1600 si rese
tristemente famoso in Ossola un certo Francesco Bossi con il titolo ufficiale di Delatore, il quale purtroppo
non mancò di imitatori.
Un’ordinanza del 9 luglio 1601 da parte del Magistrato del reddito ordinario dello Stato imponeva alle comunità ossolane il pagamento entro tre mesi del mensuale o estimo delle merci per il periodo 1559-1601. La
somma non era grande, 398 lire e 12 soldi, ma erano
intanto violati quei privilegi, accordati agli Ossolani dai
Visconti e successivamente riconosciuti anche da Carlo
V, per i quali essi erano esenti da ogni imposizione. Fu
quindi necessario che i rappresentanti dell’Ossola sostenessero le loro ragioni a Milano, ragioni che furono riconosciute con sentenza del 23 aprile 1602.
Poco dopo, su delazione del sopra ricordato Francesco
Bossi, l’Ossola è accusata di non aver pagato e non pagare il dazio per la Notaria civile, il dazio del pane, vino,
carni ed imbottato, la tassa per la stadera comunale ecc.
I procuratori dell’Ossola, Olderico Silvetti e Giacomo
Trivelli, sono nuovamente a Milano a sostenere l’esenzione, sempre fondandosi sui famosi privilegi. Il Magistrato ordinario, con sentenza del 11 agosto 1605, assolve gli Ossolani. Intanto però queste cause procuravano ingenti spese alla Comunità che si andava aggravando paurosamente di debiti ed era costretta a prendere denaro a prestito con pesanti interessi.
La scarsa produttività delle terre ossolane, la pressione
esorbitante del Fisco spagnolo, alcune calamità naturali ed una certa imprevidenza amministrativa concorsero ad aumentare la povertà fino a giungere al livello della vera carestia. Mancavano nei primi decenni del 1600
non solo il denaro, ma anche i beni di consumo più
necessari. Il Giavinelli che era prevosto a Seppiana, da
buon testimonio oculare così ci presenta la situazione:
L’anno 1628 fu una grandissima carestia et si vendeva a
Domo et Vogogna la segla lire due il staro; et li poveri hanno patito molta fame et l’anno 1629 perseverò la carestia,
che non si trovava denari et ne morirono molti di fame.
L’anno 1629 poi fu talmente carestia che li poveri facevano macinar il colmo et la paglia et le giande de’ fayci per
far farina; et ne morse molti che avevano patito; ed doppo venne certi febri che morse molte persone da dette febri.
Il medemo anno venne la neve sopra l’arbori la notte doppo Santo Michele et alli dieci di Ottobre neve sino a qua a
Seppiana con de’ diluvi d’acqua. L’anno 1629 si è venduta la farina del colmo et paglia fino a lire 4.
Sarebbe stato abbastanza facile prevedere che su organismi così denutriti e provati in questi anni di carestia, oltre le solite malattie intestinali ricorrenti, potesse prendere il sopravvento la terribile peste bubbonica. E infatti fu così. La peste già mieteva vittime nel vicino Vallese, ma a causa della stretta sorveglianza ai passi alpini
non fu di qui che il morbo venne importato in Ossola.
Venne infatti dal Milanese a Mergozzo e a Domo per
opera di alcuni mercanti. Citiamo ancora il Giavinelli
che il giorno 14 agosto 1630 così annota nelle sue Memorie: L’anno 1630 circa il principio del mese di giugno si
scoperse la peste in Duomo d’Ossola et in Cresto della valle
Antrona, al Piaggio di Vila, a Rovescha d’Antrona et di S.
Pietro (Schieranco) passavano per la strada d’Ovago per
non poter passar per Riviera, Viganella et Cresto, quando
hanno d’andare a pigliar provisione alla Lanca di Pallanzeno, dove si provvede di guardia continua; et ivi mandiamo a pigliar provisione quando si può avere; et circha li
dieci di agosto si serrò Vogogna per esser morti alcuni ivi
in casa del signor Battista Lossetti, et hora stentiamo haver provisione. Circa al principio d’agosto si è scoperta la
peste alle Selve (Montescheno), et quelli del Croppo già
alla fine di luglio erano fuori in Quarantena, et a me non
manca fastidio in chiesa et fuora per la ministrazione dei
Sacramenti. Circa il 17 et 20 agosto si scoperse la peste al
Boschetto, a Daroncio, La Noga, al Gagio, talché a Vila
stanno tutte le terre sempre in terrore et retirate più che si
può; et la maggior parte si sono retirati nell’Ovago a far
quarantena. Et il mese di settembre si è scoperta a Zoncha,
a Valleggia, a Progno (Montescheno).
Il Capis ricorda che nella valle Antrona morirono di peste circa 400 persone et ne morsero 100 nel termine di un
mese solamente nella terra di Cresto. Ora si sa che nel
1613 Villa aveva circa 200 famiglie e fuochi, mentre
dall’inventario della chiesa parrocchiale fatto il 31 gen-
naio 1647 dal parroco Giovanni Bianchetti i fuochi
sono solo 80. Si può dunque pensare che anche a Villa la popolazione sia stata ridotta alla metà; così come a
Domo, a Vagna ed altrove dove la peste fece il maggior
numero di vittime.
Furono purgate le case con suffumigi di polvere da sparo, pece, salnitro, zolfo, incenso e bacche di ginepro; i
panni appestati erano inceneriti, gli altri lasciati lungo
tempo all’aria, in acqua o sotto terra. Il Capis osserva
che questi metodi di disinfestazione erano efficaci sebbene alcuni fossero di diversa opinione, segno che anche in Ossola non mancavano i don Ferrante di manzoniana memoria.
Il secolo XVII fu per l’Ossola uno dei più disastrosi anche per le catastrofi naturali verificatesi in quel periodo.
Prime fra tutte le alluvioni, già iniziate nel secolo XVI.
Il fiume Bogna che nel secolo XIV era stato portato a
scorrere a nord del borgo di Domo, rotti gli argini venne nel 1519 a scorrere fra il colle di Mattarella e l’abitato. Nel secolo XVII cominciò a spingersi direttamente
contro le mura del borgo, riempiendo i fossati ed accumulando molto materiale contro la cinta di difesa fino
a seppellirne quasi le torri e, talvolta, penetrando anche
nel borgo. I tentativi di impedire la sommersione costrinsero anche le comunità della giurisdizione a contribuire alle ingenti spese, dando origine a numerosi processi e liti. Il pericolo fu solo scongiurato dopo la grande alluvione del 1642 che decise finalmente il Governo
a dare fondi sufficienti per riportare il Bogna a nord del
borgo. Nella alluvione del 1640 avevano sofferto quasi tutte le comunità ossolane ed in particolare Villa e la
valle Antrona dove il fiume Ovesca distrusse la chiesa
parrocchiale di S. Pietro di Schieranco e portò via tutti
i ponti. Una grave sventura si abbatté su Antronapiana
all’alba del 27 luglio 1642 quando la grande frana del
monte Pozzoli sbarrò la valle del Troncone formando il
lago di Antrona, seppellendo parte del paese ancora nel
sonno e causando la morte di oltre 100 persone.
Ma gli Ossolani nonostante tutte queste ed altre vicende dolorose vollero esprimersi in atti solenni e generosi di pietà proponendosi la costruzione del grande complesso monumentale dedicato alla passione di Cristo
che è il Sacro Monte Calvario posto sul colle di Mattarella fino a quel momento occupato dalle rovine del ca41
stello. Iniziata nel 1658, con l’approvazione del vescovo, quest’opera voluta dalla comunità ossolana intiera,
crebbe rapidamente sotto la direzione di Giovanni Matteo Capis; attorno al 1680 era in gran parte realizzata
con la costruzione della chiesa-santuario, della strada
sacra e di alcune cappelle nelle quali il plastificatore milanese Dionisio Bussola pose in opera alcuni dei principali misteri della Via Crucis. L’opera sarà però finita
nei secoli seguenti. Contemporaneamente la comunità dell’Ossola che aveva provvisto già nel 1616 i Cappuccini di un piccolo convento alla Cappuccina, dovette costruire un altro convento per i medesimi Padri sulle pendici del colle di Mattarella al fine di sottrarli alla
furia del Bogna (1661-1681). Anche per questa ed altre opere di interesse generale fu dato incarico al giureconsulto Giovanni Matteo Capis che fu l’uomo politico più importante del secolo XVIII.
II governatore di Milano e capitano generale marchese
di Hinojosa, con ordinanza del 6 febbraio 1614, stabilì che si formassero in questo Stato (di Milano) una milizia de’ i soldati di esso per servitio di Sua Maestà et beneficio e sicurezza loro. Si diedero anche disposizioni affinché tale milizia avesse necessaria istruzione, disciplina ed armamento. Il tutto era naturalmente a carico degli uomini scelti per tale servizio in numero proporzionato alla consistenza della comunità. Ma per lo più l’armamento era a spese della comunità. In cambio gli ufficiali erano esenti dall’obbligo di alloggiare nelle proprie case i soldati a piedi od a cavallo mandati a stazionare sul luogo. Il motivo di questo provvedimento va
ricercato nella necessità che aveva il Governo spagnolo di non lasciare sguarnito il proprio territorio; mentre le sue truppe erano concentrate ed impegnate nella guerra del Monferrato contro i Francesi e Piemontesi. Questa specie di guardia civica o popolare, istituita
in tutta l’Ossola, mantenne a lungo la sua funzione anche dopo gli avvenimenti bellici che furono causa della sua istituzione e perdette decisamente la sua importanza solo dopo la restaurazione del dominio piemontese in Ossola seguita alla caduta di Napoleone, ma resiste con un apparato che possiamo ormai dire folkloristico in alcuni luoghi come a Bannio e Calasca in valle
Anzasca. Al suo sorgere fu però ostacolata dalle popolazioni, che si vedevano aggravate da nuove spese e pa42
ventavano di dover marciare fuori dei confini dell’Ossola, la sola patria che avesse per esse un significato autentico. Il loro avvento fu tuttavia utile all’Ossola, non
perché rinfocolò l’antico e tradizionale spirito guerresco, quanto piuttosto perché la presenza di milizie organizzate rese più sicure le valli contro i briganti e facinorosi e favorì una maggiore coscienza unitaria fra gruppi
spesso antagonisti e disuniti da faide paesane e da antipatie campanilistiche.
La istituzione delle milizie popolari non fu dunque inutile. Se ne ebbe immediato saggio allorché fu necessario
difendere i passi alpini da eventuali infiltrazioni nemiche. Il loro apporto alla guerra degli Spagnoli contro i
Francesi e Savoiardi deve essere stato molto limitato. Se
si eccettua la difesa di Arona nel 1636 e qualche puntata fino a Vercelli, non si ricordano fatti d’arme importanti. Era una milizia dotata di armamento molto leggero: archibugio a ruota, spade e lance. In valle Antrona esistevano due diversi distretti su cui erano scelti gli
uomini addetti a questa milizia. Il primo era quello di
Antronapiana che metteva in assetto un numero limitato di soldati, ma con l’incombenza specifica di difendere gli alti passi della valle, uomini dunque ben adatti al loro compito e perfetti conoscitori del luogo. Il secondo comprendeva tutto il resto della valle Antrona e
Villa. Analogamente avveniva in tutte le altre valli ossolane.
In ognuna delle comunità della valle era eletto dagli
stessi soldati un reggente o capitano, un luogotenente,
un alfiere, un sergente ed alcuni caporali. I singoli reggenti o capitani locali avevano poi funzioni subordinate
al comando del capitano della valle che era da essi eletto fra i reggenti locali. La nuova compagnia a sua volta
era alle dipendenze e sotto il comando di un maestro di
campo o capitano generale la cui giurisdizione si estendeva su tutti i distretti dell’Ossola e spesso comprendeva anche la zona del Lago Maggiore. Il primo capitano
generale in Ossola fu il signor Ottavio Verone di Crevola che aveva già avuto compiti organizzativi di difesa. Successivamente ebbe il comando generale di queste
milizie popolari il marchese Giovanni Battista Lossetti
di Vogogna e poi i conti Borromeo.
Il capitano di una milizia di tal fatta doveva essere persona accetta a tutti e stimata per la sua prudenza e ca-
Vogogna, litografia di James Pattison Cockburn, 1822.
pacità di amalgamare elementi che non erano tenuti insieme da una vera disciplina militare; non erano infatti
soldati di professione.
Cronache del secolo XVIII
Con la morte di re Carlo II di Spagna (anno 1700), si
ebbero immediati contrasti fra i pretendenti al trono.
Filippo d’Angiò, chiamato dal testamento del defunto
re a cingere la corona di Spagna, si portò subito a Madrid e fu riconosciuto nei domini spagnoli, prendendo
il nome di Filippo V. L’imperatore d’Austria Leopoldo
I contestava però questa nomina, pretendendo il trono di Spagna per il proprio secondogenito Carlo, come
discendente in linea diretta da Ferdinando I, fratello di
Carlo V imperatore.
Ne nacque una guerra che allineò da una parte l’Austria, l’Inghilterra e l’Olanda e dall’altra la Spagna, la
Francia e la Baviera. Vittorio Amedeo II di Savoia si
unì inizialmente alla Francia ed alla Spagna. La guer-
ra fu combattuta in Lombardia con alterne vicende che
indussero però Vittorio Amedeo II a staccarsi dai suoi
alleati per aderire all’Austria. Questo cambiamento di
rotta della politica sabauda irritò gli ex alleati. Gli eserciti franco spagnoli occuparono la Savoia e parecchie
importanti città del Piemonte, stringendo Torino con
un potente assedio. Il principe Eugenio di Savoia, comandante di milizie imperiali, non poteva portare alcun aiuto a Vittorio Amedeo, trovandosi sbarrato il passo dalle truppe del generale francese Vendôme, attestate
sulle rive dell’Adige. In aiuto delle truppe sabaude venne un distaccamento di soldati tedeschi al comando del
maresciallo Staremberg per il Sempione il quale, senza
entrare in Domo, dove il castello era ancora presidiato
da truppe spagnole, si portò verso il lago Maggiore, ma
non poté collegarsi con le truppe piemontesi, essendo
tutto il Novarese e Milanese in mano ai Francesi. Gli
Ossolani però dovettero fornire vettovaglie a queste milizie tedesche acquartierate ed inviare anche le milizie
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locali per difendere i castelli di Angera e Arona. Queste gravi spese furono ripartite sia sull’Ossola Superiore che Inferiore. Il 19 marzo 1704 il Consiglio Generale dell’Ossola è convocato per provvedere alla distribuzione delle spese, per attrezzare il castello di Domo alla
difesa, per eleggere un Reggente Generale e provvedere alla salvaguardia dei privilegi ossolani. Il 7 gennaio
1705 sono convocati nuovamente tutti i rappresentanti
delle comunità ed i Reggenti dell’Ossola Superiore per
far sì che tutte le comunità concorrano al pagamento
delle spese straordinarie imposte dalla circostanza. Gli
Ossolani, almeno quelli dell’Ossola Superiore, pare non
si dichiarino in favore di nessuno dei contendenti, tuttavia le imposizioni militari bisognava pagarle. Nel castello c’era sempre un presidio spagnolo al comando del
capitano don Giovanni de Soto e la cosa pubblica era
diretta dal pretore don Francesco de Miranette Velasco
pure spagnolo.
II duca di Vendôme, lasciato il comando delle truppe
francesi in Lombardia per assumere quello delle truppe
stanziate in Fiandra, non trovò alcuna difficoltà a transitare per l’Ossola per venire al Sempione, il 14-15 luglio 1706, con un seguito di 150 cavalli, segno che questa regione non intendeva reagire con proprie iniziative
alla situazione. Ma allorché il principe Eugenio di Savoia riuscì a portarsi con il suo esercito sotto le mura di
Torino assediata e raggiungere il duca Vittorio Amedeo,
riuscendo a sconfiggere i Francesi nella celebre giornata del 7 settembre 1706, a Domo si fu del parere di predisporre una resa. Era allora sindaco o procuratore del
borgo di Domo il nobile Marco Antonio Silva, ex reggente della Giurisdizione, il quale aveva fama di essere partigiano di Francia. Visto come la guerra si era risolta, egli prese l’iniziativa di far passare l’Ossola all’obbedienza dell’Austria, non sappiamo se per opportunismo politico o semplicemente per ambizione. Il capitano spagnolo ed i borghigiani domesi furono da lui convinti a sottomettersi e chiedere protezione agli Austriaci, invitandoli a venire a Domo. Le iniziative di Marco Antonio della Silva furono accette al generale Zumiunghen che era venuto ad occupare Arona e la zona
del lago Maggiore, ma irritarono gli altri Ossolani ed in
particolare i Reggenti generali della Giurisdizione Antonio Grazioli, Andrea Taddei e Carlo Francesco Pellia,
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i quali si vedevano esautorati. Sebbene anch’essi fossero del parere di sottomettersi agli Austriaci, non mancarono con lettera dell’11 ottobre 1706 di avvisare tutte le comunità della Giurisdizione dell’arbitrio del Silva
che pretendeva una rappresentanza che nessuno gli aveva mai data, dichiarando che si sarebbero subito recati
a incontrare il Zumiunghen per il bene della comunità
ossolana. Essi poterono di fatto presentarsi al generale,
mercé i buoni uffici del conte Borromeo, ed il 14 ottobre 1706 gli Austriaci entrarono in Domo al comando
del capitano barone Milben, mentre il piccolo presidio
spagnolo con tutti gli onori militari abbandonava il castello. Così l’Oossola entrava a far parte dei domini dell’Austria sotto l’imperatore Giuseppe I, il quale, grato a
Vittorio Amedeo II di Savoia dell’aiuto prestato, gli cedeva il Monferrato, la Lomellina, Alessandria, Valenza e
la Valsesia. Morto però l’imperatore di vaiolo nel 1711,
l’arciduca Carlo che come pretendente al trono di Spagna aveva assunto il nome di Carlo III (di Spagna) ebbe
il trono del fratello con il titolo di Carlo VI imperatore.
Ma con la pace di Utrecht, in cui i domini spagnoli furono spartiti, lo Stato di Milano e l’Ossola entrarono a
far parte dei domini imperiali dell’Austria (1713).
Scrivendo di questo periodo il giureconsulto don Paolo della Silva afferma che gli Ossolani sotto l’Impero Austriaco, deposte le armi si sono rivolti ai traffici ed ai litiggi; e quanto giovano i primi per arricchirli, altrettanto servono i secondi per impoverirli.
Anzitutto fu dibattuta una lunga, ed astiosa e soprattutto dispendiosa lite fra il sopra ricordato Marco Antonio della Silva ed i Reggenti generali della giurisdizione, che durò fino al 1713 ed ebbe come unico risultato,
dissensi, odi e spese.
Una grida del 26 agosto 1711, emessa dal Governo al
fine di danneggiare la Francia, stabiliva che tutte le merci dirette o provenienti da quello stato fossero soggette a
dazio al passaggio per Domodossola. I gabellieri, incaricati della riscossione, estesero però arbitrariamente l’ordinanza fino ad includere anche quelle merci che erano
prodotte o consumate in Ossola. Di qui un vibrato ricorso degli Ossolani richiamandosi agli antichi privilegi.
Frattanto si era fatto vivo l’impresario del tabacco che
pretendeva l’appartenenza dell’Ossola al suo appalto
e quindi la privativa della vendita. Altro ricorso per il
riconoscimento della esenzione. Ma in questo ricorso
gli Ossolani ebbero cura di presentare al re Carlo III,
ossia all’imperatore Carlo VI, una formale richiesta di
approvazione o riconoscimento degli antichi privilegi
contenuti nei famosi capitoli del 1381. Si riuscì di fatto ad ottenere un rescritto del 3 gennaio 1710, dato da
Barcellona, ma, come afferma don Paolo della Silva, essendosi nel 1711 presentato questo diploma al Senato per
la di lui interinazione, l’implacabile Fisco Milanese prese
motivo di muovere al Paese altra ben longa e dispendiosa
lite. Non solo furono riprese le antiche e recenti pretese
del fisco, ma si riparlò della carta da bollo, dei dazi, ecc.
Finalmente il 26 gennaio 1712 si ebbe la Dichiarazione
Magistrale con cui l’Ossola era riconosciuta nel possesso degli antichi privilegi, notificata poi ai pretori dell’Ossola con lettera del 25 febbraio 1712. Non si creda però che tutto questo sia avvenuto per pura magnanimità o senso di giustizia da parte del Governo. Le comunità ossolane dovettero sborsare al fisco per spontaneo sussidio da essi offerto all’Illustrissimo Magistrato Ordinario di questo Stato di Milano, per beneficio di Sua
Cattolica e Cesarea Maestà, lo sa Iddio con quale spontaneità, la bella somma di 21.000 lire imperiali, di cui
10.212 lire e 4 soldi furono a carico della giurisdizione
di Domo. Leggendo gli atti di queste liti ed i ricorsi degli Ossolani si sente tutta l’amarezza del popolo di queste montagne per essere sistematicamente beffato dai
propri governanti e, fra le righe, proprio dove si attesta
tanto sviscerato ossequio per il padrone, c’è una fredda
ed impressionante ironia: Riconoscendo la scarsezza in
cui si trova la Real Mensa in tempo di tanto bisogno per la
difesa dell’Adoratissimo Monarca, e che tutte queste novità
vengono suggerite dalle necessità de mezzi, non già perché
la chiara ragione di quel paese temi di comparir nuda, e
dubiti di non essere accolta da un tribunale, così retto, che
con viscere di padre riguarda la conservazione de’ sudditi
di Sua Maestà commessi alla di lui tutela, ma per anco in
quest’occasione palese alla Maestà Sua, et alle SS. VV. Illustrissime il sviscerato zelo che nodriscono per li vantaggi
del Padrone e per la causa pubblica, non ricusa con spontaneo sagrificio di quel di forze che ancora dura in quell’ormai esangue Corpo, tributar servitio alla Regia Camera per una volta tanto, (oltre le grandi somme in così pochi anni pagate) di altre lire sei mila, ecc. Poi... da seimi-
la si dovrà giungere a 21.000 regolarmente quietanzate
il 1° febbraio 1712.
L’imperatore d’Austria Carlo VI nel 1718 incaricò una
speciale Commissione o Giunta di fare un nuovo e generale censimento che potesse poi servire come base di
calcolo alle imposte. E poiché l’imposta veniva elevata sui fondi, sulle persone e sulle merci, il censimento,
assieme a dati statistici riguardanti la popolazione ed il
commercio, esigeva una misura precisa delle proprietà
fondiarie e relative rendite. Si cercò di assoggettare anche l’Ossola a questo generale censimento che sparse
dappertutto misuratori e loro aiutanti.
Ma gli agrimensori trovarono non poche difficoltà in
Ossola dove i fondi, a causa della estrema suddivisione,
sono piccoli, irregolari e numerosissimi. Si dovette allora ripiegare dividendo semplicemente i territori comunali in corpi di ugual superficie, segnando in essi i vari
proprietari, ma rinunciando alla definizione più precisa dei fondi appartenenti ai singoli proprietari. Naturalmente le notifiche si estendevano anche alle abitazioni, cascine, mulini, ecc. ed i notai vennero obbligati alla
denuncia dei contratti di compravendita degli immobili, specificando misure e nomi dei contraenti. Nel 1725
si tentò anche una stima del valore della proprietà. Ciò
significava che si era in procinto di estendere anche all’Ossola un nuovo sistema fiscale che avrebbe spazzato
via tutti i privilegi ed esenzioni a cui fino allora si era
guardato come alla salvaguardia della possibilità di sussistenza. Perciò i rappresentanti dell’Ossola fecero subito ricorso perché l’Ossola fosse esentata dal censimento.
Il voto del fisco del 7 ottobre 1727 fu favorevole all’Ossola Superiore, ma doveva essere approvato dall’imperatore. Per sostenerne la causa a Vienna gli Ossolani si
erano inizialmente affidati ai buoni uffici del vigezzino
Pietro Andreoli, il quale però nel 1729 se ne volle esimere. E poiché la cosa stava molto a cuore agli Ossolani, su proposta dei sindaco generale della Giurisdizione
dottor Carlo Ruga Silva, il 13 novembre 1729, venne
affidata al giureconsulto Paolo della Silva il quale condusse felicemente l’affare in porto ottenendo dall’imperatore con diploma del 22 agosto 1731, intimato alla
Giunta per il censimento, la bramata esenzione.
La guerra per la successione al trono di Polonia (17331738) ebbe notevoli conseguenze anche in Ossola. Es45
sendosi Carlo Emanuele III, re di Sardegna, alleato con
la Francia con il trattato del 26 settembre 1733, gli eserciti franco-sardi invasero la Lombardia, occupando Milano nell’ottobre del 1733. Frattanto in Ossola insorsero gravi perturbazioni. Il capitano del castello di Domo,
Giovanni Antonio Zunica, pretese rifornimenti di
vettovaglie a spese dell’OssoIa. Si opponevano gli Ossolani invocando i soliti privilegi, ma il capitano Zunica
continuava a fare richieste e minacce. Si riuscì anche ad
ottenere dalla Giunta di Governo lasciata dal conte di
Daun, governatore di Milano, in sua vece, un’ordinanza che proibiva espressamente al castellano di Domo di
esigere alcunché dagli Ossolani. Questi però non si acquietò, anzi si fece sempre più ostile, rivoltando contro
il Borgo le artiglierie del castello e facendo sparare alcuni colpi intimidatori contro le case di alcuni borghesi. I
Domesi sentendosi prigionieri nel borgo che il Zunica
aveva fatto chiudere, fecero suonar le campane a martello. Il segnale richiamò dalle valli le milizie locali che
giunte a Domo si limitarono però solamente a riaprire il borgo, costringendo i soldati del presidio a ritirarsi nel castello. Riferisce il giureconsulto Paolo della Silva che il castello era tenuto sotto sorveglianza dai borghigiani, che un soldato fu ucciso da un colpo di fucile sparato da una guardia appostata sul campanile della chiesa di S. Francesco e che lo stesso castellano corse il pericolo di finire allo stesso modo. Una nota dell’arciprete di Domo dice che la sera del 14 novembre
1733, alcuni soldati del castello fecero una sortita nel
borgo sparando alcuni colpi contro i borghigiani armati; questi risposero uccidendo un soldato di nome Raimondo Bellandel. Il giureconsulto Paolo della Silva, su
invito del re di Sardegna e del Senato di Milano, venne
a Domo a parlamentare con il castellano. Questi avendo saputo che ormai tutte le città dello Stato di Milano erano in mano dei Franco-Sardi si dichiarò pronto
alla capitolazione, e le ostilità furono sospese. Venuto in
Ossola a nome del Re di Sardegna il cavaliere gerosolimitano Antonio Grisella, fu sottoscritta la capitolazione; la resa fu fatta con tutti gli onori militari. Il Zunica con la sua guarnigione spagnola se ne andò, lasciando il castello al cavaliere Grisella che lo occupò con pochi soldati sardi.
Con la susseguente pace di Vienna del 1738, il regno
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di Sardegna si estese a Tortona e Novara. Con il ritorno del Milanese all’imperatore Carlo VI, il castello di
Domo fu rioccupato da milizie austriache e per qualche
anno si ebbe un po’ di pace.
Morto nel 1740 l’imperatore Carlo VI si riaccese nuovamente la guerra per la successione al trono austriaco. In
virtù della così detta Prammatica Sanzione su quel trono era salita l’arciduchessa Maria Teresa che era osteggiata da Francia, Spagna, Prussia, Sassonia, Baviera ed
anche dal re di Sardegna. Questi però si staccò dagli alleati quando si accorse che non erano disposti a cedergli
la Lombardia a cui aspirava. Alleatosi con l’Austria con
il trattato di Worms (13 settembre 1743), Carlo Emanuele III, rinunciò al Milanese, ma in compenso dei
suoi aiuti all’Austria ottenne il Vigevanese, l’Alto Novarese, l’Oltre Po pavese e la città e territorio di Piacenza
fino al Nure. La notifica alle comunità cedute fu data
con il manifesto del 25 gennaio 1744 dal principe di
Koblovitz ed il giorno seguente il re di Sardegna ne prese formalmente possesso. Negli anni 1742-1743 il castello di Domo era per lo più presidiato dalle milizie locali a cui era affidata anche la difesa del Borgo.
Unitamente alle vicende di cui abbiamo parlato l’Ossola in questo secolo soffrì di nuove e gravi difficoltà.
La prima fu quella ricorrente di un’alta mortalità specialmente infantile dovuta ad epidemie che infierirono in alcuni anni: la difterite, l’influenza, ed il vaiolo.
Scorrendo i libri dei morti si rinvengono lunghi elenchi
di bambini rapidamente mietuti dal morbo. Per parecchie settimane, ogni giorno numerose culle di bambini attendevano nelle chiese la sepoltura. Le attestazioni
che ci sono rimaste sono toccanti. Di tutti il più terribile era il vaiolo che serpeggiava in continuità ricomparendo improvviso e letale nelle valli ossolane.
Il notaio Cosimo Grossetti di Montescheno annota:
Din di l’anno 1746 fu una gran mortalità di bestie nel
Piemonte, Novarese e Milanese, Pavese e Umelina. Basta
solo dire che nelle terre dove erano mille bestie bovine ne
restano solo circa quattro o cinque ed un par di bovi avanzati dal detto male si prezavano cento doppie, cento zecchini e cose simili. Nel qual anno 1746 fu ancora una tal
strepitosa per non dir rabbiosa guerra nello Stato di Milano che il Novarese, Vercellese e parte del Piemonte patì
un gran danno, chiamato quasi la sua somma rovina, non
Strada del Sempione, ponte di Crevola. Da una stampa di Lorry.
potendosi veder altro di peggio, salvo la peste. Per la qual
guerra patì qualche spavento e danno ancor l’Ossola facendosi delle scorrerie in detta Ossola almeno fino a Vogogna
nel mese di marzo or delli Todeschi or del nostro re parti
avversarie. Pretendevano sottomissione or l’una or l’altra,
mettendo in grande affano li habitanti perché se aderivano
o mostravano accoglienza ad una parte come erano sforzi a
dimostrare anche senza genio, gl’era minacciato il saccheggio dall’altra. Basta dire che uno di Vogogna per aver dato
alloggio ad un oficiale spagnolo fu bastonato severamente
ed andò a rischio d’esser impiccato; altri per aver detto
Viva a una parte furon bastonati e multati dall’altra; sì
che si può immaginare in qual intrico si trovava la povera
gente. Di più il detto anno 1746 per essersi i Spagnoli impadroniti di Pavia e di tutto il Milanese ed Umelina, impedirono il corso del sale che veniva nel Ossola ed in tutto
il Novarese e Vercellese, sì che tali paesi dovettero patir penuria di sale, per il che molti s’ammalavano, massime nella Valsesia e Valanzasca, ma nella val Antrona stettero ben
alcuni poveri qualche tempo senza, ma essendosi messi alcuni mercati di Vigezzo ed anche di Pallanzeno, ne facevano venire dalla parte della Svizzera.
La epizoozia del bestiame bovino era stata importata in
Italia da buoi ungheresi venuti in Lombardia per il rifornimento delle armate austriache nel 1711 e si sparse
in tutta l’Europa. Infestò la Francia, la Germania negli
anni 1742-43, poi l’Italia fino al 1747 giungendo anche
nell’Ossola, dove causò danni gravissimi al patrimonio
zootecnico, riapparendo nel 1795. Si calcola che in Europa dal 1711 al 1776 siano andati perduti per questa
pestilenza più di sei milioni di bovini. In Ossola molte famiglie che perdettero quasi tutto il bestiame e non
poterono rinnovarlo, perché troppo povere, dovettero
emigrare. Alla metà del 1700 un buon terzo dei contadini allevatori di bestiame cambiò mestiere.
E poi le intemperie. Ricordiamo il 1740: anno freddissimo, in cui non poterono maturare non solo le uve,
ma neppure le castagne; il 1743, particolarmente sicci47
toso, in cui si poté raccogliere solo poca segale e scarso vino; il 1744 in cui alla Madonna del Rosario (7 ottobre) venne una tal innondatione d’acqua che tra Vogogna
e la Pieve (di Vergonte) non si vedeva più terra ma bensì
v’era un lago. La Toce a Vogogna andò nelle cantine e lasciò
raso fino su le topie. Alla Pieve un riale essendo saltato fuori dal suo canale portò via alcune case con la gente senza
lasciar segno ove eran piante, con danno di molte migliaia
di lire alle campagne. Lo Strona portò via il così bel ponte
di Gravalona ove andò l’acqua nelle case, portò fuor molta
robba, perfino credenze con dentro pane, formaggio ed altri cibi, bestie ancor attaccate alla presepe. E poi la grande
e generale alluvione del 14 e 15 ottobre 1755 che devastò tutta l’Ossola.
Il re Carlo Emanuele III, nel tentativo di promuovere una migliore e moderna amministrazione dello Stato
promulgò nuove costituzioni e leggi, entrate in vigore il
16 maggio 1770. All’Ossola ne fu data comunicazione
il 30 aprile 1770, dichiarando l’utilità di leggi uniformi
per tutto lo Stato. Gli Ossolani però insistettero presso
il Governo per ottenere delle deroghe su alcuni punti.
Queste vennero concesse dal Senato di Torino con decreto del 27 luglio 1771, estendendole sia all’Ossola Inferiore che Superiore ed alla val Formazza.
Con le nuove costituzioni scomparve tutto il vecchio
ordinamento civile e criminale.
L’amministrazione della comunità era affidata al consiglio, il quale poteva riunirsi solo con la partecipazione
del pretore, di un suo delegato o di persona di fiducia,
detta «castellano».
Il pretore di Domo con le R. Patenti dell’11 luglio 1771
ebbe autorità di «intendente». L’intendente, capo della
giurisdizione o pretore, poteva annullare ogni delibera
del consiglio, contraria agli interessi del Comune o non
conforme alle leggi. Consiglieri potevano essere eletti
tutti i capifamiglia, sebbene fossero in numero limitato;
ma era ufficio che non si poteva rifiutare.
Il consiglio a sua volta eleggeva il sindaco nella persona
del consigliere più anziano, il quale durava in carica sei
mesi od un anno secondo che il numero dei consiglieri
era di almeno quattro o almeno due. Le spese comunali erano espressamente controllate e in taluni casi vietate dalla superiore autorità. Ogni consiglio doveva avere
anche un segretario approvato dall’intendente.
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Questa prima riforma dell’amministrazione comunale
fece cadere antiche consuetudini, però indusse nei comuni ossolani istituzioni più moderne ed omogenee.
Non si segnalano importanti avvenimenti nella seconda metà del secolo XVIII in Ossola fino a quando non
giunsero anche in questa regione le scintille del fuoco
innovatore e distruttore della rivoluzione francese che
nel 1793 rovesciò la monarchia per istituire la repubblica, scatenando una reazione a catena di rivoluzioni e
guerre in tutta l’Europa.
Il re Vittorio Amedeo III, unitosi ad altre potenze europee, partecipò alla prima coalizione contro la Repubblica francese. Lo Stato Sardo si armava in previsione di
un periodo di guerra che non si sarebbe potuto evitare.
L’editto dell’arruolamento del 1793 colpì naturalmente anche l’Ossola. Questo obbligava ciascuno dei tre dipartimenti dell’Ossola, Domodossola, Vogogna e val
Vigezzo, a fornire ed armare un contingente di soldati.
Il 20 gennaio 1793 sì riunì a Domo il Consiglio provinciale, il quale, prendendo atto della situazione, con un
certo slancio patriottico deliberò di difendere colla maggior forza questa provincia da ogni invasione che derivar
potesse da parte dei Francesi senza ricever verun stipendio
dalle Regie Finanze, ma a spese di questa Provincia, e ciò
in conferma della dichiarazione già fatta nell’antecedente Consiglio del 31 ora scorso dicembre (1792), accettando la graziosa offerta fatta da S.M. delle armi, munizioni
ed attrezzi militari.
Il Consiglio decise di fornire quattro compagnie, corrispondendo a ciascun soldato la paga di 30 once di pane.
Capo ed ispettore delle milizie ossolane fu eletto l’avvocato Giuseppe Maria Facini. Il ministro della guerra
Di Gravanzana con lettera del 30 gennaio 1793 approvò queste delibere.
Ci fu in quel momento un notevole senso civile e patriottico, dovuto in parte alle notizie allarmanti provenienti dalla Francia circa i disordini che accompagnavano la rivoluzione in atto.
Si ebbero iniziative particolari a Montecrestese ed in
valle Antigorio per formare corpi speciali per la difesa dei confini dell’Ossola. Purtroppo il Facini, divenuto
per la sua prepotenza e scarsa sensibilità, odioso al popolo, fu osteggiato da gran parte delle milizie ossolane,
i cui rappresentanti, riunitisi al ponte di Crevola il 15
giugno 1795, stilarono un vibrato ricorso al Re per esonerarlo dalla carica di comandante militare e reggente. A questa riunione mancarono i rappresentanti di alcune comunità, fra cui quelli di Domo, di Villa e della valle Antrona. Rispose il Re da Moncalieri il 4 agosto
1795, delegando il prefetto di Pallanza Bellini, secondo la richiesta, a presiedere i consigli provinciali. Di ciò
informato, il Facini, l’8 agosto annunciava la riunione
del consiglio provinciale per il giorno 16 seguente e la
sua rinuncia alla carica di reggente e di comandante delle milizie. Ma i rappresentanti protestatari la disertarono ed il 30 agosto, sotto la presidenza del prefetto Bellini, si riunirono autonomamente e, dopo aver riprovato
il comportamento del Facini e sottopostolo al giudizio
di una commissione amministrativa, elessero un nuovo
reggente e capitano.
Con tutto questo non si deve credere che in Ossola i
principi della rivoluzione francese e le idealità che l’avevano provocata fossero sconosciuti. La circolazione degli uomini e delle idee era sempre stata ampia e favorita dalle emigrazioni stagionali o semipermanenti di una
elevata percentuale degli uomini più attivi ed intraprendenti. Fra strati di patente conservatorismo filtravano
e si muovevano, prima nascostamente, ma poi sempre
più palesemente idee riformistiche, impulsi decisamente rivoluzionari e idee politiche repubblicane. I successi dei Francesi, legati alle fortune dell’astro napoleonico, erano paventati dai conservatori e aspettati ed esaltati dai repubblicani. La Repubblica Cisalpina, voluta
da Napoleone, favoriva la penetrazione delle idee rivoluzionarie e fomentava impulsi eversivi anche nell’Ossola. Un tentativo rivoluzionario fu organizzato a Pallanza da Giuseppe Antonio Azari. Scoperto il complotto, l’Azari fu condannato a morte per impiccagione il
29 novembre 1796; il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Altre congiure e associazioni rivoluzionarie pullulavano in quel periodo negli stati del re di
Sardegna, fomentate dalla Francia che tentava di provocare il rovesciamento del trono, tenuto allora da Carlo Emanuele IV succeduto nel 1796 a Vittorio Amedeo
III, e l’adesione alla Repubblica Cisalpina o addirittura alla Francia.
Alcuni fuoriusciti piemontesi e patrioti cisalpini ed altri elementi rivoluzionari internazionali, allo scopo di
accelerare i tempi, con la protezione e l’appoggio della
Repubblica Cisalpina che fornì armi e direttive, si riunirono in numero di 800 uomini a Varese e fra il 13 e il
14 aprile 1798, da Laveno attraverso il lago Maggiore,
giunsero a Intra-Pallanza. Fu prima loro preoccupazione di imporre la rivoluzione, piantando l’albero della libertà, stabilendo una nuova amministrazione e taglieggiando i ricchi e nobili locali. Comandava questi così
detti patrioti il francese Giovanni Battista Leotaud e i
suoi luogotenenti erano il francese Lions ed il savoiardo Seras. Da Pallanza vennero ad Ornavasso, dove posero il campo, cercando di suscitare e ottenere l’adesione delle popolazioni ossolane. Queste però non si mostrarono entusiaste, anche perché le contribuzioni militari immediatamente imposte risultavano estremamente sgradite. Un nucleo di partigiani per i Francesi esisteva in verità a Vogogna dove il popolo, sollecitato dall’avvocato Filippo Grolli, da Giuseppe Antonio Cadorna, Giulio Albertazzi e Angelo Zaretti, accettò la novità
e ballò la carmagnola attorno all’albero della libertà.
Poi un gruppo di armati, guidati dal capitano Angelo Zaretti, riuscì a penetrare nel borgo di Domo il 20
aprile seguente ed a farsi consegnare il castello. Anche
a Domo si cercò di sollecitare adesioni che furono tuttavia piuttosto scarse. Intanto l’Albertazzi si recava con
alcuni armati ad incontrare il comandante Fontana che
con una schiera di sessanta dragoni risaliva la valle Cannobina per raggiungere la valle Vigezzo. Riunitisi a Santa Maria Maggiore anche lì si imposero le solite cerimonie che istituivano la repubblica e la municipalità. Ma
il popolo, sebben chiamato dagli insoliti tocchi di campana, non si mostrò entusiasta. Del resto giunsero subito notizie allarmanti che consigliavano molta prudenza.
Quattromila soldati dei reggimenti di Savoia, della Marina, di Pever Im-Off, di Zimmerman e di Bachman
stavano concentrandosi a Gravellona, inviati dal Re, per
puntare verso Ornavasso dove il Leotaud cercò di organizzare la difesa.
Nell’imminenza della battaglia ben pochi degli Ossolani che avevano fatto l’atto di adesione accorsero ad Ornavasso. Il 21 aprile 1798 le prime milizie regie avevano già raggiunto Gravellona ed il giorno seguente erano
pronte alla battaglia.
Lo scontro avvenne a sud di Ornavasso ed ebbe inizio
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verso le dieci di mattina. Fu una battaglia in piena regola che ebbe alterne vicende, dove alla fine la netta superiorità numerica e tattica dei regi ebbe la meglio sui
repubblicani. Appena infatti un corpo di sei compagnie
di granatieri di Savoia e della Marina riuscirono a passare il Toce e prendere alle spalle l’esercizio del Leotaud,
la sorte della battaglia fu definita.
Nonostante il valore dei repubblicani, 150 morirono con le armi in pugno, 400 furono fatti prigionieri ed il resto, completamente sbandato, cercò la salvezza sui monti di Premosello e Vogogna, tentando di guadagnare luoghi più sicuri. Alcuni morirono di freddo e
di stenti nel tentativo di raggiungere la valle Vigezzo, e
quelli che vi riuscirono furono fatti prigionieri dalle milizie locali e tradotti nelle carceri di Domodossola. Anche i capi furono presi. A Domodossola un consiglio
di guerra pronunciò sentenza capitale contro i rivoltosi. I giorni 28, 29 e 30 aprile ne furono fucilati 64. Altri furono poi tradotti a Casale per subire la stessa sorte. Dei capi lo Zaretti era stato già proditoriamente colpito a morte in val Vigezzo il 24 aprile a S. Maria Maggiore quando presumeva di essere ormai salvo. Giulio
Albertazzi fu fucilato a Pallanza il 19 maggio. L’avvocato Grolli, riportato da Casale a Vogogna, fu giustiziato sulla piazza del Pretorio il 30 maggio. Unico si salvò dei comandanti ossolani il vogognese Giuseppe Antonio Cadorna che, per merito della coraggiosa moglie,
ottenne la grazia dal Re. Il Leotaud, fatto prigioniero
con il Lions fu fucilato a Casale. Le stragi degli infelici prigionieri sarebbero continuate se le proteste della
Francia non avessero costretto il Re a sospendere le esecuzioni ed a concedere una amnistia per tutti il 20 giugno di quell’anno 1798.
Il re Carlo Emmanuele IV che con le R. Patenti del 7
marzo e l’Editto del luglio 1797 aveva abolito il sistema feudale con tutte le sue implicazioni, dovette riconfermare tali leggi con la Patente del 2 marzo 1799 (2
ventoso, anno VII della Repubblica Francese secondo il
nuovo calendario).
L’8 dicembre seguente Carlo Emmanuele IV fu costretto a dimettersi e venne proclamato il Governo repubblicano. Fu istituito il Dipartimento del Novarese ed istituita la municipalità nelle città e grossi borghi. In Ossola fu inviato il commissario Giacomo Zuffinetti per
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la necessaria organizzazione. La municipalità di Domodossola comprese tutta l’antica giurisdizione e quindi
anche Villa e la valle Antrona. La municipalità era diretta da un presidente, un commissario nazionale e quattro amministratori i quali rispondevano direttamente
all’Amministrazione centrale di Vercelli.
All’inizio del 1799 fu organizzato un plebiscito allo scopo di ottenere la bramata unione con la Francia, in verità bramata solo da pochi fanatici, ma decisa dal Governo provvisorio. Con abile propaganda si ottenne l’effetto desiderato. Anche nell’Ossola molte furono le adesioni. Ricordiamo a questo proposito che anche a Villa
e in valle Antrona non mancarono i fautori della unione con la Francia. Questo ci sembra almeno dedurre dal
fatto che un certo Cassoletti di Villa è l’autore di un Discorso tipografico in occasione della generale adesione ossolana all’unione francese, stampato a Torino nel 1799.
Ma l’orizzonte politico era tutt’altro che chiaro. Continuava con alterne vicende la lotta contro la Francia da
parte delle potenze coalizzate. In una seconda coalizione si unì anche la Russia ed un esercito austro-russo comandato dal generale Suwarow venne in Italia. Milano fu presa dagli austro-russi il 28 aprile, Novara il 3
maggio e Torino il 27 maggio 1799. In Ossola si sfaldò
la municipalità stabilita dai repubblicani, si ritornò al
vecchio ordinamento, e si ripeterono le adesioni questa
volta al generale Suwarow, grati di essere stati «liberati».
E naturalmente si rinnovarono le imposizioni di forniture di bestiame e servizi, le requisizioni e le angherie.
In Ossola, per guardare i passi alpini fu mandato un
corpo di austriaci comandati dal principe Vittorio de
Rohan, con il compito di impedire infiltrazioni attraverso il Sempione. Le truppe dei generali Laudon
e Wuckassovich stazionavano invece presso Arona; di
queste un distaccamento russo al comando del colonnello Rosales e seimila austriaci del generale Nobile vennero a stare in Ossola. Si comprende che con tutta questa massa di soldati da sfamare gli Ossolani si sentissero
letteralmente in guerra per la sopravvivenza.
Intanto per aprirsi la via a scendere in Italia dalla Svizzera, il generale Massena al comando di una armata francese, inviava verso il Vallese ed il Sempione il generale Giacobini con 4.500 uomini. Questi non trovarono
molta difficoltà a sloggiare le truppe del Rohan, il qua-
le ai primi di settembre, pensando di non poter opporre sufficiente argine all’avanzata nemica, si ritirò a Vogogna e poi a Ornavasso, dove organizzò la resistenza. I
Francesi attorno al 20 settembre raggiunsero Piedimulera, ma avendo ricevuto l’ordine di retrocedere, si limitarono, pare, a scopo tattico e intimidatorio ad agganciare gli Austriaci impegnandoli in una scaramuccia a
Migiandone e Gravellona (29 settembre 1799) per ritirarsi poi al dì là del Sempione. Con il ritorno delle truppe austriache del Rohan che passarono in Ossola tutto
l’inverno si accrebbero i tormenti delle requisizioni di
bestiame, foraggio, viveri, legname e soprattutto di lavoro coatto per la costruzione di una linea di trincee difensive fra la punta di Migiandone e Bettola, e relativo
campo trincerato.
Negli ultimi due anni gli Ossolani avevano più volte
piantato, strappato e ripiantato il famoso albero della
libertà e giurata obbedienza ripetutamente a questo e
a quello, ai Sardi, agli Austriaci, ai Francesi, ai Cisalpini ecc., cercando di salvarsi dalle prepotenze di questo o quel «liberatore», ma la conclusione più ovvia fu
la miseria non solo della povera gente, ma di tutti. Ridotte a zero le finanze locali, il patrimonio zootecnico,
ricostruito con infiniti sforzi, non esisteva più; si fu costretti a vendere le suppellettili d’oro o d’argento delle
chiese per pagare i contributi imposti dagli occupanti di
turno. Questo stato di cose fu una chiara beffa per tutti,
sia conservatori che rivoluzionari; e furono ben pochi i
fanatici che non se ne accorsero.
Cronache del secolo XIX
Nella primavera del 1800 Napoleone prende l’iniziativa di tornare alla riconquista dell’Italia scendendo attraverso le Alpi in Piemonte ed in Lombardia. Il 9 maggio è a Ginevra e punta verso il passo del Gran San Bernardo ancora innevato. Gli eserciti austriaci, comandati dal generale Melas, tentano invano di impedire l’impresa. Napoleone riesce, superando difficoltà inimmaginabili, a raggiungere il passo fra il 15 ed il 21 maggio e poco dopo si presenta nella pianura piemontese. Intanto un distaccamento francese, forte di 1000
uomini comandati dal generale Béthencourt, tenta il
non meno difficile passo del Sempione ed il 26 maggio, sotto l’incombente pericolo di valanghe, le trup-
pe francesi vengono a contatto a Gondo con quelle austriache del generale Laudon. Queste però, dopo aver
tagliato o fatto saltare i ponti della difficile strada fra
Gondo ed Iselle, si ritirano dalla val Divedro lasciando
praticamente libera l’avanzata dei Francesi.
Il principe di Rohan, appena si rende conto di correre
il pericolo di essere intrappolato nell’Ossola Superiore,
ordina l’abbandono di Domo e concentra le sue truppe oltre i trinceramenti di Migiandone e Bettola; anzi,
poco dopo, non sentendosi sicuro neppure in quella
posizione, si ritira completamente dall’Ossola. Infatti giunge notizia che un grosso contingente di soldati, quasi tutti italiani, al comando del generale Lecchi, è
prontamente passato dalla val d’Aosta ad Alagna in Valsesia e sta per giungere sul lago d’Orta da Varallo. Così
il 31 maggio l’Ossola è interamente sgombra dagli Austriaci e militarmente occupata dai Francesi. Si ricostituisce la municipalità, si fanno epurazioni e controepurazioni, si bruciano i documenti compromettenti.
Il 14 giugno Napoleone vince la grande e decisiva battaglia di Marengo. Il 20 luglio si ricostituisce la Guarda nazionale. Il 15 ottobre viene ricostituita la Repubblica Cisalpina che nel 1802 prende il nome di Repubblica d’Italia.
Un decreto del 13 ottobre 1800, ma datato dal 7 settembre precedente, annette alla Repubblica Cisalpina
tutta la regione fra la Sesia ed il Ticino, comprendente
anche il Novarese e l’Ossola.
Il decreto sopra citato conteneva anche un grosso particolare che interessava l’Ossola direttamente. Si stabiliva
infatti l’immediata apertura di una nuova strada militare fra il lago Maggiore ed il Vallese attraverso l’Ossola ed
il Sempione. Era un progetto già espresso da Napoleone nel 1798 e nelle intenzioni del generale aveva soprattutto funzione militare. Doveva infatti essere una strada
capace di sopportare il traino pesante delle artiglierie e
dei carriaggi militari permettendo agli eserciti francesi e
dei loro alleati un rapido spostamento attraverso le tanto temute Alpi. Le spese, che sarebbero state sostenute dalla Repubblica Cisalpina e da quella Francese, erano preventivate in 50.000 franchi al mese fino a lavoro
finito. Il decreto stabiliva anche il dislocamento in Ossola di un battaglione di 500 uomini agli ordini del generale Turreau, incaricato della esecuzione del proget51
to. A Milano questo progetto tanto dispendioso non
fu certo visto di buon occhio, ma una volta tanto, sebbene concepito in funzione puramente militare, sarebbe stato proficuo sia per la Lombardia che per l’Ossola.
Il progetto fu messo immediatamente in esecuzione e
portato avanti con incredibile vigoria. Fu naturalmente
requisito molto lavoro sul luogo e gli Ossolani ebbero
da sopportare notevoli angherie non solo per il lavoro,
ma anche per le provvigioni di bestiame, foraggi e alloggi agli operai ed alle truppe. La parte italiana fu completata nel 1805 ed una iscrizione scolpita sulla viva roccia
della galleria di Gondo presso il confine, ricorda quest’opera voluta dal genio di Napoleone, ma fatta a spese
degli Italiani: AERE ITALO. 1805. NAP. IMP.
A titolo informativo giova qui dare alcune notizie su
quest’opera che ai suoi tempi fece enorme impressione. Vi furono impiegati per la costruzione fino a 3.000
operai al giorno; le rocce furono attaccate con le mine,
consumando oltre 160.000 quintali di polvere da sparo. La costruzione costò un enorme capitale e molte vite
umane.
La coscrizione militare obbligatoria, introdotta nel
1802, fu molto mal sopportata dalle popolazioni ossolane che si sentivano scarsamente invogliate ad accettare
che i giovani diventassero carne da cannone nell’armata
italiana al servizio dell’ambizione di Napoleone.
La Repubblica non ebbe lunga durata. Infatti nel 1805,
Napoleone, divenuto imperatore di Francia, cinse anche la corona del regno d’Italia (23 maggio) dove pose a
governare il viceré Eugenio Beauharnais.
L’Ossola durante questo periodo amministrativamente
dipende dal Dipartimento dell’Agogna, il quale fu diviso inizialmente (decreto del 2 novembre 1800) in 17
distretti, fra cui quelli di Domodossola e di Vogogna, e
successivamente (decreto del 13 maggio 1801) in cinque distretti fra cui quello di Domodossola che si estendeva a tutta l’Ossola, suddiviso poi (decreto dell’8 giugno 1805) in due cantoni (Domo e Vogogna). Domo
fu quindi sede di sottoprefettura. Nel 1806 fu pubblicato il Codice Napoleonico ed esteso anche al Regno
d’Italia con decreto del 22 marzo 1806.
Con decreto del 26 maggio 1807 furono abolite le società religiose i cui beni furono confiscati dallo Stato;
seguì il 25 aprile 1810 un altro decreto che abolì tutte
52
quelle poche che erano riuscite in qualche modo a sopravvivere al decreto precedente. Questa ondata di giacobinismo ebbe in Ossola i suoi fanatici e provocò notevoli fermenti nel popolo che era molto attaccato alla
religione ed alle sue istituzioni. Fu in questo periodo
che in Ossola, come del resto in molte parti d’Italia, il
fanatismo anti-religioso produsse enormi danni culturali al patrimonio artistico. A titolo di esempio ricordiamo per l’Ossola la distruzione della chiesa duecentesca dei Francescani di Domo, con relativo campanile, la trasformazione del convento dei Cappuccini del
Sacro Monte Calvario in caserma, la sconsacrazione di
chiese e cappelle a Vogogna e la dispersione di arredi sacri, libri, archivi ed opere d’arte che hanno impoverito l’Ossola.
Queste ed altre angherie crearono nel popolo ossolano
profonde basi di antipatia per le milizie francesi onnipresenti, in cui troppi erano costretti a marciare per andare a morire nella disastrosa campagna di Russia. Furono molti in questo tempo coloro che disertarono o si
diedero alla macchia, aspettando tempi migliori. Dopo
la ritirata di Russia ed il decisivo tramonto della stella napoleonica (1813) con la battaglia di Lipsia (16-18
ottobre) anche il territorio ossolano visse nella incertezza e si può dire nell’ascolto degli avvenimenti, le cui notizie erano riportate in patria dai rari sopravvissuti. Proprio nei primi giorni del 1814 numerose compagnie di
soldati italiani e francesi stanno rientrando attraverso
il Sempione in Italia, stanchi ed abbattuti, sospinti da
contingenti austriaci e russi che occupano il Vallese.
A Domodossola in quell’epoca comandava la piazza il
generale Bertoletti e questi fece qualche tentativo di difendere il passo del Sempione, ma le truppe non erano
sufficienti. Ci fu qualche scontro di assaggio a Iselle ed
a Gondo, ma non una vera battaglia. Il 1° marzo tuttavia una colonna al comando del colonnello Ponti riuscì ad occupare il valico del Sempione ed il giorno dopo
tentò di scendere fino a Briga. Il Ponti però, credendo forse di avere dalla sua parte le popolazioni vallesane, imprudentemente si lasciò circondare dagli Austriaci forti di 200 cacciatori tirolesi affiancati da almeno
100 Vallesani, e fu fatto prigioniero con la sua truppa.
Gli Austriaci si portarono immediatamente attraverso
la val Divedro a Crevola verso Domo. Il presidio di vo-
lontari abbandonò il castello di Domo ritirandosi nella Bassa Ossola. Il 9 marzo 1814 un piccolo esercito
di 600 uomini, per metà tedeschi e bavaresi e per l’altra metà disertori italiani e vallesani, come si ha da una
relazione al Ministro della guerra italiano, occupò senza colpo ferire Domodossola e l’Ossola Superiore fino a
Villa e Vogogna. Il 12 marzo a nome del colonnello barone Seimcheim il capo dei cacciatori vallesani lanciò
un proclama roboante alle popolazioni ossolane, che, se
sotto alcuni aspetti pare ridicolo, sotto altri ci illumina
sulla vera situazione, toccando soprattutto gli equivoci
di certe libertà proclamate e la realtà patente delle molte angherie a cui gli Ossolani erano stati sottoposti, prima fra tutte la coscrizione obbligatoria.
Il generale Mazzucchelli a cui era stato affidato l’incarico della difesa dell’Ossola, manteneva la linea di difesa
a Gravellona, ed un posto avanzato ad Ornavasso. Nell’Ossola Superiore era invece il generale Luxen che aveva il comando delle truppe austriache, ma pare che non
avesse precise intenzioni di oltrepassare la linea VillaVogogna.
Il 25 marzo 1814 il generale Mazzucchelli, avendo ottenuto il rinforzo di un distaccamento di 215 uomini
di fanteria francese ed un altro di dragoni di Napoleone, affrontò gli Austriaci al ponte della Masone dove ci
fu una piccola battaglia. Ritiratisi da quel luogo gli Austriaci si concentrarono al ponte di Villadossola dove
pure ci fu uno scontro di fucileria e di artiglieria. Temendo però di essere presi alle spalle da un contingente
inviato dal Mazzucchelli verso Beura e Domo dal ponte
della Masone, gli Austriaci si ritirarono ordinatamente
in vai Divedro. In quel medesimo giorno ritornò a Domodossola il Viceprefetto e fu ricostruita la vecchia amministrazione.
Prendeva intanto il comando delle truppe dell’Ossola
il generale Saint Paul il quale però, come appare dalle
sue relazioni inviate al Ministro della guerra, non poté
contrastare il fenomeno dei molti disertori che si rifugiavano nelle valli e che non riusciva a intercettare, soprattutto per la protezione e l’omertà delle popolazioni locali e perfino delle autorità ormai stanche di tutte
queste traversie.
In questo periodo i molti scontenti, sbandati, disertori e insofferenti dell’autorità costituita che si erano ri-
fugiati in Ossola e che provenivano in parte dalle vicine regioni del lago Maggiore ed Orta, scesero in aperta ribellione contro lo Stato. Riunitisi in bande, assaltarono parecchie case municipali dei comuni del lago
Maggiore e circonvicini distruggendo soprattutto le liste di coscrizione militare, ma spesso mettendo a fuoco interi archivi.
L’11 aprile 1814 Napoleone abdicò e poco dopo (23
aprile) anche il viceré Eugenio Beauharnais cedette il
regno. Gli Austriaci rioccuparono la Lombardia.
Eliminato con gli editti del 25 aprile ed 11 maggio
1814 il Dipartimento dell’Agogna, l’Ossola ed il Novarese cessarono di essere uniti a Milano e si ricongiunsero agli Stadi Sardi. Il 20 maggio 1814 il re Vittorio
Emanuele I è nuovamente, dalla Sardegna, di ritorno in
Piemonte per riprendere i suoi domini.
La caduta di Napoleone per molti Ossolani significava
anche il ritorno all’antico ordinamento. Ci si preoccupava ancora della salvaguardia di quei famosi privilegi
per i quali erano stato fatte tante lotte e la cui conservazione era considerata necessaria per la stessa sopravvivenza del popolo.
La rigida restaurazione voluta dalle potenze vincitrici
pareva propizia per questa richiesta ossolana che infatti
fu accettata. Il 17 marzo 1815 con decreto camerale gli
Ossolani ottennero la conferma dei loro privilegi.
Dal 3 giugno alla fine di luglio l’Ossola è continuamente attraversata da numerosi corpi di militari con cariaggi e cannoni. Sono ben 75.000 uomini, 10.000 cavalli,
2.000 carri, 1.300 buoi, 180 cannoni e 6.000 ausiliari
dell’esercito austriaco. Questo attraversamento non fu
senza le contribuzioni e le solite requisizioni di fieno,
bestiame, cibarie ed alloggi a spese degli Ossolani, nonostante i famosi privilegi tornati in funzione. Fu questa però l’ultima loro approvazione. II Regio Biglietto
del 23 giugno diede un colpo a tutta la struttura civile dei comuni ossolani togliendo l’antica distinzione tra
i vicini e non vicini o appoggiati. Anche questo decreto non incontrò il favore degli Ossolani i quali in qualche caso si mostrarono renitenti alla sua osservanza, ma
le richieste dei non vicini furono tali che dovette essere
applicato integralmente. E bisogna riconoscere che, nonostante tutto, era una non piccola riforma ed un passo notevole in avanti sulla via dell’ammodernamento
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dell’Ossola.
Con il Regio Editto del 10 novembre 1818 l’Ossola Superiore fu costituita in provincia suddivisa nei mandamenti di Crodo, S. Maria Maggiore, Bannio e Domodossola. Al mandamento di Domo furono aggiunte le
Quattro Terre (Masera, Trontano, Beura e Cardezza) e
Pallanzeno. Il Regio Editto del 28 settembre 1822 istituiva a Domodossola il tribunale prefetturale.
Le Regie Patenti del 10 ottobre 1836 vennero a sopprimere la provincia dell’Ossola che fu aggregata a quella
di Pallanza. Fu però ristabilita con il decreto del re Carlo Alberto (15 nov. 1844). Nel 1861 nasce la provincia
di Novara e l’Ossola si riduce a sottoprefettura che dura
fino al 1927. I privilegi ossolani restarono almeno formalmente in vigore fino al 1848, allorché con la proclamazione dello Statuto furono abolite non solo le Costituzioni del 1770, richiamate in vigore al ritorno in Piemonte di Vittorio Emanuele I, ma anche tutte le leggi
particolari concesse nel periodo anteriore. Essi caddero
uno dopo l’altro negli anni seguenti senza alcun compenso per gli Ossolani. I progetti per collegare la Lombardia ed il Piemonte con il Vallese ed i paesi transalpini nacquero abbastanza presto, cioè già nel 1856; tuttavia passeranno ancora cinquant’anni prima che divengano realtà con il grande traforo del Sempione.
Premeva intanto alla regione ossolana un rapido collegamento con il resto delle regioni subalpine per toglierla dall’isolamento. Anche le diligenze con i cavalli, tanto gloriose con l’apertura della strada napoleonica del
Sempione, erano ormai sorpassate. La nuova civiltà industriale era all’insegna del vapore e della locomotiva.
Nel 1857 il Parlamento Subalpino con legge del 12 giugno concesse alla società Lavallette la costruzione, senza concorso di spese da parte dello Stato, di una ferrovia da Arona a Domodossola che prevedeva poi il raccordo con le linee svizzere nel Vallese.
La società Lavallette costruì effettivamente da Domodossola fino ad Ornavasso un tratto di massicciata con
relative opere murarie, ponti ecc. per sistemare il binario della progettata linea: in tutto 14 km. A Villadossola
erano stati a questo scopo rinforzati gli argini dell’Ovesca e poste anche le teste del ponte della ferrovia. Ma
nel 1865 la società Lavallette fallì e la costruzione fu sospesa. Della massicciata se ne impadronirono i rovi.
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Il 10 febbraio 1877 il Municipio di Domodossola presentò un memoriale al Ministero dei Lavori Pubblici, a
seguito del quale il Governo tolse la concessione alla società fallita, avocando a sé l’impegno di portare avanti il progetto, inserendolo però nel nuovo disegno che
prevedeva il collegamento Domodossola-Gozzano per
Gravellona, Omegna ed il lago d’Orta. Tuttavia anche
la realizzazione di questo progetto andava molto a rilento e pareva che non dovesse mai tradursi in realtà. Il
29 luglio 1881 i comuni dell’Alta e Bassa Ossola inviano una «Petizione al Ministro dei Lavori Pubblici» per il
sollecito compimento della linea di accesso al Sempione, congiungente Gozzano con Domodossola. Ci si lamenta anzitutto che dal 1848 in poi siano stati ad uno
ad uno annullati quei privilegi ossolani che erano giustificati dalla sfortunata situazione geografica della regione. Mercé le enumerate esenzioni che aveva acquistate
a peso d’oro, l’Ossola fioriva per agiatezza dei suoi abitanti, i quali gradatamente vennero spogliati di tutti i benefici, assoggettati a tutte le tasse erariali senza il più lieve
compenso, ed oggi corrisponde allo Stato per imposte di diversa natura oltre un milione e mezzo di lire, che, pei sedici anni trascorsi, dal 1865 epoca in cui cessò l’ultima esenzione al corrente 1881, sono oltre 24 milioni di lire versate nelle casse erariali; ed è fuori di dubbio che conquistò
il diritto di reclamare la sua parte di concorso ai benefici
che lo Stato con larga mano sparge a migliorare le condizioni economiche delle popolazioni; ma non ostante questi suoi titoli più volte messi in evidenza a chi per lo passato resse il supremo potere della cosa pubblica, fu lasciata in
tale isolamento ed abbandono che ora le popolazioni devono in maggiori proporzioni emigrare e cercare all’esterno il
pane loro tolto dalle eccezionali gravezze e dalla decadenza del commercio un dì fiorentissimo e spostato dal ritrovato dei rapidi mezzi di comunicazione e di trasporto...
L’Eccellenza vostra rammenti quanto l’Ossola perdetta rassegnata per il benessere generale della nazione; rammenti
la necessità imperiosa che le industrie dell’Ossola provano
di poter usufruire dei mezzi economici di trasporto mercé
i quali potranno ampliarsi, e raddoppiare la loro produzione con beneficio generale, mentre tantissime altre troveranno potente convenienza d’impiantarsi usufruendo della forza motrice che scorre potente ed inoperosa nei fiumi
confluenti del Toce.
Piazza del Mercato a Domodossola (Samuel Prout, 1839).
Il tratto di ferrovia che collega Novara con Gozzano era
il più facile e fu completato nel 1864. Per raggiungere
Orta furono necessari altri 20 anni. Il 30 aprile 1887 fu
aperto il tratto Orta-Gravellona.
A Domodossola la ferrovia arrivò solo l’8 settembre
1888 passando per Ornavasso, Cuzzago, Premosello,
Vogogna, Piedimuiera, Pallanzeno e Villadossola. Questa ferrovia fu il primo asse vitale che diede impulso e
vigore all’economia ed alle molteplici attività industriali
e commerciali dell’Ossola. Villa ne ebbe grandi vantaggi; alla fine del secolo ferveva l’industria siderurgica e ci
si avviava allo sfruttamento della nuova fonte di energia
che in Ossola sarà tanto importante. È infatti del 1898
l’entrata in servizio della prima centrale elettrica dell’Ossola che la ditta Pietro Maria Ceretti costruì in valle Antrona, alla quale fecero seguito impianti sempre
più grandiosi, talmente che nel secolo seguente l’Ossola poté fornire una enorme quantità di energia elettrica
non solo alle proprie industrie, ma anche a quelle della
pianura lombarda.
Tempi moderni
All’inizio del secolo XX l’Ossola è tutta un cantiere operoso e risonante di rumori e di insolite favelle.
Si lavorava alla costruzione della linea ferroviaria Domodossola-Arona ed al tratto Domodossola-Iselle. Si
sta scavando la galleria del Sempione.
È questo un capitolo di storia ossolana ed internazionale che merita una trattazione a parte per la sua importanza e per le enormi conseguenze di cui è stata matrice. Ci limitiamo ad accennarne appena, rimandando a
pubblicazioni numerose ed esaurienti riguardanti sia il
lato tecnico che storico della grande impresa.
Se ne parlava già da mezzo secolo. Molti i progetti, gli
studi preliminari, gli approcci ed i trattati fra gli Stati interessati.
Giunse anche, finalmente, il tempo della realizzazione.
Il 1° agosto 1898 a Briga sul versante svizzero si affronta la dura roccia alpina e si dà inizio alla titanica impresa. È una grande ed ordinata battaglia guidata da ingegneri e tecnici e combattuta da schiere di operai che
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conquistavano il cuore della montagna a colpi di mina.
Il 16 agosto si sferra il primo attacco anche sul versante
italiano a Iselle. Il lavoro è assunto dall’Impresa BrandBrandau che impiega parecchie migliaia di operai, per
la maggior parte italiani, e dispone di nuove e potenti
perforatrici idrauliche. Ogni chilometro di avanzamento è una vittoria della scienza, della tecnica e della civiltà, ma è largamente pagata dalle fatiche degli uomini e
dalle loro stesse vite.
Il 24 febbraio 1905, dopo anni di lavoro ostinato e dispendioso, le due gallerie di avanzamento si abboccano
nel cuore della montagna ed il 2 aprile 1905 due convogli imbandierati inaugurano il percorso incontrandosi festosamente a metà della galleria, dove mons. Abbet
vescovo di Sion, benedice il traforo. La galleria misura
19.803,1 metri. Il 19 maggio 1906 il re Vittorio Emanuele III venne in visita nell’Ossola con i rappresentanti del governo e, unitamente al Presidente della Confederazione Elvetica, inaugurò il traforo del Sempione.
Anche le linee di accesso erano state completate. Il 15
gennaio 1905 era stata ufficialmente aperta la linea Domodossola-Iselle. Attraverso l’Ossola cominciava così a
scorrere una delle più importanti correnti del traffico
internazionale europeo.
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Per la realizzazione del traforo del Sempione vennero in
Ossola molti operai da altre regioni italiane; alcuni di
essi, a lavoro finito, fissarono in questa regione la loro
residenza, inserendosi come elementi attivi nel contesto
ossolano. In occasione dei lavori del traforo del Sempione sorsero nuove industrie, mentre altre svilupparono la
loro attività, portandosi ad una efficienza competitiva.
Con l’apertura della linea del Sempione, l’Ossola entrò
vivacemente nella storia economica, sociale e politica
d’Italia. Crebbero le industrie, vennero sfruttate le sorgenti di energia idraulica per la produzione di elettricità, si avviò un processo di industrializzazione che richiamò lavoratori da ogni parte d’Italia, ma specialmente
veneti, romagnoli e calabresi. Anche l’Ossola subì tuttavia i sacrifici della grande guerra mondiale (1915-1918)
con un forte contributo di vite umane e visse la crisi
post bellica che condusse all’avvento del fascismo e della successiva guerra disastrosa a fianco della Germania
(1940-1945). Anche nell’Ossola ci furono movimenti di liberazione in opposizione alle milizie fasciste e tedesche che condussero alla effimera «repubblica» dell’Ossola; quindi la liberazione dell’Italia per opera degli
Americani e dei loro alleati, ci portò alle soglie dei tempi più recenti.