Il sacro e la religione di Nicoletta Bazzano e Francesco Benigno «Dio è morto». Con questa formula lapidaria si usa esprimere il senso di estraneità, l’emarginazione della religione dalle vicende politiche del nostro tempo, un’epoca di disincanto dominata da concetti e valori che prescindono da qualsivoglia fede religiosa. In Europa, in particolare, si è ormai da secoli venuta affermando una tendenza a separare più o meno nettamente la sfera religiosa da quella politica, riservando alla prima unicamente il territorio della coscienza, dell’interiorità individuale. La religione e lo Stato hanno cioè progressivamente distinto, col tempo, i propri ambiti di influenza. Mentre la prima si interiorizzava, diminuendo la sua presa sulla vita sociale, il secondo si laicizzava, dotandosi di un sistema di norme del tutto indipendenti da quelle religiose. Sempre più numerosi divenivano così gli aspetti dell’esperienza collettiva sottratti a qualsiasi riferimento religioso. Anche i momenti cruciali dell’esistenza, quei passaggi che la religione aveva sottolineato con eventi pubblici capaci di essere insieme riti sacri e cerimonie sociali, come i battesimi e i matrimoni sono stati progressivamente desacralizzati. Questa tendenza alla laicizzazione o, come si usa dire, alla secolarizzazione della vita collettiva (dal latino saeculum, secolo, inteso come mondanità, vita terrena) è apparsa per una fase del Novecento dominante e destinata a coinvolgere gradualmente e quasi ineluttabilmente l’intera società occidentale. In generale il rapporto con la religione si è progressivamente allentato e si è affermata la distinzione fra credenti, coloro che – in gran numero e in modo più o meno convinto – professano una fede, e praticanti, quella minoranza che si attiene scrupolosamente alle prescrizioni religiose. Recentemente tuttavia sono emersi consistenti e crescenti dubbi sul carattere irreversibile dei processi di laicizzazione della vita pubblica. Per prima cosa occorre ricordare che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale professa a tutt’oggi, pur con le differenze di atteggiamento sopra ricordate, una fede religiosa. Su sei miliardi di abitanti del pianeta circa un terzo, quasi due miliardi, praticano confessioni cristiane, tra le quali prevale quantitativamente il cattolicesimo con circa un miliardo di fedeli. Oltre un miliardo sono i musulmani, e in numero simile sono induisti e buddisti. Aggiungendo a queste stime quelle relative alle religioni minori, si raggiunge la conclusione che più di otto individui su dieci sono in qualche modo credenti o praticanti di qualche religione. Alcuni eventi e fenomeni recenti aggiungono ulteriori dubbi sulla validità della previsione di una definitiva emarginazione della religione dalla vita collettiva. La scomparsa dell’Unione Sovietica, uno Stato in cui vigeva ufficialmente l’ateismo, è cioè la negazione dell’esistenza di Dio, ha portato in quei territori a una sorta di reviviscenza religiosa. In Polonia, a lungo soggetta allo stesso sistema, l’opposizione al regime comunista e il suo rovesciamento hanno visto protagonista un movimento – Solidarnosc – di marcata ispirazione cattolica. Negli Stati Uniti, d’altra parte, l’universo delle sette cristiane ha pesato fortemente negli ultimi anni sulla scena politica, influenzando l’elezione dei presidenti e tentando di condizionare una serie di scelte collettive rilevanti. Nel mondo cattolico, infine, il papato di Giovanni Paolo II si è segnalato per l’insistenza sulla necessità di introdurre una forte ispirazione religiosa nella vita sociale e per la tendenza a far sentire la voce della Chiesa su tutte le più urgenti questioni sociali e internazionali. Nel mondo musulmano, addirittura, la tendenza prevalente sembra, a tratti, quella di un ritorno al completo assoggettamento della politica ai principi religiosi. Il fondamentalismo, la spinta a plasmare l’intera società sulla base dei fondamenti di una fede religiosa, ha una lunga storia, ma nel mondo contemporaneo si è manifestato con caratteri nuovi: in Libia, nel 1969, con l’instaurazione di un regime politico-militare guidato dal colonnello Gheddafi; e in Iran un decennio dopo (1978-79), nella rivoluzione islamica contro lo scià Rezha Palhavi capeggiata da un leader religioso, l’ayatollah, guida spirituale, Khomeini. L’affermazione in Iran di un regime teocratico, un regime in cui il potere politico è sotto lo stretto controllo della gerarchia religiosa, ha incoraggiato l’emergere in altri paesi di tendenze integralistiche, che propugnano la creazione di società interamente assoggettate alla legge religiosa. L’Islam è così divenuto simbolo di riscatto e di identità per tutte le popolazioni arabe. È forse allora utile interrogarsi sul secolare, tortuoso percorso che ha condotto in Europa alla separazione della sfera religiosa da quella civile; sui contrasti e gli scontri che l’hanno caratterizzato; sui nodi irrisolti che tuttora permangono. Soprattutto, sull’eredità che ci consegna, quale impegnativo ma insostituibile bagaglio di conoscenze per il futuro. Il sacro In ogni cultura umana vi sono alcuni luoghi (monti, sorgenti, alberi o boschi, in seguito templi e poi chiese), taluni particolari oggetti, certe specifiche persone (i sacerdoti) che assumono un rilievo speciale, vengono posti al di sopra dell’ordinario e resi oggetto di devozione e di sottomissione. Essi sono definiti sacri, cioè dedicati alla divinità e al culto, e quindi separati dal resto della comunità: sono infatti ritenuti in grado di collegare il mondo materiale, visibile, a un mondo immateriale e impalpabile, presente accanto a quello terreno. Tutte le società umane hanno creduto a questo «altro» mondo, invisibile e misterioso, immaginandolo in mille maniere diverse. Questi luoghi, oggetti, persone sprigionano dunque un fascino senza pari poiché essi sono l’espressione nel mondo naturale, fisico, di una potenza soprannaturale, metafisica, oltre il mondo fisico. In quanto punti di contatto con un universo separato, essi sono circondati da particolari proibizioni, tabù, e prescrizioni che ne regolano l’accesso per i soggetti comuni. Si tratta di regole per lo più fondate sulla contrapposizione ancestrale tra il puro e l’impuro, tra ciò che si può avvicinare e toccare e ciò che non si può avvicinare né toccare: una distinzione che sta a fondamento di quella, più familiare, tra il bene e il male. La potenza che si manifesta in questi luoghi, oggetti e persone è ritenuta in vario modo manipolabile attraverso pratiche specifiche, dette magiche, dirette a una sua applicazione nel mondo terreno. La magia è perciò la credenza nella capacità umana di sfruttare a proprio vantaggio l’universo misterioso delle forze invisibili e ultraterrene. Il sacro va, tuttavia, molto al di là del magico, accogliendolo e al tempo stesso superandolo. Un luogo, un manufatto, una persona sono infatti sacri non solo perché in grado di incarnare o attivare forze soprannaturali, ma soprattutto perché capaci di spiegare la realtà della vita, di fornire senso a ciò che sembra non averne – il dolore e la morte – e di offrire una visione del mondo che includa e spieghi il destino di ciascuno, il futuro terreno ma soprattutto la sorte ultraterrena. L’insieme di credenze, riti, istituzioni e uomini che organizzano formalmente il sacro si chiama religione. La religione, in altre parole, è la forma di organizzazione sociale del sacro, e cioè quel processo attraverso cui i potere e i significati che dalla dimensione del sacro si sprigionano vengono codificati, gerarchizzati, classificati e tradotti in istituzioni. La religione opera dunque un processo di delimitazione, racchiudendo e circoscrivendo, come dice l’etimologia della parola stessa «religione», che deriva dal latino relegere, raccogliere, l’area del sacro. Ciò significa distinguere lo spazio sacro, quello dove si svolgono i culti, dallo spazio profano, posto fuori dal tempio, dal recinto religioso. E dividere le persone sacre, o sacerdoti, dalle persone comuni, o laici. E ancora, significa scandire un tempo sacro, il giorno della preghiera, o festivo, come differente da un tempo ordinario, o di lavoro. Oltre a ciò, la religione organizza poi, attraverso i riti, l’accesso controllato della popolazione al sacro. Si tratta di cerimoniali che consentono ai fedeli di partecipare al gesto di congiunzione con la divinità, il sacrificio, e di accostarsi, attraverso la mediazione dei sacerdoti, alla parola e alla volontà che sono credute derivanti da un mondo ultraterreno. Il sacrificio rappresenta, in altre parole, la sottomissione collettiva alla volontà divina attraverso il dono al Dio di essere viventi, beni od oggetti che rappresentano la vita stessa della comunità, esprimendo così la resa del mondo terreno alla potenza di ciò che lo trascende, che esiste al di fuori o al di sopra della realtà sensibile. Da un lato la religione è una struttura di controllo collettivo del sacro, della sua natura ineffabile così come delle pratiche magiche che la accompagnano; d’altronde, parallelamente, essa è un sistema di pensiero, un discorso che narra l’essenza del mondo e la natura dell’uomo, che spiega come una società è e, ancor di più, come dovrebbe essere. Nelle religioni monoteistiche, quelle che adorano una sola divinità, questi due piani si unificano in un punto, «l’unico e vero Dio», che è distante dagli uomini, in quanto è sorgente della potenza sacra, ma nello stesso tempo è loro vicino, in quanto fonte imperscrutabile della legge cui tutti gli uomini devono uniformarsi. Mentre le religioni politeistiche adorano più divinità che si dividono, in accordo o contrapposizione, il controllo dei mondi naturale e soprannaturale, le religioni monoteistiche riconducono tanto l’universo terreno quanto quello ultraterreno a una sola imperscrutabile volontà e perciò a un insieme di verità considerate indiscutibili, dogmi, e di precetti pratici che da esse discendono, cui l’uomo deve ubbidire ciecamente in segno di affidamento e di sottomissione. Per questa ragione in ogni religione monoteista è essenziale un libro, anzi il libro per eccellenza, contenente l’essenza della verità. Per la religione ebraica questo libro è l’Antico Testamento, che narra del patto stretto con Dio con il popolo ebraico; per quella cristiana è la Bibbia, e cioè l’Antico Testamento più il Nuovo Testamento, che illustra la vita, le parole e le opere di Gesù Cristo; per quella islamica il Corano, che raccoglie le rivelazioni fatte da Allah al profeta Maometto. In tutti e tre i casi questo libro, che si crede contenga la parola di Dio, e perciò le idee e i precetti che devono animare la comunità dei fedeli, è esso stesso sacro, e perciò incontestabile, posto al di là e al di sopra della ragione umana. Se la sfera del sacro si presenta come l’origine della legittimità dell’agire, è comprensibile che l’autorità politica abbia storicamente tratto un indiscutibile vantaggio dal rivestire un ruolo sacrale. Specie nel caso di religioni monoteiste, ciò ha significato conferire al potere politico intoccabilità e indiscutibilità, ponendone gli atti al riparo dal dibattito e dalla contestazione. In altre parole, fare del sovrano il rappresentante di Dio in terra e della legge stata l’emanazione di quella celeste, ha significato estendere all’uno e all’altra quel rispetto deferente che si riconosce alla divinità. Cristianesimo e Impero romano La storia del sacro in Europa coincide sostanzialmente con la storia del cristianesimo e del consolidarsi del suo apparato teorico e dottrinale. Per tre secoli dopo la morte di Gesù Cristo, il cristianesimo è stato una religione minoritaria sebbene diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo: una tra le tante che convivevano nell’Impero romano. Molto attivi nell’azione di proselitismo, i cristiani delle origini sono organizzati in comunità locali largamente indipendenti, che eleggono autonomamente i propri capi, tenendosi in contatto fra loro ma differenziandosi per opinioni teologiche relative al senso del messaggio di Gesù Cristo, alla natura di Dio e alle strutture organizzative. Spesso si tratta di gruppi semiclandestini, che a tratti vengono perseguitati, a causa del loro eccessivo attivismo, dalle autorità romane. Li accomuna un messaggio di salvezza ultraterrena che, a differenza di quanto accade per esempio nella religione ebraica, non si riferisce a un popolo o a un gruppo sociale definito, ma all’intera umanità. Il sacrificio sulla croce di Gesù Cristo è avvenuto – così predicano i cristiani – per la salvezza di tutti, uomini liberi e schiavi, maschi e femmine, individui di ogni età, razza e condizione sociale. Ciò perché ogni persona, al di là delle differenze, porta ugualmente in sé un nucleo immortale che ne racchiude l’io più intimo e vero, l’anima. Grazie al sacrificio del figlio di Dio, tutti hanno ricevuto in dono la possibilità di accedere alla salvezza ultraterrena. Vi è perciò, nel cristianesimo delle origini, una forte tensione escatologica, l’attesa di una fine del mondo che vedrà il trionfo dei giusti. Anche i più deboli, i poveri, i malati, i reietti, gli ultimi della scala sociale, sono messi teoricamente, nel messaggio cristiano, sullo stesso piano degli altri. Viene anzi riservata loro dalla parola di Dio un’attenzione speciale e le cure maggiori da parte dei correligionari benestanti, di coloro che hanno ricchezze materiali e spirituali. In quest’ottica la carità diventa simbolo e immagine della crescita spirituale: il vero cristiano è colui che sa farsi povero e che, a imitazione di Cristo, facendosi servo dei servi mette le proprie facoltà al servizio degli altri. Il cristianesimo si presenta dunque come una religione della salvezza universale, che accomuna tutti nello stesso percorso di fede. Questo messaggio di fede e di riscatto universale si fonde con una visione dualistica costruita sull’opposizione tra un bene spirituale e un male materiale che convivono nell’uomo: tra l’anima, che è un’essenza creata da Dio a sua somiglianza, e il corpo, in cui si annida invece il principio del peccato. Il peccato, e cioè la disubbidienza al volere di Dio, risiede per i cristiani nella natura carnale dell’uomo, nell’attaccamento all’aspetto materiale, esteriore del mondo. Vi è, nella storia dell’umanità, una caduta originaria da uno stato felice – la vita senza peccato, il Paradiso terrestre – che viene riscattata da Dio con l’incarnazione del figlio Gesù Cristo, che si fa uomo e «agnello sacrificale», simbolo della resa, della sottomissione umana alla volontà divina. Il sacrificio sulla croce di Gesù Cristo è la premessa della salvezza, di una possibile redenzione di tutto il genere umano e di ogni singolo fedele. Questa redenzione è annunciata da Dio, ed è essa a dare senso al tempo, a trasformarlo in storia. Sottratto ai ritmi della natura, il tempo ha ora una direzione e un fine già annunciati. In passato dunque non è che una preparazione della venuta sulla terra, della morte e della resurrezione del figlio di Dio. Da quel momento in poi la storia è attesa di ciò che si deve compiere e a cui tutti i cristiani devono collaborare. Il cristianesimo perciò esalta l’attività del mondo e la partecipazione dei credenti al piano provvidenziale di Dio. Queste idee definiscono una dottrina religiosa ancora relativamente fluida, non irrigidita in un corpo dogmatico unico. Anche la liturgia, e cioè l’organizzazione dei riti, presenta differenze fra le varie comunità cristiane delle origini. Una svolta decisiva, che modifica questo quadro, avviene nel IV secolo d.C. quando, a seguito di una serie di vicende politiche, il cristianesimo diviene la religione ufficiale dell’Impero romano. Dopo l’Editto di Milano, promulgato dall’imperatore Costantino nel 313, i cristiani godono libertà di culto, mentre a partire dagli anni quaranta del IV secolo vengono posti dei limiti all’esercizio delle religioni non cristiane. Infine, con l’Editto di Tessalonica del 380, l’imperatore Teodosio dichiara il cristianesimo religione di Stato e proibisce tutti gli altri culti. Da questo momento in poi le comunità cristiane entrano in stretto rapporto con le strutture politiche romane, e l’organizzazione ecclesiastica si modella su quella amministrativa imperiale, con le diocesi, unità amministrative dell’Impero romano che sovrintendono a più province, che si trasformano in circoscrizioni su cui il vescovo esercita giurisdizione spirituale e governo ecclesiastico. Mentre nelle città si moltiplicano le sedi episcopali, alcune tra esse acquisiscono – per antichità di fondazione o prestigio intellettuale dei loro esponenti – una particolare posizione di superiorità. Si tratta di Roma, Milano, Aquileia e Ravenna nella parte occidentale dell’Impero, e di Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria nella parte orientale. Diffusosi in tutto il Mediterraneo, il cristianesimo incontra ed entra in contatto con culture e culti diversi, definiti genericamente dai cristiani pagani, praticati da coloro che, non raggiunti dalla fede cristiana, adorano gli idoli, cioè le immagini di varie divinità. Da questa molteplicità di incontri scaturisce una sensibilità molto variegata che produce più modi di vedere il mondo e la tradizione culturale pagana ma anche divergenze e discussioni di carattere dottrinario. Queste ultime, tuttavia, appaiono politicamente pericolose, in quanto potenziali fattori di divisione. Particolarmente laceranti risultano le polemiche cristologiche, vale a dire le diverse posizioni sulla natura duplice, umana e divina insieme, o solo divina, di Gesù Cristo. In particolare, la diffusione dell’arianesimo, una dottrina cristiana che nega la natura divina di Cristo, riconoscendogli solo quella umana, obbliga l’imperatore Costantino a indire il primo concilio, l’assemblea formalmente costituita dei vescovi delle chiese cristiane, un’istituzione che diviene la massima espressione spirituale del mondo cristiano. Il concilio, tenutosi a Nicea nel 325, condanna l’arianesimo come eresia e stabilisce che la natura di Gesù Cristo è insieme umana e divina, in parte fatta della stessa sostanza di quella del Padre e dello Spirito Santo, formulando così il dogma della Trinità, di un Dio unico in tre persone. Spesso le divergenze dottrinali esprimono la competizione tra le sedi episcopali per la preminenza spirituale e politica. In pratica, malgrado la proclamazione a religione di Stato dell’Impero, il cristianesimo non costituisce ancora un corpo dottrinario ben definito, ma un insieme di credenze diffuse regionalmente e talvolta in contrasto con le scelte dell’autorità imperiale in materia religiosa. Sarà tuttavia la sede episcopale romana, avvalendosi del prestigio indiscusso della città di Roma, a guadagnare col tempo un ruolo-guida: riconosciuto dal concilio di Calcedonia, questo primato rimane puramente onorifico fino a quando, l’imperatore Valentiniano concede al vescovo di Roma una sorta di supremazia giuridica su tutte le chiese della parte occidentale dell’Impero. Da allora in poi il vescovo di Roma inizia a essere chiamato papa e a esercitare una funzione di coordinamento degli altri episcopati. Il primato romano si afferma tuttavia compiutamente solo a seguito della dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente, quando il papa si presenta come l’unica autorità in grado di ereditare la funzione imperiale. Grazie a uno stretto accordo con il Regno franco, il papato emerge dalla crisi determinata dalla scomparsa delle strutture imperiali con la fisionomia di una forza autonoma, dotata di una capacità di legittimazione che diviene fondamentale per ogni potere politico, come si evince dall’incoronazione degli imperatori del Sacro romano Impero da parte dei pontefici romani. «Quelli che pregano»: monaci, clero, forme del culto Mentre le popolazioni germaniche dal IV secolo si convertono in massa al cristianesimo attraverso l'arianesimo, la spinta evangelizzatrice cristiana è impersonata soprattutto dai monaci. Si tratta di ecclesiastici che vivono in comunità, dette cenobi o monasteri; e che si distinguono perciò da coloro, gli eremiti, che si rifugiano in una solitudine ascetica. Nei monasteri, spesso situati in luoghi appartati, è possibile praticare un'esistenza di preghiera, di spiritualità vissuta in gruppi coesi e di elevazione attraverso la mortificazione delle esigenze materiali. Da questi centri di meditazione e di religiosità i monaci si muovono per predicare in terre non ancora raggiunte dal messaggio cristiano. Nel Regno franco i monasteri vengono spesso fondati su diretto impulso regio e divengono importanti strumenti di controllo sociale. Si cerca di irreggimentare così un clero spesso indisciplinato e libero dai vincoli dell'obbedienza a superiori, ma anche di combattere la tendenza all'ascesi solitaria ed individuale, sospetta di sfuggire all'autorità riconosciuta dei vescovi. In Irlanda poi, il monachesimo acquista un'importanza speciale. La chiesa irlandese, costituitasi nel VII secolo a seguito della missione evangelizzatrice di San Patrizio, si organizza come una confederazione di monasteri. Il potere di controllo territoriale e la responsabilità giuridica ad esso connessa, la cosiddetta giurisdizione, non appartiene cioè ai vescovi ma ai capi dei monasteri, gli abati. Le regole di vita e le norme organizzative nei monasteri sono varie, flessibili e molto differenti da zona a zona. Solo a partire dal IX secolo nel regno franco viene dichiarata valida un'unica regola, quella benedettina, predisposta da san Benedetto da Norcia (480-546) per organizzare la vita nel monastero di Montecassino e negli altri monasteri fondati dai suoi seguaci. La scelta di vita religiosa è diffusa e vi sono famiglie che affidano ai monasteri bambini definiti oblati, donati, per farne dei monaci. Più in generale il clero, gli uomini e donne di chiesa, coloro che pregano, divengono una componente essenziale (e separata) dell'ordine sociale. Essi assumono anzi gradualmente una funzione di controllo sulla correttezza e sulla rispondenza ai precetti cristiani dei comportamenti dei non ecclesiastici, i laici. La diffusione degli ordini monastici articola l'universo ecclesiastico in due grandi aree, quella del clero cosiddetto secolare, composto dai sacerdoti e guidato dai vescovi e quello del clero regolare, formato dai membri delle organizzazioni religiose e monastiche, chiamate ordini, e guidato da superiori o abati. Di questo secondo gruppo entrano a far parte le donne, con la costituzione di ordini di monache e la creazione di monasteri femminili. Nel regno franco rinchiudere le giovani figlie in convento diviene per le famiglie nobili un modo per risolvere il problema dell'eccesso di figlie femmine da dotare. E al contempo per incrementare la considerazione sociale della famiglia. Le monache si dedicano infatti alla commemorazione in monastero dei defunti della famiglia, contribuendo a mantenerne la memoria genealogica. Il ruolo di sacerdote, l'unico in grado di celebrare la messa e di riprodurre quindi la transustanziazione, ovvero la presenza del corpo e del sangue di Gesù Cristo nelle specie del pane e del vino, viene invece riservato ai maschi e bel presto si stabilisce per esso la regola del celibato, la proibizione ai sacerdoti di contrarre matrimonio. La motivazione del celibato e del nubilato imposto a sacerdoti, monaci e monache o suore, cioè sorelle, deriva dall'esigenza di definirne i contorni di persone sacre, cioè distaccate dal resto della società in quanto pure. Poiché la purezza, la qualità di colui che vive nello spirito, è infatti macchiata dalle pratiche sessuali, il suo mantenimento esige la castità. Si tratta in pratica dell'estensione agli ecclesiastici di una concezione della purezza in voga nel mondo tardoantico per cui chi deve praticare l'atto magico o incantesimo deve essere sessualmente puro, pena la perdita dell'efficacia del rito. Tale estensione è parte dell’assimilazione di precedenti culti religiosi, e del recupero ad essa connesso di pratiche esoteriche (cioè riservate a pochi, gli iniziati), magiche e divinatorie proprie dell'universo religioso pagano. Ne derivano persistenti credenze nelle proprietà magiche di certi oggetti liturgici. Ma soprattutto ne discende il mantenimento, all'interno di una religione monoteistica quale quella cristiana, di una pluralità di culti, spesso rivolti a martiri o santi, considerati efficaci mediatori delle richieste dei fedeli, intermediari tra il mondo terreno e Dio. Le loro vite, raccontate in testi di larga diffusione, le cosiddette agiografie, delineano il percorso ideale, indicato ai fedeli, verso la salvezza. I santi sono ritenuti capaci, già da vivi ma poi anche da morti, di operare miracoli e cioè cambiamenti improvvisi e soprannaturali dell'ordine delle cose a vantaggio dei fedeli benemeriti. Inizia a manifestarsi inoltre la tendenza ad attribuire a un santo una specifica area di intervento su particolari problemi della vita individuale o sociale sui quali la sua influenza è ritenuta particolarmente notevole. Si diffonde anche il culto delle reliquie, resti mortali ma anche oggetti o capi di abbigliamento appartenuti presumibilmente a Cristo, alla Madonna o ai santi. Alle reliquie è attribuito un valore sacrale e il potere magico di ammantare chi le possiede e crede in esse di proprietà taumaturgiche, in grado cioè di guarire da malattie. Le chiese o basiliche, costruite attorno alle tombe dei martiri o santi, si riempiono così di una quantità inverosimile di oggetti di culto, spesso di dubbia origine. Acquista grande importanza anche il culto delle sante, veri e propri modelli di vita muliebre, e della Madonna, la madre di Cristo, pura per eccellenza e perciò, per miracolo, vergine. Su di lei converge l'enorme diffusione delle pratiche di culto di divinità femminili, soprattutto Iside e Demetra-Cerere, presenti nel mondo mediterraneo precristiano. Infine, si diffonde l'abitudine di andare in pellegrinaggio, attraverso percorsi anche molto lunghi, alle tombe di santi venerati. Da tutta Europa, ad esempio, pellegrini si recano a Santiago de Compostela, in Galizia, per avvicinare la tomba che si ritiene ospiti i resti dell'apostolo Giacomo, o a Roma, a pregare sulla tomba dell'apostolo Pietro. Il primato di Roma Il primato del vescovo di Roma sulla Chiesa occidentale diviene, grazie all'alleanza col regno franco, supremazia. Gradualmente la Chiesa si struttura cioè come un'istituzione relativamente unitaria e accentrata. A questa supremazia sfuggono tuttavia le comunità cristiane dell'area dominata dall'Impero romano d'Oriente, in cui parallelamente si va affermando l'autorità del vescovo (patriarca) di Costantinopoli. I teologi bizantini avevano a questo proposito ideato la teoria della pentarchia e cioè della superiorità paritaria di cinque sedi episcopali: Roma, Costantinopoli, Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. Tale complessa situazione viene aggravata dalle dispute teologiche che continuano ad affliggere l'universo cristiano. Esse dipendono dal differente rapporto che le comunità occidentali, guidate da Roma, e l'episcopato orientale, guidato da Costantinopoli, avevano stabilito con l'autorità politica. Mentre a Roma il potere papale tenta con successo la strada di una relativa autonomia dai poteri politici territoriali e punta a costruirsi, a garanzia di tale autonomia, perfino uno stato della Chiesa, a Bisanzio l'imperatore continua al contrario, forte del proprio ruolo sacrale, ad interferire pesantemente nella vita della Chiesa. L'autorità imperiale è fortemente interessata alla definizione dell'ortodossia, cioè della «giusta fede», un insieme di dogmi, e cioè di verità indiscutibili, da porre al di sopra del dibattito. L'esempio più eclatante di questa intromissione si ha nell'VIII secolo, quando il potere imperiale interviene nella disputa sulla liceità o meno della venerazione delle immagini sacre, le icone, assumendo – in contrapposizione alla maggioranza del clero – una posizione favorevole alla linea iconoclasta, propensa cioè a vietare del tutto il culto delle immagini, visto come espressione di superstizione. Questa presa di posizione in Oriente viene molto discussa: in Occidente, invece, il papato nega decisamente l’adesione alla linea iconoclasta, ponendo le premesse della separazione definitiva dall’orbita di Bisanzio. Dopo una serie di dispute teologiche, liturgiche e giurisdizionali, in cui una parte pretestuosa ha la disputa sull’iconoclastia, nel 1054 papa Leone IX e il patriarca Michele Cerulario si scomunicano, negandosi reciprocamente la legittimità dell'appartenenza alla comunità cristiana. In pratica nascono due distinte e contrapposte chiese cristiane. Da parte della chiesa romana, che si viene definendo come cattolica (o universale) ed apostolica (o discendente dagli apostoli), la separazione della chiesa d'Oriente viene indicata come scisma, o deviazione dalla retta fede. Viceversa da parte bizantina, che si viene definendo come ortodossa, la fede occidentale viene concepita come eresia, letteralmente scelta unilaterale, e cioè allontanamento dalla giusta dottrina. Come conseguenza della divisione, nel 1059 il papa Niccolò II emana un decreto in cui vengono fissate le procedure per l'elezione del papa, che avviene durante il conclave, si determinano i gradi della gerarchia ecclesiale e si stabilisce il ruolo dirigente della burocrazia ecclesiale romana, la Curia. Questo processo di fissazione della struttura ecclesiale è parallelo allo svolgersi di un duro confronto sull'autonomia della Chiesa dall'Impero. Abbiamo dunque in questo torno di anni una svolta fondamentale nella vita della Chiesa. Il papa Gregorio VII (1020-1085) fissa con un decreto dal titolo Dictatus papae le linee di una chiesa monarchica, cioè incentrata risolutamente sulla figura del papa-re: un'autorità in grado di prendere ogni decisione, revocare quelle dei predecessori, usare le insegne imperiali e scomunicare o dichiarare eretici coloro che non sono d'accordo. È il trionfo della centralità romana nella vita della Chiesa, basata sull'affermazione della superiorità del papa sul concilio e sulla sottrazione dell'operato del pontefice ad ogni giudizio superiore. La dottrina vera è quella fissata dal papa ed egli perciò – per definizione – non può essere accusato di eresia. Tali posizioni dottrinali aggressive e intransigenti contribuiscono alla spinta a riconquistare la Terra santa, la Palestina, caduta in mano infedele, ma poi anche contro i musulmani della penisola iberica e gli slavi del baltico. Contemporaneamente si inaugura una fase di conflitti armati con l'Impero. Chiesa e Impero si scontrano in primo luogo perché costituiscono due modelli contrapposti di istituzioni universalistiche che si contendono entrambe l'eredità dell'impero romano e si professano ambedue come volute da Dio per il bene dell'umanità. Vi sono poi, alla base del conflitto, corposi interessi materiali, legati alla determinazione del titolare della scelta delle cariche ecclesiastiche, la cosiddetta «lotta per le investiture», e al controllo politico delle ricche regioni italiane. Ciò produce in Italia la divisione di città e principati in due partiti contrapposti, quello dei filopapali o guelfi e quello dei filoimperiali o ghibellini. Questo processo trova il suo culmine prima nel pontificato di Innocenzo III che, eletto papa nel 1198, sulla base della falsa donazione di Costantino istituisce lo stato della Chiesa e definisce il papato come erede dell'Impero romano; e poi con quello di Bonifacio VIII (1235-1305), pontefice che spinge al massimo l'imitazione dei fasti imperiali delineando la supremazia della chiesa su ogni potere mondano. Dogmi ed eresie Tutto ciò non resta senza eco tra i credenti. Già a seguito dell'ondata emotiva suscitata dal passaggio dell'anno Mille, presagito da molti come possibile data della profetizzata Apocalisse e cioè della distruzione e fine del mondo, si osserva un riproporsi di movimenti di rinnovamento spirituale, un fiorire di gruppi animati dall'idea di un ritorno al cristianesimo ascetico e povero delle origini. Successivamente, soprattutto come reazione a una Chiesa divenuta ricca e potente, ma anche corrotta e venale, tale spinta al rinnovamento si radicalizza, producendo movimenti più rigidi e contrari a compromessi. L'affermazione del primato papale, di una Chiesa trionfante e autoritaria, l'accumulazione di enormi ricchezze ecclesiastiche, le pratiche di simonia (acquisto con denaro di beni spirituali, come ad esempio le funzioni sacerdotali) la corruzione del clero, l'inosservanza del celibato dei sacerdoti, suscitano vaste e diffuse reazioni di coloro che perseguono l'ideale di una chiesa di comunità e di servizio, povera e votata all'ascetismo. Questo rigorismo evangelico costituisce dunque l'altra faccia della tendenza della chiesa a farsi istituzione sociale, a divenire potere dominante, a invadere ogni aspetto della vita collettiva. Viene stabilito che ogni fedele debba confessarsi almeno una volta l'anno in modo da ottenere la remissione, la cancellazione dei peccati dal suo sacerdote. Si formalizza inoltre il potere ispettivo del papato attraverso l'istituzione, all'inizio del XIII secolo, dell’Inquisizione, un tribunale dipendente da Roma e dedicato a reprimere l'eresia. Ciò comporta il diffondersi della delazione sui comportamenti altrui e la tendenza a criminalizzare ogni costume non ortodosso, anche se non volontariamente eretico. E tuttavia più la Chiesa si mondanizza entrando in ogni aspetto della vita collettiva, più si producono reazioni che puntano alla riforma dei costumi, al rinnovamento delle strutture ecclesiali, in una parola a restituire alla comunità cristiana la forma, vera o supposta, delle origini, quella evangelica. Queste tematiche, già presenti a Milano nel movimento dei patari, si ritrovano, estremizzate da un radicalismo dualista (corpo-spirito) di ispirazione manichea nel movimento dei catari, diffuso in Provenza e in Italia settentrionale. Vi è nei catari la contrapposizione tra un mondo infettato dal male, di cui la chiesa è ormai parte, e un bene immaginato come puro spirito. Vengono negati di conseguenza la materialità di Cristo, il culto della Vergine, il Vecchio Testamento. Come i patari anche i catari legano l'efficacia dei sacramenti alla purezza del sacerdote. Ma i catari si distinguono dai patari anche per la scelta di costruire una nuova e diversa chiesa, organizzata secondo principi di condivisione collettiva dei beni e di rigido ascetismo. È questa scelta a determinare la reazione violenta della Chiesa, che decide di trasferire l'idea di crociata, di lotta agli infedeli, dall'esterno all'interno del mondo cristiano. Gli infedeli non sono cioè più solo coloro che adorano un altro Dio ma anche gli eretici, coloro che sbagliano allontanandosi dalla vera dottrina cattolica. Essi vanno combattuti e sterminati perché attentano all'unità della Chiesa con un'azione assimilabile al delitto di lesa maestà, cioè di sovversione dell'ordine costituito. Negli stessi anni, con metodi non dissimili, viene soffocato il movimento valdese: i seguaci di Valdo sono espulsi da Lione perché leggono autonomamente la Bibbia predicando, senza autorizzazione episcopale, la superiorità del Vangelo rispetto alle leggi ecclesiastiche e la possibilità per i laici di amministrare i sacramenti. I fermenti di rinnovamento non si esprimono tuttavia solo al di fuori della chiesa ma anche al suo interno. È il caso dei movimenti penitenziali, dei flagellanti (devoti che esprimono la propria fede percuotendosi pubblicamente con una frusta come segno di penitenza), delle tensioni spiritualiste presenti in alcuni ordini religiosi ed espresse emblematicamente dalla figura del monaco calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1203). Ma è il caso soprattutto dell'ordine francescano, fondato da Francesco d'Assisi (1182-1226), proclamato santo nel 1228, pochi anni dopo la sua morte. I membri dell’ordine si chiamano frati minori, cioè ultimi, sottomessi a tutti. I francescani sono un ordine mendicante, vocato all'ascesi e alla povertà integrale e perciò a lungo sospetto di eresia da parte della gerarchia cattolica. Per incanalare queste spinte riformatrici, insieme alla repressione, di cui una formidabile arma è il tribunale dell’Inquisizione, la Chiesa punta anche alla delineazione di un universo ultraterreno in cui a ciascuno è riservato un posto e in cui a ciascuno è data, attraverso la remissione dei peccati, la speranza di accedere alla salvezza e di godere della vicinanza di Dio, in Paradiso. Per gli altri, comunque, la speranza non è perduta. Possono sempre tentare di scontare le colpe commesse in vita in un apposito luogo ultraterreno, il Purgatorio. Solo ai peccatori incalliti e impenitenti è riservato l'Inferno, immaginato e presentato come il concentrato delle sofferenze, la dannazione eterna. Di questo universo offrirà una descrizione ineguagliata il poeta fiorentino Dante Alighieri (1265-1321) nella famosa Divina Commedia. Umanesimo e religione Bonifacio VIII, è il papa che proclama il primo giubileo, dichiarando il 1300 Anno santo: ciò significa la garanzia per tutti coloro che si rechino in pellegrinaggio a Roma della concessione dell'indulgenza piena, e cioè la remissione o sostanziale diminuzione della pena da scontare in Purgatorio per i propri peccati. Con Bonifacio VIII la figura del sovrano pontefice giunge così al suo culmine, simboleggiata dalle statue che lo ritraggono assiso sul trono regale. Parallelamente, sono le monarchie a tentare adesso di ricoprirsi di sacro. Se gli imperatori tedeschi avevano da sempre considerato il loro ruolo come semi-sacrale in quanto discendenti dell'Impero romano, un'istituzione voluta da Dio per assicurare la pace e la sicurezza della comunità cristiana, i re francesi ammantano ora di valori sacrali il proprio trono. La cerimonia dell'investitura dei sovrani di Francia, che si svolge nella città di Reims, in ricordo della conversione di re Clodoveo nel 498, si colora così di simboli sacrali. Il sovrano dei francesi è acclamato come l'erede di Davide, re di un nuovo Israele, di un regno «cristianissimo» voluto da Dio a difesa della fede. Egli viene per questo, come i re d'Israele, unto con l'olio santo. Da quel momento in poi, come «unto del Signore», egli diventa una persona sacra, in contatto diretto con Dio e in grado di operare miracoli, quali la guarigione di particolari malattie mediante l'imposizione delle mani. Simili caratteristiche assumono anche i sovrani inglesi mentre in Spagna, con il matrimonio di Ferdinando d'Aragona ed Isabella di Castiglia, si completa il processo di Reconquista, di conquista cristiana della penisola e di annientamento delle ultime resistenze arabe: nasce così, sotto il segno della crociata, la «monarchia cattolica» per eccellenza, e cioè quella che, in competizione con la corona francese, si propone di rappresentare il braccio politico e armato della fede. Questo doppio processo, da un lato la crescita delle aspirazioni politiche papali e dall'altro l'emergere delle ambizioni teocratiche delle monarchie nazionali, mortifica comunque l'originaria aspirazione cristiana a una maggiore e più intensamente spirituale devozione. E contrasta con l'idea, mai del tutto scomparsa di una chiesa degli umili, vocata al servizio del prossimo. Urta molte sensibilità in particolare, non solo la corruzione dei preti e l'ostentata imitazione degli attribuiti del potere civile, ivi inclusa la ricchezza, ma soprattutto il commercio dei beni ultraterreni, e cioè la prassi della Chiesa di vendere le indulgenze. E cioè garantire, in cambio di moneta sonante e sulla base di precisi tariffari, riduzioni delle pene da scontare in Purgatorio. Si moltiplicano così, sul finire del XV secolo, i movimenti di rinnovamento e i segni di inquietudine cui danno voce intellettuali come Erasmo da Rotterdam (1466-1539). La critica erasmiana della società e della Chiesa del suo tempo, radicata nell'aspirazione a un ritorno al dettato evangelico è influenzata anche, nel pieno rigoglio dell’Umanesimo, dalla riscoperta dei grandi autori della classicità. Attraverso la rilettura e l'edizione a stampa dei classici si diffondono adesso idee nuove, che offrono una visione più ampia e meno condizionata dalla tradizione teologica della natura umana e contribuiscono a disgregare l'edificio dogmatico costruito dalla Chiesa. Questi fermenti avrebbero tuttavia rappresenterebbero uno dei ricorrenti episodi di contestazione della Chiesa a partire dall'ispirazione evangelica, episodi in grado di metterne in discussione il discostamento dai principi ma non le fondamenta teologiche, se non trovassero, con Martin Lutero (1483-1546) un pensatore capace di attaccare molto più profondamente le basi dottrinali su cui si fonda il ruolo e l'esistenza stessa della Chiesa. Lutero e la rottura dell’unità religiosa Il punto di partenza di Lutero è lo stesso di molti pensatori eretici: tornare al Vangelo, alla parola di Dio. Lutero è un frate tedesco dell’ordine degli Agostiniani, entrato molto giovane in convento dove si distingue per fervore religioso e intelligenza acuta. Proprio in virtù delle sue qualità personali e dell’idea tormentosa dell’irrimediabile indegnità dell’uomo, egli indaga i libri della Sacra scrittura, riconsidera gli scritti di San Paolo e di Sant’Agostino, giungendo per questa via a una rivalutazione del libro sacro e a una critica radicale del ruolo della Chiesa. Contro ogni principio desunto dalla tradizione ecclesiastica egli afferma la validità della sola Scrittura, e cioè della Bibbia interpretata non alla luce di ciò che è accaduto dopo, dell'interpretazione stratificatasi nei secoli, ma letta in sé e per sé, con un procedimento detto esegesi. Attraverso questo metodo Lutero giunge alla conclusione che non vi è nel Vangelo alcun riferimento al ruolo della Chiesa nella salvezza. Elaborando un brano di San Paolo egli afferma che solo la fede, il credere fermamente in Cristo affidandovisi totalmente, salva, solo la fede giustifica la vita agli occhi di Dio. Né le buone opere, le penitenze, i digiuni, i pellegrinaggi, le indulgenze, le offerte di denaro e di beni, né la Chiesa garantiscono la vita eterna. Il fedele non ha né può avere intermediari nei confronti di Dio, davanti a cui egli è solo con la sua coscienza. Il culto dei santi e delle reliquie è superstizione. I peccati non si possono rimettere e chi lo fa illude i credenti. La confessione perciò non cancella i peccati proprio come la penitenza non garantisce la salvezza. Le pene che Dio vorrà comminare non si possono né conoscere né scontare ed è un truffatore chi mercanteggia su di esse. La vendita delle indulgenze è una truffa sacrilega. In breve la salvezza dipende solo da Dio, dalla sola grazia divina; il cristiano deve solo aver fede e ispirarsi unicamente per indirizzare la sua vita alla Sacra scrittura, alla Parola di Dio. Sola gratia, sola fide, sola Scriptura è il compendio del luteranesimo. Le conseguenze di queste idee sono devastanti. Esse distruggono infatti la costruzione salvifica della chiesa e sono destinate ad avere un'immensa eco nella storia europea. Lutero trae da queste convinzioni conseguenze precise. I sacramenti, tranne il battesimo e l'eucarestia celebrati in ogni caso in maniera diversa da quella tradizionale cattolica e privi della valenza liturgica che il cattolicesimo dà loro, vanno aboliti. Il papa è lungi dall'essere infallibile. Ogni fedele, attraverso il battesimo, diventa membro della chiesa, e perciò ecclesiastico. La distinzione tra chierici e laici va dunque abolita. Tutti sono sacerdoti. E tutti possono sposarsi. Il ruolo pastorale è, in altre parole, solo una funzione: si può essere eletti a tale compito e poi essere deposti e tornare alla vita di sempre nella comunità. La libertà dalle costrizioni della chiesa, questa libertà spirituale che consiste nell'interpretare liberamente la Bibbia, è mitigata dall'obbligo dell'umiltà, di misurare costantemente i propri limiti, di farsi servo dei servi. Tali dottrine vengono discusse da Lutero presso l’Università di Wittenberg. La Curia romana si dimostra a lungo tollerante; ma poiché Lutero continua la sua predicazione, papa Leone X lo invita a Roma a discolparsi. Lutero non solo non si presenta, ma in occasione di un’indulgenza speciale promulgata da Leone X per raccogliere fondi da destinare alla basilica di San Pietro, egli, il 31 ottobre 1517, affigge sulla porta della cattedrale di Wittenberg un libello contenente 95 tesi, affermazioni teologiche che espongono il frutto di una lunga meditazione. Egli partendo dal principio della giustificazione a opera della sola fede, confuta non solo la validità delle indulgenze per la propria o per la salvazione altrui, ma la facoltà stessa della Chiesa di concederle. Egli dichiara che alla salvezza ultraterrena dell’uomo basta la fede nei meriti del sangue di Cristo, cioè un atto di umiltà e di amore. Di fronte a queste affermazioni, nel 1520, il papa lancia a Lutero la bolla della scomunica. L’imperatore Carlo V, preoccupato della graduale diffusione delle idee luterane in Germania, invita il monaco a comparire alla dieta di Worms. Poiché non si presenta, Carlo V bandisce Lutero dai territori imperiali. Tuttavia, le idee del monaco trovano sempre maggiore plauso, anche ai vertici della società tedesca: in Germania, infatti, si erano costituiti da tempo numerosi principati ecclesiastici, le cui rendite finivano nelle mani degli alti prelati della Curia romana, giacché non vi era corrispondenza alcuna fra la carica di vescovo o di abate e l’obbligo di residenza nelle sedi vescovili. Contestando la validità del sacerdozio, Lutero offre pertanto ai principi tedeschi l’occasione insperata di far proprie le terre del clero romano. Quindi i principi favoriscono il diffondersi delle dottrine luterane. Un ruolo particolare ricopre l’elettore di Sassonia, Federico Guglielmo il Saggio, che in occasione del bando imperiale comminato alla dieta di Worms nasconde Lutero nel suo castello di Wartburg. Qui questi si dedica alla traduzione della Bibbia in tedesco, in modo che ogni credente possa accostarsi direttamente ai libri sacri e intenderli senza necessità della mediazione ecclesiastica. La predicazione di Lutero scatena anche fermenti di rivolta sociale. Si muovono per primi i cosiddetti cavalieri, i cadetti della nobiltà assetati di terre, che sotto la guida di Ulrich von Hutten vanno all’assalto delle proprietà ecclesiastiche, mettendo a ferro e fuoco la Germania, fino a quando non vengono fermati da una lega di principi. Ancora più grave è la rivolta dei contadini che scoppia fra il 1524 e il 1525, sotto la guida di Thomas Muntzer, seguace della setta ereticale degli anabattisti: una setta ereticale che nega validità al battesimo infantile e sostiene la necessità di un nuovo battesimo. In nome dell’uguaglianza di tutti i cristiani, proclamata dal punto di vista teologico dallo stesso Lutero, i contadini danno inizio a un vasto modo di riscossa contro gli obblighi feudali e contro la proprietà privata. Nella rivolta, che dilaga dalla Renania alla Svevia all’Alsazia al Tirolo, vengono distrutti castelli, chiese e monasteri. Di fronte ai disordini, Lutero non esita a schierarsi con i principi e i nobili che reprimono i moti contadini: l’abbandono della causa protestante da parte dei ceti più alti della società avrebbe condotto inevitabilmente alla riaffermazione del cattolicesimo. La scelta politica di Lutero blocca gli sviluppi libertari della Riforma protestante e pone le premesse, da una parte, del consolidamento del potere principesco e feudale, dall’altro dell’autoritarismo delle chiese locali, poste sotto il controllo dei principi stessi. Sul piano teorico, d’altronde, la scelta è coerente con quanto affermato nel 1520 nel libello Alla nobiltà cristiana di nazione germanica per la riforma del ceto cristiano. Nel testo si esprime una concezione dell’autorità secondo la quale i popoli devono essere soggetti alle autorità costituite, che sono emanazione di Dio. Le bande contadine vengono quindi, con il plauso di Lutero, sterminate a Frankenhausen. A partire dal 1530, l’imperatore Carlo V torna a interessarsi della Germania e inaugura una politica di diretto contrasto al luteranesimo trionfante, ordinando ai principi e alle città passate alla nuova fede religiosa di restituire le terre strappate alla Chiesa. I principi protestano energicamente – da cui l’appellativo di protestanti – e si uniscono nella Lega di Smalcalda. Il conflitto che ne deriva si chiude con la pace di Augusta nel 1555. L’imperatore riconosce ai principi e alle città dell’Impero la libertà di scegliere la religione cattolica o la religione luterana. Tale libertà non viene però riconosciuta ai sudditi, obbligati a seguire la religione dei loro signori, secondo il principio racchiuso nella formula cuius regio eius et religio. Così la Germania perde l’unità religiosa e si divide fra cattolicesimo e protestantesimo. Dalla Germania il pensiero protestante si diffonde nel resto dell’Europa, trovando spesso terreno fertile. Nella Confederazione elvetica aderisce alle tesi di Lutero Huldrych Zwingli, che elabora concezioni ancora più radicali contro le istituzioni ecclesiastiche, le indulgenze, il celibato sacerdotale, la devozione alla Madonna e ai santi, il culto delle immagini e la messa come rinnovamento del sacrificio di Cristo. Portando a conclusione le premesse luterane, Zwingli considera il battesimo e l’eucarestia momenti interiori della vita religiosa, escludendo la presenza reale di Cristo nel momento eucaristico. La comunione altro non è che commemorazione: non si svolge, come dicono i cattolici, il processo di transustanziazione. La meditazione di Zwingli viene proseguita da Giovanni Calvino (1509-1564), nativo di Noyon in Francia, raffinato umanista e giurista. Costretto a fuggire dalla Francia in seguito alla conversione alla fede protestante, Calvino giunge a Ginevra, il centro del suo apostolato religioso e politico. Calvino parte dalle premesse dottrinali di Lutero, ma le sviluppa in modo autonomo, per cui la Chiesa riformata che da lui prende nome ha caratteri propri che la distinguono da quella luterana. Tipica del calvinismo è la dottrina della predestinazione, già enunciata da Lutero, ma sviluppata da Calvino con maggiore rigore. Secondo Calvino il peccato originale condanna l’uomo all’eterna dannazione; ma Dio ha scelto nella notte dei tempi i propri eletti, i pochi destinati a salvarsi, non già in virtù dei loro comportamenti, ma per opera esclusiva della grazia divina. Il credente non deve però essere indotto alla disperazione, né abbandonarsi fatalisticamente alla sorte che Dio gli ha riservato; al contrario, egli deve assolvere alla «missione» terrena che Dio gli ha assegnato, ricercando in se stesso i segni della predilezione e con ciò acquistando il convincimento di far parte della schiera degli eletti. Questa consapevolezza è già un segno indubbio di positiva predestinazione; a essa si aggiunge come ulteriore conferma il successo che il credente ottiene nella vita, nella propria professione, qualunque essa sia. Qualsiasi lavoro, per Calvino, deve essere sentito come un atto religioso e compiuto a glorificazione di Dio. Ma il guadagno che ne viene non deve essere dissipato; e una volta che si fa fronte alle necessità proprie e della propria famiglia, una volta che sia adempiuto il dovere di assistenza nei confronti dei più bisognosi, il denaro deve essere reinvestito. Per questo il calvinismo sembra agli storici il presupposto religioso dell’attivismo capitalista: esso esalta infatti l’intraprendenza dell’individuo e dell’attività produttiva, considerata come segno di predilezione celeste. Ginevra diviene la culla della nuova confessione religiosa. A tutti i cittadini viene imposto un severo costume di vita: chiuse le taverne e i bagni pubblici, considerati luoghi di delizie lussuriose e di peccato, proibite le rappresentazioni teatrali, proibiti i giochi d’azzardo, proibito il lusso nell’abbigliamento femminile, bandita ogni forma di dissipazione. Sui costumi della città e sulla moralità di ciascuno vigila il concistoro, un organo collegiale formato di sacerdoti, i pastori, e di laici, scelti per la loro dirittura morale. Contro i trasgressori, i libertini, c’è l’ammonizione e la scomunica e, nei casi più gravi, il ricorso ai magistrati cittadini, sottoposti del resto anch’essi all’osservanza delle norme morali, soggetti a eventuali ammonizioni e denunce. In tal modo la Chiesa calvinista, una comunità fondata sull’assemblea, sull’elezione delle cariche, sul libero dibattito, si pone, al contrario della luterana, al di sopra dello Stato e lo controlla direttamente. La Chiesa militante La consapevolezza da parte di alcuni esponenti della Chiesa cattolica della necessità di una riforma interna morale e disciplinare e le pressioni da parte dell’imperatore Carlo V, sempre più preoccupato del passaggio di molti suoi sudditi al luteranesimo, per lungo tempo, nella prima metà del Cinquecento, fanno sperare nella ricomposizione del mondo cristiano. Intorno al 1540 l’imperatore favorisce una serie di incontri tra esponenti cattolici e protestanti nella speranza di una riconciliazione. Tuttavia, negli anni immediatamente successivi questa speranza si dimostra illusoria e le rispettive posizioni si irrigidiscono fino a determinare la definitiva rottura. Nel 1545 si apre a Trento il concilio dei vescovi: la stessa scelta della città dichiara un intento interlocutorio del mondo cattolico con quello protestante. Ma i tempi non sono più proficui per il dialogo: i luterani rifiutano un concilio dove il pontefice appare non una parte in conflitto, ma in posizione preminente. Pertanto essi si rifiutano di inviare i propri rappresentanti. Il concilio diviene pertanto una fase della riflessione della Chiesa cattolica su stessa e il proprio ruolo in un’Europa dove coesistono diverse religioni cristiane. Il concilio di Trento, divenuto un concilio solo cattolico, si conclude così nel 1563, con la sistematizzazione con la Professio fidei tridentinae, la Professione di fede tridentina: una precisazione delle tradizionali posizioni della Chiesa, opportunamente modificate per meglio combattere l'offensiva delle idee protestanti. Si riaffermano il valore delle opere, il ruolo della tradizione ecclesiale, il primato papale, la distinzione tra i laici, semplici credenti, e il clero, obbligato al celibato e a vestire l'abito talare. Si approvano inoltre i dogmi relativi ai sacramenti e si difendono le posizioni tradizionali sull'esistenza del Purgatorio, sulla liceità per la Chiesa di concedere indulgenze, sul culto dei santi e della Vergine, sulla venerazione di immagini sacre e reliquie. La controffensiva organizzata dalla Chiesa a Trento non avviene però solo sul piano dottrinale ma anche su quello, di una profonda ristrutturazione del clero e degli ordinamenti ecclesiali. Si disciplinano le assemblee provinciali e di diocesi, dette sinodi; si rafforza grandemente la figura del vescovo, obbligato adesso a risiedere nella sede episcopale e tenuto a fornire periodicamente i suoi pareri sullo stato della diocesi attraverso relazioni effettuate sulla base di ispezioni, le cosiddette visite. Le diocesi vengono articolate in parrocchie affidate a parroci cui è affidata la predicazione ordinaria e l'insegnamento dei precetti religiosi basilari, raccolti in forma semplice in un breve testo, il catechismo. Ad un livello più elevato, l'insegnamento della chiesa è affidato ai seminari, dove i futuri sacerdoti vengono educati ed istruiti, e soprattutto ai nuovi ordini religiosi nati in quella temperie per difendere l'insegnamento della Chiesa dall'eresia protestante. Si tratta dei Teatini (1524) ma soprattutto dei Gesuiti, un ordine religioso fondato (1540) da Ignazio de Loyola. Con i Gesuiti si profila un modello di rapporti tra sfera religiosa e sfera civile opposto a quello protestante. Vi è da parte gesuita il sostanziale riconoscimento della distinzione tra l'una e l'altra, di un'irriducibile diversità dei valori mondani e quindi dell'impossibilità di uniformare le regole dell'universo politico-sociale a quelle della Chiesa. Per i protestanti invece, come si è visto, l'abbattimento della distinzione tra Chiesa e società, attraverso l'idea del sacerdozio universale, comporta da un canto l'angosciosa esperienza della solitudine del peccatore di fronte a Dio, ma dall'altro un intento di plasmare in senso cristiano l'intero comportamento collettivo, di intervenire nella vita pubblica modificandola e riformandola. Questi modelli diversi si confrontano in un'Europa divenuta campo di guerra religiosa, divisa da un conflitto lungo oltre un secolo. La Francia, dopo un periodo di conflitti noti come guerre di religione (1562-98), giunge a un precario e instabile equilibrio tra la maggioranza cattolica e la minoranza ugonotta, cioè calvinista. Le penisole italiana e iberica e la Germania meridionale rimangono cattoliche, grazie all'appoggio determinante dei due rami degli Asburgo. Per impedire la penetrazione protestante viene messa in atto da parte cattolica una strategia repressiva di grande efficacia basata sulla censura, sul rogo pubblico dei libri non autorizzati, catalogati in apposito Indice dei libri proibiti, su una riorganizzata Inquisizione. Ne sono colpiti tutti i fermenti culturali che non si conformano alla verità cattolica. Anche nelle aree riformate (Inghilterra, Olanda, Germania centro-settentrionale, gran parte della penisola scandinava) si registrano spinte all'intolleranza ma la molteplicità dei differenti credi di ispirazione protestante comporta di necessità un atteggiamento diverso, che impedisce l'imposizione violenta dell'ortodossia. In Inghilterra ad esempio, a seguito di un lungo confronto religioso segnato da due rivoluzioni, l'idea di tolleranza, propugnata da pensatori come John Locke (1632-1704), inizia ad affermarsi. Si comincia così a diffondere l’idea di una necessaria distinzione, se non proprio separazione, tra sfera religiosa e sfera politica, osservando da un lato che la fede non può essere resa obbligatoria per legge e dall'altro che le chiese sono associazioni private di credenti. Tale concezione trova in parte espressione nella promulgazione, da parte del sovrano Guglielmo III, dell'Atto di tolleranza (1689) con cui si garantisce libertà di culto al complesso universo delle sette protestanti che non aderiscono (e sono perciò dette dissenzienti) alla Chiesa di stato anglicana. il pluralismo religioso viene così formalmente ammesso, ma limitatamente all'area protestante in quanto ai cattolici continua ad essere vietato il culto La Rivoluzione e l’alleanza tra trono e altare Dall'Inghilterra le idee di tolleranza passano, insieme agli emigrati puritani, nelle colonie inglese nordamericane e trovano un primo esito nella costituzione della Pennsylvania (1682). Lungo il Settecento poi esse sono riprese dal pensiero razionalista, che si propone di sottoporre la Sacra scrittura al vaglio della ragione e poi, in modo più ampio, dall'Illuminismo, che estende la critica razionalista a tutti gli aspetti del mondo sociale. Ne deriva l'affermazione dei principi della libertà religiosa contenuta nella Dichiarazione dei diritti americana (1776) e poi in quella francese (1789). La libertà di coscienza e di fede viene definita ora come un diritto inalienabile dell'individuo, a valere in qualunque circostanza, non più il risultato di una situazione contingente, una mera valutazione di opportunità. La critica illuminista mette inoltre a nudo il carattere strumentale dell'uso della religione da parte del potere monarchico e denuncia il fanatismo superstizioso originato dalla dannosa commistione tra fede religiosa e istituzioni politiche. Lo scossone imposto dalla Rivoluzione francese con la Costituzione civile del clero del 1790, l'obbligo per il clero del giuramento di fedeltà al nuovo regime costituzionale, pone la chiesa francese, e quella cattolica in generale di fronte a un dilemma: aderire al nuovo regime democratico o rafforzare l'alleanza con le monarchie cattoliche anch'esse minacciate dalla Rivoluzione. La strada scelta dalla Chiesa cattolica sarà la seconda: circa metà dei membri del clero non giura ed è costretto a emigrare in massa, mentre il papa condanna la rivoluzione. In seguito la Chiesa pone la sua autorità a servizio del pensiero reazionario e legittimista, per il quale è Dio ad aver stabilito chi deve governare e bisogna far di tutto per far ritornare sul trono le dinastie abbattute dalle rivolte popolari e dalle armate francesi. Il risultato è che i preti incitano le masse popolari alla controrivoluzione in nome di Dio. La prima di queste insurrezioni si avrà in Vandea nel 1793. I vandeani si ribellano al governo rivoluzionario francese presentandosi come crociati di una cristianità oppressa e come difensori della legittimità monarchica. L'esempio vandeano, stroncato nel sangue dall'esercito rivoluzionario, diventa per tutta l’Europa un precedente. In nome della fede cattolica vengono così preparate le insurrezioni controrivoluzionarie nel regno di Napoli (1799) e in Spagna (1812). Sull'altro fronte, al di là degli eccessi della Rivoluzione francese, giunta al punto di operare un processo di scristianizzazione, con le chiese usate come luoghi di riunione, l'introduzione del culto della Dea Ragione, la sostituzione dei martiri civili al posto di quelli cristiani e l'abolizione del celibato ecclesiastico, si viene diffondendo l'idea di una separazione tra la religione, da confinare nella sfera della coscienza individuale, e la società politica, da regolare attraverso leggi valide per tutti, credenti e non credenti. L'intero XIX secolo vede così riproporsi una specie di guerra di religione tra il pensiero liberale, deciso ad imporre la garanzia della libertà di coscienza e di espressione attraverso la costituzione e la sovranità popolare e il pensiero cattolico-reazionario, impegnato nel sostegno all'idea di una monarchia di diritto divino. Laico cessa di essere così il termine usato per indicare il credente non sacerdote e diviene un sinonimo della posizione di chi, credente o meno, rifiuta di far discendere dalla propria fede precise scelte politiche. Nella così detta età della Restaurazione, negli anni che vanno dal 1815 al 1830, in cui si cerca di cancellare i risultati della Rivoluzione francese, l’alleanza tra trono e altare si fa particolarmente stretta. La fede religiosa diviene allora garanzia di ortodossia politica e viceversa. Il solo modo per evitare il contagio rivoluzionario sembra quello di riproporre un re come immagine della divinità. I risultati cui conduce questa tendenza sono aberranti: ne è esempio una legge francese del 1825, che punisce la bestemmia con la pena di morte. Cattolici in politica Particolarmente violento è il contrasto si fa in paesi, come l'Italia, dove il processo di unificazione nazionale trova un ostacolo nel ruolo universalistico e nella presenza politica della Chiesa. In verità, per una certa fase, il pontefice Pio IX ritiene di poter utilizzare la spinta nazionalista per riunificare l'Italia in una federazione di stati guidata o ispirata dalla Chiesa. Tale progetto, definito neoguelfo, tuttavia fallisce e il Risorgimento, che il conte di Cavour guida sulla linea di una separazione tra potere civile e religioso, comporta l'abbattimento dello Stato della Chiesa. Pio IX reagisce a ciò con il Sillabo, pubblicato nel 1864, un testo di orgogliosa riaffermazione del potere temporale del Papa e di condanna degli «errori del mondo moderno». Inoltre egli convoca un concilio, il Concilio Vaticano I, da cui fa ratificare l'infallibilità delle decisioni papali assunte in forma ufficiale e su questioni spirituali. Di lì a poco, però, l'ultimo residuo dello Stato pontificio, la città di Roma, viene a cadere. La città è proclamata capitale del nuovo Regno d'Italia. Al papa il governo italiano con la Legge delle guarentigie garantisce, con atto unilaterale, una serie di garanzie e di immunità: fra le altre, il possesso pieno di una zona urbana dell'Oltretevere, attorno alla basilica di San Pietro, la cosiddetta Città del Vaticano. Il papa, tuttavia, non accetta l‘evidenza delle cose e, nel 1874, proclama il cosiddetto non expedit, non conviene, un decreto con cui vieta ai cattolici la partecipazione alla vita politica. Questa posizione cattolica comporta un ritardo nel processo di integrazione nazionale da cui i cattolici si autoescludono. Un mancato riconoscimento, da parte di una parte significativa della collettività, della legittimità del regno d'Italia. Solo la minaccia costituita dal diffondersi tra gli strati popolari di idee anarchiche e socialiste, movimenti con forte presenza di posizioni atee, unita al bisogno di superare l'isolamento politico in cui la posizione intransigente aveva costretto strati importanti della società italiana, spingono la Chiesa al superamento graduale di tale scelta. In vista delle elezioni politiche del 1913, le prime tenute a suffragio universale maschile. I cattolici, guidati da Vincenzo Gentiloni, stringono in quell'occasione un'alleanza con le forze di ispirazione liberale, un patto volto ad appoggiare quei candidati che si impegnino a non approvare leggi anticlericali. Dopo la prima guerra mondiale la Chiesa decide di superare definitivamente la posizione di rifiuto delle istituzioni italiane e di consentire anzi la partecipazione diretta dei cattolici come movimento organizzato. Nasce così, nel 1919, il Partito popolare, guidato da don Luigi Sturzo. Il partito, che punta a riconciliare cattolicesimo e liberalismo e a coniugarli con una necessaria solidarietà nei confronti dei più deboli, ottiene buoni risultati elettorali. A seguito della violenta istaurazione del regime fascista il Partito popolare si schiera all'opposizione, perdendo l'appoggio della gerarchia ecclesiale, incline a un accordo col nuovo regime. Mentre il partito viene sciolto e Sturzo è costretto all'esilio la Chiesa punta a farsi garantire dal fascismo la sua influenza sulla società italiana, un risultato ottenuto nel 1929 con la stipula dei Patti lateranensi. Con l'accordo la Santa Sede e il governo fascista si riconoscono reciprocamente come stati. La religione cattolica acquista il titolo di «sola religione di Stato». Alla Chiesa, inoltre, vengono riservati particolari privilegi, tra cui l'insegnamento obbligatorio della dottrina cattolica nella scuola pubblica e la capacità per il matrimonio religioso di comportare automaticamente effetti civili. Va sottolineato come il modello di concordato italiano sarà la base di un analogo accordo stipulato nel 1933 tra la Santa Sede e il regime nazista, che assicurò a Hitler, in cambio di taluni privilegi riconosciuti alla Chiesa in campo educativo, l'appoggio del mondo cattolico e il primo effettivo riconoscimento del regime nazista in campo internazionale. In Spagna, l'insurrezione del 1936 contro la Repubblica, che determinerà l'avvento, a seguito di una sanguinosa guerra civile, del regime franchista, dal nome del suo leader Francisco Franco, vede la Chiesa schierata dalla parte reazionaria. Questa influenza ecclesiastica sul regime ne mitiga gli eccessi dovuti all'imitazione dei modelli fascista e nazista, ma non ne cancella il carattere autoritario, reazionario e antidemocratico. Grande influenza ha in questo processo l'Opus Dei, un'associazione cattolica semi-segreta di ispirazione conservatrice fondata nel 1928 da José María Escrivá de Balaguer e riconosciuta poi ufficialmente dalla Chiesa nel 1947. In Italia all'indomani della seconda guerra mondiale e della caduta del fascismo, cui il mondo cattolico offre un contributo importante attraverso la partecipazione alla Resistenza, il rinato partito popolare (che porta adesso il nome di Democrazia Cristiana ed è guidato da Alcide de Gasperi) vince – grazie anche alla mobilitazione del clero – le elezioni democratiche e si impone così alla guida della Repubblica. Su proposta della Democrazia cristiana, osteggiata dalle forze laiche ma appoggiata dal Partito comunista, la nuova costituzione repubblicana recepisce completamente, nell’ articolo 7, i Patti lateranensi. Nominato papa da appena tre mesi con il nome di Giovanni XXIII, il cardinale Angelo Roncalli, noto popolarmente con l'epiteto di «papa buono», proclama nel gennaio del 1959 la convocazione di un nuovo concilio ecumenico, volto a ridefinire i rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno. Il Concilio Vaticano II, che si svolge dal 1962 al 1965, pone la Chiesa in una posizione di apertura nei confronti dei «fratelli separati», cioè dei cristiani di altre fedi, e, più in generale, di tutti gli «uomini di buona volontà». Promuove inoltre un'importante correzione dell'impostazione tradizionale sancita a Trento e ratificata dal Vaticano I. Ne è segno evidente la trasformazione della messa: non più recitata in latino ma nelle lingue parlate, la cerimonia sacra valorizza adesso la lettura e il commento del Vangelo e vede il sacerdote rivolto ai fedeli, mentre in precedenza egli dava loro le spalle. Questi mutamenti sono il segno di una più generale modificazione degli assetti ecclesiali: il concilio stabilisce il primato della dimensione collegiale di ogni episcopato nazionale ed esalta la natura comunitaria dell'esperienza religiosa, con una partecipazione più attiva dei laici. Ne risulta tonificata la partecipazione cattolica al mondo del lavoro e rinnovata quella nel settore dell'assistenza sociale ai poveri e agli emarginati. Il mondo del volontariato cattolico ne riceve in particolare un forte impulso, in parallelo al sostegno all'azione infaticabile delle missioni nel Terzo mondo. La partecipazione politica dei cattolici, particolarmente importante in Italia, Germania, Belgio e Francia, è ispirata nella seconda metà del XX secolo a principi di adesione alla democrazia, di accettazione dei principi liberali, di lotta al socialismo e di relativa aconfessionalità, e cioè di parziale autonomia della presenza politica cattolica dalle posizioni sociali della Chiesa. I partiti democratico-cristiani, federati in un’Internazionale democratico-cristiana, danno un forte impulso alla costituzione dell’Unione europea. In particolare in Italia, dove la Democrazia cristiana resta al governo sino alla sua dissoluzione, nel 1992, a seguito della perdita di consenso elettorale provocata dall'evidenza giudiziaria della corruzione del sistema politico, emersa dalle numerose inchieste che vanno sotto il nome di Tangentopoli, la presenza dei cattolici ha costituito l'asse della vita pubblica.