Dalla Preistoria al traforo del Sempione Tullio Bertamini II breve schizzo storico qui proposto vuole offrire solo qualche indicazione cronologica e qualche riferimento più specificatamente ossolano, quasi un disegno in rilievo, sulla storia delle regioni più vicine e più vaste come la Lombardia, il Piemonte e l’Italia settentrionale, storia che dobbiamo in gran parte supporre a tutti nota o comunque facilmente accessibile. Saranno anche trascurati molti fatti di interesse troppo locale, puntando invece su quelli che coinvolgono l’intiera regione ossolana. Dalla preistoria alla fine dell’Impero Romano d’Occidente (sec. V) L’archeologia ci dice che l’Ossola fu abitata dagli uomini fin da epoca immemorabile. I ritrovamenti di utensili, armi e suppellettili di pietra, di bronzo, di ferro e di ceramica ci informano che insediamenti umani dovettero essere già presenti almeno nel Neolitico e successivamente nell’età del bronzo e sempre più intensivamente nell’età del ferro, cioè almeno dal terzo millennio prima di Cristo. Cacciatori e raccoglitori di frutti prima e, poi, pastori, agricoltori e ricercatori di minerali, contribuirono a conoscere la regione, dissodarne i campi ed i prati e bonificare le zone di pascolo oltre il limite della vegetazione arborea. Furono naturalmente scelti per primi i luoghi più sicuri ed a solatio sui pendii delle valli, ricchi di terreno fertile, prossimi alle sorgenti e sicuri dalle fiere e dagli altri nemici. Gli storiografi che accennano all’Ossola sono molto tardivi. Il primo che ce ne dà una indicazione è il geografo Tolomeo (II sec. d.C.) il quale ricorda confusamente una Oscella Lepontiorum, cioè una regione abitata da un popolo chiamato dei Leponzi e, probabilmente, la sua capitale (Domodossola). I Leponzi abitavano tutta l’Ossola e le regioni vicine del Canton Ticino ed erano affratellati con un altro gruppo detto più propriamente Uberi che abitavano nell’altro versante delle Alpi oltre il Gottardo. Difficile stabilire quale fosse l’origine dei Leponzi. Alla loro formazione probabilmente contribuirono sia i discendenti dei popoli che nel Neolitico si erano insediati in queste regioni e successivamente altri provenienti dalla pianura padana (Liguri) e dalle regioni transalpine (Celti). Pare che un profondo amalgama di popoli sia avvenuto in questa regione nel VI secolo avanti Cristo quando i Galli calarono in Italia e si scontrarono con gli Etruschi e poi con i Romani. I Leponzi ebbero certamente una propria cultura ed un proprio linguaggio, ma subirono l’influenza degli Etruschi loro confinanti a sud, da cui ebbero l’alfabeto. I pochi documenti scritti in lingua lepontica (non ancora perfettamente decifrati) sono stati formulati con quell’alfabeto. Solo dopo la conquista romana adotteranno l’alfabeto latino. I ritrovamenti tombali ci informano che i Leponzi erano soprattutto agricoltori e pastori, ma capaci anche di fondere il bronzo e lavorare i metalli. Armi ed arnesi di lavoro ci parlano di un popolo forte e tenace nella coltivazione dei campi e nella difesa della propria libertà. Furono infatti fieri, come tutti i popoli alpini, della loro indipendenza e perciò si opposero anche ai Romani che, dopo aver superato gli Etruschi, si affacciavano alla pianura padana. Perciò dopo la prima guerra punica ci fu uno scontro durissimo fra i Romani ed i popoli della Gallia Cisalpina, Leponzi compresi. I Romani, vittoriosi, con la disfatta degli Insubri e la conquista di Milano loro capitale (222 a.C.), imposero le colonie militari di Cremona e Piacenza. Quando poi Annibale attraversò le Alpi (218 a.C.), i Leponzi si unirono a lui e parteciparono alla battaglia del Ticino che, vinta da Annibale, costrinse i Romani a ripassare il Po. Ma dopo la battaglia di Zama i Romani ritornarono ad occupare la pianura padana, spingendosi probabilmen- 17 te fino al lago Maggiore ed al fiume Sesia (187 a.C.). Negli anni seguenti le relazioni fra i Romani ed i Leponzi migliorarono. I popoli alpini si avvantaggiarono soprattutto dai commerci che avvenivano attraverso le Alpi dei cui passi essi erano i padroni. Ne è segno anche in Ossola la frequente monetazione romana repubblicana. Molti prodotti italici cominciarono ad apparire anche nell’Ossola, come attestano i ritrovamenti tombali di Ornavasso, Gravellona ecc. Ma le Alpi, dopo la spericolata traversata di Annibale, non erano più un baluardo insuperabile alle orde barbariche che cercavano in Italia migliori sedi. I Romani, già padroni della Provenza e del Norico, vigilavano affinché questo non avvenisse. Ma i Cimbri ed i Teutoni, popoli provenienti dal Nord, dopo aver chiesto invano a Roma di entrare in Italia ed avere scorazzato per mezza Europa, ed aver vinto anche alcuni eserciti romani, ritentarono l’impresa. Essi trovarono in Provenza un potente esercito romano comandato da Mario. Allora si divisero in due corpi: i Teutoni cercarono un passaggio nelle Alpi Marittime ma furono completamente distrutti da Caio Mario alle Aquae Sextiae, i Cimbri risalirono il Rodano affrontando probabilmente i passi alpini ossolani. Frattanto un esercito romano al comando di Lutazio Catulo si era attestato nel versante opposto costruendo un doppio campo fortificato congiunto da un ponte a cavallo del fiume Toce, che lo storico Plutarco chiama Atosis, probabilmente proprio fuori di Domodossola nel luogo che prese il nome di Castellazzo. Ma i Cimbri, costruita una grossa diga alle forre di Pontemalio, produssero una piena artificiale che mise in gran pericolo il ponte romano e tutto il sistema difensivo. Il console Lutazio Catulo credette allora opportuno mettersi in testa ai suoi soldati in fuga e riparare nella pianura padana. Poco dopo però, ai Campi Raudii presso Vercelli, le forze romane di Caio Mario distrussero completamente le orde dei Cimbri (101 a.C.). Le relazioni fra i Romani ed i Leponzi si guastarono alla fine del I secolo a.C. quando, pare, le comunicazioni fra i due versanti alpini divennero insicure a causa dei continui ladroneggi. Roma intraprese una guerra in piena regola e tutti i popoli alpini furono assoggettati al suo imperio (14 a.C.). Questo successo fu esaltato con un monumento a La Turbie (in Francia) su cui una lun18 ga iscrizione, riportataci anche da Plinio il Vecchio, ricorda tutti i popoli alpini sottomessi e pacificati; fra essi anche i Leponzi. La pace augustea che ne seguì ebbe felici conseguenze anche nell’Ossola, dove aumentò il benessere economico e prese avvio la cultura. Oscella fu probabilmente elevata al grado di municipio e, secondo il De Vit, fu sede del procuratore romano preposto alla provincia delle Alpi Atrezziane, provincia che durò fino all’epoca dell’imperatore Diocleziano (284-305) che l’ascrisse definitivamente all’Italia. Tracce di questo benessere si riscontrano abbondantemente nei reperti tombali. Furono anche potenziate le vie di comunicazione, in cui i Romani erano maestri. Oscella era collegata non solo con Novara e Milano, ma anche con Seduno (Sion) e Octoduro lungo quella che poi fu l’asse sempioniana, ma che in quell’epoca utilizzava probabilmente con più frequenza i passi della valle Antigorio, della val Bognanco e della valle Antrona. Un lungo tratto di strada romana esiste ancora sulla sponda sinistra del Toce, da Cosasca a Mergozzo, ricordata anche dalla famosa iscrizione su roccia di Vogogna che la fa risalire all’intervento di un procuratore delle Alpi Atrezziane al tempo di Settimio Severo (196 d.C.). La romanizzazione si riflette puntualmente anche nei nomi di persona e nei cognomi, alcuni dei quali come quello attestatoci dalla ricca tomba di Claro Fuenno a Domodossola sono in parte romani e in parte ancora leponzi. Analogamente avviene per la religione. Assieme al culto tradizionale delle divinità lepontiche, come le Matrone, compare quello delle divinità importate, come Silvano, Giove e Iside (ara trovata a Candoglia). Un tempietto scoperto a Roldo di Montecrestese e risalente ai primi anni dell’era moderna è tutto ciò che ci resta degli edifici sacri di quel tempo. Ma nel IV secolo la religione pagana subisce una crisi mortale con l’avvento del Cristianesimo che lentamente, ma inesorabilmente, sostituisce l’antica religione pagana nelle città e poi anche nelle province più lontane dell’Impero. Con Costantino ebbe il diritto all’esistenza e con Teodosio il Cristianesimo divenne religione di Stato (385). In Ossola il Cristianesimo si affermò abbastanza presto, utilizzando anche gli edifici religiosi pagani esistenti e riconvertendoli al nuovo culto. Grande fu in questo tem- po l’opera di evangelizzazione guidata dal Vescovo Ambrogio di Milano che spedì missionari e vescovi in tutta la Gallia. Forse anche Oscella ebbe inizialmente il suo vescovo, ma certamente ebbe un presbiterio o gruppo di sacerdoti che cominciarono a interessarsi a questa regione. Il documento più antico che ci parla della presenza del Cristianesimo in Ossola è una lapide mortuaria rinvenuta sul colle di Mattarella, dove probabilmente una chiesa dedicata alla B.V. Maria ricalca un tempio dedicato alle Matrone, e che risale all’inizio del VI secolo. Ma anche sul Montorfano di Mergozzo, all’interno della chiesa di S. Giovanni, è stato ritrovato un fonte battesimale che può risalire alla stessa epoca. Le vicende dei secoli seguenti nell’Ossola si possono riassumere nella situazione generale creatasi nell’Italia settentrionale e specialmente a Novara e Milano fino alla caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.). Dall’età barbarica al Mille L’indebolimento dell’Impero romano permise a molti popoli barbari di superare i confini e penetrare in un territorio coltivato e ricco di prede. Cedono le difese della Germania e della Pannonia permettendo ai Goti di Alarico di raggiungere e saccheggiare Roma (410). Nel contempo (443) i Burgundi prendono stabile dimora lungo la Soana ed il Rodano a ridosso dell’arco alpino ossolano. È poi la volta degli Ostrogoti di Teodorico il quale vince Odoacre che era stato proclamato re (476) da truppe mercenarie germaniche al servizio dell’Impero, e fa di Ravenna la sua capitale. La guerra degli Ostrogoti sotto la guida di Teodorico, iniziata nel 493, coinvolge anche l’Italia occidentale e quindi l’Ossola che fu sottoposta alle scorrerie dei Burgundi, chiamati forse da Bisanzio in aiuto di Odoacre. Le scorrerie dei Burgundi causarono la distruzione ed il saccheggio di molte città e paesi, dai quali furono portati via e condotti in schiavitù molti abitanti. Una iscrizione su una roccia, letta dallo storico ossolano Giovanni Capis, in località Mizzoccola presso Cosasca, accennerebbe al passaggio per l’Ossola di un corpo di spedizione di Burgundi al comando del loro re Gundobaldo. Cominciò dunque in quell’epoca il decadimento di Oscella che vide distrutti i suoi palazzi e deserte le sue case dalle quali furono dedotti schiavi gli abitanti. I municipi che subirono maggiori danni furono Milano, Novara e Vercelli. Ennodio, scrittore di quell’epoca, ci dice però che i vescovi cominciarono a esercitare una grande influenza anche nel mondo civile, facendo valere il prestigio del loro potere religioso al servizio dei popoli. S. Lorenzo vescovo di Milano, Epifanio vescovo di Pavia, si recarono infatti alla corte del re Gundobaldo ottenendo da lui e dal fratello Godiscilo che risiedeva a Ginevra, la liberazione dei prigionieri che pensiamo siano ritornati attraverso i passi alpini ossolani. Il regno di Teodorico (493-526) fu di relativa stabilità e prosperità in Italia, sebbene le popolazioni rurali fossero state ridotte ad un forte impoverimento, dovuto ad una redistribuzione dei beni ed a tasse in favore dei barbari occupanti. La successiva guerra, iniziata nel 535 e protrattasi per 18 anni, che permise ai generali bizantini Belisario e Narsete di cacciare i Goti e restaurare il dominio dell’Impero non fece che aumentare le distruzioni ed i disagi dei popoli. Fu probabilmente sotto il dominio di Teodorico o, al più tardi, sotto quello di Narsete che non solo fu fortificato ulteriormente il Castellazzo di Oscella (dove un tempo furono le fortificazioni romane) contro i Burgundi, ma fu anche costruito ex novo il potente castello di Mattarella, dove tuttavia si hanno tracce di costruzioni più antiche, di epoca romana e tracce di insediamenti preistorici. Ma il grande colpo che ridusse l’Italia settentrionale allo stremo e la imbarbarì per parecchi secoli fu quello dovuto all’invasione dei Longobardi sotto la guida di Alboino, penetrati nel Friuli, e che successivamente conquistarono Milano e Pavia nel 572, dove posero la loro capitale. La prima parte del dominio longobardo fu durissima, segnata da violenze, espropri, saccheggi, incendi, spogliazioni di ogni genere, specialmente del clero e delle chiese, contro le quali i Longobardi, ariani, si accanirono particolarmente. Ciò fu causa di un rapido e drastico regresso della civiltà. La popolazione, già decimata dalla fame e dalla peste, si ridusse notevolmente. Le lettere e le arti decaddero quasi completamente. I Longobardi pretendevano di vivere di razzia prelevando i beni prodotti dai popoli soggetti, ma, condotti a mi19 glior consiglio dagli insuccessi militari, dovettero anch’essi adattarsi al lavoro e divenire agricoltori come i popoli soggetti. Dopo un periodo di anarchia, sotto re Autari (584-590) che sposò la cattolica Teodolinda, figlia del duca di Baviera, le cose mutarono. Con il successore Agilulfo, secondo sposo di Teodolinda, e con il concorso del papa S. Gregorio Magno, inizia la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, il che favorisce l’amalgama con i popoli soggetti. Tuttavia mentre questi mantengono la legge romana, i Longobardi con l’Editto di Rotari (636-652) codificano la loro tradizione vivendo con leggi proprie. Il regno longobardo è in continua espansione nel secolo VII con la creazione di nuovi ducati, ma presenta anche forti sintomi di debolezza dovuti alla disunione dei duchi. L’Ossola è inclusa nel ducato di S. Giulio d’Orta, sulla cui omonima isola probabilmente il duca si era costruito per maggior sicurezza un castello. Oscella perde le caratteristiche di capitale dell’Ossola perché la sede del potere civile e militare longobardo è nel castello di Mattarella da cui dipendeva il territorio sotto forma, probabilmente, di giudicaria, retta da uno sculdascio. Quando, sotto il re Agilulfo irrompono i Franchi dai passi alpini ossolani e ticinesi il duca Mainulfo di S. Giulio d’Orta tradisce il suo re e lascia libero passo ai Franchi. Ma, cacciati questi, Agilulfo si vendica facendo tagliare la testa al duca fellone e riducendo sotto il suo diretto dominio il ducato. L’Ossola quindi dipenderà direttamente dalla Corte di Pavia. In questo tempo grandi territori sono concessi ai milites ed alle fare arimanniche longobarde nelle Alpi che essi dovevano difendere dalle invasioni nemiche. Gli uomini liberi sono ancora numerosi, ma molti sono anche i servi e gli aldioni semiliberi e molto sviluppata è la servitù della gleba in una economia che è solo agricolo-pastorale. Questa situazione non cambia neppure dopo che Carlo Magno, con la vittoria sull’ultimo re longobardo Desiderio (774), instaura il dominio franco in Italia. L’Ossola diventa una contea dipendente dal regno italico; il suo centro amministrativo e militare è sempre il castello di Mattarella (Corte di Mattarella). Ma con la venuta dei Franchi continua quel processo di feudalizzazione che sottrae praticamente al diretto dominio del re alcuni territori che vengono dati in feudo a signori laici 20 ed ecclesiastici per loro particolari benemerenze, i quali vi esercitano il dominio teoricamente alle dipendenze del re a cui giurano fedeltà, ma di fatto valendosene con molta libertà. Vassalli maggiori e minori si legano in una instricabile società che è spesso fortemente suddivisa dagli interessi famigliari ed individuali a spese del popolo minuto, dei servi della gleba e coloni costretti ad un duro lavoro nei campi e nei boschi ed alla costruzione dei numerosi castelli che sorgono come funghi un po’ dappertutto. A questo processo di feudalizzazione è soggetta anche l’Ossola, dove alcuni signori hanno vasti territori e partecipa anche il vescovo di Novara che costruisce a Oscella, presso la chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio il suo castello (castrum novum, ricordato nel 1001). Ma il dominio del vescovo si estende soprattutto sulla città di Novara, attorno al lago d’Orta ed in moltissime altre località, dove le chiese possiedono beni immobili. L’Ossola intanto è governata da un conte palatino, ma il territorio si è andato restringendo a causa della crescita dei feudi donati dal re ai signori, tanto che viene definita comitatulo quella parte che ancora dipende dalla corte di Mattarella, dopo le riduzioni subite a causa della feudalizzazione. Ma in Ossola hanno i loro beni monasteri come quello di S. Pietro in Ciel d’Oro a Pavia, fondato dal re longobardo Liutprando, e chiese anche di diocesi diverse da quella di Novara. I vescovi di Novara continuando con qualche fortuna l’opera di accrescimento del dominio temporale della Chiesa iniziatosi con la immunità concessa da Ludovico il Pio (814-840) e progredito con le donazioni e conferme di Lotario I, di Carlomanno e di Berengario I (901), si trovarono tuttavia a dover scegliere fra i vari pretendenti alla corona d’Italia ed a quella imperiale. Così Berengario II sottrasse alla Chiesa novarese la Riviera di S. Giulio e perseguitò il vescovo che non appoggiava la sua candidatura alla corona imperiale. Ma Ottone I di Germania, sconfitto Berengario, restituì al vescovo di Novara (962) la Riviera, l’isola di S. Giulio e la giurisdizione su Novara e dintorni. Da questo momento i vescovi di Novara appoggeranno pressoché costantemente i re e gli imperatori di Germania, i quali, per questa fedeltà, saranno generosi di riconoscimenti e di nuove donazioni. L’occasione più propizia fu colta nella lotta che op- pose Arduino marchese d’Ivrea, pretendente alla corona d’Italia, ed il re germanico Enrico II. Il vescovo Pietro di Novara, schieratosi al momento opportuno con Enrico II, fu perseguitato da Arduino, per cui dovette fuggire e subire notevoli danni nei suoi possedimenti. Sconfitto Arduino, il vescovo Pietro, recatosi alla corte dell’imperatore Enrico, ebbe in dono, per la sua fedeltà e in risarcimento dei danni subiti, il comitatulo ossolano cioè la pars publica dell’antica contea dipendente dal castello di Mattarella. Il solenne diploma concesso alla Chiesa Novarese nel 1014 segna dunque l’inizio del dominio feudale della medesima nell’Ossola, dominio che durerà circa tre secoli. Cronache dei secoli XI e XII La società ed il sistema politico feudale sono al massimo sviluppo nel secolo XI, ma contemporaneamente si intravvedono i segni di una grave crisi. Il tentativo da parte degli imperatori di riaffermare il proprio potere su una società disgregata e pullulante di mille contraddizioni politiche cozza con quello dei signori laici ed ecclesiastici. L’imperatore poi ha uno scontro diretto con la Chiesa a causa delle investiture ecclesiastiche collegate con i feudi da esse dipendenti. Nella lotta che ebbe per protagonisti il papa Gregorio VII ed il re Enrico IV i vescovi di Novara si mantennero dalla parte dell’imperatore e molti di essi ricevettero da lui l’investitura senza essere riconosciuti dal Papa e quindi sono spesso ricordati come «invasori della cattedra di S. Gaudenzio». Grande era anche la decadenza dei costumi del popolo e del clero, dovuta al fatto che gli ecclesiastici erano più impegnati negli affari politici ed economici che non nel ministero pastorale. Il clero era poi spesso viziato dalla eresia dei Nicolaiti per cui, contravvenendo alla disciplina della Chiesa cattolica latina, molti preti prendevano moglie. Anche su questo punto dobbiamo notare che i vescovi di Novara sono fra quelli che, come il vescovo di Vercelli e l’arcivescovo di Milano, si oppongono alla riforma del clero, ostacolando quel movimento popolare detto dei Patàri, sorto a Milano, che riuniva tutti gli uomini desiderosi di eliminare tale piaga. In questo tempo subisce il martirio il diacono Arialdo di Milano, capo della Patarìa, che viene ucciso nell’isola Madre del lago Mag- giore da due preti nicolaitici su ordine di Oliva, nipote dell’arcivescovo Guido di Velate. Il mondo cristiano è frattanto sollecitato a muoversi per opporsi all’avanzata dell’Islamismo divenuto padrone della Palestina e pronto ad estendere il suo dominio in Africa ed in Europa. Dopo vari tentativi andati a vuoto, finalmente una Crociata organizzata dai principi cristiani riesce a riconquistare Gerusalemme e la Palestina, dando origine ad un regno cristiano (1099), il cui primo re fu il glorioso Goffredo di Buglione. Tutti questi eventi produssero effetti sociali importanti. Il popolo cominciò a partecipare attivamente alle vicende politiche e religiose, al movimento della Patarìa ed alle Crociate, organizzandosi in varie corporazioni nelle città e liberandosi dalla servitù della gleba nelle campagne. A Milano nasce il Comune con i suoi consoli e magistrature nuove. La nobiltà è costretta a inurbarsi e riconoscere l’autorità del Comune. Il movimento comunale si estenderà lentamente alle campagne fino a coinvolgere anche i centri più piccoli. Frattanto in Ossola e nel Novarese i signori laici, già aderenti a re Arduino, cercano di riprendersi quei beni che gli imperatori Enrico II e Corrado II avevano assegnato alla Chiesa novarese. I signori di Pombia, poi denominati Conti di Biandrate, i Conti di Castello, i conti di Crusinallo estendono i loro possessi nel Novarese, nel Vercellese, attorno al lago Maggiore e nell’Ossola. I vescovi novaresi tengono a mala pena il castello e le terre dipendenti dalla Corte di Mattarella in Ossola, ma anche questo feudo viene qua e là occupato da quei signori. Fortunatamente dopo una serie troppo lunga di vescovi intrusi, risolta almeno in parte la questione delle investiture, sulla sede di S. Gaudenzio di Novara salgono vescovi legittimi, cominciando da Riccardo e seguito da Litifredo (1124-1151) con i quali si ha un deciso miglioramento religioso e civile. Le lotte precedenti in cui il clero fu parte attiva avevano infatti molto diminuito il fervore cristiano del popolo che i preti nicolaitici non avevano provveduto a istruire e guidare. Ecco perché, dopo le mirabili chiese con cui si chiude il secolo X, come S. Bartolomeo di Villa e S. Maria di Trontano, non sorgono nuovi edifici religiosi se non nel secolo XII come S. Martino di Masera, S. Maria Maggiore in val 21 Vigezzo, S. Maria di Montecrestese, S. Stefano di Crodo ecc. Il vescovo Litifredo ottenne dal papa Innocenzo II, nel 1133, una Bolla dalla quale sappiamo che in Ossola vi sono solo tre pievi o parrocchie: la pieve di Domodossola, la pieve di Vergonte e la pieve di Mergozzo. Da ognuna di queste pievi dipendevano le chiese sussidiarie costruite da tempo in tutte le valli. Con il vescovo Litifredo si avvia, crediamo, il processo di separazione delle varie parrocchie dalla pieve-madre che, secondo la necessità e le circostanze, condurrà alla situazione presente. Sono prime a separarsi le parrocchie vallive di val Vigezzo con S. Maria Maggiore, di val Antigorio con S. Stefano di Crodo, di val Divedro con S. Maria di Crevola, di valle Antrona con S. Bartolomeo di Villa, seguite da altre. Domodossola riprende intanto il suo ruolo di capitale dell’Ossola superiore, non solo per il mercato settimanale del sabato che vi si faceva da epoca immemorabile, ma soprattutto perché centro della vita religiosa della pieve. La sua chiesa pievana o Duomo sostituirà l’antico nome di Oscella e sarà Duomo di Oscella o Domodossola. All’inizio del secolo XII prende anche il nome di Borgo. Infatti numerosi signori vi hanno le loro abitazioni ed il vescovo pone alcuni funzionari e uffici nel suo palazzo in servizio della comunità. L’Ossola inferiore, parte della valle Vigezzo, della val Formazza, della val Divedro ed alcuni luoghi attorno a Domo, come Vagna, Montecrestese, Caddo e Masera sono di proprietà almeno parziale dei Conti di Castello, di Biandrate e di altri signori. Morto il vescovo Litifredo nel 1151 gli successe Guglielmo Tornielli. Nel 1154 scende in Italia l’imperatore Federico, duca di Svevia, detto il Barbarossa, allo scopo di sottomettere all’autorità imperiale quei comuni che, come Milano, si stavano apertamente emancipando. Il vescovo Tornielli, essendo l’imperatore a Casale, ottenne un diploma di conferma di tutti i beni e diritti feudali concessi dai re ed imperatori precedenti. In questo diploma datato 3 gennaio 1155 è esplicitamente ricordato il castello di Mattarella con tutte le sue pertinenze (castrum Mattarellae cum omnibus pertinentiis suis). Ma lo stesso imperatore aveva nel 1152 confermato i feudi dei conti di Biandrate fra cui il castello di Megolo con tutto il comitato dell’Ossola. Eviden22 temente non poteva essere intenzione dell’imperatore di dare lo stesso territorio in feudo a due enti diversi. Si deve quindi ammettere che, data la complessa situazione giurisdizionale del territorio, il comitato ossolano confermato ai conti di Biandrate fosse altra cosa dal comitatulo ossolano dipendente dalla Corte di Mattarella e dal vescovo. Il Comune di Novara, il suo vescovo ed i potenti signori di Biandrate e di Castello continuarono a mantenersi fedeli all’imperatore anche in occasione della sua seconda discesa in Italia nel 1158, e dopo la scomunica che contro i partigiani di Federico Barbarossa aveva lanciato il legato del papa Alessandro III nel 1160. Anzi i Novaresi, e con essi gli Ossolani, parteciparono alla presa di Milano ed alla sua distruzione nel 1162. Tornato in Italia il Barbarossa nel 1166 trovò però i popoli molto malcontenti del governo imperiale. Molte città si distaccano dall’imperatore e fanno lega con Milano. Anche il Comune di Novara ed il nuovo vescovo Guglielmo Falletto aderiscono il 15 marzo 1158 alla Lega. I Conti di Biandrate, i Conti di Castello ed altri signori si mantengono invece fedeli all’imperatore. Quando il Barbarossa seppe che Novaresi e Vercellesi avevano aderito alla Lega Lombarda fu fortemente irritato contro Vercelli e Novara, ma intanto le milizie di questi due comuni distruggevano il castello di Biandrate giurando poi di impedirne sempre la ricostruzione. La Lega si perfezionò e ingrandì negli anni seguenti con l’adesione di altri comuni come Pavia. Lo scontro fra le milizie della Lega Lombarda e quelle imperiali si ebbe nella memorabile giornata del 29 maggio 1176 a Legnano in cui il Barbarossa fu vinto ed a stento poté salvare la vita. Egli dovette poi concedere ai Comuni il privilegio di Costanza il 23 giugno 1183, con cui questi ebbero una certa autonomia. I Comuni avrebbero eletto liberamente i consoli ed altri magistrati e l’imperatore avrebbe dato ad essi l’investitura. Sulla falsariga dei comuni maggiori si organizzarono in seguito tutte le comunità, fatto che riscontriamo puntualmente anche in tutta l’Ossola. Cronache del secolo XIII II Comune di Novara nel secolo XIII è proteso a sotto- porre tutto il territorio della diocesi di Novara. È quindi naturale che in questo disegno dovessero essere eliminati tutti i signori feudali che possedevano beni in quel territorio, compreso il vescovo. I Novaresi tentano anzitutto di ridurre i Conti di Biandrate e di Castello a riconoscere l’autorità del Comune. Il 19 agosto 1218 Guido fu Raineri Conte di Biandrate fu anzi costretto a vendere al Comune di Novara tutti i suoi beni e castelli dell’Ossola e specialmente quello di Megolo e Medoletto, mantenendo la giurisdizione sui luoghi che però era esercitata in nome del Comune di Novara. Anche i Conti di Castello dovettero cedere le loro terre ed i castelli dell’Ossola e della valle Intrasca e sottoporsi al Comune di Novara. Ma i popoli soggetti non furono affatto contenti di questo cambio di autorità, né tanto meno il vescovo che vedeva lesi molti dei suoi diritti su terre di sua proprietà che venivano arbitrariamente sottoposte ai consoli del Comune di Novara. Anche con il vescovo la lotta si fece aspra e fu difficile al vescovo impedire che i podestà del Comune di Novara esercitassero la loro giurisdizione anche nelle valli ossolane dipendenti dalla Corte di Mattarella. La situazione era molto ingarbugliata giacché si ritrova che nella stessa comunità esistevano uomini che dipendevano dal vescovo ed altri che, essendo stati soggetti ai Conti di Biandrate o di Castello, dovevano sottoporsi alla giurisdizione del Comune di Novara. L’Ossola è come la pelle di un leopardo dove vescovo e comune hanno piccoli territori sparsi e disuniti fra loro. Dopo l’ultima guerra in cui i Conti di Biandrate e di Castello si appoggiarono ai Vercellesi per liberarsi dalle pretese del Comune di Novara, alla quale parteciparono anche gli Ossolani ad essi sottoposti, e che si concluse con la presa e distruzione di Pallanza da parte dei Novaresi nel 1223, tutta l’Ossola inferiore cadde nel dominio del Comune di Novara, il quale pose i suoi podestà nel borgo di Vergonte. In questo tempo i Novaresi costruirono anche il borgo di Intra ed elevarono Mergozzo al grado di borgo. Questi borghi tendono a chiudersi con una cinta muraria. Nel 1233 il Comune di Novara ed il vescovo Oldeberto eleggono dei rappresentanti per fare un accurato censimento degli uomini e dei beni appartenenti alle due giurisdizioni, fissando anche la rigorosa proibizione che uomini e beni passassero in alcun modo da una giurisdizione all’altra. Un secondo censimento fu necessario all’epoca del vescovo Sigebaldo fra il 1260 ed il 1267. Nell’Ossola Superiore intanto si verifica un fatto notevole. In occasione della discesa in Italia dell’imperatore Ottone IV, il nobile Guido de Rodis, padrone di molti possessi in val Antigorio e in val Formazza, ne ottiene l’investitura con atto solenne del 25 aprile 1210, costituendosi valvassore dell’Impero e quindi indipendente dalla Corte di Mattarella. In Formazza, a Salecchio, ad Agaro i discendenti di Guido de Rodis, con le varie denominazioni (de Baceno, de Cristo ecc.) svilupparono lo sfruttamento degli alpeggi con notevoli vantaggi economici. In questi luoghi essi avevano probabilmente alcuni servi della gleba a cui si aggiunsero con un contratto enfiteutico numerosi nuclei famigliari di origine walser provenienti dalla vicina Svizzera. Anche i possessi dei Conti di Castello e di Biandrate nelle parti più alte delle valli Anzasca (Macugnaga) e Divedro (Gondo, Sempione) furono sfruttati con questo sistema degli insediamenti walser. Un gruppo di essi anzi venne ad abitare anche ad Ornavasso ed a Migiandone invitati dai signori locali. Nacquero nell’Ossola, sulla falsariga di quello che avveniva a Novara ed a Milano, i partiti Guelfi e Ghibellini qui detti degli Spelorci e dei Ferrari rispettivamente. Queste fazioni si combatterono aspramente fino alla fine del secolo XVI. Il vescovo per mantenere il proprio potere era costretto ad appoggiarsi ai signori locali, i De Rodis, i Baceno, i Silva, i Campieno ecc. verso i quali fu generoso di elargizioni e favori, concedendo investiture di decime ecclesiastiche spettanti alla mensa episcopale. Ma tutte le vicende politiche che mutano governo a Milano ed a Novara si riflettono puntualmente anche nell’Ossola. Emergono a Milano le potenti famiglie dei Della Torre o Torriani e loro consorteria ed allora vediamo che membri di questa famiglia assumono la podesteria non solo del Comune di Novara, ma anche della Corte di Mattarella. La caduta dei Torriani ed il prevalere dei Visconti, per opera soprattutto del vescovo Ottone Visconti, costringe anche il vescovo di Novara a valersi di questi signori per mantenere il suo potere. Molto utile all’Ossola fu la permanenza sulla sede di S. 23 Gaudenzio del vescovo Papiniano della Rovere, dotato di eminenti qualità politiche ed ecclesiastiche. Egli diede coraggiosamente inizio ad una riforma civile e religiosa della diocesi e dei suoi domini temporali con un Sinodo (1298) di cui rimangono i canoni promulgati. Provvide anche a difendere il dominio episcopale impedendo trapassi di giurisdizione. Meritano anche un cenno alcuni avvenimenti dell’Ossola Inferiore. Il borgo di Pieve Vergonte subì una distruzione quasi completa per opera del torrente Marmazza. Fu quindi necessario costruire un altro borgo in vicinanza e prese il nome di Pietrasanta, dove risiedeva il Podestà dell’Ossola dipendente dal Comune di Novara. Ma anche questo borgo durò poco giacché subì ripetute devastazioni da parte del fiume Anza e nel 1328 fu necessario abbandonarlo. Prese allora il titolo e la funzione di borgo l’abitato di Vogogna. Cronache del secolo XIV Nella lotta fra i partiti guelfo e ghibellino anche l’Ossola ebbe la sua parte nel secolo XIV. Durante la vacanza della sede episcopale novarese il vescovo di Sion Bonifacio di Challant, ghibellino, scese in Ossola per il passo del Sempione nel 1301 e devastò il paese saccheggiando il borgo di Domodossola. Non era la prima volta che Quadro votivo. Domesi in processione contro le piene del Bogna (1690). 24 l’Ossola subiva dai vicini Vallesani questo trattamento poco amichevole. Ai borghigiani domesi parve necessario difendersi meglio cingendo l’abitato di una solida cerchia muraria. L’idea venne condivisa anche dal nuovo vescovo Bartolomeo Quirino (1302-1304) il quale, venuto a Domo, diede inizio al lavoro con la posa della prima pietra. Anche il successore Uguccione dei Borromei parve sulle prime propenso alla realizzazione di questa importante difesa, ma successivamente, indotto nel sospetto che con l’erezione delle mura i Domesi si sarebbero ribellati al vescovo conte per erigersi in comune autonomo, cercò di far fallire il progetto in parte già realizzato. Per tranquillizzare i Domesi fece un accordo con il vescovo di Sion (1306) che incontrò al Sempione e il 24 marzo 1307 ordinò esplicitamente la sospensione dei lavori. Dubitando poi della fedeltà degli Ossolani il 27 aprile seguente convocò nella chiesa plebana di Domo una Credenza Generale e tutti i rappresentanti delle comunità ossolane dipendenti dalla Corte di Mattarella gli giurarono fedeltà come signore temporale. Il sospetto del vescovo Uguccione era fondato. Il partito che anelava e tramava l’indipendenza organizzò una fiera opposizione al vescovo valendosi anche di uomini rissosi e violenti. Nell’estate del 1307, mentre il vescovo Uguccione dei Borromei era a Domodos- sola, un gruppo di armati guidato dal signor Guglielmo di Pallanzeno, detto il Petrazzano, sorprese in casa il vicario o giudice del castellano di Mattarella, assieme al notaio, il giurisperito Bernando de’ Marsili di Parma, Enrico di Olevelo ed il sergente Guglielmo di Cortona e li uccise. Assalì poi la casa del vescovo, cioè il palazzo episcopale, ed Uguccione fu costretto a fuggire nel vicino campanile della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, dove restò assediato per tre giorni senza che alcuno gli recasse aiuto. Nel contempo il Petrazzano riuscì anche con uno stratagemma a penetrare nel castello di Mattarella e saccheggiarlo. Liberato finalmente dalla sua incomoda abitazione, il vescovo Uguccione, il 21 luglio 1307, lanciò l’interdetto sul borgo di Domo e scomunicò i suoi assalitori, allontanandosi dall’Ossola per cinque anni. Contro i Domesi ribelli fu mandato anche un piccolo esercito comandato da Ottobono Visconti, ma l’esito fu negativo. Nel 1310 con la venuta a Novara dell’imperatore Enrico VII si ebbe una generale pacificazione dei partiti guelfi e ghibellini ed il vescovo Uguccione ottenne nell’aprile del 1311 un diploma di conferma di tutti i suoi diritti feudali. Nell’estate seguente un corpo militare di 400 uomini guidato da Pietro di Monteformoso, castellano di Mattarella, assalì Domodossola, ma i Domesi con l’aiuto del Petrazzano e della sua banda di facinorosi respinsero l’attacco. In questa piccola guerra soffrirono anche i paesi vicini che avevano accettato di legarsi ai Domesi ribelli; Villa fu saccheggiata e subì l’incendio di 150 case. Ma anche il castellano Pietro da Monteformoso fu respinto verso il Toce dove perdette ben 200 uomini. Nel 1312 Uguccione ritornò in Ossola. Gli animi erano evidentemente cambiati, giacché il 27 aprile, nel palazzo episcopale posto nel castello di Mattarella davanti a lui compare il Petrazzano che chiede perdono dei suoi misfatti. Il vescovo gli confiscò tutti i beni posti nel territorio della sua giurisdizione temporale e lo mandò a domicilio coatto a Porto Val Travaglia. Le relazioni con i Domesi migliorarono negli anni seguenti tanto che questi nell’autunno del 1314 si sottomisero al vescovo chiedendo di essere liberati dall’interdetto. Ma il Petrazzano che aveva frattanto ottenuto il permesso di mutare il domicilio coatto fissandolo a Trontano, riuniti nel 1315 i compagni della sua ban- da, si vendicò delle requisizioni fatte dal vescovo e saccheggiò molti dei beni episcopali specialmente a Villa. Anche i capi ribelli domesi ripresero le armi e la costruzione delle mura del borgo rimasta sospesa; perciò il vescovo il 24 marzo 1317 rinnovò il precetto di sospendere la costruzione. Ma i Domesi si appellarono all’arcivescovo di Milano come metropolita ottenendo una sentenza favorevole. Il vescovo Uguccione fu allora costretto ad appellarsi al Papa che in quell’epoca risiedeva ad Avignone. Il processo davanti agli uditori pontifici ebbe inizio il 28 ottobre 1318 e si concluse con un compromesso negli arbitri Tebaldo Brusati prevosto di Novara e Guglielmo Revelli decano di Burlazio della diocesi di Castro, uditore apostolico, il 27 agosto 1321. La sentenza, dell’11 dicembre successivo, riconobbe i diritti del vescovo e impose ai Domesi l’abbattimento delle mura, la multa di 1600 fiorini e la piena sottomissione al loro signore temporale. Ma Uguccione fu magnanimo con i Domesi, permettendo che le mura rimanessero e facendo piena pace con essi. Durante questo periodo di discordie molti furono tuttavia i dispetti, le violenze e i disordini che avvelenarono l’animo degli Ossolani. Nel 1331 divenne vescovo di Novara Giovanni Visconti, uomo potente ed astuto, il quale nell’anno seguente, con uno stratagemma rimasto famoso, si fece riconoscere signore generale di Novara. La strapotenza dei Visconti costrinse gli Ossolani alla calma. Dal 1342 al 1354 Giovanni Visconti tenne poi la sede arcivescovile di Milano, ma mantenne la signoria del Novarese. È questo il tempo in cui furono completate le difese di Vogogna con la costruzione del castello, della rocca e del Pretorio. Sulla sede di S. Gaudenzio fu posto invece Guglielmo Amidano il quale era uomo di molta religione e capacità di governo. Egli cercò di sopire le rivalità fra i partiti e le famiglie nobili ossolane. Ma le fazioni rispuntarono immediatamente con il successore Oldrado (1357-1388) di carattere completamente opposto. Spelorci e Ferrari si azzuffarono in continuità, favoriti dagli avvenimenti succedutisi nella seconda metà del secolo XIV. Con la morte dell’arcivescovo Giovanni Visconti di Milano (1354) i nipoti Barnabò e Galeazzo si divisero il vasto dominio. A Galeazzo toccò il Novarese e quindi anche l’Ossola Inferiore. Ma essendo sorta una lega 25 contro i Visconti, costituita dagli Estensi, dai Gonzaga e dal Marchese di Monferrato, il Novarese fu invaso e saccheggiato dalle milizie mercenarie al soldo della lega, mentre il marchese di Monferrato, per il quale parteggiava il partito ossolano degli Spelorci, occupava l’Ossola inferiore e Vogogna. Con la pace dell’8 giugno 1358 Galeazzo Visconti tornò in possesso del Novarese ed anche dell’Ossola inferiore, dopo un periodo nefasto di lotte e rapine fra i partiti opposti. Vista la assoluta impotenza del vescovo conte a tenere a freno i suoi sudditi, gli Ossolani della Corte di Mattarella pensarono di sottomettersi ai Visconti con alcune condizioni: che pagando 1000 fiorini annui fossero liberi da ogni altra tassazione e che fossero rimesse tutte le condanne per i delitti commessi nella precedente guerra, restituendo tuttavia ai castellani i loro stipendi e tutte le cose rubate. L’atto fu firmato il 26 agosto 1358. Pare che il vescovo Oldrado non abbia fatto alcuna opposizione a questo atto di dedizione degli Ossolani ai Visconti. Nel 1361 riprende la guerra fra i Visconti ed il marchese di Monferrato con tutte le conseguenze luttuose che accompagnano simili eventi. Ci furono distruzioni vastissime, una gravissima carestia e poi la peste, portata dalle famigerate milizie mercenarie inglesi. A Novara per la peste morirono due terzi della popolazione, 77000 persone a Milano ed un numero enorme nelle campagne e centri minori. Ad aggiungersi venne nel 1364 il flagello delle cavallette che in forma di grandi nubi di insetti scendevano sui campi, sui prati e sui boschi per divorare ogni cosa verde. Fu in questo tempo che, a seguito dei voti dei montanari furono costruite molte cappelle ed oratori dedicati a S. Bernardo di Aosta, protettore dalle infestazioni demoniache e tale pareva quella delle cavallette divoratrici. Intanto contro i Visconti si muove anche il papa Gregorio XI che contro di essi bandisce una crociata e li scomunica. Si costituisce contro i Visconti una nuova lega a cui partecipa anche il conte Amedeo VI di Savoia. Tutti i popoli sottomessi vengono dal Papa invitati a ribellarsi. Gli Ossolani che per due secoli erano stati governati dai vescovi di Novara avevano frattanto, nei pochi anni in cui erano sottoposti ai Visconti, provato la durezza del nuovo regime e quindi rinacque in essi il desiderio, appena sopito, dell’indipendenza. Per otte26 nerla essi avrebbero anche seguito l’invito del Papa alla ribellione ed a questo scopo inviarono ambasciatori segreti alla Corte di Avignone. Ma pare che il Papa non approvasse il progetto dell’indipendenza che avrebbe sottratto alla Chiesa novarese il feudo da essa posseduto. Il Papa spedì molte lettere ai personaggi più in vista dell’Ossola affinché la ribellione fosse realizzata al più presto. Al medesimo scopo inviò frate Valentino Moriggia, già guardiano del convento dei Frati Minori di Domo, per legare insieme i nobili e capi delle varie fazioni e spingerli alla rivolta armata. Capitano fu scelto il nobile Garbellino di Semonzio di Crevola, la cui famiglia prenderà successivamente il nome dei Dal Ponte, dopo che, distrutte le sue case nelle lotte di questi tempi, il figlio Lorenzo costruì il suo palazzo presso il ponte sulla Diveria a Crevola. Sollecitati dal Papa gli Ossolani di parte Spelorcia si ribellarono ai Visconti, occupando il borgo di Domo, il castello di Mattarella ed altri luoghi, ma la parte ferraria non si mosse e fece fiera opposizione. Anzi, una compagnia di milizie spelorcie che tentava di giungere a Vercelli per dare aiuto al nunzio papale nell’assedio di quella città, fu distrutta dalla parte ferraria presso Anzola nel 1374. Ma la parte spelorcia si rivalse saccheggiando ed occupando momentaneamente Vogogna. Vista la incapacità del vescovo Oldrado di attendere ai suoi obblighi e la sua completa sottomissione ai Visconti, il Papa lo sospese, mandando in Ossola come vicari due canonici di Sion ed un nuovo capitano nella persona di Merino de Ulmo, bergamasco, per nuove e più vaste operazioni militari. La lotta infatti era degenerata nel brigantaggio. Venuta finalmente la pace, firmata a Samoggia il 19 luglio 1375, il Novarese ritornò in mano di Galeazzo Visconti. Gli Ossolani, abbandonati a se stessi, continuarono la guerra in proprio con ogni sorta di violenza pubblica e privata. Alla fine ne furono stanchi e nauseati e non trovarono di meglio che ritornare a sottomettersi ai Visconti. Lo fecero comunque con quella dignità e saggezza che permise loro di sentirsi più liberi. L’atto di dedizione fu firmato nel refettorio dei Frati Minori di Domo il 19 marzo 1381 da rappresentanti di Gian Galeazzo Visconti, conte di Virtù, i signori Andrea dei Pepoli e Pietro di Muralto, ed i procuratori delle Comunità dell’Ossola superiore. La convenzione del 1381 dava agli Ossolani una certa autonomia amministrativa, li liberava mediante lo sborso annuo di 750 fiorini da ogni tassazione, permetteva ad essi il libero commercio delle granaglie ed altri beni di consumo sui mercati della Lombardia e del Novarese, otteneva la reintegrazione nei beni di quelli che avevano subito confische durante il periodo bellico. Il vescovo di Novara Oldrado ancora una volta non si oppose, e solo qualche tentativo fu fatto più tardi dai suoi successori per tornare in possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio. Analogamente, con atto dell’11 aprile 1381, anche l’Ossola inferiore di parte ferraria si accordò con Gian Galeazzo Visconti. I Visconti già nel 1379 erano venuti in possesso per compera della terra di Ornavasso che apparteneva ai Conti di Crusinallo ed era passata nel secolo XIII in mano dei Conti di Castello. Su questa terra avanzava pretese anche il vescovo di Sion per certi legami con la famiglia detentrice del feudo che aveva residenza anche nel Vallese. Così tutta l’Ossola, eccettuato il piccolo feudo dei De Rodis-Baceno di Formazza, Agaro e Salecchio, entrò nel dominio visconteo. Fu mantenuta in Ossola la divisione fra le due giurisdizioni con sedi rispettivamente a Vogogna ed a Domodossola, ognuna vivendo secondo le proprie leggi e statuti. In questo periodo però i Visconti giustamente promossero riforme statutarie al fine di uniformare le leggi su tutto il territorio e favorirne l’unità amministrativa e civile. Sotto Gian Galeazzo Visconti furono riformati gli antichi statuti della Corte di Mattarella e fatti molti altri. Prima di chiudere la cronaca del secolo XIV, ricordiamo che il vescovo Pietro Filargo, poi divenuto papa col nome di Alessandro V, rivendicò formalmente il possesso della Corte di Mattarella e del suo territorio con un diploma che egli ottenne dall’imperatore Venceslao, assieme al titolo di duca per Gian Galeazzo Visconti (1395) di cui era grande amico e favoreggiatore. Si presume però che a questo atto formale non seguisse alcun che. Probabilmente Gian Galeazzo Visconti provvide a tacitare il vescovo di Novara assegnando alla sua mensa alcune sicure entrate delle quali si riscontrano le tracce nei secoli seguenti, come i diritti sulle miniere di ferro, di laugera ed altri. Cronache del secolo XV Alla morte di Gian Galeazzo Visconti si creò nel ducato di Milano una situazione politica incerta e nell’Ossola le fazioni degli Spelorci e dei Ferrari ripresero a combattersi assoldando spesso anche bande di facinorosi. Dalla parte spelorcia è ricordata una vittoria riportata sulla parte avversa nel 1406 (21 marzo) che diede origine ad un voto a S. Benedetto. In questa incerta situazione politica il vescovo di Novara Capogallo si intromise per pacificare gli Ossolani. Nel 1404 ottenne dal duca di Milano a questo scopo la reintegrazione nel dominio temporale dell’Ossola superiore. Riuscì nel 1404 a mettere pace in valle Antigorio la quale però esigette il riconoscimento di una certa indipendenza ed una parziale separazione dalla Corte di Mattarella con l’erezione di una nuova vicaria che ebbe la sua sede a Crodo e che durerà fino al 1861. Il 10 luglio 1406 anche la valle Vigezzo elegge i suoi procuratori per una pacificazione seguita dal perdono generale dato dal vescovo Capogallo il 13 dicembre del medesimo anno. Si era nel contempo guastata anche la pace con gli Svizzeri confinanti. Nel 1407 la parte spelorcia si riappacificò anche con essi, cioè con i Vallesani ed il vescovo di Sion. Si trattò però di una pace puramente interlocutoria. I Cantoni svizzeri infatti premevano per accedere al versante sud delle Alpi, verso la Lombardia, che in quell’epoca era una delle regioni più ricche d’Europa. Esportatori di milizie mercenarie, gli Svizzeri, tenevano in gran conto ogni piccolo sgarbo per giustificare la loro presenza in Ossola. Prendendo dunque motivazione da alcuni sequestri di bestiame fatti dai Formazzini a danno dei Leventinesi, in quel tempo dominati dai Cantoni svizzeri di Uri e Unterwald, oltre 300 Svizzeri scesero in Ossola venendo dal Gottardo e dal Sempione, occuparono Domodossola esigendo dagli Ossolani il giuramento di fedeltà, del cui valore si può dubitare. Lasciato un presidio in Ossola se ne andarono. Ma poco dopo questo fu cacciato. Tornarono in maggior numero gli Svizzeri l’anno seguente, rioccupando Domo e spingendosi fino a Vogogna. Gli Ossolani chiesero segretamente aiuto al conte Amedeo VIII di Savoia che inviò attraverso il Sempione un robusto corpo di armati sotto la guida del capitano Pietro di Chivron, costringendo verso la fine di 27 maggio del 1411, gli Svizzeri a ritirarsi. Anche Amedeo VIII di Savoia ottenne il giuramento di fedeltà dagli Ossolani di parte spelorcia. Nel 1415 gli Svizzeri discesero nuovamente in Ossola sorprendendo le scarse milizie savoiarde poste alla difesa dell’Ossola. Occuparono Domodossola ed il castello di Mattarella e per tutelarsi ulteriormente inviarono numerose squadre di Ossolani a distruggerlo, lasciandovi un gran cumulo di rovine. Rinforzi mandati dal Duca di Savoia ottennero il ritiro degli Svizzeri dall’Ossola fino al febbraio del 1417, quando un numeroso gruppo di essi scese dal Gottardo lungo il lago Maggiore e risalì l’Ossola da Sud. Le milizie savoiarde furono imbottigliate in val Divedro e in gran parte massacrate. Con questa spedizione gli Svizzeri occuparono tutta la regione sulla sponda destra del Toce, da Villa in su fino a Pontemaglio e tutta la valle Antigorio e Formazza, ponendo numerosi presidi armati per circa cinque anni. Il vescovo di Novara tentò ancora una volta di recuperare il dominio temporale in Ossola promuovendo un processo contro gli Svizzeri occupanti davanti al Papa. Il processo fu fatto e concluso con la sentenza del 16 dicembre 1420 in cui essi vennero scomunicati e condannati, ma l’Ossola rimase nelle loro mani fino al 1422, quando milizie scelte ducali, al comando del famoso capitano Conte di Carmagnola, inflissero agli Svizzeri la tremenda sconfitta di Arbedo presso Bellinzona (30 giugno 1422), costringendoli allo sgombero di tutti i territori occupati. Tre anni dopo, nel 1425, gli Svizzeri approfittando del fatto che il duca di Milano Filippo Maria Visconti doveva tener testa ad una coalizione che comprendeva Venezia, Firenze ed il Duca di Savoia, ritentarono la conquista dell’Ossola con un piccolo esercito di 500 armati al comando di Peterman Risigh di Switt che scelse la via del Gottardo e del Gries, mentre forti gruppi di Vallesani penetravano attraverso i passi del Sempione, della val Bognanco ed Antrona. I capitani ducali viscontei dovettero ritirarsi nella bassa Ossola, dove si riorganizzarono e si raccolsero sotto il comando del capitano Piccinino, il quale era giunto in Ossola con un buon gruppo di milizie ducali. Gli Svizzeri, vista la situazione, si ritirarono non solo dall’Ossola, ma anche dalla valle Leventina e da Bellinzona. Alcuni storici svizzeri affermano che tale ritirata non fu 28 dovuta al timore delle armi viscontee, quanto piuttosto al denaro sborsato dagli emissari ducali ai capitani svizzeri (1426). Le continue invasioni svizzere favorirono nel secolo XV in Ossola non solo le lotte fra i partiti dei Ferrari, generalmente fedeli al Duca di Milano, e degli Spelorci, più propensi all’indipendenza, ma anche la nascita di un consistente partito filosvizzero, rendendo la difesa dell’Ossola ancora più problematica. La pressione svizzera infatti continuò, favorita anche dalla litigiosità degli Ossolani sugli alpeggi confinanti, da ruberie di bestiame, da angherie, incendi e omicidi in val Antrona, in val Bognanco, in val Divedro ed in valle Antigorio. Tuttavia il 1° aprile 1448 fu firmato un compromesso fra il Vallese e l’Ossola superiore allo scopo di evitare il peggioramento della situazione ed un’altra guerra. Morto il duca Filippo Maria Visconti (1447), subentrò per poco tempo la così detta Repubblica ambrosiana, ma il Ducato di Milano cadde quasi subito nelle mani del capitano Francesco Sforza dal quale gli Ossolani ottennero il 26 marzo 1450 la conferma dei loro privilegi. Con Francesco Sforza si apre un periodo di relativa tranquillità in Ossola dove vengono anche rinnovati tutti gli Statuti delle Comunità e si tenta di dare più unità e conformità ai medesimi. La necessità tuttavia di ottenere fondi sufficienti per le continue guerre in atto costringe i Duchi di Milano a cedere in feudo poco alla volta gran parte dell’Ossola, nonostante le rimostranze degli Ossolani che vantavano il privilegio di essere completamente esenti da queste infeudazioni. Già il duca Filippo Maria Visconti aveva dato Ornavasso in feudo ai fratelli Ermes e Lancillotto Visconti, feudo che fu eretto in baronia nel 1413. Era un modo di gratificare personaggi meritevoli per il Ducato. In valle Vigezzo già alla fine del 1300 la giustizia era amministrata da un vicario sia per la parte dipendente dalla Corte di Mattarella che per quella dipendente da Vogogna; ma nel 1430 il distacco è definitivo. Nel 1431 Mergozzo fu unito a Vogogna. Nel 1446 il duca Filippo Maria Visconti diede in feudo a Vitaliano Borromeo tutta l’Ossola inferiore da Mergozzo a Masera, da Migiandone a Pallanzeno e tutta la valle Anzasca, imponendo il giuramento di fedeltà al feudatario. Si verificarono forti resistenze all’infeudazione, specie in valle Anzasca, resistenze che vennero superate con accordi stabiliti il 3 agosto 1449 e con l’approvazione degli Statuti presentati dalle comunità soggette. Vogogna fu la capitale del feudo dei Borromei. Poco dopo, 5 maggio 1450, anche l’intera valle Vigezzo venne da Francesco Sforza data in feudo al conte Vitaliano Borromeo. Una costituzione particolare fu scelta per le comunità di Trontano, Masera, Beura e Cardezza che in seno al dominio feudale dei Borromeo ebbero una propria vicaria che fu detta delle Quattro Terre. Il dominio feudale dei Borromei estendentesi anche nelle zone limitrofe della valle Cannobina e sul lago Maggiore cesserà alla fine del secolo XVIII con l’abolizione generale dei feudi seguita alla occupazione francese dell’Italia. Il 1487 è un anno memorabile per l’Ossola. Gli Svizzeri rinnovano infatti il tentativo di occupare l’Ossola. I motivi o, meglio, i pretesti per mascherare il loro disegno antico di arrivare sulle sponde dei laghi subalpini erano naturalmente sempre gli stessi, del tutto insignificanti, sebbene raccolti con molta cura. Gli Sviz- zeri avevano fama di soldati imbattibili e la loro tracotanza diceva che ne erano molto convinti. L’anima di queste spedizioni era il vescovo di Sion, Jost von Sillinen (1482-1494). Già nel 1484, avvisato dal podestà di Vogogna Bertolino Albasino dei preparativi che si stavano facendo al di là delle Alpi, Lodovico il Moro che reggeva il ducato di Milano per il duca Giovanni Galeazzo Maria Visconti, rinforzò i corpi militari di guardia e difesa dell’Ossola, mandandovi come comandante il celebre capitano conte Gian Pietro Bergamino. Il 28 ottobre 1484 il vescovo di Sion dichiara la guerra al duca di Milano ed invia immediatamente un esercito, comandato dal fratello Albino, attraverso il Sempione. Occupata momentaneamente la valle Divedro, appena questi si accorge di aver di fronte un grosso contingente di armati ducali pronti al combattimento, riporta in fretta i suoi oltre le Alpi, con grave disappunto del vescovo Jost. Nel 1487, col pretesto di vendicare delle offese fatte ai Vallesani in val Divedro, il vescovo Jost invia un altro esercito più numeroso ed agguerrito in Os- Domodossola, Colle di Mattarella, torre d’angolo del castello (sec. XI - XIV). 29 sola, sempre al comando del fratello. Prima del 18 aprile, giorno in cui fu dichiarata la guerra, già un buon numero di armati era stato concentrato dal conte Gilberto Borromeo a Vogogna, sebbene non riuscisse a convincere gli uomini dell’Ossola Superiore ad unirsi con lui per difendere la val Divedro, forse per l’antico antagonismo di parte. Fortunatamente il 18 aprile un altro contingente di truppe al comando del capitano Zenone de Cropello, con 500 fanti e 50 schioppettieri, giunse a rinforzare la difesa del borgo di Domo. Si aspettava anche l’arrivo in Ossola con le sue genti armate del condottiero ducale Renato Trivulzio, fratello del più famoso Gian Giacomo. La mattina del 20 aprile dalla gola di Crevola si affacciarono i 6000 Vallesani a cui si erano aggiunte altre bande di Lucernesi. Questi, dopo aver mandato ad occupare e presidiare la val Antigorio, puntarono sul borgo di Domo. Convinti dalle artiglierie del capitano Zenone e da quelle di Gian Antenore Traversa, che in quel tempo comandava il presidio di Domo, girarono al largo e si accamparono sul colle di Mattarella fra i ruderi del castello, non senza aver devastato i luoghi circostanti. Il giorno dopo, il 21 aprile, eccoli a incendiare ed a razziare da Calice fino a Villa. Il conte Gilberto Borromeo in una lettera del 20 aprile al Duca, informa che prima ancora di accamparsi a Mattarella questi thodeschi hanno corso li a cerchio fin appresso a Villa mettendo a focho e fiama ogni cosa et amazando fin a li puti picoli, per non poterli obviarli non havendo altra gente che paesani, quali sono voluti restare a casa loro per guardia de le sue cose. Tornarono gli Svizzeri il giorno seguente (22 aprile) in numero di circa 400 per assaltare Villa, ma vi trovarono una resistenza accanita da parte della gente del luogo in cui aiuto erano accorsi i robusti montanari della val Anzasca. I predatori svizzeri, tornarono a mani vuote, dopo essersi vendicati bruciando qualche casolare. In quel medesimo giorno giunse in Ossola il Trivulzio col suo esercito e si fece un piano di guerra. Ma gli uomini della valle Anzasca e della valle Antrona che avevano fatto buona resistenza a Villa, o per timore o per calcolo, dubitando forse che qualche gruppo di Vallesani giungesse alle loro spalle, come altre volte, attraverso i passi del Monscera, di Saas e del monte Moro, non vollero partecipare alla battaglia, cercando di mettere 30 in salvo le loro robe e dando così appiglio all’accusa di essersi segretamente intesi coi Vallesani. I timori degli Antronesi erano giustificati. Giovan Battista del Ponte scrive il 18 aprile al Duca di Milano: quilli (todeschi) quali sono venuti per la valle di Antigorio sono secundo se dice gente de la Liga del Bo, et ho inteso che bruxano et hano bruxato case et quelle gente che trovino de detta valle, menano tutty per ly terri. De hora in hora aspectamo un altro assalto per la valle de Bugnanco da quilli frieri (frilli) quali erano nel campo di Saluzo... Aviso V. Excellentia como domatina Deo danti me porto da qui et vado in la valle Antrona et con li homeni de dicta valle che sono a numero di circha 600 homini et valenthomini et con certi altri homini de questa vostra jurisdictione farò tuto il podere mio per andare a bruxare a disfare una valle del Vescovo de Valese nominato Valzosia (Saas) quale confinia con dicta valle de Antrona et de tutto quello che se farà, ne avisarò V. Excellentia. Non pare che il disegno del capitano Del Ponte sia stato condotto a termine, ma gli uomini di Antrona fecero buona guardia alla loro Valle. Non ci furono scontri importanti fino al giorno 27 aprile, tanto che la notte del 25 aprile 2000 Vallesani salirono in val Vigezzo a far bottino. Giungevano frattanto in Ossola altri rinforzi ai ducali ed in special modo il conte Gian Pietro Bergamino con 2000 fanti; così che i ducali potevano schierare in campo circa 3500 uomini. Il 27 aprile Renato Trivulzio volendo saggiare la consistenza del nemico avanzò da Vogogna verso Beura con 50 balestrieri. La piccola schiera fu avvistata dagli Svizzeri dal castello di Mattarella e 500 di essi calarono sul piano di Calice. Un gruppetto di ducali guidati dal capitano Jacopo dal Corte non esitò ad attraversare il Toce ed attaccare duramente i Vallesani che lasciarono sul terreno 50 morti e dovettero fuggire. Questo assaggio era stato parecchio amaro per gli Svizzeri ed il loro comandante Albino di Sillenen ne trasse cattivi auspici. Mandò in fretta a richiamare dalla val Vigezzo quelli che erano saliti a bottinare perché si affrettassero verso il ponte di Crevola dove anch’egli si diresse coi suoi, lentamente, per guadagnare l’imbocco della val Divedro e non vedersi tagliata la via dai ducali. Mossisi gli Svizzeri da Mattarella verso Preglia, i capitani Zenone e Traversa che erano in Domo ne mandarono avviso a Vogogna dove il Trivulzio ed il Bergami- no stavano concertando un piano di guerra. Il capitano Jacopo dal Corte raggiunge Domo e coi suoi balestrieri sorprende gli Svizzeri a Preglia. Giunti anche Zenone e Traversa vengono attaccate le retroguardie svizzere e costrette a impegnarsi. Sopraggiunge anche il Trivulzio che manda immediatamente un corpo di fanti scelto per il ripido sentiero che da Preglia porta in val Divedro ad occupare il ponte dell’Orco sulla Diveria, nel punto cioè in cui la strada del Sempione salendo da Crevola passa sulla sponda destra del Diveria, poco prima della frazione S. Giovanni, tagliando così la ritirata agli Svizzeri. La battaglia si accende quindi nel piano fra Preglia e Crevola e nei pressi del ponte. Gli Svizzeri si ritirano lentamente aspettando di congiungersi con il gruppo dei bottinatori saliti in val Vigezzo. Appena questi furono visti scendere dai colli di Trontano con il frutto delle loro razzìe, Jacopo dal Corte con un gruppo di balestrieri a cavallo lascia Preglia e, passato il Toce, si fa loro incontro. Gli Svizzeri si fermano e si chiudono in difesa, ma pur essendo forniti di molte armi e anche di schioppi ebbero notevoli danni dai balestrieri ducali. Ma poiché, nonostante i danni subiti si mantenevano chiusi in difesa, Jacopo dal Corte simulando una fuga, riuscì a sparpagliarli sul terreno, caricandoli poi duramente così che ne restarono uccisi un migliaio, abbandonando il bottino ed ogni cosa. Pochi riuscirono a ricongiungersi coi loro, mentre la maggior parte degli scampati fu braccata e trucidata dai montanari di Trontano e Masera. La notizia di questo scontro e del risultato, giunta a Crevola, portò il morale dei ducali alle stelle. Sopraggiunti anche il Bergamino ed il Borromeo con gli uomini di armatura pesante, si schierò l’esercito e fu dato l’attacco al ponte di Crevola. La battaglia fu durissima e combattuta con valore da ambo le parti. La sorte per gli Svizzeri volse in sfavore quando un gruppo di cavalleria ducale riuscì a passare la Diveria e prenderli alle spalle, cosa che fece anche Jacopo dal Corte giungendo in quel frattempo da Masera per la piana di Montecrestese. Gli Svizzeri cominciarono a cedere, lasciando il ponte sotto il quale a centinaia si ammucchiavano i cadaveri ad arrossare le acque del fiume e cercarono la difesa nelle vicine case tentando contemporaneamente di guadagnare la strada della salvezza. Ma questa era sbarrata al ponte dell’Orco. Lungo l’angusta strada che si inerpica sul monte furono facile bersaglio delle balestre puntate su di loro e dei grossi massi rotolati dall’alto. Quelli che non precipitarono nel fiume furono circondati e uccisi o braccati dai paesani che non mancarono di incrudelire su di loro per vendicarsi di tante violenze passate. Si dice che almeno 2000 Svizzeri morissero in questa che fu una delle più gravi sconfitte subite da essi. Gli Ossolani in ringraziamento dell’ottenuta vittoria, proprio sul luogo della battaglia al ponte di Crevola, costruirono un oratorio dedicato a S. Vitale, padre dei Santi soldati Gervasio e Protasio, facendo anche voto di visitarlo nel giorno della festa. Dopo questa battaglia Ludovico il Moro venne in Ossola, pagò i soldati, visitò la valle ordinando gli opportuni restauri al castello di Mattarella ed alle altre torri di difesa ossolane e gli sbarramenti al Passo di Premia ed al Passo di Croveo contro possibili invasioni svizzere. Venne anche riorganizzato il sistema di rapide informazioni per mezzo di una rete di segnali che dalle valli estreme erano rimandati da torre in torre fino a Milano. La pace fu firmata il 23 maggio 1487 a Domodossola e completata con altra firmata a Milano il 9 gennaio 1495. Con questa il vescovo di Sion rinunciava ad ogni pretesa sull’Ossola; tuttavia il ducato di Milano e quindi anche l’Ossola perdette definitivamente tutta la zona che da Gondo, dove passa l’attuale confine italo-svizzero, giunge a Lattinasca, ossia all’attuale Gabi, comprendente la val Vaira, detta attualmente Schwitzbergental. La pesante lezione della battaglia di Crevola non era però stata sufficiente agli Svizzeri. Il vescovo Jost, sollecitato da Carlo VIII di Francia, rinnova l’attacco al ducato di Milano cercando di rendersi padrone dell’Ossola. Il 23 marzo 1495, mentre un gruppo di Svizzeri al comando del famoso capitano Giorgio Supersaxo, che tuttavia si era opposto in sede di consiglio a questa spedizione, evitando Domodossola, scendeva ad occupare Villa e Piedimulera, il vescovo Jost con un altro gruppo puntò su Domodossola sotto le cui mura però fu battuto e dovette riguadagnare il Sempione. La val Formazza, stanca del dominio feudale dei De Rodis-Baceno chiese a Lodovico il Moro di esserne finalmente liberata e di dipendere direttamente dal Ducato di Milano. Dopo lunghe insistenze, paventando forse 31 che i Formazzini di origine walser decidessero di darsi ai vicini Svizzeri, il Duca tolse il feudo ai De Rodis-Baceno, né valse una causa da essi fatta contro tal provvedimento a recuperarlo. Restò comunque ad essi Salecchio ed Agaro che passò in feudo ai Marini di Crodo e successivamente fu comperato dal conte Giulio Monti di Valsassina. Gli Ossolani rinnovarono anche la richiesta di conferma degli antichi privilegi ed il duca Ludovico il Moro la concesse il 28 febbraio 1495. Un cenno deve essere fatto anche di due avvenimenti che commossero la devozione degli Ossolani. Nel 1492 un dipinto della Madonna nella chiesa di Cravegna si rigò di sudore e di lacrime. Nel 1494 è l’immagine della Beata Vergine dipinta sulla facciata della chiesa di Re che, percossa dalla sacrilega sassata di Giovanni Zuccone di Londrago, emana ripetutamente ed alla presenza di persone eminenti del clero, dei magistrati locali ed anche di molto popolo, un fiotto di sangue dalla fronte colpita. Ambedue questi fatti furono sottoposti a immediata ed attentissima indagine con processi che ne testimoniano l’oggettività e storicità, in documenti originali ancora esistenti negli archivi e registrati. Cronache del secolo XVI Ludovico il Moro con la sua politica ambiziosa non mancò di attirarsi le odiosità dei sudditi e le gelosie dei principi che vantavano qualche diritto sul ducato di Milano. Primo fra tutti il nuovo re di Francia Luigi XII, succeduto a Carlo VIII, la cui venuta in Italia aveva scombussolato l’intera penisola. Vantava il re francese la discendenza da Valentina Visconti data in sposa da Gian Galeazzo nel 1389 a Ludovico duca di Turenna, fratello di Carlo VI e figlio di Carlo V re di Francia. Tutto questo era noto e non mancarono di sorgere numerosi partigiani per il dominio francese in Italia e sul ducato milanese in particolare, indirettamente favoriti dalla politica di Ludovico il Moro che si era creato attorno molte inimicizie. Gian Giacomo Trivulzio non esitò a porsi al servizio del re di Francia e a capitanare un esercito francese che, sceso in Italia nel 1499, costrinse Ludovico il Moro a rifugiarsi in Tirolo mentre il re francese Luigi XII, il 23 settembre entrava trionfalmente in Milano, ritornando però subito in Francia portando seco 32 il conte Francesco Sforza ancora fanciullo. Incominciarono così tutte le traversie del Ducato Milanese conteso entro la fine del 1400 e la metà del 1500 fra gli Sforza, i Francesi e gli Spagnoli. Tutti questi avvenimenti in rapida successione si riflettono puntualmente anche nell’Ossola dove prendono nuovamente forza i partiti locali. Tramontati apparentemente il guelfismo e ghibellinismo, ossia i partiti degli Spelorci e dei Ferrari, si parteggia per il duca di Milano o per il re di Francia oppure addirittura per la Lega Svizzera dei 12 Cantoni. I capi delle fazioni sono sempre quei nobili che avevano scelto di conservare e crescere le loro fortune militando sotto le bandiere ducali o francesi, reclutando anche in Ossola quelle milizie di cui avevano bisogno, ed alle quali assegnavano talvolta gli stipendi impegnando i propri beni. Favorevoli al Duca di Milano sono i Ponteschi, facenti capo alla famiglia del Ponte discendente da quel capitano Garbellino di Semonzio di Crevola, il cui figlio aveva abbandonato le sue case in Semonzio perché distrutte nelle guerre del secolo XIV per costruirsi una abitazione presso il ponte di Crevola, donde il nome. D’altra parte, favorevoli al re di Francia sono i Brenneschi, un ramo dei De Rodis-Baceno ai quali si erano uniti i Della Silva e De Rido di Crevola. Tutte le altre famiglie nobili o particolarmente fornite di censo erano costrette ad entrare nell’una o nell’altra delle due consorterie; ma anche i piccoli proprietari o fittavoli che tenevano da questi signori gran parte dei loro beni in enfiteusi o avevano verso di essi obblighi particolari erano necessitati a seguirli. I partiti ed i loro aderenti amavano distinguersi anche esternamente non solo dai colori delle proprie bandiere, ma anche nei vestiti, nelle decorazioni degli ambienti e perfino scegliendo posti separati nelle chiese e valendosi di porte diverse. Impadronitisi i Francesi del Ducato Milanese, furono mandati commissari anche nell’Ossola ed il 17 ottobre 1499 troviamo a Domo in questa funzione il signor Giovanni Domenico dei Rizzi luogotenente di Manfredo Tornielli governatore dell’Ossola per il re di Francia. Il 18 novembre seguente il suo posto è preso dal capitano Bernardino de Baceno luogotenente del capitano conte Giovanni di Neufchatell. Frattanto una sollevazione di popolo, causata dalla sfrenata licenza e tracotanza dei soldati francesi, restituisce momentaneamente Milano a Ludovico il Moro che nel febbraio del 1500 rientra a Milano. In aiuto del Duca erano scesi 6000 Svizzeri fra cui molti del Vallese il cui vescovo Matteo Schinner parteggiava apertamente per il Moro. Queste truppe scendendo dal Sempione costrinsero i Francesi ad abbandonare Domo. Infatti il 19 febbraio 1500 riprende il suo posto nella Curia di Mattarella il commissario ducale Giovanni Luchino dei Crivelli di Milano che già possedeva questo ufficio prima dell’arrivo dei Francesi. Ludovico il Moro non riuscì però a riconquistare il Ducato. Il 3 aprile 1500, fatto prigioniero dai Francesi all’assedio di Novara, fu mandato a morire in Francia. Pochi giorni dopo i Francesi sono nuovamente in Ossola, dove ritorna il governatore e capitano Giovanni di Neufchatell. Gli Ossolani devono ora prestare il giuramento di fedeltà al re di Francia. Il 13 aprile 1500 c’è una procura da parte del notaio Giovanni Muzzeti (i Muzzeti sono un ramo dei De Rodis-Baceno) nei signori Bartelino degli Albasini di Vogogna, Simone degli Albertazzi di Vogogna, Filippo di Pontemaglio di Domo e Giovanni Giacomo della Porta di Domo e Antonio de Baceno di Domo, tutti notai per giurare fedeltà al cristianissimo re dei Francesi. Questa procura, fatta al Ponte di Villa dovette essere il primo atto di sottomissione al re francese. In questo periodo deve essere avvenuto anche un fatto che è riportato dal Bascapè. Antonio Chilino creato dal duca Ludovico il Moro castellano di Mattarella, mentre si recava in Ossola per entrare nell’ufficio assegnatogli, fu spogliato dei suoi bagagli dai soldati del Conte Borromeo e consegnò poi al Neufchatell il borgo ed il castello di Domo colla condizione di riavere il suo bagaglio e di andar libero. Il pontefice Giulio II non sopportava che nell’Italia predominassero i Francesi e fece ogni sforzo per togliere ad essi il Ducato di Milano e darlo al duca Massimiliano Sforza figlio di Ludovico il Moro. A questo scopo, col- l’aiuto dell’imperatore Massimiliano e della Repubblica di Venezia, costituisce la Lega Santa (5 ottobre 1511) che al grido di fuori i barbari dovrebbe cacciare i Francesi dall’Italia. Per realizzare i suoi disegni il Papa si valse di Matteo Schinner vescovo di Sion, uomo della taglia mentale e del coraggio di Giulio II, abile diplomatico e capace di guidare, se fosse stato necessario, un esercito in battaglia. Lo Schinner fu da Giulio II creato amministratore perpetuo della diocesi di Novara, dopo la deposizione del cardinale Sanseverino che si era compromesso intervenendo al Conciliabolo di Pisa. Ciò avvenne il 9 febbraio 1511, secondo il Bascapè. Il 10 marzo 1511 fu fatto cardinale e con bolla papale del 9 gennaio 1512 nunzio apostolico speciale nell’Italia Superiore, in Germania e presso i Confederati Svizzeri. Il nuovo vescovo di Novara si affrettò con atto del 1° febbraio 1512 ad accaparrarsi le simpatie degli Ossolani concedendo, su preghiera del conte Lancillotto Borromeo, alle popolazioni delle valli Vigezzo, Anzasca e Strona il privilegio dell’uso dei latticini durante la Quaresima, Settimana Santa esclusa, privilegio che fu poi esteso a tutta l’Ossola. Riuscì allo Schinner di convincere i Confederati Svizzeri a scendere in Italia per cacciare i Francesci, ed assoldato un forte esercito di mercenari nel giugno del 1512 costrinse i Francesi a lasciare Milano rimettendo nel Ducato Massimiliano Sforza il quale, il 29 dicembre 1512, fece il suo ingresso solenne in Milano. I Francesi tennero però i castelli dell’Ossola Superiore ed il borgo di Domo fino all’agosto del 1512. In quell’epoca un grosso contingente di armati svizzeri della Lega di Urania o del Bue vennero per loro conto e col benestare di molti Ossolani specialmente di quelli che parteggiavano per i Francesi a prendere in consegna i castelli ed il borgo di Domo. Anche questi si fecero giurare fedeltà degli Ossolani. Il 10 agosto 1512 giurarono quelli di Villa e della valle Antrona. Il 15 agosto i Francesi fecero la consegna dei castelli e del borgo e attraverso il Sempione ripassarono le Alpi. Sebbene alleati del Duca di Milano, gli Svizzeri tennero l’Ossola in proprio e non vollero cederla al Duca di Milano, Antonio Zich di Urania era il commissario e capitano della Curia di Mattarella per la Lega dei XII Can- Tipo del Sacro Monte Calvario di Domodossola eseguito dall’arch. Pier Maria Perini nel 1772. 34 toni, ma talvolta vi troviamo suoi luogotenenti quelli stessi che lo avevano aiutato ad entrare nel borgo e che si opponevano alla consegna al Duca di Milano. Voglio dire il capitano Paolo della Silva rimasto nell’Ossola e che il 5 settembre 1512 è commissario e capitano della Corte di Mattarella. Comincia in questo periodo a prendere forza un partito favorevole agli Svizzeri e che, dimentico delle antiche e recenti offese, vorrebbe l’Ossola confederata con i Cantoni Svizzeri. Il comportamento degli Ossolani dell’Ossola Superiore irritò specialmente i conti Borromeo i quali, dopo essere stati partigiani dei Francesi, erano tornati all’ubbidienza del Duca di Milano. Lancillotto Borromeo tentò di prendere il borgo di Domo, ma fu battuto dagli Ossolani collegati cogli Svizzeri. Si vendicò il Borromeo impedendo la libera circolazione delle merci, imponendo gravi dazi sulle importazioni del grano dal Novarese e Milanese, angariando i mercanti ed impedendo in tutti i modi le comunicazioni fra le due Ossole. Alle rimostranze degli Ossolani rispondeva il Borromeo: «avete voluto stare cogli Svizzeri piuttosto che con noi? Andate ora da essi perché vi diano il grano e le vettovaglie! Per conto nostro vogliamo assolutamente farvi morire di fame». Fu una dura carestia che fece soffrire soprattutto i più poveri e che provocò la peste, sempre pronta a comparire in queste occasioni. Il flagello, scoppiato nel 1513, durò da luglio a dicembre e mieté molte vittime. Il seguente anno, 1514, gli uomini dell’Ossola Superiore sotto la guida del capitano Paolo della Silva, che aveva sempre mantenuto vicino a Domo un buon gruppo di fedeli armati, coll’aiuto anche di un piccolo corpo di Svizzeri, fecero un’azione di forza puntando direttamente su Vogogna. Il borgo cadde subito nelle mani di questi armati esasperati i quali si diedero al saccheggio, distrussero i caselli del dazio e si fecero giurare con atto pubblico che per l’avvenire ogni dazio sarebbe stato abolito (17 luglio 1514). I poveri abitanti di Vogogna si salvarono in parte rifugiandosi in val Anzasca. Poco dopo (27 luglio) analoga spedizione fu fatta a Mergozzo, Omegna e Pallanza dove ugualmente si volle il giuramento di esenzione da ogni dazio. Gli invasori si ritirarono poi da Vogogna non senza prima aver diroccato il castello, ma mantennero alcune fortezze che occuparono a titolo cautelativo. Ne nacque fra il conte Borro- meo e l’Ossola Superiore una lite che fu portata davanti ai capi della Lega dei XII Cantoni. La sentenza costrinse gli uomini dell’Ossola Superiore a restituire le fortezze e i territori occupati, ma fece obbligo ai Borromeo di lasciare libero il passaggio ai grani e vettovaglie. Il laudo fu pubblicato a Domo il 3 gennaio 1515 da Ulderico Flauder di Lucerna allora commissario della Corte di Mattarella. Morto Luigi XII senza eredi legittimi, sul trono di Francia salì Francesco I, anch’egli discendente da Valentina Visconti, e quindi aspirante al dominio del ducato di Milano. Massimiliano Sforza gli oppose un esercito di mercenari svizzeri, ma non riuscì ad impedire al re francese di scendere in Lombardia. La battaglia decisiva del 14 settembre a Marignano, in cui perirono 15000 svizzeri e 6000 francesi permise a Francesco I di entrare da signore in Milano e impadronirsi del Ducato, mentre il duca Massimiliano, costretto ad abdicare, era spedito prigioniero in Francia. Dopo questi avvenimenti i capitani della Lega non si sentirono più sicuri in Ossola. Oltre tutto sei squadre o bandiere di Svizzeri, che tornavano dalla sfortunata battaglia di Marignano alla loro patria attraverso l’Ossola, rubarono e saccheggiarono quando poterono senza risparmiare nulla e nessuno. Ne soffrì soprattutto Villa come ricorda il Capis ed i poveri paesani, già provati dalle precedenti calamità dovettero subire ancora una volta i saccheggi, gli incendi e le umiliazioni di queste orde scatenate che non risparmiarono neppure le chiese. Gli Svizzeri si ritirarono dall’Ossola e per un certo tempo questa regione fu terra di nessuno, tanto che il 23 settembre gli Ossolani dell’Ossola Superiore, ritenendosi ancora legati alla Lega Svizzera, scrissero condolendosi della sconfitta di Marignano e chiedendo aiuto e consigli. A sostituire il capitano e commissario svizzero Ulderico Flauder di Lucerna, allontanatosi dall’Ossola il 25 giugno 1515, fu mandato Giovanni Stolez di Basilea del quale trova luogotenente nella Curia di Mattarella il signor Pietro di Breno, dottore in diritto, fino al 29 settembre 1515. Un esercito francese intanto entrava nell’Ossola, mentre i pochi svizzeri rimasti tornavano in patria e l’8 ottobre, se si deve credere al Capis, un corpo di 500 uomini al comando del capitano Lautrec occupa Domo, dove i Francesi si abbandonarono 35 ad ogni dissolutezza e violenza. Fortunatamente il capitano Lautrec e la sua compagnia, dietro le lamentele fatte giungere dagli Ossolani direttamente al re di Francia, furono sostituiti e la piazza di Domo fu tenuta dal capitano Predemelges che si fece onore tenendo in disciplina la sua compagnia. Un altro atto distensivo del re di Francia fu quello con cui il 10 marzo 1516 tolse all’Ossola Superiore il contributo di 600 lire imperiali dovute alla camera ducale, condonando anche i debiti contratti con la stessa dall’epoca di Luigi XII. Col ritorno della pace si stabilisce un modus vivendi anche fra i partiti ossolani. Probabilmente anzi ci fu un atto di pacificazione giacché vediamo ritornare in Ossola i fratelli Francesco e Benedetto del Ponte che erano stati messi al bando da Luigi XII. Il 26 ottobre 1515 anzi troviamo Francesco del Ponte per un po’ di tempo luogotenente del commissario della Corte di Mattarella. Ma il personaggio più in vista con la vittoria delle armi francesi è il capitano Paolo della Silva che aveva posto la sua spada e la sua compagnia al servizio del re francese dal quale era tenuto in grande considerazione. 36 Egli spese gran parte delle sue ricchezze nel dare lustro e decoro all’Ossola dove chiamò architetti ed artisti ad abbellire il palazzo che andava costruendo a Domo e le chiese di Crevola e Domodossola. Colla salita di Carlo V al trono di Spagna il dominio del Ducato di Milano viene rimesso in discussione. Il nuovo imperatore ed il Papa appoggiavano Francesco II Sforza, fratello di Massimiliano, il quale poté assoldare un esercito di mercenari svizzeri e tedeschi e con questi il 19 novembre 1521 riprese Milano costringendo i Francesi a tornare in patria. Nell’Ossola, Benedetto del Ponte, capitano di milizie ducali, costrinse i Francesi a lasciare il borgo di Domo, cosa che avvenne verso la fine di giugno 1522. L’8 luglio seguente i deputati ossolani si recarono a Milano per giurar fedeltà al Duca. Il seguente anno gli Ossolani inviano al Duca una supplica per ottenere la pacificazione generale ed il perdono per tutti quelli che nelle guerre passate avevano parteggiato per la Francia, in particolare per il capitano Paolo della Silva e suoi luogotenenti banderali, nonché il riconoscimento degli antichi privilegi. Il 16 giugno 1523 si ebbe notizia che la supplica era stata accolta. Ma la partita non era ancora finita. Francesco I di Francia nel settembre del 1523 invia un forte esercito in Italia al comando dell’ammiraglio Bonnivet. Ripresero le speranze i fautori della Francia in Ossola, sollecitati dal capitano Paolo della Silva, il quale anzi cercò di ottenere subito l’adesione da parte delle comunità ossolane, mandando perfino un suo rappresentante nel borgo di Domo per chiedere il giuramento di fedeltà. Il commissario ducale Tommaso Morone ed il capitano Benedetto del Ponte si meravigliarono di questa richiesta del Della Silva; anzi uno dei presenti, un certo prete Pietro Viscardi di Trontano, non trovò altra risposta che quella di dare un tremendo colpo di spada sulla testa del povero ambasciatore che morì all’istante. Saputo di questo trattamento, il capitano Paolo della Silva che aveva con sé un buon contingente di armati raccolti sul posto, pose l’assedio a Domo, impedendo l’entrata delle vettovaglie e deviando la roggia dei Borghesi. In una scaramuccia del 14 ottobre 1523 morì Francesco del Ponte, fratello di Benedetto e suo luogotenente. L’assedio continuò fino al maggio 1524. Tutti questi sconvolgimenti politici avevano ridotto i paesani ossolani a non saper più a chi credere e a chi affidarsi, giacché tutto si rivolgeva a loro danno. Perciò vediamo che a Villa non si ha mai difficoltà a giurare a questo o a quello a seconda delle circostanze, purché si potesse sopravvivere a tanto sconquasso. A titoli di esempio valga il fatto che il 21 marzo 1524 al Ponte di Villa si riunisce una vicinanza in cui i consoli od i vicini eleggono Antonio del Gaggio e Giovanni di Basaluxia come procuratori della comunità a giurare fedeltà al duca Francesco Sforza di Milano e far da esso approvare certi capitoli. Il giorno seguente (22 marzo) al Sasso di S. Maurizio il console di Villa Antonio Cassoli a nome suo e dell’altro console Antonio Toxelli e con essi i due deputati del precedente strumento, prestano il giuramento nelle mani del capitano Paolo della Silva che lo riceve a nome del re di Francia. Tanto erano confuse le situazioni in quei tempi! Poco dopo le truppe francesi che erano state battute a Robecco ritornarono lentamente in patria attraverso il Sempione sotto la protezione del capitano Della Silva. Nell’autunno del 1524 Francesco I di Francia con un esercito di 36000 uomini attraversò le Alpi ed occu- pò Milano. Il capitano Paolo della Silva che si era subito portato al campo del re francese mandò immediatamente in Ossola dei rappresentanti per far giurare fedeltà al nuovo padrone. Paolo della Silva tornò poi in Ossola e vi raccolse una banda di alcune migliaia di armati e si portò a Pavia dove il re Francesco I stava assediando la città. Questa banda di Ossolani che il Della Silva pagava coi suoi denari, combatté nella sfortunata battaglia di Pavia (24 febbraio 1525), in seguito alla quale Carlo V costrinse il re di Francia a rinunciare definitivamente al Ducato di Milano. Sfasciatosi l’esercito francese, Paolo della Silva tornò coi compatrioti superstiti a Domo dove giunse poco dopo anche il capitano Benedetto del Ponte a chiedere agli Ossolani il giuramento di fedeltà al duca Francesco Sforza. Gli uomini di Villa, il 18 marzo 1525, deputarono Filippo Filippi e Giacomo Baldana a fare tale giuramento di fedeltà nelle mani di Giacomo Morone commissario ducale della Curia di Mattarella. Il giuramento ebbe luogo il 20 marzo seguente. Poco dopo il castello di Domo fu tenuto da capitani e soldati spagnoli, resisi subito famosi per la loro crudeltà ed ingordigia, così da far rimpiangere i francesi. Ci fu anche una congiura per ammazzare il castellano Francesco Alarçon ed una sollevazione, che questo domò facendo sparare le artiglierie del castello contro il borgo. Poco dopo però il famigerato castellano finì la vita colpito da una archibugiata sparata da uno sconosciuto. Di questa situazione approfittò il capitano Giovan Pietro del Ponte che venne a Domo con 500 soldati ducali e ottenne per il duca il giuramento di fedeltà degli Ossolani (1527). Frattanto Don Antonio de Leyva generale di Carlo V sollecitava ripetutamente gli Ossolani ad abbandonare il duca di Milano e a riconoscere l’autorità dell’imperatore Carlo V. Domodossola, difesa dal capitano Giovan Pietro del Ponte, resistette fino al gennaio del 1529, all’assedio fatto dal capitano Pietro Gonzales, dal conte Ludovico Belgioioso e dal capitano Pietro Maria del Maino a nome di Gian Giacomo Medici marchese di Musso, alle dipendenze di Don Antonio de Leyva. Le capitolazioni del 29 gennaio 1529 liberarono Domo dall’assedio mentre il Del Ponte passò al servizio del marchese di Musso, con uno stipendio di 37 100 scudi annui (3 gennaio 1530). Nel 1531 Francesco Sforza recupera il Ducato, ma è completamente in balia di Carlo V. L’8 luglio 1531 gli Ossolani ottengono la conferma dei loro privilegi. Morto il duca Francesco Sforza senza prole (1535), Don Antonio de Leyva generale di Carlo V, inviava nuovamente in Ossola il capitano Giovan Pietro del Ponte per esigere il giuramento di fedeltà. Il borgo di Domo lo presta il 26 dicembre 1535 e nei giorni seguenti lo fanno gli altri comuni ossolani. Le guerre che quasi ininterrottamente si erano succedute nell’Ossola, il passaggio di tanti eserciti e di gruppi di sbandati dediti alle rapine ed al saccheggio avevano frattanto influito gravemente rovinando l’economia ed anche la vita pubblica di questi montanari costretti a subire le violenze e quindi portati essi stessi all’esasperazione della violenza. Le case diventarono dei fortilizi e tutti andavano in giro armati contro ladri e briganti che dettavano legge. I partiti legati alle potenti famiglie in lotta fra loro avevano influito a rendere paurosamente abituale la violenza ed il sopruso, le cui lezioni erano impartite dai capipartito e dai signori che amavano mantenere un gruppo di armati al proprio servizio, e della peggiore risma, dai quali erano sempre accompagnati anche quando si recavano in chiesa o nelle pubbliche adunanze. Il banditismo diventa dalla metà del 1500 fino alla metà del 1600 una piaga dell’Ossola, contro la quale il governo spagnolo si limita spesso a lanciare le sue gride e la cui estirpazione sarà occasione di enormi spese da parte delle comunità obbligate a restituire quanto i mercanti in transito o chiunque perdevano, essendo esse obbligate a mantenere sicure a proprie spese le strade nei propri territori. Spesso a nulla valevano gli allarmi dati con la campana a martello e l’accorrere della gente; questi banditi armati di fucili a ruota tenevano facilmente testa alla gente inerme o armata solo di lance e di falcetti. Antonio Pizzoletto di Crevola, Giovanni Trivelli di Varzo, Antonio Gelminetto detto Sirigon, Giovanni Ruffino, Matteo Allena, Giovanni del Gatto ed altri si resero famosi in val d’Ossola colle loro rapine, omicidi e violenze. Contro di essi tuonarono le gride del governatore dello Stato di Milano. Ogni tanto qualcuno era preso e impiccato sul gabbio delle forche di Domo, all’entrata di porta Castello, per incutere 38 un salutare timore a tutti i delinquenti. Molti altri finivano sotto il piombo dei birri incaricati del loro sterminio o, presi, erano condannati alle galere. Gravissimi fatti erano accaduti in Ossola per odio di parte. Famoso fra tutti l’uccisione dei due fratelli Gaspare e Baldassarre de Baceno, figli del capitano Bernardino e cognati del capitano Paolo della Silva, perpetrata, forse, da sicari del capitano Giovan Pietro del Ponte. Anche contro le fazioni intervennero i governatori spagnoli. Alcune gride proibivano perfino di parlare di fazioni sotto pena della vita e confiscazione dei beni. Perdura comunque una grave insicurezza ed un’atmosfera di continuo pericolo. Un’ordinanza del 29 luglio 1595 disponeva che i muri fiancheggianti le strade fossero più alti di 2 metri o rasi al suolo perché non fossero facile ricetto di banditi ed assassini; così anche i boschi in vicinanza delle strade dovevano essere tagliati e molte case abbattute o chiuse in modo da non servire da ricettacolo o rifugio di banditi. Si ha notizia di alcuni paesi o frazioni sia della valle Antigorio che della val Vigezzo dove tutti o quasi tutti gli abitanti non disdegnavano l’esercizio del brigantaggio come quello di una professione. Il ricordo delle loro gesta è ancora vivo nelle tradizioni popolari locali. Si cercò un rimedio a questo stato di cose mediante un tentativo di pacificazione generale che eliminasse le radici di tante e sì testarde discordie. Il governatore dello Stato di Milano Don Pietro Padillo incaricò di ciò il conte Renato Borromeo dandogli ampi poteri per convocare i capi partito, i faziosi e perfino i briganti famosi dell’Ossola. Riuscì al conte dopo molti tentativi di fissare i termini di una generale conciliazione che venne solennemente giurata il 15 agosto 1595 ad Arona davanti alle porte della chiesa parrocchiale, ma il fenomeno delle fazioni e del brigantaggio, se momentaneamente parve arrestarsi, riprese poi con rinnovata violenza. Altra piaga sopravvenne nel settembre del 1598 fino al gennaio 1599. Dieci compagnie di soldati spagnoli vennero a stanziarsi in Ossola e, naturalmente a spese degli Ossolani, gettando le popolazioni nella costernazione, nella paura e nella miseria per le loro brutalità, ruberie ed estorsioni. Antonio Giavinelli prevosto Il borgo di Domodossola chiuso a pentagono dalle mura in una stampa del secolo XIX. di Pieve Vergonte e poi parroco di Seppiana, testimone oculare, così ricorda: Tutte le parti dell’Ossola Inferiore et Superiore... sono rimase con grandissimo danno, et spavento, ma più la superiore per essersi affermati tanto, che appena si ritrovava vittovaglia per pascerli; et li padroni erano, chi battuti, chi spaventati, chi fuggiti, et chi diventati miserabili. Le ova non si ritrovavano a comperare ne anco a duoi soldi l’uno, perché s’avevano ammazzate et mangiate le galline; pure bisognava trovar robba per forza. In fine si misero a far delli assassinamenti per le strade con pigliar li danari et robba a li poveri viandanti. Cronache del secolo XVII Durante il periodo di dominazione spagnola che va dal 1536 al 1713, 1’Ossola avrebbe potuto godere di un felicissimo tempo di pace e di benessere, dopo un secolo di disastrose invasioni, di lotte e cambiamenti di governo. Invece non fu così. Dopo il Concilio di Trento, per opera di alcuni vescovi zelanti, anche la diocesi di Novara e l’Ossola ebbero slanci e fervori nuovi di fede che produssero un notevole rinnovamento della vita religiosa e civile. Il vescovo Carlo Bascapè nella sua permanenza sulla cattedra di S. Gaudenzio (1593-1615), diede un grande impulso alla riforma dei costumi del clero e del popolo, visitando ripetutamente e minuziosamente la diocesi, informandosi di ogni cosa e disponendo secondo le necessità. Il suo libro Novaria, stampato nel 1612, oltre che il primo tentativo di una storia della diocesi di Novara, è anche una preziosa miniera di notizie, storielle, artistiche e geografiche dell’Ossola, di cui egli può con pieno titolo essere considerato il primo studioso. Il giureconsulto Giovanni Capis se ne valse con somma ammirazione per l’autore nella compilazione della prima opera storica di carattere prettamente ossolano Memorie della Corte di Mattarella, ossia del Borgo di Domodossola e sua 39 giurisdizione che egli scrisse nei primi decenni del 1600, ma che vedrà la luce per le stampe solo nel 1673 a cura del figlio Giovanni Matteo Capis. Dopo il Bascapè merita di essere ricordato il vescovo cardinal Taverna, a lui immediatamente successo, al quale risalgono molte iniziative in campo religioso e morale, ma anche in quello della organizzazione e amministrazione delle parrocchie, delle chiese e dei benefici. Egli vagheggiò perfino il disegno di istituire un seminario a Domo per meglio avviare ed istruire il clero locale; ma non poté realizzarlo. Il rinnovamento religioso fu cospicuo in questo periodo, ma non si può dire altrettanto di quello politico, civile e amministrativo. Mancò al governo spagnolo una vera politica sociale ed economica che si traducesse in un progresso autentico. Lo squilibrio fra i ricchi ed i poveri andò aumentando fino ad apparire non solo ingiusto, ma insultante. Pochi nobili, ricchi e insensibili alle miserie del popolo, si preoccupavano di ostentare la loro opulenza e spesso il disprezzo per i diritti sacrosanti dei coloni e dei meno abbienti. Anche in Ossola sono essi che costruiscono i loro nuovi pretenziosi palazzotti dove ogni tanto, al passaggio di qualche personaggio importante, danno ampia ospitalità e fastose imbadigioni, e vivono serviti da uno stuolo di servi e di armati. Essi amavano farsi beffe della legge, esimersi da ogni gravezza, mentre i poveri erano alla mercé del Fisco. La giurisdizione di Domodossola comprendeva tutta l’Ossola Superiore con esclusione della val Vigezzo, delle Quattro Terre (Trontano, Masera, Beura e Cardezza) e della valle Antigorio. Questa giurisdizione aveva i suoi Reggenti generali ed il suo Consiglio generale in cui i rappresentanti dei comuni si riunivano alla presenza del pretore di Domo, per ogni decisione importante. In casi di necessità tutta l’Ossola Superiore si riuniva a consiglio per eleggere alcuni deputati onde far valere i propri diritti e interessi presso il Governo. Le misere condizioni degli Ossolani in questo tempo sono per lo più attribuite alla notoria sterilità delle terre, a calamità naturali ricorrenti, al clima particolarmente avverso i cui eccessi distruggevano i già scarsi raccolti. Tuttavia il maggiore colpevole di tanta miseria fu il Governo spagnolo che con una fiscalità metodica ed esasperante, ricorrendo a tutti i mezzi afflisse 40 le popolazioni ossolane con una martellante pressione. Egli si valeva anche di investigatori e delatori autorizzati i quali con occhi di Argo ricercavano ogni possibilità di cavar denaro per il Fisco. La squallida figura di questi solerti burocrati, dediti a tale odioso mestiere, ci appare dalle infinite querele che gli Ossolani dovettero sostenere con il Fisco. Nei primi decenni del 1600 si rese tristemente famoso in Ossola un certo Francesco Bossi con il titolo ufficiale di Delatore, il quale purtroppo non mancò di imitatori. Un’ordinanza del 9 luglio 1601 da parte del Magistrato del reddito ordinario dello Stato imponeva alle comunità ossolane il pagamento entro tre mesi del mensuale o estimo delle merci per il periodo 1559-1601. La somma non era grande, 398 lire e 12 soldi, ma erano intanto violati quei privilegi, accordati agli Ossolani dai Visconti e successivamente riconosciuti anche da Carlo V, per i quali essi erano esenti da ogni imposizione. Fu quindi necessario che i rappresentanti dell’Ossola sostenessero le loro ragioni a Milano, ragioni che furono riconosciute con sentenza del 23 aprile 1602. Poco dopo, su delazione del sopra ricordato Francesco Bossi, l’Ossola è accusata di non aver pagato e non pagare il dazio per la Notaria civile, il dazio del pane, vino, carni ed imbottato, la tassa per la stadera comunale ecc. I procuratori dell’Ossola, Olderico Silvetti e Giacomo Trivelli, sono nuovamente a Milano a sostenere l’esenzione, sempre fondandosi sui famosi privilegi. Il Magistrato ordinario, con sentenza del 11 agosto 1605, assolve gli Ossolani. Intanto però queste cause procuravano ingenti spese alla Comunità che si andava aggravando paurosamente di debiti ed era costretta a prendere denaro a prestito con pesanti interessi. La scarsa produttività delle terre ossolane, la pressione esorbitante del Fisco spagnolo, alcune calamità naturali ed una certa imprevidenza amministrativa concorsero ad aumentare la povertà fino a giungere al livello della vera carestia. Mancavano nei primi decenni del 1600 non solo il denaro, ma anche i beni di consumo più necessari. Il Giavinelli che era prevosto a Seppiana, da buon testimonio oculare così ci presenta la situazione: L’anno 1628 fu una grandissima carestia et si vendeva a Domo et Vogogna la segla lire due il staro; et li poveri hanno patito molta fame et l’anno 1629 perseverò la carestia, che non si trovava denari et ne morirono molti di fame. L’anno 1629 poi fu talmente carestia che li poveri facevano macinar il colmo et la paglia et le giande de’ fayci per far farina; et ne morse molti che avevano patito; ed doppo venne certi febri che morse molte persone da dette febri. Il medemo anno venne la neve sopra l’arbori la notte doppo Santo Michele et alli dieci di Ottobre neve sino a qua a Seppiana con de’ diluvi d’acqua. L’anno 1629 si è venduta la farina del colmo et paglia fino a lire 4. Sarebbe stato abbastanza facile prevedere che su organismi così denutriti e provati in questi anni di carestia, oltre le solite malattie intestinali ricorrenti, potesse prendere il sopravvento la terribile peste bubbonica. E infatti fu così. La peste già mieteva vittime nel vicino Vallese, ma a causa della stretta sorveglianza ai passi alpini non fu di qui che il morbo venne importato in Ossola. Venne infatti dal Milanese a Mergozzo e a Domo per opera di alcuni mercanti. Citiamo ancora il Giavinelli che il giorno 14 agosto 1630 così annota nelle sue Memorie: L’anno 1630 circa il principio del mese di giugno si scoperse la peste in Duomo d’Ossola et in Cresto della valle Antrona, al Piaggio di Vila, a Rovescha d’Antrona et di S. Pietro (Schieranco) passavano per la strada d’Ovago per non poter passar per Riviera, Viganella et Cresto, quando hanno d’andare a pigliar provisione alla Lanca di Pallanzeno, dove si provvede di guardia continua; et ivi mandiamo a pigliar provisione quando si può avere; et circha li dieci di agosto si serrò Vogogna per esser morti alcuni ivi in casa del signor Battista Lossetti, et hora stentiamo haver provisione. Circa al principio d’agosto si è scoperta la peste alle Selve (Montescheno), et quelli del Croppo già alla fine di luglio erano fuori in Quarantena, et a me non manca fastidio in chiesa et fuora per la ministrazione dei Sacramenti. Circa il 17 et 20 agosto si scoperse la peste al Boschetto, a Daroncio, La Noga, al Gagio, talché a Vila stanno tutte le terre sempre in terrore et retirate più che si può; et la maggior parte si sono retirati nell’Ovago a far quarantena. Et il mese di settembre si è scoperta a Zoncha, a Valleggia, a Progno (Montescheno). Il Capis ricorda che nella valle Antrona morirono di peste circa 400 persone et ne morsero 100 nel termine di un mese solamente nella terra di Cresto. Ora si sa che nel 1613 Villa aveva circa 200 famiglie e fuochi, mentre dall’inventario della chiesa parrocchiale fatto il 31 gen- naio 1647 dal parroco Giovanni Bianchetti i fuochi sono solo 80. Si può dunque pensare che anche a Villa la popolazione sia stata ridotta alla metà; così come a Domo, a Vagna ed altrove dove la peste fece il maggior numero di vittime. Furono purgate le case con suffumigi di polvere da sparo, pece, salnitro, zolfo, incenso e bacche di ginepro; i panni appestati erano inceneriti, gli altri lasciati lungo tempo all’aria, in acqua o sotto terra. Il Capis osserva che questi metodi di disinfestazione erano efficaci sebbene alcuni fossero di diversa opinione, segno che anche in Ossola non mancavano i don Ferrante di manzoniana memoria. Il secolo XVII fu per l’Ossola uno dei più disastrosi anche per le catastrofi naturali verificatesi in quel periodo. Prime fra tutte le alluvioni, già iniziate nel secolo XVI. Il fiume Bogna che nel secolo XIV era stato portato a scorrere a nord del borgo di Domo, rotti gli argini venne nel 1519 a scorrere fra il colle di Mattarella e l’abitato. Nel secolo XVII cominciò a spingersi direttamente contro le mura del borgo, riempiendo i fossati ed accumulando molto materiale contro la cinta di difesa fino a seppellirne quasi le torri e, talvolta, penetrando anche nel borgo. I tentativi di impedire la sommersione costrinsero anche le comunità della giurisdizione a contribuire alle ingenti spese, dando origine a numerosi processi e liti. Il pericolo fu solo scongiurato dopo la grande alluvione del 1642 che decise finalmente il Governo a dare fondi sufficienti per riportare il Bogna a nord del borgo. Nella alluvione del 1640 avevano sofferto quasi tutte le comunità ossolane ed in particolare Villa e la valle Antrona dove il fiume Ovesca distrusse la chiesa parrocchiale di S. Pietro di Schieranco e portò via tutti i ponti. Una grave sventura si abbatté su Antronapiana all’alba del 27 luglio 1642 quando la grande frana del monte Pozzoli sbarrò la valle del Troncone formando il lago di Antrona, seppellendo parte del paese ancora nel sonno e causando la morte di oltre 100 persone. Ma gli Ossolani nonostante tutte queste ed altre vicende dolorose vollero esprimersi in atti solenni e generosi di pietà proponendosi la costruzione del grande complesso monumentale dedicato alla passione di Cristo che è il Sacro Monte Calvario posto sul colle di Mattarella fino a quel momento occupato dalle rovine del ca41 stello. Iniziata nel 1658, con l’approvazione del vescovo, quest’opera voluta dalla comunità ossolana intiera, crebbe rapidamente sotto la direzione di Giovanni Matteo Capis; attorno al 1680 era in gran parte realizzata con la costruzione della chiesa-santuario, della strada sacra e di alcune cappelle nelle quali il plastificatore milanese Dionisio Bussola pose in opera alcuni dei principali misteri della Via Crucis. L’opera sarà però finita nei secoli seguenti. Contemporaneamente la comunità dell’Ossola che aveva provvisto già nel 1616 i Cappuccini di un piccolo convento alla Cappuccina, dovette costruire un altro convento per i medesimi Padri sulle pendici del colle di Mattarella al fine di sottrarli alla furia del Bogna (1661-1681). Anche per questa ed altre opere di interesse generale fu dato incarico al giureconsulto Giovanni Matteo Capis che fu l’uomo politico più importante del secolo XVIII. II governatore di Milano e capitano generale marchese di Hinojosa, con ordinanza del 6 febbraio 1614, stabilì che si formassero in questo Stato (di Milano) una milizia de’ i soldati di esso per servitio di Sua Maestà et beneficio e sicurezza loro. Si diedero anche disposizioni affinché tale milizia avesse necessaria istruzione, disciplina ed armamento. Il tutto era naturalmente a carico degli uomini scelti per tale servizio in numero proporzionato alla consistenza della comunità. Ma per lo più l’armamento era a spese della comunità. In cambio gli ufficiali erano esenti dall’obbligo di alloggiare nelle proprie case i soldati a piedi od a cavallo mandati a stazionare sul luogo. Il motivo di questo provvedimento va ricercato nella necessità che aveva il Governo spagnolo di non lasciare sguarnito il proprio territorio; mentre le sue truppe erano concentrate ed impegnate nella guerra del Monferrato contro i Francesi e Piemontesi. Questa specie di guardia civica o popolare, istituita in tutta l’Ossola, mantenne a lungo la sua funzione anche dopo gli avvenimenti bellici che furono causa della sua istituzione e perdette decisamente la sua importanza solo dopo la restaurazione del dominio piemontese in Ossola seguita alla caduta di Napoleone, ma resiste con un apparato che possiamo ormai dire folkloristico in alcuni luoghi come a Bannio e Calasca in valle Anzasca. Al suo sorgere fu però ostacolata dalle popolazioni, che si vedevano aggravate da nuove spese e pa42 ventavano di dover marciare fuori dei confini dell’Ossola, la sola patria che avesse per esse un significato autentico. Il loro avvento fu tuttavia utile all’Ossola, non perché rinfocolò l’antico e tradizionale spirito guerresco, quanto piuttosto perché la presenza di milizie organizzate rese più sicure le valli contro i briganti e facinorosi e favorì una maggiore coscienza unitaria fra gruppi spesso antagonisti e disuniti da faide paesane e da antipatie campanilistiche. La istituzione delle milizie popolari non fu dunque inutile. Se ne ebbe immediato saggio allorché fu necessario difendere i passi alpini da eventuali infiltrazioni nemiche. Il loro apporto alla guerra degli Spagnoli contro i Francesi e Savoiardi deve essere stato molto limitato. Se si eccettua la difesa di Arona nel 1636 e qualche puntata fino a Vercelli, non si ricordano fatti d’arme importanti. Era una milizia dotata di armamento molto leggero: archibugio a ruota, spade e lance. In valle Antrona esistevano due diversi distretti su cui erano scelti gli uomini addetti a questa milizia. Il primo era quello di Antronapiana che metteva in assetto un numero limitato di soldati, ma con l’incombenza specifica di difendere gli alti passi della valle, uomini dunque ben adatti al loro compito e perfetti conoscitori del luogo. Il secondo comprendeva tutto il resto della valle Antrona e Villa. Analogamente avveniva in tutte le altre valli ossolane. In ognuna delle comunità della valle era eletto dagli stessi soldati un reggente o capitano, un luogotenente, un alfiere, un sergente ed alcuni caporali. I singoli reggenti o capitani locali avevano poi funzioni subordinate al comando del capitano della valle che era da essi eletto fra i reggenti locali. La nuova compagnia a sua volta era alle dipendenze e sotto il comando di un maestro di campo o capitano generale la cui giurisdizione si estendeva su tutti i distretti dell’Ossola e spesso comprendeva anche la zona del Lago Maggiore. Il primo capitano generale in Ossola fu il signor Ottavio Verone di Crevola che aveva già avuto compiti organizzativi di difesa. Successivamente ebbe il comando generale di queste milizie popolari il marchese Giovanni Battista Lossetti di Vogogna e poi i conti Borromeo. Il capitano di una milizia di tal fatta doveva essere persona accetta a tutti e stimata per la sua prudenza e ca- Vogogna, litografia di James Pattison Cockburn, 1822. pacità di amalgamare elementi che non erano tenuti insieme da una vera disciplina militare; non erano infatti soldati di professione. Cronache del secolo XVIII Con la morte di re Carlo II di Spagna (anno 1700), si ebbero immediati contrasti fra i pretendenti al trono. Filippo d’Angiò, chiamato dal testamento del defunto re a cingere la corona di Spagna, si portò subito a Madrid e fu riconosciuto nei domini spagnoli, prendendo il nome di Filippo V. L’imperatore d’Austria Leopoldo I contestava però questa nomina, pretendendo il trono di Spagna per il proprio secondogenito Carlo, come discendente in linea diretta da Ferdinando I, fratello di Carlo V imperatore. Ne nacque una guerra che allineò da una parte l’Austria, l’Inghilterra e l’Olanda e dall’altra la Spagna, la Francia e la Baviera. Vittorio Amedeo II di Savoia si unì inizialmente alla Francia ed alla Spagna. La guer- ra fu combattuta in Lombardia con alterne vicende che indussero però Vittorio Amedeo II a staccarsi dai suoi alleati per aderire all’Austria. Questo cambiamento di rotta della politica sabauda irritò gli ex alleati. Gli eserciti franco spagnoli occuparono la Savoia e parecchie importanti città del Piemonte, stringendo Torino con un potente assedio. Il principe Eugenio di Savoia, comandante di milizie imperiali, non poteva portare alcun aiuto a Vittorio Amedeo, trovandosi sbarrato il passo dalle truppe del generale francese Vendôme, attestate sulle rive dell’Adige. In aiuto delle truppe sabaude venne un distaccamento di soldati tedeschi al comando del maresciallo Staremberg per il Sempione il quale, senza entrare in Domo, dove il castello era ancora presidiato da truppe spagnole, si portò verso il lago Maggiore, ma non poté collegarsi con le truppe piemontesi, essendo tutto il Novarese e Milanese in mano ai Francesi. Gli Ossolani però dovettero fornire vettovaglie a queste milizie tedesche acquartierate ed inviare anche le milizie 43 locali per difendere i castelli di Angera e Arona. Queste gravi spese furono ripartite sia sull’Ossola Superiore che Inferiore. Il 19 marzo 1704 il Consiglio Generale dell’Ossola è convocato per provvedere alla distribuzione delle spese, per attrezzare il castello di Domo alla difesa, per eleggere un Reggente Generale e provvedere alla salvaguardia dei privilegi ossolani. Il 7 gennaio 1705 sono convocati nuovamente tutti i rappresentanti delle comunità ed i Reggenti dell’Ossola Superiore per far sì che tutte le comunità concorrano al pagamento delle spese straordinarie imposte dalla circostanza. Gli Ossolani, almeno quelli dell’Ossola Superiore, pare non si dichiarino in favore di nessuno dei contendenti, tuttavia le imposizioni militari bisognava pagarle. Nel castello c’era sempre un presidio spagnolo al comando del capitano don Giovanni de Soto e la cosa pubblica era diretta dal pretore don Francesco de Miranette Velasco pure spagnolo. II duca di Vendôme, lasciato il comando delle truppe francesi in Lombardia per assumere quello delle truppe stanziate in Fiandra, non trovò alcuna difficoltà a transitare per l’Ossola per venire al Sempione, il 14-15 luglio 1706, con un seguito di 150 cavalli, segno che questa regione non intendeva reagire con proprie iniziative alla situazione. Ma allorché il principe Eugenio di Savoia riuscì a portarsi con il suo esercito sotto le mura di Torino assediata e raggiungere il duca Vittorio Amedeo, riuscendo a sconfiggere i Francesi nella celebre giornata del 7 settembre 1706, a Domo si fu del parere di predisporre una resa. Era allora sindaco o procuratore del borgo di Domo il nobile Marco Antonio Silva, ex reggente della Giurisdizione, il quale aveva fama di essere partigiano di Francia. Visto come la guerra si era risolta, egli prese l’iniziativa di far passare l’Ossola all’obbedienza dell’Austria, non sappiamo se per opportunismo politico o semplicemente per ambizione. Il capitano spagnolo ed i borghigiani domesi furono da lui convinti a sottomettersi e chiedere protezione agli Austriaci, invitandoli a venire a Domo. Le iniziative di Marco Antonio della Silva furono accette al generale Zumiunghen che era venuto ad occupare Arona e la zona del lago Maggiore, ma irritarono gli altri Ossolani ed in particolare i Reggenti generali della Giurisdizione Antonio Grazioli, Andrea Taddei e Carlo Francesco Pellia, 44 i quali si vedevano esautorati. Sebbene anch’essi fossero del parere di sottomettersi agli Austriaci, non mancarono con lettera dell’11 ottobre 1706 di avvisare tutte le comunità della Giurisdizione dell’arbitrio del Silva che pretendeva una rappresentanza che nessuno gli aveva mai data, dichiarando che si sarebbero subito recati a incontrare il Zumiunghen per il bene della comunità ossolana. Essi poterono di fatto presentarsi al generale, mercé i buoni uffici del conte Borromeo, ed il 14 ottobre 1706 gli Austriaci entrarono in Domo al comando del capitano barone Milben, mentre il piccolo presidio spagnolo con tutti gli onori militari abbandonava il castello. Così l’Oossola entrava a far parte dei domini dell’Austria sotto l’imperatore Giuseppe I, il quale, grato a Vittorio Amedeo II di Savoia dell’aiuto prestato, gli cedeva il Monferrato, la Lomellina, Alessandria, Valenza e la Valsesia. Morto però l’imperatore di vaiolo nel 1711, l’arciduca Carlo che come pretendente al trono di Spagna aveva assunto il nome di Carlo III (di Spagna) ebbe il trono del fratello con il titolo di Carlo VI imperatore. Ma con la pace di Utrecht, in cui i domini spagnoli furono spartiti, lo Stato di Milano e l’Ossola entrarono a far parte dei domini imperiali dell’Austria (1713). Scrivendo di questo periodo il giureconsulto don Paolo della Silva afferma che gli Ossolani sotto l’Impero Austriaco, deposte le armi si sono rivolti ai traffici ed ai litiggi; e quanto giovano i primi per arricchirli, altrettanto servono i secondi per impoverirli. Anzitutto fu dibattuta una lunga, ed astiosa e soprattutto dispendiosa lite fra il sopra ricordato Marco Antonio della Silva ed i Reggenti generali della giurisdizione, che durò fino al 1713 ed ebbe come unico risultato, dissensi, odi e spese. Una grida del 26 agosto 1711, emessa dal Governo al fine di danneggiare la Francia, stabiliva che tutte le merci dirette o provenienti da quello stato fossero soggette a dazio al passaggio per Domodossola. I gabellieri, incaricati della riscossione, estesero però arbitrariamente l’ordinanza fino ad includere anche quelle merci che erano prodotte o consumate in Ossola. Di qui un vibrato ricorso degli Ossolani richiamandosi agli antichi privilegi. Frattanto si era fatto vivo l’impresario del tabacco che pretendeva l’appartenenza dell’Ossola al suo appalto e quindi la privativa della vendita. Altro ricorso per il riconoscimento della esenzione. Ma in questo ricorso gli Ossolani ebbero cura di presentare al re Carlo III, ossia all’imperatore Carlo VI, una formale richiesta di approvazione o riconoscimento degli antichi privilegi contenuti nei famosi capitoli del 1381. Si riuscì di fatto ad ottenere un rescritto del 3 gennaio 1710, dato da Barcellona, ma, come afferma don Paolo della Silva, essendosi nel 1711 presentato questo diploma al Senato per la di lui interinazione, l’implacabile Fisco Milanese prese motivo di muovere al Paese altra ben longa e dispendiosa lite. Non solo furono riprese le antiche e recenti pretese del fisco, ma si riparlò della carta da bollo, dei dazi, ecc. Finalmente il 26 gennaio 1712 si ebbe la Dichiarazione Magistrale con cui l’Ossola era riconosciuta nel possesso degli antichi privilegi, notificata poi ai pretori dell’Ossola con lettera del 25 febbraio 1712. Non si creda però che tutto questo sia avvenuto per pura magnanimità o senso di giustizia da parte del Governo. Le comunità ossolane dovettero sborsare al fisco per spontaneo sussidio da essi offerto all’Illustrissimo Magistrato Ordinario di questo Stato di Milano, per beneficio di Sua Cattolica e Cesarea Maestà, lo sa Iddio con quale spontaneità, la bella somma di 21.000 lire imperiali, di cui 10.212 lire e 4 soldi furono a carico della giurisdizione di Domo. Leggendo gli atti di queste liti ed i ricorsi degli Ossolani si sente tutta l’amarezza del popolo di queste montagne per essere sistematicamente beffato dai propri governanti e, fra le righe, proprio dove si attesta tanto sviscerato ossequio per il padrone, c’è una fredda ed impressionante ironia: Riconoscendo la scarsezza in cui si trova la Real Mensa in tempo di tanto bisogno per la difesa dell’Adoratissimo Monarca, e che tutte queste novità vengono suggerite dalle necessità de mezzi, non già perché la chiara ragione di quel paese temi di comparir nuda, e dubiti di non essere accolta da un tribunale, così retto, che con viscere di padre riguarda la conservazione de’ sudditi di Sua Maestà commessi alla di lui tutela, ma per anco in quest’occasione palese alla Maestà Sua, et alle SS. VV. Illustrissime il sviscerato zelo che nodriscono per li vantaggi del Padrone e per la causa pubblica, non ricusa con spontaneo sagrificio di quel di forze che ancora dura in quell’ormai esangue Corpo, tributar servitio alla Regia Camera per una volta tanto, (oltre le grandi somme in così pochi anni pagate) di altre lire sei mila, ecc. Poi... da seimi- la si dovrà giungere a 21.000 regolarmente quietanzate il 1° febbraio 1712. L’imperatore d’Austria Carlo VI nel 1718 incaricò una speciale Commissione o Giunta di fare un nuovo e generale censimento che potesse poi servire come base di calcolo alle imposte. E poiché l’imposta veniva elevata sui fondi, sulle persone e sulle merci, il censimento, assieme a dati statistici riguardanti la popolazione ed il commercio, esigeva una misura precisa delle proprietà fondiarie e relative rendite. Si cercò di assoggettare anche l’Ossola a questo generale censimento che sparse dappertutto misuratori e loro aiutanti. Ma gli agrimensori trovarono non poche difficoltà in Ossola dove i fondi, a causa della estrema suddivisione, sono piccoli, irregolari e numerosissimi. Si dovette allora ripiegare dividendo semplicemente i territori comunali in corpi di ugual superficie, segnando in essi i vari proprietari, ma rinunciando alla definizione più precisa dei fondi appartenenti ai singoli proprietari. Naturalmente le notifiche si estendevano anche alle abitazioni, cascine, mulini, ecc. ed i notai vennero obbligati alla denuncia dei contratti di compravendita degli immobili, specificando misure e nomi dei contraenti. Nel 1725 si tentò anche una stima del valore della proprietà. Ciò significava che si era in procinto di estendere anche all’Ossola un nuovo sistema fiscale che avrebbe spazzato via tutti i privilegi ed esenzioni a cui fino allora si era guardato come alla salvaguardia della possibilità di sussistenza. Perciò i rappresentanti dell’Ossola fecero subito ricorso perché l’Ossola fosse esentata dal censimento. Il voto del fisco del 7 ottobre 1727 fu favorevole all’Ossola Superiore, ma doveva essere approvato dall’imperatore. Per sostenerne la causa a Vienna gli Ossolani si erano inizialmente affidati ai buoni uffici del vigezzino Pietro Andreoli, il quale però nel 1729 se ne volle esimere. E poiché la cosa stava molto a cuore agli Ossolani, su proposta dei sindaco generale della Giurisdizione dottor Carlo Ruga Silva, il 13 novembre 1729, venne affidata al giureconsulto Paolo della Silva il quale condusse felicemente l’affare in porto ottenendo dall’imperatore con diploma del 22 agosto 1731, intimato alla Giunta per il censimento, la bramata esenzione. La guerra per la successione al trono di Polonia (17331738) ebbe notevoli conseguenze anche in Ossola. Es45 sendosi Carlo Emanuele III, re di Sardegna, alleato con la Francia con il trattato del 26 settembre 1733, gli eserciti franco-sardi invasero la Lombardia, occupando Milano nell’ottobre del 1733. Frattanto in Ossola insorsero gravi perturbazioni. Il capitano del castello di Domo, Giovanni Antonio Zunica, pretese rifornimenti di vettovaglie a spese dell’OssoIa. Si opponevano gli Ossolani invocando i soliti privilegi, ma il capitano Zunica continuava a fare richieste e minacce. Si riuscì anche ad ottenere dalla Giunta di Governo lasciata dal conte di Daun, governatore di Milano, in sua vece, un’ordinanza che proibiva espressamente al castellano di Domo di esigere alcunché dagli Ossolani. Questi però non si acquietò, anzi si fece sempre più ostile, rivoltando contro il Borgo le artiglierie del castello e facendo sparare alcuni colpi intimidatori contro le case di alcuni borghesi. I Domesi sentendosi prigionieri nel borgo che il Zunica aveva fatto chiudere, fecero suonar le campane a martello. Il segnale richiamò dalle valli le milizie locali che giunte a Domo si limitarono però solamente a riaprire il borgo, costringendo i soldati del presidio a ritirarsi nel castello. Riferisce il giureconsulto Paolo della Silva che il castello era tenuto sotto sorveglianza dai borghigiani, che un soldato fu ucciso da un colpo di fucile sparato da una guardia appostata sul campanile della chiesa di S. Francesco e che lo stesso castellano corse il pericolo di finire allo stesso modo. Una nota dell’arciprete di Domo dice che la sera del 14 novembre 1733, alcuni soldati del castello fecero una sortita nel borgo sparando alcuni colpi contro i borghigiani armati; questi risposero uccidendo un soldato di nome Raimondo Bellandel. Il giureconsulto Paolo della Silva, su invito del re di Sardegna e del Senato di Milano, venne a Domo a parlamentare con il castellano. Questi avendo saputo che ormai tutte le città dello Stato di Milano erano in mano dei Franco-Sardi si dichiarò pronto alla capitolazione, e le ostilità furono sospese. Venuto in Ossola a nome del Re di Sardegna il cavaliere gerosolimitano Antonio Grisella, fu sottoscritta la capitolazione; la resa fu fatta con tutti gli onori militari. Il Zunica con la sua guarnigione spagnola se ne andò, lasciando il castello al cavaliere Grisella che lo occupò con pochi soldati sardi. Con la susseguente pace di Vienna del 1738, il regno 46 di Sardegna si estese a Tortona e Novara. Con il ritorno del Milanese all’imperatore Carlo VI, il castello di Domo fu rioccupato da milizie austriache e per qualche anno si ebbe un po’ di pace. Morto nel 1740 l’imperatore Carlo VI si riaccese nuovamente la guerra per la successione al trono austriaco. In virtù della così detta Prammatica Sanzione su quel trono era salita l’arciduchessa Maria Teresa che era osteggiata da Francia, Spagna, Prussia, Sassonia, Baviera ed anche dal re di Sardegna. Questi però si staccò dagli alleati quando si accorse che non erano disposti a cedergli la Lombardia a cui aspirava. Alleatosi con l’Austria con il trattato di Worms (13 settembre 1743), Carlo Emanuele III, rinunciò al Milanese, ma in compenso dei suoi aiuti all’Austria ottenne il Vigevanese, l’Alto Novarese, l’Oltre Po pavese e la città e territorio di Piacenza fino al Nure. La notifica alle comunità cedute fu data con il manifesto del 25 gennaio 1744 dal principe di Koblovitz ed il giorno seguente il re di Sardegna ne prese formalmente possesso. Negli anni 1742-1743 il castello di Domo era per lo più presidiato dalle milizie locali a cui era affidata anche la difesa del Borgo. Unitamente alle vicende di cui abbiamo parlato l’Ossola in questo secolo soffrì di nuove e gravi difficoltà. La prima fu quella ricorrente di un’alta mortalità specialmente infantile dovuta ad epidemie che infierirono in alcuni anni: la difterite, l’influenza, ed il vaiolo. Scorrendo i libri dei morti si rinvengono lunghi elenchi di bambini rapidamente mietuti dal morbo. Per parecchie settimane, ogni giorno numerose culle di bambini attendevano nelle chiese la sepoltura. Le attestazioni che ci sono rimaste sono toccanti. Di tutti il più terribile era il vaiolo che serpeggiava in continuità ricomparendo improvviso e letale nelle valli ossolane. Il notaio Cosimo Grossetti di Montescheno annota: Din di l’anno 1746 fu una gran mortalità di bestie nel Piemonte, Novarese e Milanese, Pavese e Umelina. Basta solo dire che nelle terre dove erano mille bestie bovine ne restano solo circa quattro o cinque ed un par di bovi avanzati dal detto male si prezavano cento doppie, cento zecchini e cose simili. Nel qual anno 1746 fu ancora una tal strepitosa per non dir rabbiosa guerra nello Stato di Milano che il Novarese, Vercellese e parte del Piemonte patì un gran danno, chiamato quasi la sua somma rovina, non Strada del Sempione, ponte di Crevola. Da una stampa di Lorry. potendosi veder altro di peggio, salvo la peste. Per la qual guerra patì qualche spavento e danno ancor l’Ossola facendosi delle scorrerie in detta Ossola almeno fino a Vogogna nel mese di marzo or delli Todeschi or del nostro re parti avversarie. Pretendevano sottomissione or l’una or l’altra, mettendo in grande affano li habitanti perché se aderivano o mostravano accoglienza ad una parte come erano sforzi a dimostrare anche senza genio, gl’era minacciato il saccheggio dall’altra. Basta dire che uno di Vogogna per aver dato alloggio ad un oficiale spagnolo fu bastonato severamente ed andò a rischio d’esser impiccato; altri per aver detto Viva a una parte furon bastonati e multati dall’altra; sì che si può immaginare in qual intrico si trovava la povera gente. Di più il detto anno 1746 per essersi i Spagnoli impadroniti di Pavia e di tutto il Milanese ed Umelina, impedirono il corso del sale che veniva nel Ossola ed in tutto il Novarese e Vercellese, sì che tali paesi dovettero patir penuria di sale, per il che molti s’ammalavano, massime nella Valsesia e Valanzasca, ma nella val Antrona stettero ben alcuni poveri qualche tempo senza, ma essendosi messi alcuni mercati di Vigezzo ed anche di Pallanzeno, ne facevano venire dalla parte della Svizzera. La epizoozia del bestiame bovino era stata importata in Italia da buoi ungheresi venuti in Lombardia per il rifornimento delle armate austriache nel 1711 e si sparse in tutta l’Europa. Infestò la Francia, la Germania negli anni 1742-43, poi l’Italia fino al 1747 giungendo anche nell’Ossola, dove causò danni gravissimi al patrimonio zootecnico, riapparendo nel 1795. Si calcola che in Europa dal 1711 al 1776 siano andati perduti per questa pestilenza più di sei milioni di bovini. In Ossola molte famiglie che perdettero quasi tutto il bestiame e non poterono rinnovarlo, perché troppo povere, dovettero emigrare. Alla metà del 1700 un buon terzo dei contadini allevatori di bestiame cambiò mestiere. E poi le intemperie. Ricordiamo il 1740: anno freddissimo, in cui non poterono maturare non solo le uve, ma neppure le castagne; il 1743, particolarmente sicci47 toso, in cui si poté raccogliere solo poca segale e scarso vino; il 1744 in cui alla Madonna del Rosario (7 ottobre) venne una tal innondatione d’acqua che tra Vogogna e la Pieve (di Vergonte) non si vedeva più terra ma bensì v’era un lago. La Toce a Vogogna andò nelle cantine e lasciò raso fino su le topie. Alla Pieve un riale essendo saltato fuori dal suo canale portò via alcune case con la gente senza lasciar segno ove eran piante, con danno di molte migliaia di lire alle campagne. Lo Strona portò via il così bel ponte di Gravalona ove andò l’acqua nelle case, portò fuor molta robba, perfino credenze con dentro pane, formaggio ed altri cibi, bestie ancor attaccate alla presepe. E poi la grande e generale alluvione del 14 e 15 ottobre 1755 che devastò tutta l’Ossola. Il re Carlo Emanuele III, nel tentativo di promuovere una migliore e moderna amministrazione dello Stato promulgò nuove costituzioni e leggi, entrate in vigore il 16 maggio 1770. All’Ossola ne fu data comunicazione il 30 aprile 1770, dichiarando l’utilità di leggi uniformi per tutto lo Stato. Gli Ossolani però insistettero presso il Governo per ottenere delle deroghe su alcuni punti. Queste vennero concesse dal Senato di Torino con decreto del 27 luglio 1771, estendendole sia all’Ossola Inferiore che Superiore ed alla val Formazza. Con le nuove costituzioni scomparve tutto il vecchio ordinamento civile e criminale. L’amministrazione della comunità era affidata al consiglio, il quale poteva riunirsi solo con la partecipazione del pretore, di un suo delegato o di persona di fiducia, detta «castellano». Il pretore di Domo con le R. Patenti dell’11 luglio 1771 ebbe autorità di «intendente». L’intendente, capo della giurisdizione o pretore, poteva annullare ogni delibera del consiglio, contraria agli interessi del Comune o non conforme alle leggi. Consiglieri potevano essere eletti tutti i capifamiglia, sebbene fossero in numero limitato; ma era ufficio che non si poteva rifiutare. Il consiglio a sua volta eleggeva il sindaco nella persona del consigliere più anziano, il quale durava in carica sei mesi od un anno secondo che il numero dei consiglieri era di almeno quattro o almeno due. Le spese comunali erano espressamente controllate e in taluni casi vietate dalla superiore autorità. Ogni consiglio doveva avere anche un segretario approvato dall’intendente. 48 Questa prima riforma dell’amministrazione comunale fece cadere antiche consuetudini, però indusse nei comuni ossolani istituzioni più moderne ed omogenee. Non si segnalano importanti avvenimenti nella seconda metà del secolo XVIII in Ossola fino a quando non giunsero anche in questa regione le scintille del fuoco innovatore e distruttore della rivoluzione francese che nel 1793 rovesciò la monarchia per istituire la repubblica, scatenando una reazione a catena di rivoluzioni e guerre in tutta l’Europa. Il re Vittorio Amedeo III, unitosi ad altre potenze europee, partecipò alla prima coalizione contro la Repubblica francese. Lo Stato Sardo si armava in previsione di un periodo di guerra che non si sarebbe potuto evitare. L’editto dell’arruolamento del 1793 colpì naturalmente anche l’Ossola. Questo obbligava ciascuno dei tre dipartimenti dell’Ossola, Domodossola, Vogogna e val Vigezzo, a fornire ed armare un contingente di soldati. Il 20 gennaio 1793 sì riunì a Domo il Consiglio provinciale, il quale, prendendo atto della situazione, con un certo slancio patriottico deliberò di difendere colla maggior forza questa provincia da ogni invasione che derivar potesse da parte dei Francesi senza ricever verun stipendio dalle Regie Finanze, ma a spese di questa Provincia, e ciò in conferma della dichiarazione già fatta nell’antecedente Consiglio del 31 ora scorso dicembre (1792), accettando la graziosa offerta fatta da S.M. delle armi, munizioni ed attrezzi militari. Il Consiglio decise di fornire quattro compagnie, corrispondendo a ciascun soldato la paga di 30 once di pane. Capo ed ispettore delle milizie ossolane fu eletto l’avvocato Giuseppe Maria Facini. Il ministro della guerra Di Gravanzana con lettera del 30 gennaio 1793 approvò queste delibere. Ci fu in quel momento un notevole senso civile e patriottico, dovuto in parte alle notizie allarmanti provenienti dalla Francia circa i disordini che accompagnavano la rivoluzione in atto. Si ebbero iniziative particolari a Montecrestese ed in valle Antigorio per formare corpi speciali per la difesa dei confini dell’Ossola. Purtroppo il Facini, divenuto per la sua prepotenza e scarsa sensibilità, odioso al popolo, fu osteggiato da gran parte delle milizie ossolane, i cui rappresentanti, riunitisi al ponte di Crevola il 15 giugno 1795, stilarono un vibrato ricorso al Re per esonerarlo dalla carica di comandante militare e reggente. A questa riunione mancarono i rappresentanti di alcune comunità, fra cui quelli di Domo, di Villa e della valle Antrona. Rispose il Re da Moncalieri il 4 agosto 1795, delegando il prefetto di Pallanza Bellini, secondo la richiesta, a presiedere i consigli provinciali. Di ciò informato, il Facini, l’8 agosto annunciava la riunione del consiglio provinciale per il giorno 16 seguente e la sua rinuncia alla carica di reggente e di comandante delle milizie. Ma i rappresentanti protestatari la disertarono ed il 30 agosto, sotto la presidenza del prefetto Bellini, si riunirono autonomamente e, dopo aver riprovato il comportamento del Facini e sottopostolo al giudizio di una commissione amministrativa, elessero un nuovo reggente e capitano. Con tutto questo non si deve credere che in Ossola i principi della rivoluzione francese e le idealità che l’avevano provocata fossero sconosciuti. La circolazione degli uomini e delle idee era sempre stata ampia e favorita dalle emigrazioni stagionali o semipermanenti di una elevata percentuale degli uomini più attivi ed intraprendenti. Fra strati di patente conservatorismo filtravano e si muovevano, prima nascostamente, ma poi sempre più palesemente idee riformistiche, impulsi decisamente rivoluzionari e idee politiche repubblicane. I successi dei Francesi, legati alle fortune dell’astro napoleonico, erano paventati dai conservatori e aspettati ed esaltati dai repubblicani. La Repubblica Cisalpina, voluta da Napoleone, favoriva la penetrazione delle idee rivoluzionarie e fomentava impulsi eversivi anche nell’Ossola. Un tentativo rivoluzionario fu organizzato a Pallanza da Giuseppe Antonio Azari. Scoperto il complotto, l’Azari fu condannato a morte per impiccagione il 29 novembre 1796; il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Altre congiure e associazioni rivoluzionarie pullulavano in quel periodo negli stati del re di Sardegna, fomentate dalla Francia che tentava di provocare il rovesciamento del trono, tenuto allora da Carlo Emanuele IV succeduto nel 1796 a Vittorio Amedeo III, e l’adesione alla Repubblica Cisalpina o addirittura alla Francia. Alcuni fuoriusciti piemontesi e patrioti cisalpini ed altri elementi rivoluzionari internazionali, allo scopo di accelerare i tempi, con la protezione e l’appoggio della Repubblica Cisalpina che fornì armi e direttive, si riunirono in numero di 800 uomini a Varese e fra il 13 e il 14 aprile 1798, da Laveno attraverso il lago Maggiore, giunsero a Intra-Pallanza. Fu prima loro preoccupazione di imporre la rivoluzione, piantando l’albero della libertà, stabilendo una nuova amministrazione e taglieggiando i ricchi e nobili locali. Comandava questi così detti patrioti il francese Giovanni Battista Leotaud e i suoi luogotenenti erano il francese Lions ed il savoiardo Seras. Da Pallanza vennero ad Ornavasso, dove posero il campo, cercando di suscitare e ottenere l’adesione delle popolazioni ossolane. Queste però non si mostrarono entusiaste, anche perché le contribuzioni militari immediatamente imposte risultavano estremamente sgradite. Un nucleo di partigiani per i Francesi esisteva in verità a Vogogna dove il popolo, sollecitato dall’avvocato Filippo Grolli, da Giuseppe Antonio Cadorna, Giulio Albertazzi e Angelo Zaretti, accettò la novità e ballò la carmagnola attorno all’albero della libertà. Poi un gruppo di armati, guidati dal capitano Angelo Zaretti, riuscì a penetrare nel borgo di Domo il 20 aprile seguente ed a farsi consegnare il castello. Anche a Domo si cercò di sollecitare adesioni che furono tuttavia piuttosto scarse. Intanto l’Albertazzi si recava con alcuni armati ad incontrare il comandante Fontana che con una schiera di sessanta dragoni risaliva la valle Cannobina per raggiungere la valle Vigezzo. Riunitisi a Santa Maria Maggiore anche lì si imposero le solite cerimonie che istituivano la repubblica e la municipalità. Ma il popolo, sebben chiamato dagli insoliti tocchi di campana, non si mostrò entusiasta. Del resto giunsero subito notizie allarmanti che consigliavano molta prudenza. Quattromila soldati dei reggimenti di Savoia, della Marina, di Pever Im-Off, di Zimmerman e di Bachman stavano concentrandosi a Gravellona, inviati dal Re, per puntare verso Ornavasso dove il Leotaud cercò di organizzare la difesa. Nell’imminenza della battaglia ben pochi degli Ossolani che avevano fatto l’atto di adesione accorsero ad Ornavasso. Il 21 aprile 1798 le prime milizie regie avevano già raggiunto Gravellona ed il giorno seguente erano pronte alla battaglia. Lo scontro avvenne a sud di Ornavasso ed ebbe inizio 49 verso le dieci di mattina. Fu una battaglia in piena regola che ebbe alterne vicende, dove alla fine la netta superiorità numerica e tattica dei regi ebbe la meglio sui repubblicani. Appena infatti un corpo di sei compagnie di granatieri di Savoia e della Marina riuscirono a passare il Toce e prendere alle spalle l’esercizio del Leotaud, la sorte della battaglia fu definita. Nonostante il valore dei repubblicani, 150 morirono con le armi in pugno, 400 furono fatti prigionieri ed il resto, completamente sbandato, cercò la salvezza sui monti di Premosello e Vogogna, tentando di guadagnare luoghi più sicuri. Alcuni morirono di freddo e di stenti nel tentativo di raggiungere la valle Vigezzo, e quelli che vi riuscirono furono fatti prigionieri dalle milizie locali e tradotti nelle carceri di Domodossola. Anche i capi furono presi. A Domodossola un consiglio di guerra pronunciò sentenza capitale contro i rivoltosi. I giorni 28, 29 e 30 aprile ne furono fucilati 64. Altri furono poi tradotti a Casale per subire la stessa sorte. Dei capi lo Zaretti era stato già proditoriamente colpito a morte in val Vigezzo il 24 aprile a S. Maria Maggiore quando presumeva di essere ormai salvo. Giulio Albertazzi fu fucilato a Pallanza il 19 maggio. L’avvocato Grolli, riportato da Casale a Vogogna, fu giustiziato sulla piazza del Pretorio il 30 maggio. Unico si salvò dei comandanti ossolani il vogognese Giuseppe Antonio Cadorna che, per merito della coraggiosa moglie, ottenne la grazia dal Re. Il Leotaud, fatto prigioniero con il Lions fu fucilato a Casale. Le stragi degli infelici prigionieri sarebbero continuate se le proteste della Francia non avessero costretto il Re a sospendere le esecuzioni ed a concedere una amnistia per tutti il 20 giugno di quell’anno 1798. Il re Carlo Emmanuele IV che con le R. Patenti del 7 marzo e l’Editto del luglio 1797 aveva abolito il sistema feudale con tutte le sue implicazioni, dovette riconfermare tali leggi con la Patente del 2 marzo 1799 (2 ventoso, anno VII della Repubblica Francese secondo il nuovo calendario). L’8 dicembre seguente Carlo Emmanuele IV fu costretto a dimettersi e venne proclamato il Governo repubblicano. Fu istituito il Dipartimento del Novarese ed istituita la municipalità nelle città e grossi borghi. In Ossola fu inviato il commissario Giacomo Zuffinetti per 50 la necessaria organizzazione. La municipalità di Domodossola comprese tutta l’antica giurisdizione e quindi anche Villa e la valle Antrona. La municipalità era diretta da un presidente, un commissario nazionale e quattro amministratori i quali rispondevano direttamente all’Amministrazione centrale di Vercelli. All’inizio del 1799 fu organizzato un plebiscito allo scopo di ottenere la bramata unione con la Francia, in verità bramata solo da pochi fanatici, ma decisa dal Governo provvisorio. Con abile propaganda si ottenne l’effetto desiderato. Anche nell’Ossola molte furono le adesioni. Ricordiamo a questo proposito che anche a Villa e in valle Antrona non mancarono i fautori della unione con la Francia. Questo ci sembra almeno dedurre dal fatto che un certo Cassoletti di Villa è l’autore di un Discorso tipografico in occasione della generale adesione ossolana all’unione francese, stampato a Torino nel 1799. Ma l’orizzonte politico era tutt’altro che chiaro. Continuava con alterne vicende la lotta contro la Francia da parte delle potenze coalizzate. In una seconda coalizione si unì anche la Russia ed un esercito austro-russo comandato dal generale Suwarow venne in Italia. Milano fu presa dagli austro-russi il 28 aprile, Novara il 3 maggio e Torino il 27 maggio 1799. In Ossola si sfaldò la municipalità stabilita dai repubblicani, si ritornò al vecchio ordinamento, e si ripeterono le adesioni questa volta al generale Suwarow, grati di essere stati «liberati». E naturalmente si rinnovarono le imposizioni di forniture di bestiame e servizi, le requisizioni e le angherie. In Ossola, per guardare i passi alpini fu mandato un corpo di austriaci comandati dal principe Vittorio de Rohan, con il compito di impedire infiltrazioni attraverso il Sempione. Le truppe dei generali Laudon e Wuckassovich stazionavano invece presso Arona; di queste un distaccamento russo al comando del colonnello Rosales e seimila austriaci del generale Nobile vennero a stare in Ossola. Si comprende che con tutta questa massa di soldati da sfamare gli Ossolani si sentissero letteralmente in guerra per la sopravvivenza. Intanto per aprirsi la via a scendere in Italia dalla Svizzera, il generale Massena al comando di una armata francese, inviava verso il Vallese ed il Sempione il generale Giacobini con 4.500 uomini. Questi non trovarono molta difficoltà a sloggiare le truppe del Rohan, il qua- le ai primi di settembre, pensando di non poter opporre sufficiente argine all’avanzata nemica, si ritirò a Vogogna e poi a Ornavasso, dove organizzò la resistenza. I Francesi attorno al 20 settembre raggiunsero Piedimulera, ma avendo ricevuto l’ordine di retrocedere, si limitarono, pare, a scopo tattico e intimidatorio ad agganciare gli Austriaci impegnandoli in una scaramuccia a Migiandone e Gravellona (29 settembre 1799) per ritirarsi poi al dì là del Sempione. Con il ritorno delle truppe austriache del Rohan che passarono in Ossola tutto l’inverno si accrebbero i tormenti delle requisizioni di bestiame, foraggio, viveri, legname e soprattutto di lavoro coatto per la costruzione di una linea di trincee difensive fra la punta di Migiandone e Bettola, e relativo campo trincerato. Negli ultimi due anni gli Ossolani avevano più volte piantato, strappato e ripiantato il famoso albero della libertà e giurata obbedienza ripetutamente a questo e a quello, ai Sardi, agli Austriaci, ai Francesi, ai Cisalpini ecc., cercando di salvarsi dalle prepotenze di questo o quel «liberatore», ma la conclusione più ovvia fu la miseria non solo della povera gente, ma di tutti. Ridotte a zero le finanze locali, il patrimonio zootecnico, ricostruito con infiniti sforzi, non esisteva più; si fu costretti a vendere le suppellettili d’oro o d’argento delle chiese per pagare i contributi imposti dagli occupanti di turno. Questo stato di cose fu una chiara beffa per tutti, sia conservatori che rivoluzionari; e furono ben pochi i fanatici che non se ne accorsero. Cronache del secolo XIX Nella primavera del 1800 Napoleone prende l’iniziativa di tornare alla riconquista dell’Italia scendendo attraverso le Alpi in Piemonte ed in Lombardia. Il 9 maggio è a Ginevra e punta verso il passo del Gran San Bernardo ancora innevato. Gli eserciti austriaci, comandati dal generale Melas, tentano invano di impedire l’impresa. Napoleone riesce, superando difficoltà inimmaginabili, a raggiungere il passo fra il 15 ed il 21 maggio e poco dopo si presenta nella pianura piemontese. Intanto un distaccamento francese, forte di 1000 uomini comandati dal generale Béthencourt, tenta il non meno difficile passo del Sempione ed il 26 maggio, sotto l’incombente pericolo di valanghe, le trup- pe francesi vengono a contatto a Gondo con quelle austriache del generale Laudon. Queste però, dopo aver tagliato o fatto saltare i ponti della difficile strada fra Gondo ed Iselle, si ritirano dalla val Divedro lasciando praticamente libera l’avanzata dei Francesi. Il principe di Rohan, appena si rende conto di correre il pericolo di essere intrappolato nell’Ossola Superiore, ordina l’abbandono di Domo e concentra le sue truppe oltre i trinceramenti di Migiandone e Bettola; anzi, poco dopo, non sentendosi sicuro neppure in quella posizione, si ritira completamente dall’Ossola. Infatti giunge notizia che un grosso contingente di soldati, quasi tutti italiani, al comando del generale Lecchi, è prontamente passato dalla val d’Aosta ad Alagna in Valsesia e sta per giungere sul lago d’Orta da Varallo. Così il 31 maggio l’Ossola è interamente sgombra dagli Austriaci e militarmente occupata dai Francesi. Si ricostituisce la municipalità, si fanno epurazioni e controepurazioni, si bruciano i documenti compromettenti. Il 14 giugno Napoleone vince la grande e decisiva battaglia di Marengo. Il 20 luglio si ricostituisce la Guarda nazionale. Il 15 ottobre viene ricostituita la Repubblica Cisalpina che nel 1802 prende il nome di Repubblica d’Italia. Un decreto del 13 ottobre 1800, ma datato dal 7 settembre precedente, annette alla Repubblica Cisalpina tutta la regione fra la Sesia ed il Ticino, comprendente anche il Novarese e l’Ossola. Il decreto sopra citato conteneva anche un grosso particolare che interessava l’Ossola direttamente. Si stabiliva infatti l’immediata apertura di una nuova strada militare fra il lago Maggiore ed il Vallese attraverso l’Ossola ed il Sempione. Era un progetto già espresso da Napoleone nel 1798 e nelle intenzioni del generale aveva soprattutto funzione militare. Doveva infatti essere una strada capace di sopportare il traino pesante delle artiglierie e dei carriaggi militari permettendo agli eserciti francesi e dei loro alleati un rapido spostamento attraverso le tanto temute Alpi. Le spese, che sarebbero state sostenute dalla Repubblica Cisalpina e da quella Francese, erano preventivate in 50.000 franchi al mese fino a lavoro finito. Il decreto stabiliva anche il dislocamento in Ossola di un battaglione di 500 uomini agli ordini del generale Turreau, incaricato della esecuzione del proget51 to. A Milano questo progetto tanto dispendioso non fu certo visto di buon occhio, ma una volta tanto, sebbene concepito in funzione puramente militare, sarebbe stato proficuo sia per la Lombardia che per l’Ossola. Il progetto fu messo immediatamente in esecuzione e portato avanti con incredibile vigoria. Fu naturalmente requisito molto lavoro sul luogo e gli Ossolani ebbero da sopportare notevoli angherie non solo per il lavoro, ma anche per le provvigioni di bestiame, foraggi e alloggi agli operai ed alle truppe. La parte italiana fu completata nel 1805 ed una iscrizione scolpita sulla viva roccia della galleria di Gondo presso il confine, ricorda quest’opera voluta dal genio di Napoleone, ma fatta a spese degli Italiani: AERE ITALO. 1805. NAP. IMP. A titolo informativo giova qui dare alcune notizie su quest’opera che ai suoi tempi fece enorme impressione. Vi furono impiegati per la costruzione fino a 3.000 operai al giorno; le rocce furono attaccate con le mine, consumando oltre 160.000 quintali di polvere da sparo. La costruzione costò un enorme capitale e molte vite umane. La coscrizione militare obbligatoria, introdotta nel 1802, fu molto mal sopportata dalle popolazioni ossolane che si sentivano scarsamente invogliate ad accettare che i giovani diventassero carne da cannone nell’armata italiana al servizio dell’ambizione di Napoleone. La Repubblica non ebbe lunga durata. Infatti nel 1805, Napoleone, divenuto imperatore di Francia, cinse anche la corona del regno d’Italia (23 maggio) dove pose a governare il viceré Eugenio Beauharnais. L’Ossola durante questo periodo amministrativamente dipende dal Dipartimento dell’Agogna, il quale fu diviso inizialmente (decreto del 2 novembre 1800) in 17 distretti, fra cui quelli di Domodossola e di Vogogna, e successivamente (decreto del 13 maggio 1801) in cinque distretti fra cui quello di Domodossola che si estendeva a tutta l’Ossola, suddiviso poi (decreto dell’8 giugno 1805) in due cantoni (Domo e Vogogna). Domo fu quindi sede di sottoprefettura. Nel 1806 fu pubblicato il Codice Napoleonico ed esteso anche al Regno d’Italia con decreto del 22 marzo 1806. Con decreto del 26 maggio 1807 furono abolite le società religiose i cui beni furono confiscati dallo Stato; seguì il 25 aprile 1810 un altro decreto che abolì tutte 52 quelle poche che erano riuscite in qualche modo a sopravvivere al decreto precedente. Questa ondata di giacobinismo ebbe in Ossola i suoi fanatici e provocò notevoli fermenti nel popolo che era molto attaccato alla religione ed alle sue istituzioni. Fu in questo periodo che in Ossola, come del resto in molte parti d’Italia, il fanatismo anti-religioso produsse enormi danni culturali al patrimonio artistico. A titolo di esempio ricordiamo per l’Ossola la distruzione della chiesa duecentesca dei Francescani di Domo, con relativo campanile, la trasformazione del convento dei Cappuccini del Sacro Monte Calvario in caserma, la sconsacrazione di chiese e cappelle a Vogogna e la dispersione di arredi sacri, libri, archivi ed opere d’arte che hanno impoverito l’Ossola. Queste ed altre angherie crearono nel popolo ossolano profonde basi di antipatia per le milizie francesi onnipresenti, in cui troppi erano costretti a marciare per andare a morire nella disastrosa campagna di Russia. Furono molti in questo tempo coloro che disertarono o si diedero alla macchia, aspettando tempi migliori. Dopo la ritirata di Russia ed il decisivo tramonto della stella napoleonica (1813) con la battaglia di Lipsia (16-18 ottobre) anche il territorio ossolano visse nella incertezza e si può dire nell’ascolto degli avvenimenti, le cui notizie erano riportate in patria dai rari sopravvissuti. Proprio nei primi giorni del 1814 numerose compagnie di soldati italiani e francesi stanno rientrando attraverso il Sempione in Italia, stanchi ed abbattuti, sospinti da contingenti austriaci e russi che occupano il Vallese. A Domodossola in quell’epoca comandava la piazza il generale Bertoletti e questi fece qualche tentativo di difendere il passo del Sempione, ma le truppe non erano sufficienti. Ci fu qualche scontro di assaggio a Iselle ed a Gondo, ma non una vera battaglia. Il 1° marzo tuttavia una colonna al comando del colonnello Ponti riuscì ad occupare il valico del Sempione ed il giorno dopo tentò di scendere fino a Briga. Il Ponti però, credendo forse di avere dalla sua parte le popolazioni vallesane, imprudentemente si lasciò circondare dagli Austriaci forti di 200 cacciatori tirolesi affiancati da almeno 100 Vallesani, e fu fatto prigioniero con la sua truppa. Gli Austriaci si portarono immediatamente attraverso la val Divedro a Crevola verso Domo. Il presidio di vo- lontari abbandonò il castello di Domo ritirandosi nella Bassa Ossola. Il 9 marzo 1814 un piccolo esercito di 600 uomini, per metà tedeschi e bavaresi e per l’altra metà disertori italiani e vallesani, come si ha da una relazione al Ministro della guerra italiano, occupò senza colpo ferire Domodossola e l’Ossola Superiore fino a Villa e Vogogna. Il 12 marzo a nome del colonnello barone Seimcheim il capo dei cacciatori vallesani lanciò un proclama roboante alle popolazioni ossolane, che, se sotto alcuni aspetti pare ridicolo, sotto altri ci illumina sulla vera situazione, toccando soprattutto gli equivoci di certe libertà proclamate e la realtà patente delle molte angherie a cui gli Ossolani erano stati sottoposti, prima fra tutte la coscrizione obbligatoria. Il generale Mazzucchelli a cui era stato affidato l’incarico della difesa dell’Ossola, manteneva la linea di difesa a Gravellona, ed un posto avanzato ad Ornavasso. Nell’Ossola Superiore era invece il generale Luxen che aveva il comando delle truppe austriache, ma pare che non avesse precise intenzioni di oltrepassare la linea VillaVogogna. Il 25 marzo 1814 il generale Mazzucchelli, avendo ottenuto il rinforzo di un distaccamento di 215 uomini di fanteria francese ed un altro di dragoni di Napoleone, affrontò gli Austriaci al ponte della Masone dove ci fu una piccola battaglia. Ritiratisi da quel luogo gli Austriaci si concentrarono al ponte di Villadossola dove pure ci fu uno scontro di fucileria e di artiglieria. Temendo però di essere presi alle spalle da un contingente inviato dal Mazzucchelli verso Beura e Domo dal ponte della Masone, gli Austriaci si ritirarono ordinatamente in vai Divedro. In quel medesimo giorno ritornò a Domodossola il Viceprefetto e fu ricostruita la vecchia amministrazione. Prendeva intanto il comando delle truppe dell’Ossola il generale Saint Paul il quale però, come appare dalle sue relazioni inviate al Ministro della guerra, non poté contrastare il fenomeno dei molti disertori che si rifugiavano nelle valli e che non riusciva a intercettare, soprattutto per la protezione e l’omertà delle popolazioni locali e perfino delle autorità ormai stanche di tutte queste traversie. In questo periodo i molti scontenti, sbandati, disertori e insofferenti dell’autorità costituita che si erano ri- fugiati in Ossola e che provenivano in parte dalle vicine regioni del lago Maggiore ed Orta, scesero in aperta ribellione contro lo Stato. Riunitisi in bande, assaltarono parecchie case municipali dei comuni del lago Maggiore e circonvicini distruggendo soprattutto le liste di coscrizione militare, ma spesso mettendo a fuoco interi archivi. L’11 aprile 1814 Napoleone abdicò e poco dopo (23 aprile) anche il viceré Eugenio Beauharnais cedette il regno. Gli Austriaci rioccuparono la Lombardia. Eliminato con gli editti del 25 aprile ed 11 maggio 1814 il Dipartimento dell’Agogna, l’Ossola ed il Novarese cessarono di essere uniti a Milano e si ricongiunsero agli Stadi Sardi. Il 20 maggio 1814 il re Vittorio Emanuele I è nuovamente, dalla Sardegna, di ritorno in Piemonte per riprendere i suoi domini. La caduta di Napoleone per molti Ossolani significava anche il ritorno all’antico ordinamento. Ci si preoccupava ancora della salvaguardia di quei famosi privilegi per i quali erano stato fatte tante lotte e la cui conservazione era considerata necessaria per la stessa sopravvivenza del popolo. La rigida restaurazione voluta dalle potenze vincitrici pareva propizia per questa richiesta ossolana che infatti fu accettata. Il 17 marzo 1815 con decreto camerale gli Ossolani ottennero la conferma dei loro privilegi. Dal 3 giugno alla fine di luglio l’Ossola è continuamente attraversata da numerosi corpi di militari con cariaggi e cannoni. Sono ben 75.000 uomini, 10.000 cavalli, 2.000 carri, 1.300 buoi, 180 cannoni e 6.000 ausiliari dell’esercito austriaco. Questo attraversamento non fu senza le contribuzioni e le solite requisizioni di fieno, bestiame, cibarie ed alloggi a spese degli Ossolani, nonostante i famosi privilegi tornati in funzione. Fu questa però l’ultima loro approvazione. II Regio Biglietto del 23 giugno diede un colpo a tutta la struttura civile dei comuni ossolani togliendo l’antica distinzione tra i vicini e non vicini o appoggiati. Anche questo decreto non incontrò il favore degli Ossolani i quali in qualche caso si mostrarono renitenti alla sua osservanza, ma le richieste dei non vicini furono tali che dovette essere applicato integralmente. E bisogna riconoscere che, nonostante tutto, era una non piccola riforma ed un passo notevole in avanti sulla via dell’ammodernamento 53 dell’Ossola. Con il Regio Editto del 10 novembre 1818 l’Ossola Superiore fu costituita in provincia suddivisa nei mandamenti di Crodo, S. Maria Maggiore, Bannio e Domodossola. Al mandamento di Domo furono aggiunte le Quattro Terre (Masera, Trontano, Beura e Cardezza) e Pallanzeno. Il Regio Editto del 28 settembre 1822 istituiva a Domodossola il tribunale prefetturale. Le Regie Patenti del 10 ottobre 1836 vennero a sopprimere la provincia dell’Ossola che fu aggregata a quella di Pallanza. Fu però ristabilita con il decreto del re Carlo Alberto (15 nov. 1844). Nel 1861 nasce la provincia di Novara e l’Ossola si riduce a sottoprefettura che dura fino al 1927. I privilegi ossolani restarono almeno formalmente in vigore fino al 1848, allorché con la proclamazione dello Statuto furono abolite non solo le Costituzioni del 1770, richiamate in vigore al ritorno in Piemonte di Vittorio Emanuele I, ma anche tutte le leggi particolari concesse nel periodo anteriore. Essi caddero uno dopo l’altro negli anni seguenti senza alcun compenso per gli Ossolani. I progetti per collegare la Lombardia ed il Piemonte con il Vallese ed i paesi transalpini nacquero abbastanza presto, cioè già nel 1856; tuttavia passeranno ancora cinquant’anni prima che divengano realtà con il grande traforo del Sempione. Premeva intanto alla regione ossolana un rapido collegamento con il resto delle regioni subalpine per toglierla dall’isolamento. Anche le diligenze con i cavalli, tanto gloriose con l’apertura della strada napoleonica del Sempione, erano ormai sorpassate. La nuova civiltà industriale era all’insegna del vapore e della locomotiva. Nel 1857 il Parlamento Subalpino con legge del 12 giugno concesse alla società Lavallette la costruzione, senza concorso di spese da parte dello Stato, di una ferrovia da Arona a Domodossola che prevedeva poi il raccordo con le linee svizzere nel Vallese. La società Lavallette costruì effettivamente da Domodossola fino ad Ornavasso un tratto di massicciata con relative opere murarie, ponti ecc. per sistemare il binario della progettata linea: in tutto 14 km. A Villadossola erano stati a questo scopo rinforzati gli argini dell’Ovesca e poste anche le teste del ponte della ferrovia. Ma nel 1865 la società Lavallette fallì e la costruzione fu sospesa. Della massicciata se ne impadronirono i rovi. 54 Il 10 febbraio 1877 il Municipio di Domodossola presentò un memoriale al Ministero dei Lavori Pubblici, a seguito del quale il Governo tolse la concessione alla società fallita, avocando a sé l’impegno di portare avanti il progetto, inserendolo però nel nuovo disegno che prevedeva il collegamento Domodossola-Gozzano per Gravellona, Omegna ed il lago d’Orta. Tuttavia anche la realizzazione di questo progetto andava molto a rilento e pareva che non dovesse mai tradursi in realtà. Il 29 luglio 1881 i comuni dell’Alta e Bassa Ossola inviano una «Petizione al Ministro dei Lavori Pubblici» per il sollecito compimento della linea di accesso al Sempione, congiungente Gozzano con Domodossola. Ci si lamenta anzitutto che dal 1848 in poi siano stati ad uno ad uno annullati quei privilegi ossolani che erano giustificati dalla sfortunata situazione geografica della regione. Mercé le enumerate esenzioni che aveva acquistate a peso d’oro, l’Ossola fioriva per agiatezza dei suoi abitanti, i quali gradatamente vennero spogliati di tutti i benefici, assoggettati a tutte le tasse erariali senza il più lieve compenso, ed oggi corrisponde allo Stato per imposte di diversa natura oltre un milione e mezzo di lire, che, pei sedici anni trascorsi, dal 1865 epoca in cui cessò l’ultima esenzione al corrente 1881, sono oltre 24 milioni di lire versate nelle casse erariali; ed è fuori di dubbio che conquistò il diritto di reclamare la sua parte di concorso ai benefici che lo Stato con larga mano sparge a migliorare le condizioni economiche delle popolazioni; ma non ostante questi suoi titoli più volte messi in evidenza a chi per lo passato resse il supremo potere della cosa pubblica, fu lasciata in tale isolamento ed abbandono che ora le popolazioni devono in maggiori proporzioni emigrare e cercare all’esterno il pane loro tolto dalle eccezionali gravezze e dalla decadenza del commercio un dì fiorentissimo e spostato dal ritrovato dei rapidi mezzi di comunicazione e di trasporto... L’Eccellenza vostra rammenti quanto l’Ossola perdetta rassegnata per il benessere generale della nazione; rammenti la necessità imperiosa che le industrie dell’Ossola provano di poter usufruire dei mezzi economici di trasporto mercé i quali potranno ampliarsi, e raddoppiare la loro produzione con beneficio generale, mentre tantissime altre troveranno potente convenienza d’impiantarsi usufruendo della forza motrice che scorre potente ed inoperosa nei fiumi confluenti del Toce. Piazza del Mercato a Domodossola (Samuel Prout, 1839). Il tratto di ferrovia che collega Novara con Gozzano era il più facile e fu completato nel 1864. Per raggiungere Orta furono necessari altri 20 anni. Il 30 aprile 1887 fu aperto il tratto Orta-Gravellona. A Domodossola la ferrovia arrivò solo l’8 settembre 1888 passando per Ornavasso, Cuzzago, Premosello, Vogogna, Piedimuiera, Pallanzeno e Villadossola. Questa ferrovia fu il primo asse vitale che diede impulso e vigore all’economia ed alle molteplici attività industriali e commerciali dell’Ossola. Villa ne ebbe grandi vantaggi; alla fine del secolo ferveva l’industria siderurgica e ci si avviava allo sfruttamento della nuova fonte di energia che in Ossola sarà tanto importante. È infatti del 1898 l’entrata in servizio della prima centrale elettrica dell’Ossola che la ditta Pietro Maria Ceretti costruì in valle Antrona, alla quale fecero seguito impianti sempre più grandiosi, talmente che nel secolo seguente l’Ossola poté fornire una enorme quantità di energia elettrica non solo alle proprie industrie, ma anche a quelle della pianura lombarda. Tempi moderni All’inizio del secolo XX l’Ossola è tutta un cantiere operoso e risonante di rumori e di insolite favelle. Si lavorava alla costruzione della linea ferroviaria Domodossola-Arona ed al tratto Domodossola-Iselle. Si sta scavando la galleria del Sempione. È questo un capitolo di storia ossolana ed internazionale che merita una trattazione a parte per la sua importanza e per le enormi conseguenze di cui è stata matrice. Ci limitiamo ad accennarne appena, rimandando a pubblicazioni numerose ed esaurienti riguardanti sia il lato tecnico che storico della grande impresa. Se ne parlava già da mezzo secolo. Molti i progetti, gli studi preliminari, gli approcci ed i trattati fra gli Stati interessati. Giunse anche, finalmente, il tempo della realizzazione. Il 1° agosto 1898 a Briga sul versante svizzero si affronta la dura roccia alpina e si dà inizio alla titanica impresa. È una grande ed ordinata battaglia guidata da ingegneri e tecnici e combattuta da schiere di operai che 55 conquistavano il cuore della montagna a colpi di mina. Il 16 agosto si sferra il primo attacco anche sul versante italiano a Iselle. Il lavoro è assunto dall’Impresa BrandBrandau che impiega parecchie migliaia di operai, per la maggior parte italiani, e dispone di nuove e potenti perforatrici idrauliche. Ogni chilometro di avanzamento è una vittoria della scienza, della tecnica e della civiltà, ma è largamente pagata dalle fatiche degli uomini e dalle loro stesse vite. Il 24 febbraio 1905, dopo anni di lavoro ostinato e dispendioso, le due gallerie di avanzamento si abboccano nel cuore della montagna ed il 2 aprile 1905 due convogli imbandierati inaugurano il percorso incontrandosi festosamente a metà della galleria, dove mons. Abbet vescovo di Sion, benedice il traforo. La galleria misura 19.803,1 metri. Il 19 maggio 1906 il re Vittorio Emanuele III venne in visita nell’Ossola con i rappresentanti del governo e, unitamente al Presidente della Confederazione Elvetica, inaugurò il traforo del Sempione. Anche le linee di accesso erano state completate. Il 15 gennaio 1905 era stata ufficialmente aperta la linea Domodossola-Iselle. Attraverso l’Ossola cominciava così a scorrere una delle più importanti correnti del traffico internazionale europeo. 56 Per la realizzazione del traforo del Sempione vennero in Ossola molti operai da altre regioni italiane; alcuni di essi, a lavoro finito, fissarono in questa regione la loro residenza, inserendosi come elementi attivi nel contesto ossolano. In occasione dei lavori del traforo del Sempione sorsero nuove industrie, mentre altre svilupparono la loro attività, portandosi ad una efficienza competitiva. Con l’apertura della linea del Sempione, l’Ossola entrò vivacemente nella storia economica, sociale e politica d’Italia. Crebbero le industrie, vennero sfruttate le sorgenti di energia idraulica per la produzione di elettricità, si avviò un processo di industrializzazione che richiamò lavoratori da ogni parte d’Italia, ma specialmente veneti, romagnoli e calabresi. Anche l’Ossola subì tuttavia i sacrifici della grande guerra mondiale (1915-1918) con un forte contributo di vite umane e visse la crisi post bellica che condusse all’avvento del fascismo e della successiva guerra disastrosa a fianco della Germania (1940-1945). Anche nell’Ossola ci furono movimenti di liberazione in opposizione alle milizie fasciste e tedesche che condussero alla effimera «repubblica» dell’Ossola; quindi la liberazione dell’Italia per opera degli Americani e dei loro alleati, ci portò alle soglie dei tempi più recenti.