Il sacro e la religione
di Nicoletta Bazzano e Francesco Benigno
«Dio è morto». Con questa formula lapidaria si usa esprimere il senso di estraneità, l’emarginazione
della religione dalle vicende politiche del nostro tempo, un’epoca di disincanto dominata da
concetti e valori che prescindono da qualsivoglia fede religiosa. In Europa, in particolare, si è ormai
da secoli venuta affermando una tendenza a separare più o meno nettamente la sfera religiosa da
quella politica, riservando alla prima unicamente il territorio della coscienza, dell’interiorità
individuale. La religione e lo Stato hanno cioè progressivamente distinto, col tempo, i propri ambiti
di influenza. Mentre la prima si interiorizzava, diminuendo la sua presa sulla vita sociale, il secondo
si laicizzava, dotandosi di un sistema di norme del tutto indipendenti da quelle religiose. Sempre più
numerosi divenivano così gli aspetti dell’esperienza collettiva sottratti a qualsiasi riferimento
religioso. Anche i momenti cruciali dell’esistenza, quei passaggi che la religione aveva sottolineato
con eventi pubblici capaci di essere insieme riti sacri e cerimonie sociali, come i battesimi e i
matrimoni sono stati progressivamente desacralizzati.
Questa tendenza alla laicizzazione o, come si usa dire, alla secolarizzazione della vita
collettiva (dal latino saeculum, secolo, inteso come mondanità, vita terrena) è apparsa per una fase
del Novecento dominante e destinata a coinvolgere gradualmente e quasi ineluttabilmente l’intera
società occidentale. In generale il rapporto con la religione si è progressivamente allentato e si è
affermata la distinzione fra credenti, coloro che – in gran numero e in modo più o meno convinto –
professano una fede, e praticanti, quella minoranza che si attiene scrupolosamente alle prescrizioni
religiose.
Recentemente tuttavia sono emersi consistenti e crescenti dubbi sul carattere irreversibile dei
processi di laicizzazione della vita pubblica. Per prima cosa occorre ricordare che la stragrande
maggioranza della popolazione mondiale professa a tutt’oggi, pur con le differenze di
atteggiamento sopra ricordate, una fede religiosa. Su sei miliardi di abitanti del pianeta circa un
terzo, quasi due miliardi, praticano confessioni cristiane, tra le quali prevale quantitativamente il
cattolicesimo con circa un miliardo di fedeli. Oltre un miliardo sono i musulmani, e in numero
simile sono induisti e buddisti. Aggiungendo a queste stime quelle relative alle religioni minori, si
raggiunge la conclusione che più di otto individui su dieci sono in qualche modo credenti o
praticanti di qualche religione.
Alcuni eventi e fenomeni recenti aggiungono ulteriori dubbi sulla validità della previsione di
una definitiva emarginazione della religione dalla vita collettiva. La scomparsa dell’Unione
Sovietica, uno Stato in cui vigeva ufficialmente l’ateismo, è cioè la negazione dell’esistenza di Dio,
ha portato in quei territori a una sorta di reviviscenza religiosa. In Polonia, a lungo soggetta allo
stesso sistema, l’opposizione al regime comunista e il suo rovesciamento hanno visto protagonista
un movimento – Solidarnosc – di marcata ispirazione cattolica. Negli Stati Uniti, d’altra parte,
l’universo delle sette cristiane ha pesato fortemente negli ultimi anni sulla scena politica,
influenzando l’elezione dei presidenti e tentando di condizionare una serie di scelte collettive
rilevanti. Nel mondo cattolico, infine, il papato di Giovanni Paolo II si è segnalato per l’insistenza
sulla necessità di introdurre una forte ispirazione religiosa nella vita sociale e per la tendenza a far
sentire la voce della Chiesa su tutte le più urgenti questioni sociali e internazionali.
Nel mondo musulmano, addirittura, la tendenza prevalente sembra, a tratti, quella di un
ritorno al completo assoggettamento della politica ai principi religiosi. Il fondamentalismo, la spinta
a plasmare l’intera società sulla base dei fondamenti di una fede religiosa, ha una lunga storia, ma
nel mondo contemporaneo si è manifestato con caratteri nuovi: in Libia, nel 1969, con
l’instaurazione di un regime politico-militare guidato dal colonnello Gheddafi; e in Iran un decennio
dopo (1978-79), nella rivoluzione islamica contro lo scià Rezha Palhavi capeggiata da un leader
religioso, l’ayatollah, guida spirituale, Khomeini. L’affermazione in Iran di un regime teocratico,
un regime in cui il potere politico è sotto lo stretto controllo della gerarchia religiosa, ha
incoraggiato l’emergere in altri paesi di tendenze integralistiche, che propugnano la creazione di
società interamente assoggettate alla legge religiosa. L’Islam è così divenuto simbolo di riscatto e di
identità per tutte le popolazioni arabe.
È forse allora utile interrogarsi sul secolare, tortuoso percorso che ha condotto in Europa alla
separazione della sfera religiosa da quella civile; sui contrasti e gli scontri che l’hanno
caratterizzato; sui nodi irrisolti che tuttora permangono. Soprattutto, sull’eredità che ci consegna,
quale impegnativo ma insostituibile bagaglio di conoscenze per il futuro.
Il sacro
In ogni cultura umana vi sono alcuni luoghi (monti, sorgenti, alberi o boschi, in seguito
templi e poi chiese), taluni particolari oggetti, certe specifiche persone (i sacerdoti) che assumono
un rilievo speciale, vengono posti al di sopra dell’ordinario e resi oggetto di devozione e di
sottomissione. Essi sono definiti sacri, cioè dedicati alla divinità e al culto, e quindi separati dal
resto della comunità: sono infatti ritenuti in grado di collegare il mondo materiale, visibile, a un
mondo immateriale e impalpabile, presente accanto a quello terreno. Tutte le società umane hanno
creduto a questo «altro» mondo, invisibile e misterioso, immaginandolo in mille maniere diverse.
Questi luoghi, oggetti, persone sprigionano dunque un fascino senza pari poiché essi sono
l’espressione nel mondo naturale, fisico, di una potenza soprannaturale, metafisica, oltre il mondo
fisico. In quanto punti di contatto con un universo separato, essi sono circondati da particolari
proibizioni, tabù, e prescrizioni che ne regolano l’accesso per i soggetti comuni. Si tratta di regole
per lo più fondate sulla contrapposizione ancestrale tra il puro e l’impuro, tra ciò che si può
avvicinare e toccare e ciò che non si può avvicinare né toccare: una distinzione che sta a
fondamento di quella, più familiare, tra il bene e il male.
La potenza che si manifesta in questi luoghi, oggetti e persone è ritenuta in vario modo
manipolabile attraverso pratiche specifiche, dette magiche, dirette a una sua applicazione nel mondo
terreno. La magia è perciò la credenza nella capacità umana di sfruttare a proprio vantaggio
l’universo misterioso delle forze invisibili e ultraterrene. Il sacro va, tuttavia, molto al di là del
magico, accogliendolo e al tempo stesso superandolo. Un luogo, un manufatto, una persona sono
infatti sacri non solo perché in grado di incarnare o attivare forze soprannaturali, ma soprattutto
perché capaci di spiegare la realtà della vita, di fornire senso a ciò che sembra non averne – il
dolore e la morte – e di offrire una visione del mondo che includa e spieghi il destino di ciascuno, il
futuro terreno ma soprattutto la sorte ultraterrena.
L’insieme di credenze, riti, istituzioni e uomini che organizzano formalmente il sacro si
chiama religione. La religione, in altre parole, è la forma di organizzazione sociale del sacro, e cioè
quel processo attraverso cui i potere e i significati che dalla dimensione del sacro si sprigionano
vengono codificati, gerarchizzati, classificati e tradotti in istituzioni. La religione opera dunque un
processo di delimitazione, racchiudendo e circoscrivendo, come dice l’etimologia della parola
stessa «religione», che deriva dal latino relegere, raccogliere, l’area del sacro. Ciò significa
distinguere lo spazio sacro, quello dove si svolgono i culti, dallo spazio profano, posto fuori dal
tempio, dal recinto religioso. E dividere le persone sacre, o sacerdoti, dalle persone comuni, o laici.
E ancora, significa scandire un tempo sacro, il giorno della preghiera, o festivo, come differente da
un tempo ordinario, o di lavoro.
Oltre a ciò, la religione organizza poi, attraverso i riti, l’accesso controllato della
popolazione al sacro. Si tratta di cerimoniali che consentono ai fedeli di partecipare al gesto di
congiunzione con la divinità, il sacrificio, e di accostarsi, attraverso la mediazione dei sacerdoti, alla
parola e alla volontà che sono credute derivanti da un mondo ultraterreno. Il sacrificio rappresenta,
in altre parole, la sottomissione collettiva alla volontà divina attraverso il dono al Dio di essere
viventi, beni od oggetti che rappresentano la vita stessa della comunità, esprimendo così la resa del
mondo terreno alla potenza di ciò che lo trascende, che esiste al di fuori o al di sopra della realtà
sensibile.
Da un lato la religione è una struttura di controllo collettivo del sacro, della sua natura
ineffabile così come delle pratiche magiche che la accompagnano; d’altronde, parallelamente, essa
è un sistema di pensiero, un discorso che narra l’essenza del mondo e la natura dell’uomo, che
spiega come una società è e, ancor di più, come dovrebbe essere. Nelle religioni monoteistiche,
quelle che adorano una sola divinità, questi due piani si unificano in un punto, «l’unico e vero Dio»,
che è distante dagli uomini, in quanto è sorgente della potenza sacra, ma nello stesso tempo è loro
vicino, in quanto fonte imperscrutabile della legge cui tutti gli uomini devono uniformarsi.
Mentre le religioni politeistiche adorano più divinità che si dividono, in accordo o
contrapposizione, il controllo dei mondi naturale e soprannaturale, le religioni monoteistiche
riconducono tanto l’universo terreno quanto quello ultraterreno a una sola imperscrutabile volontà e
perciò a un insieme di verità considerate indiscutibili, dogmi, e di precetti pratici che da esse
discendono, cui l’uomo deve ubbidire ciecamente in segno di affidamento e di sottomissione. Per
questa ragione in ogni religione monoteista è essenziale un libro, anzi il libro per eccellenza,
contenente l’essenza della verità. Per la religione ebraica questo libro è l’Antico Testamento, che
narra del patto stretto con Dio con il popolo ebraico; per quella cristiana è la Bibbia, e cioè l’Antico
Testamento più il Nuovo Testamento, che illustra la vita, le parole e le opere di Gesù Cristo; per
quella islamica il Corano, che raccoglie le rivelazioni fatte da Allah al profeta Maometto. In tutti e
tre i casi questo libro, che si crede contenga la parola di Dio, e perciò le idee e i precetti che devono
animare la comunità dei fedeli, è esso stesso sacro, e perciò incontestabile, posto al di là e al di
sopra della ragione umana.
Se la sfera del sacro si presenta come l’origine della legittimità dell’agire, è comprensibile
che l’autorità politica abbia storicamente tratto un indiscutibile vantaggio dal rivestire un ruolo
sacrale. Specie nel caso di religioni monoteiste, ciò ha significato conferire al potere politico
intoccabilità e indiscutibilità, ponendone gli atti al riparo dal dibattito e dalla contestazione. In altre
parole, fare del sovrano il rappresentante di Dio in terra e della legge stata l’emanazione di quella
celeste, ha significato estendere all’uno e all’altra quel rispetto deferente che si riconosce alla
divinità.
Cristianesimo e Impero romano
La storia del sacro in Europa coincide sostanzialmente con la storia del cristianesimo e del
consolidarsi del suo apparato teorico e dottrinale. Per tre secoli dopo la morte di Gesù Cristo, il
cristianesimo è stato una religione minoritaria sebbene diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo:
una tra le tante che convivevano nell’Impero romano. Molto attivi nell’azione di proselitismo, i
cristiani delle origini sono organizzati in comunità locali largamente indipendenti, che eleggono
autonomamente i propri capi, tenendosi in contatto fra loro ma differenziandosi per opinioni
teologiche relative al senso del messaggio di Gesù Cristo, alla natura di Dio e alle strutture
organizzative. Spesso si tratta di gruppi semiclandestini, che a tratti vengono perseguitati, a causa
del loro eccessivo attivismo, dalle autorità romane. Li accomuna un messaggio di salvezza
ultraterrena che, a differenza di quanto accade per esempio nella religione ebraica, non si riferisce a
un popolo o a un gruppo sociale definito, ma all’intera umanità. Il sacrificio sulla croce di Gesù
Cristo è avvenuto – così predicano i cristiani – per la salvezza di tutti, uomini liberi e schiavi,
maschi e femmine, individui di ogni età, razza e condizione sociale. Ciò perché ogni persona, al di
là delle differenze, porta ugualmente in sé un nucleo immortale che ne racchiude l’io più intimo e
vero, l’anima. Grazie al sacrificio del figlio di Dio, tutti hanno ricevuto in dono la possibilità di
accedere alla salvezza ultraterrena. Vi è perciò, nel cristianesimo delle origini, una forte tensione
escatologica, l’attesa di una fine del mondo che vedrà il trionfo dei giusti.
Anche i più deboli, i poveri, i malati, i reietti, gli ultimi della scala sociale, sono messi
teoricamente, nel messaggio cristiano, sullo stesso piano degli altri. Viene anzi riservata loro dalla
parola di Dio un’attenzione speciale e le cure maggiori da parte dei correligionari benestanti, di
coloro che hanno ricchezze materiali e spirituali. In quest’ottica la carità diventa simbolo e
immagine della crescita spirituale: il vero cristiano è colui che sa farsi povero e che, a imitazione di
Cristo, facendosi servo dei servi mette le proprie facoltà al servizio degli altri.
Il cristianesimo si presenta dunque come una religione della salvezza universale, che
accomuna tutti nello stesso percorso di fede. Questo messaggio di fede e di riscatto universale si
fonde con una visione dualistica costruita sull’opposizione tra un bene spirituale e un male
materiale che convivono nell’uomo: tra l’anima, che è un’essenza creata da Dio a sua somiglianza,
e il corpo, in cui si annida invece il principio del peccato. Il peccato, e cioè la disubbidienza al
volere di Dio, risiede per i cristiani nella natura carnale dell’uomo, nell’attaccamento all’aspetto
materiale, esteriore del mondo. Vi è, nella storia dell’umanità, una caduta originaria da uno stato
felice – la vita senza peccato, il Paradiso terrestre – che viene riscattata da Dio con l’incarnazione
del figlio Gesù Cristo, che si fa uomo e «agnello sacrificale», simbolo della resa, della
sottomissione umana alla volontà divina. Il sacrificio sulla croce di Gesù Cristo è la premessa della
salvezza, di una possibile redenzione di tutto il genere umano e di ogni singolo fedele. Questa
redenzione è annunciata da Dio, ed è essa a dare senso al tempo, a trasformarlo in storia. Sottratto ai
ritmi della natura, il tempo ha ora una direzione e un fine già annunciati. In passato dunque non è
che una preparazione della venuta sulla terra, della morte e della resurrezione del figlio di Dio. Da
quel momento in poi la storia è attesa di ciò che si deve compiere e a cui tutti i cristiani devono
collaborare. Il cristianesimo perciò esalta l’attività del mondo e la partecipazione dei credenti al
piano provvidenziale di Dio.
Queste idee definiscono una dottrina religiosa ancora relativamente fluida, non irrigidita in
un corpo dogmatico unico. Anche la liturgia, e cioè l’organizzazione dei riti, presenta differenze fra
le varie comunità cristiane delle origini. Una svolta decisiva, che modifica questo quadro, avviene
nel IV secolo d.C. quando, a seguito di una serie di vicende politiche, il cristianesimo diviene la
religione ufficiale dell’Impero romano. Dopo l’Editto di Milano, promulgato dall’imperatore
Costantino nel 313, i cristiani godono libertà di culto, mentre a partire dagli anni quaranta del IV
secolo vengono posti dei limiti all’esercizio delle religioni non cristiane. Infine, con l’Editto di
Tessalonica del 380, l’imperatore Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e proibisce
tutti gli altri culti. Da questo momento in poi le comunità cristiane entrano in stretto rapporto con le
strutture politiche romane, e l’organizzazione ecclesiastica si modella su quella amministrativa
imperiale, con le diocesi, unità amministrative dell’Impero romano che sovrintendono a più
province, che si trasformano in circoscrizioni su cui il vescovo esercita giurisdizione spirituale e
governo ecclesiastico. Mentre nelle città si moltiplicano le sedi episcopali, alcune tra esse
acquisiscono – per antichità di fondazione o prestigio intellettuale dei loro esponenti – una
particolare posizione di superiorità. Si tratta di Roma, Milano, Aquileia e Ravenna nella parte
occidentale dell’Impero, e di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria nella parte
orientale.
Diffusosi in tutto il Mediterraneo, il cristianesimo incontra ed entra in contatto con culture e
culti diversi, definiti genericamente dai cristiani pagani, praticati da coloro che, non raggiunti dalla
fede cristiana, adorano gli idoli, cioè le immagini di varie divinità. Da questa molteplicità di
incontri scaturisce una sensibilità molto variegata che produce più modi di vedere il mondo e la
tradizione culturale pagana ma anche divergenze e discussioni di carattere dottrinario. Queste
ultime, tuttavia, appaiono politicamente pericolose, in quanto potenziali fattori di divisione.
Particolarmente laceranti risultano le polemiche cristologiche, vale a dire le diverse
posizioni sulla natura duplice, umana e divina insieme, o solo divina, di Gesù Cristo. In particolare,
la diffusione dell’arianesimo, una dottrina cristiana che nega la natura divina di Cristo,
riconoscendogli solo quella umana, obbliga l’imperatore Costantino a indire il primo concilio,
l’assemblea formalmente costituita dei vescovi delle chiese cristiane, un’istituzione che diviene la
massima espressione spirituale del mondo cristiano. Il concilio, tenutosi a Nicea nel 325, condanna
l’arianesimo come eresia e stabilisce che la natura di Gesù Cristo è insieme umana e divina, in parte
fatta della stessa sostanza di quella del Padre e dello Spirito Santo, formulando così il dogma della
Trinità, di un Dio unico in tre persone.
Spesso le divergenze dottrinali esprimono la competizione tra le sedi episcopali per la
preminenza spirituale e politica. In pratica, malgrado la proclamazione a religione di Stato
dell’Impero, il cristianesimo non costituisce ancora un corpo dottrinario ben definito, ma un insieme
di credenze diffuse regionalmente e talvolta in contrasto con le scelte dell’autorità imperiale in
materia religiosa. Sarà tuttavia la sede episcopale romana, avvalendosi del prestigio indiscusso della
città di Roma, a guadagnare col tempo un ruolo-guida: riconosciuto dal concilio di Calcedonia,
questo primato rimane puramente onorifico fino a quando, l’imperatore Valentiniano concede al
vescovo di Roma una sorta di supremazia giuridica su tutte le chiese della parte occidentale
dell’Impero.
Da allora in poi il vescovo di Roma inizia a essere chiamato papa e a esercitare una funzione
di coordinamento degli altri episcopati. Il primato romano si afferma tuttavia compiutamente solo a
seguito della dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente, quando il papa si presenta come l’unica
autorità in grado di ereditare la funzione imperiale. Grazie a uno stretto accordo con il Regno
franco, il papato emerge dalla crisi determinata dalla scomparsa delle strutture imperiali con la
fisionomia di una forza autonoma, dotata di una capacità di legittimazione che diviene
fondamentale per ogni potere politico, come si evince dall’incoronazione degli imperatori del Sacro
romano Impero da parte dei pontefici romani.
«Quelli che pregano»: monaci, clero, forme del culto
Mentre le popolazioni germaniche dal IV secolo si convertono in massa al cristianesimo
attraverso l'arianesimo, la spinta evangelizzatrice cristiana è impersonata soprattutto dai monaci. Si
tratta di ecclesiastici che vivono in comunità, dette cenobi o monasteri; e che si distinguono perciò
da coloro, gli eremiti, che si rifugiano in una solitudine ascetica. Nei monasteri, spesso situati in
luoghi appartati, è possibile praticare un'esistenza di preghiera, di spiritualità vissuta in gruppi coesi
e di elevazione attraverso la mortificazione delle esigenze materiali. Da questi centri di meditazione
e di religiosità i monaci si muovono per predicare in terre non ancora raggiunte dal messaggio
cristiano. Nel Regno franco i monasteri vengono spesso fondati su diretto impulso regio e
divengono importanti strumenti di controllo sociale. Si cerca di irreggimentare così un clero spesso
indisciplinato e libero dai vincoli dell'obbedienza a superiori, ma anche di combattere la tendenza
all'ascesi solitaria ed individuale, sospetta di sfuggire all'autorità riconosciuta dei vescovi. In Irlanda
poi, il monachesimo acquista un'importanza speciale. La chiesa irlandese, costituitasi nel VII secolo
a seguito della missione evangelizzatrice di San Patrizio, si organizza come una confederazione di
monasteri. Il potere di controllo territoriale e la responsabilità giuridica ad esso connessa, la
cosiddetta giurisdizione, non appartiene cioè ai vescovi ma ai capi dei monasteri, gli abati.
Le regole di vita e le norme organizzative nei monasteri sono varie, flessibili e molto
differenti da zona a zona. Solo a partire dal IX secolo nel regno franco viene dichiarata valida
un'unica regola, quella benedettina, predisposta da san Benedetto da Norcia (480-546) per
organizzare la vita nel monastero di Montecassino e negli altri monasteri fondati dai suoi seguaci.
La scelta di vita religiosa è diffusa e vi sono famiglie che affidano ai monasteri bambini definiti
oblati, donati, per farne dei monaci.
Più in generale il clero, gli uomini e donne di chiesa, coloro che pregano, divengono una
componente essenziale (e separata) dell'ordine sociale. Essi assumono anzi gradualmente una
funzione di controllo sulla correttezza e sulla rispondenza ai precetti cristiani dei comportamenti dei
non ecclesiastici, i laici.
La diffusione degli ordini monastici articola l'universo ecclesiastico in due grandi aree,
quella del clero cosiddetto secolare, composto dai sacerdoti e guidato dai vescovi e quello del clero
regolare, formato dai membri delle organizzazioni religiose e monastiche, chiamate ordini, e
guidato da superiori o abati. Di questo secondo gruppo entrano a far parte le donne, con la
costituzione di ordini di monache e la creazione di monasteri femminili. Nel regno franco
rinchiudere le giovani figlie in convento diviene per le famiglie nobili un modo per risolvere il
problema dell'eccesso di figlie femmine da dotare. E al contempo per incrementare la
considerazione sociale della famiglia. Le monache si dedicano infatti alla commemorazione in
monastero dei defunti della famiglia, contribuendo a mantenerne la memoria genealogica.
Il ruolo di sacerdote, l'unico in grado di celebrare la messa e di riprodurre quindi la
transustanziazione, ovvero la presenza del corpo e del sangue di Gesù Cristo nelle specie del pane e
del vino, viene invece riservato ai maschi e bel presto si stabilisce per esso la regola del celibato, la
proibizione ai sacerdoti di contrarre matrimonio. La motivazione del celibato e del nubilato imposto
a sacerdoti, monaci e monache o suore, cioè sorelle, deriva dall'esigenza di definirne i contorni di
persone sacre, cioè distaccate dal resto della società in quanto pure. Poiché la purezza, la qualità di
colui che vive nello spirito, è infatti macchiata dalle pratiche sessuali, il suo mantenimento esige la
castità. Si tratta in pratica dell'estensione agli ecclesiastici di una concezione della purezza in voga
nel mondo tardoantico per cui chi deve praticare l'atto magico o incantesimo deve essere
sessualmente puro, pena la perdita dell'efficacia del rito.
Tale estensione è parte dell’assimilazione di precedenti culti religiosi, e del recupero ad essa
connesso di pratiche esoteriche (cioè riservate a pochi, gli iniziati), magiche e divinatorie proprie
dell'universo religioso pagano. Ne derivano persistenti credenze nelle proprietà magiche di certi
oggetti liturgici. Ma soprattutto ne discende il mantenimento, all'interno di una religione
monoteistica quale quella cristiana, di una pluralità di culti, spesso rivolti a martiri o santi,
considerati efficaci mediatori delle richieste dei fedeli, intermediari tra il mondo terreno e Dio. Le
loro vite, raccontate in testi di larga diffusione, le cosiddette agiografie, delineano il percorso ideale,
indicato ai fedeli, verso la salvezza. I santi sono ritenuti capaci, già da vivi ma poi anche da morti,
di operare miracoli e cioè cambiamenti improvvisi e soprannaturali dell'ordine delle cose a
vantaggio dei fedeli benemeriti. Inizia a manifestarsi inoltre la tendenza ad attribuire a un santo una
specifica area di intervento su particolari problemi della vita individuale o sociale sui quali la sua
influenza è ritenuta particolarmente notevole.
Si diffonde anche il culto delle reliquie, resti mortali ma anche oggetti o capi di
abbigliamento appartenuti presumibilmente a Cristo, alla Madonna o ai santi. Alle reliquie è
attribuito un valore sacrale e il potere magico di ammantare chi le possiede e crede in esse di
proprietà taumaturgiche, in grado cioè di guarire da malattie. Le chiese o basiliche, costruite attorno
alle tombe dei martiri o santi, si riempiono così di una quantità inverosimile di oggetti di culto,
spesso di dubbia origine. Acquista grande importanza anche il culto delle sante, veri e propri
modelli di vita muliebre, e della Madonna, la madre di Cristo, pura per eccellenza e perciò, per
miracolo, vergine. Su di lei converge l'enorme diffusione delle pratiche di culto di divinità
femminili, soprattutto Iside e Demetra-Cerere, presenti nel mondo mediterraneo precristiano. Infine,
si diffonde l'abitudine di andare in pellegrinaggio, attraverso percorsi anche molto lunghi, alle
tombe di santi venerati. Da tutta Europa, ad esempio, pellegrini si recano a Santiago de Compostela,
in Galizia, per avvicinare la tomba che si ritiene ospiti i resti dell'apostolo Giacomo, o a Roma, a
pregare sulla tomba dell'apostolo Pietro.
Il primato di Roma
Il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa occidentale diviene, grazie all'alleanza col
regno franco, supremazia. Gradualmente la Chiesa si struttura cioè come un'istituzione
relativamente unitaria e accentrata. A questa supremazia sfuggono tuttavia le comunità cristiane
dell'area dominata dall'Impero romano d'Oriente, in cui parallelamente si va affermando l'autorità
del vescovo (patriarca) di Costantinopoli. I teologi bizantini avevano a questo proposito ideato la
teoria della pentarchia e cioè della superiorità paritaria di cinque sedi episcopali: Roma,
Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme.
Tale complessa situazione viene aggravata dalle dispute teologiche che continuano ad
affliggere l'universo cristiano. Esse dipendono dal differente rapporto che le comunità occidentali,
guidate da Roma, e l'episcopato orientale, guidato da Costantinopoli, avevano stabilito con l'autorità
politica. Mentre a Roma il potere papale tenta con successo la strada di una relativa autonomia dai
poteri politici territoriali e punta a costruirsi, a garanzia di tale autonomia, perfino uno stato della
Chiesa, a Bisanzio l'imperatore continua al contrario, forte del proprio ruolo sacrale, ad interferire
pesantemente nella vita della Chiesa. L'autorità imperiale è fortemente interessata alla definizione
dell'ortodossia, cioè della «giusta fede», un insieme di dogmi, e cioè di verità indiscutibili, da porre
al di sopra del dibattito.
L'esempio più eclatante di questa intromissione si ha nell'VIII secolo, quando il potere
imperiale interviene nella disputa sulla liceità o meno della venerazione delle immagini sacre, le
icone, assumendo – in contrapposizione alla maggioranza del clero – una posizione favorevole alla
linea iconoclasta, propensa cioè a vietare del tutto il culto delle immagini, visto come espressione di
superstizione. Questa presa di posizione in Oriente viene molto discussa: in Occidente, invece, il
papato nega decisamente l’adesione alla linea iconoclasta, ponendo le premesse della separazione
definitiva dall’orbita di Bisanzio.
Dopo una serie di dispute teologiche, liturgiche e giurisdizionali, in cui una parte pretestuosa
ha la disputa sull’iconoclastia, nel 1054 papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario si
scomunicano, negandosi reciprocamente la legittimità dell'appartenenza alla comunità cristiana. In
pratica nascono due distinte e contrapposte chiese cristiane. Da parte della chiesa romana, che si
viene definendo come cattolica (o universale) ed apostolica (o discendente dagli apostoli), la
separazione della chiesa d'Oriente viene indicata come scisma, o deviazione dalla retta fede.
Viceversa da parte bizantina, che si viene definendo come ortodossa, la fede occidentale viene
concepita come eresia, letteralmente scelta unilaterale, e cioè allontanamento dalla giusta dottrina.
Come conseguenza della divisione, nel 1059 il papa Niccolò II emana un decreto in cui
vengono fissate le procedure per l'elezione del papa, che avviene durante il conclave, si
determinano i gradi della gerarchia ecclesiale e si stabilisce il ruolo dirigente della burocrazia
ecclesiale romana, la Curia. Questo processo di fissazione della struttura ecclesiale è parallelo allo
svolgersi di un duro confronto sull'autonomia della Chiesa dall'Impero.
Abbiamo dunque in questo torno di anni una svolta fondamentale nella vita della Chiesa. Il
papa Gregorio VII (1020-1085) fissa con un decreto dal titolo Dictatus papae le linee di una chiesa
monarchica, cioè incentrata risolutamente sulla figura del papa-re: un'autorità in grado di prendere
ogni decisione, revocare quelle dei predecessori, usare le insegne imperiali e scomunicare o
dichiarare eretici coloro che non sono d'accordo. È il trionfo della centralità romana nella vita della
Chiesa, basata sull'affermazione della superiorità del papa sul concilio e sulla sottrazione
dell'operato del pontefice ad ogni giudizio superiore. La dottrina vera è quella fissata dal papa ed
egli perciò – per definizione – non può essere accusato di eresia.
Tali posizioni dottrinali aggressive e intransigenti contribuiscono alla spinta a riconquistare
la Terra santa, la Palestina, caduta in mano infedele, ma poi anche contro i musulmani della
penisola iberica e gli slavi del baltico. Contemporaneamente si inaugura una fase di conflitti armati
con l'Impero. Chiesa e Impero si scontrano in primo luogo perché costituiscono due modelli
contrapposti di istituzioni universalistiche che si contendono entrambe l'eredità dell'impero romano
e si professano ambedue come volute da Dio per il bene dell'umanità. Vi sono poi, alla base del
conflitto, corposi interessi materiali, legati alla determinazione del titolare della scelta delle cariche
ecclesiastiche, la cosiddetta «lotta per le investiture», e al controllo politico delle ricche regioni
italiane. Ciò produce in Italia la divisione di città e principati in due partiti contrapposti, quello dei
filopapali o guelfi e quello dei filoimperiali o ghibellini.
Questo processo trova il suo culmine prima nel pontificato di Innocenzo III che, eletto papa
nel 1198, sulla base della falsa donazione di Costantino istituisce lo stato della Chiesa e definisce il
papato come erede dell'Impero romano; e poi con quello di Bonifacio VIII (1235-1305), pontefice
che spinge al massimo l'imitazione dei fasti imperiali delineando la supremazia della chiesa su ogni
potere mondano.
Dogmi ed eresie
Tutto ciò non resta senza eco tra i credenti. Già a seguito dell'ondata emotiva suscitata dal
passaggio dell'anno Mille, presagito da molti come possibile data della profetizzata Apocalisse e
cioè della distruzione e fine del mondo, si osserva un riproporsi di movimenti di rinnovamento
spirituale, un fiorire di gruppi animati dall'idea di un ritorno al cristianesimo ascetico e povero delle
origini.
Successivamente, soprattutto come reazione a una Chiesa divenuta ricca e potente, ma anche
corrotta e venale, tale spinta al rinnovamento si radicalizza, producendo movimenti più rigidi e
contrari a compromessi. L'affermazione del primato papale, di una Chiesa trionfante e autoritaria,
l'accumulazione di enormi ricchezze ecclesiastiche, le pratiche di simonia (acquisto con denaro di
beni spirituali, come ad esempio le funzioni sacerdotali) la corruzione del clero, l'inosservanza del
celibato dei sacerdoti, suscitano vaste e diffuse reazioni di coloro che perseguono l'ideale di una
chiesa di comunità e di servizio, povera e votata all'ascetismo.
Questo rigorismo evangelico costituisce dunque l'altra faccia della tendenza della chiesa a
farsi istituzione sociale, a divenire potere dominante, a invadere ogni aspetto della vita collettiva.
Viene stabilito che ogni fedele debba confessarsi almeno una volta l'anno in modo da ottenere la
remissione, la cancellazione dei peccati dal suo sacerdote. Si formalizza inoltre il potere ispettivo
del papato attraverso l'istituzione, all'inizio del XIII secolo, dell’Inquisizione, un tribunale
dipendente da Roma e dedicato a reprimere l'eresia. Ciò comporta il diffondersi della delazione sui
comportamenti altrui e la tendenza a criminalizzare ogni costume non ortodosso, anche se non
volontariamente eretico.
E tuttavia più la Chiesa si mondanizza entrando in ogni aspetto della vita collettiva, più si
producono reazioni che puntano alla riforma dei costumi, al rinnovamento delle strutture ecclesiali,
in una parola a restituire alla comunità cristiana la forma, vera o supposta, delle origini, quella
evangelica.
Queste tematiche, già presenti a Milano nel movimento dei patari, si ritrovano, estremizzate
da un radicalismo dualista (corpo-spirito) di ispirazione manichea nel movimento dei catari, diffuso
in Provenza e in Italia settentrionale. Vi è nei catari la contrapposizione tra un mondo infettato dal
male, di cui la chiesa è ormai parte, e un bene immaginato come puro spirito. Vengono negati di
conseguenza la materialità di Cristo, il culto della Vergine, il Vecchio Testamento.
Come i patari anche i catari legano l'efficacia dei sacramenti alla purezza del sacerdote. Ma i
catari si distinguono dai patari anche per la scelta di costruire una nuova e diversa chiesa,
organizzata secondo principi di condivisione collettiva dei beni e di rigido ascetismo. È questa
scelta a determinare la reazione violenta della Chiesa, che decide di trasferire l'idea di crociata, di
lotta agli infedeli, dall'esterno all'interno del mondo cristiano. Gli infedeli non sono cioè più solo
coloro che adorano un altro Dio ma anche gli eretici, coloro che sbagliano allontanandosi dalla vera
dottrina cattolica. Essi vanno combattuti e sterminati perché attentano all'unità della Chiesa con
un'azione assimilabile al delitto di lesa maestà, cioè di sovversione dell'ordine costituito. Negli
stessi anni, con metodi non dissimili, viene soffocato il movimento valdese: i seguaci di Valdo sono
espulsi da Lione perché leggono autonomamente la Bibbia predicando, senza autorizzazione
episcopale, la superiorità del Vangelo rispetto alle leggi ecclesiastiche e la possibilità per i laici di
amministrare i sacramenti.
I fermenti di rinnovamento non si esprimono tuttavia solo al di fuori della chiesa ma anche al
suo interno. È il caso dei movimenti penitenziali, dei flagellanti (devoti che esprimono la propria
fede percuotendosi pubblicamente con una frusta come segno di penitenza), delle tensioni
spiritualiste presenti in alcuni ordini religiosi ed espresse emblematicamente dalla figura del
monaco calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1203). Ma è il caso soprattutto dell'ordine
francescano, fondato da Francesco d'Assisi (1182-1226), proclamato santo nel 1228, pochi anni
dopo la sua morte. I membri dell’ordine si chiamano frati minori, cioè ultimi, sottomessi a tutti. I
francescani sono un ordine mendicante, vocato all'ascesi e alla povertà integrale e perciò a lungo
sospetto di eresia da parte della gerarchia cattolica.
Per incanalare queste spinte riformatrici, insieme alla repressione, di cui una formidabile
arma è il tribunale dell’Inquisizione, la Chiesa punta anche alla delineazione di un universo
ultraterreno in cui a ciascuno è riservato un posto e in cui a ciascuno è data, attraverso la remissione
dei peccati, la speranza di accedere alla salvezza e di godere della vicinanza di Dio, in Paradiso. Per
gli altri, comunque, la speranza non è perduta. Possono sempre tentare di scontare le colpe
commesse in vita in un apposito luogo ultraterreno, il Purgatorio. Solo ai peccatori incalliti e
impenitenti è riservato l'Inferno, immaginato e presentato come il concentrato delle sofferenze, la
dannazione eterna. Di questo universo offrirà una descrizione ineguagliata il poeta fiorentino Dante
Alighieri (1265-1321) nella famosa Divina Commedia.
Umanesimo e religione
Bonifacio VIII, è il papa che proclama il primo giubileo, dichiarando il 1300 Anno santo:
ciò significa la garanzia per tutti coloro che si rechino in pellegrinaggio a Roma della concessione
dell'indulgenza piena, e cioè la remissione o sostanziale diminuzione della pena da scontare in
Purgatorio per i propri peccati. Con Bonifacio VIII la figura del sovrano pontefice giunge così al
suo culmine, simboleggiata dalle statue che lo ritraggono assiso sul trono regale. Parallelamente,
sono le monarchie a tentare adesso di ricoprirsi di sacro. Se gli imperatori tedeschi avevano da
sempre considerato il loro ruolo come semi-sacrale in quanto discendenti dell'Impero romano,
un'istituzione voluta da Dio per assicurare la pace e la sicurezza della comunità cristiana, i re
francesi ammantano ora di valori sacrali il proprio trono. La cerimonia dell'investitura dei sovrani di
Francia, che si svolge nella città di Reims, in ricordo della conversione di re Clodoveo nel 498, si
colora così di simboli sacrali. Il sovrano dei francesi è acclamato come l'erede di Davide, re di un
nuovo Israele, di un regno «cristianissimo» voluto da Dio a difesa della fede. Egli viene per questo,
come i re d'Israele, unto con l'olio santo. Da quel momento in poi, come «unto del Signore», egli
diventa una persona sacra, in contatto diretto con Dio e in grado di operare miracoli, quali la
guarigione di particolari malattie mediante l'imposizione delle mani. Simili caratteristiche
assumono anche i sovrani inglesi mentre in Spagna, con il matrimonio di Ferdinando d'Aragona ed
Isabella di Castiglia, si completa il processo di Reconquista, di conquista cristiana della penisola e
di annientamento delle ultime resistenze arabe: nasce così, sotto il segno della crociata, la
«monarchia cattolica» per eccellenza, e cioè quella che, in competizione con la corona francese, si
propone di rappresentare il braccio politico e armato della fede.
Questo doppio processo, da un lato la crescita delle aspirazioni politiche papali e dall'altro
l'emergere delle ambizioni teocratiche delle monarchie nazionali, mortifica comunque l'originaria
aspirazione cristiana a una maggiore e più intensamente spirituale devozione. E contrasta con l'idea,
mai del tutto scomparsa di una chiesa degli umili, vocata al servizio del prossimo.
Urta molte sensibilità in particolare, non solo la corruzione dei preti e l'ostentata imitazione
degli attribuiti del potere civile, ivi inclusa la ricchezza, ma soprattutto il commercio dei beni
ultraterreni, e cioè la prassi della Chiesa di vendere le indulgenze. E cioè garantire, in cambio di
moneta sonante e sulla base di precisi tariffari, riduzioni delle pene da scontare in Purgatorio.
Si moltiplicano così, sul finire del XV secolo, i movimenti di rinnovamento e i segni di
inquietudine cui danno voce intellettuali come Erasmo da Rotterdam (1466-1539). La critica
erasmiana della società e della Chiesa del suo tempo, radicata nell'aspirazione a un ritorno al dettato
evangelico è influenzata anche, nel pieno rigoglio dell’Umanesimo, dalla riscoperta dei grandi
autori della classicità. Attraverso la rilettura e l'edizione a stampa dei classici si diffondono adesso
idee nuove, che offrono una visione più ampia e meno condizionata dalla tradizione teologica della
natura umana e contribuiscono a disgregare l'edificio dogmatico costruito dalla Chiesa.
Questi fermenti avrebbero tuttavia rappresenterebbero uno dei ricorrenti episodi di
contestazione della Chiesa a partire dall'ispirazione evangelica, episodi in grado di metterne in
discussione il discostamento dai principi ma non le fondamenta teologiche, se non trovassero, con
Martin Lutero (1483-1546) un pensatore capace di attaccare molto più profondamente le basi
dottrinali su cui si fonda il ruolo e l'esistenza stessa della Chiesa.
Lutero e la rottura dell’unità religiosa
Il punto di partenza di Lutero è lo stesso di molti pensatori eretici: tornare al Vangelo, alla
parola di Dio. Lutero è un frate tedesco dell’ordine degli Agostiniani, entrato molto giovane in
convento dove si distingue per fervore religioso e intelligenza acuta. Proprio in virtù delle sue
qualità personali e dell’idea tormentosa dell’irrimediabile indegnità dell’uomo, egli indaga i libri
della Sacra scrittura, riconsidera gli scritti di San Paolo e di Sant’Agostino, giungendo per questa
via a una rivalutazione del libro sacro e a una critica radicale del ruolo della Chiesa. Contro ogni
principio desunto dalla tradizione ecclesiastica egli afferma la validità della sola Scrittura, e cioè
della Bibbia interpretata non alla luce di ciò che è accaduto dopo, dell'interpretazione stratificatasi
nei secoli, ma letta in sé e per sé, con un procedimento detto esegesi. Attraverso questo metodo
Lutero giunge alla conclusione che non vi è nel Vangelo alcun riferimento al ruolo della Chiesa
nella salvezza. Elaborando un brano di San Paolo egli afferma che solo la fede, il credere
fermamente in Cristo affidandovisi totalmente, salva, solo la fede giustifica la vita agli occhi di Dio.
Né le buone opere, le penitenze, i digiuni, i pellegrinaggi, le indulgenze, le offerte di denaro e di
beni, né la Chiesa garantiscono la vita eterna. Il fedele non ha né può avere intermediari nei
confronti di Dio, davanti a cui egli è solo con la sua coscienza. Il culto dei santi e delle reliquie è
superstizione. I peccati non si possono rimettere e chi lo fa illude i credenti. La confessione perciò
non cancella i peccati proprio come la penitenza non garantisce la salvezza. Le pene che Dio vorrà
comminare non si possono né conoscere né scontare ed è un truffatore chi mercanteggia su di esse.
La vendita delle indulgenze è una truffa sacrilega.
In breve la salvezza dipende solo da Dio, dalla sola grazia divina; il cristiano deve solo aver
fede e ispirarsi unicamente per indirizzare la sua vita alla Sacra scrittura, alla Parola di Dio. Sola
gratia, sola fide, sola Scriptura è il compendio del luteranesimo. Le conseguenze di queste idee
sono devastanti. Esse distruggono infatti la costruzione salvifica della chiesa e sono destinate ad
avere un'immensa eco nella storia europea.
Lutero trae da queste convinzioni conseguenze precise. I sacramenti, tranne il battesimo e
l'eucarestia celebrati in ogni caso in maniera diversa da quella tradizionale cattolica e privi della
valenza liturgica che il cattolicesimo dà loro, vanno aboliti. Il papa è lungi dall'essere infallibile.
Ogni fedele, attraverso il battesimo, diventa membro della chiesa, e perciò ecclesiastico. La
distinzione tra chierici e laici va dunque abolita. Tutti sono sacerdoti. E tutti possono sposarsi. Il
ruolo pastorale è, in altre parole, solo una funzione: si può essere eletti a tale compito e poi essere
deposti e tornare alla vita di sempre nella comunità. La libertà dalle costrizioni della chiesa, questa
libertà spirituale che consiste nell'interpretare liberamente la Bibbia, è mitigata dall'obbligo
dell'umiltà, di misurare costantemente i propri limiti, di farsi servo dei servi.
Tali dottrine vengono discusse da Lutero presso l’Università di Wittenberg. La Curia romana
si dimostra a lungo tollerante; ma poiché Lutero continua la sua predicazione, papa Leone X lo
invita a Roma a discolparsi. Lutero non solo non si presenta, ma in occasione di un’indulgenza
speciale promulgata da Leone X per raccogliere fondi da destinare alla basilica di San Pietro, egli, il
31 ottobre 1517, affigge sulla porta della cattedrale di Wittenberg un libello contenente 95 tesi,
affermazioni teologiche che espongono il frutto di una lunga meditazione. Egli partendo dal
principio della giustificazione a opera della sola fede, confuta non solo la validità delle indulgenze
per la propria o per la salvazione altrui, ma la facoltà stessa della Chiesa di concederle. Egli dichiara
che alla salvezza ultraterrena dell’uomo basta la fede nei meriti del sangue di Cristo, cioè un atto di
umiltà e di amore.
Di fronte a queste affermazioni, nel 1520, il papa lancia a Lutero la bolla della scomunica.
L’imperatore Carlo V, preoccupato della graduale diffusione delle idee luterane in Germania, invita
il monaco a comparire alla dieta di Worms. Poiché non si presenta, Carlo V bandisce Lutero dai
territori imperiali. Tuttavia, le idee del monaco trovano sempre maggiore plauso, anche ai vertici
della società tedesca: in Germania, infatti, si erano costituiti da tempo numerosi principati
ecclesiastici, le cui rendite finivano nelle mani degli alti prelati della Curia romana, giacché non vi
era corrispondenza alcuna fra la carica di vescovo o di abate e l’obbligo di residenza nelle sedi
vescovili. Contestando la validità del sacerdozio, Lutero offre pertanto ai principi tedeschi
l’occasione insperata di far proprie le terre del clero romano. Quindi i principi favoriscono il
diffondersi delle dottrine luterane. Un ruolo particolare ricopre l’elettore di Sassonia, Federico
Guglielmo il Saggio, che in occasione del bando imperiale comminato alla dieta di Worms
nasconde Lutero nel suo castello di Wartburg. Qui questi si dedica alla traduzione della Bibbia in
tedesco, in modo che ogni credente possa accostarsi direttamente ai libri sacri e intenderli senza
necessità della mediazione ecclesiastica.
La predicazione di Lutero scatena anche fermenti di rivolta sociale. Si muovono per primi i
cosiddetti cavalieri, i cadetti della nobiltà assetati di terre, che sotto la guida di Ulrich von Hutten
vanno all’assalto delle proprietà ecclesiastiche, mettendo a ferro e fuoco la Germania, fino a quando
non vengono fermati da una lega di principi. Ancora più grave è la rivolta dei contadini che scoppia
fra il 1524 e il 1525, sotto la guida di Thomas Muntzer, seguace della setta ereticale degli
anabattisti: una setta ereticale che nega validità al battesimo infantile e sostiene la necessità di un
nuovo battesimo. In nome dell’uguaglianza di tutti i cristiani, proclamata dal punto di vista
teologico dallo stesso Lutero, i contadini danno inizio a un vasto modo di riscossa contro gli
obblighi feudali e contro la proprietà privata. Nella rivolta, che dilaga dalla Renania alla Svevia
all’Alsazia al Tirolo, vengono distrutti castelli, chiese e monasteri. Di fronte ai disordini, Lutero
non esita a schierarsi con i principi e i nobili che reprimono i moti contadini: l’abbandono della
causa protestante da parte dei ceti più alti della società avrebbe condotto inevitabilmente alla
riaffermazione del cattolicesimo. La scelta politica di Lutero blocca gli sviluppi libertari della
Riforma protestante e pone le premesse, da una parte, del consolidamento del potere principesco e
feudale, dall’altro dell’autoritarismo delle chiese locali, poste sotto il controllo dei principi stessi.
Sul piano teorico, d’altronde, la scelta è coerente con quanto affermato nel 1520 nel libello Alla
nobiltà cristiana di nazione germanica per la riforma del ceto cristiano. Nel testo si esprime una
concezione dell’autorità secondo la quale i popoli devono essere soggetti alle autorità costituite, che
sono emanazione di Dio. Le bande contadine vengono quindi, con il plauso di Lutero, sterminate a
Frankenhausen.
A partire dal 1530, l’imperatore Carlo V torna a interessarsi della Germania e inaugura una
politica di diretto contrasto al luteranesimo trionfante, ordinando ai principi e alle città passate alla
nuova fede religiosa di restituire le terre strappate alla Chiesa. I principi protestano energicamente –
da cui l’appellativo di protestanti – e si uniscono nella Lega di Smalcalda. Il conflitto che ne deriva
si chiude con la pace di Augusta nel 1555. L’imperatore riconosce ai principi e alle città
dell’Impero la libertà di scegliere la religione cattolica o la religione luterana. Tale libertà non viene
però riconosciuta ai sudditi, obbligati a seguire la religione dei loro signori, secondo il principio
racchiuso nella formula cuius regio eius et religio. Così la Germania perde l’unità religiosa e si
divide fra cattolicesimo e protestantesimo.
Dalla Germania il pensiero protestante si diffonde nel resto dell’Europa, trovando spesso
terreno fertile. Nella Confederazione elvetica aderisce alle tesi di Lutero Huldrych Zwingli, che
elabora concezioni ancora più radicali contro le istituzioni ecclesiastiche, le indulgenze, il celibato
sacerdotale, la devozione alla Madonna e ai santi, il culto delle immagini e la messa come
rinnovamento del sacrificio di Cristo. Portando a conclusione le premesse luterane, Zwingli
considera il battesimo e l’eucarestia momenti interiori della vita religiosa, escludendo la presenza
reale di Cristo nel momento eucaristico. La comunione altro non è che commemorazione: non si
svolge, come dicono i cattolici, il processo di transustanziazione.
La meditazione di Zwingli viene proseguita da Giovanni Calvino (1509-1564), nativo di
Noyon in Francia, raffinato umanista e giurista. Costretto a fuggire dalla Francia in seguito alla
conversione alla fede protestante, Calvino giunge a Ginevra, il centro del suo apostolato religioso e
politico. Calvino parte dalle premesse dottrinali di Lutero, ma le sviluppa in modo autonomo, per
cui la Chiesa riformata che da lui prende nome ha caratteri propri che la distinguono da quella
luterana. Tipica del calvinismo è la dottrina della predestinazione, già enunciata da Lutero, ma
sviluppata da Calvino con maggiore rigore. Secondo Calvino il peccato originale condanna l’uomo
all’eterna dannazione; ma Dio ha scelto nella notte dei tempi i propri eletti, i pochi destinati a
salvarsi, non già in virtù dei loro comportamenti, ma per opera esclusiva della grazia divina. Il
credente non deve però essere indotto alla disperazione, né abbandonarsi fatalisticamente alla sorte
che Dio gli ha riservato; al contrario, egli deve assolvere alla «missione» terrena che Dio gli ha
assegnato, ricercando in se stesso i segni della predilezione e con ciò acquistando il convincimento
di far parte della schiera degli eletti. Questa consapevolezza è già un segno indubbio di positiva
predestinazione; a essa si aggiunge come ulteriore conferma il successo che il credente ottiene nella
vita, nella propria professione, qualunque essa sia. Qualsiasi lavoro, per Calvino, deve essere sentito
come un atto religioso e compiuto a glorificazione di Dio. Ma il guadagno che ne viene non deve
essere dissipato; e una volta che si fa fronte alle necessità proprie e della propria famiglia, una volta
che sia adempiuto il dovere di assistenza nei confronti dei più bisognosi, il denaro deve essere
reinvestito. Per questo il calvinismo sembra agli storici il presupposto religioso dell’attivismo
capitalista: esso esalta infatti l’intraprendenza dell’individuo e dell’attività produttiva, considerata
come segno di predilezione celeste.
Ginevra diviene la culla della nuova confessione religiosa. A tutti i cittadini viene imposto un
severo costume di vita: chiuse le taverne e i bagni pubblici, considerati luoghi di delizie lussuriose e
di peccato, proibite le rappresentazioni teatrali, proibiti i giochi d’azzardo, proibito il lusso
nell’abbigliamento femminile, bandita ogni forma di dissipazione. Sui costumi della città e sulla
moralità di ciascuno vigila il concistoro, un organo collegiale formato di sacerdoti, i pastori, e di
laici, scelti per la loro dirittura morale. Contro i trasgressori, i libertini, c’è l’ammonizione e la
scomunica e, nei casi più gravi, il ricorso ai magistrati cittadini, sottoposti del resto anch’essi
all’osservanza delle norme morali, soggetti a eventuali ammonizioni e denunce. In tal modo la
Chiesa calvinista, una comunità fondata sull’assemblea, sull’elezione delle cariche, sul libero
dibattito, si pone, al contrario della luterana, al di sopra dello Stato e lo controlla direttamente.
La Chiesa militante
La consapevolezza da parte di alcuni esponenti della Chiesa cattolica della necessità di una
riforma interna morale e disciplinare e le pressioni da parte dell’imperatore Carlo V, sempre più
preoccupato del passaggio di molti suoi sudditi al luteranesimo, per lungo tempo, nella prima metà
del Cinquecento, fanno sperare nella ricomposizione del mondo cristiano. Intorno al 1540
l’imperatore favorisce una serie di incontri tra esponenti cattolici e protestanti nella speranza di una
riconciliazione. Tuttavia, negli anni immediatamente successivi questa speranza si dimostra
illusoria e le rispettive posizioni si irrigidiscono fino a determinare la definitiva rottura.
Nel 1545 si apre a Trento il concilio dei vescovi: la stessa scelta della città dichiara un
intento interlocutorio del mondo cattolico con quello protestante. Ma i tempi non sono più proficui
per il dialogo: i luterani rifiutano un concilio dove il pontefice appare non una parte in conflitto, ma
in posizione preminente. Pertanto essi si rifiutano di inviare i propri rappresentanti. Il concilio
diviene pertanto una fase della riflessione della Chiesa cattolica su stessa e il proprio ruolo in
un’Europa dove coesistono diverse religioni cristiane.
Il concilio di Trento, divenuto un concilio solo cattolico, si conclude così nel 1563, con la
sistematizzazione con la Professio fidei tridentinae, la Professione di fede tridentina: una
precisazione delle tradizionali posizioni della Chiesa, opportunamente modificate per meglio
combattere l'offensiva delle idee protestanti. Si riaffermano il valore delle opere, il ruolo della
tradizione ecclesiale, il primato papale, la distinzione tra i laici, semplici credenti, e il clero,
obbligato al celibato e a vestire l'abito talare. Si approvano inoltre i dogmi relativi ai sacramenti e si
difendono le posizioni tradizionali sull'esistenza del Purgatorio, sulla liceità per la Chiesa di
concedere indulgenze, sul culto dei santi e della Vergine, sulla venerazione di immagini sacre e
reliquie.
La controffensiva organizzata dalla Chiesa a Trento non avviene però solo sul piano
dottrinale ma anche su quello, di una profonda ristrutturazione del clero e degli ordinamenti
ecclesiali. Si disciplinano le assemblee provinciali e di diocesi, dette sinodi; si rafforza grandemente
la figura del vescovo, obbligato adesso a risiedere nella sede episcopale e tenuto a fornire
periodicamente i suoi pareri sullo stato della diocesi attraverso relazioni effettuate sulla base di
ispezioni, le cosiddette visite. Le diocesi vengono articolate in parrocchie affidate a parroci cui è
affidata la predicazione ordinaria e l'insegnamento dei precetti religiosi basilari, raccolti in forma
semplice in un breve testo, il catechismo.
Ad un livello più elevato, l'insegnamento della chiesa è affidato ai seminari, dove i futuri
sacerdoti vengono educati ed istruiti, e soprattutto ai nuovi ordini religiosi nati in quella temperie
per difendere l'insegnamento della Chiesa dall'eresia protestante. Si tratta dei Teatini (1524) ma
soprattutto dei Gesuiti, un ordine religioso fondato (1540) da Ignazio de Loyola.
Con i Gesuiti si profila un modello di rapporti tra sfera religiosa e sfera civile opposto a
quello protestante. Vi è da parte gesuita il sostanziale riconoscimento della distinzione tra l'una e
l'altra, di un'irriducibile diversità dei valori mondani e quindi dell'impossibilità di uniformare le
regole dell'universo politico-sociale a quelle della Chiesa. Per i protestanti invece, come si è visto,
l'abbattimento della distinzione tra Chiesa e società, attraverso l'idea del sacerdozio universale,
comporta da un canto l'angosciosa esperienza della solitudine del peccatore di fronte a Dio, ma
dall'altro un intento di plasmare in senso cristiano l'intero comportamento collettivo, di intervenire
nella vita pubblica modificandola e riformandola.
Questi modelli diversi si confrontano in un'Europa divenuta campo di guerra religiosa, divisa
da un conflitto lungo oltre un secolo. La Francia, dopo un periodo di conflitti noti come guerre di
religione (1562-98), giunge a un precario e instabile equilibrio tra la maggioranza cattolica e la
minoranza ugonotta, cioè calvinista. Le penisole italiana e iberica e la Germania meridionale
rimangono cattoliche, grazie all'appoggio determinante dei due rami degli Asburgo. Per impedire la
penetrazione protestante viene messa in atto da parte cattolica una strategia repressiva di grande
efficacia basata sulla censura, sul rogo pubblico dei libri non autorizzati, catalogati in apposito
Indice dei libri proibiti, su una riorganizzata Inquisizione. Ne sono colpiti tutti i fermenti culturali
che non si conformano alla verità cattolica.
Anche nelle aree riformate (Inghilterra, Olanda, Germania centro-settentrionale, gran parte
della penisola scandinava) si registrano spinte all'intolleranza ma la molteplicità dei differenti credi
di ispirazione protestante comporta di necessità un atteggiamento diverso, che impedisce
l'imposizione violenta dell'ortodossia. In Inghilterra ad esempio, a seguito di un lungo confronto
religioso segnato da due rivoluzioni, l'idea di tolleranza, propugnata da pensatori come John Locke
(1632-1704), inizia ad affermarsi. Si comincia così a diffondere l’idea di una necessaria distinzione,
se non proprio separazione, tra sfera religiosa e sfera politica, osservando da un lato che la fede non
può essere resa obbligatoria per legge e dall'altro che le chiese sono associazioni private di credenti.
Tale concezione trova in parte espressione nella promulgazione, da parte del sovrano Guglielmo III,
dell'Atto di tolleranza (1689) con cui si garantisce libertà di culto al complesso universo delle sette
protestanti che non aderiscono (e sono perciò dette dissenzienti) alla Chiesa di stato anglicana. il
pluralismo religioso viene così formalmente ammesso, ma limitatamente all'area protestante in
quanto ai cattolici continua ad essere vietato il culto
La Rivoluzione e l’alleanza tra trono e altare
Dall'Inghilterra le idee di tolleranza passano, insieme agli emigrati puritani, nelle colonie
inglese nordamericane e trovano un primo esito nella costituzione della Pennsylvania (1682). Lungo
il Settecento poi esse sono riprese dal pensiero razionalista, che si propone di sottoporre la Sacra
scrittura al vaglio della ragione e poi, in modo più ampio, dall'Illuminismo, che estende la critica
razionalista a tutti gli aspetti del mondo sociale. Ne deriva l'affermazione dei principi della libertà
religiosa contenuta nella Dichiarazione dei diritti americana (1776) e poi in quella francese (1789).
La libertà di coscienza e di fede viene definita ora come un diritto inalienabile dell'individuo, a
valere in qualunque circostanza, non più il risultato di una situazione contingente, una mera
valutazione di opportunità. La critica illuminista mette inoltre a nudo il carattere strumentale
dell'uso della religione da parte del potere monarchico e denuncia il fanatismo superstizioso
originato dalla dannosa commistione tra fede religiosa e istituzioni politiche.
Lo scossone imposto dalla Rivoluzione francese con la Costituzione civile del clero del 1790,
l'obbligo per il clero del giuramento di fedeltà al nuovo regime costituzionale, pone la chiesa
francese, e quella cattolica in generale di fronte a un dilemma: aderire al nuovo regime democratico
o rafforzare l'alleanza con le monarchie cattoliche anch'esse minacciate dalla Rivoluzione. La strada
scelta dalla Chiesa cattolica sarà la seconda: circa metà dei membri del clero non giura ed è
costretto a emigrare in massa, mentre il papa condanna la rivoluzione. In seguito la Chiesa pone la
sua autorità a servizio del pensiero reazionario e legittimista, per il quale è Dio ad aver stabilito chi
deve governare e bisogna far di tutto per far ritornare sul trono le dinastie abbattute dalle rivolte
popolari e dalle armate francesi.
Il risultato è che i preti incitano le masse popolari alla controrivoluzione in nome di Dio. La
prima di queste insurrezioni si avrà in Vandea nel 1793. I vandeani si ribellano al governo
rivoluzionario francese presentandosi come crociati di una cristianità oppressa e come difensori
della legittimità monarchica. L'esempio vandeano, stroncato nel sangue dall'esercito rivoluzionario,
diventa per tutta l’Europa un precedente. In nome della fede cattolica vengono così preparate le
insurrezioni controrivoluzionarie nel regno di Napoli (1799) e in Spagna (1812).
Sull'altro fronte, al di là degli eccessi della Rivoluzione francese, giunta al punto di operare
un processo di scristianizzazione, con le chiese usate come luoghi di riunione, l'introduzione del
culto della Dea Ragione, la sostituzione dei martiri civili al posto di quelli cristiani e l'abolizione del
celibato ecclesiastico, si viene diffondendo l'idea di una separazione tra la religione, da confinare
nella sfera della coscienza individuale, e la società politica, da regolare attraverso leggi valide per
tutti, credenti e non credenti.
L'intero XIX secolo vede così riproporsi una specie di guerra di religione tra il pensiero
liberale, deciso ad imporre la garanzia della libertà di coscienza e di espressione attraverso la
costituzione e la sovranità popolare e il pensiero cattolico-reazionario, impegnato nel sostegno
all'idea di una monarchia di diritto divino. Laico cessa di essere così il termine usato per indicare il
credente non sacerdote e diviene un sinonimo della posizione di chi, credente o meno, rifiuta di far
discendere dalla propria fede precise scelte politiche.
Nella così detta età della Restaurazione, negli anni che vanno dal 1815 al 1830, in cui si
cerca di cancellare i risultati della Rivoluzione francese, l’alleanza tra trono e altare si fa
particolarmente stretta. La fede religiosa diviene allora garanzia di ortodossia politica e viceversa. Il
solo modo per evitare il contagio rivoluzionario sembra quello di riproporre un re come immagine
della divinità. I risultati cui conduce questa tendenza sono aberranti: ne è esempio una legge
francese del 1825, che punisce la bestemmia con la pena di morte.
Cattolici in politica
Particolarmente violento è il contrasto si fa in paesi, come l'Italia, dove il processo di
unificazione nazionale trova un ostacolo nel ruolo universalistico e nella presenza politica della
Chiesa. In verità, per una certa fase, il pontefice Pio IX ritiene di poter utilizzare la spinta
nazionalista per riunificare l'Italia in una federazione di stati guidata o ispirata dalla Chiesa. Tale
progetto, definito neoguelfo, tuttavia fallisce e il Risorgimento, che il conte di Cavour guida sulla
linea di una separazione tra potere civile e religioso, comporta l'abbattimento dello Stato della
Chiesa. Pio IX reagisce a ciò con il Sillabo, pubblicato nel 1864, un testo di orgogliosa
riaffermazione del potere temporale del Papa e di condanna degli «errori del mondo moderno».
Inoltre egli convoca un concilio, il Concilio Vaticano I, da cui fa ratificare l'infallibilità delle
decisioni papali assunte in forma ufficiale e su questioni spirituali.
Di lì a poco, però, l'ultimo residuo dello Stato pontificio, la città di Roma, viene a cadere. La
città è proclamata capitale del nuovo Regno d'Italia. Al papa il governo italiano con la Legge delle
guarentigie garantisce, con atto unilaterale, una serie di garanzie e di immunità: fra le altre, il
possesso pieno di una zona urbana dell'Oltretevere, attorno alla basilica di San Pietro, la cosiddetta
Città del Vaticano. Il papa, tuttavia, non accetta l‘evidenza delle cose e, nel 1874, proclama il
cosiddetto non expedit, non conviene, un decreto con cui vieta ai cattolici la partecipazione alla vita
politica. Questa posizione cattolica comporta un ritardo nel processo di integrazione nazionale da
cui i cattolici si autoescludono. Un mancato riconoscimento, da parte di una parte significativa della
collettività, della legittimità del regno d'Italia.
Solo la minaccia costituita dal diffondersi tra gli strati popolari di idee anarchiche e
socialiste, movimenti con forte presenza di posizioni atee, unita al bisogno di superare l'isolamento
politico in cui la posizione intransigente aveva costretto strati importanti della società italiana,
spingono la Chiesa al superamento graduale di tale scelta. In vista delle elezioni politiche del 1913,
le prime tenute a suffragio universale maschile. I cattolici, guidati da Vincenzo Gentiloni, stringono
in quell'occasione un'alleanza con le forze di ispirazione liberale, un patto volto ad appoggiare quei
candidati che si impegnino a non approvare leggi anticlericali.
Dopo la prima guerra mondiale la Chiesa decide di superare definitivamente la posizione di
rifiuto delle istituzioni italiane e di consentire anzi la partecipazione diretta dei cattolici come
movimento organizzato. Nasce così, nel 1919, il Partito popolare, guidato da don Luigi Sturzo. Il
partito, che punta a riconciliare cattolicesimo e liberalismo e a coniugarli con una necessaria
solidarietà nei confronti dei più deboli, ottiene buoni risultati elettorali. A seguito della violenta
istaurazione del regime fascista il Partito popolare si schiera all'opposizione, perdendo l'appoggio
della gerarchia ecclesiale, incline a un accordo col nuovo regime. Mentre il partito viene sciolto e
Sturzo è costretto all'esilio la Chiesa punta a farsi garantire dal fascismo la sua influenza sulla
società italiana, un risultato ottenuto nel 1929 con la stipula dei Patti lateranensi. Con l'accordo la
Santa Sede e il governo fascista si riconoscono reciprocamente come stati. La religione cattolica
acquista il titolo di «sola religione di Stato». Alla Chiesa, inoltre, vengono riservati particolari
privilegi, tra cui l'insegnamento obbligatorio della dottrina cattolica nella scuola pubblica e la
capacità per il matrimonio religioso di comportare automaticamente effetti civili.
Va sottolineato come il modello di concordato italiano sarà la base di un analogo accordo
stipulato nel 1933 tra la Santa Sede e il regime nazista, che assicurò a Hitler, in cambio di taluni
privilegi riconosciuti alla Chiesa in campo educativo, l'appoggio del mondo cattolico e il primo
effettivo riconoscimento del regime nazista in campo internazionale.
In Spagna, l'insurrezione del 1936 contro la Repubblica, che determinerà l'avvento, a seguito
di una sanguinosa guerra civile, del regime franchista, dal nome del suo leader Francisco Franco,
vede la Chiesa schierata dalla parte reazionaria. Questa influenza ecclesiastica sul regime ne mitiga
gli eccessi dovuti all'imitazione dei modelli fascista e nazista, ma non ne cancella il carattere
autoritario, reazionario e antidemocratico. Grande influenza ha in questo processo l'Opus Dei,
un'associazione cattolica semi-segreta di ispirazione conservatrice fondata nel 1928 da José María
Escrivá de Balaguer e riconosciuta poi ufficialmente dalla Chiesa nel 1947.
In Italia all'indomani della seconda guerra mondiale e della caduta del fascismo, cui il mondo
cattolico offre un contributo importante attraverso la partecipazione alla Resistenza, il rinato partito
popolare (che porta adesso il nome di Democrazia Cristiana ed è guidato da Alcide de Gasperi)
vince – grazie anche alla mobilitazione del clero – le elezioni democratiche e si impone così alla
guida della Repubblica. Su proposta della Democrazia cristiana, osteggiata dalle forze laiche ma
appoggiata dal Partito comunista, la nuova costituzione repubblicana recepisce completamente,
nell’ articolo 7, i Patti lateranensi.
Nominato papa da appena tre mesi con il nome di Giovanni XXIII, il cardinale Angelo
Roncalli, noto popolarmente con l'epiteto di «papa buono», proclama nel gennaio del 1959 la
convocazione di un nuovo concilio ecumenico, volto a ridefinire i rapporti tra la Chiesa e il mondo
moderno. Il Concilio Vaticano II, che si svolge dal 1962 al 1965, pone la Chiesa in una posizione di
apertura nei confronti dei «fratelli separati», cioè dei cristiani di altre fedi, e, più in generale, di tutti
gli «uomini di buona volontà». Promuove inoltre un'importante correzione dell'impostazione
tradizionale sancita a Trento e ratificata dal Vaticano I. Ne è segno evidente la trasformazione della
messa: non più recitata in latino ma nelle lingue parlate, la cerimonia sacra valorizza adesso la
lettura e il commento del Vangelo e vede il sacerdote rivolto ai fedeli, mentre in precedenza egli
dava loro le spalle. Questi mutamenti sono il segno di una più generale modificazione degli assetti
ecclesiali: il concilio stabilisce il primato della dimensione collegiale di ogni episcopato nazionale
ed esalta la natura comunitaria dell'esperienza religiosa, con una partecipazione più attiva dei laici.
Ne risulta tonificata la partecipazione cattolica al mondo del lavoro e rinnovata quella nel
settore dell'assistenza sociale ai poveri e agli emarginati. Il mondo del volontariato cattolico ne
riceve in particolare un forte impulso, in parallelo al sostegno all'azione infaticabile delle missioni
nel Terzo mondo.
La partecipazione politica dei cattolici, particolarmente importante in Italia, Germania,
Belgio e Francia, è ispirata nella seconda metà del XX secolo a principi di adesione alla
democrazia, di accettazione dei principi liberali, di lotta al socialismo e di relativa aconfessionalità,
e cioè di parziale autonomia della presenza politica cattolica dalle posizioni sociali della Chiesa. I
partiti democratico-cristiani, federati in un’Internazionale democratico-cristiana, danno un forte
impulso alla costituzione dell’Unione europea. In particolare in Italia, dove la Democrazia cristiana
resta al governo sino alla sua dissoluzione, nel 1992, a seguito della perdita di consenso elettorale
provocata dall'evidenza giudiziaria della corruzione del sistema politico, emersa dalle numerose
inchieste che vanno sotto il nome di Tangentopoli, la presenza dei cattolici ha costituito l'asse della
vita pubblica.