antivirali nuovi approcci terapeutici

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ISSN 2282-6130
Quaderni dell'ospedale
[Online]
Quaderni dell’Ospedale
Nr. 1/2014
ANTIVIRALI NUOVI APPROCCI TERAPEUTICI
Pubblicazione curata da
Rapetti Manuela, Ballerini Andrea, Tirone Claudia, Pagani Alessandra, Gandolfi Luciana, Festa Elena, Franchin Giulia, Furian Cristina,
Galli Elisa, Laura Savi
Azienda Ospedaliera Nazionale
“SS. Antonio e Biagio e Cesare Arrigo”
Quaderni dell’ospedale
nr. 1/2014
1. Descrizione epidemiologica, clinica e biologica dell’infezione da virus
HCV.
Epidemiologia
La storia dell‘epatite C è giovane; non ha più di trent‘anni. Scoperta dopo lo sviluppo negli
anni 70 di test sierologici per la diagnosi delle infezioni da parte dei virus dell‘epatite A e
dell’epatite B, divenne evidente che la maggior parte dei casi di epatiti post trasfusionali
dovevano essere causate da un altro agente eziologico. ciò Proprio per questo motivo si
parlava dunque di “Epatite non-A non-B”. Bisogna aspettare il 1989 per avere una prima
identificazione del virus dell’epatite C come entità nosologica (Choo QL, 1989); (Kuo G,
1989) ed ad oggi risulta molto difficile descriverne la storia naturale (Seeff L. , 2002) (Seeff,
2000) per una serie di motivi. L’evoluzione delle patologia causata dal virus dell’epatite C è
molto lenta, non dando segni clinici fino alle fasi più avanzate delle infezioni croniche
evolventi in cirrosi ed epatocarcinoma. Il trattamento antivirale normalmente attuato nello
scorso decennio, benché aspecifico e di poca efficacia, rallentava il già lento decorso di
questa malattia.
Secondo stime della WHO la prevalenza mondiale delle persone cronicamente infette dal
virus è di 150 milioni, di essi il 60-70% circa corre il rischio di sviluppare cirrosi epatiche e/o
cancro al fegato. Ogni anno muoiono più di 350 mila persone a causa di malattie epatiche
Epatite C-correlate. (WHO,2011) La mappa seguente mostra i tassi di prevalenza della
malattia nelle varie nazioni: è evidente uno sviluppo maggiore del virus nel Nord Africa, di
cui l’Egitto è uno dei paesi più colpiti con una percentuale di sieroprevalenza del 22% (Frank
C, 2000)], e in Asia, dove la sola Cina riporta 3,5% infette dal virus (Xia GL, 1996); mentre
tra le aree a bassa prevalenza sono incluse le nazioni industrializzate del Nord America,
Europa settentrionale ed Occidentale, e l’Australia. (Figura. 1) (Shepard CW, 2005)
Uno sguardo più approfondito a livello europeo suggerisce, comunque che l’epidemia di
infezioni causate dal virus dell’ Epatite C in Europa è in continua evoluzione, ed i parametri
epidemiologici sono mutati nel corso degli ultimi quindici anni. Principalmente sono stati
identificati quattro fattori responsabili dei cambiamenti verificatesi: una maggiore sicurezza
nelle trasfusioni sanguigne, il miglioramento delle condizioni di salute generali della
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popolazione, la continua espansione di droghe ad uso intravenoso, e una maggiore presenza
di immigrati provenienti da zone endemiche in Europa. (Esteban J, 2008)
I fattori di rischio maggiormente coinvolti nella trasmissione del virus in tutto il mondo, sono
le trasfusioni di sangue da donatori non esaminati, l’utilizzo di droghe per via iniettiva o di
iniezioni terapeutiche insicure, ed altre procedure correlate all’assistenza sanitaria. Dalla
maggior parte dei Paesi sviluppati sono state raccolte evidenze scientifiche che la fonte
principale di nuove infezioni da HCV negli ultimi decenni, sia il crescente uso di droghe per
via iniettiva.
(Shepard CW, 2005) Nel corso dello sviluppo mondiale, le iniezioni
terapeutiche non sicure, assieme alle trasfusioni di sangue, sono state le principali modalità di
trasmissione del virus, soprattutto nei Paesi dove i tassi di sieroprevalenza età-specifici
suggeriscono un aumento del rischio infezione da HCV.(Wasley A,2000). Nei paesi
sviluppati con un alto tasso di prevalenza nelle fasce di età anziane, le iniezioni terapeutiche
poco sicure hanno avuto un ruolo sostanziale nella trasmissione di HCV 30-50 anni fa.
Questo favorisce tutt’oggi la trasmissione del virus all’interno di isolate aree iperendemiche.
(Kiyosawa K, 1994) (Guadagnino V, 1997) (Okayama A, 2002)
Già nel 1997 uno studio effettuato da Alter aveva riconosciuto una prima distribuzione dei
fattori di rischio individuati tra il 1991 ed il 1995 notando che l’utilizzo di droghe in forma
iniettiva è associato al 43% delle trasmissioni virali. (Alter J. W., 1997)
Le iniezioni di sostanze stupefacenti rappresentano la principale modalità di trasmissione per
l'infezione da HCV nei paesi sviluppati. Nei Paesi come gli Stati Uniti e l'Australia, dove la
più alta sieroprevalenza si sviluppa tra le persone di mezza età, l'iniezione di stupefacenti è
stata la causa dominante di trasmissione per più di 30 anni, e rappresenta il 68 % e l'80 %
rispettivamente, delle infezioni in corso. (Alter M. , 2002) (Dore GJ, 2003). Si ipotizza che
l'infezione da HCV possa diffondere rapidamente tra gli utilizzatori di droghe endovena dal
momento che si era osservato alla fine degli anni ‘80 , una sieroprevalenza del 65% in questo
gruppo di persone che avevano iniziato tale pratica da meno di un anno. (Garfein RS, 1996)
Studi più recenti tra i giovani consumatori di sostanze da abuso, con 5 anni o meno dalla
prima iniezione, hanno riportato tassi di sieroprevalenza da HCV del 20-46 %. (Des Jarlais
DC, 2003) (Miller CI, 2002)
La trasmissione sessuale è rara e non quantificabile sul piano epidemiologico. In generale
l‘associazione tra comportamenti sessuali a rischio e HCV è molto più debole di quella
osservato con HIV o HBV. (Murray JM, 2003) La condivisione indiretta di stupefacenti e
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preparazioni formulate con un mix di farmaci ad uso parenterale, nonché la condivisione di
cotone e acqua di risciacquo, sono strettamente stati associati alla trasmissione del virus
HCV. (Thorpe LE, 2002) Diversi Paesi europei hanno individuato anche l'iniezione di droga
come il fattore di rischio dominante per l'infezione da HCV all'interno dei loro confini. In
Norvegia, per esempio, il 67% degli infetti ha riportato una storia di consumo di stupefacenti
ad uso iniettivo. (Dalgard O, 2003) In Italia, l'iniezione di droghe è stato un fattore di rischio
comune negli incidenti di epatite acuta C diagnosticati tra il 1994 e il 1996, ed è stato
segnalato dal 60% dei pazienti di età compresa tra 15 e i 24 anni. (Mele A, 2000) In
Inghilterra e Galles, l’impiego di iniezioni di tali sostanze rappresenta il fattore di rischio
comune per le persone con anticorpi positivi al virus HCV (anti-HCV), i risultati sono stati
monitorati dal 1997 in sette laboratori di sanità pubblica per un periodo di tre anni. (Balogun
MA, 2003) Anche in Francia tra i donatori di sangue volontari anti-HCV positivi, il fattore di
rischio più comune riportato per l'infezione è stato il consumo di droghe iniettive. (Elghouzzi
MH, 2000) Esistono, invece, pochissimi dati riguardanti relativi tale tematica nel mondo in
via di sviluppo.
Figura Mappa relativa alla prevalenza di infezioni causate dal virus HCV.
La produzione giornaliera di virioni in un portatore cronico di HCV sembrerebbe piuttosto
elevata, compresa tra 10^10 e 10^12 (superiore quindi rispetto a quella che si riscontra nel
caso di infezione da HIV); i virioni vanno incontro a rapido turnover nel torrente circolatorio,
con un‘emivita di circa 2-3 ore.
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La rapidità della replicazione virale unitamente all‘incapacità, comune a tutti i virus a RNA,
di riparare gli errori di incorporazione nucleotidica, rendono conto del fatto che il genoma di
HCV sia molto frequentemente soggetto a mutazioni.
Infatti, HCV è caratterizzato da estrema variabilità genomica che ha portato alla distinzione
di 6 diversi genotipi, caratterizzati da una omologia di sequenza del 65%, all’interno dei quali
si identificano diversi sottotipi, con omologia superiore al 90%. Ciascun sottotipo è composto
da singoli “isolati”. E’ però da notare che nell’individuo infettato il virus circola sotto forma
di “quasi-specie”, ossia di una popolazione di virus filogeneticamente correlati con
divergenza nucleotidica non superiore all’1,5% [Martell M et al, 1992; Bukh J et al, 1995].
Questa grande variabilità genetica è dovuta alle caratteristiche della polimerasi virale ed alla
pressione selettiva operata dalla risposta immunitaria [Ogata N et al, 1991]. La polimerasi di
HCV non possiede attività di “proof-reading” con correzione degli errori di incorporazione
nucleotidica (caratteristica della DNA polimerasi dei mammiferi) con conseguente bassa
fedeltà dell’apparato replicativo ed elevato tasso di mutazione. La grande variabilità genetica
di HCV ha importanti implicazioni biologiche come: persistenza del virus grazie a
meccanismi di “escape”, generazione di ceppi resistenti alla terapia ed insuccesso della
strategia vaccinale.
La variabilità all’interno del genoma di HCV non è uniformemente distribuita ma segue una
predisposizione determinata dalla pressione selettiva da parte della risposta immunologica
dell’ospite ed è inoltre strettamente associata alla specifica funzione della proteina codificata.
Le sequenze maggiormente conservate sono quelle delle regioni non codificanti 5’UTR e
3’UTR, assieme a quelle del core e di NS3 (elicasi) ed NS5B (polimerasi) in quanto
codificano per proteine essenziali per il ciclo vitale del virus.
Le porzioni più variabili sono quelle coinvolte nella sintesi delle proteine dell’envelope, in
particolare la porzione amino-terminale della proteina E2, definita “hypervariable region 1” o
HVR1. Nell’ambito della quasi-specie esistono una sequenza consenso – detta “master”- che
è quantitativamente predominante ed una moltitudine di genomi che rappresentano porzioni
variabili della popolazione virale totale.
In ogni momento della storia naturale dell’infezione la distribuzione della quasi-specie è
rappresentata dalla popolazione virale più adatta che ha stabilito uno stato di equilibrio con
l’ospite.
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La predominanza della sequenza master è verosimilmente legata ad una maggiore capacità
replicativa in quel particolare contesto ed alla pressione selettiva operata dalla risposta
immunitaria dell’ospite [Antonelli et al 2008].
I genotipi 1, 2 e, in misura minore 3, sono quelli maggiormente diffusi in Europa e negli Stati
Uniti. In Italia l‘infezione da parte dei genotipi 1, 2 e 3 copre oltre il 90% dei casi di
infezione da HCV, mentre più frequente sta diventando il riscontro dell‘infezione da genotipo
4, diffusa in particolari etnie emigranti.
La determinazione del genotipo virale può avere una notevole rilevanza pratica, in quanto i
vari genotipi presentano una diversa sensibilità alla terapia antiretrovirale e la loro
caratterizzazione costituisce un elemento importante nella decisione terapeutica e nelle scelte
di gestione clinica.
Figura Fattori di rischio associati a casi di epatite C acuta, Stati Uniti, 1991-1995.
Nei paesi occidentali, l‘epidemia di HCV da causa iatrogena (trasmessa attraverso pratiche
mediche o chirurgiche) è da considerarsi in fase di conclusione, grazie al miglioramento delle
condizioni igienico-sanitarie (abolizione dell‘uso delle siringhe in vetro, impiego di materiale
sanitario monouso) e, soprattutto, alla disponibilità di test di laboratorio efficaci per la
selezione di donatori di sangue. Il rischio di ricevere un‘unità di sangue potenzialmente
infetta è così sceso a circa 0,3 per milione di unità trasfuse, un valore ben diverso dal 2%
osservato prima dell‘introduzione del test. La situazione è molto diversa nei paesi più poveri,
dove le principali vie di trasmissione sono ancora oggi la trasfusione di sangue infetto e l‘uso
di materiale sanitario contaminato. Attualmente, grazie all‘utilizzo dei test per la ricerca degli
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anticorpi anti-HCV oltre che dell‘HCV RNA il rischio di epatite C post trasfusionale è
minimo e pari a circa 1 ogni 100000. [Harrison, 17 ed]
La diffusione tra tossicodipendenti rappresenta ad oggi la principale via di trasmissione del
virus, almeno nei paesi sviluppati a causa dell‘uso di aghi o siringhe contaminati.
Globalmente il 50-95% dei soggetti che ammettono l‘uso di stupefacenti per via endovenosa
è positivo per anticorpi anti HCV. [Girardi E et al, 1990; Bell J et al, 1990]
Il rischio di trasmissione dell‘infezione a seguito di puntura con ago contaminato è del 2% ed
è intermedio tra il rischio di trasmissione di HIV (circa 0,3%) e di HBV (30%). [Ridzon R,
1997] Nonostante ciò la prevalenza dell‘infezione tra il personale sanitario è assolutamente
sovrapponibile a quella della popolazione generale. [Puro V et al, 1995]
La trasmissione sessuale è rara e non quantificabile sul piano epidemiologico. In generale
l‘associazione tra comportamenti sessuali a rischio e HCV è molto più debole di quella con
HIV o HBV.
Il contagio perinatale si verifica in circa il 5% dei bambini nati da madri HCV-RNA positive.
Il rischio è aumentato in presenza di co-infezione HIV, probabilmente per i livelli maggiori di
HCV-RNA nella gravida, derivanti dall‘immunodepressione HIV correlata.
Non vi è ad oggi alcuna evidenza che le modalità del parto (per vie naturali o attraverso parto
cesareo) e il tipo di allattamento (naturale o artificiale) influenzino il rischio di trasmissione.
Meno comunemente il virus si trasmette a seguito di trattamenti estetici, come piercing e
tatuaggi eseguiti con strumenti non adeguatamente sterilizzati. Fra le altre possibili modalità
di trasmissione del virus per via parenterale ricordiamo la morsicatura da soggetto infetto, le
scarificazioni cutanee rituali, l‘agopuntura, le pratiche di manicure o pedicure con strumenti
non sterilizzati, la rasature dal barbiere. [Mauro Moroni et al, 7° ed]
Soggetti a rischio per infezione da HCV
Tossicodipendenti per via iniettiva e nasale
Soggetti sottoposti a trasfusioni di sangue o a trapianto d’organo prima degli anni novanta
Emodializzati
Soggetti HIV positivi
Soggetti esposti a sangue potenzialmente infetto (es. operatori sanitari vittime di puntura accidentale)
Soggetti con segni e sintomi di malattia epatica (es. enzimi epatici alterati)
Soggetti con attività sessuale promiscua (in particolare gli omosessuali maschi)
Bambini nati da madre HCV positiva
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Epidemiologia
Nonostante l’incidenza dell’infezione da HCV sia sensibilmente diminuita negli ultimi
vent’anni nella maggior parte delle nazioni industrializzate, la prevalenza delle malattie HCV
correlate è in aumento. Ciò è riconducibile all’intervallo temporale, spesso superiore ai 20
anni, che normalmente decorre tra l’inizio dell’infezione e la comparsa del quadro clinico
riferibile alla malattia epatica cronica.
Una stima recente dell’OMS sulla prevalenza globale dell’infezione da HCV indica un valore
che si attesta sul 2.2% (circa 140 milioni di persone) [The Global Burden of Hepatitis C
Working Group burden of disease (GBD) for hepatitis C, 2004], con un interessamento
soprattutto dei paesi situati nelle regioni del Pacifico dell’Ovest, nel Sud-Est Asiatico, in
Africa e nei Paesi del Mediterraneo orientale. Le nazioni con la prevalenza più alta nella
popolazione generale sono quelle africane e asiatiche.
Nell’Europa occidentale la prevalenza nella popolazione generale varia da paese a paese
[Libro bianco, 2011].
Figura Distribuzione epidemiologica dei genotipi di HCV nel Mondo
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Figura Distribuzione geografica dei maggiori genotipi di HCV in Italia [Zein, 2000]
Figura Prevalenza delle infezioni da HCV [WHO, 2008]
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I dati pubblicati nel mostrano che in Italia le stime della prevalenza dell’infezione da HCV
nella popolazione generale sono state ottenute tramite studi di siero-prevalenza in differenti
regioni; secondo tali studi la prevalenza di anticorpi anti-HCV oscilla tra il 3% e il 26%, con
un aumento progressivo con l’età e valori maggiori nel Sud Italia e nelle isole rispetto alle
regioni del Nord e del Centro Italia. A differenza degli altri paesi occidentali, in Italia la
prevalenza dell’infezione è maggiore nei soggetti più anziani rispetto agli adolescenti e ai
giovani adulti. Infatti, in Italia i picchi di incidenza sono rilevabili nei soggetti nati negli anni
Cinquanta e Sessanta e il motivo di ciò è da riferire al largo uso all’epoca di siringhe di vetro
non monouso. [Libro Bianco AISF 2011]
Attraverso un modello matematico, si stima che la prevalenza complessiva attuale di soggetti
HCV-RNA positivi in Italia sia circa del 3% e che almeno il 60% di questi abbia più di 65
anni.
Il Technical Report dell’ECDC conferma la maggiore prevalenza nelle aree meridionali ed
insulari e la forte variabilità nelle diverse aree della penisola (dall’8% al 2%).
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Storia naturale e clinica
L‘infezione primaria è del tutto asintomatica nel 60-70% dei casi, nel 20-30% dei pazienti in
cui risulta clinicamente evidente, causa un quadro di epatite acuta sovrapponibile a quello
ascrivibile agli altri virus epatotropi e cronicizza nel 50-85%, in rapporto a variabili come il
tipo di inoculo, l‘età e lo stato immunitario dell‘ospite.
Il periodo di incubazione varia da 2 a 26 settimane (mediamente 7 settimane). I livelli di ALT
e l’espressione di necrosi epatica raggiungono valori 10 volte superiori la norma mediamente
dopo 2-8 settimane. L’HCV-RNA è invece evidenziabile precocemente nel siero del paziente
da 1 a 2 settimane dopo il contatto con il virus. Nel 20% dei casi l’epatite acuta evolve in
guarigione, con normalizzazione delle ALT e negativizzazione dell’HCV-RNA.
Nel 80% dei casi l’epatite acuta evolve in cronica, caratterizzata dalla persistenza del genoma
virale nel sangue per almeno 6 mesi dall’insorgenza dell’infezione acuta, mentre le ALT
possono rimanere elevate, normalizzarsi o avere un andamento intermittente.
In una quota variabile di soggetti portatori del virus, l‘epatite cronica C può poi evolvere
verso la cirrosi epatica e l‘epatocarcinoma. [Gail V et al, 2008]
Gli anticorpi anti-HCV sono presenti sia nei soggetti con epatite acuta sia cronica e risultano
presenti circa 70 giorni dopo l’infezione e non distinguono tra malattia in atto o pregressa e
per questo motivo non vengono ricercati a scopo diagnostico.
Non sono completamente chiari i meccanismi attraverso i quali si giunge all‘eliminazione di
HCV o alla sua persistenza nell‘organismo: probabilmente esistono una suscettibilità
individuale su base genetica e un ruolo della variabilità genomica virale nel determinare
l‘evasione della risposta immunitaria.
Nell‘evoluzione della malattia giocano infatti un ruolo fondamentale alcuni fattori legati
all‘ospite quali sesso, età e sorgente dell‘infezione. In particolare, diversi sono i co-fattori che
possono modificarne il decorso, la gravità e la progressione a cirrosi. Tra questi, i più noti
sono l‘età al momento dell‘infezione, la via di infezione e la carica virale infettante, le coinfezioni con altri virus epatici o con HIV, le alterazioni dello stato immunitario, i fattori
genetici e razziali, e soprattutto la co-esistenza di altre cause epatolesive come alcool, farmaci
e dismetabolismo, e varie metaboliche, alle quali negli ultimi anni è stata riconosciuta
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crescente importanza nel processo di aggravamento del decorso della malattia (accumulo di
ferro, obesità, diabete di tipo 2, resistenza all‘insulina).
Occorre infine ricordare che l‘infezione da HCV è in grado di indurre o favorire malattie
extraepatiche (che colpiscono cioè altri organi e tessuti oltre al fegato). La più importante per
gravità e frequenza è la crioglobulinemia mista. Si tratta di una malattia da immunocomplessi
circolanti, che vengono prodotti a seguito della cronica stimolazione dei linfociti B da parte
di costituenti virali. Le manifestazioni cliniche della crioglobulinemia si osservano in circa il
5% dei pazienti e consistono per lo più in porpora e artragie, che in alcuni casi si
accompagnano a danno renale cronico e neuropatia periferica. L‘associazione tra infezione da
HCV e linfoma non-Hodgkin a cellule B è stata dimostrata, ma è di raro riscontro sul piano
clinico. I pazienti più a rischio di sviluppare un linfoma sono comunque quelli già affetti da
crioglobulinemia mista.
Figura Evoluzione clinica dell’infezione da HCV
Solo l‘infezione post-trasfusionale, per la quale è possibile definire con precisione il
momento del contagio con HCV, ha permesso di stabilire la storia naturale dell‘epatite C. Il
quadro clinico è a lungo asintomatico e pertanto solo l‘accurato follow-up biochimico e
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sierologico del paziente può consentire di rivelare la malattia. Nonostante la progressione
iniziale asintomatica, l‘infezione da virus dell‘epatite C causa non solo uno spettro di
patologie epatiche con diverso andamento e severità, ma anche un numero di manifestazioni
extraepatiche principalmente correlate alla stimolazione cronica del sistema immunitario e ad
una risposta autoimmunitaria virus indotta.
Dal punto di vista clinico l’epatite da HCV è simile all’epatite B, ma rispetto a quet’ultima si
osserva una maggiore percentuale di individui che progredisce verso lo stadio di cronicità.
Il periodo di incubazione dell’epatite post-trasfusionale da HCV varia da 2 a 28 settimane, in
media 60 giorni, ma si può ulteriormente ridurre a 2-14 giorni negli emofilici trattati con
fattori della coagulazione.
Studi condotti negli Stati Uniti ed in Europa, dimostrano che, rispetto all’HBV, i casi
attribuibili al virus dell’epatite C decorrono più frequentemente in maniera asintomatica,
senza la necessità di ospedalizzazione.
Tra i sintomi tipici l’ittero è presente solo nel 25% dei casi e meno del 10% dei pazienti
lamenta il corteo sintomatologico classico dell’epatite virale: nausea, vomito, astenia,
malessere generale, artralgie . Infine un numero limitato di soggetti sviluppa anemia
aplastica.
Il rapporto tra infezione da HCV ed incidenza di epatite fulminante non è ancora stato
chiarito. In passato molti casi erano stati associati ai virus dell’epatite non A non B; indagini
più approfondite hanno rivelato per alcuni di essi, attribuiti impropriamente ad una causa
virale, un’eziologia tossica o farmacologica. Tuttavia una parte di questi potrebbe essere ad
un processo di superinfezione da HCV in portatori cronici di epatite B. Per chiarire
l’eventuale coinvolgimento dell’HCV nella fase acuta di un’epatite virale sarebbe di
fondamentale importanza l’introduzione di un metodo routinario per individuare l’infezione e
la replicazione virale, vista la scarsa applicabilità della PCR a tale scopo. L’epatite acuta da
HCV è caratterizzata istologicamente da una risposta infiammatoria del tessuto epatico più
attenuata rispetto quella osservata in corso di epatite A o B, essendo caratterizzata dalla
presenza di modesti infiltrati linfocitari.
Per quanto riguarda le complicanze a lungo termine, circa il 50% dei pazienti va incontro a
cronicizzazione e di questi il 20% evolve verso la cirrosi epatica.
I portatori cronici di HCV rappresentano inoltre la fonte più importante di contagio per i
soggetti suscettibili. L’andamento delle transaminasi in corso di epatopatia cronica da HCV
presenta diversi quadri: si possono riscontrare casi ad andamento polifasico con ampie
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fluttuazioni delle ALT, sebbene esistano anche soggetti con plateau di modesto ma
persistente innalzamento dell’alanina-aminotransferasi al di sopra dei valori di riferimento.
Da un punto di vista istologico oltre al quadro classico dell’epatite cronica, vi sono
caratteristicamente aspetti di micro-macrosteatosi e proliferazione dei duttuli biliari. Tra gli
altri indici di danno epatico si osserva che le gamma globuline aumentano solo quando vi è
cirrosi conclamata, mentre la fosfatasi alcalina solitamente non subisce variazioni rilevanti.
Epidemiologia
La disponibilità di test per la ricerca di anticorpi diretti contro antigeni del’HCV, ha
consentito, a partire dal 1989, di effettuare studi sieroepidemiologici su vari gruppi di
popolazione. L’epatire C è un’infezione ubiquitaria, rappresentando circa il 20% di tutti i
casi di epatite virale nel mondo. Diversi studi hanno evidenziato che la distribuzione
dell’anti-HCV riconosce un gradiente mondiale Nord-Sud risultando maggiore nei donatori di
sangue dell’Europa Meriodionale (1-2%) e dei Paesi Africani (6%) rispetto a quelli del Nord
America e del Nord Europa (0,1%-0,7%). In Italia la sieroprevalenza dell’anti-HCV nei
donatori di sangue, valutata utilizzando test di prima generazione, è risultata di circa l’1,5%
nel Sud e dello 0,7% nel Nord. Tra i fattori di rischio, le trasfusioni di sangue sono state
riconosciute responsabili dell’infezione in una percentuale di casi pari al 6% nel periodo
1986-88 nell’ambito di riceche effettuate dal CDC di Atlanta (USA), con un decremento
rispetto alla percentuale del 17% riscontrata negli anni 1982-85. Tale riduzione è ascrivibile
da un lato alla esclusione dei donatori on fattori di rischio per l’infezione da HIV e relativo
screening sierologico, e dall’altro all’utilizzo dei cosidetti marcatori surrogati (ricerca antiHBc???-ALT). Un significativo decremento delle infezioni non A non B post-trasfusionali si
è verificato con l’introduzione dello screening anti-HCV nel corso del 1989. Con
l’introduzione delle metodiche diagnostiche per la ricerca dell’anti-HCV e di base alle
conoscenze sulle modalità di trasmissione, si è giunti peraltro ad identificare le principali
categorie a rischio di contagio. Queste ultime sono rappresentate da sogetti trasfusi in epoca
pre-screening (compresi emofilici e talassemici), dializzati, tossicodipendenti, ecc. L’anti
HCV saggiato con test di prima generazione presentano un’elevata prevalenza nei pazienti
con epatite cronica , mentre le percentuali di positività risultano più basse in quelli con epatite
acuta a risoluzione spontanea (15%-60%). L’anticorpo (antic-100-3, anti-HCV) compare
spesso in ritardo rispetto all’evoluzione delle transaminasi (rispettivamente 20-22 settimane
dalll’esposizione e 14-16 settimane dalla comparsa del quadro clinico). Tale intervallo tra
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epoca di contagio e comparsa degli anticorpi specifici è stato notevolmente
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ridotto
dall’introducione di test di seconda generazione.
Pur non rappresentando le donazioni di sangue la prima causa di infezione, risulta tuttavia
chiara la loro importanza epidemiologica, dal momento che alcuni studi prospettici hanno
dimostrato che almeno il 5% dei politrasfusi presenta segni biochimici o clinici di epatite
cronica non A non B.
Ciò ha comportato negli ultimi anni una maggiore attenzione allo screening ma, per lungo
tempo, in mancanza di test sierologici specifici, sono stati utilizzati dei marcatori surrogati
quali l’anti-HBc??? e la valutazione dei livelli delle ALT.
La positività dei markers “surrogati” pur risultando utile nella prevenzione delle epatiti posttrasfusionali, non sempre si correla con la reattività per anti-HCV.
Quest’ultimo test, se eseguito su tutte le donazioni di sangue, garantisce pertanto una
maggiore sicurezza delle unità ematiche.
Si può tuttavia verificare che il donatore sia stato sottoposto a screening in periodo “finestra”
tra infezione acuta e sieroconversione, o che sia possibile lo stato di portatore cronico del
virus anche in assenza di anticorpi anti-HCV.
La ricerca dell’HCV-RNA rappresenterebbe la sola possibilità di verificare tale ipotesi ma le
metodiche di amplificazione genica non sono oggi applicabili su larga scala. Anche gli
emoderivati sono stati chiamati in causa nella trasmissione dell’HCV.
Un ulteriore gruppo a rischio , considerate le modalità di trasmissione dell’HCV, è
rappresentato, come già detto, dai tossicodipendenti che fanno uso di droghe che varia dal
45% al 92% secondo differenti studi epidemiologici.
Analogamente è stato altresì dimostrato che nei pazienti dializzati la prevalenza di anti-HCV
varia dallo 0,5 fino al 40%.
La positività per anti-HCV è più frequente tra dializzati che sono stati trasfusi, ma un’elevata
percentuale di reattività è riscontrabile anche in quelli che non hanno ricevuto unità di
sangue.
Ciò fa supporre che alcuni casi siano dovuti a trasmissione percutanea non trasfusionale. La
stessa modalità di infezione è ipotizzabile per gli operatori sanitari anche al di fuori di
evidenti contatti con materiale infetto e per gli individui sottoposti ad interventi chirurgici.
Attualmente per circa il 40% delle epatiti C non è possibile individuare alcuna sorgente di
infezione ne alcun fattore di rischio tra quelli noti.
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Pertanto risulta importante analizzare più dettagliatamente le numerose forme di epatite
denominate sporadiche o acquisite in comunità.
A tale scopo la ricerca si è soffermata particolarmente sullo studio delle vie di trasmissione
sessuale, intra familiare e perinatale.
Riguardo alla diffusione dell’infezione per via sessuale si può supporre che essa svolga un
ruolo meno importante per l’HCV rispetto all’HBV.
La siero prevalenza di anti c-100-3 negli omossessuali è nettamente inferiore rispetto a quella
dell’anti-HBc, marcatore che indica l’avvenuto contatto con HBV.
Tuttavia studi su soggetti eterosessuali hanno dimostrato come la promiscuità sessuale sia
associata ad un rischio 11 volte superiore di contrarre un’epatite non A non B rispetto ad un
gruppo di controllo preso come riferimento.
Anche per quanto riguarda la trasmissione intra famigliare, si osserva una minore
contagiosità dell’HCV rispetto a quanto evidenziato sulla diffusione dell’HBV.
Studi condotti in Italia ed in Giappone indicano una prevalenza di anti-HCV dell’8% tra i
conviventi di casi indice.
La trasmissione perinatale ha incidenza modesta ed avviene comunque più facilmente se la
madre è sieropositiva per anti-HIV. Ovviamente, per valutare l’avvenuto contagio-madrefiglio bisogna effettuare il monitoraggio del neonato al fine di consentire, dopo scomparsa
degli anticorpi passivi materni, l’evidenziazione della eventuale produzione attiva di antiHCV.
Per quanto riguarda la correlazione tra HCV e incidenza di carcinoma epatocellulare, è
possibile ipotizzare che questo virus al pari dell’HBV svolga un importante ruolo in questa
neoplasia. Molti aspetti della sua stretta associazione con il fenomeno discariocinetico resta
ancora da chiarire ed in particolare se sia il virus mediante un meccanismo diretto di
integrazione genomica a determinare la cancerogenesi o se ciò sia imputabile al concomitante
stato di cirrosi. Al riguardo bisogna però osservare che l’HCV è un RNA virus sprovvisto
dell’enzima trascriptasi inversa e quindi risulta difficile comprendere come potrebbe
integrarsi nel genoma dell’ospite.
Un ulteriore aspetto da considerare è la correlazione dell’HCV con le epatopatie autoimmuni
di tipo 1 (con positività anticorpi anti-nucleo) e di tipo 2 ( con positività degli anticorpi antimicrosoma di fegato e di rene o LKM)
In queste forme si segnala in circa il 50% dei pazienti una positività per anti-HCV che
raggiunge l’80% nell’epatite autoimmune di tipo 2 associata alla contemporanea presenza di
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autoanticorpi anti-LKM. La mancanza di test sierologici più specifici non ha ancora permesso
di discriminare se la positività per anti-HCV sia totalmente attribuibile all’epatopatia virale o
sia in parte legata ad una falsa reattività causata dall’elevato tasso sierico di immunoglobuline
riscontrabile in questa patologia. Si ritiene comunque che le reattività per anti-HCV siano
vere nei casi di epatopatia autoimmune di tipo 2 dell’adulto.
Una serie di studi hanno inoltre evidenziato come molti pazienti affetti da epatopatia alcolica
presentassero un’alta prevalenza di anti-c-100-3 e che tale positività sierologica era ancora
più elevata quanto più grave era la sintomatologia, l’obbiettività clinica ed il quadro
anatomopatologico. Sembra possibile quindi che l’HCV sia responsabile di un ulteriore
aggravamento dell’epatopatia alcolica. Per quanto riguarda altre possibili modalità di
trasmissione dell’HCV alcuni studi hanno segnalato l’eventualità che liquidi biologici quali
ad esempio la saliva siano in grado di veicolare il virus; viceversa gli insetti ematofagici non
sembrano implicati nella diffusione dell’infezione.
CLINICA
L‘infezione primaria con virus della HCV è del tutto asintomatica nel 60-70% dei casi. Nel
20-30% dei pazienti in cui risulta clinicamente evidente causa un quadro di epatite acuta
sovrapponibile a quello ascrivibile agli altri virus epatotropi e cronicizza nel 50-85% degli
infetti, in rapporto a variabili come il tipo di inoculo, l’età e lo stato immunitario dell‘ospite.
Nel 30-40% dei casi l‘evoluzione cronica è caratterizzata da persistenza del virus con
aminotransferasi normali, mentre nel 50-70% dei casi si osservano aminotransferasi elevate o
fluttuanti. In una quota variabile di soggetti portatori del virus, l‘epatite cronica C può poi
evolvere verso la cirrosi epatica e l‘epatocarcinoma. (Dore, 2008)
Non sono completamente chiari i meccanismi attraverso i quali si giunge all’eliminazione di
HCV o alla sua persistenza nell’organismo: probabilmente esistono una suscettibilità
individuale su base genetica ed un ruolo della variabilità genomica virale nel determinare
l’evasione della risposta immunitaria.
Va precisato però che nei diversi studi di storia naturale, le percentuali di progressione sono
spesso molto diverse, probabilmente per l’eterogeneità dei pazienti studiati e sottotipi di virus
coinvolti. Nell’evoluzione della malattia giocano infatti un ruolo fondamentale alcuni fattori
legati all’ospite, oltre che diversi co-fattori che possono modificarne il decorso, la gravità e la
progressione a cirrosi. Tra questi, i più noti sono l’età al momento dell’infezione, la via di
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infezione e la carica virale infettante, le coinfezioni con altri virus epatici o con HIV, le
alterazioni dello stato immunitario, i fattori genetici e razziali, e soprattutto la coesistenza di
altre cause epatolesive come alcool, farmaci e dismetabolismo, e altri disturbi metabolici, ai
quali negli ultimi anni è stata riconosciuta crescente importanza nel processo di
aggravamento del decorso della malattia (accumulo di ferro, obesità, diabete di tipo 2,
resistenza all‘insulina).
Occorre infine ricordare che l‘infezione da HCV è in grado di indurre o favorire malattie
extraepatiche. La più importante per gravità e frequenza è la crioglobulinemia mista. Si tratta
di una malattia da immunocomplessi circolanti, che vengono prodotti a seguito della cronica
stimolazione dei linfociti B da parte di costituenti virali. Le manifestazioni cliniche della
crioglobulinemia si osservano in circa il 5% dei pazienti e consistono per lo più in porpora
(lesioni cutanee) e artragie, che in alcuni casi si accompagnano a danno renale cronico e
neuropatia periferica.
Solo l‘infezione post-trasfusionale, per la quale è possibile definire con precisione il
momento del contagio con HCV, ha permesso di definire la storia naturale dell‘epatite C. Il
quadro clinico è a lungo asintomatico e pertanto solo l‘accurato follow-up biochimico e
sierologico del paziente può consentire di monitorare la malattia. Nonostante la progressione
iniziale asintomatica, l‘infezione da virus dell‘epatite C causa non solo uno spettro di
patologie epatiche con diverso andamento e severità, ma anche un numero di manifestazioni
extraepatiche principalmente correlate alla stimolazione cronica del sistema immunitario e ad
una risposta autoimmunitaria virus indotta.
Epatite C acuta
Il periodo di incubazione e la gravità della fase acuta possono dipendere dall‘importanza
dell‘inoculo. Il periodo medio di incubazione è di 7-8 settimane, ma può variare ampiamente
(2-26 settimane). Risulta quindi intermedio tra il tempo di incubazione dell‘epatite A e
dell‘epatite B. Sintomi prodromici sono rari. L‘epatite acuta è itterica solo in una piccola
parte dei casi (20%) mentre è non itterica con pochi o nessun sintomo nell’80% delle
infezioni. I sintomi sono generalmente aspecifici: malessere, nausea, dolore al quadrante
superiore destro del fegato, urine scure e itterizia. La diagnosi clinica di epatite acuta risulta
quindi difficile e può essere effettuata solo con la ricerca di marker virali. La forma severa
dell‘epatite acuta è rara e l‘esistenza di epatite C fulminante controversa. (Hoofnagle JH,
2002) Quando è visibile clinicamente, la malattia dura generalmente 2-12 settimane.
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Il primo marker dell‘infezione sono livelli di HCV-RNA rilevabili nel siero mediante PCR,
subito dopo la prima settimana dall‘esposizione e il successivo aumento a 10^6-10^8
copie/mL. Gli anticorpi diventano rilevabili in fase acuta nella maggior parte dei casi, ma in
alcuni casi la siero conversione è ritardata di alcune settimane. Le alanino aminotrasferasi
sieriche (ALT) iniziano ad aumentare poco prima che appaiano i sintomi clinici. Possono
essere raggiunti picchi 10 volte più alti della norma, anche se in genere invece si riscontrano
aumenti lievi o moderati.
In pazienti che risolvono l‘infezione, le ALT ritornano normali e l‘HCV-RNA non è più
rilevabile a livello plasmatico; gli anticorpi diminuiscono progressivamente anche se
rimangono evidenziabili per molti anni. Non è chiaro se negli epatociti e nelle altre cellule
l‘infezione venga eradicata o rimanga a livelli molto bassi.
Se l‘infezione diventa cronica, le ALT possono o normalizzare o rimanere moderatamente
elevate. Normalmente l‘HCV-RNA rimane rilevabile, nonostante alcuni casi di
negativizzazione.
La completa risoluzione dell‘epatite acuta non è evento comune. Sembra che il tasso di
risoluzione sia intorno al 15% e il livello di cronicizzazione vari dal 50% al 90%. Gli studi
che si basavano solo sulle ALT riportavano bassi livelli di cronicizzazione, quelli più recenti
basati sulla PCR, stimano l‘85% di cronicizzazione.
Diversi studi hanno però dimostrato l‘efficacia dell‘interferone in fase acuta nell‘aumentare
considerevolmente la probabilità di guarigione, con tassi di risposta virologica sostenuta
(SVR) fino al 98%.
Nonostante queste evidenze dei criteri univoci circa la terapia ottimale, la sua durata e il
momento migliore per iniziarla, non sono ancora stati definiti con precisione. (Johannes
Wiegand, 2008)
Epatite C cronica
L‘epatite cronica può essere definita come una malattia necrotico-infiammatoria del fegato
caratterizzata dalla persistenza nel tempo di necrosi epatocitaria e infiammazione,
istologicamente dimostrabili.
La diagnosi viene normalmente condotta attraverso parametri biochimici (transaminasi
elevate per oltre sei mesi), virologici (presenza di HCV-RNA nel siero) ed istologici.
E‘ definita dalla persistenza dell‘HCV-RNA a livello sierico per una durata superiore ai sei
mesi dopo l‘infezione acuta. Come si è già detto, la probabilità di cronicizzazione del virus
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dopo infezione acuta varia dal 70 all‘85% dei casi e tale percentuale si modifica in funzione
dell‘età, del sesso, della razza e dello stato immunitario del paziente.
La giovane età, contrariamente a quanto accade a proposito dell‘epatite B, correla con una più
bassa probabilità di cronicizzazione. (Hoofnagle, 2002) Anche il sesso femminile sembra
essere legato ad un minor rischio di epatite cronica, ed in particolare questo fenomeno è
evidente nelle donne giovani.
A proposito invece della razza, la cronicizzazione è più frequente negli africani che nei
caucasici o negli ispanici ed è inoltre favorita da uno stato di immunodepressione congenita o
acquisita. (Hoofnagle, 2002) (Thomas DL, 2000)
Sembra infine che chi sviluppa un‘epatite acuta sintomatica sia meno predisposto alla
cronicizzazione rispetto a coloro che contraggono l‘infezione in maniera asintomatica.
Questo può essere parzialmente spiegato interpretando la manifestazione clinica come un
evento legato ad una più vigorosa risposta da parte del sistema immunitario. (Hoofnagle,
2002) (Lechner F, 2000)
Esistono due diversi pattern di Epatite C cronica: uno con ALT normali e l‘altro con elevate
ALT.
ALT normali: circa il 25% (range 10-40%) dei soggetti con Epatite C ha ALT normali anche
se l‘HCV-RNA è presente nel siero a livelli evidenziabili. Questi pazienti sono per lo più
asintomatici e le loro caratteristiche non sono diverse da quelli con ALT elevate. Sono stati
denominati carrier sani, anche se non è un termine del tutto corretto perché a volte presentano
anormalità istologica alla biopsia epatica. Diversi studi (Alberti A, 1992) indicano che il 25%
di questi soggetti ha una istologia epatica normale, il 54% ha una lieve epatite cronica e il
21% un‘epatite moderata. Normalmente la fibrosi è assente o minima e la cirrosi è presente in
meno dell‘1% di questi pazienti.
ALT elevate: sono inclusi in questo gruppo il 75% dei pazienti con epatite C cronica. La
gravità della malattia epatica può variare considerevolmente. A seconda delle lesioni
istologiche epatiche, si può distinguere l‘epatite cronica lieve e quella moderata-severa.
Questa distinzione è importante per la prognosi della malattia e per il trattamento terapeutico.
L‘epatite cronica lieve viene diagnosticata in seguito ad identificazione di lesioni epatiche
minori durante la biopsia epatica; è definita da valori di fibrosi 0-1. Questo gruppo include
circa il 50% delle epatiti croniche con ALT elevate. L‘epatite cronica moderata-severa è
definita così per la presenza di lesioni necro- infiammatorie e/o fibrosi estesa, all‘atto della
biopsia epatica. Lo score della fibrosi è in questo caso 3-4. Questi pazienti rappresentano
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circa il 50% dei soggetti con epatite C cronica ed ALT elevate e sono difficili da distinguere
da quelli con epatite cronica lieve.
Cirrosi ed epatocarcinoma
La cirrosi è la complicazione più seria dell‘epatite cronica C. L‘infezione di solito
progredisce molto lentamente e quindi la cirrosi si sviluppa generalmente in tempi lunghi, 2-3
decadi. Il 20-30% dei soggetti con Epatite C cronica sviluppa cirrosi dopo 10-20 anni. La
rapidità della progressione della fibrosi è influenzata dall‘età (infezione in tarda età), sesso
(maschile), immunodepressione e abuso di alcool (Vaquer P, 1994). Vi sono altri fattori che
influenzano la severità della malattia epatica: fattori virologici come il titolo virale e il
genotipo non sembrano incidere in modo significativo sulla prognosi dell‘infezione
(Benvegnu‘ L, 1997). Altri studi ipotizzano invece il ruolo della variabilità genetica di HCV
nella progressione dell‘infezione (Honda M, 1994) anche se l‘associazione non è ben definita.
In molti casi la cirrosi HCV-correlata rimane silente e i sintomi clinici della malattia
appaiono solo durante lo stadio terminale e includono un notevole affaticamento, debolezza
muscolare, ritenzione di liquidi, bruciori e prurito. Spesso le cirrosi asintomatiche vengono
scoperte solo alla biopsia epatica. In altri casi la cirrosi viene diagnosticata in conseguenza a
complicazioni (asciti e itterizia) e in molti casi la diagnosi viene fatta allo stadio ultimo di
carcinoma epatico. Gli esami clinici e biochimici possono avere valore predittivo di cirrosi,
ma non sono completamente attendibili. Anche in questo caso la diagnosi più attendibile di
cirrosi viene fatta con la biopsia epatica, anche se a volte la cirrosi non viene evidenziata,
magari per l‘insufficienza del campione di tessuto prelevato.
Pazienti con cirrosi da HCV hanno un tasso di mortalità dovuta a ipertensione portale,
fallimento epatico o epatocarcinoma del 2-5% l‘anno. La cirrosi in fase terminale è una delle
maggiori indicazioni per il trapianto di fegato: il 30% dei trapianti è dovuto a tale causa. E‘
frequente dopo l‘intervento che l‘infezione ricorra anche se nella maggior parte dei casi è più
lieve.
Il carcinoma epatico si manifesta generalmente in soggetti con cirrosi. Tra questi l‘incidenza
di epatocarcinoma è elevata, pari al 3-10%. Tale incidenza è 3-5% nei paesi occidentali e più
alta invece in Asia. Normalmente il carcinoma epatico si presenta nelle cirrosi compensate ed
è clinicamente silente per lungo tempo. Le terapie non sono efficaci e il trapianto d‘organo
può essere effettuato solo in un numero piccolo di pazienti.
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Biologia Virale
Il genoma di HCV è costituito da una molecola di RNA a filamento singolo e di senso
positivo molto simile ai Pestivirus e Flavivirus. HCV viene classificato in un genere a se
stante: gli Hepacivirus della famiglia Flaviviridae. Ha forma sferica, è provvisto di
pericapside (envelope) ed ha diametro di circa 36-62 nm e densità di circa 1,08 g/ml (Lauer
GM, et al. 2001) (figura 3).
Figura 3: Il genoma di HCV e poliproteine espresse.
La sequenza genomica dell’HCV può variare considerevolmente da un ceppo virale all’altro.
Ne consegue che in natura esistono tipi e, nell’ambito del singolo tipo, sottotipi diversi.
Sebbene non ci sia un’uniformità assoluta nella definizione dei tipi e sottotipi, approfonditi
studi di analisi filogenetica hanno permesso di chiarire che esistono almeno sei genotipi
diversi di HCV la cui distribuzione nel mondo è caratteristica, ed un numero elevato di
sottotipi.
Figura Struttua biologica e gene caratteristici del virus HCV
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Di norma ogni paziente viene infettato da un singolo sottotipo. La capacità replicativa
dell’HCV è tuttavia tale da generare rapidamente una straordinaria variabilità genomica.
Pertanto in ogni momento nel corso dell’infezione da HCV nel singolo paziente è possibile
riscontrare una popolazione virale estremamente eterogenea. Per meglio definire questo
fenomeno è stato coniato il termine “quasi-specie”, utilizzato anche per altri virus come per
esempio HIV. Questo termine riflette sostanzialmente la comparsa di mutanti virali sotto la
pressione selettiva della risposta immunitaria dell’ospite.
Figura Ipotetico modello di replicazione del virus dell’epatite C
Figura Rappresentazione schematica del genoma virale e dell’associazione delle proteine, strutturali
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e non, alle membrane del reticolo endoplasmatico .
Figura Meccanismi di persistenza dell’infezione
Figura (A) e (B) Ciclo replicativo di HCV.
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MORFOLOGIA E STRUTTURA
Il virus non è stato ancora isolato e caratterizzarlo estesamente dal punto di vista
morfologico. Al contrario la struttura del genoma e di alcune proteine virali comincia ad
essere nota in dettaglio.
Organizzazione del genoma virale
Il genoma virale è costituito da una molecola di RNA a singolo filamento con polarità
positiva di circa 9.6Kb, contenuto in un capside proteico circondato da un rivestimento
lipidico.
Sul genoma virale si possono distinguere tre diverse regioni;
- una regione al 5’ non tradotta (5’NTR) di 340 nucleotidi, che contiene il sito di legame per i
ribosomi (IRES);
- una regione centrale, codificante per una singola poliproteina di circa 3000 aminoacidi (aa);
- una regione al 3’ non tradotta (3’NTR); (Fig.1.1).
La regione non tradotta al 5’ è necessaria per la replicazione e per la traduzione dell’RNA
virale
Per la replicazione sono sufficienti i 125 nucleotidi (nt) terminali della sequenza, ma
l’efficienza aumenta se la regione 5’ NTR è completa.All’estremità 5’, non codificante del
genoma (5’ UTR) si trovano delle sequenze “long terminal repeats” (LTR) di circa 330
nucleotidi. Questa è la regione del genoma virale maggiormente conservata per cui la
maggior parte dei protocolli diagnostici per HCV-RNA prevede l’utilizzo di sonde e primer
con omologia per questa regione.
La traduzione dipende dall’IRES interno alla regione (40-340 nt), permettendo il legame
diretto dei ribosomi in prossimità del codone di inizio della regione centrale codificante
(ORF; “Open Reading Frame”). I primi 40 nt non sono necessari per la funzione dell’IRES.
La traduzione virale richiede inoltre diversi fattori cellulari di inizio traduzione (eIF2 e eIF3)
per formare il complesso ribosomale 48s .
Genoma di HCV e poliproteina prodotta dalla sua traduzione
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Il genoma virale è costituito da una molecola di RNA di 9.6 Kb divisa in diverse regioni
come descritto precedentemente.
La poliproteina tradotta da tale sequenza di RNA viene successivamente maturata da proteasi
virali e cellulari in un minimo di 10 prodotti. La regione amino-termine della proteina
codifica per le proteine strutturali core, E1 ed E2; mentre la regione carbossi-terminale dà
vita alle proteine non strutturali (NS2-5B). HVR1 e HVR2 (“Hypervariable Region 1 e 2”)
indicano regioni all’interno di E2 che mostrano un’elevata variabilità; viene anche indicato il
sito di legame per CD81, l’eventuale recettore o corecettore di HCV utile per l’ingresso virale
nell’epatocita. La regione denominata ISDR (“IFN Sensitivity Determining Region”), interna
al segmento del gene codificato nella proteina NS5A, rappresenta la regione che determina la
sensibilità all’IFN.
Una predizione al computer della struttura dell’IRES rivela 4 distinti domini a RNA. Il primo
ed il quarto dominio non dovrebbero essere essenziali per la funzione, il terzo dominio
sarebbe quello centrale ed il secondo ne aumenterebbe l’efficienza.
La regione non tradotta al 3’ è invece necessaria unicamente per la replicazione. È costituita
da una sequenza tripartita divisa rispettivamente in:
1) una regione variabile di 40 nt;
2) un poli U/UC di lunghezza variabile;
3) una regione altamente conservata di 98 nt .
La regione variabile di 40 nucleotidi segue il codone di stop e non è essenziale per la
replicazione. Mutanti deleti di questa regione replicano comunque, anche se presentano
un’efficienza ridotta.
Il poli U/UC può avere lunghezza variabile. La lunghezza minima richiesta per la
replicazione è di 26 residui nucleotidici. Se questa regione viene sostituita con altri
omopolimeri nucleotidici la replicazione virale si arresta in quanto l’enzima non riconosce
più la regione corrispondente alla coda di poli A presente nella trascrizione dell’RNA nelle
cellule di mammifero, bersaglio dell’infezione virale.
La regione altamente conservata di 98 nucleotidi è indispensabile per la replicazione di HCV
in vivo. Infatti qualunque mutazione in questa regione fa sì che non avvenga la replicazione
virale .
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Proteine virali
Come precedentemente descritto, la regione centrale codifica per una singola poliproteina di
circa 3000aa che viene successivamente maturata da proteasi cellulari e virali in un minimo
di dieci prodotti proteici, alcuni dei quali possono subire aggiuntive modificazioni a livello
traduzionale o post-traduzionale .
Inoltre recentemente è stato osservato che lo slittamento della cornice di lettura durante la
traduzione può fare rilasciare un undicesimo peptide di 17 KDa chiamato F . La sua sequenza
codificante si sovrapporrebbe a quella della proteina core. L’inizio di traduzione della nuova
proteina dovrebbe essere all’interno di uno dei primi codoni della sequenza di core. Lo
slittamento della cornice di lettura è probabilmente causato da una sequenza ricca in adenine
(A). Sebbene la proteina F sia stata inizialmente identificata all’interno del genotipo 1a di
HCV, si ritiene che la sua espressione non sia limitata a tale genotipo, ma che la sua
lunghezza possa essere invece specifica del genotipo stesso. La funzione di questa proteina
non è chiara, potrebbe giocare un ruolo nel ciclo vitale di HCV, ma non risulta comunque
essenziale per la replicazione. La porzione amino-termine della poliproteina codifica per le
proteine strutturali del virus; core (C), E1 e E2, che costituiscono la particella virale (Fig.1.1).
La proteina core è il maggior costituente del nucleocapside , mentre E1 ed E2, proteine
altamente glicosilate rispettivamente di 21 KDa e 40 KDa, costituiscono il rivestimento del
virus. Core è una proteina basica di circa 20 KDa. È la prima proteina tradotta dall’RNA
virale e rilasciata da proteasi cellulari non ancora identificate. Non si sa ancora con certezza
se l’estremità 5’ della sequenza che codifica per la proteina faccia o meno parte dell’IRES.
Esistono diversi prodotti del gene codificante per la proteina del nucleocapside . I maggiori
sono p21 (191 aa) e p19 (173 aa), localizzati entrambi sul reticolo endoplasmatico; in minor
quantità si trova p16 (151 aa), localizzato essenzialmente nel nucleo. Si è ipotizzato che i
diversi prodotti, tenuto conto anche delle diverse localizzazioni, possano avere diverse
funzioni. E1 ed E2 sono entrambe rilasciate dalla poliproteina tramite proteasi cellulari non
ancora identificate, come la proteina core. Essendo proteine altamente glicosilate è possibile
che siano ritenute sulle membrane del reticolo endoplasmatico, come descritto da più lavori .
Pavio e collaboratori hanno descritto una forma non glicosilata della proteina E2 (E2-p38),
localizzata
principalmente
nel
citoplasma,
contrariamente
alla
forma
glicosilata,
significativamente meno stabile e degradata attraverso la via del proteasoma . Essendo già
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nota l’interazione fra E2 e la proteina chinasi R (PKR), ed essendo stata dimostrata
l’interazione della chinasi anche con la forma citoplasmatica p38, si ritiene che sia proprio
questa variante di E2 ad interagire con la PKR nel compartimento citoplasmatico.
La porzione carbossi-terminale della poliproteina invece codifica per le proteine non
strutturali di HCV (proteine NS) 2 – 5B, richieste per la replicazione del virus (Fig.1.1).
NS2, proteina di circa 24 KDa, ed il dominio amino-terminale di NS3 costituiscono una delle
due proteasi virali. NS3, proteina di circa 69 KDa, è l’altra proteasi virale, ma ha anche
funzione di elicasi ed attività ATPasica .
NS4A, una piccola proteina che pesa meno di 6 KDa, funziona come cofattore per NS3, sia
per la sua attività proteasica che elicasica; NS4B e NS5A hanno ancora funzione non nota.
NS4B è una proteina altamente idrofobica di circa 28 KDa rilasciata dall’ultimo evento di
maturazione della poliproteina. Essendo NS4B una proteina integrale di membrana si ipotizza
che possa avere un ruolo diretto nella riorganizzazione delle membrane cellulari per formare
strutture
utilizzate da HCV per replicare .
NS5A è una fosfoproteina di circa 50 KDa. È stato ampiamente dimostrato che la sua
iperfosforilazione, dalla forma fosforilata p56 a quella iperfosforilata p58 è necessaria per
l’espressione in cis di altre proteine non strutturali del virus quali; NS2, NS3, NS4A ed NS4B
La fosforilazione di NS5A sembra avvenire quando la proteina è parte di una poliproteina
NS3-5A, e non quando è invece espressa da sola.
Questa osservazione avvalorerebbe
l’ipotesi di un ruolo importante nel processo di altre proteine virali non strutturali.
Ulteriori lavori parlano però di una fosforilazione seguente la maturazione della poliproteina
e osservano che NS5A viene fosforilata a livello basale anche in assenza delle altre proteine
virali . Questo comporterebbe la capacità della proteina di autofosforilarsi o di essere
fosforilata da proteine cellulari, come sostengono altri dati sperimentali. La fosforilazione di
NS5A avviene inizialmente a livello di alcune serine (Ser), così come l’iperfosforilazione
(Ser2197-Ser2201-Ser2204), anche se in diversi residui da quelli già fosforilati in p56.
Sebbene la funzione di questa proteina sia ancora sconosciuta, diversi studi hanno identificato
molte interazioni fra NS5A ed alcune proteine cellulari. La proteina virale è inoltre coinvolta
nell’alterazione di diverse vie di trasduzione del segnale, compresa quella dell’IFN; anche se
la maggior parte dei dati ottenuti rimangono ancora privi di significato. Anche per NS5A,
così come nel caso di NS4B, è stata descritta colocalizzare con l’RNA virale all’interno di
strutture membranose presenti nel citoplasma, chiamate “membranous web”. La replicazione
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virale sembra avvenire all’interno di frazioni di membrana resistenti ai detergenti note come
“lipid rafts”
. La localizzazione sulle membrane della proteina non strutturale NS5A sembra
dovuta alla presenza nella sua regione N-terminale di un’α-elica anfipatica, necessaria e
sufficiente per il legame alle membrane stesse . Sebbene su NS5A siano disponibili tutte
queste informazioni, poco o nulla si sa sulla sua effettiva funzione. Sicuramente interferisce
con la risposta del virus all’IFN, come vedremo meglio in seguito, e molto probabilmente ha
anche un ruolo importante nella patogenesi virale. Un lavoro di Giménez Barcons e
collaboratori
mostra come in pazienti affetti da epatite C che abbiano sviluppato
epatocarcinoma vi sia un numero grandissimo di aminoacidi mutati in NS5A (circa il 60%),
molto più elevato rispetto ai pazienti HCV positivi non presentanti neoplasia epatica (circa il
6%). L’ipotesi che NS5A sia importante per il virus e per il progredire dell’infezione è anche
avvalorata dall’osservazione che molti “repliconi” mutati, subgenomi selezionabili generati
dal genoma virale modificato aventi un’efficienza di replicazione di molto superiore a quella
di HCV valutata in sistemi modello, hanno accumulato mutazioni nella regione codificante
per questa proteina virale . NS5B è l’RNA polimerasi RNA dipendente codificata dal virus
caratterizzata da un peso molecolare di circa 65 kDa. Oltre a queste proteine ne esiste un’altra
di circa 7 KDa, denominata p7, codificata dalla regione fra E2 e NS2, con funzione ancora
sconosciuta. È una proteina altamente idrofobica che attraversa la membrana per due volte e
sembra localizzarsi sul reticolo endoplasmatico, come le proteine del rivestimento
Ciclo vitale del virus
HCV è in grado di replicare principalmente in cellule epatiche, ma la replicazione virale può
avvenire anche in cellule mononucleate del sangue periferico (PBMC), se pur con minor
efficienza .
Non avendo avuto a disposizione fino a pochi anni fa’ un efficiente modello in vitro per lo
studio della replicazione virale e non essendo disponibile un modello animale facilmente
gestibile per gli studi preclinici in vivo, le attuali conoscenze dei meccanismi molecolari della
replicazione di HCV si basano principalmente sulle analogie con i virus correlati. Un
probabile schema delle diverse fasi dell’infezione è il seguente :
1) adesione e penetrazione della particella virale all’interno della cellula ospite, seguita dal
rilascio del genoma virale nel citoplasma;
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2) traduzione della molecola di RNA virale a polarità positiva e maturazione della
poliproteina tradotta;
3) formazione del complesso replicativo associato alle membrane intracellulari;
4) produzione di una nuova progenie virale di RNA a polarità positiva attraverso un
intermedio a polarità negativa;
5) impacchettamento dei nuovi genomi in nuove particelle virali;
6) rilascio della progenie virale.
Adesione ed ingresso
La prima fase del ciclo vitale del virus è quindi l’attacco della particella virale alla cellula
ospite.
Questa fase richiede un’interazione specifica fra un recettore sulla superficie della cellula
bersaglio ed una proteina esposta sulla particella virale.
Presumibilmente i componenti chiave per l’attacco e la penetrazione di HCV sono le due
proteine di rivestimento E1 ed E2. Su E1 sono per ora disponibili poche informazioni; si
ipotizza un suo ruolo nella fusione delle membrane durante l’ingresso del virus nella cellula
ospite , dal momento che E2 da sola non è capace di mediare la fusione cellulare.
È stata inoltre descritta una sua interazione sia con core che con NS5A . Core ed E1
interagirebbero attraverso le sequenze carbossi-terminali. Si ipotizza che l’interazione possa
servire per reclutare core sul reticolo endoplasmatico dove E1 viene ritenuta in seguito alla
sua maturazione. L’interazione con la proteina a funzione non nota NS5A rimane ancora da
chiarire. Su E2 si possiedono invece più informazioni; diversi studi hanno identificato CD81
come recettore per il virus dell’epatite C, dimostrando una sua stretta interazione molecolare
proprio con E2
. CD81 (TAPA-1) è un membro della famiglia delle tetraspanine, proteine
che attraversano quattro volte la membrana; è costituito da due domini extracellulari (EC)
chiamati EC1 ed EC2. È espressa sulla superficie di diverse cellule ed è coinvolta in diversi
processi biologici. Influenza l’adesione, la morfologia, l’attivazione, la proliferazione ed il
differenziamento delle cellule linfocitarie B, T e di altri tipi cellulari. È anche coinvolta nella
motilità e nella formazione di metastasi, nell’attivazione cellulare e nella trasduzione del
segnale. CD81 si associa fisicamente e funzionalmente con diverse integrine . È stato
ipotizzato che il legame di E2 a CD81 possa dipendere principalmente dal dominio EC2 e
visto che la denaturazione a caldo (100°C) distrugge l’interazione, il legame potrebbe essere
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dipendente dallo stato conformazionale delle due molecole. Un’ipotesi è che E2 possa
cambiare conformazione nel legare CD81 e che questa modificazione conformazionale in
qualche modo possa facilitare l’ingresso del virus nella cellula ospite.
Flint e collaboratori hanno inoltre dimostrato che E2 lega CD81 umano e di scimpanzé, ma
non quello di ratto, e che il legame avviene solo con CD81 e non con altri membri della
famiglia delle tetraspanine . Queste osservazioni potrebbero avvalorare l’ipotesi che CD81 sia
il recettore specifico di HCV, poiché il virus infetta principalmente l’uomo e lo scimpanzé.
Un problema fondamentale però, che in parte si contrappone a questa ipotesi, è rappresentato
dal fatto che CD81 è espresso, come ricordato in precedenza, in molti tipi diversi di cellule,
mentre HCV ha al contrario un elevato epatotropismo.
Queste incongruenze hanno portato negli ultimi anni a ricercare molecole alternative espresse
sulla superficie cellulare capaci di interagire con E2 che possano spiegare anche un legame di
HCV indipendente da CD81. Recentemente è stata descritta l’interazione di E2 con SRBI
umano in cellule epatiche HepG2 . SRBI, un recettore “scavenger” di classe B tipo I,
appartiene alla superfamiglia CD36, che include proteine espresse sulla superficie cellulare
leganti lipoproteine chimicamente modificate e molti altri tipi di ligando. Potrebbe anche
essere coinvolta nei processi di detossificazione della cellula. L’ipotesi che possa essere
SRBI il recettore cercato è inoltre supportata dall’osservazione che E2 non lega SRBI di topo
e che questo recettore è altamente espresso negli epatociti, cellule bersaglio primarie del
virus. In aggiunta è stata comunque dimostrata la capacità di SRBI di internalizzare i suoi
ligandi naturali, lipoproteine ad alta densità (HDL) . Oltre al legame di E2 con CD81 o con
SRBI, è stato anche descritto il legame di HCV, così come di altri membri della famiglia dei
Flaviviridae, con recettori lipoproteici a bassa densità (LDL receptors) . È stata osservata
infatti una diretta correlazione fra il livello delle protine recettoriali LDL espresse sulla
superficie cellulare e il numero di cellule positive all’infezione di HCV trovate. Non è stato
comunque dimostrato in nessun caso se il legame di E2 con CD81 o con SRBI od il legame di
HCV a recettori LDL portino ad infezioni produttive.
Dopo l’adesione di HCV ai recettori precedentemente descritti, il virus è trasportato a livello
delle tight junctions dove interagisce con CLDN1 e OCLN ed entra all’interno dell’epatocita.
In analogia con gli altri Flavivirus, HCV entra attraverso un processo di endocitosi clatrinadipendente. Il nucleocapside è rilasciato nel citoplasma grazie alla fusione tra envelope virale
e membrana dell’endolisosoma. Il processo dell’entry è controllato dalle glicoproteine virali
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di superficie che richiedono dei cambiamenti strutturali per mediare la fusione. Le
glicoproteine di HCV sono proteine di fusione di II classe, ma a differenza di queste hanno la
peculiarità di non richiedere il taglio proteolitico mediato da proteasi cellulari durante il loro
trasporto attraverso il pathway secretorio (Op De Beeck et al., 2004). Il processo di entry di
HCV è pH-dipendente, con un pH ottimale di 5.5, infatti l’utilizzo di sostanze capaci di
bloccare l’acidificazione dell’endolisosoma bloccano l’entry di HCVpp e HCVcc
?(Blanchard et al., 2006; Meertens et al., 2006). L’identificazione del peptide fusogeno di
HCV rimane controversa, infatti la glicoproteina E1 sembra esser il candidato migliore in
quanto analisi di sequenza hanno evidenziato la presenza di un peptide fusogeno
nell’ectodominio di questa proteina (Flint and McKeating, 2000; Rosa et al., 1996) d’altro
canto la glicoproteina E2 mostra un’omologia strutturale con le proteine di fusione di II
classe (Lescar et al., 2001; Yagnik et al., 2000). Dati recenti indicano che tre regioni distinte
di entrambe le glicoproteine partecipano alla fusione (Lavillette et al., 2007). Ricordiamo che
l’entry di HCV è dipendente anche dalla presenza di un network di microtubuli, importanti
per il trasporto nel virus dal sito di attacco al sito di fusione e per il rilascio del nucleocapside
nel citoplasma (Figura 6) (Perez-Berna et al., 2008).
Non è noto se NS4B recluti proteine cellulari responsabili della formazione di vescicole o se
induca la formazione di vescicole di per sé polimerizzando. Tali vescicole sono ricche in
colesterolo e acidi grassi e la loro quantità relativa influenza la fluidità delle membrane e la
replicazione di HCV (Kapadia and Chisari, 2005). La compartimentalizzazione della sintesi
dell’RNA virale a livello di vescicole ricoperte da membrana potrebbe avere un ruolo sia nel
proteggere il macchinario replicativo dall’intervento di proteine cellulari che riconoscono
l’RNA virale, sia nel fornire un ambiente stabile per la replicazione (Egger et al., 2002).
Traduzione e maturazione della poliproteina
Una volta all’interno della cellula ospite il genoma virale viene direttamente tradotto, dal
momento che HCV è costituito da un filamento di RNA a polarità positiva che può
funzionare come RNA messaggero (mRNA) . Il genoma virale non possiede però un
“cappuccio” (“CAP”, guanina metilata) per dirigere la traduzione; questa non segue quindi un
meccanismo CAP dipendente, ma è mediata da una sequenza interna che permette l’ingresso
dei ribosomi (IRES). L’IRES consente il legame diretto dei ribosomi in prossimità del codone
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d’inizio della regione codificante. Questa sequenza si trova all’inizio dell’RNA virale fra i
nucleotidi 40 e 355 e si ritiene che formi quattro domini strutturali importanti per la sua
funzione. Sequenze a monte di AUG sono inoltre indispensabili per la funzionalità dell’IRES
. L’IRES lega in modo specifico la subunità 40s del ribosoma e richiede i fattori di inizio
eIF2 ed eIF3 per formare il complesso ribosomale 48s, ma non il complesso eIF4 (eIF4GeIF4E- eIF4GB- eIF4A) . L’attività dell’IRES di HCV è influenzata da diversi fattori; primo
fra tutti la regione 3’ terminale del genoma virale . Questa regione, denominata “X-tail”,
sembra aumentare l’efficienza di traduzione IRES-dipendente, con un meccanismo che
rimane ancora da chiarire. Inoltre molti fattori cellulari sembrano legare l’IRES di HCV e, in
diversi casi, stimolarne l’attività. Per esempio, diverse ribonucleoproteine nucleari eterogenee
(hnRNP) quali la proteina legante tratti poli-pirimidinici (PTB o hnRNP I) o la hnRNP L,
sono mostrate interagire con l’IRES virale. ?
La richiesta da parte dell’IRES di fattori cellulari potrebbe anche spiegare la dipendenza di
HCV dal ciclo cellulare della cellula ospite . Inoltre NS4B, così come NS4A, inibisce la
sintesi proteica cellulare e sopprime la traduzione di HCV dipendente dall’IRES.
Partendo dall’IRES quindi, viene sintetizzata una poliproteina che è poi traslocata al reticolo
endoplasmatico rugoso e maturata da proteasi cellulari e virali.
La porzione carbossi-
terminale della poliproteina viene attaccata da proteasi cellulari non ancora identificate. Il
taglio proteolitico da parte di questi enzimi rilascia le proteine strutturali del virus. Il rilascio
delle proteine non strutturali avviene invece ad opera di proteasi virali .
Dalla maturazione della poliproteina vengono rilasciati almeno dieci prodotti, due dei quali
costituiscono appunto le due protesi del virus; NS2/NS3 e NS3. Il ruolo di NS2/NS3 sembra
limitato al taglio autoproteolitico in cis della giunzione fra NS2 e NS3 . Non è ancora chiara
la natura di questa proteasi virale. Poiché l’attività viene inibita da chelanti, quali l’EDTA, è
stato suggerito che possa essere una metalloproteasi . D’altra parte, altre prove suggeriscono
che NS2/NS3 sia una cistein-proteasi . Nell’ambito della replicazione virale di HCV NS2 non
sembra invece essere indispensabile , anche se viene descritta una sua partecipazione nella
fosforilazione di NS5A .
Inoltre è stata osservata l’interazione di NS2 con NS4A , ma il ruolo di questa associazione
rimane ancora da chiarire. NS3 funziona da proteasi insieme ad NS2, come già descritto, ma
la sua porzione amino-terminale (circa 180 aa) svolge anche da sola la funzione di
serinproteasi
. L’attività proteasica di NS3 permette il rilascio di tutte le proteine non
strutturali a valle della stessa , seguendo l’ordine non obbligatorio, ma molto comune:
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NS3/4A, NS5A/B, NS4A/B, e NS4B/5A . È stata osservata anche la richiesta di fattori
cellulari dell’ospite necessari per la maturazione della poliproteina virale. Un esempio è
rappresentato da una “chaperonina cellulare” (HSP90) necessaria per l’attività di NS2/NS3 .
L’associazione fisica fra HSP90 e la proteasi virale potrebbe essere finalizzata al
raggiungimento del ripiegamento ottimale dell’enzima o al posizionamento del sito di taglio
rispetto all’enzima stesso.
Sebbene NS3 possa da sola svolgere la funzione di proteasi virale, diversi studi indicano che
NS4A ne aumenta l’efficienza e la stabilità . Non si conosce tuttavia il meccanismo grazie al
quale NS4A svolge la funzione di cofattore, ma si ipotizza che possa avere diversi ruoli;
come facilitare la localizzazione di NS3 ancorandola al reticolo endoplasmatico, stabilizzare
NS3 o permetterne il giusto ripiegamento .
Si pensa che NS4A possa funzionare come regolatore allosterico, facilitando e stabilizzando
una giusta conformazione dell’enzima virale.
NS4A svolge la funzione di cofattore anche per l’attività elicasica di NS3, aumentandone
l’efficienza . La porzione carbossi-terminale di NS3 (circa 500 aa) codifica infatti per
l’attività elicasica e ATPasica della proteina .
Per NS4A sono state osservate diverse interazioni con le altre proteine non strutturali, quali
NS2, NS4B e NS5A . Molto probabilmente la formazione del complesso NS4B5A con NS4A
è richiesta per la maturazione di 4B/5A. La maturazione della poliproteina porta al rilascio
anche di altre proteine non strutturali, quali NS4B, NS5A ed NS5B. Mentre di NS5B è nota
la funzione, come vedremo meglio in seguito, alle altre due non è stato ancora attribuito un
ruolo nel ciclo vitale di HCV. Si sa però che NS4B è un peptide altamente idrofobico che si
localizza sul reticolo endoplasmatico insieme ad altre proteine virali . L’associazione con le
membrane del reticolo avviene contemporaneamente alla traduzione (Fig.1.3). Alcuni studi
parlano genericamente di membrane resistenti ai detergenti , altri di lipid rafts, proponendo
modelli nei quali sarebbero le proteine cellulari VAP-33, che interagiscono con le proteine
virali NS4B , NS5A ed NS5B
a permettere il suddetto legame . Sembra comunque ormai
chiaro che il ciclo vitale del virus dell’epatite C avviene nel citoplasma cellulare, ma in
associazione con membrane. Una volta prodotte tutte le proteine virali, HCV può replicarsi.
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Replicazione virale
La replicazione del genoma virale avviene nel citoplasma e procede attraverso un intermedio
a RNA a polarità negativa che funziona come stampo per produrre nuove molecole di RNA a
polarità positiva.
L’RNA a polarità positiva può poi funzionare ulteriormente come mRNA ed essere tradotto
dando vita ad altre proteine virali, può venir usato come substrato per la polimerasi virale ed
essere replicato o, nella fase tardiva dell’infezione, quando si è raggiunto un numero
sufficiente di proteine strutturali, essere incapsidato in nuove particelle virali e rilasciato .
NS5B è il componente chiave della replicazione virale, è stata infatti scoperta essere l’ RNA
polimerasi RNA dipendente codificata dal virus. L’enzima ha la tipica struttura “dita-palmopollice” (“fingers-palmthumb”) delle polimerasi .
I singoli eventi che determinano la replicazione virale sono ancora quasi del tutto sconosciuti,
ma è ovvio ritenere che NS5B giochi un ruolo principale in quanto alla base della
replicazione virale.
L’enzima può iniziare in vitro la sintesi “de novo” dell’RNA virale, sembra quindi necessario
e sufficiente per la replicazione virale; mostra inoltre una spiccata preferenza per il GTP
rispetto all’ATP come nucleotide iniziale . È poi stata dimostrata un’interazione specifica fra
NS5B ed il 3’ dell’RNA virale, risultante necessario per la replicazione del virus. NS5B può
legare per di più un templato a DNA oltre che a RNA, sebbene con un’efficienza molto
ridotta .
Anche se in vitro NS5B non necessita per svolgere la sua funzione di altri fattori virali o
cellulari , è ormai opinione comune che l’enzima in vivo formi insieme alle altre proteine
virali ed a proteine cellulari un complesso replicativo associato con le membrane del reticolo
endoplasmatico . A sostegno di questa ipotesi sono state osservate diverse interazioni fra la
polimerasi virale e le altre proteine di HCV.
Molti studi indicano che la maggior parte, se non tutte le proteine virali formano con NS5B
un complesso di replicazione associato con le membrane intracellulari, come abbiamo visto
in precedenza, e che questo complesso, molto probabilmente, contenga anche proteine
cellulari .
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Sono state infatti descritte diverse interazioni fra le proteine virali, soprattutto fra le proteine
non strutturali, quali:
NS2 – 4A ,
NS3 – 4A ,
NS3 – 4B ,
NS3 – 5B ,
NS4A – 4B – 5A ,
NS5A – 5B
Questi sono solo alcuni esempi delle interazioni osservate, altre ancora infatti sono state
descritte, anche fra proteine strutturali e non strutturali, quali per esempio la proteina core .
Si è inoltre osservato come NS3 sia un componente essenziale del
complesso replicativo , importante per esempio nel modulare il riconoscimento da parte di
NS5B del templato ; che NS5A modula l’attività di NS5B , e che NS4B funziona come
regolatore negativo del complesso NS3/5B . Inoltre in un recente studio condotto da
Shimakami e collaboratori si è messo in evidenza come l’interazione fra NS5A ed NS5B, già
descritta in precedenza, sia indispensabile per la replicazione virale; mutazioni che portano
all’abolizione di questa interazione infatti sopprimono la replicazione di HCV . Infine
bisogna ricordare che NS5B, come le RNA polimerasi in genere, ha un elevato tasso di
errore, ed è sicuramente una delle cause primarie dell’enorme variabilità caratteristica del
virus dell’epatite C . Oltre ad NS5B quindi, anche altre proteine non strutturali del virus sono
importanti per il processo di replicazione. La porzione carbossi-terminale di NS3 (circa 500
aa) codifica inoltre per l’attività elicasica e ATPasica della proteina . Possedendo attività
elicasica NS3 risulta indispensabile non
solo per la traduzione e maturazione della poliproteina virale, ma anche per la replicazione.
L’elicasi virale può funzionare su diversi substrati quali:
-singolo filamento 3’ – 5’,
-singolo filamento 3’ – 3’,
ma non su un singolo filamento 5’ o su un doppio filamento. È stato poi dimostrato che può
legare e funzionare anche su un singolo filamento di DNA, ma non su un doppio filamento
RNA/DNA . Svolgerebbe la sua attività seguendo la direzione 3’ 5’ . Per la sua attività
elicasica necessita di ATP, Mg2+ e Mn2+ . Non si sa bene se l’elicasi funzioni come
monomero o oligomero. La maggioranza degli studi strutturali parlano di un enzima
monomerico d’altra parte uno studio suggerisce al contrario che l’enzima sia un dimero.
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L’importanza di NS3 nella replicazione virale è suggerita anche dall’interazione della
proteina con la polimerasi NS5B ; NS3 modula infatti, come già ricordato, il riconoscimento
del templato da parte della polimerasi . L’associazione di NS4B con le membrane del reticolo
endoplasmatico inoltre ha fatto ipotizzare che questa proteina, della quale ancora non è nota
la funzione, faccia parte del complesso di replicazione virale e che possa proprio lei stessa
essere responsabile della ritenzione del complesso sulle membrane cellulari. Tale ipotesi
viene ulteriormente avvalorata dall’osservazione che solo il precursore NS4A/B, quando
espresso in cellule, altera il trasporto cellulare dal reticolo al Golgi ed altera la funzione e la
struttura dell’apparato secretorio dell’ospite (Fig.1.3) .
In aggiunta alle proteine virali anche componenti cellulari sono probabilmente coinvolti nella
sintesi del genoma virale. Candidati possibili sono le ribonucleoproteine nucleari eterogenee
(hnRNP) I e C, interagenti in modo specifico con la regione 3’ non-tradotta, che ricordiamo
essere indispensabile per la replicazione virale . Un altro candidato è la gliceraldeide 3
fosfato deidrogenasi (GAPDH), che lega la sequenza poliU nella 3’ NTR .
Come abbiamo già ricordato inoltre sia la porzione 5’ terminale che la 3’ terminale del
genoma virale sono indispensabili per la replicazione. Mutazioni in determinate regioni
all’interno di queste sequenze diminuiscono l’efficienza di replicazione o ne determinano un
blocco completo . La replicazione di HCV è quindi guidata dalla polimerasi virale che gioca
un ruolo centrale, ma verosimilmente questa si associa a proteine virali e non nel formare un
complesso macchinario di replicazione.
Produzione e rilascio dei nuovi virioni
Con il proseguire della replicazione vengono prodotte un numero elevato di copie dell’RNA
virale e dalla traduzione di queste anche una quantità sufficiente di proteine per poter formare
i nuovi virioni. L’assemblaggio delle particelle virali di HCV non è mai stato studiato
dettagliatamente. Un
possibile approccio è stato la produzione di particelle virus-simili (VLPs) esprimendo le
proteine strutturali in sistemi eterologhi; ma per HCV questa tecnica ha presentato diverse
difficoltà .
Molto probabilmente la formazione delle particelle virali inizia con l’interazione della
proteina core con l’RNA del virus .
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La proteina core ha varie funzioni, sia nel ciclo replicativo del virus sia come modulatore di
processi cellulari all’interno della cellula ospite. Nel ciclo replicativo di HCV core sembra
intervenire per permettere l’incapsidamento dei nuovi genomi legando l’RNA virale in 5’
NTR e
bloccandone la traduzione . È stato dimostrato che core lega in maniera preferenziale la
sequenza 5’ del genoma di HCV. Questo legame non solo dovrebbe servire
all’impacchettamento del genoma, ma sembra anche reprimere la traduzione IRESdipendente, dal momento che non c’è più necessità di produrre altre proteine virali. Non è
noto che tipo di complesso formi la proteina con l’RNA virale, ma è stato osservato che sia in
vitro che in vivo core interagisce con sé stessa attraverso la porzione amino-terminale,
formando omodimeri . Queste interazioni potrebbero essere necessarie per l’assemblaggio e
la formazione delle nuove particelle virali. L’acquisizione del rivestimento lipidico potrebbe
invece avvenire dal “budding” attraverso le membrane del reticolo endoplasmatico dove sono
ritenute E1 ed E2 . Sembra inoltre interagire con la proteina E1 . L’interazione con E1, che
avviene attraverso le sequenze carbossi-terminali, servirebbe, come già detto, per reclutare
core sul reticolo endoplasmatico dove E1 viene ritenuta in seguito alla sua maturazione.
Sebbene per anni non sia stato possibile avere a disposizione un sistema per lo studio della
formazione e del rilascio della progenie virale, come vedremo meglio in seguito nel 2005 si è
messo appunto un sistema che supporta la replicazione del genoma completo di HCV in vitro
permettendo la formazione di una progenie di particelle virali
.Suscitano sempre più
interesse il rapporto tra le caratteristiche genomiche e risposta alla terapia antivirale.
Ricercatori giapponesi hanno identificato una particolare sequenza della regione NS5A
associata a mancata risposta al trattamento con interferone nei pazienti con il genotipo 1b di
HCV. Da una analisi comparativa diretta di tutta la sequenza nucleotidica di HCV di pazienti
prima e durante trattamento con interferone è emerso che una regione di 40 aminoacidi della
proteina NS5A denominata Interferon Sensitività Determing Region (ISDR) presentava
differenze caratteristiche. Nei pazienti non responsivi alla terapia antivirale questa sequenza è
conservata, mentre in quelli che rispondono al trattamento sono presenti più di tre mutazioni.
Dati “in vitro” hanno dimostrato che la proteina NS5A del genotipo 1b è in grado di inibire
la RNA-activated protein kinase (PKR), che è una delle più potenti proteine antivirali indotte
dall’interferone alfa. Se però nella sequenza aminoacidica di NS5A sono presenti mutazioni,
queste ne alterano l’interazione con PKR e permettono che tale chinasi svolga la sua attività
fosforilativa, responsabile della successiva inibizione della sintesi proteica virale.
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2. Terapie approvate per contrastare l’evoluzione clinica dell’infezione:
interferoni, ribavirina ed inibitori delle proteasi.
TERAPIA STANDARD
L’obiettivo primario della terapia dell’infezione da HCV è la guarigione intesa come
eliminazione persistente del virus o, in altri termini, risposta virologica sostenuta (susteined
virological response – SVR), che viene definita come la non rilevabilità del HCV-RNA nel
sangue dopo un periodo di sei mesi dalla sospensione del trattamento. Tale indicatore
rappresenta l’end point utilizzato negli studi e nella pratica clinica. Raggiungere e mantenere
l’SVR si traduce in una ridotta progressione della epatite cronica in cirrosi e della mortalità
ad essa correlata, nonché in una riduzione dello scompenso e dell’insorgenza
dell’epatocarcinoma.
L’attuale standard terapeutico, in uso da oltre un decennio, è costituito dalla duplice terapia di
associazione tra interferone peghilato alfa (pegIFN alfa) e ribavirina di durata variabile a
seconda del genotipo virale (24 settimane per genotipo 2 e 3, 48 settimane per genotipi 1 e 4).
Tale combinazione induce una buona risposta nei genotipi 2 e 3 (eliminazione del virus talora
oltre il 70-80 % dei casi ), ma insoddisfacente nel genotipo 1 (40-50 % a seconda delle
casistiche).
Vi sono inoltre alcuni fattori predittivi utili per determinare una maggiore probabilità di
raggiungimento della SVR
con duplice terapia e la durata del trattamento:
1.
Fattori relativi al virus quali RVR (risposta virologica rapida, definita come la non
rilevabilità del HCV-RNA dopo 4 settimane di terapia) e cinetica virale: la presenza di RVR
comporta una probabilità di circa l’80% di raggiungere la SVR con un trattamento più breve
(24 settimane anziché 48 settimane). Si precisa che le 24 settimane sono applicabili raramente
ai genotipi difficili (a meno che non sia presente anche LVL (Low Viral Load; bassa carica
virale) e bassa fibrosi associata ad esempio a scarsa tollerabilità alla duplice terapia
antivirale) e anche per lo stesso genotipo 3 esistono oggi dubbi sul trattamento per soli 6
mesi. Inoltre le probabilità di raggiungere RVR dipendono dalla carica virale iniziale e sono
maggiori se la carica virale basale è < 600.000 UI/mL
2.
Staging: grado di fibrosi. I pazienti con grado di fibrosi più lieve rispondono meglio dei
pazienti con grado di fibrosi più severo.
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3.
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Genetica: polimorfismo del cromosoma 19 a monte del gene dell’IL28B. I pazienti con
omozigosi CC dell’IL28B e malattia epatica non avanzata (F0) hanno una maggiore
probabilità di raggiungere la SVR. Tuttavia non tutti i pazienti con polimorfismo IL28
favorevole (CC) presentano sempre SVR, pertanto il polimorfismo genetico IL28 risulta
rivestire meno importanza nel predire la risposta virologica sostenuta rispetto ad esempio alla
RVR e allo staging.
4.
Ulteriori fattori dell’ospite modificabili (l’insulino-resistenza, il sovraccarico marziale,
il deficit vitamina D, il consumo alcolico possono ridurre la probabilità di SVR) e non (l’etnia
afroamericana può rispondere con minore probabilità rispetto alla razza caucasica, le donne
in postmenopausa rappresentano spesso un gruppo di pazienti difficili da trattare).
Figura Differenze chimiche e di struttura tra i due tipi di interferone PEGilato.
Figura Attività enzimatica di OAS (2’,5 - oligoadenilato sintetasi). (Bruno R, 2007)
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Farmacocinetica
Nella malattia cronica da HCV l‘obiettivo della terapia è l‘eradicazione dell‘infezione con lo
scopo di evitare la progressione dell‘epatite cronica in cirrosi e prevenire le complicanze
della cirrosi epatica. La terapia dell‘epatite C ha subito un‘evoluzione significativa negli
ultimi 15 anni. La monoterapia con Interferone alfa è stata prima sostituita dalla più efficace
terapia di combinazione con Interferone alfa e Ribavirina e più recentemente dai nuovi tipi di
Interferone alfa pegilati, a lunga emivita (PEG-IFN), usati sempre in combinazione con la
Ribavirina. I risultati di numerosi studi clinici dimostrano in modo convincente la maggiore
efficacia dei PEG- IFN rispetto agli interferoni non pegilati nel trattamento dell‘epatite
cronica e della cirrosi compensata da HCV. La combinazione di PEG-IFN (PEG-a2b o PEGa2a) e Ribavirina è stata pertanto adottata come standard di terapia per l‘epatite C.
Gli obiettivi del trattamento dell‘epatite da HCV sono modulati in relazione al quadro clinico
e possono essere così riassunti:
- Epatite cronica: eliminare il virus per prevenire la progressione della fibrosi epatica,
l‘evoluzione in cirrosi e le sue complicanze migliorando la qualità della vita e la
sopravvivenza;
- Cirrosi compensata: eliminare il virus per prevenire le complicanze della malattia,
potenzialmente ridurre l‘evoluzione verso l‘epatocalcinoma e migliorare, a breve termine, la
qualità di vita e la sopravvivenza;
- Epatite acuta: eliminare il virus per evitare la cronicizzazione dell‘infezione.
Terapia tradizionale: Interferone Ribavirina
I farmaci tradizionalmente usati nella terapia cronica di HCV comprendono vari tipi di
Interferone alfa, non pegilati (Interferone a2a ed a2b ricombinanti, utilizzabili in
combinazione con Ribavirina o in monoterapia; Interferone n-1 linfoblastoide ed interferone
alfa n-1 ricombinante, utilizzabili in monoterapia; Interferone alfa naturale alfa-n3,
utilizzabile in combinazione con Ribavirina o in monoterapia solo in soggetti che abbiano
presentato fenomeni di documentata intolleranza ad altri interferoni), due interferoni pegilati
(PEG-IFN a2b e PEG-INF a2a utilizzabili in combinazione con Ribavirina o in monoterapia)
e la Ribavirina, utilizzabile solo in terapia di combinazione. Gli Interferoni alfa sono una
famiglia di citochine che comprende 20-25 specie diverse per sequenza aminoacidica e
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glicosidazione. Gli IFN alfa influenzano la crescita e la differenziazione cellulare, modulano
la risposta immune e inibiscono direttamente la replicazione di vari virus, compreso HCV.
Considerando la breve emivita degli IFN alfa dopo somministrazione parenterale e la
necessità di mantenere costantemente elevata l‘attività antiretrovirale a livello cellulare per
meglio contrastare la rapida cinetica della replicazione virale, sono state sviluppate nuove
formulazioni di IFN alfa, a più lunga emivita. Queste formulazioni si basano sulla
coniugazione dell‘IFN con glicole proteico (PEG) mediante legame covalente, ottenendo
composti che presentano più lento assorbimento ma soprattutto minor degradazione
enzimatica e rallentata clearance. Sono stati sino ad oggi sviluppati due diversi tipi di PEGIFN, che differiscono per il sottotipo di IFN utilizzato, ma soprattutto per caratteristiche di
pegilazione: il PEG-IFN a2b è IFN a2b legato ad una molecola lineare di PEG di 12kD,
mentre il PEG-IFN a2a è IFN a2a legato ad una molecola ramificata di Peg di 40kD. La
Ribavirina è un analogo nucleotidico usato nell‘uomo da oltre 20 anni. La Ribavirina ha
scarsa attività antiretrovirale su HCV, quando utilizzata in monoterapia. In combinazione con
IFN alfa determina un incremento significativo della risposta a lungo termine rispetto alla
monoterapia con solo Interferone, attraverso meccanismi di sinergismo non ancora del tutto
definiti ma che potrebbero consistere prevalentemente in effetti di immunomodulazione,
piuttosto che antivirali diretti. La Ribavirina va impiegata nell‘epatite C solo in combinazione
con IFN alfa. La monoterapia con solo Ribavirina non è giustificata dai dati della letteratura
sia per le bassissime risposte, che per le praticamente certe ricadute virali. La terapia più
efficace disponibile fino al 2010 è stata senz‘altro la combinazione con Peg-Interferon e
Ribavirina. Questo trattamento si è dimostrato superiore alla monoterapia con solo
Interferone, indipendentemente dal tipo di IFN impiegato, da dosaggi e frequenza di
somministrazione e durata del trattamento. La terapia di combinazione è più efficace della
monoterapia in tutti i diversi sottogruppi virologici e clinici dell‘epatite C e dovrebbe
pertanto essere sempre utilizzata in assenza di controindicazioni o di documentata
intolleranza grave alla Ribavirina. Infine, è bene sottolineare che non esistono ad oggi dati
conclusivi su quale interferone utilizzare nel singolo paziente, considerando tutte le diverse
manifestazioni cliniche e sottotipi genetici virali possibilmente coinvolte nella patologia.
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Le due molecole (Pegasys vs PegIntron)
Due PEGinterferoni sono attualmente disponibili per il trattamento dell'infezione cronica da
HCV: peg-interferone α-2a (Pegasys) e peg-interferone α-2b (PegIntron). Questi differiscono
sia per la struttura molecolare dell’interferone α che per la dimensione e la natura della
PEGilazione. (Foster, 2004) L'interferone α-2a e α-2b sono molecole ricombinanti che, di per
se, differiscono di un singolo amminoacido, sebbene siano considerate essenzialmente
analoghe da un punto di vista clinico. (Scott LJ, 2002) Al contrario, il gruppo chimico
polietilenglicole legato covalente (PEG) modificante tali molecole di interferone generando
Pegasys e PegIntron, differisce tra loro in modo significativo, influenzando sia le proprietà
farmacocinetiche e farmacodinamiche, che il loro impatto in ambito clinico. La pegilazione di
proteine o peptidi cambia le loro proprietà fisiche e chimiche, con conseguente
miglioramento del comportamento farmacologico, tra cui ridotta immunogenicità, aumento di
stabilità, maggiore durata in circolo, e modifiche nei processi di distribuzione ai tessuti ed
eliminazione. (Bailon P, 2009, Veronese FM, 2008) La struttura e le dimensioni della
porzione di PEG ed il processo chimico utilizzato per la reazione di legame covalente,
svolgono un ruolo importante nella definizione delle proprietà della biomolecola modificata.
Principali differenze nelle proprietà PEGilazione di peginterferone α-2a e peginterferone α-2b
sono riassunte nella tabella sottostante. Peginterferon α-2b si ottiene tramite legame covalente
di una catena lineare di PEG da 12kDa all’interferone α-2b. Ci sono 13 isomeri, il principale
dei quali ha la catena di PEG legata tramite un legame uretanico all’istidina-34. (Youngster S,
2002) Questo legame uretanico è instabile e suscettibile di idrolisi, (Foster, 2004) e, di
conseguenza, peginterferone α-2b viene fornito come polvere liofilizzata che deve essere
ricostituita prima dell'uso; eventuali residui vanno eliminati (Merck & Co., Inc., 2012) al
contrario, peginterferone α-2a ha una porzione di PEG da 40kDa, che include due catene da
20kDa collegate a formare una catena ramificata, attaccata a residui di lisina tramite legami
ammidici. Esistono quattro principali isomeri posizionali: lisina-31, lisina-121, lisina-131 e
lisina-134. (Bailon P P. A., 2001) Questi legami ammidici non sono suscettibili di idrolisi,
per tale ragione peginterferone α-2a è sintetizzato in forma di soluzione, stabile per circa un
paio d’anni. (Roche Laboratories Inc, 2013)
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I profili farmacocinetici delle due molecole PEGilate sono riportati nella tabella sottostante
(Foster, 2004)
Figura Differenze farmacocinetiche tra i due tipi di interferone PEGilati.
Farmacocinetica
Peginterferon α-2b ha un assorbimento relativamente rapido (emivita di assorbimento di 4.6
ore rapportato alle 2.3 ore caratteristiche dell’interferone α-2b standard ) ed un ampio volume
di distribuzione. Le concentrazioni massime plasmatiche vengono raggiunte tra 5 e 44 ore
dopo la somministrazione e sono sostenute per 48-72 ore, con accumulo a seguito di dosi
multiple. La clearance è ridotta di circa 10 volte rispetto all’ interferone α-2b non PEGilato.
(Foster, 2004) Peg - interferone α2a è assorbito più lentamente dell’ α2b (50 ore) e possiede
un volume limitato di distribuzione (limitata in gran parte al sistema vascolare e agli organi a
maggiore perfusione, come il fegato). Le concentrazioni massime si verificano dopo circa 80
ore e sono sostenute fino a 168 ore e la clearance è notevolmente ridotto rispetto
all’interferone libero.
(Foster, 2004) La lunga emivita e la distribuzione limitata di
PEGinterferone α2a indicano che il farmaco può essere utilizzato a una dose settimanale
fissa,
(Foster, 2004)(Roche Laboratories Inc, 2013) al contrario , PEG interferon α2b
richiede il dosaggio settimanale secondo peso corporeo. (Foster, 2004) (Merck & Co, 2012)
Come precedentemente accennato, il PEGinterferone α2b (12kDa) rilascia interferone libero
α-2b subito dopo la somministrazione, il quale viene eliminato per via renale; al contrario di
esso, il PEGinterferone α2a (40kDa), che viene metabolizzato intatto da entrambi gli organi
reni e fegato, non richiede ulteriori variazioni di dosi nei pazienti con insufficienza renale.
(Foster, 2004) I dati provenienti da studi non comparativi indicano che PEGinterferone α-2b
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ha emivita più breve nel siero di PEGinterferone α-2a (tabella II), tale dato viene confermato
da studi comparativi. (Silva M, 2006 )(Bruno R, 2004) (Di Bisceglie AM, 2007)
In particolare, una percentuale significativa di pazienti trattati con PEGinterferone α-2b può
avere una concentrazione minima al di sotto dei limiti di rilevabilità durante l'ultima parte dei
7 giorni previsti dallo schema di dosaggio (percentuale che va dai due terzi a quasi tutti i
pazienti entro la fine della settima giornata. (Bruno R, 2004) (Di Bisceglie AM, 2007) Il
rebound virale, che potrebbe essere riportato, in alcuni casi, ad una bassa concentrazione
sierica di PEGinterferone α-2b verso il settimo giorno di terapia, suggerisce che un dosaggio
settimanale doppio possa risultare utile per questo PEGinterferone,
(Bruno R,
2004)(Formann E, 2003 ) tuttavia tale approccio non è mai stato formalmente testato in un
ampio studio clinico prospettico.
Farmacodinamica
Gli interferoni sono i primi membri noti della importante classe di proteine regolatrici
biologiche chiamate citochine: sono prodotte in risposta ai virus inibendone la replicazione e
creando così un ciclo di feedback negativo.
Il legame dell'interferone ai recettori ad alta affinità, sulla superficie di cellule infettate dal
virus, innesca una cascata di segnalazione intracellulare con una rapida attivazione della
trascrizione genica, la produzione ed il rilascio di proteine multiple effettrici. Queste proteine
includono RNasi in grado di degradare RNA a doppio filamento ed inibitori della traduzione
di proteine virali che inibiscono collettivamente replicazione e/o la funzione virale. (Sen CG,
2001)
Come anticipato precedentemente, il legame uretanico che collega la catena 12kDa di PEG
all'interferone a formare il peginterferone α-2b è instabile e suscettibile di idrolisi al punto
che, una volta iniettato, l’interferone nativo α-2b viene rilasciato e circola libero. Per tale
ragione Peginterferone α-2b può essere considerato un pro-farmaco che rilascia interferone α2b in circolo, il quale si comporta in modo analogo all’ interferone α in termini legame al
recettore, attività antivirale e proprietà farmacocinetiche (Tab II) (Foster, 2004)
Al contrario, il legame ammidico collegante la catena di PEG all'interferone per formare
peginterferone α-2a non è soggetto ad idrolisi. Di conseguenza, l'intera molecola pegilata
circola intatta e interagisce con il recettore cellulare. La larga porzione di PEG (40kDa)
riduce l'affinità in vitro di peginterferone α-2a per il recettore rispetto all’ interferone α-2b,
(Dhalluin C, 2005 ) e questo potrebbe spiegare la ridotta attività antivirale dimostrata in vitro
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dal peginterferone α-2a rispetto al convenzionale interferone α. (Bailon P P. A., 2001) Dati
recenti hanno dimostrato che gli isomeri posizionali di peginterferone α-2a differiscono in
attività antivirale, ciò sta ad indicare che la posizione di pegilazioni influenza l’ affinità di
legame. (Foser S, 2003 )
Nel complesso, l'attività antivirale in vitro di peginterferone α-2a risulta circa il 7% del nativo
interferone α, [28] comparata al 28% per il peginterferone α -2b. (Youngster S, 2002) Nel
primo caso, la ridotta attività antivirale in vitro contro la nativa molecola di interferone α è
compensata in vivo dal miglioramento della stabilità e da una ridotta clearance renale grazie
al legame con PEG, con un aumento della durata in circolo del peginterferone α2a. (Dhalluin
C, 2005 ) Infatti, l’attività antivirale in vivo dell’interferone α è aumentata dalla pegilazione,
come attestano i livelli nel siero di 2’,5 - oligoadenilato sintetasi (OAS, proteine effettrici
interferon-indotte, accurati indicatori dell'effetto antivirale di interferone).
Gli studi farmacodinamici
di confronto dei due peginterferoni hanno prodotto risultati
contrastanti. È stata determinata, infatti, l'attività enzimatica di OAS ed i livelli sierici della
proteina neopterina interferone-indotta e di β2-microglobulina nel corso di un periodo di
osservazione di 7 giorni dopo somministrazione di una singola dose di ribavirina più
peginterferone α-2a o peginterferone α-2b in pazienti naive al trattamento. (Bruno R,2007) Si
e verificato un aumento significativo dei valori medi di attivitΰ OAS nel corso delle
successive 168 ore (Fig. 1), ma la differenza osservata tra i due interferoni non θ risultata
statisticamente significativa in nessuna delle rilevazioni ( P = 0.09, 0.90. 0.22, 0.71 e 0.41 a 0
, 24 , 48 , 120 e 168 h, rispettivamente, la significativitΰ statistica : p <0.05); ad un picco di
circa 24 ore dopo la somministrazione risulta, invece, l’induzione di neopterina, ma ancora
una volta non θ stata dimostrata alcuna differenza statisticamente significativa tra le due
molecole. Infine, sembrava si verificasse un picco dei livelli di β2- microglobulina tra le 24 e
le 48 ore dopo somministrazione, ma nuovamente non sono state riscontrate differenze
significative tra le due formulazioni di peginterferone in tutte le rilevazioni ( P = 0,65 , 0,74 ,
0,48 , 0,11 e 0,06 a 0 , 24, 168 e 48.120 h, rispettivamente). L'area sotto la curva tempoconcentrazione (AUC) calcolata per questi tre marcatori non correla con l’indice di massa
corporea stratificato in due gruppi (< 25 vs > 25 kg/m2) per nessuno dei due peginterferon
(Bruno R,2007). Analogamente, anche lo studio effettuato da Shindo et al. (Shindo M, 2008)
non osserva alcuna differenza nel siero di OAS quando si confrontano i due trattamenti; al
contrario dello studio effettuato precedentemente da Silva et al. (Silva M, 2006) che osserva
differenze significative nell’ effetto di questi due farmaci sui livelli di mRNA di geni
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interferon-indotti (OAS compreso) durante le prime 72 ore dopo la somministrazione (senza
ribavirina). Tali risultati contraddittori possono essere spiegati considerando che lo studio di
Bruno et al. ha misurato i livelli di proteine nel siero, mentre lo studio di Silva et al. ha
considerato l’area sotto la curva concentrazione - tempo (AUC) dei livelli di mRNA, misurati
tramite PCR (polymerase chain reaction), che non correla completamente con l’espressione
della proteina. Inoltre, i calcoli effettuati ai fini di questo secondo studio si basano su valori di
1-3 giorni successivi alla somministrazione e non comprendono i dati dal quarto al settimo
giorno, quando invece è noto che i livelli sierici di peginterferone differiscono notevolmente.
Considerando tutti i dati disponibili e le differenze tra i due interferoni pegilati,
probabilmente è difficile trovare differenze in attività farmacodinamica al di fuori di uno
studio di confronto randomizzato, effettuato correttamente.
Indicazioni e posologia
Sulla base dei risultati dei trial clinici più significativi, la terapia di combinazione va attuata
utilizzando schemi differenziati per i pazienti con genotipo 1 o 4 rispetto a soggetti con
genotipo 2 o 3. Se si impiega PEG-IFN, il dosaggio, in unica somministrazione settimanale è
identico per i diversi genotipi con dose calcolata sul peso corporeo per PEG-IFN α2b
(PegIntron) (1.5 mcg/Kg/settimana) e fissa per PEG-IFN α2a (Pegasys) (180 mcg/settimana).
(Karin Neukam, 2009) Questa dose iniziale può essere ridotta se insorgono effetti collaterali
o eventi avversi che lo richiedano. Va considerato il fatto che una riduzione del dosaggio
iniziale >20-25% può determinare una significativa perdita di efficacia. La dose iniziale di
Ribavirina consigliata è di 1000-1200 mg al giorno per i pazienti con genotipo 1 o 4 e di 8001000 mg per quelli con genotipo 2 o 3. (Karin Neukam, 2009) La durata della terapia è di 12
mesi per l‘infezione da genotipo 1 e 4 e di 6 mesi per l‘infezione da genotipo 2 e 3.
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Peg-Interferon alfa 2a (Pegasys Roche) Pharmacology (MedScape)
Mechanism of Action
Recombinant alfa-2a interferon w/ polyethylene glycol (PEG) side chain
Immunomodulatory cytokine that enhances phagocytic activity of macrophages and cytotoxic activity of
lymphocytes for target cells
Pharmacokinetics
Half-Life: 80 hr
Peak Plasma Time: 72-96 hr
Total Body Clearance: 94 mL/hr
Metabolism: Conjugation w/ polyethylene glycol slows metabolism
Enzymes Inhibited: CYP1A2
Peg-Interferon alfa 2b (Pegintron Schering-Plough) Pharmacology (MedScape)
Mechanism of Action
Immunomodulatory cytokine that enhances phagocytic activity of macrophages and cytotoxic activity of
lymphocytes for target cells
Pharmacokinetics
Half-Life, Absorption: 4.6 hr
Half-Life, Elimination: 40 hr
Peak Plasma Time: 15-44 hr
Metabolism: conjugation with polyethylene glycol slows metabolism
Excretion: urine 30%
Pharmacogenomics
A genetic variant near the gene encoding interferon-lambda-3 (IL28B rs12979860, a C to T change) is a strong
predictor of response to peginterferon and ribavirin
Sustained virologic response rates tended to be lower with the C/T and T/T genotypes compared to those with
the C/C genotype, particularly among previously untreated subjects receiving 48 weeks of peginterferon and
ribavirin
Monitoraggio e valutazione della risposta alla terapia
La terapia combinata non è sempre efficace nell‘indurre l‘eradicazione dell‘infezione.
Diverse variabili legate al virus e all‘ospite influiscono sulla probabilità di successo. La
risposta alla terapia deve essere valutata con i test virologici disponibili. L‘uso dei test
qualitativi per HCV-RNA nel monitoraggio della risposta alla terapia e nella valutazione
dell‘esito a lungo termine è ormai standardizzato. I test attualmente disponibili hanno
sensibilità fino a 10-50 Ul/ml e rappresentano il parametro di riferimento per definire la
risposta virologica durante, a fine e dopo la terapia. Il test qualitativo per HCV-RNA va
eseguito al terzo mese di terapia con la combinazione Peg-IFN e Ribavirina, per definire la
sensibilità della terapia. I pazienti che restano positivi per HCV-RNA dovrebbero esser
considerati non responsivi allo schema terapeutico utilizzato. In tutti i pazienti responsivi
(HCV-RNA negativi) al terzo mese, il test qualitativo dovrebbe esser ripetuto a fine terapia
per stabilire la ETR (end-of-terapy-response ). Questa valutazione permette, infatti, in casi
di positività dopo terapia, di distinguere i relapsers
(pazienti negativi a fine terapia con
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positivizzazione dopo sospensione) dai casi che hanno sviluppato resistenza già in terapia
(ripositivizzati già durante la terapia dopo una fase iniziale di negatività). La distinzione di
questi diversi profili di risposta può risultare utile al momento di stabilire se e come ritrattare
il paziente. Il test qualitativo per HCV-RNA deve essere infine ripetuto dopo sei mesi dalla
sospensione della terapia per definire la risposta virologica sostenuta. Il paziente potrà esser
considerato guarito dall‘epatite al 95-98% se il test per HCV- RNA risulta negativo a sei mesi
dalla sospensione della terapia. Vi è oggi particolare interesse verso quei pazienti che
mostrano una risposta virologica rapida, definibile come la negativizzazione di HCV RNA
alla quarta settimana di trattamento, in cui potrebbe essere sufficiente un trattamento breve
(da 12 a 16 settimane). Le possibilità di successo della terapia variano in misura piuttosto
considerevole a seconda del genotipo virale infettante, della carica virale infettante, della
carica virale e del grado di progressione della malattia di fegato. Gli studi clinici sin qui
eseguiti indicano che nei pazienti con genotipo 2 la percentuale di risposta virologica
sostenuta è particolarmente elevata (fino all‘80%). Essa è invece un po‘ inferiore nei pazienti
con genotipo 3 (tra il 50 e il 60%), e sostanzialmente ridotta in quelli con genotipo 1 (tra il 30
e il 50%). Infine, è stato documentato che solo il 20-30% dei pazienti che hanno già
sviluppato una cirrosi risponde al trattamento antivirale.
Quindi le risposte alla terapia combinata possono essere distinte in: Risposta Virologica
Sostenuta, recidiva dopo iniziale negativizzazione (Relapse ) e non risposta. La Risposta
Virologica Sostenuta è definita dal mancato riscontro mediante PCR di RNA virale nel siero
dopo 24 settimane dalla fine della terapia. I pazienti con HCV-RNA negativo al termine del
trattamento, ma che si ripositivizza nelle 24 settimane successive sono invece classificati
come Relapsers . Tra i Non responders
infine annoveriamo quei pazienti che non vanno
mai incontro alla negativizzazione della carica virale.
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Effetti avversi della duplice terapia
La terapia con interferone è gravata da diversi effetti collaterali, alcuni immediati, altri
ritardati, alcuni ben tollerati, altri gravi a tal punto da portare a riduzione delle dosi o anche a
sospensione del trattamento.
Tra gli effetti collaterali più comuni:
reazione febbrile simil-influenzale associata a brividi, cefalea, mialgie che si riscontra poche
ore dopo la somministrazione del farmaco. Questa reazione può durare inizialmente fino a
24-36 ore, ma progressivamente si attenua risultando quasi assente e ben tollerata dai pazienti
nell’arco delle prime 4 settimane [Glue P, et al. 2000] ed è controllata con trattamento
antinfiammatorio sintomatico.
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astenia presente nel 90% dei pazienti e che compare già dopo le prime somministrazioni di
interferone e in genere aumenta di intensità nel corso del trattamento [Dieperink E, et al.
2000];
effetti gastrointestinali come anoressia (nel 30-50% dei casi) che può essere associata a
nausea, vomito, diarrea e calo ponderale; a carico della cute sono state descritte alopecia,
esantemi cutanei al tronco e alle estremità, eritema, orticaria, esacerbazione di una psoriasi
preesistente, nonché reazioni nel sito di iniezione (dolore, eritema, prurito); effetti
neuropsichiatrici: depressione, ansia, labilità emotiva, irritabilità, insonnia in percentuale
variabile da studio a studio (da 10 a 40%).
Gli interferoni pegilati possono inoltre causare o aggravare disordini gravi o potenzialmente
fatali come di tipo neuropsichiatrico autoimmunitario, ischemico e infettivo.
Tra gli effetti neuropsichiatrici sono stati descritti il suicidio, ideazioni suicidarie o
omicidiarie, aggressività. Tali effetti collaterali sono stati riscontrati non solo in pazienti con
storia di malattie psichiatriche ma anche in pazienti con anamnesi negativa per depressione.
Entrambi i tipi di interferone pegilato possono provocare depressione midollare con severa
citopenia soprattutto a carico dei neutrofili e delle piastrine.
Sono state descritte inoltre comparsa o aggravamento di disfunzioni tiroidee.
Gli eventi cardiovascolari includono ipotensione, aritmie sopraventricolri, angina pectoris,
infarto miocardio.
A carico del sistema gastrointestinale: coliti ulcerative ed emorragiche, pancreatiti anche
fatali.
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I disordini autoimmunitari includono tiroiditi, trombocitopenia, artriti reumatoidi, nefriti
interstiziali, lupus eritematoso sistemico, psoriasi.
Ricordiamo a carico del sistema respiratorio: dispnea, polmoniti, infiltrati polmonari e tra i
disordini oftalmologici le emorragie retiniche, spot cotonosi, trombosi dell’ arteria e della
vena.
Vengono anche riportati casi di insufficienza epatica.
La ribavirina inoltre aumenta il rischio di anemia emolitica (10-30% dei casi) che può
presentarsi precocemente anche dopo 1 o 2 settimane dopo l’inizio della terapia, mentre
raramente
compaiono
reazione
acute
da
ipersensibilità:
orticaria,
angioedema,
broncocostrizione, anafilassi. Nella maggior parte dei pazienti il trattamento con Peg-IFN
alfa-2b presenta una tollerabilità praticamente identica a quella di IFN-alfa-2b con la
necessità di sospendere la terapia solo nel 13-14% dei casi, tuttavia porta più frequentemente
a modifiche delle dosi a causa di eventi avversi di tipo ematologico (neutropenia).
Da uno studio emerge che nel corso di trattamento con Peg-IFN alfa-2a la frequenza degli
effetti collaterali è lievemente superiore rispetto ad IFNα tranne che per la depressione e
l’insonnia (tabella 2)[Fried MW, et al. 2002]. Si è resa necessaria la sospensione della terapia
nel 10% dei casi trattati con Peg-IFN alfa-2 (tabella 3); le alterazioni ematologiche sono la
causa che porta più spesso alla necessità di riduzione delle dosi.
Neurotossicità in corso di terapia con interferone
Fra i disturbi indesiderati più importanti che l’interferone può provocare vi sono quelli
neuropsichici, sia per la loro influenza sulla limitazione della dose, sia in termini di frequenza
ed in termini di gravità delle manifestazioni. Numerosi sono gli studi che documentano la
frequente associazione tra disturbi psichiatrici e terapia con interferone [Fekkes D. et al.
2003, Crone C. et al. 2003, Gohier B. et al. 2003]. I dati suggeriscono l’esistenza di almeno
due distinte sindromi indotte dall’IFN, una “neurovegetativa” e una “affettivo- cognitiva” che
sembrano avere anche 2 distinti meccanismi patogenetici [Capuron L, et al. 2004].
Sindrome neuro-vegetativa
La sindrome neurovegetativa è caratterizzata da anoressia, astenia, alterazioni del sonno,
dolore, rallentamento psicomotorio. Compare solitamente entro 2 settimane dall’inizio della
terapia con IFN nella maggior parte dei pazienti, e sembra poco responsiva alla terapia con
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paroxetina [Capuron L, et al. 2002]. Sembra che tale sindrome sia associata ad alterazioni
della via dopaminergica a livello dei gangli basali.
Sindrome affettivo-cognitiva
La sindrome affettivo-cognitiva è caratterizzata da sintomi di depressione, ansia, e alterazioni
cognitive (perdita di concentrazione, disturbi della memoria, episodi di confusione). Compare
più tardivamente, è responsiva alla terapia antidepressiva e sembra essere associata
all’attivazione delle vie neuroendocrine e all’alterato metabolismo della serotonina.
L’incidenza dei disturbi psichiatrici presenta risultati non sempre concordanti. Questo è
dovuto soprattutto a fattori di ordine metodologico: diversa numerosità campionaria,
differenti definizioni di depressione, utilizzo di diverse scale di valutazione. Spesso il numero
esiguo dei pazienti considerati e la diversità dei parametri di valutazione non consentono un
confronto diretto tra i diversi studi.
Sindrome depressiva e sottotipi di IFN
Sebbene sia chiaro che l’esposizione all’interferone sia associato a un incremento
dell’incidenza della depressione, ci sono poche valutazioni che mettano in relazione la
frequenza e il grado di depressione con i tipi di IFN. Malaguarnera e collaboratori hanno
riscontrato che il trattamento con IFN- alfa-2b è associato con depressione di grado più
severo e con maggior prevalenza di ideazioni suicidarie [Malaguarnera M, et al. 2001]
rispetto al trattamento con IFN-alfa-n1.
Anche la pegilazione sembra influenzare l’insorgenza della depressione: per esempio, tra
1121 pazienti randomizzati al trattamento con Peg-IFN alfa-2a e ribavirina, Peg-IFN alfa-2a e
placebo, o IFNalfa-2b e ribavirina per 48 settimane, l’incidenza di depressione è stata
rispettivamente del 22%, 20% e 30% con una differenza significativa tra il gruppo a cui è
stato somministrato la combinazione di Peg-IFN alfa-2a e ribavirina e il gruppo trattato con
l’associazione IFN alfa-2b e ribavirina [Fried MW, et al. 2002]. Al contrario tra i 1530
pazienti randomizzati a Peg-IFN alfa-2b più ribavirina e IFN alfa-2b e ribavirina per 48
settimane, l’incidenza della depressione è stata simile nei due gruppi, andando dal 29 al 34%
e perciò sembra che la pegilazione di IFN alfa-2b non riduca il grado di depressione indotta
da IFN [Manns M, et al. 2001]. Comunque in entrambi questi due studi la presenza di
depressione si basava su un solo sintomo e non rappresentava la diagnosi di depressione
maggiore.
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Come la maggior parte degli effetti collaterali da farmaci, anche la depressione indotta da
IFN sembra essere correlata con la dose [Lindsay KL, et al. 1996] e la durata di trattamento
[Hauser P, et al. 2002]. Lo sviluppo della depressione non avviene immediatamente ma si
insatura con una media di 8-12 settimane dopo l’inizio della terapia [Mulsseman DL, et al.
2001, Hauser P, et al. 2002].
Nell’epatite cronica HCV-correlata la terapia combinata di Peg-IFN e ribavirina ottiene
maggiori risultati in termini di risposta sostenuta a lungo termine rispetto alla monoterapia
con IFN, ma anche la ribavirina sembra giocare un ruolo nello sviluppo della depressione.
Infatti uno studio che ha valutato 56 pazienti con epatite cronica HCV-correlata trattati con
sola ribavirina o con placebo ha rilevato depressione nel 20,7% del gruppo con ribavirina
rispetto al 3.3% del gruppo con placebo [Bodenheimer HC, et al. 1997]. Anche nello studio
di Kraus MR. (2003) vi è una più alta frequenza di depressione e di irritabilità nel gruppo
trattato con terapia di combinazione rispetto alla monoterapia con IFN.
Anemia
Gli eventi avversi ematologici sono quelli più comuni e spesso portano alla riduzione della
dose o alla sospensione della terapia. Sia l’interferone standard che quello pegilato sono
associati a una rapida soppressione della emopoiesi. Dopo somministrazione di alte dosi di
INF alfa-2b seguita da interferone standard giornaliero o INF pegilato settimanale in 46
pazienti con epatite C cronica, si è verificato un significativo calo dell'emoglobina seguiti da
aumenti di eritropoietina. Il peginterferone alfa-2b ha avuto un effetto maggiore sui livelli di
emoglobina rispetto all’interferone alfa-2b. È interessante però notare che la conta dei
reticolociti è recuperata più rapidamente nel gruppo peginterferone rispetto al gruppo di
interferone standard giornaliero. [Peck-Radosavljevic M, et al 2002]
L’anemia emolitica si verifica in una certa misura in tutti i pazienti trattati con ribavirina,
anche se il grado di anemia è variabile. [Van Vlierbergh H, et al 2001]
L'anemia emolitica associata a ribavirina è causata da un deterioramento delle difese
antiossidanti e dal danno ossidativo subito dagli eritrociti. I globuli rossi attivano la ribavirina
nella sua forma attiva (ribavirina trifosfato) ma non sono in grado di idrolizzarla, così la
ribavirina trifosfato rimane intrappolata all’interno delle emazie dove raggiunge una
concentrazione 60 volte superiore rispetto alla concentrazione plasmatica. [De Franceschi L,
et al 2000]
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La scheda tecnica del Rebetol, nome commerciale della ribavirina, raccomanda di non
iniziare il trattamento se il valore di emoglobina è inferiore a 12 g/dl. Si raccomanda un
controllo dell’emoglobinemia due e quattro settimane dopo l’inizio del trattamento e
successivamente ad intervalli regolari. La ribavirina quasi invariabilmente causa emolisi ed
anemia: solitamente il calo dell’emoglobina di 1-2 g osservato durante la terapia, è ben
tollerato e reversibile alla sospensione del farmaco. Una diminuzione maggiore del valore di
emoglobina può comportare una riduzione del dosaggio della ribavirina o anche la
sospensione della terapia. L’anemia emolitica può determinare un aumento dell’uricemia
(rischio di gotta nei malati predisposti).
Altri eventi avversi
Neutropenia: l'interferone sopprime la produzione dei leucociti al livello del midollo osseo,
che porta a neutropenia nel 20% circa dei pazienti trattati. La riduzione dei globuli bianchi
può provocare una maggiore suscettibilità alle infezioni.
Trombocitopenia: la diminuzione della conta piastrinica in pazienti in trattamento con
interferone e ribavirina è dovuto in parte alla soppressione della produzione di piastrine a
livello del midollo osseo ad opera dell’interferone. I pazienti con cirrosi, che possono iniziare
il trattamento con bassa conta piastrinica a causa dell'ipertensione portale, possono essere
particolarmente colpiti.
Dispnea: mentre il tasso di incidenza di dispnea non è stato segnalato in modo uniforme negli
studi clinici, questo è un effetto collaterale comune della terapia, spesso legata al grado di
anemia che comporta una riduzione della capacità di trasportare.
Cambiamenti visivi sono abbastanza comuni, ma l'incidenza esatta non è nota. [Hayasaka S et
al, 1998] Le complicanze oculari più frequentemente documentate sono "macule" ed
emorragie retiniche, ma la maggior parte delle retinopatie interferone-correlate è asintomatico
e reversibile.
Disfunzione della tiroide: la terapia con interferone può essere associata a cambiamenti nella
funzione della tiroide, si verificano sia con ipotiroidismo e ipertiroidismo. Tali cambiamenti
sono più comuni nei pazienti con una storia di disfunzione tiroidea.
Rash cutaneo: il 20-25% dei pazienti sviluppa un rash cutaneo, che è generalmente dovuto
alla ribavirina. Si tratta di eruzioni cutanee a livello delle braccia e del tronco, anche se può
essere presente in modo diffuso. Il rush tende a migliorare e ripresentarsi spontaneamente
durante il trattamento.
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Alopecia: circa un terzo dei pazienti sviluppa notevole perdita dei capelli durante la terapia.
Quando presente, la perdita dei capelli tende ad essere graduale, non a chiazze come con la
chemioterapia.
Interazioni [www.codifa.it, www.micromedexsolutions.com]
Peginterferoni
Per entrambi i peginterferoni è stata valuta la loro attività metabolica a livello del citocromo
P450.
La somministrazione di 180 microgrammi di Peg-INF alfa-2a una volta alla settimana per 4
settimane in soggetti maschi sani non ha evidenziato alcun effetto sui profili farmacocinetici
di mefentoina, dapsone, debrisochina e tolbutamide; dimostrando che Pegasys (nome
cormmerciale di Peg-INF alfa2a) non ha effetti sull'attività in vivo degli isoenzimi 3A4, 2C9,
2C19 e 2D6 del citocromo P450. Nello stesso studio, è stato, però, osservato un aumento del
25% nell'AUC della teofillina (marker dell'attività del CYP1A2), dimostrando che Peg-INF
alfa-2a è un inibitore dell'attività del CYP1A2. L'interazione tra teofillina e Pegasys è
probabilmente massima dopo più di 4 settimane di terapia concomitante.
Per quanto riguarda il Peg-INF alfa-2b è stato condotto uno studio esplorativo a dosaggi
ripetuti in cui venivano determinati i substrati del P450 in pazienti con epatite cronica C
trattati con Peg-INF alfa-2b una volta alla settimana (1,5 µg/kg) per 4 settimane. Tale studio
ha dimostrato un aumento dell'attività di CYP2D6 e CYP2C8/9, mentre non è stata osservata
alcuna modifica nell'attività di CYP1A2, CYP3A4 o N-acetiltransferasi. Durante il
trattamento con peginterferone alfa-2b insieme a farmaci metabolizzati da CYP2D6 e
CYP2C8/9, devono essere prese opportune precauzioni, in modo particolari con farmaci con
ristretto indice terapeutico, come warfarin, fenitoina (CYP2C9) e flecainide (CYP2D6).
Uno studio clinico che ha valutato l'associazione di telbivudina 600 mg al giorno con
interferone pegilato alfa-2a 180 microgrammi una volta alla settimana per via sottocutanea
per il trattamento dell'HBV, indica che la combinazione è associata ad un aumentato rischio
di sviluppare neuropatia periferica. Il meccanismo alla base di questi eventi non è noto;
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quindi la co-somministrazione di telbivudina e altri interferoni (pegilati o standard) può anche
comportare un rischio eccessivo. Inoltre, il beneficio dell'associazione di telbivudina con
interferone alfa (pegilato o standard) non è attualmente stabilito. Pertanto, tale combinazione
è controindicata.
Metadone
Nei pazienti con epatite cronica C in trattamento stabile di mantenimento con metadone, la
somministrazione di entrambi i peginterferone per via sottocutanea per 4 settimane provoca
un aumento dell’AUC del metadone di circa il 15%. Il significato clinico di questa
condizione è sconosciuto; tuttavia i pazienti devono essere monitorati per la comparsa di
segni e sintomi di tossicità da metadone (effetto sedativo, depressione respiratoria).
Specialmente in pazienti ad alte dosi di metadone, si deve considerare il rischio di un
allungamento dell'intervallo QT.
Ribavirina
In vari studi condotti non sono state riscontrate interazioni farmacocinetiche fra interferone
pegilato e ribavirina.
Ribavirin Pharmacology (MedScape)
Mechanism of Action
May inhibit the initiation and elongation of RNA fragments by inhibiting polymerase activity, which in turn
results in the inhibition of viral protein synthesis.
Pharmacokinetics
Absorption (inhalation): Systemic maximal absorption occurs with use of aerosol generator via endotracheal
tube; highest concentrations may occur in respiratory tract & erythrocytes
Distribution: Significantly prolonged in erythrocyte (16-40 days), which may use as marker for intracellular
metabolism
Vd: 2825 L
Protein Bound: None (PO)
Metabolism: Hepatically and intracellularly (forms active metabolites); may be necessary for drug action
Bioavailability: 64% (PO)
Half-life, elimination: 24 hr in healthy adults (capsule); 44 hr (chronic hepatitis C infection; increases to ~298
hr at steady state)
Peak Plasma Time: 3 hr (multiple doses; capsule at end of inhalation period)
Excretion: 61% (Urine); 12% (feces)
La ribavirina, essendo dotata di un effetto inibitorio sull'inosina monofosfato deidrogenasi,
può interferire con il metabolismo dell'azatioprina comportando possibilmente un accumulo
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di 6-metiltioinosina monofosfato (6-MTIMP), che è stato associato a mielotossicità in
pazienti trattati con azatioprina. L'utilizzo di peginterferone alfa-2a e ribavirina in
associazione ad azatioprina deve essere evitato. In casi singoli, dove il beneficio della
somministrazione contemporanea di ribavirina e azatioprina supera i rischi potenziali, è
raccomandato che venga effettuato uno stretto monitoraggio ematologico durante l'uso
concomitante di azatioprina, per identificare i segni di mielotossicità; in questo caso il
trattamento con questi medicinali deve essere interrotto.
Pazienti con co-infezione da HIV-HCV
In un sottostudio di farmacocinetica della durata di 12 settimane, volto a esaminare l'effetto
della ribavirina sulla fosforilazione intracellulare di alcuni inibitori nucleosidici della
trascrittasi inversa (lamivudina e zidovudina o stavudina), non sono emersi segni evidenti di
interazione farmacologica in 47 pazienti con co-infezione da HIV-HCV. In considerazione
però dell'elevata variabilità, gli intervalli di confidenza sono stati molto ampi.
Sull'esposizione plasmatica alla ribavirina non è sembrata influire la concomitante
somministrazione di inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (NRTI).
È stato riportato un peggioramento dell'anemia dovuto alla ribavirina quando la zidovudina è
parte del regime utilizzato per trattare l'HIV, sebbene l'esatto meccanismo debba ancora
essere chiarito. L'uso concomitante di ribavirina e zidovudina non è raccomandato a causa di
un aumentato rischio di anemia. Occorre prendere in considerazione la possibilità di sostituire
la zidovudina in un regime di associazione ART se questo è già in corso. Questo è
particolarmente importante in pazienti con anamnesi di anemia indotta da zidovudina.
La somministrazione concomitante di ribavirina e didanosina non è raccomandata.
L'esposizione a didanosina o al suo metabolita attivo (dideossiadenosina 5'-trifosfato)
aumenta in vitro in caso di somministrazione concomitante di ribavirina. In seguito all'uso di
ribavirina, sono stati segnalati casi di insufficienza epatica fatale e di neuropatia periferica,
pancreatite ed iperlattacidemia sintomatica/acidosi lattica.
NUOVE TERAPIE
Le nuove terapie sono indicate nel paziente adulto nel solo genotipo 1. Si tratta di inibitori
delle proteasi dell’ HCV somministrati in associazione con interferone peghilato e ribavirina
andando pertanto a costituire la triplice terapia.
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Gli studi clinici hanno mostrato un aumento significativo nella percentuale di pazienti (sia
naive che pretrattati, anche già con fallimenti terapeutici precedenti) che hanno ottenuto una
SVR sostenuta. Inoltre in una in una percentuale intermedia di pazienti con risposta rapida
virologica soddisfacente (ovvero eRVR: extended rapid virological response con cui si
intende HCV RNA negativo alla 4a e alla 12a settimana di triplice con Telaprevir, HCV RNA
negativo alla 8a e alla 24a settimana di triplice con Boceprevir) il trattamento poteva essere
significativamente ridotto rispetto alla schedula prevista (secondo i trials registrativi di fase 3
una percentuale variabile tra il 40% ed il 60% dei pazienti trattati sia con Telaprevir che con
Boceprevir possono accorciare il trattamento rispettivamente a 24 settimane per Telaprevir se
naive o relapser; a 28 settimane per Boceprevir se naive o a 36 settimane se relapser).
Tuttavia nei pazienti con fibrosi pari a F4 (naive o pretrattati) ed in quelli experienced con un
profilo di risposta virologica precedente definito come null responder non è possibile
accorciare la durata del trattamento. Pertanto tali pazienti devono essere sempre sottoposti
alla durata di 48 settimane di terapia.
L'impiego di Boceprevir o di Telaprevir determina un aumento significativo del tasso di
guarigione (superiore al 30%) rispetto alla terapia standard, con percentuali variabili a
seconda della tipologia dei pazienti presi in considerazione (naive, relapser, partial responder
o null responder). In particolare i naive ed i relapser sono quelli che rispondono meglio ad un
ritrattamento (SVR pari al 79% con TT (triplice terapia) vs 46% con DT (duplice terapia) nei
naive, SVR pari al 84% con TT vs 22% con DT nei relapser, SVR pari a 61% con TT vs 15%
nei partial responder, SVR pari al 31% con TT vs 5% nei null responder).
I nuovi farmaci inibitori della proteasi del virus (Boceprevir e Telaprevir) presentano tuttavia
un profilo di tollerabilità estremamente complesso, che rende indispensabile l’attuazione di
un monitoraggio clinico e bioumorale attento, con frequenza anche a scadenza
monosettimanale.
Per entrambi i farmaci è stata rilevata tossicità ematologica (incremento rispetto alla duplice
terapia di anemia, trombocitopenia, neutropenia) ed in particolare per il Telaprevir si sono
osservati eventi avversi a carico della cute come rush cutanei in alcuni casi anche gravi (dress
syndrome).
Le linee guida internazionali e nazionali sottolineano le seguenti criticità nella gestione della
triplice terapia:
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1.
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rapido emergere di resistenza farmacologica soprattutto se non vi è aderenza alla
terapia;
2.
necessità di monitoraggio frequente dei livelli sierici di HCV-RNA, per evitare la
comparsa di blips viremici;
3.
percentuali di risposta alla triplice terapia inferiori in pazienti con fibrosi avanzata;
4.
necessità di aderenza alle stopping rules raccomandate per i farmaci antivirali, per
evitare costi inutili od effetti collaterali severi in soggetti che non presentano un profilo di
risposta virologica favorevole;
5.
problematiche
di
farmacocinetica
e
farmacodinamica
(Telaprevir
assunto
necessariamente con pasto grasso; Boceprevir assunto con snack; interazioni farmacologiche)
e di compliance alla terapia (numero di compresse/die e frequenza di somministrazione, in
particolare per Boceprevir è necessario assumere 4 capsule TID mentre per Telaprevir 3
compresse BID).
CRITERI DI ELIGIBILITA’ AL TRATTAMENTO
CON
TRIPLICE
TERAPIA
Al fine di definire il corretto approccio terapeutico (duplice o triplice) diventa fondamentale
che i pazienti con infezione cronica da HCV genotipo 1, sia naive che experienced, vengano
stadiati con le indagini appropriate. Infatti i pazienti candidati a terapia antivirale vanno
sottoposti a completo inquadramento bioumorale che riguarda non solo il classico pannello
inerente la citolisi e la sintesi epatica, ma anche la autoimmunità, la funzionalità renale, la
ionemia, l’assetto ormonale tiroideo, lipidico e glicemico, la presenza di crioglobuline, i
polimorfismi genetici (IL28B al momento il più noto). Dal punto di vista strumentale può
essere necessario eseguire ECG ed Rx torace, oltre alla consueta ecografia addome superiore
con eventuale fibroscan/elastometria. L’approfondimento istologico con biopsia epatica resta
l’indagine più accurata nella stadiazione della malattia epatica specie se esistono cofattori
eziologici (obesità, diabete, abuso di alcool ecc. talora pregressi). Il clinico definirà infine se
eseguire anche EGDS (Esofago-Gastro-Duodenoscopia) per escludere ipertensione portale. In
alcuni casi è necessario consultare lo specialista di settore in caso di eventuali comorbidità
(ad
esempio
nulla
osta
cardiologico
se
cardiopatia
ischemica,
nulla
osta
psichiatrico/neurologico se storia di sindrome depressiva etc).
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Il trattamento con triplice terapia, ma anche con duplice terapia è di norma controindicato nei
pazienti con cirrosi scompensata, in quanto è prevedibile una probabilità a priori di SVR
molto bassa a fronte di rischi considerevoli indotti dalla terapia stessa.
Al momento il trattamento con triplice terapia non è registrato per gruppi particolari di
pazienti (trapiantati, co- infetti HIV-HCV, dializzati) se non nell’ambito di studi clinici gestiti
da centri infettivologici e trapiantologici specialistici. Tuttavia con recente determinazione
del 16 settembre 2013, pubblicata nella GU n. 222 del 21/09/2013 l’AIFA ha esteso il
trattamento con Boceprevir o Telaprevir, in associazione a Peg-interferone alfa e ribavirina,
ai pazienti con infezione da HCV genotipo 1 recidivante dopo il trapianto di fegato, ai sensi
della legge n. 648/1996. (determinazione n. 804/2013).
Inoltre, nella decisione di avviare o meno una triplice terapia è importante prendere in
considerazione la probabilità che nei prossimi anni saranno disponibili nuove terapie
antivirali (anche interferon free), che permetteranno di effettuare considerazioni diverse sul
rapporto rischio/beneficio, anche grazie ai minori effetti collaterali. Nonostante tutto è
necessario comunque precisare che l’utilizzo di questi nuovi farmaci, i quali permettono di
raggiungere elevate percentuali di SVR, deve essere ancora pienamente confermato su larga
scala nei soggetti cirrotici (nei FISSION e NEUTRINO clinical trials, che hanno valutato
l’impiego del sofosbuvir, solo il 17-20% dei soggetti erano cirrotici).
SCHEMI DI TRATTAMENTO
Gli studi clinici hanno evidenziato che la risposta virologica precoce alla duplice terapia (4
settimane di Lead-in) correla con la probabilità di ottenere un SVR dopo aggiunta di
Boceprevir o Telaprevir in triplice terapia. Pertanto, gli schemi di terapia si differenziano in
base alle caratteristiche dei pazienti in considerazione del loro grado di fibrosi, alla risposta
virologica in corso di trattamento antivirale in atto e al precedente profilo di risposta
virologico del paziente (se experienced ad altri regimi terapeutici).
1. PAZIENTI NAIVE
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Nei pazienti naive la scelta di avviare il paziente alla duplice o alla triplice terapia è
ottimizzata dall’effettuazione del test di sensibilità e di tollerabilità 4 settimane di duplice
terapia (Lead-in), definita in base al valore di HCV- RNA ottenuto.
Pazienti F1-F2:
-
se HCV-RNA non dosabile (<25 UI/ml) dopo 4 settimane di terapia (ovvero
RVR: rapid virological response) proseguono con duplice terapia in genere per 48 settimane
in base alla viremia basale, soprattutto in assenza di cofattori che possono ridurre la risposta
alla terapia;
-
se il calo di HCV-RNA è < 1 log è necessaria una adeguata valutazione del rapporto
rischio/beneficio, considerando il livello di priorità di trattamento in concomitanza al fatto
che il calo di HCV-RNA <1 log è un fattore sfavorevole per raggiungimento di SVR;
-
se il calo di HCV-RNA è > 1 log, ma senza negativizzazione (ovvero assenza di RVR)
possono
proseguire
con
triplice
terapia
dopo
attenta
valutazione
del
rapporto
rischio/beneficio, anche tenendo conto della tollerabilità dimostrata alla duplice terapia nelle
prime 4 settimane.
Si sottolinea nuovamente, come anche riportato nella tabella relativa ai criteri di eleggibilità,
che il trattamento dei pazienti con fibrosi assente o lieve moderata (< F2) non rappresenta una
priorità al trattamento antivirale né con terapia standard né con triplice terapia, ma va bensì
individualizzato e personalizzato in base al soggetto.
Pazienti F3-F4:
Triplice terapia e duplice terapia* (se raggiungimento di RVR). Sia in caso di duplice che di
triplice terapia la priorità clinica va riservata soprattutto ai pazienti con fibrosi F3 o ai
pazienti con cirrosi compensata.
Nei pazienti con cirrosi e/o nei quali è previsto un rapporto beneficio/rischio problematico è
opportuno considerare:
-
un test di sensibilità di 4 settimane di duplice (Lead-in) ed rivalutazione rischi/benefici
eventualmente stop della terapia in caso di calo di HCV-RNA < 1 log, soprattutto con IL28B
CT o TT;
-
un test di sensibilità di 4 settimane di duplice (Lead-in) e aggiunta di Boceprevir o
Telaprevir in triplice con calo di HCV-RNA > 1 log.
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* Secondo linee guida AISF in casi particolari specie nei pazienti con F3 naive e fattori di
risposta favorevoli [CC, LVL al baseline] e/o elevato rischio di sviluppare effetti collaterali
può essere considerata l’opportunità di iniziare il trattamento con duplice terapia e mantenere
tale schedula in caso di raggiungimento di RVR.
2. PAZIENTI RITRATTATI
Pazienti F1-F2:
Test di sensibilità di 4 settimane con duplice terapia e prosecuzione con triplice se si osserva
un calo di HCV-RNA > 1 log. In caso di un calo <1 log il trattamento va individualizzato
dopo attenta valutazione rischi/benefici.
Pazienti F3-F4:
Triplice terapia.
Nei pazienti null responder al ciclo precedente e in presenza di cirrosi è opportuno
considerare:
-
un test di sensibilità di 4 settimane di duplice ed eventuale stop della terapia in presenza
di un calo di HCV-RNA< 1 log, soprattutto con IL28B CT o TT;
-
un test di sensibilità di 4 settimane di duplice e aggiunta di Boceprevir o Telaprevir in
triplice nei pazienti con cale di HCV-RNA > 1 log. Se il calo dovesse risultare <1 log è utile
una rivalutazione rischi/benefici bilanciando le seppur scarse possibilità di risposta e
l’urgenza terapeutica per il rischio di progressione della malattia.
Gli schemi terapeutici sono pertanto differenziati e riportati nelle tabelle sottostanti per:
-
pazienti naive;
-
ritrattamenti senza cirrosi;
-
naive F4 e ritrattamenti con cirrosi.
STOPPING RULES E RESISTENZE
Lo sviluppo di resistenze correlate a specifiche mutazioni è molto probabile nel caso in cui
l’esposizione agli inibitori delle proteasi risulti inefficace e prolungata. Pertanto le regole per
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la sospensione della terapia per mancata ed inadeguata risposta (stopping rules) sono
indispensabili per il corretto riconoscimento del fallimento virologico in tempi precoci. Le
regole per la sospensione tempestiva prevedono un test HCV-RNA specifico, sensibile,
riproducibile e disponibile in pochi giorni.
Di seguito si riporta il riepilogo delle regole per la corretta gestione della terapia (stopping
rules).
Nota: le presenti regole sono tratte dalle schede tecniche dei rispettivi farmaci
E’ inoltre da considerare una sospensione del trattamento nei seguenti casi:
PAZIENTI NAIVE (consigli di pratica clinica e non stopping rules assolute):
-
se HCV- rilevabile (> 25 UI/ml) dopo 12 settimane se trattati con Boceprevir;
-
se HCV-RNA > 100 UI/ml dopo 4 settimane se trattati con Telaprevir (8 settimane in
caso di schema con lead-in).
PAZIENTI RITRATTATI:
-
stesse regole dei naive (consiglio di pratica clinica e non stopping rule assoluta) ;
-
se presentano un calo di viremia < 1 log dopo 4 settimane di lead-in, soprattutto
se risultati
null- responder in precedenza e/o con cirrosi, dopo adeguata valutazione
rischi/benefici ed urgenza terapeutica.
È importante in ogni caso valutare la cinetica precoce, effettuando un test di viremia dopo 2
settimane di Telaprevir o 4 di Boceprevir, sospendendo la terapia in caso di risalita della
viremia tra la 2a e 4a settimana di Telaprevir o la 4a e 8a settimana di Boceprevir (ovvero
ogni volta che si verifica un virological breaktrought). Inoltre per i pazienti trattati con
boceprevir, un calo <3 log rispetto al basale alla 8a settimana è anch’essa un’indicazione di
pratica clinica di eventuale sospensione del trattamento antivirale.
GESTIONE DEGLI EFFETTI COLLATERALI ED INTERAZIONI
Dati i rilavanti effetti collaterali (ematochimici e clinici) che i nuovi farmaci aggiungono a
quelli già noti per l’interferone e la ribavirina si prevede un maggior impegno nella gestione
delle terapie da parte dei centri specialistici.
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La maggior incidenza di anemia, anche severa, può rendere necessarie eventuali trasfusioni
oltre all’aggiustamento della dose di ribavirina e/o addizione di eritropoietina (prescrivibili
con le modalità previste dalla legge 648/96 per questa indicazione.).
Analogamente la neutropenia potrebbe rendere necessario l’utilizzo di fattori di crescita
granulocitaria (G-CSF) e la riduzione del dosaggio di PEG-IFN-alfa.
Le reazioni cutanee (particolarmente segnalate per il Telaprevir) richiedono un’attenta
valutazione e un tempestivo trattamento per evitare quadri più gravi che indurrebbero la
sospensione del trattamento con triplice terapia.
Diventa pertanto prioritaria la definizione di un dettagliato percorso organizzativo, che
preveda anche una gestione polispecialistica dei casi più gravi, ad esempio anche attraverso
un coordinamento specifico con la dermatologia.
I pazienti che iniziano una triplice terapia devono essere adeguatamente informati (consenso
informato) sugli schemi di trattamento, obbiettivi ed effetti collaterali. Inoltre, dovranno
essere informati sulle possibili interazioni farmacologiche con altre terapie in uso o di nuova
introduzione .
In
particolare,
Boceprevir
è un potente
inibitore
del
CYP3A4/5.
Pertanto,
è
controindicata la concomitante somministrazione di medicinali il cui metabolismo dipende
esclusivamente dal CYP3A4/5 e per i quali elevate concentrazioni plasmatiche possono
comportare l’insorgenza di eventi avversi seri, anche potenzialmente fatali. Telaprevir è
metabolizzato a livello epatico dal CYP3A ed è anche un subtrato della glicoproteina P
(Pgp). Pertanto, la somministrazione concomitante di medicinali che inducono o inibiscono il
CYP3A e/o la glicoproteina P può ridurre o aumentare le concentrazioni plasmatiche di
Telaprevir, riducendone l’efficacia o potenziandone la tossicità. Analogamente, anche la
somministrazione concomitante di medicinali che sono substrato del CYP3A o della Pgp può
indurre il manifestarsi di interazioni clinicamente rilevanti.
Le classi terapeutiche a maggior rischio di interazione con gli inibitori delle proteasi
(boceprevir e telaprevir) sono di seguito riportate:
-
antibiotici;
-
antidepressivi;
-
antipertensivi;
-
antiaritmici;
-
antifungini;
-
anticoagulanti;
64
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-
immunosoppressori;
-
antistaminici;
-
anticoncezionali;
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nr. 1/2014
La contemporanea somministrazione di questi farmaci può essere valutata dal clinico caso per
caso attraverso portali specialistici presenti nel web (www.hep-druginteractions.org).
Inoltre, per la nota teratogenicità della ribavirina, la triplice terapia come già la duplice, è
controindicata in gravidanza. È opportuno ricordare che, anche dopo la fine del trattamento
con ribavirina, ogni gravidanza dovrà essere rimandata di almeno sei mesi.
CRITERI DI INDIVIDUAZIONE DEI CENTRI AUTORIZZATI ALLA PRESCRIZIONE
DEI NUOVI FARMACI
Considerati la complessità del trattamento con i
nuovi inibitori delle proteasi, il
loro
complesso profilo di tollerabilità, che richiede un attento monitoraggio del paziente durante
tutto il percorso clinico ed infine l’impatto economico dei nuovi trattamenti, la gestione della
triplice terapia, nella maggior parte delle regioni, viene affidata ad un numero limitato di
centri specialistici a livello regionale di comprovata esperienza nell’utilizzo della duplice
terapia, secondo il modello “Hub & Spoke”, che prevede un’organizzazione flessibile
integrata a “rete” identificando:
-
centri “Hub” cui compete registrazione dei pazienti sul portale AIFA, la prescrizione e
il monitoraggio della triplice terapia con Boceprevir o Teleprevir;
-
centri “Spoke” identificati nei restanti centri autorizzati al trattamento con duplice
terapia, cui compete la prescrizione e il monitoraggio della duplice terapia oltre alla
segnalazione/invio dei casi candidati alla triplice ai centri “Hub”.
Pertanto, ai centri “Hub” compete la presa in carico dei pazienti candidabili alla triplice
terapia, il monitoraggio di tutto il percorso clinico, nonché l’organizzazione di incontri
periodici con i centri “Spoke” per la discussione dei casi più complessi. Conclusa la fase di
triplice terapia il paziente potrà tornare ad essere gestito dal proprio centro “Spoke” per il
monitoraggio post-trattamento.
I centri “Hub” sono individuati sulla base della rispondenza ad alcuni criteri di seguito
riportati:
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1.
adeguata casistica di pazienti affetti da HCV;
2.
adeguato training epatologico, competenza per la corretta individuazione dei pazienti
eleggibili alla triplice terapia con idonee indagini (stadiazione di malattia e fattori predittivi di
risposta);
3.
esperienza consolidata nella gestione della duplice terapia (25-30 pz/anno);
disponibilità nella struttura (o possibilità di appoggio) di un laboratorio di virologia per
l’esecuzione di test per HCV-RNA con metodica ad alta sensibilità (Real time PCR con
soglia di quantificazione bassa [limite di quantification LOQ </= 25UI/ml] e soglia di
rilevazione ancora minore [limite di detection LOD </= 15UI/mL]). Inoltre tali laboratori
devono garantire una disponibilità del risultato entro 3 (1 giorno*) giorni lavorativi (*si
auspicano accordi in tal senso fra centri Hub e laboratorio di virologia, affinché i test HCVRNA delle stopping rules nella triplice vengano espletati al di fuori della normale routine, per
la corretta gestione della terapia e degli effetti collaterali in questi particolari pazienti).
4.
reperibilità H 12 per urgenze e emergenze (anche telefonica, e-mail, medico +
competenze infermieristiche);
5.
esperienza
e
strumenti/servizi
(day
hospital,
degenza,
consulenza/degenza
dermatologica in sede) per la gestione degli effetti collaterali.
L’elenco dei centri “Hub” di riferimento è soggetto a revisione periodica e può subire
variazioni sulla base di mutate esigenze, caratteristiche dei centri stessi, casistica trattata
ovvero necessità particolari segnalate dalle Aziende sanitarie.
PRESCRIZIONE DEI FARMACI E FOLLOW UP
La prescrizione dei nuovi farmaci deve avvenire nel rispetto di quanto indicato nelle
specifiche Determine AIFA del
26/11/2012 (GU n. 287/2012, GU 14/2013, GU 105/2013) e comunque sempre nel rispetto
delle indicazioni autorizzate. Inoltre, tali medicinali sono soggetti a Registro di monitoraggio
AIFA. Pertanto, ai fini delle prescrizioni a carico del SSN, i centri prescrittori
specificatamente individuati dalle regioni devono compilare la scheda di raccolta dati
informatizzata di arruolamento, che indica i pazienti eleggibili e la scheda di follow-up
secondo quanto pubblicato sul sito dell’Agenzia Italiana del Farmaco.
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Per quanto riguarda il follow up, il monitoraggio della triplice terapia rimane pertanto in
carico al centro “Hub” (attraverso le schede di monitoraggio AIFA), mentre il monitoraggio
delle terapie standard (duplice) è di competenza dei centri “Spoke”.
La gestione dei pazienti comporta importanti conseguenze dal punto di vista economico sia
per l’ammontare dei costi sanitari diretti ad essa collegati, sia per l’insorgere di costi indiretti,
correlati alla mancata o ridotta produttività lavorativa dei soggetti colpiti, e di quelli
intangibili, legati al deterioramento della qualità di vita.
Pertanto se si dovesse eseguire un’analisi di budget impact per il sofosbuvir bisognerebbe
prendere in considerazioni i seguenti punti:
definizione delle strategie terapeutiche da porre a confronto;
individuazione dei cost drivers e analisi dei costi diretti sanitari ad essi relativi;
valutazione comparativa dell’impatto sul budget SSN delle strategie terapeutiche considerate;
Per condurre l’analisi probabilmente bisognerebbe eseguire un’intervista ad un expert panel
di clinici esperti nel trattamento della patologia per definire i percorsi terapeutici delle diverse
strategie utilizzate per l’epatite c e le relative voci di costo:
costo del farmaco; esami di laboratorio; visite di monitoraggio di tipo specialistico e non,
calcolate in termini di tempo/persona relativo al personale medico; impegno infermieristico
calcolato in termini di tempo/persona; prestazioni accessorie; altri costi.
I costi devono essere calcolati nella prospettiva del SSN, tenendo quindi conto
esclusivamente dei costi diretti sanitari. In particolare, vengono considerati i costi
esclusivamente in grado di produrre un impatto sul budget. Questi riguardano principalmente
l’acquisizione, somministrazione dei farmaci e i test e gli esami di monitoraggio.
Invece, il costo unitario degli esami di laboratorio considerati nell’analisi viene generalmente
calcolato in base alle tariffe delle prestazioni di assistenza specialistica ed ambulatoriale
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TELAPREVIR
Il Telaprevir è un farmaco antivirale ad azione diretta, specificamente mirato alla proteasi
NS3/4A del virus dell’epatite C (HCV).
L’NS3/4A è un enzima fondamentale per la replicazione virale e svolge un ruolo essenziale
nel processo proteolitico, nella maturazione delle proteine virali non strutturali e nella
protezione del virus dalla risposta immunitaria dell’ospite.
Il Telaprevir quando somministrato in pazienti infetti dall’HCV di genotipo 1, determina una
rapida riduzione dei livelli di HCV-RNA.
INDICAZIONI
Il Telaprevir in associazione con peginterferone alfa e ribavirina, è indicato nel trattamento
dell’epatite C cronica di genotipo 1 in pazienti adulti con epatopatia compensata (compresa
cirrosi): che siano naïve al trattamento; che siano stati trattati in precedenza con interferone
alfa (pegilato o non pegilato) in monoterapia o in associazione con ribavirina, compresi
pazienti recidivanti, partial responder e null responder.
Tabella 2.1. Posologia e somministrazione di INCIVO®17
Istruzioni in base al tipo di paziente
MECCANISMO DI AZIONE
Dal punto di vista strutturale, il Telaprevir mima un tetrapeptide lineare comprendente un
gruppo alfachetoammidico responsabile della formazione di un legame covalente reversibile
con il sito attivo della proteasi NS3/4A (Figura 2.2).
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Il Telaprevir inibisce la proteasi NS3/NS4 legandosi al sito attivo dell’enzima tramite un
meccanismo a due fasi. Inizialmente si verifi ca la formazione transitoria di un complesso
non covalente enzima/inibitore che è seguita da un lento riarrangiamento in un complesso
caratterizzato da un legame covalente. Questo complesso covalente subisce quindi una fase di
dissociazione molto lenta.
ASSORBIMENTO
Telaprevir è disponibile per via orale e con ogni probabilità viene assorbito nell’intestino
tenue, senza alcuna evidenza di assorbimento nel colon.
Le concentrazioni plasmatiche massime dopo una dose singola di telaprevir vengono
generalmente raggiunte dopo 4-5 ore. Studi in vitro svolti con cellule Caco-2 umane hanno
indicato che telaprevir è un substrato dellaglicoproteina P.
L’esposizione a telaprevir è aumentata del 20%, quando assunto dopo un pasto calorico a
elevato contenuto di grassi (56 g di grassi, 928 kcal), rispetto a un’assunzione successiva a un
pasto standard con una normale quantità di calorie (21 g di grassi, 533 kcal). Se paragonata
alla
somministrazione dopo un pasto standard con un normale contenuto di calorie, l’esposizione
(AUC)
si è ridotta del 73% quando telaprevir è stato assunto a stomaco vuoto, del 26% dopo un pasto
a basso contenuto calorico e ad alto contenuto proteico (9 g di grassi, 260 kcal) e del 39%
dopo un pasto con un basso contenuto calorico e di grassi (3,6 g di grassi, 249 kcal) Pertanto,
il Telaprevir deve essere assunto a stomaco pieno.
Le proprietà farmacocinetiche di telaprevir sono state valutate in volontari adulti sani e in
pazienti con infezione cronica da HCV. Telaprevir in compresse da 375 mg deve essere
somministrato per via orale a stomaco pieno nella dose di 750 mg ogni 8 ore per 12
settimane, in associazione con Peg-IFN alfa e ribavirina. L’esposizione a telaprevir è
maggiore durante la co-somministrazione di Peg-IFN alfa e ribavirina rispetto a dopo la sola
somministrazione di telaprevir.
L’esposizione a telaprevir è paragonabile durante la co-somministrazione di peginterferone
alfa-2a e di ribavirina o di peginterferone alfa-2b e ribavirina.
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FARMACOCINETICA
Le proprietà farmacocinetiche di telaprevir sono state valutate in volontari adulti sani e in
pazienti con infezione cronica
da HCV. Il Telaprevir in compresse da 375 mg deve essere somministrato per via orale a
stomaco pieno nella dose di 750 mg ogni 8 ore per 12 settimane, in associazione con Peg-IFN
alfa e ribavirina. L’esposizione a telaprevir è maggiore durante la co-somministrazione di
Peg-IFN alfa e ribavirina rispetto a dopo la sola somministrazione di Telaprevir.
L’esposizione a Telaprevir è paragonabile durante la co-somministrazione di peginterferone
alfa-2a e di ribavirina o di peginterferone alfa-2b e ribavirina.
LEGAME ALLE PROTEINE
Telaprevir si lega alle proteine plasmatiche per il 59-76% circa, principalmente all’alfa 1glicoproteina acida e all’albumina.
DISTRIBUZIONE
Dopo la somministrazione orale, il volume di distribuzione apparente è stato stimato in 252 l,
con una variabilità interindividuale del 72,2%.
METABOLISMO
Telaprevir è ampiamente metabolizzato a livello epatico, implicando idrolisi, ossidazione e
riduzione.
Sono stati individuati metaboliti multipli nelle feci, nel plasma e nelle urine. Dopo una
somministrazione orale ripetuta, sono stati riscontrati i seguenti metaboliti predominanti di
telaprevir: R-diastereomero di telaprevir (30 volte meno attivo), acido pirazinoico e un
metabolita
sottoposto alla riduzione sul legame alfa-chetoammidico di telaprevir (non attivo).
Gli studi in vitro che utilizzano le isoforme del citocromo P450 (CYP) ricombinante umano
hanno indicato che il CYP3A4 era l’isoforma principale di CYP responsabile del
metabolismo di telaprevir.
Altri enzimi possono essere coinvolti nel metabolismo. Gli studi che utilizzavano supersomi
CYP ricombinanti umani hanno dimostrato che telaprevir è un inibitore del CYP3A4 ed è
stata osservata un’inibizione del CYP3A4 tempo- e concentrazione-dipendente da parte di
telaprevir nei microsomi epatici umani. In vitro non è stata osservata alcuna inibizione
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rilevante degli isoenzimi CYP1A2, CYP2C9, CYP2C19 e CYP2D6 da parte di telaprevir.
Sulla base dei risultati degli studi clinici di interazione farmaco-farmaco, non può essere
esclusa l’induzione di enzimi metabolici. Non è noto se telaprevir sia un substrato, un
induttore o un inibitore delle proteine trasportatrici di medicinali diverse dalla glicoproteina
P.
ELIMINAZIONE
Dopo la somministrazione in soggetti sani di una dose orale singola di telaprevir da 750 mg
marcato con isotopo radioattivo 14C, il 90% della radioattività totale è stata riscontrata nelle
feci, nell’urina e nell’aria espirata nelle 96 ore successive alla somministrazione della dose.
Il recupero medio della dose radioattiva somministrata è stato pari a circa l’82% nelle feci, al
9% nell’aria esalata e all’1% nell’urina. L’apporto di telaprevir immodificato e marcato con
isotopo radioattivo 14C e di VRT-127394 rispetto alla radioattività totale recuperata nelle feci
è stato rispettivamente del 31,8% e del 18,7%. Dopo la somministrazione orale, la clearance
totale apparente di telaprevir è stata stimata in 32,4 l/h, con una variabilità inter-individuale
del 27,2%.
L’emivita di eliminazione media dopo la somministrazione orale di una singola dose da 750
mg ha oscillato solitamente fra le 4,0 e 4,7 ore circa. Allo steady-state, l’emivita effettiva è
stata di circa 9-11 ore.
Interazione con altri medicinali e altre forme di interazione.
Telaprevir è in parte metabolizzato a livello epatico dal CYP3A ed è un substrato della
glicoproteina P (P-gp). Anche altri enzimi sono coinvolti nel metabolismo (vedere paragrafo
5.2). La cosomministrazione di Telaprevir e di medicinali che inducono il CYP3A e/o la P-gp
può ridurre considerevolmente le concentrazioni plasmatiche di telaprevir. La cosomministrazione di Telaprevir e di medicinali che inibiscono il CYP3A e/o la P-gp può
aumentare le concentrazioni plasmatiche di Telaprevir.
Telaprevir è un forte inbitore del CYP3A4 tempo-dipendente e inibisce considerevolmente
anche la Pgp. La dipendenza dal tempo indica che l’inibizione del CYP3A4 può essere più
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intensa durante le prime 2 settimane di trattamento. Dopo la fine del trattamento, può essere
necessaria circa una settimana affinchè l’inibizione scompaia definitivamente. La
somministrazione di Telaprevir può aumentare l’esposizione sistemica ai medicinali che sono
substrati di CYP3A o della P-gp, per i quali possono essere aumentati o prolungati gli effetti
terapeutici e le reazioni avverse. Sulla base dei risultati degli studi clinici di interazione
farmaco-farmaco (ad es. escitalopram, zolpidem, etinilestradiolo), non può essere esclusa
l’induzione di enzimi metabolici da parte di telaprevir. Telaprevir inibisce i trasportatori
polipeptidici di anioni organici (OATP) OATP1B1 e OATP2B1. Si deve prestare cautela
quando Telaprevir viene co-somministrato insieme ai farmaci trasportati da questi
trasportatori come fluvastatina, pravastatina, rosuvastatina, pivastatina, bosentan e
repeglinide. La simvastatina è controindicata a causa del predicibile marcato aumento
dell’esposizione causato da meccanismi multipli. Sono stati effettuati studi d’interazione solo
negli adulti.
Controindicazioni di uso concomitante .
Telaprevir non deve essere somministrato contemporaneamente a medicinali che sono
altamente dipendenti dal CYP3A per la clearance e per i quali le elevate concentrazioni
plasmatiche sono associate ad eventi gravi e/o potenzialmente fatali quali aritmia cardiaca
(es. amiodarone, astemizolo, bepridil, cisapride, pimozide, chinidina, terfenadina), o
vasospasmo periferico oppure ischemia (es.diidroergotamina, ergometrina, ergotamina,
metilergometrina), o miopatia, compresa rabdomiolisi (es. lovastatina, simvastatina,
atorvastatina), o sedazione prolungata o aumentata o depressione respiratoria (es. quetiapina,
midazolam o triazolam somministrati per via orale), o ipotensione o aritmia cardiaca (es.
alfuzosina e sildenafil per l’ipertensione arteriosa polmonare).
Telaprevir: eventi avversi
Per quanto riguarda gli eventi avversi a carico della cute il Summary of Product
Characteristics (SPC) della European Medicines Agency (EMA) segala testualmente quanto
segue: “Sono state segnalate gravi eruzioni cutanee a seguito del trattamento in associazione
terapeutica con telaprevir. Negli studi clinici di Fase 2 e 3, controllati con placebo, è stata
segnalata una grave eruzione cutanea (principalmente eczematosa, con prurito, che ha
interessato più del 50% della superficie corporea) nel 4,8% dei pazienti in terapia con il
72
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trattamento in associazione con telaprevir, rispetto allo 0,4% che ha ricevuto peginterferone
alfa e ribavirina. Il 5,8% dei pazienti ha interrotto soltanto telaprevir a causa di eventi di
eruzione cutanea e il 2,6% dei pazienti ha interrotto il trattamento in associazione con
telaprevir per eventi di eruzione cutanea, rispetto a nessun paziente fra quelli trattati con
peginterferone alfa e ribavirina.
In studi clinici di Fase 2 e 3, controllati con placebo, lo 0,4% dei pazienti ha avuto una
sospetta Eruzione Cutanea da Farmaco con Eosinofilia e Sintomi Sistemici (DRESS).
Nell’esperienza clinica con telaprevir, meno dello 0,1% dei pazienti ha avuto la Sindrome di
Stevens-Johnson. Tutte queste reazioni si sono risolte con l’interruzione del trattamento.”
La sindrome DRESS (eruzione cutanea con eosinofilia, a cui possono associarsi febbre,
linfoadenopatia, edema facciale e coinvolgimento epatico, renale o polmonare) si può
manifestare in qualsiasi momento dopo l’inizio del trattamento, sebbene nella maggioranza
dei casi sia comparsa tra la 6° e la 10° settimana dopo l’inizio del trattamento con telaprevir.
Come segnalato nel SPC dell’EMA, il comportamento da tenere in caso di eventi avversi a
carico della cute dipende dalla estensione delle lesioni (limitata, diffusa a <50%, o a >50%
della superficie corporea), e implica un attento monitoraggio, con eventuale interruzione
temporanea o definitiva del trattamento con telaprevir e/o con Pg-IFN + RBV. Nel sospetto di
condizioni più gravi (eruzioni generalizzate bollose cutanee, DRESS, sindrome di StevensJohnson/necrolisi epidermica tossica, pustolosi acuta esantematica generalizzata, eritema
multiforme) tutte le terapie vanno sospese e bisogna interpellare uno specialista dermatologo.
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BOCEPREVIR
IL Boceprevir è un antivirali per uso sistemico, inibitori della proteasi NS3/4
INDICAZIONI
Il Boceprevir è indicato per il trattamento dell’infezione da epatite C cronica (CHC) di
genotipo 1, in associazione con peginterferone alfa e ribavirina, in pazienti adulti con malattia
epatica compensata che non sono stati trattati in precedenza o che non hanno risposto a
precedente terapia.
PROPRIETA’ FARMACODINAMICHE
Meccanismo d’azione
Boceprevir è un inibitore della proteasi HCV NS3. Boceprevir si lega in modo covalente, ma
reversibile, al sito attivo della serina proteasi NS3 (Ser139) tramite un gruppo funzionale
(alfa)-chetoamidico e inibisce così la replicazione virale nelle cellule ospiti infettate da HCV.
Attività antivirale in coltura cellulare
L’attività antivirale di boceprevir è stata valutata con un saggio biochimico per inibitori a
legame lento della proteasi NS3 e nel sistema HCV replicone di genotipo 1a e 1b. I valori di
IC50 e IC90 per boceprevir nei confronti di differenti repliconi di genotipo 1b variavano da
200 a 600 nM e da 400 a 900 nM, rispettivamente, in un saggio di coltura cellulare a 72 ore.
La perdita del RNA replicone risulta di primo ordine rispetto al tempo di trattamento. Il
trattamento a IC90 per 72 ore ha determinato un calo 1-log10 di RNA replicone.
Un’esposizione prolungata ha determinato un calo 2-log dei livelli di RNA entro il Giorno
15. In un replicone di genotipo 1a, i valori di IC50 e IC90 per boceprevir erano 900 nM e
1.400 nM, rispettivamente.
La valutazione di varie associazioni di boceprevir e interferone alfa-2b che hanno prodotto la
soppressione del 90% del RNA replicone ha mostrato additività dell’effetto; non è stata
rilevata evidenza di sinergia o di antagonismo.
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PROPRIETA’ FARMACOCINETICHE
Assorbimento
Boceprevir è stato assorbito dopo somministrazione orale con un Tmax mediano pari a 2 ore.
L’AUC allo stato stazionario, la Cmax e la Cmin sono aumentate in maniera meno che doseproporzionale e le esposizioni individuali si sono sovrapposte in modo sostanziale alle dosi
da 800 mg e 1.200 mg, indicando un ridotto assorbimento alle dosi più elevate. L’effetto di
accumulo è minimo e lo stato stazionario farmacocinetico viene raggiunto dopo circa 1
giorno di somministrazione per tre volte al giorno.
In soggetti sani che hanno assunto 800 mg tre volte al giorno in monoterapia, l’esposizione al
medicinale per boceprevir è stata caratterizzata da AUC(т) pari a 6.147 ng.h/mL, Cmax pari a
1.913 ng/mL, e Cmin pari a 90 ng/mL. I dati farmacocinetici sono risultati simili tra soggetti
sani e soggetti infettati dall’HCV. La biodisponibilità assoluta del Boceprevir non è stata
studiata.
Effetti del cibo sull’assorbimento per via orale
Il Boceprevir deve essere somministrato insieme ai pasti. Il cibo ha aumentato l’esposizione
di boceprevir fino al 60% alla dose di 800 mg tre volte al giorno quando somministrato con
un pasto rispetto all’assunzione a digiuno. La biodisponibilità di boceprevir è indipendente
dal tipo di pasto (ad es., alto contenuto di grassi vs. basso contenuto di grassi) o dal fatto che
venga assunto 5 minuti prima di mangiare, durante il pasto o subito dopo la fine del pasto.
Distribuzione
Boceprevir ha un volume apparente medio di distribuzione (Vd/F) pari a circa 772 l allo stato
stazionario. Il legame alle proteine plasmatiche umane è circa del 75% dopo una dose singola
di Victrelis 800 mg. Boceprevir è somministrato come una miscela in proporzioni all’incirca
uguali di due diastereomeri che si interconvertono rapidamente nel plasma. Allo stato
stazionario, il rapporto di esposizione per i due diastereomeri è approssimativamente di 2:1,
con il diastereomero predominante che è farmacologicamente attivo.
Biotrasformazione
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Studi in vitro indicano che il metabolismo principale di boceprevir si svolge attraverso la via
mediata dall’aldo-chetoreduttasi (AKR) con formazione di metaboliti ridotti in forma
chetonica che sono inattivi contro l’HCV. Dopo una singola dose orale di 800 mg di 14Cboceprevir, i più abbondanti metaboliti circolanti sono risultati una miscela diastereomerica
di metaboliti ridotti in forma chetonica con un’esposizione media circa 4 volte maggiore di
quella di boceprevir. In misura minore, boceprevir subisce anche un metabolismo ossidativo
mediato dal CYP3A4/5.
Eliminazione
Boceprevir è eliminato con un’emivita plasmatica (t½) di circa 3,4 ore. Boceprevir ha una
clearance corporea totale media (CL/F) pari a circa 161 l/h. Dopo una dose orale singola di
800 mg di 14C-boceprevir, circa il 79% e il 9% della dose è stato escreto nelle feci e nelle
urine, rispettivamente, con circa l’8% e il 3% della dose di radiocarbonio eliminata come
boceprevir nelle feci e nelle urine. I dati indicano che boceprevir è principalmente eliminato
per via epatica.
Interazione con altri medicinali e altre forme di interazione.
in tre studi di Fase 2: PROVE 1,25
PRBoceprevir
è un potente inibitore del CYP3A4/5. I medicinali principalmente
metabolizzati dal CYP3A4/5 possono avere un’aumentata esposizione quando somministrati
con Boceprevir, che può aumentare o prolungare gli effetti terapeutici e le reazioni avverse .
Boceprevir non inibisce o induce gli altri enzimi del CYP450.
Si è riscontrato che Boceprevir è un substrato in vitro della p-glicoproteina (P-gp) e della
proteina di resistenza al cancro della mammella (BCRP). Questi trasportatori potenzialmente
possono aumentare le concentrazioni di boceprevir; le implicazioni cliniche di queste
interazioni non sono note. Uno studio clinico di interazione farmacologica con digossina ha
dimostrato che boceprevir è un lieve inibitore in vivo della P-gp, aumentando l’esposizione
alla digossina del 19%. Un aumento delle concentrazioni plasmatiche dei substrati del
trasportatore d'efflusso P–gp, come digossina o dabigatran, deve essere previsto .
Boceprevir è parzialmente metabolizzato dal CYP3A4/5. La somministrazione concomitante
di Boceprevir e di medicinali che inducono o inibiscono il CYP3A4/5 può aumentare o
diminuire l’esposizione a Boceprevir.
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Boceprevir , in associazione con peginterferone alfa e ribavirina, è controindicato quando
viene somministrato insieme a medicinali la cui clearance dipende altamente dal CYP3A4/5,
e per i quali elevate concentrazioni plasmatiche sono associate a eventi seri e/o
potenzialmente fatali come midazolam e triazolam somministrati per via orale, bepridil,
pimozide, lumefantrina, alofantrina, inibitori della tirosina chinasi, simvastatina, lovastatina e
derivati dell’ergot (diidroergotamina, ergonovina, ergotamina, metilergonovina) . Boceprevir
è metabolizzato principalmente dalla aldo-keto reduttasi (AKR). In studi di interazione
farmacologica condotti con gli inibitori della AKR diflunisal e ibuprofene, l’esposizione a
boceprevir non è aumentata in modo clinicamente significativo. Boceprevir può essere
somministrato in concomitanza con inibitori della AKR.
L’uso concomitante di Boceprevir con rifampicina o anticonvulsivanti (quali fenitoina,
fenobarbital o carbamazepina) può ridurre in modo significativo l’esposizione plasmatica di
Boceprevir. Non ci sono dati disponibili, pertanto, non è raccomandata l’associazione di
boceprevir con questi medicinali .
Si deve usare cautela con medicinali noti per prolungare l’intervallo QT quali amiodarone,
chinidina, metadone, pentamidina e alcuni neurolettici.
Boceprevir: eventi avversi
Per quanto concerne gli eventi avversi ematologici, durante la terapia di associazione duplice
con Peg-IFN e RBV è frequente l'insorgenza di anemia entro la 4° settimana di trattamento,
che - quando vi si associa boceprevir – può peggiorare ulteriormente (circa 1 g/dl di
emoglobina) entro la 8° settimana di trattamento.
Nello SPC dell’EMA si raccomanda di considerare un trattamento dell’anemia se il valore di
emoglobina scende a valori < 10 g/dl (o < 6,2 mmol/l). L’aggiunta di boceprevir a Peg-IFN e
RBV si associa anche a maggiore incidenza di neutropenia rispetto a quanto si osserva
durante trattamenti con associazione duplice di Peg-IFN e RBV. La terapia con boceprevir si
associa a un rischio di infezioni gravi o pericolose per la vita maggiore rispetto a quanto si
osserva durante trattamenti con Peg-IFN+RBV. Nello SPC dell’EMA si raccomanda di
effettuare una conta dei neutrofili prima di iniziare il trattamento e successivamente ad
intervalli regolari.OVE 226 e C208.27
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Boceprevir vs Telaprevir.
Pazienti naive al trattamento
FARMACO
STUDIO
PAZIENTI
ADVANCE
Età: 18-70
n= 1087 HCV gen 1
ILLUMINATE
studio in aperto
322 pz eRVR a
triplice dopo 12
settimane
duplice 24 settimane??? vs
duplice 48 settimane
SPRINT 2
Età>18
N=1097 HCV gen 1
Lead-in (4 settimane)
BOC 800 mg/tid + peg-IFN
alfa 2b + riba 24 settimane vs
44 settimane
TELAPREVIR
BOCEPREVIR
SCHEMA
TEL 750 mg/tid + peg-IFN
alfa 2a + riba, 12 settimane vs
duplice 48 sett
RISULTATI
75% vs 44%
(∆ 31% p<
0,0001)
Dimostrata non
inferiorità
(92% vs 88%)
63% (ST28)
66%(ST48)
vs 38%
(p<0,0001)
eRVR: extended rapid virologic response
Pazienti precedentemente trattati
FARMACO
STUDIO
PAZIENTI
TELAPREVIR
REALIZE
Età: 18-70
n= 662 HCV gen 1
BOCEPREVIR
RESPOND 2
Età>18
N=403 HCV gen 1
PROVIDE
SCHEMA
TEL 750 mg/tid + pegIFN alfa 2a + riba, 12
settimane vs Lead-in +
triplice (non autorizzato)
vs duplice 48 sett
Lead-in (4 settimane)
BOC 800 mg/tid + pegIFN
alfa 2b + riba 32
settimane vs
44 settimane vs duplice
analisi ad interim per i
pazienti null responders e
trattati con BOC che
erano stati esclusi nel
RESPOND 2.
RISULTATI
PR: 83% vs 24%
(<0,001)
PPR: 59% vs 15%
NPR: 29% vs 5,4%
(p<0,001)
SVR: 59-66% vs 21%
(p<0,001)
PR: 69-75% vs 29%
PPR: 40-52% vs 7%
(p<0,001)
NPR: esclusi
PR: previous relapse; PPR: prior partial response; NPR: no prior response
FARMACO
BOCEPREVIR
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STUDIO
PROVIDE
studio in aperto
PAZIENTI
Età>18
N=168 HCV gen 1
(da bracci di
controllo degli studi
di fase 2 e
3 definiti NPR, PR,
PPR)
SCHEMA
RISULTATI
Lead-in (4 settimane)
BOC 800 mg/tid + pegIFN alfa 2b + riba per 44
settimane
In corso
Analisi ad interim su
142 pazienti analizzati
riporta SVR del 40%
nei NPR, 70-60% nei
PR, PPR
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PAZIENTI HCV-1 MAI TRATTATI IN PRECEDENZA
con cirrosi MOLTO BEN compensata (F4)
con fibrosi epatica avanzata/precirrosi (F3 METAVIR)
con fibrosi epatica significativa (F2 METAVIR)
con fibrosi epatica F1
PAZIENTI HCV-1 GIA’ TRATTATI CON DUPLICE
TERAPIA
F2-F4 relapser nel precedente trattamento
F2-F4 partial responder e null responder
Lead-in di 4 settimane con duplice e quindi:
calo di HCV-RNA > 1 log
calo di HCV-RNA < 1 log
F1
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LIVELLO DI PRIORITA’
ALTO
ALTO
INTERMEDIO E INDIVIDUALIZZATO(*)
BASSO E INDIVIDUALIZZATO(*)
LIVELLO DI PRIORITA’
ALTO
ALTO
BASSO E INDIVIDUALIZZATO(*)
BASSO E INDIVIDUALIZZATO(*)
(*) Per INDIVIDUALIZZATO si intende la valutazione globale di malattia nello specifico
soggetto. Ad esempio il trattamento di soggetti con fibrosi F2 naive o F1 experienced
potrebbero avere un livello di priorità alto se affetti da manifestazioni extraepatiche;
analogamente le giovani donne che desiderano una gravidanza possono preventivamente
sottoporsi a ciclo di terapia antivirale per eradicazione del virus. Infine pazienti giovani,
fortemente motivati seppur con bassa fibrosi andranno considerati attentamente prima di
assegnare loro un livello di priorità basso per il trattamento. In tutti questi casi si concorda
pertanto un bilancio dei rischi e dei benefici derivanti dal trattamento, un’adeguata
informazione tra medico e paziente e si richiama al concetto dell’urgenza terapeutica”.
PAZIENTI NAIVE
FARMACO
Telaprevir
Boceprevir
SENZA RISPOSTA RAPIDA ALLA
TRIPLICE (indipendentemente dalla risposta
iniziale)
4 settimane di duplice + 12 settimane di
4 settimane di duplice + 12 settimane di
triplice
triplice + 8 settimane di duplice
+ 32 settimane di duplice
4 settimane di duplice + 24 (naive) di
4 settimane di duplice + (32 di triplice + 12 di
triplice
duplice) o (44 di triplice con cirrosi)
CON RISPOSTA RAPIDA ALLA
TRIPLICE (e RVR)
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RITRATTAMENTI SENZA CIRROSI
FARMACO
Telaprevir
Boceprevir
SCHEMA TERAPEUTICO
12 settimane di triplice + 12 di duplice (eRVR in relapser/partial) o + 36 di duplice
(senza eRVR)
4 settimane di duplice + 32 di triplice (eRVR in relapser/partial) o + 12 di duplice (senza
eRVR)
NAIVE F4 E RITRATTAMENTI CON CIRROSI
FARMACO
SCHEMA TERAPEUTICO
Telaprevir
12 settimane di triplice + 36 di duplice
Boceprevir
4 settimane di duplice + 44 di triplice
TIME POINT
CRITERI
STOPPING RULES
Settimane 4 o 12
HCV-RNA > 1000 UI/ml
Sospendere tutti i farmaci
Settimana 24
HCV-RNA rilevabile
Sospendere Peg-IFN/RBV
A qualunque settimana
Se Peg IFN/RBV sospesi per qualunque
Sospendere anche Telaprevir
TELAPREVIR
motivo
BOCEPREVIR
Settimana 12
HCV-RNA ≥ 100 UI/ml
Sospendere tutti i farmaci
Settimana 24
HCV-RNA rilevabile
Sospendere tutti i farmaci
A qualunque settimana
Se Peg IFN/RBV sospesi per qualunque
Sospendere anche Boceprevir
motivo
Nota: le presenti regole sono tratte dalle schede tecniche dei rispettivi farmaci
Non esistono prove che tra boceprevir e telaprevir esistano differenze in termini di efficacia;
tale criterio non può quindi guidare la scelta di una molecola rispetto all’altra. Non sono
disponibili studi clinici di confronto
diretto, pertanto una valutazione comparativa tra i due farmaci deve basarsi su confronti
indiretti e quindi soggetti a potenziali bias. Gli autori di una recente metanalisi (Sitole, 2013),
considerando che nei trial con i due farmaci, sia le popolazioni dei bracci di intervento (naive
ed experienced), sia i gruppi di controllo includono pazienti con caratteristiche simili, hanno
confrontato indirettamente boceprevir e telaprevir, riscontrando una differenza in termini di
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SVR alla 24° settimana favorevole al telaprevir nei pazienti naive (OR 1.78; 95% CI, 1.39–
2.28; P < 0.0001). Tuttavia, alla 48° settimana, quando entrambi i trattamenti erano conclusi,
le percentuali di SVR erano simili con i due farmaci (OR 0.82; 95% CI, 0.6 – 1.11; P=0.2),
così come la frequenza delle interruzioni di terapia legate a reazioni avverse gravi (OR 1.23;
95% CI, 0.95–1.6; P = 0.11). Una seconda metanalisi che confronta in maniera indiretta i due
farmaci nei pazienti con
cirrosi conclude che non ci sono differenze nelle percentuali di SVR nei pazienti trattati con
boceprevir o telaprevir. E’ importante tuttavia notare che i pazienti cirrotici arruolati sono più
rappresentati nei trial con telaprevir rispetto agli studi con boceprevir, soprattutto nei soggetti
experienced (rispettivamente
17%-18% e 20% nei tre bracci con telaprevir vs 12% e 10% nella stessa popolazione trattata
con boceprevir). Nei soggetti naive i pz con cirrosi nel trial con telaprevir erano 6% e 7%
mentre in quello con boceprevir le fibrosi di grado F3-F4 erano cumulativamente 7% e 9%,
rispettivamente. (Cooper 2012)
Non sono disponibili dati di confronto diretto, pertanto le differenze tra un farmaco e l’altro
sono desumibili da confronti indiretti ricavati da studi clinici non conclusivi in termini di
rapporto beneficio-rischio (inteso come rapporto tra effetti collaterali o avversi e percentuale
di guarigione ottenuta). Nell’elenco che segue vengono riportati gli elementi da tenere in
considerazione per la scelta tra i due farmaci nel singolo paziente.
La scelta andrà fatta dopo avere adeguatamente informato il paziente riguardo:
•
alla diversa durata di assunzione dei due farmaci: telaprevir viene sempre
somministrato
per 12 settimane, mentre boceprevir viene somministrato per 24, 32 o 44 settimane, a
seconda del quadro istologico e della risposta virologica;
•
alle specifiche modalità di assunzione (la posologia è di 6 cp/die di telaprevir vs. 12
cp/die di boceprevir; la terapia con telaprevir costringe a pasti grassi per 12
settimane);
•
ai potenziali effetti collaterali;
•
alle potenziali interazioni farmacologiche con altre terapie (le schede tecniche
prevedono controindicazioni all’utilizzo di differenti farmaci per boceprevir e per
telaprevir, pertanto in alcune situazioni
•
la scelta dell’antivirale potrebbe essere condizionata dalle terapie in atto).
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Rispetto a quanto osservato nei gruppi di controllo (trattati con Peg-IFN+RBV) anemia,
neutropenia e disgeusia sembrano essere più frequentemente associati con l’uso di
boceprevir, mentre rash cutanei, prurito e sintomi anorettali sembrano più comuni tra i
pazienti in terapia con telaprevir.
Elementi che potrebbero far preferire boceprevir
•
Anamnesi di patologia dermatologica (dermatiti, psoriasi, eczema, in particolare se
esiste scarsa tolleranza cutanea alla RBV) o di patologia anorettale (ragadi anali,
emorroidi sintomatiche) e in portatori di stomia.
•
Anamnesi positiva per dislipidemia (la terapia con telaprevir costringe a pasti grassi
per 12 settimane).
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Elementi che potrebbero far preferire telaprevir
•
Anemizzazione di difficile controllo in corso di duplice terapia, o anemia di base,
specie in pazienti con fibrosi F4.
•
Pazienti che per la propria condizione clinica sono più esposti a potenziali effetti
avversi.
•
Scarsa compliance da parte del paziente (telaprevir viene sempre somministrato per
12 settimane, mentre boceprevir viene somministrato per 24, 32 o 44 settimane,a
seconda del quadro istologico e della risposta virologica)
•
Co-trattamenti con assunzione concomitante di altre terapie per os (la posologia dei
preparati attualmente disponibili è di 6 cp/die di telaprevir vs. 12 cp/die di
boceprevir). A questo proposito va specificato che è in corso uno studio (OPTIMIZE
trial) che confronta l’efficacia di 2 somministrazioni quotidiane di telaprevir con 3
somministrazioni. Se venisse dimostrata la pari efficacia delle due modalità di
somministrazione, ciò potrebbe migliorare la compliance del paziente al trattamento.
•
Anamnesi positiva per dislipidemia (la terapia con telaprevir costringe a pasti grassi
per 12 settimane).
•
Elementi che potrebbero far preferire telaprevir
•
Anemizzazione di difficile controllo in corso di duplice terapia, o anemia di base,
specie
in pazienti con fibrosi F4.
•
Pazienti che per la propria condizione clinica sono più esposti a potenziali effetti
avversi.
•
Scarsa compliance da parte del paziente (telaprevir viene sempre somministrato per
12 settimane, mentre boceprevir viene somministrato per 24, 32 o 44 settimane, a
seconda del quadro istologico e della risposta virologica)
•
Co-trattamenti con assunzione concomitante di altre terapie per os (la posologia dei
preparati attualmente disponibili è di 6 cp/die di telaprevir vs. 12 cp/die di
boceprevir).
A questo proposito va specificato che è in corso uno studio (OPTIMIZE trial) che
confronta
l’efficacia
di
2
somministrazioni
quotidiane
di
telaprevir
con
3
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somministrazioni. Se venisse dimostrata la pari efficacia delle due modalità di
somministrazione, ciò potrebbe migliorare la compliance del paziente al trattamento.
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3. Farmacologia del sofosbuvir: farmacocinetica, farmacodinamica, profilo
tossicologico e studi clinici approvativi.
Farmacologia
Assorbimento
Le proprietà farmacocinetiche del sofosbuvir e del metabolita circolante predominante GS 331.007 sono state valutate in soggetti adulti sani ed in soggetti con epatite C cronica. Dopo
somministrazione orale sofosbuvir è stato assorbito con un picco di concentrazione
plasmatica osservata a ~ 0,5-2 ore post dose , indipendentemente dal livello della dose . Il
picco Concentrazione plasmatica di GS - 331007 è stato osservato tra 2-4 ore dopo la
somministrazione pertanto Se vomita entro 2 ore dall’assunzione è necessario assumere
un’altra compressa, Se invece il vomito avviene dopo 2 ore dall’assunzione non è necessario
assumere una seconda compressa.
Sulla base delle analisi di farmacocinetica sulla popolazione nei soggetti con genotipo 1-6
infezione da HCV a cui è stato co-somministrata ribavirina (con o senza interferone pegilato
) lo steady state del sofosbuvir ( N = 838 ) e l' AUC 0-24 del GS-331007 ( N = 1695) erano
rispettivamente di 828 ng • hr /ml e 6790 ng • h / ml. AUC 0-24 del sofosbuvir in persone
sane ( N = 272 ) , era superiore del 39% e AUC0 -24 di GS - 331007 è stato inferiore del
39% rispetto ai soggetti con infezione da HCV.
Effetto del cibo
Rispetto al digiuno , la somministrazione di una singola dose di Sofosbuvir con un pasto
standard ad alto contenuto di grassi non ha modificato sostanzialmente la Cmax e AUC 0 -inf
del sofosbuvir . L'esposizione di GS - 331007 non è stata alterata in presenza di un pasto ad
alto contenuto di grassi . Pertanto , sofosbuvir può essere somministrato indipendentemente
dai pasti .
Distribuzione
Sofosbuvir è legato per l’85% circa alle proteine plasmatiche umane (dati ex vivo) e il
legame è indipendente dalla concentrazione del medicinale nell’intervallo compreso tra 1
μg/mL e 20 μg/mL. Il legame proteico di GS-331007 nel plasma umano è risultato minimo.
Dopo una dose singola da 400 mg di [14C]-sofosbuvir in soggetti sani, il rapporto sangue-
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plasma della radioattività del 14C è stato di circa 0,7. Sofosbuvir non è un substrato dei
trasportatori epatici, come il polipeptide trasportatore di anioni organici (organic aniontransporting polypetide, OATP) 1B1 o 1B3. Anche se soggetto a secrezione tubulare attiva,
GS-331007 non è un substrato dei trasportatori renali come il trasportatore di anioni organici
(organic anion transporter, OAT) 1 o 3 o il trasportatore di cationi organici (organic cation
transporter, OCT) 2.
Sofosbuvir è stato approvato per il trattamento dell'epatite C il 6 dicembre 2013 negli Stati
Uniti dalla FDA ed a metà gennaio dall'EMA. Agisce bloccando la replicazione del virus
dell'epatite C.
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Il ciclo vitale dell' HCV inizia con l'attaccamento del virione al suo recettore specifico. Il
genoma a RNA di HCV serve come modello per la replicazione virale e come RNA
messaggero per la produzione virale. Si traduce in una poliproteina scissa dalla proteasi. Si
verifica l'assemblaggio virale. Potenzialmente, ogni fase del ciclo virale è un bersaglio per lo
sviluppo di farmaci. La conoscenza delle strutture della HCV proteasi e della HCV
polimerasi ha consentito la progettazione di farmaci per sviluppare gli inibitori di questi
enzimi.
I virus dell'epatite C sono un gruppo di virus a RNA che appartengono alla famiglia dei
Flaviviridae. Tutti possiedono un genoma a RNA di circa 9600 nucleotidi. L'HCV RNA
genomico codifica una poliproteina precursore di ~ 3010–3033 aminoacidi. La poliproteina
precursore viene ulteriormente elaborata da peptidasi e proteasi viralmente codificate per
generare almeno dieci proteine/enzimi virali maturi, nell'ordine E1-E2-p7-NS2-NS3-NS4ANS4B-NS5A-NS5B.
Come indicato nella figura le prime tre proteine codificate dal genoma HCV sono strutturali:
la proteina nucleocapside, conosciuta come il core e due proteine dell'involucro glicosilate
definite E1 ed E2. A valle delle proteine strutturali vi è la proteina di membrana, definita p7,
con funzione sconosciuta. Da NS2 a NS5B vi sono le proteine non strutturali che sono
essenziali alla replicazione del genoma virale. Per esempio, NS2 e parte della NS3 hanno
un'attività proteolitica che taglia selettivamente la giunzione NS2/3. NS3 è multi-funzionale:
la porzione N-terminale costituita da circa 180 aminoacidi codifica una serina proteasi
responsabile della scissione di NS3/4A, NS4A/4B, NS4B/5A e NS5A/5B; la porzione Cterminale costituita da circa 451 aminoacidi contiene un'elicasi ATP-dipendente, la cui
attività potrebbe essere necessaria per la replicazione del genoma virale. NS4A è una piccola
proteina che funge da cofattore per l'attività proteasica di NS3. NS4B è una proteina di
membrana e NS5A è una proteina fosforilata presente nelle cellule infette. Anche se le loro
funzioni non sono state chiaramente definite, si è recentemente visto che NS5A si lega e
regola NS5B. L'ultima proteina codificata dal genoma virale è definita NS5B, una RNA
polimerasi RNA-dipendente che è responsabile della sintesi di RNA virale. Questo enzima è
stato preso in grande considerazione, non solo per la sua funzione essenziale nel processo di
replicazione virale, ma anche per la mancanza di controparti nelle cellule ospiti. La sua
attività enzimatica è stata dimostrata per la prima volta nel 1996. Più recentemente, sono stati
identificati e sviluppati composti con strutture diverse in grado di inibire l'attività della
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polimerasi NS5B (6). Infatti i farmaci antivirali più promettenti hanno come bersaglio
proteine virali o processi che non sono endogeni alle cellule ospiti. Non esistono omologhi
strutturali del HCV RNA-dipendente RNA polimerasi (RdRp) all'interno della cellula ospite
non infetta, quindi, questa proteina rappresenta un bersaglio eccellente per farmaci antivirali.
La proteina NS5B codificata dal genoma di HCV è una RNA polimerasi RNA-dipendente per
la presenza della sequenza caratteristica - GDD - insieme a cinque motivi conservati (da A a
E), visti anche in altre RNA polimerasi RNA dipendenti virali. La funzione del sottodominio
a palmo è quello di formare il centro catalitico della reazione di trasferimento di nucleotidi.
Questo dominio contiene anche i residui di acido aspartico rigorosamente conservati che
chelano ioni Mg2 + (una caratteristica conservata tra tutte le famiglie della polimerasi)
necessari per l'incorporazione di nucleotidi. Il sottodominio a dita interagisce con il
nucleoside trifosfato entrante, secondo la base del modello a cui è abbinato e il sottodominio
a pollice gioca un ruolo nel posizionamento dell'RNA per l'iniziazione e l'allungamento.
L'interazione di questi sottodomini è pensato per assicurare il movimento coordinato e
modulare l'inizio, l'allungamento e la fine della sintesi dell'RNA. I processi compiuti dalla
polimerasi NS5B possono essere semplificati nella seguente sequenza temporale degli eventi:
attacco e legame del nucleotide, inizio, allungamento, termine e rilascio del modello. Sono
state evidenziate caratteristiche strutturali particolari relative a questa classe di polimerasi.
Figura Metabolismo del sofosbuvir
HCV NS5B polimerasi contiene un totale di 591 aminoacidi. Contiene una sequenza
idrofobica costituita da 21 aminoacidi. Sebbene questo dominio non sia essenziale per
l'attività catalitica di HCV NS5B nelle cellule, l'eliminazione di questo frammento toglie alla
proteina NS5B la capacità di associarsi alla membrana del reticolo endoplasmatico. La parte
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C-terminale è altamente conservata e idrofobica ed è necesaria per le attività enzimatiche in
vitro. Questo dominio C-terminale è ormai noto per ancorare HCV NS5B alla faccia
citoplasmatica della membrana del reticolo endoplasmatico. Una delezione della parte Cterminale che arriva fino a 63 amminoacidi produce proteine con maggiore attività. Invece
eliminazioni nella parte N-terminale sono davvero dannose per l'attività della polimerasi
NS5B. Ulteriori analisi mutazionali hanno suggerito che il nucleo catalitico di HCV NS5B è
contenuto nella regione N-terminale costituita da circa 540 amminoacidi. Presenta quattro siti
di legame per i ribonucleotidi NTP, tra cui un sito di legame specifico per il GTP
all'interfaccia tra le dita e il pollice, una tasca di legame, 30 Å lontana dal sito attivo, che può
servire come sito di regolazione allosterica, un interruttore conformazionale tra l'iniziazione e
l'allungamento. Tra le caratteristiche uniche, HCV NS5B polimerasi include un sito attivo
circondato con una forma globulare invece della tipica forma a U che si trova in altre
polimerasi. Un tale sito attivo è dovuto alle ampie interazioni tra le dita e i sottodomini a
pollice, che chiudono il divario tra i due sottodomini. I residui N-terminali, Ala9-Thr41, sono
ampiamente coinvolti in queste interazioni, questo spiega il ruolo essenziale dei residui Nterminali di NS5B per l'attività polimerasi. Un altro componente strutturale unico per HCV
polimerasi è un beta-foglietto che si trova sotto il dominio a pollice. Questo beta-foglietto è
composto da ~ 15 amminoacidi che rappresentano i residui 442-456. Uno dei ruoli potenziali
di questa struttura potrebbe essere riconoscere una specifica sequenza di HCV RNA
genomico per il corretto inizio della replicazione. A supporto di questa ipotesi, l'eliminazione
di questa parte dalla proteina NS5B può portare ad una maggiore apertura interna,
suggerendo che questa regione serve come un cancello che assicura una corretta iniziazione
di RNA dalla parte in 3'. Il segmento C-terminale contiene i residui 532-570,
immediatamente a monte del dominio di ancoraggio. Vi sono diversi residui conservati in
questa regione. È interessante notare che questo frammento, insieme con il dominio di
ancoraggio a valle, non è presente in altre polimerasi. Sebbene le proteine NS5B con una
delezione in questa regione mostrano l'attività di RNA polimerasi, questo frammento svolge
un ruolo nella regolazione dell'attività della polimerasi NS5B.
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Figura Struttura chimica del sofosbuvir
La polimerasi NS5B in tutta la sua lunghezza presenta una scarsa solubilità e richiede alte
concentrazioni di sali, glicerolo e detergenti per rimanere in soluzione. Come risultato, questa
proteina contiene una elevata percentuale di enzima inattivo. L'attività di NS5B può variare
fino ad un ordine di grandezza, a seconda del genotipo virale o sottotipo da cui è derivato
l'enzima. Analisi della variabilità del sito attivo e dei siti di legame di NS5B sarà necessaria
per la progettazione di inibitori ad ampio spettro e per la valutazione della resistenza ai
farmaci.
Sono state identificate e sviluppate modifiche delle sequenze aminoacidiche di NS5B che
svolgono un ruolo fondamentale per l'attività dell'enzima. Ad esempio, allegare un tag di
affinità al residuo N-terminale di istidina potrebbe influenzare la sua attività enzimatica o
solubilità delle proteine. I primi studi hanno rivelato che NS5B con N-terminale istidina non
solo era meno espressa, ma anche meno attiva rispetto a quella con C-terminale istidina.
Inoltre, come già detto, la proteina NS5B contiene una regione idrofoba nella parte Cterminale, responsabile dell'associazione di membrana. La delezione di questa regione
idrofoba non è deleterio per l'attività catalitica di NS5B, ed in effetti, la versione troncata ha
mostrato una maggiore efficienza catalitica rispetto alla proteina intatta. Di conseguenza,
l'espressione di una forma troncata della parte C-terminale è risultata essere più semplice
rispetto alla proteina intera e più solubile.
Ci sono 2 classi di farmaci che inibiscono NS5B polimerasi: gli inibitori nucleosidici e nonnucleosidici. Queste due classi differiscono generalmente in specificità, secondo la loro
modalità di azione. Gli inibitori nucleosidici imitano i componenti naturali e competono
direttamente con i substrati nucleotidici per il legame ai siti attivi altamente conservati.
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Questi inibitori generalmente presentano attività a più ampio spettro contro una classe di
polimerasi. Sono composti che richiedono la trasformazione in forma attiva trifosfato. Mentre
il sito attivo della NS5B è altamente conservato, gli inibitori analoghi nucleosidici sono
potenzialmente efficaci contro tutti i diversi genotipi. Inoltre sotituzioni di singoli aminoacidi
in ogni posizione del sito attivo può causare la perdita della funzione polimerasica. La
resistenza agli inibitori analoghi nucleosidici è solitamente bassa.
Gilead Sciences sta sviluppando Sofosbuvir (Sovaldi), un agente antivirale ad azione diretta
contro la proteina NS5B polimerasi del virus dell'epatite C, analogo nucleotidico pirimidinico
che inibisce NS5B polimerasi del virus dell'epatite C, un trattamento per via orale, da
somministare oralmente una volta al giorno. Sofosbuvir è un isomero del PSI 7851,
originariamente sviluppato da Pharmasset (più tardi acquisita da Gilead Sciences). Sono stati
condotti studi di fase I con il modulo racemico, studi di fase II con il sofosbuvir perché 2
volte più potente. È stato approvato per il trattamento dell'epatite C cronica in associazione ad
altri farmaci antivirali (la monoterapia non è raccomandata per l'alto tasso di recidive).
L'efficacia di sofosbuvir è stata valutata in pazienti con l'epatite C, genotipo 1, 2, 3 e 4, sono
stati inclusi anche pazienti con epatocarcinoma, in attesa di trapianto di fegato e pazienti con
una co-infezione HCV/HIV-1. La dose raccomandata è di 400mg una volta al giorno, da
prendere con o senza cibo. Deve essere somministrato per 12 settimane in associazione a peg
interferone alfa e ribavirina nei genotipi 1 e 4. ll trattamento con Sofosbuvir e ribavirina per
24 settimane è un'opzione per i pazienti con epatite C di genotipo 1 che non sono candidati a
ricevere una terapia a base di interferone. L'associazione di Sofosbuvir e ribavirina per 12
settimane è raccomandata anche per infezioni di genotipo 2; per il genotipo 3 il trattamento
deve proseguire per 24 settimane. In pazienti con epatocarcinoma, in attesa di trapianto, il
trattamento con Sofosbuvir e ribavirina è raccomandato fino a 48 settimane, o fino al
momento del trapianto di fegato per prevenire la re-infezione post trapianti.
Sono in corso studi in associazione del Sofosbuvir con ledipasvir, un inibitore della NS5A
polimerasi del virus dell'epatite C con potente attività nei confronti dei genotipi 1a.
Il nome IUPAC per sofosbuvir è β-D-2'-Deoxy-2'-r-fluoro-2'-β-C-methyluridine, profarmaco
nucleotidico altamente modificato strutturalmente rispetto alle basi azotate comunemente
trovate nel corpo umano.
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Si presenta come solido cristallino, di colore bianco, con una solubilità ≥ 2 mg / mL per tutta
la gamma di pH da 2 a 7,7 a 37º gradi C ed è leggermente solubile in acqua. Le compresse di
Sovaldi devono essere somministrate oralmente. Ogni compressa contiene 400 mg di
principio attivo ed i seguenti eccipienti: biossido di silice colloidale, cross caramellosa
sodica, magnesio stearato, mannitolo, cellulosa microcristallina. Le compresse sono rivestite
con film con un materiale di rivestimento contenente i seguenti ingredienti inattivi: glicole
polietilenico, polivinil alcol, talco, biossido di titanio ed ossido di ferro giallo.
È un profarmaco che viene metabolizzato a livello intracellulare a GS-461203, un analogo
uridinico trifosfato, che è farmacologicamente attivo ed è incorporato nell'RNA del virus
dell'epatite C dalla NS5B polimerasi dove agisce come terminatore della catena. In vitro la
concentrazione che determina il 50% di inibizione dell'attività della polimerasi del virus
dell'epatite C 1b, 2a, 3a e 4a varia da 0,7 a 2,6 micromoli/L. Non è un inibitore del DNA
umano o della RNA polimerasi umana e neppure della RNA polimerasi mitocondriale in
quanto presentano grosse divergenze evolutive dall'enzima virale.
Metabolismo
Dopo somministrazione orale, sofosbuvir è metabolizzato a 2'-deossi-2'-fluoro-alfa-beta-Cmethyluridine-5'-monofosfato, che viene poi convertito nel nucleotide trifosfato attivo che
inibisce la polimerasi NS5B, impedendo così la replicazione virale. Per inibire NS5B, questo
profarmaco deve essere metabolizzato in primo luogo alla forma attiva trifosfato GS-461203
(ex PSI-7409). In vitro, studi condotti con epatociti umani e con epatociti isolati da ratto, cane
e scimmia, insieme ad uno studio preliminare in vivo effettuato sui ratti, hanno dimostrato
che GS-9851 è prima idrolizzato ad una forma inattiva, GS-566500. GS-566500 è
ulteriormente metabolizzato al metabolita inattivo GS-331007 (ex PSI-6206) o un uridina
inattiva monofosfato, GS-606965 (ex PSI-7411). All'interno dell'epatocita, GS-9851 viene
convertito a GS-606965, che viene ulteriormente fosforilata ad un metabolita attivo trifosfato,
GS-461203. GS-461203 inibisce selettivamente la polimerasi NS5B.
Il primo passaggio del metabolismo comporta l'idrolisi del gruppo estere carbossilico13.
Sono stati esaminati più di 23 diversi enzimi, fra i quali serine proteasi, cisteine proteasi,
aspartato proteasi, serine esterasi ecc..
L'analisi dei risultati mostra che Catepsina A, Neutrofilo Elastasi, Serina Esterasi e
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Carbossiesterasi 1 sono gli enzimi capaci di idrolisi nei confronti del estere carbossilico.
L'enzima Neutrofilo Elastasi non è presente nel fegato e pertanto non risulta coinvolto nel
metabolismo epatico del profarmaco.
Mentre Catepsina A e Carbossiesterasi 1 risultano essere i principali enzimi coinvolti con un
attività idrolitica 15 volte superiore di CAT A rispetto CES 1.
Questi risultati sono stati ottenuti su studi effettuati su linee cellulari di epatociti.
Gli studi hanno dimostrato che CAT A ha una preferenza idrolitica nel confronti dello
stereisomero PSI-7977, mentre CES 1 preferisce PSI-7976.
La stereoselettività idrolitica di questi enzimi non è del tutto compresa, si ipotizza, che il
nucleoside leghi l'enzima con due diversi orientamenti uno di questi produttivo mentre l'altro
no.
Ulteriori studi meccanici hanno dimostrato, la superiore attività del stereoisomero PSI-7977
rispetto al PSI-7976, ciò è probabilmente dovuto alla ridotta espressione di CES1 a livello
epatico rispetto a CAT A e alla stereoselettività che PSI-7977 ha nei confronti di
quest'ultimo.
Il secondo passaggio metabolico prevede una rapida reazione non enzimatica, dopo l'idrolisi
del estere carbossilico il gruppo fenolo della porzione fosfato è rilasciato spontaneamente.
Il terzo passaggio riguarda la deaminazione del metabolita precedente, per formare il
metabolita monofosfato intermedio PSI-7411, l'enzima coinvolto è probabilmente HINT1
(histidine triad nucleotide- binding protein 1), questo passaggio è seguito da forsforilazione
del intermedio da parte della via di biosintesi del pirimidin nucleotide (UMP-CMP kinase), al
composto PSI-7409, con elevata attività anti-HCV.
Sofosbuvir è associato ad una rapida riduzione della carica virale, con i valori di HCV RNA
che diminuiscono in modo bifasico. Sofosbuvir è attivo verso tutti i genotipi di HCV; i
massimi livelli di efficacia sono raggiunti in media dopo circa 2 giorni di terapia. La
concentrazione efficace al 50% contro i genotipi 1a, 1b, 2a, 2b, 3a, 4a, 5a o 6a varia dallo
0,014 allo 0,11 micromoli/L. Secondo uno studio randomizzato, in doppio cieco, a gruppi
paralleli, con dosi crescenti costituito dalla somministrazione 1 volta al giorno di sofosbuvir o
placebo per 3 giorni, pazienti che hanno ricevuto sofosbuvir hanno dimostrato marcate
riduzioni della carica virale, mentre i valori per i pazienti che hanno ricevuto il placebo è
rimasto invariato.
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Figura Risposta alla terapia con diverse dosi di Sofosbuvir valutata con il quantitativo di RNA virale
Cambiamento dei valori medi di HCV RNA
Il più grande cambiamento dei valori di HCV RNA è avvenuto 24 ore dopo l'ultima dose
(giorno 4) per tutti i dosaggi verificati (da 50 mg a 400 mg). Una diminuzione dosedipendente è stata chiaramente osservata per i 200 mg e 400 mg dose di sofosbuvir. La
maggior parte (7/8; 87,5%) dei pazienti che hanno ricevuto 400 mg di sosbuvir hanno
sperimentato una diminuzione di HCV RNA di superiore a 1,0 log10, 2 giorni dopo aver
ricevuto la loro ultima dose di GS-9851 (giorno 5). La variazione media rispetto al basale di
HCV RNA è apparsa maggiore per i pazienti infettati con genotipo 1a che hanno ricevuto 400
mg di sofosbuvir. La dose di 400 mg determina il precoce e maggiore effetto antivirale nella
più alta percentuale di pazienti. Lo sviluppo di cambiamenti genotipici virale dal basale sono
stati anche presenti, infatti è noto che RNA polimerasi NS5B ha una bassa capacità come
correzione di bozze e introduce errori durante la trascrizione del genoma HCV. Questi errori
di codifica comportano cambiamenti nelle sequenze amminoacidiche delle proteine virali che
possono portare ad emergere varianti di HCV resistenti al trattamento. Nello studio corrente,
nessuna preesistente mutazione S282T o conseguente al trattamento emergente è stata
rilevata nei campioni di HCV testati, non c'era alcuna prova di resistenza virale dopo 3 giorni
di monoterapia sulla base del sequenziamento della regione NS5B della popolazione o
dell'analisi clonale di campioni di plasma raccolti da tutti i soggetti al giorno 1 pretrattamento (baseline) e al 4° giorno (24 ore dopo l'ultima somministrazione) per quei
soggetti che hanno ricevuto sofosbuvir. Questo è di particolare interesse perché questa
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mutazione è stata precedentemente associata alla resistenza ad inibitori nucleotidici 2'-Cmetil-modificati, come il sofosbuvir.
Il sequenziamento dei campioni di HCV della
popolazione ha rivelato come siano avvenuti diversi cambiamenti di aminoacidi virali in
pazienti che hanno ricevuto sofosbuvir. Tuttavia, ci sono stati tre cambiamenti di aminoacidi
che sono stati rilevati in più di un paziente ciascuno: Q/R544Q (n= 2, un paziente con
genotipo 1a e uno con genotipo 1b), D559D / N (n= 3; tutti i pazienti con genotipo 1a), e
L588L / P (n =2; un paziente con genotipo 1a e un paziente con genotipo 1b). I polimorfismi
Q544 e R544 sono stati rilevati al basale in un numero di soggetti trattati con sofosbuvir,
tuttavia non sembra correlare con qualsiasi specifica risposta virologica.
Sofosbuvir ha una elevata barriera di resistenza. Nessuno sfondamento virale è stato riportato
nei pazienti fino ad oggi e la selezione della resistenza alla mutazione S282T è stata vista
raramente nei soggetti che sono ricaduti dopo sospensione del farmaco.
Figura Descrizione delle proprietà del sofosbuvir
Test di resistenza in studi di fase II (ATOMIC, PROTON e ELECTRON) e sperimentazioni
di fase III (NEUTRINO, FISSIONE, POSITRON e FUSION) hanno rivelato che la resistenza
associata alla mutazione S282T non è stata trovata in nessun paziente in terapia con
sofosbuvir in combinazione con ribavirina con o senza peginterferone-a. La mutazione S282T
è stata rilevata in un paziente con infezione da HCV di genotipo 2b che ha ricevuto
sofosbuvir monoterapia nella fase II dello studio ELECTRON. Anche se le sostituzioni
L159F e V321A sono state rilevate in alcuni pazienti con infezione da HCV di genotipo 3a
che hanno ricevuto regimi contenenti sofosbuvir, in studi di fase III, queste sostituzioni non
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sono state associate con i cambiamenti nella sensibilità fenotipica a sofosbuvir. Nei pazienti
infetti da HCV di genotipo 1a o 2b e presentanti epatocarcinoma che hanno ricevuto
sofosbuvir e ribavirina per 48 settimane, in attesa di trapianto di fegato, la sostituzione L159F
si è manifestata soprattutto nei casi che hanno avuto un fallimento virologico. La presenza di
L159F e / o sostituzioni C316N al basale sono state associate al fallimento terapeutico posttrapianto soprattutto in pazienti con infezione da HCV di genotipo1b. Repliconi HCV che
esprimono la mutazione S282T mantengono la sensibilità alla ribavirina e alle altre classi di
antivirali ad azione diretta, compresi gli inibitori NS5A attualmente in studio.
Sviluppo clinico
Sofosbuvir è un inibitore appartiene alla classe degli analoghi nucleotidici della polimerasi
NS5B, a somministrazione monogiornaliera e sviluppato per il trattamento dell’infezione
cronica da virus dell’epatite C (HCV). L’efficacia e la sicurezza del sofosbuvir è stata
valutata in quattro sperimentazioni cliniche di fase III (NEUTRINO, FISSION,
POSITRON e FUSION). Nei quattro studi l’antivirale è stato somministrato a quasi 1000
pazienti con infezione cronica da HCV come parte di un regime terapeutico orale della durata
di 12 o 16 settimane in combinazione con ribavirina (RBV) per i pazienti con genotipo 2 e 3
o in associazione con ribavirina ed interferone pegilato (peg-IFN) per 12 settimane per i
pazienti con genotipo 1, 4, 5 e 6. Si sono osservati dei tassi di SVR12 (percentuale di risposta
virologica sostenuta 12 settimane dopo il completamento della terapia) compresi tra il 50 e il
90%.
NEUTRINO - Studio clinico multicentrico, in aperto, a braccio singolo, che comprendeva
327 pazienti naive con infezione da HCV di genotipo 1, 4, 5, o 6. Da giugno 2012 ad agosto
2012 (ho trovato Aprile 2013 come termine dello studio), i pazienti sono stati arruolati in 56
centri degli Stati Uniti. I criteri di eleggibilità comprendevano soggetti con età superiore ai 18
anni (età media 52 anni, range 19-70 anni), livelli di HCV-RNA nel siero maggiori di 104
IU/mL al momento dello screening, indice di massa corporea (BMI) superiore di 18 kg/m2,
assenza di trattamenti precedenti, inoltre, circa il 20% dei pazienti presentava cirrosi epatica.
Tutti i pazienti hanno ricevuto una triplice terapia che comprendeva: sofosbuvir, ribavirina
(RBV) e peginterferone alfa-2a ( peg-INF) per 12 settimane. Sofosbuvir
è stato
somministrato per via orale alla dose di 400 mg una volta al giorno con ribavirina
somministrata oralmente in base al peso corporeo (1000 mg al giorno in pazienti con un peso
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corporeo <75 kg e 1200 mg al giorno in pazienti con un peso corporeo ≥ 75 kg). Peginterferone alfa-2a è stato somministrato per via sottocutanea una volta alla settimana ad una
dose di 180 mg.
In questo studio, dei 456 pazienti con HCV di genotipo 1, 4, 5, o 6, che inizialmente sono
stati oggetto di screening , 328 sono stati arruolati, e 327 hanno iniziato il trattamento. La
maggior parte dei pazienti inclusi nello studio avevano genotipo 1 (89%); il 9% aveva
genotipo 4, ed il 2% aveva genotipo 5 o 6. Un totale del 17% dei pazienti erano neri, il 71%
aveva genotipo non-CC IL28B ed il 17% aveva cirrosi. Complessivamente 295 dei 327
pazienti arruolati (90%, 95% intervallo di confidenza [CI] , 87-93) hanno avuto una risposta
virologica sostenuta dopo 12 settimane di trattamento (SVR12), definita come il
raggiungimento di un livello di HCV-RNA al di sotto del limite di quantificazione (25
IU/ml).
La risposta virologica (SVR) non differisce a seconda del genotipo HCV: 89% per i pazienti
con HCV di genotipo 1 (92% per il genotipo 1a e 82% per il genotipo 1b), il 96% (27 su 28
pazienti) per quelli con HCV di genotipo 4, e il 100% per i sette pazienti con HCV genotipo 5
e 6 . I pazienti con cirrosi epatica e genotipo non-CC IL28B sono stati associati ad una
ridotta risposta . Il tasso di risposta virologica sostenuta è stata del 92% (95 % CI , 89-95) tra
i pazienti senza cirrosi e l'80% ( 95 % CI , 67-89 ) tra quelli con cirrosi . Una risposta
virologica sostenuta si è verificata in 93 su 95 pazienti (98%) con il genotipo CC IL28B ,
rispetto ai 202 di 232 pazienti (87%) con genotipo non-CC IL28B. Le risposte al farmaco non
hanno mostrato sostanziali variazioni in base alla razza o gruppo etnico.
Un totale di 28 pazienti ha avuto una ricaduta dopo una prima risposta virologica, tuttavia
non sono state rilevate le varianti associate alla resistenza. Nessun paziente ha interrotto il
trattamento a causa di eventi avversi. I più frequenti sono stati affaticamento, cefalea, nausea,
insonnia, anemia. Valori di emoglobina al di sotto dei 10 g/dl sono stati riscontrati nel 23%
dei pazienti e neutropenia con livelli al di sotto di 500/mm3 è stata osservata nel 15% dei
pazienti.
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Tasso di risposta virologica nello studio
SOF + Peg-IFN alfa + RBV per 12 settimane
N pazienti =327a
SVR complessiva
90% (295/327)
Genotipo 1b
89% (261/292)
Genotipo 1a
92% (206/225)
Genotipo 1b
82% (54/66)
Genotipo 4
96% (27/28)
Pazienti che non hanno raggiunto SVR
Fallimento durante il trattamento virologico
0% (0/327)
Recidive complessivec
9% (28/326)
Altro
1% (4/327)
NEUTRINO
a. Tra cui i sette soggetti con genotipo 5 o 6.
b. un soggetto aveva genotipo misto 1a/1b.
c. Percentuale basata sul numero totale di pazienti con HCV RNA inferiore al limite di
quantificazione (25 IU/ml) alla loro ultima valutazione sul trattamento.
d. Include i pazienti che non hanno raggiunto SVR e non soddisfano i criteri di fallimento
virologico (per esempio , perdita di followup).
FISSION - Studio multicentrico, randomizzato, in aperto, con controllo attivo di sofosbuvir
più ribavirina in pazienti con infezione da HCV di genotipo 2 o 3. Da dicembre 2011 a
maggio 2012, i pazienti sono stati arruolati in 97 centri degli Stati Uniti, Australia, Nuova
Zelanda , Italia , Svezia e Paesi Bassi e sono stati assegnati in modo casuale a ricevere 12
settimane di sofosbuvir più ribavirina o 24 settimane di peginterferone alfa-2a più ribavirina
(800 mg al giorno) . Le dosi di sofosbuvir e ribavirina erano uguali a quelle somministrate
nello studio NEUTRINO . I soggetti sono stati randomizzati in rapporto 1:1 e stratificati per
cirrosi epatica (presenza vs assenza), HCV genotipo (2 vs 3) e il livello di HCV RNA al
basale (<6 log10 IU/mL vs ≥ 6 log 10IU/mL). I soggetti con genotipo 2 o 3 dell'HCV sono
stati arruolati in un rapporto di circa 1:3 rispettivamente.
Nello studio FISSION, dei 666 pazienti con infezione di genotipo 2 o 3, che, inizialmente
erano stati oggetto di screening , 527 sono stati sottoposti a randomizzazione, e 499 hanno
iniziato il trattamento. Le caratteristiche demografiche e cliniche dei pazienti erano bilanciate
tra i due gruppi di studio. Il 20% dei pazienti nel gruppo sofosbuvir ed il 21% di quelli nel
gruppo peg-interferone avevano cirrosi epatica.
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I soggetti trattati (N = 499) avevano un'età media di 50 anni (range: 19-77), 66% maschi,
87% bianchi, 3% neri; l’indice di massa corporea era di 28 kg/m2 (range: 17-52 kg/m2), il
43% aveva genotipo IL28B CC ; il 57% aveva livelli di HCV RNA al basale superiore a 6
log10 UI/ ml, il 20% aveva cirrosi, il 72% HCV genotipo 3.
Tabella 2. Tasso di risposta virologica nello studio FISSION
La differenza in termini di percentuale di SVR12 complessiva tra i gruppi di trattamento con
sofosbuvir + ribavirina e peg-interferone alfa + ribavirina è stata dello 0,3% (intervallo di
confidenza al 95%: da -7,5% a 8,0%) a favore di sofosbuvir – ribavirina e lo studio ha
soddisfatto il criterio predefinito di non inferiorità. Una risposta virologica sostenuta si è
verificata nel 97% dei pazienti con genotipo 2 e nel 56% in quelli con genotipo 3 nel gruppo
che ha ricevuto sofosbuvir - ribavirina , rispetto ai tassi di risposta del 78% e 63%,
rispettivamente , nel gruppo trattato con peginterferone- ribavirina . Tra i pazienti con cirrosi
epatica al reclutamento, il 47% di quelli trattati con sofosbuvir - ribavirina ha avuto una
risposta virologica sostenuta , rispetto al 38 % di quelli trattati con peginterferone - ribavirina.
Nello studio FISSION , l'incidenza di eventi avversi è stata costantemente più bassa tra i
pazienti trattati con sofosbuvir - ribavirina rispetto a quelli in trattamento con peg-interferone
- ribavirina , senza sofosbuvir . Quelli più comuni nei due bracci di studio sono stati:
affaticamento, cefalea , nausea ed insonnia . Con l'eccezione di vertigini e anemia, tutti gli
eventi, che si sono verificati in almeno il 10% dei pazienti, erano più comuni tra i pazienti
trattati con peg-interferone rispetto a quelli trattati con sofosbuvir . I sintomi simil-influenzali
e febbre, caratteristici del trattamento con interferone, sono stati riportati nel 16% e 18 % dei
pazienti trattati con peg-interferone e solo nel 3 % dei pazienti trattati con sofosbuvir .
Episodi di depressione, un altro disturbo comune della terapia con interferone, si sono
verificati nel 14% dei pazienti trattati con peg-interferone, rispetto al 5 % dei pazienti trattati
con sofosbuvir. Altri effetti collaterali osservati: alterazioni
ematologiche, riscontrate
prevalentemente tra i pazienti nel gruppo peginterferone - ribavirina rispetto a quelli del
gruppo sofosbuvir - ribavirina. Tra questi ultimi il 9% dei pazienti aveva un livello di
emoglobina inferiore a 10 g/dL e meno dell'1% dei pazienti aveva un livello inferiore a 8,5
g/dL, rispetto al 14% e 2% dei pazienti, rispettivamente, che hanno ricevuto peginterferone ribavirina per 24 settimane. Allo stesso modo , tra i pazienti trattati con peginterferone ribavirina, il 12% aveva una conta dei neutrofili da 500 a 750 per millimetro cubo e il 2 %
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aveva una conta inferiore a 500 per millimetro cubo, mentre nessun paziente nel sofosbuvir ribavirina ha avuto tali riduzioni. Allo stesso modo la riduzione della conta dei linfociti,
piastrine e globuli bianchi variava dall’1 al 7 % tra i pazienti trattati con peginterferone ribavirina , mentre nessun paziente in trattamento sofosbuvir - ribavirina ha riscontrato tali
diminuzioni.
FISSION
Peg-IFN alfa + RBV 24
settimane
N=256a
N=243a
67%
67% (171/256)
(162/243)
0.3% (95% CI: -7.5% to 8.0%)
97% (69/73)
78% (52/67)
56% (102/183)
63% (110/176)
SOF+RBV 12 settimane
SVR complessiva
Differenze nella terapia
Genotipo 2
Genotipo 3
Pazienti che non hanno raggiunto SVR
Fallimento durante il trattamento virologico
<1% (1/256)
Recidive
30% (76/252)
Genotipo 2
5% (4/73)
Genotipo 3
40% (72/179)
Altro
3% (8/256)
7% (18/243)
21% (46/217)
15% (9/62)
24% (37/155)
7% (17/243)
a. Inclusi tre soggetti con genotipo HCV ricombinante 2/1 HCV
b. Aggiustato per fattori di stratificazione pre-specificati .
c. Il denominatore di recidive è il numero di soggetti con HCV RNA < LLOQ alla loro ultima
valutazione sul trattamento d. Altro include soggetti che non hanno raggiunto SVR e non
soddisfano i criteri fallimento virologico (ad esempio , persi al follow-up).
Efficacia:
Tutti i pazienti che hanno ricevuto sofosbuvir nei due studi precedenti
hanno avuto
diminuzioni rapide e sostanziali livelli sierici di HCV RNA. Non sono state riscontrate
sostanziali differenze nella riduzione dei livelli di HCV RNA durante il trattamento sulla base
del genotipo HCV, razza, genotipo IL28B , o presenza o assenza di cirrosi. A 2 settimana di
trattamento, il 91% dei pazienti con genotipo 1, 4, 5, o 6 e 92 % di quelli con genotipo 2 o 3
infezione nei gruppi sofosbuvir aveva un livello di HCV RNA inferiore a 25 UI/ml. Entro la
settimana 4, le proporzioni di pazienti con questi ridotti livello di HCV RNA erano il 99% e
poco meno del 100% (99,6 %) rispettivamente, tassi mantenuti per tutto il periodo di
trattamento. (tabella 3)
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HCV RNA < a 25 UI/ml
n.totale n. %
Durante il trattamento:
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NEUTRINO
SOF+RBV+peg-INF 12 set.
N=327
FISSION
SOF+RBV 12 s pegINF+RBV 24s
N=253
N=243
A 2 settimane
A 4 settimane
299/327(91)
321/325(99)
231/251(92)
249/250 (>99)
76/241(32)
158/236(67)
ultima misurazione osservata
Dopo la fine del trattamento:
326/327 (>99)
249/253 (98)
217/243(89)
A 4 settimane
A 12 settimane
Risposta transitoria con
riattivazione in corso di
terapia n-(%)
Recidive in pazienti con livelli
di HCV RNA < 25 UI/ml alla
fine del trattamento n./totale
n.(%)
Pazienti che completano il
trattamento
Pazienti che non completano il
trattamento
302/327(92)
295/327(90)
187/253(74)
170/253(67)
181/243(74)
162/243(67)
0
1(<1)
18 (7)
25/320(8)
71/242(29)
37/188(20)
3/6(50)
3/7(43)
9/29(31)
POSITRON - Studio randomizzato, in doppio cieco, placebo-controllo, che ha valutato 12
settimane di trattamento con sofosbuvir e ribavirina (N = 207) rispetto al placebo (N = 71),
in pazienti con HCV di genotipo 2 o 3, non in grado di ricevere l'interferone. Il trattamento
con interferone non era un'opzione terapeutica a causa di intolleranza (9%), ineleggibilità
(44%), mancanza di volontà (47%), disturbi psichiatrici clinicamente significativi (57%) e
malattie autoimmuni (19%).
I soggetti trattati (N = 278) avevano un'età media di 54 anni (range: 21-75), il 54% era di
sesso maschile, il 91% erano bianchi, 5% erano neri, con indice di massa corporea medio di
28 kg/m2 (range: 18-53 kg/m2), il 70% aveva livelli di HCV RNA al basale superiore a 6
log10 UI/ml, il 16% aveva la cirrosi epatica, il 49% era HCV genotipo 3. Complessivamente
l'81% dei pazienti non ha ricevuto
trattamento HCV precedente. I pazienti sono stati
randomizzati 3:1 a 12 settimane di terapia con sofosbuvir 400 mg per via orale una volta al
giorno, più ribavirina per via orale due volte al giorno o placebo e sono stati stratificati in
base alla presenza di cirrosi compensata (presente nel 16% dei pazienti) . Ribavirina è stata
somministrata a 1000 mg al giorno in pazienti di peso inferiore a 75 kg , ed a 1200 mg al
giorno in pazienti con un peso di 75 kg o superiore . SVR (definita come HCV RNA inferiore
a 25 IU/ml a 12 settimane dopo il trattamento ) è stata raggiunta nel 78 % dei pazienti trattati
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con sofosbuvir e ribavirina rispetto allo 0 % dei pazienti trattati con placebo (95 % CI , 72-83
; p meno di 0.001) . La tabella seguente riporta i tassi di risposta dei genotipi HCV e le
ragioni del fallimento terapeutico in pazienti che non hanno raggiunto la SVR.
Il genotipo 3 è risultato significativamente associato ad una diminuzione del tasso di SVR
rispetto al genotipo 2. Tra i pazienti con cirrosi epatica, il 94% con genotipo 2 e il 21% di
quelli con genotipo 3 hanno raggiunto SVR, rispetto al 92% e 68%, rispettivamente , di quelli
senza cirrosi. Affaticamento , insonnia , irritabilità e anemia si sono verificati più
frequentemente nel gruppo trattato con sofosbuvir e ribavirina , rispetto al placebo. Il tasso di
interruzione a causa di eventi avversi è stato del 2% nel gruppo di trattamento e il 4 % nel
gruppo placebo. Eventi avversi gravi sono stati riportati rispettivamente nel 5% e 3% del
gruppo di trattamento e placebo.
FUSION – È uno studio volto ad indagare se il trattamento di combinazione sofosbuvir e
RBV è più efficace se somministrato per 16 invece di 12 settimane. Si tratta di uno studio
randomizzato, in doppio cieco che ha valutato 12 o 16 settimane di trattamento in soggetti
che non hanno raggiunto SVR con la terapia a base di interferone (pazienti recidivanti e “non
responder”). I soggetti sono stati randomizzati in rapporto 1:1 e stratificati per cirrosi epatica
(presenza vs assenza) e HCV genotipo (2 vs 3).
I soggetti trattati (N = 201) avevano un'età media di 56 anni (range: 24-70), il 70% erano
maschi, 87% bianchi e 3% erano neri, con un indice di massa corporea medio di 29 kg/m2
(range: 19-44 kg/m2), il 73% ha avuto di HCV RNA basali superiori a 6log10 IU/ml; il 34%
affetto da cirrosi, il 63% presentante HCV di genotipo 3 ed il 75% erano pazienti recidivanti.
Nei pazienti con virus dell'epatite C di genotipo 2 o 3, che non avevano risposto
precedentemente alla terapia con interferone, la SVR è stata raggiunta nel 50% ( 95% CI ,
40% al 60% ) con 12 settimane e nel 73% ( 95 % CI , 63% al 81 % ) con 16 settimane di
trattamento con sofosbuvir più ribavirina. Lo studio ha incluso pazienti di età compresa tra i
30 ed i 70 anni (media, 54 anni) che non avevano né risposto al trattamento con interferone
(il 25 % dei pazienti), o che avevano evidenziato rebound virologico durante il trattamento
precedente, o recidiva (75 % dei pazienti dopo il trattamento). Sofosbuvir alla dose di 400 mg
è stato somministrato per via orale una volta al giorno con ribavirina per via orale, in base al
peso corporeo
( 1000 mg / die in pazienti con meno di 75 kg e 1200 mg / die nei pazienti
maggiori o uguali a 75 kg) . SVR è stata significativamente più alta nel gruppo di trattamento
di 16 settimane rispetto al gruppo di 12 settimane, entrambi i gruppi avevano SVR
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significativamente superiore al tasso di controllo storico del 25%. SVR è stata definita come
il raggiungimento di livelli di HCV RNA inferiori a 25 IU/ml a 12 settimane dopo il
trattamento; in media, al basale, i livelli di HCV RNA erano 6,5 log10 UI/ml . HCV genotipo
3 era presente nel 63% dei pazienti ed è risultato significativamente associato ad una
diminuzione dei tassi di SVR in tutti i gruppi . Nei pazienti con cirrosi, la SVR è stata del 31
% dopo 12 settimane di trattamento e il 66 % dopo 16 settimane di trattamento. Nei pazienti
con genotipo 3 e cirrosi , la SVR è stata del 19 % con 12 settimane di trattamento e 61% con
16 settimane, contro il 37% ed il 63% nei pazienti con diabete di tipo 3, ma senza cirrosi.
Nessuna variante associata a resistenza è stata osservata tra i 73 pazienti che hanno avuto
recidive dopo il trattamento. Eventi avversi gravi sono stati riportati nel 5% dei pazienti
trattati per 12 settimane e nel 3% dei pazienti trattati per 16 settimane, i più comuni riportati
in entrambi i gruppi sono stati affaticamento, nausea, mal di testa ed insonnia .
Introduzione
Sino dalla scoperta del virus HCV nel 1989, l’interferon alpha è stato l’unico farmaco dato
singolarmente od in associazione ad assicurare un po’ di risposte virologiche sostenute (SVR)
in pazienti infetti cronicamente da epatite C.
Nonostante questi discreti successi terapeutici, la terapia con interferone si associa a
numerosi effetti avversi tanto da portare spesso alla sospensione del trattamento, specie nei
pazienti meno tolleranti. In questi anni inoltre è aumentato il numero di pazienti
potenzialmente trattabili, visto anche la relativa scarsità del trattamento nel ridurre il corso
della malattia.
L’efficacia del trattamento è migliorata leggermente fino all’anno 2010, grazie a regimi di
combinazione sempre meglio controllati con ribavirina, ma per vedere i veri risultati bisogna
aspettare l’arrivo degli studi di inibitori specifici di proteine virali.
La più grande limitazione per lo sviluppo di farmaci in grado di agire direttamente contro il
virus è stata l’assenza di un sistema di colture cellulari virali su cui testare le molecole di
interesse. Nonostante questo problematica, nel 1997 fu scoperto il primo replicone
subgenomico dell’HCV e sistemi per testare i primi DDA. Nel 2004 fu testate la sicurezza e
l’efficacia del primo inibitore della proteasi virale BILN2061 in uno studio di fase I. Solo 10
anni dopo ci troviamo di fronte alla possibilità di ottenere grandi risposte alla terapia
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utilizzando DDAs, addirittura in certi casi con regimi interferon free, limitando in molti casi
la tossicità.
Attualmente sono in fase di sviluppo clinico avanzato principalmente due tipologie di farmaci
antivirali diretti: gli inibitori delle NS3-4A proteasi bloccanti il processamento delle
poliproteine e gli inibitori della replicazione virali includente farmaci principalmente attivi
sulla RNA polimerasi RNA dipendente (NS5B) nucleotidici o non nucleotidici.
La figura 1 rappresenta quale è lo sviluppo previsto della terapia dei pazienti con infezione
cronica da HCV. I primi regimi che saranno da confrontare come efficacia terapeutica sono
basati su inibitori delle proteasi di seconda generazione quali simeprevir e faldaprivir o gli
inibitori della polimerasi di prima generazione quali il sofosbuvir. Questi regimi sono testati
principalmente contro il sottotipo più comune di infezione virale, il tipo 1, e sono attualmente
in fase II/III con prevista registrazione nel corso del 2014.
Il sofosbuvir è stato il primo farmaco inibitore delle polimerasi a raggiungere il mercato come
terapia di associazione ad interferone e ribavirina, o in alcuni pazienti meglio rispondenti in
regimi interferon-free.
Come la maggiore parte degli inibitori nucleotidici, mostra ottima attività contro tutti i
sottotipi di HCV e con una notevole barriera per l’eventuale formazione di resistenze.
Questo farmaco si è dimostrato sicuro e molto tollerato in un gruppo molto eterogeneo di
pazienti, e senza prevedibili rilevanti interazioni farmaco-farmaco (DDI). Queste qualità
rendono il sofosbuvir un farmaco dal potenziale immenso nella terapia dell’HCV,
specialmente per le possibilità di passare da regimi ad alto tasso di tossicità, a semplici e più
brevi regimi interferon-free.
Standard terapeutico attuale
Lo standard di terapia comunemente utilizzato tutt’ora è basato sulla combinazione di
interferone pegilato e ribavirina, con l’eventuale aggiunta in alcuni pazienti affetti dal tipo 1
di HCV di inibitori della proteasi con telaprevir e boceprevir. La triplice terapia garantisce
risposte in circa il 70% dei pazienti e soprattutto permette di ridurre in circa la metà dei
trattati la terapia a 24 settimane. La limitazione principale nell’utilizzo di triplice terapia
prevedente inibitori delle proteasi di prima generazione è la loro maggiore tossicità del
classico pegintro-ribavirana e la mancanza di risposte soddisfacenti nei pazienti
precedentemente non responsivi a regimi classici o con fibrosi avanzata e cirrosi. Anche
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l’eventuale scarsa tolleranza all’interferone o alla ribavirina, limita l’utilizzo di questi
farmaci.
Inoltre bisogna ricordare che questi inibitori sono approvati esclusivamente per virus del tipo
1, mentre i regimi Peg-IFNα e RBV sono ancora gli unici utilizzati per le 48 settimane di
terapia nei sottotipi 4,5 e 6 con SVR nel 60% dei casi. Nei pazienti affetti da virus di tipo 2 e
3, la terapia può essere ridotta a 24 settimane raggiungendo la SVR in anche l’80% dei casi.
Tasso di risposta virologica* dopo 12 settimane di trattamento
Sofosbuvir plus Ribavirin
Endpoint clinico
Placebo (n=71)
(n=207)
SVR complessiva
78% (161 su 207)
0% (0 su 68)
HCV Genotipo 2
93% (101 su 109)
0% (0 su 34)
HCV Genotipo 3
61% (60 su 98)
0% (0 su 37)
Pazienti che non hanno raggiunto SVR
Fallimento durante il trattamento
0% (0 su 207)
97% (69 su 71)
virologico
Recidive complessive **
20% (42 of 205)
0% (0 of 0)
Recidive per HCV Genotipo2**
5% (5 of 107)
0% (0 of 0)
Recidive, HCV Genotipo 3**
38% (37 of 98)
0% (0 of 0)
Altre cause***
2% (4 of 207)
3% (2 of 71)
Legenda: SVR=risposta virologica sostenuta ; HCV = virus dell'epatite C
* I tassi di risposta sono per i pazienti per i quali i risultati di RNA di HCV erano disponibili .
** Percentuale basata sul numero totale di pazienti con HCV RNA inferiore al limite di quantificazione ( 25
unità internazionali / ml) alla loro ultima valutazione sul trattamento.
*** Include i pazienti che non hanno raggiunto SVR e non soddisfano i criteri di fallimento virologico (per
esempio , perdita di followup ) .
Farmacologia del sofosbuvir
Il sofosbuvir è un analogo nucleotidico inibitore della proteina polimerasi NS5B virale,
agendo come falso substrato in grado di terminare la sintesi della catena di RNA una volta
incorporato. Chimicamente è un profarmaco della composto 2'-deossi-2'-fluoro-2'-Cmetiluridina monofosfato, che richiede due fosforilazione intracellulari per essere attivato
nella forma trifosfato biologicamente attiva. La sua efficacia è stata dimostrata ottimale alla
dose giornaliera di 400 mg, in grado di inibire la proliferazione di tutti i sottotipi virali.
Una grande comodità di questo farmaco è la possibilità di prenderlo sia a stomaco vuoto che
associato a cibi anche ricchi di proteine e lipidi, non interferendo significativamente con il
suo assorbimento. È assorbita senza essere modificata a livello intestinale nel corso delle
prime 3 ore successive all’assunzione, con un picco di concentrazione raggiunto solitamente
dopo circa 1 ora (range 0.5–3.0 h). Dopo l’assorbimento, può raggiungere tramite la vena
porta il fegato ad elevate concentrazioni ed essere eliminato rapidamente con una emivita
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inferiore ad 1 ora (range 0.48–0.75 h). L’effetto terapeutico è comunque più duraturo nel
tempo perché il metabolita attivo, il GS-331007, esibisce un’emivita più lunga (circa 7-12
ore) con un picco dopo circa 4 ore dalla somministrazione.
L’eliminazione è principalmente renale (76%) con una rapida clearance plasmatica, passando
il filtro renale visto le piccole dimensioni. Non è necessario aggiustamento di dose fino ad
una funzionalità renale con clearance >30 mL/min, richiedendo modificazione della dose in
pazienti con compromissione renale severa ed emodialisi.
Un potenziale vantaggio del sofosbuvir sta proprio nelle sue caratteristiche molecolari, non
essendo metabolizzato dai citocromi. Bisogna considerare che l’interferenza maggiore dei
farmaci nell’interazioni multiple sono al livello del CYP3A4. Uno studio recente ha
dimostrato anche che questo nucleotide non interagisce con il metabolismo della ciclosporina
e del tacrolimus, rendendo possibile un suo utilizzo anche in pazienti trattati con tali farmaci
per trapianto epatico od altre comorbidità.
Altri studi hanno mostrato la mancanza di interazioni cliniche significative quando associato
a metadone o a farmaci utilizzati in pazienti trattati per coinfezione HCV/HIV. I più studiati
sono stati gli inibitori nucleosidici come tenofovir ed entrivcitabina, non nucleosidici come
efavirenz e rilpivirina e gli inibitori della proteasi come darunavir e ritonavir.
Programma di sviluppo clinico del sofosbuvir
Studi clinici di fase II in pazienti con HCV di tipo 1: sofosbuvir in regimi interferon-free.
Sono state studiate numerose strategie cliniche per evitare l’utilizzo di interferone, associando
il sofosbuvir ad altri farmaci per trattamenti dalla durata complessiva di 8-24 settimane. Si
riconoscono 3 principali categorie di trattamenti:
Sofosbuvir più ribavirina
Sofosbuvir più un inibitore virale diretto (DAA)
Sofosbuvir più un DAA associati alla ribavirina
Risultati interessanti sono stati ottenuti nei pazienti affetti da HCV di tipo 1, anche se per ora
la casistica resta limitata dalla forte eterogeneità del gruppo trattato e soprattutto necessita di
un ulteriore follow-up per garantire la durata nel tempo delle risposte.
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Utilizzo di sofosbuvir in pazienti affetti da HCV di tipo 1 non precedentemente
trattati
Gli studi di riferimento per il trattamento con ribavirina e sofosbuvir in pazienti naive sono il
QUANTUM e l’ELECTRON dove il farmaco era dato per 12 settimane.
Complessivamente nei 50 pazienti trattati si è osservata una SVR12 del 56% ed 88%
rispettivamente. La risposta media di circa il 70% è stata dunque ottima considerando
l’assenza del concomitante utilizzo dell’interferone. Prolungare la terapia a 24 settimane non
ha aumentato la risposta sostenuta, come mostrato nei 35 pazienti che hanno seguito questo
regime negli studi QUANTUM e NIH SPARE. Queste risposte erano inaspettate, visto che
nel precedente studio clinico di fase III FUSION, arruolante pazienti infetti da HCV di tipo 2
e 3, l’estensione della terapia anche solo da 12 a 16 settimane migliorava significativamente
la SVR (da 56% a 73%).
Le risposte dell’associazione sofosbuvir-DAA migliorano di molto rispetto al regime con
RBV, non mostrando complessivamente grossa utilità di una triplice terapia.
Al momento non è ancora stabilita quale sia la migliore combinazione SOF+DAA e se sia più
utile un utilizzo di un inibitore non nucleosidico della polimerasi o un inibitore di NS5A o
della proteasi. Per questo è oltremodo interessante seguire lo sviluppo degli studi clinici
attualmente in corso.
Resta di fatto che i risultati di queste combinazioni risultano veramente eccezionali rispetto
ad i regimi attualmente proposti in clinica.
La combinazione di SOF con un altro analogo nucleotidico (GS-0938) per 12 settimane ha
dato risposte sostenute nell’88% dei 25 pazienti trattati. Non si sono notati anche in questo
caso miglioramenti di risposta prolungando il trattamento a 24 settimane.
Le SVR4 dopo 12 settimane di combinazione di SOF ed inibitori della NS5A (daclatasvir o
ledipasvir -GS-5885) sono state addirittura del 98% e 100% nei 41 e 19 pazienti attualmente
studiati. Forse l’utilizzo di questi regimi potrebbe essere anche accorciato a meno di 12
settimane, se si pensa che la combinazione SOF e ledipasvir da SVR nel 95% dei pazienti
trattati 8 settimane come mostrato nei 20 pazienti arruolati nel trial LONESTAR.
Sofosbuvir in pazienti precedentemente trattati per infezione da HCV di tipo 1
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In un sottogruppo di 10 pazienti precedentemente trattati con IFN-RBV arruolati nello studio
ELECTRON, la terapia con SOF+RBV ha dato risposte ottime in tutti i pazienti, ma
inaspettatamente la soppressione della viremia è stata temporanea in tutti tranne che uno.
Sostituendo la RBV con un DAA di nuova generazione il problema delle ricadute è stato
completamente superato, mostrando SVR superiore al 90% con regimi associati di 12
settimane. I farmaci testati insieme a SOF sono stati rispettivamente inibitori della NS5A
come ledipasvir e daclatasvir, inibitori della proteasi come simeprevir o inibitori non
nucleosidici della proteasi come GS-9669. Avere un pretrattamento non influisce su queste
combinazioni.
Lo studio AI444-404 ha valutato in 41 pazienti l’efficacia del regime daclatasvir+SOF in
pazienti precedentemente trattati con triplice terapia basata su inibitori della proteasi che
hanno presentato una ricaduta virologica. L’aggiunta di RBV (1000-1200 mg al giorno)
confrontata con placebo non ha migliorato le risposte della duplice terapia e soprattutto si
sono notati livelli elevatissimi di SVR, mai ottenuti in precedenza su pazienti in recidiva.
Anche in questo caso il prolungamento del regime a 24 settimane, non ha dato benefici
rispetto alle più testate 12 settimane.
Studi di fase II in pazienti infetti da HCV di pipo non 1
Lo studio di fase IIa ELECTRON ha valutato l’effettiva utilità di aggiungere il PEG-IFN ad
un trattamento di 12 settimane con SOF e RBV. Per meglio mostrare l’eventuale efficacia
dell’interferone sono stati testati 4 gruppi di pazienti infetti con HCV di tipo 2 e 3, trattati
rispettivamente con PEG-IFN per 12, 8, 4 o 0 settimane. In tutti questi casi l’aggiunta di IFN
non ha aumentato le risposte, ma soltanto peggiorato la tollerabilità del regime. L’efficacia di
un regime di 12 settimane basato esclusivamente sul SOF è stata testata con ottime risposte
virologiche, mostrando livelli di RNA abbattuti in tutti i pazienti trattati. L’assenza però
dell’associazione con RBV ha reso più frequenti le ricadute, con circa il 40% dei pazienti non
in grado di mantenere la SVR. Per questo attualmente non viene testato SOF in regimi di
monoterapia.
Studi di fase II con regimi contenenti sofosbuvir ed peg-IFN in pazienti affetti da HCV di
tipo 1, 4 e 6
Gli studi PROTON ed ATOMIC hanno mostrato l’efficacia della triplice terapia basata su
SOF in pazienti di HCV di tipo 1.
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Nello studio PROTON l’aggiunta di 400 mg al giorno di SOF per 12 settimane ha dato
risposte SVR nel 91% dei pazienti rispetto al 40% del placebo. Questi valori erano
indipendenti dal prolungamento della terapia con IFN e RBV di 12 o 36 settimane.
Lo studio ATOMIC è stato fondamentale per chiarire la migliore durate del trattamento con
SOF e quanto fosse necessario avere un regime basato su più farmaci da somministrare
contemporaneamente. In 332 pazienti mai trattati ed affetti da HCV di tipo 1, 4 e 6 senza
cirrosi, la dose di 400 mg di SOF associata a Peg-IFNα e RBV per 12, ha dato risultati
paragonabili ad un prolungamento della terapia per 24 settimane. Le SVR sono state
complessivamente tra il 90% e 94% in tutti i gruppi. Proprio il regime di 12 settimane è stato
scelto per il successivo studio di fase III NEUTRINO.
Risultati dello studio di fase III NEUTRINO: triplice terapia in pazienti affetti da HCV di
tipo1, 4, 5 e 6.
Lo studio NEUTRINO ha arruolato 327 pazienti mai trattati precedentemente ed affetti da
HCV di tipo 1, 4, 5 e 6. È stato utilizzato un singolo braccio di trattamento open-label basato
su 400 mg di SOF, 1000-1200 mg di RBV giornalieri più 180 μg di PEG-IFN a settimana da
confrontare con la serie storica di pazienti trattati con regime duplice in assenza di SOF per
48 settimane. La SVR totale mostrata è stata del 90% mediamente rispetto alla casistica
storica che prevedeva un 60% di SVR. Inoltre dei 55 pazienti presentanti cirrosi in fase
iniziale, ben l’80% è riuscito ad avere una SVR. La distribuzione dei pazienti prevedeva
l’89% con HCV di tipo 1, e l’11% con gli altri genotipi, che complessivamente hanno anche
risposto molto meglio alla terapia. Anche se sono stati pochi pazienti, i genotipi 5 e 6 hanno
mostrato risposte complete. Altre variabili cliniche hanno influito solo marginalmente sulla
risposta, rendendo ancora più interessante la nuova molecola. Migliori SVR si sono notate in
pazienti a bassa carica virale, genotipo di IL28B CC favorevole alla risposta all’interferone e
nei pazienti affetti dal subtipo 1a rispetto all’1b.
SOF è stato molto ben tollerato dai pazienti, con un tasso di interruzione della terapia del 2%,
inferiore a quello della serie storica basato sul duplice regime IFN-RBV. Sono stati bassi gli
effetti avversi anche nel sottogruppo di pazienti trattati con cirrosi, dove solo 1 ha interrotto
la terapia per scarsa tollerabilità. In effetti il minore numero di eventi avversi rispetto alla
serie storica genera qualche dubbio sulla validità della coorte arruolata,
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Gli studi di fase III FISSION, FUSION e POSITRON: sofosbuvir in regimi interferon-free in
pazienti con HCV di tipo 2 e 3
La combinazione di SOF e RBV aveva dato risposte ottimali negli studi di fase II creando le
basi per studi di fase III ideati per valutare regimi di 12 settimane in pazienti con infezioni di
HCV di tipo 2 e 3.
Lo studio FISSION ha testato l’efficacia della duplice terapia SOF e RBV date per 12
setitmane rispetto al controllo trattato con Peg-IFNα più RBV per 24 settimane. Tutti i
pazienti arruolati presentavano il genotipo 2 o 3 e sono stati rispettivamente 256 e 243 per
gruppo. Il genotipo 3 era presente nel 72% dei pazienti ed il 21% aveva la cirrosi. La noninferiorità è stata dimostrata con un tasso di SVR del 67% in entrambi i gruppi, rendendo più
appetibile un regime totalmente orale.
Notevole differenza di risposta SVR al SOF è stata notata tra i tipi 3 e 2 (rispettivamente 56%
e 97%). Anche i pazienti con cirrosi hanno mostrato minori risposte (47%), ma comunque
superiore a quelle del regime di confronto (38%). Grandissime differenze si sono osservate
sul numero di effetti avversi, rendendo la terapia orale decisamente più tollerata.
Lo studio FUSION è stato disegnato per valutare l’efficacia di una terapia di 16 settimane
con SOF più RBV rispetto ad un trattamento breve di 12 settimane. In questo caso i pazienti
arruolati erano tutti precedentemente trattati anche con IFN, con ricaduta nel 75% dei casi o
non risposta nel restante 25%. I genotipi considerati erano come nello studio FISSION solo il
2 ed il 3. La randomizzazione 1:1 di 103 pazienti al gruppo di 12 settimane di terapia e 98 a
quello di 16 settimane ha mostrato differenze significative (p<0,001) con SVR
rispettivamente del 50% e 73%. Entrambi i risultati sono stati migliori delle risposte aspettate
con la duplice terapia con Peg-IFNα e RBV, mostranti solitamente una SVR del 25%. Anche
in questo caso i meno responsivi al trattamento sono stati i pazienti affetti da genotipo di tipo
3 e presentanti cirrosi. In tutti i sottogruppi la terapia prolungata si θ mostrata piω efficace.
Nello studio POSITRON si θ valutata l’efficacia del trattamento di 12 settimane con SOF e
RBV rispetto a SOF e placebo in 278 pazienti con HCV del genotipo 2 e 3 non eleggibili per
la terapia basata su interferone per controindicazioni, eventi avversi o non volontΰ di
riceverlo per effetti collaterali. La randomizzazione dei gruppi θ stata di 3:1 per la
somministrazione di sofosbuvir 400 mg. Le risposte sono state del 78% nei pazienti con
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duplice combinazione e nulle nel gruppo col singolo farmaco. Anche in questo caso sono
risultate migliori le SVR nel gruppo con genotipo 2 rispetto al 3 (93% vs 61%) e nei pazienti
non presentanti cirrosi. Nel sottogruppo di pazienti con genotipo 3 e cirrosi la risposta θ stata
soltanto del 21%, indicando la necessitΰ di cercare altri regimi piω efficaci.
Resistenza al sofosbuvir
Il migliore modo per valutare la resistenza al sofosbuvir delle differenti varianti di HCV è il
sistema in vitro utilizzante repliconi virali. In questo modello una mutazione specifica della
polimerasi S282T aumentava di 9,5 volte la EC 50 necessaria per l’inibizione. Modelli di
infezione utilizzanti i tipi virali 1a, 1b e 2 hanno mostrato lo sviluppo di tale mutazione ed
anche di un’altra variante I434M, associata però a meno cambiamenti sull’attività
farmacologica.
La mutazione S282T è stata trovata in uno dei quattro pazienti dello studio ELECTRON che
aveva mostrato ricaduta dopo la terapia di 12 settimane con sofosbuvir. La mutazione non era
presente prima dell’inizio della terapia, mostrando la pressione selettiva favorevole svolta dal
farmaco.
Non sono state trovate mutazioni caratteristiche che proteggano dalla terapia duplice con
RBV o DAA. Non si sono viste nemmeno ricomparse improvvise di livelli virali di RNA
plasmatico nei pazienti trattati e soprattutto le risposte sono state spesso molto rapide nella
loro insorgenza.
In uno studio di combinazione sofosbuvir con l’inibitore delle proteasi simeprevir, si è visto
comparire la ricaduta in un paziente con mutazione Q80K associata però alla terapia con
simeprevir. Questa mutazione era presente pretrattamento e le eventuali mutazioni comparse
in corso di terapia di altri pazienti trattati e ricaduti (D168E e I170T) sono compatibili con la
resistenza al simeprevir. Non sono mai insorte resistenze secondarie all’inibitore della
polimerasi in corso di duplice terapia utilizzata per 12 o più settimane.
La barriera genetica della resistenza alla terapia con sofosbuvir è estremamente alta. Questo è
favorito dal fatto che la mutazione resistente al farmaco S282T è sfavorita notevolmente
evolutivamente perché rallenta la replicazione virale del 90% rispetto ai genotipi non mutati
di tipo 1a e 1b. Tale mutazione coinvolge direttamente la RdR polimerasi. Altro vantaggio è
la velocissima risposta alla terapia con SOF, che abbatte la viremia in 4 settimane massimo,
diminuendo drasticamente la possibilità che si generino nuovi cloni replicativi resistenti.
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Predicibilità della risposta virologica e dell’eventuale ricaduta
Tutti i fallimenti terapeutici derivano da una ricaduta successiva alla risposta virologica
iniziale al sofosbuvir, differentemente dagli altri farmaci che hanno meno risposte
terapeutiche e comparsi di resistenze genetiche più frequenti. Non si sa ancora perché il virus
ricompaia in circolo anche dopo avere avuto risposte complete e rapide in alcuni pazienti, ma
le conoscenze sviluppate sul virus dell’HIV potrebbero servire da modello per ampliare le
conoscenza sulla terapia di HCV.
Un livello di ricadute superiore al 10% è stato notato solo nei pazienti trattati singolarmente
con SOF e RBV e non in quelli aventi regimi a triplice terapia (con PEG-IFN o DAA). I più
ostici come mostrato dagli studi clinici sono le infezioni da tipo 1 e 3 o i pazienti con cirrosi
in stadi inziali.
Ci sono indizi sperimentali che la velocità della risposta cinetica virale nei primi giorni
differisca nei pazienti che risponderanno meglio alla terapia rispetto a quello con rischio di
ricaduta.
Non si sa però ancora definire perché la risposta al SOF sia inferiore in pazienti
precedentemente trattati, visto l’alta efficacia ed l’altissima barra richiesta per avere
resistenze genetiche alla terapia.
Questo potrebbe dipendere dalla scarsità di risposte alla RBV del virus già precedentemente
trattato, rendendo poco utile una duplice terapia con SOF e RBV. La terapia singola con
sofosbuvir è infatti praticamente inutile per ottenere risposte durature ed una resistenza alla
RBV aumenterebbe di moltissimo il rischio di inefficacia terapeutica.
Anche alcune varianti genetiche dei geni coinvolti nella immunità innata possono influire
nella risposta alla terapia, ma sembrano più che altro associate al trattamento con IFN (come
nel caso dei polimorfismi della IL28B)
La RBV agisce come soppressore della trascrizione di molti gene indotti dalla terapia con
IFN, spiegando l’efficacia di questa combinazione in un gran numero di pazienti. Questo
effetto genetico-epigenetico della RBV è probabilmente alla base anche della sua efficace
associazione con SOF nel potenziare la risposta antivirale e riattivare il sistema immunitario
innato. Inoltre la modulazione immunitaria delle terapie senza IFN, basate su DAA e RBV,
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può essere dipendente direttamente dalla riduzione della replicazione virale e dalla successiva
prevenzione dalle ricadute.
Il test precoce dei livelli di HCV RNA valutati alla 4 settimana dopo la fine del trattamento,
sono altamente predittivi della SVR come mostrato negli studi QUANTUM ed ELECTRON.
Infatti i pazienti con risposta precoce e livelli di RNA non identificabili alla quarta settimana
post terapia sono associati a risposte superiori al 95% negli studi sopra citati.
Profilo di sicurezza dei regimi contenenti sofosbuvir
Il SOF si è dimostrato generalmente bene tollerato in associazione con la “core therapy”
dell’HCV basata su IFN e RBV, senza significativi aumenti di effetti collaterali.
La sua tollerabilità è stata superiore nei regimi Peg-IFNα free, mostrando in metanalisi di
terapie esclusivamente orali con SOF livelli di eventi avversi severi (SAE) in solo 4-6% dei
pazienti e singolarmente probabilmente mai dovuti direttamente al SOF.
Su 331 pazienti trattati con SOF in monoterapia o in combinazione con RBV o ledipasvir,
solo l’1,2% ha presentato eventi avversi o anormalità del profilo ematico.
Nello studio COSMOS di fase II (52 pazienti) sono stati notati aumenti di grado 3-4 delle
amilasi e delle lipasi nel 10% dei pazienti trattati con triplice terapia contenente anche
simeprevir. Solo il 3% dei pazienti trattati con SOF e simeprevir senza concomitante RBV ha
mostrato queste modifiche del profilo ematico. C’è da considerare che in tutti casi sono
risultate transitorie e non associate a segni clinici di pancreatite acuta.
La tollerabilità è stata dimostrata anche in pazienti presentanti cirrosi compensata negli studi
di fase III e non si sono notati progressioni della patologia dovute al farmaco.
Sofosbuvir: effetti avversi
La valutazione delle reazioni avverse di basa sui dati emersi dai 5 studi clinici di fase 3. La
percentuale di soggetti che ha interrotto definitivamente il trattamento a causa di reazioni
avverse è stata di 1,4% per i pazienti trattati con placebo, 0,5% per i soggetti che hanno
ricevuto la terapia di combinazione sofosbuvir + ribavirina per 12 settimane, 0% per i
soggetti che hanno ricevuto sofosbuvir + ribavirina per 16 settimane, 11,1% per i soggetti in
terapia con peginterferone alfa + ribavirina per 24 settimane e 2,4% per i pazienti che hanno
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ricevuto la triplice combinazione sofosbuvir + peginterferone alfa + ribavirina per 12
settimane.
Sofosbuvir è stato principalmente studiato in associazione con ribavirina, con o senza
peginterferone alfa. In questo contesto non sono state riscontrate reazioni avverse al farmaco
specifiche per sofosbuvir. Le reazioni avverse (≥ 20 %) segnalate in soggetti che hanno
ricevuto sofosbuvir + ribavirina sono state principalmente affaticamento e mal di testa . Gli
eventi avversi più comuni (≥ 20 %) per sofosbuvir + peginterferone alfa + ribavirina sono
stati affaticamento , cefalea , nausea , insonnia e anemia .
La tabella seguente riporta gli effetti avversi emersi dagli studi clinici e osservati nei soggetti
trattati.
Regime libero da interferone
Fatica
Mal di testa
Nausea
Insonnia
Prurito
Anemia
Astenia
Rash cutanei
Riduzione
dell’ appetito
Brividi
Sindrome
similinfluenzale
Febbre
Diarrea
Neutropenia
Mialgia
Irritabilità
Regime con interferone
Sofosbuvir +
Peg-IFN alfa
Peg-IFN alfa +
+ RBVb
RBVa
24 settimane
12 settimane
N=243
N=327
55%
59%
44%
36%
29%
34%
29%
25%
17%
17%
12%
21%
3%
5%
18%
18%
Placebo
12
settimane
Sofosbuvir +
RBVa
12 settimane
Sofosbuvir +
RBVa
24 settimane
N=71
24%
20%
18%
4%
8%
0%
3%
8%
N=650
38%
24%
22%
15%
11%
10%
6%
8%
N=250
30%
30%
13%
16%
27%
6%
21%
9%
10%
6%
6%
18%
18%
1%
2%
2%
18%
17%
3%
3%
6%
18%
16%
0%
6%
0%
0%
1%
4%
9%
<1%
6%
10%
4%
12%
<1%
9%
10%
14%
17%
12%
16%
16%
18%
12%
17%
14%
13%
a. Soggetti che ricevono RBV in base al peso (1000 mg al giorno per peso < 75 kg or 1200
mg per peso ≥ 75 kg).
b. Soggetti che ricevono 800 mg di RBV al giorno indipendentemente dal peso.
Le reazioni avverse meno comuni riportate negli studi clinici (<1%) sono:
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Disturbi psichiatrici:
Depressione grave (soprattutto in soggetti con storia di malattia psichiatrica);
Pensiero di morte, suicidio con un incidenza dell’1% nei soggetti trattati;
Irritabilità: si è verificata nel 10% dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in
associazione con ribavirina (n = 650), nel 10% dei pazienti trattati per 24 settimane con
sofosbuvir e ribavirina (n = 250), e nel’ 1% dei pazienti trattati per 12 settimane con placebo
(n = 71). Tra i pazienti trattati con il regime a base di interferone, l’ irritabilità si è sviluppata
nel 13% dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina
1000 mg o 1200 mg / die e peginterferone alfa (n = 327) e nel 16% dei pazienti trattati per 24
settimane con sofosbuvir / peginterferone alfa/ribavirina a dosaggio fisso di 800 mg / die (n =
243).
Effetti ematologici:
Pancitopenia: riscontrata in meno dell'1 % dei pazienti trattati negli studi di fase 3. Tale
effetto è particolarmente evidente nei soggetti che assumono contemporaneamente
peginterferone;
Anemia (incidenza dall’ 1% al 23%): si è verificata nel 10% dei pazienti trattati per 12
settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina, nel 6% dei pazienti trattati per 24
settimane con sofosbuvir e ribavirina, e 0% dei pazienti trattati per 12 settimane con placebo.
Questo effetto si presenta anche nel 21% dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir
in associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die e peginterferone alfa e nel 12% dei
pazienti trattati per 24 settimane con sofosbuvir/peginterferone alfa/ ribavirina a dosaggio
fisso di 800 mg / die.
Riduzione dell’emoglobina: valori di emoglobina inferiori a 10 g/dl si sono verificati nell'8%
dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina, nel 6% dei
pazienti trattati per 24 settimane. Valori inferiori a 8,5 g/dL si sono sviluppati rispettivamente
nell’ 1 % e in meno dell'1% dei pazienti trattati con sofosbuvir e ribavirina per 12 e 24
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settimane . Tra i pazienti trattati con regimi terapeutici a base di interferone , valori inferiori a
10 g /dL si sono sviluppati nel 23 % dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in
associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg/die e peginterferone alfa e nel 14% dei
pazienti trattati per 24 settimane con sofosbuvir/peginterferone alfa / ribavirina a dosaggio
fisso di 800 mg / die.
Neutropenia ( Incidenza dal 12 % al 17 %): si sviluppa nel 17% dei pazienti trattati per 12
settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die e
peginterferone
alfa,
nel
12
%
dei
pazienti
trattati
per
24
settimane
con
sofosbuvir/peginterferone alfa / ribavirina a dosaggio fisso di 800 mg / die . Negli studi di
fase 3, il valore dei neutrofili varia da 0,5 X 109/L a meno di 0,75 X 109/L nel 15% dei
pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina 1000 mg o
1200 mg / die e peginterferone alfa, nell 12 % dei pazienti trattati per 24 settimane con
sofosbuvir / peginterferone alfa / ribavirina a dosaggio fisso di 800 mg / die e nell’ 1 % dei
pazienti trattati per 12 settimane con placebo. La conta dei neutrofili scende al di sotto di 0,5
X 109/L nel 5 % dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir /peginterferone alfa
/ribavirina, e nel 2 % dei pazienti trattati per 24 settimane.
La tabella seguente riporta le modificazioni dei parametri ematologici nei vari studi di fase 3.
Regime libero da interferone
Regime con interferone
Placebo
Sofosbuvir +
Sofosbuvir +
Peg-IFN +
Sofosbuvir + PegParametri
per
RBVa 12
RBVa 24
RBVb 24
IFN + RBVa 12
12
ematologici
settimane
settimane
settimane
settimane
settimane
N=71
N=650
N=250
N=243
N=327
Emoglobina (g/dL)
< 10
0
8%
6%
14%
23%
< 8.5
0
1%
<1%
2%
2%
Neutrofili (x109/L)
≥0.5 - < 0.75
1%
<1%
0
12%
15%
< 0.5
0
<1%
0
2%
5%
Piastrine (x109/L)
≥25 - < 50
3%
<1%
1%
7%
<1%
< 25
0
0
0
0
0
a. Soggetti che ricevono RBV in base al peso (1000 mg al giorno per peso < 75 kg or 1200 mg per peso ≥ 75
kg).
b. Soggetti che ricevono 800 mg di RBV al giorno indipendentemente dal peso.
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Effetti epatici:
Aumento della bilirubina: (l’incidenza varia dall’1% al 3%) sulla base dei dati emersi dagli
studi di fase 3, valori di bilirubina nel sangue maggiori di 2,5 mg/dL si sono verificati,
rispettivamente, nel 3% e nel
4% dei pazienti trattati per 12 e 24 settimane, con
sofosbuvir/ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die. I valori hanno raggiunto un picco durante le
prime settimane di trattamento e ritornati ai livelli basali entro 4 settimane dalla sospensione.
Questi aumenti non sono stati associati ad aumenti delle transaminasi.
Aumento dei livelli sierici di lipasi: (l’ Incidenza varia dall’1 % al 2 %) aumenti della lipasi
di oltre tre volte il valore superiore alla norma si sono verificati rispettivamente nel 2 % e nel
3 % dei pazienti trattati per 12 e 24 settimane con sofosbuvir/ribavirina 1000 mg o 1200 mg
/die . Tra i pazienti trattati con regime terapeutico a base di interferone, un aumento delle
lipasi si è osservato in meno dell'1 % dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in
associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die e peginterferone alfa e nel 2% dei
pazienti trattati per 24 settimane con sofosbuvir /peginterferone alfa/ ribavirina a dosaggio
fisso di 800 mg/die.
Effetti muscolo scheletrici:
Aumento del livello di creatin-chinasi: (l’ Incidenza varia dall’ 1 % al 2 %) negli studi di fase
3 il valore della creatina chinasi (CK) sierica era maggiore di dieci volte il limite superiore
alla norma nel 1 % dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in associazione con
ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die e peginterferone alfa e in meno dell'1% di pazienti trattati
per 24 settimane con sofosbuvir / peginterferone alfa / ribavirina a dosaggio fisso di 800 mg /
die . Aumento di CK si è anche verificato nel 2 % dei pazienti trattati per 12 settimane con
sofosbuvir in associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die.
Mialgia (Incidenza dal 6 % al 14 %): si è verificata nel 6% dei pazienti trattati per 12
settimane con sofosbuvir in associazione con ribavirina, nel 9 % dei pazienti trattati per 24
settimane. Tra i pazienti trattati con regime terapeutico a base di interferone, la mialgia si è
sviluppata nel 14% dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in associazione con
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ribavirina 1000 mg o 1200 mg / die e peginterferone alfa e nel 16% dei pazienti trattati per 24
settimane con sofosbuvir / peginterferone alfa / ribavirina a dosaggio fisso di 800 mg / die.
Effetti dermatologici:
Prurito: incidenza che varia dal 17% al 27%;
Rash cutanei: Verificati nel 18% dei pazienti trattati per 12 settimane con sofosbuvir in
associazione con ribavirina 1000 mg o 1200 mg/die e peginterferone alfa, nel 18% dei
pazienti trattati per 24 settimane con sofosbuvir/peginterferone alfa/ribavirina a dosaggio
fisso di 800 mg/die, e nell'8% dei pazienti trattati per 12 settimane con placebo.
Effetti gastrointestinali:
Aumento dell’appetito: incidenza del 18%;
Nausea: verificata nel 13% e 23% dei pazienti;
Diarrea: presente nel 12%.
Effetti neurologici:
Astenia: incidenza che varia dal 5% al 21%;
Mal di testa: incidenza del 24% al 44%;
Insonnia: incidenza dal 15% al 29%.
Tabella riassuntiva delle reazioni avverse:
Sono elencate per sistemi ed organi ed in base alla frequenza. Le frequenze sono definite
come segue: molto comune (≥1/10), comune (≥1/100, <1/10), non comune (≥1/1.000,
<1/100), raro (≥1/10.000, <1/1.000) o molto raro (<1/10.000):
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Frequenza
SOFa + RBVb
Infezioni ed infestazioni:
Comune
Rinofaringite
Patologie del sistema emolinfopoietico:
Molto comune
riduzione dell’emoglobina
Comune
Anemia
Disturbi del metabolismo e della nutrizione:
Molto comune
riduzione dell’appetito
Comune
riduzione del peso corporeo
Disturbi psichiatrici:
Molto comune
Insonnia
Comune
Depressione
Patologie del sistema nervoso:
Molto comune
Cefalea
Comune
disturbo dell’attenzione
Patologie dell’occhio:
Comune
offuscamento della vista
Patologie respiratorie, toraciche e mediastiniche:
Molto comune
dispnea, tosse
Comune
dispnea, dispnea da sforzo, tosse
Patologie gastrointestinali:
Molto comune
Nausea
disturbi addominali, stipsi,
Comune
dispepsia
Patologie epatobiliari:
aumento della bilirubina nel
Molto comune
sangue
Patologie della cute e del tessuto sottocutaneo:
Molto comune
eruzione cutanea, prurito
Comune
alopecia, cute secca, prurito
Patologie del sistema muscoloscheletrico e del tessuto connettivo:
Molto comune
artralgia, mialgia
Comune
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SOF + PEGc + RBV
anemia, neutropenia, linfocitopenia,
piastrinopenia
Insonnia
depressione, ansia, agitazione
capogiri, cefalea
emicrania, disturbi della
memoria, disturbo
dell’attenzione
dispnea da sforzo
diarrea, nausea, vomito
stipsi, bocca secca, reflussog.e.
aumento della bilirubina nel
sangue
alopecia, cute secca
artralgia, dorsalgia, spasmi muscolari, mialgia
dorsalgia, spasmi
muscolari
Patologie sistemiche e condizioni relative alla sede di somministrazione:
Molto comune
affaticamento, irritabilità
Comune
piressia, astenia
brividi, affaticamento,
malattia
simil-influenzale,
irritabilità, dolore,
febbre
dolore toracico,
astenia
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Sofosbuvir nei pazienti a più alto rischio di ricaduta
Il SOF è un ottimo candidato per fare da terapia di base per associazioni di farmaci per il
trattamento della HCV grazie alla sua grande efficacia, ma soprattutto per la scarsità di
interazioni farmaco-farmaco con tutte le altre molecole attualmente in uso. Non interferisce
con il metabolismo o la farmacocinetica dell’IFN e della RBV, inoltre non essendo
metabolizzato da CYP, può essere potenzialmente associato ad inibitori delle proteasi senza
eccessivi controlli. I pazienti coinfetti da HIV-HCV, con cirrosi in stadi più avanzati e
successivi al trapianto epatico, risultano i migliori candidati per l’utilizzo di questo farmaco
in associazione.
Sono in corso studi pilota che valutano l’efficacia di SOF in trapiantati e in pazienti in attesa
di trapianto, specialmente per valutarne la tolleranza e l’efficacia (NCT01687270 e
NCT01779518). Risultati iniziali incoraggianti su una possibile associazione di DAA nella
terapia di questi pazienti sono state notate nello studio utilizzante daclatasvir e SOF in un
paziente con epatite C ricorrente post trapianto.
Sempre più studi stanno valutando la possibilità di curare pazienti presentanti cirrosi in
differenti stadi, visto la loro scarsa risposta alla terapia comunemente usata e la scarsa
tollerabilità. È difficile intuire quale sarà il regime ottimale come durata e qualità dei farmaci
utilizzati, ma sicuramente i nuovi DAAs stanno aprendo la via per un futuro di combinazioni
per trattare anche questo tipo di pazienti. Anche in questo caso non sarà banale notare le
differenze di risposta tra i vari genotipi, visto che il tipo 1 e 3 rispondono molto meno del tipo
2. Oltretutto bisognerà valutare se in questi pazienti la terapia sarà da estendere ben oltre le
12 settimane fatte nei pazienti presentanti risposte ottimali per le minori condizioni di rischio.
Ricordiamo che questi pazienti sono quelli che più facilmente trarrebbero beneficio da una
terapia IFN-free.
Lo studio valutante la terapia con sofosbuvir e RBV in pazienti coinfettati HCV/HIV è il
PHOTON (NCT01783678). In questo trial verrà valutata l’efficacia della terapia di 12
settimane in pazienti infetti dal genotipo 2 e di 24 settimane in caso degli altri genotipi.
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Tabella riassuntiva degli studi di fase III su sofosbuvir
NEUTRINO
genotipo 1,4,5,6 naive al trattamento
SOF+ RBV + peg- INF per 12 settimane
90% SVR
FISSION
genotipo 2,3 naive al trattamento
SOF+ RBV per 12 sett. 67% SVR
Peg-INF+RBV per 24 sett. 67% SVR
POSITRON
genotipo 2,3, intolleranti, non idonei o non disposti ad assumere IFN
SOF + RBV per 12 sett. 78% SVR
Placebo per 12 sett. 0% SVR
FUSION
genotipo 2,3 precedentemente trattati
SOF + RBV per 16 sett.
73% SVR
Futuri sviluppi clinici e commerciali
L’approvazione del sofosbuvir deve essere vista come il primo grande passo verso il mondo
nuovo delle terapie antivirali specifiche ed interferon-free per una patologia considerata
molto difficile da guarire come l’epatite C.
Per la prima volta si ha a disposizione un farmaco DAA in grado di coprire come efficacia
tutti i genotipi e mostrare livelli risposte elevati in praticamente tutti i pazienti anche grazie
alle sue elevate concentrazioni intraepatiche raggiunte. Non si sono osservate ricadute virali
come conseguenza di resistenze quando dato come monoterapia. L’eccellente profilo di
sicurezza e la mancanza di significanti interazioni farmacologiche permette un largo utilizzo
nei pazienti più difficili da trattare con coinfezioni, cirrosi e post-trapianto epatico.
Per le infezioni di HCV di tipo 1, 4, 5 e 6 la triplice terapia con sofosbuvir più PEG-RBV
data a dosaggio fisso di solo 12 settimane con risposte di 90% senza necessita di modificare
le dosi in base alla risposta. Nonostante questo tipo di regimi terapeutici, l’interferon può
essere considerato come una piccolissima componente dello sviluppo farmacologico della
terapia con sofosbuvir visto che regimi interferon-free saranno presto approvati per le
infezioni di tipo 1.
Per i tipi 2 e 3 sono già approvati regimi interferon-free basati su sofosbuvir e ribavirina che
portano a risposte paragonabili ad i vecchi schemi, ma molto meglio tollerati. Sono bene 3
differenti studi di fase III a valutare questo schema terapeutico.
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Rimangono ancora numerosi interrogativi sul come ottimizzare le terapie basate su
sofosbuvir, specie nei pazienti che ricadono dopo una iniziale rapida risposta. Studi futuri
valuteranno quale sia la durata migliore degli studi di combinazione per ottenere risposte
durature, se la somministrazione di ribavirina dei regimi attuali è ottimale e se sono
necessarie differenti combinazioni di DAAs per velocizzare le risposte e minimizzare i rischi
di ricaduta.
Per i pazienti infetti da HCV tipo 2 la terapia con sofosbuvir e RBV per 12 settimane
diventerà presto il regime di riferimento, mentre per il tipo 3 ed 1 od in pazienti con cirrosi,
dove si hanno rischi maggiori di ricaduta, sono necessari studi più approfonditi valutanti
regimi personalizzati alle esigenze cliniche.
L’approccio più semplice concettualmente potrebbe essere prolungare la terapia a 16 o 24
settimane per il genotipo di tipo 3. Sono attualmente in corso studi a riguardo (European
Valence Study (GS-US-34–0133)).
L’alternativa è di testare regimi di combinazione ma con una durata inferiore come una
triplice terapia o l’associazione a DAA secondari come l’inibitore dell’ NS5A ledipasvir o
l’inibitore non nucleotidico GS-9669 in combinazione con sofosbuvir (NCT01260350). Tali
regimi hanno ottime risposte anche con 8-12 settimane di trattamento.
L’approccio terapeutico più promettente per i pazienti affetti da HCV tipo 1 è la
combinazione di sofosbuvir con un inibitore virale diretto come ledipasvir (GS-5885) testato
in tre differenti studi di fase III (ION).
L’ION-1 valuta l’utilizzo in singola dose giornaliera di sofosbuvir più ledipasvir più
eventuale RBV per 12-24 settimane in 800 pazienti ancora non trattati e con genotipo 1.
L’ION-2 valuta l’efficacia dei regimi precedentemente citati in 400 pazienti però già trattati e
sempre con genotipo 1 e con fallimento della triplice terapia basata su inibitori delle proteasi.
L’ION-3 valuta la terapia di 8-12 settimane con regime duplice o triplice (SOF+LED+RBV)
in 60 pazienti precedentemente non trattati e non cirrotici (NCT01851330).
Complessivamente un regime di circa 12 settimane basato sul sofosbuvir, farà da scheletro
per la terapia delle forme di epatite C più comuni. In base al virus infettante si potrà scegliere
se aggiungere ribavirina o un altro inibitore diretto antivirale, massimizzando le risposte e
diminuendo le ricadute. Siamo però ancora lontani da una terapia personalizzata, per la
mancanza di dati estesi sull’utilizzo di questo nuovo farmaco.
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Nonostante questi dati bisogna stare attenti che il numero di pazienti difficili da trattare,
specialmente con cirrosi, curati con questi regimi sono inevitabilmente pochi e non arruolati
in trial clinici perché presentanti spesso criteri di esclusione. La migliore palestra per testare
l’efficacia clinica di questi farmaci saranno gli studi di farmacovigilanza post approvazione.
Bisogna ricordare che non è tutto oro quello che luccica, ed anche farmaci estremamente
efficaci e mostratisi sicuri in trial clinici, sono stati poi rimossi dal commercio per lo sviluppo
di effetti collaterali non aspettati o lo sviluppo di resistenze.
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4. Analisi dei competitors di sofosbuvir e del mercato delle terapia contro
l’HCV
L’analisi diretta dei competitori è di primaria importanza nelle industrie concentrate sullo
sviluppo di un prodotto altamente innovativo come nel caso della Gilead.
Non è dunque possibile formulare una strategia di sviluppo scientifico, clinico e commerciale
di un farmaco senza considerare tutti i possibili competitors ad ognuno di questi livelli. Più
ovviamente un’industria vanta di un mercato diffuso a livello globale, con linee di prodotti
differenti e diretti a diverse problematiche sanitarie, meno difficoltosa sarà l’approccio di
analisi diretta, in quanto diverse linee di prodotto possono compensare le perdite momentanee
di altri prodotti. Questo è molto evidente quando una industria farmaceutica od una biotech
sono alla ricerca di massimizzare i loro rendimenti proteggendo i brevetti dei loro prodotti,
cercando di prolungarne il più possibile la durata e soprattutto limitare il mercato di prodotti
competitor con uguale nicchia terapeutica.
L’analisi dei competitors è dunque alla base della formulazione delle business strategy che
guida lo sviluppo di ogni singolo farmaco, partendo in molti casi già dalla fase preclinica.
Con l’analisi dei competitors si vogliono ottenere importanti informazioni sulla loro natura e
dunque la natura del mercato globale terapeutico/distributivo relativo a quel prodotto, ed
informazioni aggiuntive per predire il futuro comportamento commerciale di una determinata
classe di farmaci o dispositivi medicali.
Lo scopo primario dell’analisi dei competitor è valutare:
•
Quali sono i competitors diretti nello sviluppo di un determinato prodotto
•
Quali sono le strategie utilizzate dai competitors
•
Come i competitors posso reagire alla presenza del prodotto in via di sviluppo
•
Come il comportamento dei competitors possa essere utilizzato a proprio vantaggio
nello sviluppare un nuovo prodotto
Nel 1980 Micheal Porter, considerato come uno dei massimi sviluppatori delle teorie sulle
strategie di mercato, ha ideato una cornice concettuale sulle modalità di analisi dei
competitors basandola su quattro aspetti fondamentali.
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Ogni industria sceglie di sviluppare un prodotto in base ai proprio obiettivi ed alle proprie
credenze, guidando così le decisioni intraprese che dipenderanno dalla strategie attuate ed
inevitabilmente dalle risorse a disposizione. Questo schema generale non era nato per
indicare uno specifico tipo di industri o prodotto da analizzare, rendendolo molto attuale
anche per come intraprendere una analisi comparativa di farmaci in sviluppo.
Entriamo più nel dettaglio nei 4 punti studiati da Porter e vediamo come influenzino in
particolare le strategie di sviluppo di un farmaco e nel caso analizzato del Sovaldi.
Strategia del competitor:
Esistono due livelli per valutare in maniera indiretta/diretta la strategia di un competitor:
studiando quello che dichiara apertamente della sua strategia e come decide di gestire
direttamente le proprio risorse a livello di cash flow.
Le dichiarazioni di strategia sono rintracciabili direttamente dai reports annuali agli azionisti,
il 10K, le interviste ad analisti focalizzati sul settore, le dichiarazioni dei managers ed tutte le
informazioni passata dalla stampa.
Valutare invece a livello di distribuzione del cash flow la strategia, richiede lo studio del
numero delle assunzioni di un’industria, le spese dedicate alla R&D considerandone la
distribuzione in specifici settori, l’investimento di capitali in strutture di produzione o per
campagne promozionali del prodotto o in casi specifici di grande liquidità ed interessi
congiunti di più parti, iniziare partnership strategiche di sviluppo dei prodotti con eventuali
acquisizioni e fusioni.
Obiettivi dei competitors:
La conoscenza degli obiettivi dei competitors è di fondamentale importanza per capire quale
sarà la possibile strategia di sviluppo di un prodotto. Esistono infatti prodotti che mirano ad
ottenere piccoli settori specifici all’interno di un mercato più vasto, mentre altri prodotti
vogliono avere un utilizzo più diffuso a scapito della loro specificità od efficacia nel caso di
farmaci. Entrambi questi obiettivi plasmano le strategie di tutti i competitor di un particolare
mercato. Gli obiettivi non sono esclusivamente di natura finanziaria, anche se questa risulta
di fondamentale importanza, infatti in molti casi momentaneamente è più possibile per un
prodotto pensare al suo sviluppo di diffusione, aumentando la quota di mercato o assumendo
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una graduale leadership di innovazione a discapito dei prezzi. Questa strategia è per esempio
messa in moto da più anni da industrie come Google ed Amazon che hanno puntato
primariamente sul rendere la loro diffusione virale, a discapito dei prezzi che ora possono
essere favoriti dall’ottima struttura di gestione degli shareholders e la crescita dell’importanza
del marchio. Altri prodotti puntano maggiormente al margine di guadagno più che alla
diffusione, come visto nell’esempio di marchi come Apple e Prada diretti ad una specifica
clientela sempre più elitaria.
Queste caratteristiche possono essere trasposte direttamente al mondo del farmaco, dove si
nota un sempre maggiore sviluppo di studi clinici su prodotti oncologici perché è altissima la
domanda di nuove molecole, mancando per molti tumori una valida cura, e soprattutto un
grosso margine di profitto sul singolo prodotto venduto. Non a caso un singolo ciclo di pochi
mesi di terapia oncologica può fruttare per certi farmaci ben più del costo totale di una vita
utilizzando antiipertensivi. Gli ipertensivi in compenso vantano di una grossa possibilità di
diffusione che può potenzialmente compensare queste differenze di costi sul singolo prodotto,
ma soffrono del problema della mancanza del brevetto, scaduto da più anni.
Proprio la durata del brevetto risulta essere la carta vincente nello sviluppo di un farmaco,
perché le oscillazioni di prezzo sono dettate dall’offerta disponibile di un prodotto rispetto
alla relativa domanda. In assenza di brevetto la domanda non viene modificata e l’offerta di
prodotti invece tende ad aumentare, andando ad erodere di molti i margini di vendita dei
farmaci con brevetto scaduto. Un esempio su questo versante è il farmaco con più ricavi della
storia della Pfizer Lipitor, destinato a perdere ampie quote di mercato con la diffusione di
generici e di altrettante se non maggiori perdite di ricavi.
Gli obiettivi dello sviluppo di un prodotto possono anche essere intuiti dall’organizzazione
strutturale dell’industria proprietaria del brevetto. Nelle fasi iniziali la maggiore parte dei
costi viene dedicata alla R&D e lo sviluppo preclinico e clinico di un farmaco. Col progredire
delle fasi, diventa sempre più importante investire in professionisti esperti nel campo
registrativo-regolatorio nonché nella gestione delle problematiche mediche di utilizzo
valutate per esempio con la farmacovigilanza. In questi momenti è di notevole importanza
anche investire in esperti di marketing e della parte commerciale, per garantire la migliore
gestione del lancio in differenti nazioni/continenti. Avere il prodotto giusto, con le persone
giuste al momento giusto non è per nulla facile da bilanciare nel corso delle fasi di sviluppo
di un farmaco. Queste attività generali sono solitamente gestire da unità apposta dedicate alle
scelte di investimento, partnership e sviluppo aziendale.
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Un altro aspetto da considerare è il grado di tolleranza al rischio nello svuluppo di un
prodotto, gli incentivi dati al management ed il loro background professionale, la
composizione del consiglio di gestioni, direzione e amministrazione legale e contrattuale oltre
agli eventuali altri obiettivi aziendali che possano influenzare direttamente lo sviluppo di
questo prodotto.
Se un competitor non si sta allineando con i suoi obiettivi in maniera evidente, questo può
porre grossi interrogativi su un futuro cambio di strategia.
Credenze dei competitors:
Le credenze possono plasmare lo sviluppo di un prodotto farmacologico ben più di quanto si
possa aspettare. Queste sono generate dalle considerazioni sulla posizione competitiva,
sull’esperienza passato con prodotti simili sviluppati sia direttamente che da altre industrie in
competizione, da fattori regionali e dall’importanza delle mode. Non c’è nulla che faccia
fluttuare di più a livello della moda e questo non risparmia sicuramente il mercato
farmaceutico. Gli stessi farmaci si muovono secondo delle tendenze, spesso generate da
credenze a loro volta generate da condizioni regolatorie, di rimborso commerciale e
soprattutto generate dai media. Il nuovo decennio sembra essere l’anno ottimale per lo
sviluppo di prodotti biologici ad azione antitumorale, ma questo trend potrebbe prontamente
invertirsi se non ci saranno grossi risultati economici dei prodotti attualmente in sviluppo o
diminuiranno gli incentivi che attualmente “drogano” il mercato della ricerca oncologica.
Il Sovaldi sta cavalcando prontamente l’onda della terapia interferon-free come possibile
futura guarigione dal virus dell’HCV. È il primo farmaco che fa parte di un simile regime e
questo gli da un notevole vantaggio commerciale, ma bisogna considerare che a breve altri
competitors proveranno ad utilizzare queste credenze a loro vantaggio.
Capacità e risorse a disposizione dei competitors:
Nella valutazione delle capacità e risorse a disposizione dei competitors è di primaria
importanza svolgere una analisi finanziaria sulla sostenibilità dello sviluppo dei prodotti. Un
sistema utilizzato che valuta appunto i punti di forza e debolezze è l’analisi caratterizzata
dall’acronimo SWOT. La forza di un competitor determina anche le sue capacità di sostenere
un determinato mercato. Come già anticipato anche nello sviluppo dei farmaci è importante il
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momentum, ovvero le condizioni inerziali che si creano generate da credenze, spesso difficili
da modificare nei brevi periodi. Il fallimento commerciale del Sovaldi potrebbe infatti da un
lato essere una grossa opportunità per i suoi competitors, dall’altro generare un momentum
negativo sullo sviluppo di tutti i prodotti relativi alla terapia di HCV, rendendo così meno
validi gli investimenti effettuati in questi anni. Ad ogni grosso cambiamento si associa un
cambio di momentum che bisogna fare in modo di cogliere al massimo delle forze. Il
momentum può essere anche conseguenza di scelte aziendali già in precedenza effettuate che
influiscono indelebilmente sullo sviluppo di un prodotto. L’acquisto di Pharmasset da parte
della Gilead ha fatto si che i successivi investimenti siano inevitabilmente molto canalizzati
sullo sviluppo di terapie per HCV. Questo renderebbe meno facile un cambiamento di scelte
di sviluppo commerciale, rispetto ad un possibile contratto di co-sviluppo, che però
limiterebbe nello stesso tempo i massimi guadagni.
Bisogna ricordare che l’organizzazione più flessibile è quella che si sa adattare meglio, e
possibilmente più velocemente, ai cambiamenti a cui e sottoposto. Nell’adattarsi ha
fondamentale importanza sapere utilizzare a proprio vantaggio dei periodi di momentum
positivi.
Risposta al profilo del competitor
Una volta ottenute tutte le informazioni possibili dall’analisi di un competitor ed averle
organizzate per renderle funzionalmente interpretabili, l’obiettivo principale è capire quali
siano veramente le sue capacità e predirne le future mosse. In questo caso si possono
interpretare due differenti trend principali di strategia: aggressiva o difensiva. Una strategia
difensiva punta spesso a minimizzare le perdite mentre una offensiva punta al profitto anche a
potenziali discapito di sicurezza a lungo termine.
Una volta capiti tutti questi punti l’analista può sfruttare queste conoscenze a suo vantaggio
per predire le strategie dei competitors e soprattutto, qualora possibile influenzarle per trarne
il massimo vantaggio.
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Sofosbuvir (Gilead)
OVERVIEW:Inibitore
nucleotidico della RNApolimerasi virale NS5B
Additional value:
Terapia interferon free in pazienti
con genotipo 2-3 ed ottime risposte
anche contro il genotipo 1 con
regimi di durata di sole 12
setitmane.
Details:
Possibilità di utilizzo con una
terapia orale presa solo 1 volta al
giorno e senza modifiche di dosi in
base a parametri biologici o clinici.
Cost:
Attualmente prevede un regime dal
costo di 84 mila dollari per 12
settimane di trattamento. Potrebbe
avere problemi ad essere utilizzato
come farmaco di prima linea in
tutti i pazienti trattabili, visto
l’elevatissimo costo totale.
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Simeprevir (J&J)
Daclatasvir (BMS)
OVERVIEW: Inibitore della
proteasi virale NS3 di seconda
generazione
OVERVIEW: Inibitore di
NS5A
Additional value:
Più efficace contro tutti i
genotipi degli inibitori delle
proteasi di prima generazione.
Meno interazioni farmacologiche
osservate.
Details:
Utilizzo di una sola capsula presa
una volta al giorno di 150 mg
rispetto agli altri inibitori di
proteasi che prevedono l’utilizzo
di
molti
farmaci
in
contemporanea.
Cost:
La terapia con simeprevir è
superiore ad i 60 mila dollari e
più lunga di quella utilizzata con
sofosbuvir.
A questo prezzo difficilmente
verrà utilizzato con i dati
attualmente disponibili dagli
studi clinici di sofosbuvir.
Additional value:
Risposte quasi totali (100%) nei
pazienti anche con genotipo 1 e
senza richiedere l’utilizzo di
interferone.
Details:
Terapia orale per i genotipi
ancora associati alla terapia con
interferone. Richiede però la cosomministrazione con sofosbuvir.
Cost:
Non è ancora approvato per
nessuno utilizzo e verrà valutato
dalla FDA nel corso del 2014. Il
suo contemporaneo utlizzo con
sofosbuvir
richiederà
una
notevole riduzione del prezzo, per
evitare di essere escluso da
formulari.
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Analisi SWOT (Strenghts, Weaknesses, Opportunities and Threats)
Analizzare un fenomeno seguendo i punti indicati dall’acronimo SWOT è stato per la prima
volta descritto da Learned, Christiansen, Andrews e Guth nel 1969 nel libro Business Policy,
Text and Cases. È molto comodo per semplificare la gestione analitica di fenomeni complessi
quali l’analisi di competitori e permette di generare strategie alternative nella valutazione del
prodotto.
L’analisi situazionale infatti prevede la chiarificazione sia della situazione interna
rappresentata da punti di forza e debolezza, che la situazione esterna caratterizzata da
opportunità e minacce alla sviluppo del proprio business, quale potrebbe essere lo sviluppo
clinico/commerciale di un farmaco.
Tali dati vengono utilizzati per formulare una strategia e cercare di fare leva sulle proprie
forze per cogliere opportunità esterne ed evitare di incrementare il peso delle debolezze che
possono massimizzare le minacce esterne.
Corporate Reputation delle industri farmaceutiche e biotecnologiche nel 2013
La reputazione di un industria influisce moltissimo sulla capacità di vendere i proprio
prodotti e questo è oltremodo importante nel caso dell’industria farmaceutica e
biotecnologica, dove l’obiettivo commerciale principale è vendere prodotti che migliorino la
qualità della vita e della salute dei propri clienti. Per avere una buona reputazione non basta
essere abili nelle strategie di marketing e basarsi su solidi dati scientifico-clinici, ma serve
anche avere continuamente ben in mente gli obiettivi di tutti gli stakeholders. I principali
attori in questo caso sono l’industria stessa, i dottori prescrittori, le agenzie regolatorie, le
agenzie che regolano il prezzo di mercato, i pazienti ed i rappresentanti di gruppi di pazienti.
Proprio considerando questi ultimi due elementi, ogni anno viene proposto un sondaggio che
valuti la prospettiva dei pazienti sull’operato dell’industria farmaceutica valutando 33
compagnie nel 2013. I dati raccolti hanno riguardato 800 gruppi di pazienti presi in 43
nazioni e comprendenti diverse specialità cliniche.
La fiducia complessiva nell’operato dell’industria farmaceutica è stata del 35,4%, cadendo al
7° posto tra le industrie coinvolte nel rame healthcare, sorpassata di poco dalle compagnie
biotecnologiche.
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The pharma industry ranks 7th in the league table of 8 healthcare industries, 2013
Industry 2013 rankings
1st. Retail pharmacists, 61.9%
2nd. Medical-device companies, 54.9%
3rd. Healthcare services (private sector), 51.1%
4th. Health insurers (not-for-profit), 42.8%
5th. Generic drug manufacturers, 41.5%
6th. Biotechnology companies, 40.6%
7th. Multinational pharma companies, 35.4%
8th. Health insurers (for-profit), 26.7%
La Gilead nel 2013 ha guadagnato la seconda posizione, preceduta esclusivamente da ViiV,
una compagnia che si occupa soltanto di sviluppare farmaci contro HIV.
Generalmente le posizione più elevate della classifica sono state riservate ad industrie con
farmaci antitumorali, antivirali (HIV ed HCV) o sviluppanti farmaci per malattie orfane. Alla
luce degli utlimi reclami contro il prezzo del sofosbuvir di approvazione negli US, le
aspettative sono che nel rank 2014 la Gilead possa occupare posizioni peggiori.
Overall top-10 company rankings for corporate reputation (patient perceptions)
(Number
in
brackets
is
rank
in
2012)
*ViiV was not featured in The Corporate Reputation study before 2013
1st. ViiV (— *)
2nd. Gilead (2nd)
3rd. AbbVie (6th)
4th. Pfizer (5th)
5th. Janssen (4th)
6th. Roche (8th)
7th. Eli Lilly (9th)
8th. Menarini (19th)
9th. Novartis (3rd)
10th. Novo Nordisk (11th)
Battaglia di brevetti
La gloria di avere un brevetto dal valore potenziale di miliardi di dollari crea molti nemici
intenzionati a spartire parte del largo bottino.
Non a caso già pochi giorni prima dell’approvazione del Sovaldi sono iniziate le prime cause
legali sulla validità del brevetto del prodotto e su quali siano le altre case farmaceutiche
potenzialmente titolari di parte dei diritti sulla vendita del prodotto. La battaglia per la
proprietà intellettuale del sofosbuvir potrebbe essere una delle più grandi mai viste in campo
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farmaceutico, tanto da ricordare molto le sfide coinvolgenti industrie di tecnologie avanzate
come Apple e Samsung.
Al momento sono già ben 3 i potenziali disturbi per la Gilead: Idenix, Roche e Merck.
La Gilead si è garantita al momento la registrazione di brevetti che nel mercato statunitense
scadranno nel 2025 e 2029.
La Idenix ha fatto partnership in una accusa con l’Università di Cagliari sul brevetto
riguardante l’uso di un composto 2-metil nucleosidico, mentre la seconda causa ha coinvolto
2 altre università ed il Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica Francese (CNRS),
accusando la Gilead di avere infranto un brevetto sulle modificazioni di profarmaci
nucleosidici modificati in 2’ e 3’, utilizzati per trattare infezioni da Flaviviridae. La maggiore
battaglia si sta svolgendo all’ufficio dei marchi e brevetti americano (US Patent and
Trademark Office), anche se si sta spostando anche all’ufficio brevetti di altri stati. In questi
casi bisogna considerare che la Gilead ha acquisito i brevetti direttamente dopo l’annessio
completa della Pharmasset, rendendo più complicata la gestione di questi problemi legali.
La Merck insieme con la Isis Pharmaceuticals vorrebbero il 10% dei ricavi delle vendite del
Sovaldi per dei brevetti da loro posseduti sull’utilizzo di inibitori nucleosidici per contrastare
l’attività della RNA polimerasi virale. La Gilead non è ovviamente d’accordo con queste
accuse di plagio e rivendica per sé l’originalità del prodotto non limitata dai due brevetti degli
accusatori (US 7105499 e US 8481712).
Roche fa leva della sua partnership con la Pharmasset svoltasi negli anni precedenti
all’acquisizione (168 milioni di dollari in 2 anni), per considerare il sofosbuvir un pro
farmaco del PSI6130 in precedenza da loro sviluppato e poi interrotto.
Anche se probabilmente la Gilead avrà la meglio in tutte queste cause legali, notevoli sforzi
dovranno essere utilizzati per garantirsi la validità del brevetto del “farmaco dei desideri”.
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La battaglia sul prezzo del Sovaldi
Quando si utilizza un farmaco dal costo di 1000 dollari al giorno e complessivamente di 84
mila dollari a ciclo completato di terapia difficilmente non si trovano forti oppositori per la
potenziale avidità dell’industria farmaceutica proprietaria del brevetto del farmaco in
questione.
Questo è proprio accaduto al Sovaldi che in pochi mesi dalla sua autorizzazione in
commercio in USA sta facendo record di vendite, ma anche record di oppositori.
Su chi cade il costo elevatissimo di questa terapia? Sui pazienti? Sullo Stato? Sulle
compagnie assicuratrici?
Tutti questi 3 gruppi si sono lamentati del prezzo proposto dal prodotto tanto da pretendere
una migliore valutazione di come potenzialmente utilizzarlo senza mandare in poco tempo il
sistema sanitario in bancaotta. Il rischio di co-payment oltretutto ridurrebbe di molto
l’utilizzo del Sovaldi in quanto molti pazienti non potrebbero avere accesso alle cure,
appartenendo molto spesso alla classe dei cittadini più poveri.
È vero che il sofosbuvir sembra curare con altissima efficacia la HCV, ma vale veramente
quel prezzo?
Se lo sono chiesti i PBM (Pharmacist Benefit Manager) per capire se è possibile ridurre il
numero di pazienti trattati diminuendo così il potenziale margine di perdite per la spesa
farmacologica. Tra questi ricordiamo Express Scripts Holding Co. (ESRX), Catamaran Corp.
(CCT), Aetna Inc. e CVS Caremark Corp. (CVS).
La spesa farmaceutica negli USA è prevista aumentare del 6,5% all’anno dal 2015 al 2022,
superando di molto quella della spesa sanitaria e del PIL. Solo per l’HCV la spesa è prevista
passare da 3 milioni di dollari nel 2011 a 21 milioni nel 2018 secondo il Decision Resources
Group LLC.
La terapia con farmaci esclusivamente orali è prevista costare più di 100 mila dollari rispetto
ai 66 mila del gold standard attuale, anche se bisogna considerare che si potrebbero generare
risparmi nella riduzione delle complicanze o a lungo termine diminuendo le visite
ambulatoriali ed i ricoveri del paziente guarito. I nuovi regimi sono infatti molto più efficaci e
sicuri di quelli attualmente utilizzati.
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L’evoluzione del prezzo dei farmaci utilizzati per trattare HCV deve considerare
inevitabilmente i competitors coinvolti e la loro immissione in commercio.
Attualmente le due terapie più efficaci in USA sono basate su simeprevir e sofosbuvir, ma
con l’arrivo di terapie esclusivamente orali da parte della AbbVie e BMS il prezzo dei due
farmaci precedentemente citati è destinato a diminuire. Ci troveremmo di fronte ad un
aumento della offerta delle terapie per HCV con una domanda relativamente stabile di
pazienti trattati, specie nelle nazioni più sviluppate.
La Gilead ha visto aumentare le sue vendite del 21% nel 2013 grazie principalmente ad i
farmaci contro HIV Complera e Stribild, mentre il Sovaldi ha raggiunto i 139 milioni di
dollari di ricavi nel primo mese della sua approvazione, battendo molti record. Il peso
specifico di questo farmaco sui ricavi totali della Gilead sarà elevatissimo nel 2014 dove sono
previsti più di 12 milioni di dollari di entrate, dove almeno 4 saranno da riferirsi al Sovaldi. I
ricavi del primo quadrimestre del 2014 sono attesi superiori al milione di dolalri, superando
di gran lunga quelli dell’Incivek che è stato il composto più veloce a superare il milione di
dollari di vendite nel corso di solo 1 anno di commercializzazione. A vantaggio del prodotto
della Gilead c’è sicuramente un grosso margine dato dal prezzo del 70% superiore rispetto a
quello di approvazione del telaprevir e soprattutto che già ora viene prescritto 114% di volte
in più dell’inibitore della proteasi.
L’Incivek sta diventando ormai una terapia del passato, non a caso le sue vendite sono
diminuite del 91% negli Stati Uniti e portato al licenziamento di 370 persone assunte nel
settore di farmaci infettivologici.
Secondo un pannello di esperti presente al California Technology Assessment Forum i
pazienti dovranno essere trattati il più possibile con i nuovi farmaci, ma limitando i costi
prevedendo di utilizzare le terapie meno costose per i gruppi a maggiore possibilità di
risposta terapeutica. Solo in California il costo della terapia dell’HCV sarebbe di 6,3 miliardi
di dollari se si seguissero le nuove linee guida, portando al fallimento rapido del sistema
sanitario e delle assicurazioni. Il vero problema non sta solo nel grossissimo costo del singolo
farmaco, ma nell’utilizzo delle combinazioni.
Il Medicaid non può permettersi di coprire col trattamente i 62 milioni di americani che
assicura solitamente e potrebbe essere quindi necessario ritrattare il contratto o con i pazienti
o con le assicurazioni. Questo permetterebbe di impostare il costo della terapia in base al
rischio o richiedere un co-payment dei pazienti.
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I PBMs non guardano solo all’efficacia della terapia ed alla sua convenienza, ma al costo
rispetto alle alternative disponibili, anche se quest’ultime sono più difficili da sopportare dai
pazienti trattati.
Secondo l’Istituto delle Revisioni Clinico ed Economiche la terapia con i nuovi farmaci non
riduce i costi globali del trattamente se usata indistintamente su tutti i pazienti, mentre li
ridurrebbe se limitata ad i casi più difficili da trattare che progredendo con la patologia
costano molto di più al sistema. Anche politici dello spessore del repubblicano Henry
Waxman e altri democratici hanno scritto una lettera di protesta al CEO della Gilead Jhon
Martin per chiedere spiegazioni del prezzo esorbitante del farmaco.
Ma il problema grosso resta la scarsa capacità del Medicare di influire sul prezzo di ingresso
nel mercato di un farmaco, e il nullo potere contrattuale della FDA.
Il prezzo di vendita del Sovaldi è sicuramente non accessibile per i paesi in via di sviluppo o
più poveri come l’India, che di recente sta cercando di bloccare i diritti di brevetto del
farmaco della Gilead grazie anche al supporto del I-MAK (The Iniziative for Medicines,
Access & Knowledge).
Questa ostruzione sui direitti di brevetto di farmaci molto costosi ha coinvolto molte altre
terapia in questa nazione, coinvolgendo principalmente molecole utilizzate come antitumorali
o antivirali. Anche il Pegasys della Roche ha visto la sua licenza di brevetto revocata dopo
lunghi scontri. Resta da chiedersi se sie eticamente sostenibile vendere faramci a prezzi molto
scontati in questi paesi, mantenendo elevatissime spese sanitarie per gli stessi prodotti nelle
nazioni più sviluppate, creando così notevoli differenze di trattamento legale-commerciale
per uno stesso prodotto.
Queste trattative stanno portando il prezzo del trattamento di 12 settimane con Sovaldi a 2000
dollari, risultando minore del possibile trattamento con farmaci generici sviluppati ad hoc che
avrebbero un costo stimanto di 2500 dollari per trattamenti di 6 mesi. Il gruppo I-MAK
ritiene che il vero prezzo di Sovaldi per essere accessibile in India è di circa 500 dollari per
trattamento, altrimenti la maggiore parte degli infetti di fatto non verrà trattata. L’unico
metodo possibile per giungere a questa enorme riduzione di costo del farmaco sembra essere
un accordo commerciale con dei produttori di faramci locali che garantiscano la vendita di
generici del sofosbuvir a prezzo ridotto e diano parte dei loro ricavi come royalty alla Gilead.
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nr. 1/2014
Questo accordo per il momento sta convolgendo 3-5 industrie indiane disponibili a
condividere parte dei ricavi con la casa Californiana.
La finestra temporale per l’immissione al commercio del sofosbuvir in India è però ancora
lunga e tortuosa in quanto l’agenzia regolatoria deve ancora rivedere i risultati degli studi di
fase III e giungere ad una decisione ufficiale sull’utilizzo del prodotto, potendo richiedere
anche 2 anni in caso di rallentamenti burocratici. La Gilead sta anche cercando partnership
commerciali con la Mylan per vedere versioni generiche dei suoi farmaci contro l’HIV in
India, iniziando così ad espandere i pazienti coperti con queste terapie anche se a prezzo
decisamente ridotto.
Competitors farmacologici
Il sofosbuvir ha ricevuto il via libera dall’EMA per l’autorizzazione al commercio nei 28
paesi dell’Unione Europea tramite un processo accelerato, garantita da un rivalutazione
accelerata degli studi clinici.
Qui sotto sono indicati i tipi di regimi utilizzabili in base al genotipo virale.
Patient population
Genotype 1, 4, 5 or 6 CHC
Genotype 2 CHC
Genotype 3 CHC
Patients with CHC awaiting
liver transplantation
Treatment
Sovaldi + RBV + peg-IFN
Sovaldi + RBV
Only for use in patients ineligible
or intolerant to peg-IFN
Sovaldi + RBV
Sovaldi + RBV + peg-IFN
Sovaldi + RBV
Duration
12 weeks
Sovaldi + RBV
Until liver transplantation
24 weeks
12 weeks
12 weeks
24 weeks
Ci sono in Europa circa 9 milioni di persone infette con HCV che risulta essere un numero
estremamente piccolo se confrontato con le oltre 150 milioni di persone infette
mondialmente.
Per la registrazione sono stati considerati anche i risultati di due studi addizionali oltre a
quelli valutati dalla FDA ovvero il VALENCE ed il PHOTON-1. Il primo tratta pazienti con
genotipo 3 per 24 settimane, mentre il secondo considera la popolazione di persone
coinfettate da HIV-1 trattandole per 12 settimane se con genotipo 2 o 3, in contrasto con 24
settimane di trattamento se presentanti il genotipo 1. Ogni caso di ricaduta successiva al
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nr. 1/2014
trattamento non è stata associata ad una resistenza virale al farmaco e circa 3 mila pazienti
fino ad ora hanno ricevuto almeno una dose di Sovaldi in studi clinici di fase II o III.
L’unica vera interferenza farmacologica rilevante osservata è l’interazione con farmaci che
induco potentemente la P-gp intestinale (iperico, rifampicina, carbamazepina e fenitoina) in
quanto riducono di molto la concentrazione raggiunta sistemica.
Risultati ancora più eclatanti sono stati ottenuti dall’associazione di sofosbuvir con ledipasvir
nei 1518 pazienti randomizzati a ricevere almeno 12 settimane di trattamento con la
combinazione neglio studi ION.
La SVR12 è stata raggiunta da 1456 (95,9%) pazienti e dei 62 che non hanno raggiunto
l’obiettivo clinico 36 (2,4%) hanno avuto una ricaduta viroogica, mentre i restanti (1,7%)
sono stati persi al follow-up o hanno ritirato il conseso alla sperimentazione clinica. Solo 1
pazienti ha avuto una ricomparsa in circolo del virus durante la terapia.
Bisogna considerare che il regime include 2 farmaci presi con una singola pillola e che le
risposte terapeutiche sono state valutate in un regime senza interferone e ribavirina in pazienti
con genotipo 1.
Questi risultati sembrano giustificare ampiamente la scelta della Gilead di abbandonare lo
sviluppo del daclatasvir con la BMS, pensando ad una combo di antivirali “fatta in casa”.
Achillion: una lontana e piccola rivale.
L’Achillion è una piccola industria farmaceutica che si è molto focalizzata su prodotti contro
l’HCV.
Attualmente il suo composto in stato più avanzato è il sovaprevir, un inibitore della proteasi
virale NS3 che però è bloccato da futuri avanzamenti clinici dalla FDA per una migliore
valutazione dei dati ottenuti.
Hanno un vasta gamma di prodotti in fase 2 pronti ad entrare in fase 3 nel corso del 2014 se
non ci saranno ulteriori rallentamenti di sviluppo.
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Essi sono rispettivamente:
•
ACH-3102, inibitore di NS5A in fase 2
•
ACH-2684, inibitore della proteasi dato in associazione col farmaco sopra citato
•
ACH-3422, un analogo dell’uridina con attività anti-proteasica.
Lo studio clinico più avanzato è lo -007 di fase 2a con associazione di sovaprevir (200400mg una volta al giorno)combinati con ACH-3102 (50mg una volta al giorno) e ribavirina
(2 volte al giorno) per 12 settimane in pazienti di genotipo 1a ed 1b mai trattati. I pazienti
trattati sono stati meno di 100 per ora, ma la risposta molto rapida (vRVR) è stata raggiunta
in tutti i pazienti.
Non sono stati osservati particolari effetti collaterali se non l’anemia probabilmente indotta
da ribavirna.
AbbVie
I risultati del studio clinic di fase IIb AVIATOR sono stati sorprendenti in quanto hanno
mostrato una SVR12 del 99% dei pazienti naïve al trattamento e 93% in pazienti non
responsive alla terapia di prima linea, tragettando il cocktail terapeutico in fase III. I risutlati
contro questa sottocategoria di pazienti, specie se del genotipo 1, sono superiori a quelli
precedentemente mostrati da tutti gli altri competitors.
I farmaci utilizzati in questo studio in associazione alla ribavirina sono stati ABT-450, ABT267, e ABT-333 + ritonavir.
Lo studio di fase III Sapphire II ha mostrato il 96% di SVR in pazienti pretrattati con
genotipo 1 di HCV. Il regime di tre farmaci associati alla ribavirina è stato studiato in questo
caso in 394 pazienti, di cui il 49% era null responder alla terapia di prima linea con
peginterferone e ribavirina. Solo l’1% dei pazienti ha dovuto sospendere il trattamento per
effetti avversi, mostrando una notevole tolleranza nonostante il numero elevato di pillole
utilizzate. La ricaduta dopo risposta virologica o ricomparsa in circo di copie di RNA durante
la terapia sono state evidenziate in solo il 2% dei pazienti.
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Altri studi clinici sono in corso sullo stesso regime per contrastare l’infezione in pazienti già
con cirrosi o evitando la combinazione con la ribavirina che può associarsi ad aggiunti eventi
avversi quali soprattutto l’anemia.
I farmaci testati per un regime di 12 settimane sono stati:
•
ABT-333 (250 mg, due volte al giorno) inibitore non nucleosidico della polimerasi
NS5B
•
ABT-450/ritonavir (150/100 mg, una volta al giorno)
inibitore della proteasi
sviluppato in collaborazione con la Enanta Pharmaceuticals
•
ABT-267 (25 mg, una volta al giorno) inibitore di NS5A
•
Ribavirina (dose dipendente dal peso, due volte al giorno)
Questa terapia interferon-free è stata testata in studi clinici comprendenti più di 2300 pazienti
con genotipo 1 ed in 25 nazioni, potendo essere considerato il più grande programma di
sviluppo clinico di farmaci contro HCV. Già dal Maggio 2013 sono considerate Breakthroug
Therapy dalla FDA, velocizzando la possibile futura commercializzazione già dalla fine del
2014 in caso di approvazione rapida.
Il picco di vendita di questi farmaci potenziale è attualmente stimato sopra i 2 miliardi di
dollari, avendo ottime possibilità di commercializzazione nei pazienti non responsivi a terapie
precedenti.
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Riassunto degli studi clinici di fase III programmati da AbbVie.
Study
SAPPHIRE-I
SAPPHIRE-II
PEARL-II
PEARL-III
PEARL-IV
TURQUOISE-II
Patients (N)
Treatment Regimen
GT1, treatment-naive
(631)
GT1, treatment-experienced
(394)
GT1b, treatment-experienced
(210 a)
GT1b, treatment-naive
(400 a)
GT1a, treatment-naive
(300 a)
GT1, treatment-naive and
treatment-experienced (with
compensated cirrhosis)
(380 a)
a
projected study population
b
ABT-450/ritonavir
c
ABT-267 is co-formulated with ABT-450/r, administered as two pills once daily
140
ABT-450/rb +ABT267c
ABT-333
Ribavirin
Treatment
Duration
12 weeks
Placebo
12 weeks, then
active treatment
for 12 weeks
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
12 weeks
Placebo
12 weeks, then
active treatment
for 12 weeks
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Placebo
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Placebo
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
ABT-450/r +ABT267
ABT-333
Ribavirin
12 weeks
12 weeks
12 weeks
12 weeks
12 weeks
12 weeks
12 weeks
24 weeks
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Jhonson and Jhonson
La J&J sta sviluppando nuovi farmaci contro il virus dell’HCV, senza però seguire il trend
caratteristico degli altri competitors di eliminare completamente la terapia con interferone.
Il suo farmaco in stadio di sviluppo più avanzato è già stato approvato a novembre dalla
FDA ed è sotto revisione dalla EMA che ne ha permesso una più estesa valutazione dai
singoli stati membri.
Si tratta di simeprevir (Olysio), sviluppato in partnership con la Medivir che si è così
guadagnata 10 milioni di premio successivi all’autorizzazioni in commercio negli USA.
Simeprevir è un inibitore della proteasi NS3/4A dato una volta al giorno alla dose di 150 mg.
La terapia prevede un suo utilizzo per 12 settimane associato al peginterferone ed alla
ribavirina, che però vanno continuate per ulteriori 12 settimane per raggiungere un totale di
tempo di esposizione all’interferone di 24 settimane nei pazienti responsive. La SVR12 è
stata dell’80% nei pazienti naive ad altri trattamenti e del 79% in pazienti pretrattati con
fallimento anche con gli inibitori delle proteasi di prima generazione come boceprevir e
telaprevir. Bisogna considerare anche la riduzione di esposizione da 48 a 24 settimane e la
minore quantità di pillole richieste nel seguente regime.
L’esistenza di competitors più efficaci e meno tossici potenzialmente limitano i potenziali
ricavi del simeprevir a 300-400 milioni di dollari stando alle stime di analisti.
Per occupare una fetta maggiore del ricco mercato di farmaci contro HCV la J&J ha
comprato dalla GSK un farmaco inibitore di NS5A (GSK2336805) da associare con il
simeprevir ed un inibitore non nucleosidico (TMC647055) sviluppato da loro direttamente
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Simeprevir Pharmacology (MedScape)
Mechanism of Action
In a biochemical assay simeprevir inhibited the proteolytic activity of recombinant genotype 1a and 1b HCV
NS3/4A proteases, with median Ki values of 0.5 nM and 1.4 nM, respectively
NS3/4A protease is needed for proteolytic cleavage of the HCV encoded polyprotein into mature forms
Absorption
Food increases systemic exposure by 60-70%
Peak plasma time: 4-6 hr
Predose plasma concentration: 1936 ng/mL
AUC: 57,469 ng•hr/mL
Distribution
Protein bound: >99.9%
Metabolism
Substrate: CYP3A (major); CYP2C8 (minor) and CYP2C19 (minor)
Inhibits OATP1B1/3 and P-gp transporters
Mildly inhibits CYP1A2 and intestinal CYP3A, but does not affect hepatic CYP3A4 activity
Elimination
Half-life: 41 hr (HC- infected); 10-13 hr (HCV-uninfected)
Excretion: Hepatobiliary; 91% feces (31% unchanged); <1% urine
Pharmacogenomics
Efficacy is substantially reduced in patients infected with HCV genotype 1a with an NS3 Q80K polymorphism
at baseline; screening patients for the presence of virus with the NS3 Q80K polymorphism at baseline is
strongly recommended
Simeprevir exposures are higher in populations with lower amounts of CYP3A and/or OATP1B1/3 including
patients of East Asian ancestry
IL28B genetic variant
A genetic variant near the gene encoding interferon-lambda-3 (IL28B rs12979860, a C to T change) is a strong
predictor of response to peginterferon alfa and ribavirin
Overall, sustained viral response rates were lower in subjects with the CT and TT genotypes compared to those
with the CC genotype
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Merck
La Merck sta testando combinazioni di farmaci di proprietà, per potere contrastare l’infezione
dell’HIV con una terapia completamente orale e senza la necessità di interferone.
Il bersaglio clinico principale è stato il genotipo 1 dell’HCV in quanto il più diffuso negli
Stati Uniti e nel Mondo, con potenzialità redditizie più elevate. Contro questo genotipo la
Merck ha già in commercio il boceprevir (Victrelis), ma bisogna ricordare che i ricavi di
questo farmaco si stanno sempre più asssotigliando con il 2013 che ha visto soli 502 milioni
di dollari di fatturato.
La nuova combinazione non richiede come boceprevir la combinazione in una triplice terapia
con ribavirina e peginterferone, in quando i due nuovi faramci che hanno ricevuto la
designazione di “breakthrought drug” dalla FDA sono usati in associazione tra di loro.
MK-5712 è un inibitore proteasico di nuova generazione (proteina NS3/4A) associato con
l’inibitore della NS5A chiamato MK-8742 in 58 pazienti valutati con genotipo 1° ed 1b.
Complessivamente le risposte sono state superiori al 95% (SVR-12) sia nei pazienti trattati in
combinazione con ribavirina sia in quelli trattati esclusivamente con i 2 farmaci.
Sorprendente è stato il fatto che tutti gli 11 pazienti trattati singolarmente con la
combinazione hanno mostrato risposta completa SVR con 12 settimane di terapia e senza
effetti collaterali degni di nota.
Il punto di forza aggiuntivo di questo regime è la possibilità di utilizzare un'unica pillola che
associ i 2 farmaci sperimentali, garantendogli di fatto la possibilità di competere con la
combinazione sofosbuvir-ledispavir della Gilead.
Il distacco temporale dello sviluppo clinico di questi prodotti è di circa 1 anno rispetto alla
industria californiana e questo potrà fare si che solo nelle fasi finali del 2015 saranno ultimati
i grandi studi di fase III per garantire una rapida approvazione dalla FDA.
Anche in questo caso l’arrivo tardivo in commercio potrà costare milione di dollari alla
Merck.
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Bristol Mayer Squib
La BMS sta sviluppando un cocktail di terapie orali per HCV composto da un inibitore della
polimerasi NS5B non nucleosidico (BMS-791325), un inibitore di NS5A (daclatasir) ed un
inibitore della proteasi NS3 (asunaprevir) che hanno ricevuto il parere positivo dalla FDA per
uno sviluppo clinico accelerato.
Il daclatasvir è stato inizialmente sviluppato per essere utilizzato in associazione al sofosbuvir
e presto probabilmente verrà approvato il suo utilizzo dalla FDA. La Gilead ha però rifiutato
di continuare gli studi clinici di questa associazione, preferendo lo sviluppo di un inibitore di
NS5A fatto in casa come il ledispavir.
Il risultati dell’associazione utilizzata per 12 settimane erano però oltremodo incoraggianti
con un 100% di SVR12 nei 40 pazienti pretrattati con insuccesso con Incivek e Victrelis. Le
risposte sono state ottime su tutti i genotipi e questo apre potenzialmente la strada ad una
terapia orale efficacissima contro il genotipo 3 poco contrastato dall’associazione con
ledispavir.
I potenziali limiti del regime a tre farmaci di BMS sono la presenta di un inibitore della
proteasi che può dare intereferenze terapeutiche e scarsa tollerabilità gastrointestinale-epatica,
nonché l’utilizzo di una dose da prendere 2 volte al giorno con potenziale diminuzione di
compliance.
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5. Farmacoeconomia
Il sistema decisionale delle priorità-scelte è un meccanismo logico che ci permette scegliere
una opzione, tra due o più disponibili, secondo criteri di priorità alternativa o cronologica.
La scelta presuppone cioè la costruzione di una scala di priorità tra le varie opzioni. Di
conseguenza la decisione (dal latino decidere = tagliare) a favore di una opzione ne esclude
altre, o ne rimanda l'esecuzione perchè, appunto, meno prioritarie.
Ogni scelta prevede un’analisi delle informazioni disponibili, riguardante in particolare modo
ai costi, qualità ed utilizzo che possono derivare dalla scelta di un determinato oggetto
rispetto ad un altro.
L'esplicitazione e la quantificazione di tali dati, nell'ambito delle
terapie
farmacologiche,
sono oggetto della Farmacoeconomia la quale stabilisce i criteri di calcolo del rapporto tra i
costi e le conseguenze di ogni opzione terapeutica valutando poi la differenza tra i rapporti
delle diverse opzioni.
Tale disciplina fornisce gli strumenti per poter disporre nella maniera più completa e precisa
possibile di tutti gli elementi utili ad effettuare delle scelte razionali, cioè efficaci e che
assorbano la minor quantità di risorse possibili (ottimizzazione delle risorse, efficienza),
ovvero ci permettano di conoscere
le risorse necessarie per attuare il programma
terapeutico prescelto.
Oltre ai costi, le informazioni che vengono utilizzate riguardano l’effectiveness dei farmaci,
ovvero l’efficacia valutata nelle condizioni reali di impiego, cioè quando l’uso del farmaco
vien esteso a tutta la popolazione.
Risorse, Costi e Benefici
Con il termine “risorsa” si intende tutto ciò cui è necessario ricorrere per soddisfare un
bisogno: cioè personale, tempo, strutture, capitali, strumenti, energia ecc.
Molto spesso il concetto di risorsa viene fatto coincidere con quello di denaro necessario per
usufruire della risorsa.
Con il termine ”beneficio” si intende ciò che si guadagna soddisfacendo il bisogno che si è
deciso di soddisfare. Nel caso dell’economia sanitaria la valutazione del beneficio ha come
fine il calcolo della spesa economica complessiva nelle risorse impiegate.
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Il “costo” è l'insieme di risorse necessarie per soddisfare un determinato bisogno, e che
comunque, vista l'eccedenza dei bisogni e dell'offerta di salute rispetto alle risorse disponibili,
sono sottratte al soddisfacimento di altri bisogni ritenuti meno prioritari.
Per questa ragione vengono anche chiamati “costi-opportunità”, appunto per rammentarci che
il costo delle nostre decisioni corrisponde ad un beneficio cui si è rinunciato.
Il costo reale di un programma non è dato dalla somma di denaro iscritta nel bilancio del
programma ma dai risultati in termini di salute che si sarebbero ottenuti utilizzando le stesse
risorse in altri programmi.
È questo costo-opportunità che la valutazione economica cerca di stimare e confrontare con i
benefici derivanti dal programma stesso.
Il costo non va confuso con il prezzo che, in quanto “entità di risorse necessarie all'acquisto
di un bene o di un servizio”, è solamente una delle componenti del costo.
Quindi la logica economica è basata sulla scelta dell'alternativa più conveniente:
• massimo beneficio ottenibile da un dato livello di costo-opportunità
• un dato livello di beneficio con il minor costo-opportunità possibile.
Naturalmente nel determinare le decisioni sanitarie spesso entrano in gioco anche
considerazioni di natura politica, morale o di efficienza clinica.
In economia ci sono due tipi fondamentali di scelta
• La decisione di soddisfare un certo bisogno è già stata presa e la scelta riguarda solo il
modo più efficiente di soddisfarlo:valutazione di efficienza tecnica
• Decidere quali e quanti bisogni soddisfare e confrontare i costi ed i benefici di ciascuna
alternativa: valutazione di efficienza allocativa.
Di solito però, è necessario decidere l'espansione o il ridimensionamento di servizi già
esistenti e confrontare la variazione di risorse necessarie rispetto ai livelli attualmente
impiegati.
Si valuteranno allora non tanto i costi ed i benefici totali, ma le loro variazioni, cioè i costi
marginali ed i benefici incrementali e la valutazione corrispondente è chiamata valutazione
marginale o incrementale.
L'obbiettivo è di ottenere l'efficienza, cioè l'allocazione delle risorse in modo tale che è
possibile ottenere il massimo beneficio con le risorse a disposizione.
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Economia sanitaria
“La salute non ha prezzo, ma ha dei costi”, è un assioma che sta alla base della valutazione
economica in sanità.
Alla fine degli anni settanta fu creata una unità di misura sintetica capace di combinare la
quantità e la qualità della vita denominata QUALY = Quality Adjusted Life Year che ha
portato alla nascita dell'analisi costo-utilità (CUA).
Negli ultimi anni sono nati nuovi concetti atti a valutare la condizione di salute dell’uomo
come la “qualità della vita”.
Con la diminuzione della mortalità ed il progressivo aumento dell’aspettativa di vita, è
aumentata la domanda di salute nella popolazione.
Da qui, come detto, la necessità di operare delle scelte, di definire delle priorità.
L'economia sanitaria è l'applicazione della disciplina economica alla sanità e alle altre
discipline mediche. Essa identifica ed analizza i costi ed i risultati degli interventi sanitari.
La valutazione economica in sanità identifica, misura e confronta i costi e gli esiti di
interventi sanitari alternativi da diverse prospettive. (Townsend, 1987)
Alle soglie del terzo Millennio si è giunti al concetto di Governance Clinico- assistenziale
(Clinical Governance), definito come “il contesto organizzativo in cui i professionisti e
amministratori dei servizi sanitari
si rendono responsabili del miglioramento della qualità
dell’assistenza e del percorso verso l’eccellenza clinica, nel limite delle risorse disponibili”
(NHS Withe Paper, 1999).
In poche parole la ricerca della migliore efficacia degli interventi clinici attraverso
l’ottimizzazione di costi e procedure.
La FARMACOECONOMIA è una disciplina che:
-“identifica, misura e confronta i costi ed i risultati dovuti ai farmaci ed alle procedure
terapeutiche”. (Bootman et al, 1989)
-”descrive ed analizza i costi (inputs) e le conseguenze o esiti (outcomes) della terapia
farmacologica”. (N. De Nicola, M.J. Sucre, 2004)
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OBIETTIVI:
•
scelta del miglior trattamento farmacologico a costi più convenienti (efficienza)
•
conoscere le risorse necessarie per i trattamenti farmacologici di una determinata
terapia.(pianificazione)
Naturalmente condizione necessaria di tutti gli studi di farmacoeconomia è che il trattamento
farmacologico sia di provata efficacia clinica.
La Farmacoeconomia è un utile strumento decisionale per:
•
SSN
•
Azienda Farmaceutica
•
Azienda Ospedaliera
•
Medico
•
Società
•
Pazienti (Associazioni di pazienti)
NON TENDE A:
-spendere meno
-razionare i beni sanitari
-scegliere in modo soggettivo,
emotivo
MA TENDE A:
-spendere meglio
- razionalizzare l'uso dei beni sanitari
-scegliere secondo priorità arbitrario,
documentate da dati specifici
casuale,
Le analisi farmacoeconomiche costituiscono oggi uno strumento fondamentale per
l'ottimizzazione nell'allocazione delle risorse destinate all'acquisto dei farmaci, ma anche per
formulare previsioni di spesa e pianificazione di attività correlate alle terapie farmacologiche.
La progettazione di analisi farmacoeconomiche, per la complessità e le molteplici
competenze necessarie, richiedono una collaborazione multidisciplinare tra diverse figure
professionali quali MEDICO, FARMACISTA, INFERMIERE, AMMINISTRATIVO ed
eventualmente altre figure che operano nei campi di attività coinvolte nello studio.
In genere le analisi farmacoeconomiche conducono a conclusioni strettamente correlate alla
specifica realtà osservata in un determinato ambito temporale.
Per affermarne la trasferibilità è necessario una attenta valutazione delle modalità di
determinazione dei costi e della significatività oggettiva delle conseguenze.
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Le analisi che vengono impiegate per mettere in relazione l’efficacia dei trattamenti farmaco
terapeutici con le risorse impiegate per attuarli, appartengono come già accennato, a quattro
tipologie fondamentali:
Analisi Costo / Efficacia (CEA = Cost / Effectiveness Analisys)
Analisi Costo / Utilità
(CUA = Cost / Utility Analisys)
Analisi di Minimizzazione dei Costi (CMA = Cost Minimization Analisys)
Analisi Costo / Beneficio (CBA = Cost / Benefit Analisys) esclusivamente economica
VARIABILI UTILIZZATE IN FARMACOECONOMIA
CA = costo medio di A (trattamento in esame)
CB = costo medio di B (trattamento di riferimento)
EA = efficacia di A (trattamento in esame)
EB = efficacia di B (trattamento di riferimento)
L'analisi COSTO – BENEFICIO (COST BENEFIT ANALYSIS – CBA)
L'obiettivo di questo tipo di analisi è quello di ottenere un ritorno economico più elevato
possibile sull'investimento effettuato.
Come già detto viene determinato un valore monetario sia per le risorse impiegate
(inputs) che per i risultati ottenuti (outcomes) con uno specifico intervento.
Non è sempre facile assegnare un valore monetario ai risultati, specialmente in campo
sanitario, ma in tal modo la CBA permette di confrontare programmi con risultati molto
diversi tra loro e per i quali non è possibile trovare un criterio comune di valutazione
dell’efficacia.
Infatti la CBA è nata per l'esigenza di stimare i costi ed i benefici di progetti pubblici per la
tutela della salute, che dovrebbero produrre un beneficio sociale netto per la
collettività. Infatti le cure sanitarie possono essere considerate un investimento nel capitale
umano.
In termini economici, il valore attuale della produttività di una persona nel corso della vita è
una misura appropriata del beneficio derivante da un investimento in capitale umano.
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La CBA deve prevedere:
A) definizione del progetto, dei suoi costi e benefici, di coloro cui competono tali costi e
benefici
B) Espressione dei costi e dei benefici in termini monetari
C) Comparazione dei costi e dei benefici
Naturalmente sia i costi che i benefici generati in termini monetari vanno riferiti all'anno nel
quale si manifestano. Tutti i benefici ed i costi che si verificano in tempi diversi devono
essere corretti per esprimere valori comparabili.
Essenziale per la determinazione della fattibilità del progetto è la interpretazione del
rapporto Beneficio-Costo B/C :
Se B/C è maggiore di 1, il programma è conveniente, se B/C è uguale ad 1, il beneficio
uguaglia il costo, mentre se B/C è minore di 1, il programma non è conveniente.
L'analisi COSTO – EFFICACIA
(COST EFFECTIVENESS ANALYSIS – CEA)
CA > CB ; EA > EB
Terapie farmacologiche diverse tra di loro possono essere rivolte allo stesso problema e
tendenti al medesimo obiettivo anche se possono produrre effetti differenziati sia
qualitativamente che quantitativamente. Se l’effetto principale sulla salute può però essere
definito e misurato in modo univoco, ad esempio in termini di mortalità, i vari interventi
alternativi possono allora essere confrontati tra loro utilizzando l’analisi Costo Efficacia
(CEA).
La decisione di intervenire su di un determinato problema è già stata presa e lo studio
valutativo viene realizzato solo allo scopo di identificare il modo più efficiente di
raggiungere l’obiettivo X (analisi di efficienza X).
Nell'Analisi Costo Efficacia i costi (inputs) di una terapia sono espressi in termini
monetari mentre le conseguenze (outcomes) in unità naturali.
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Permette di individuare quale trattamento farmacologico raggiunge uno specifico risultato
terapeutico al costo più basso ed altresì di conoscere quale sarà l'aumento dei costi per
unità di effetto guadagnato.
Essa ipotizza risorse sufficienti. Perciò gli obiettivi delle CEA sono:
A) raggiungere uno specifico risultato terapeutico nel modo più conveniente possibile
B) conoscere quale aumento di costi comporta l'aumento di efficacia che si
sta misurando
Una particolare condizione di CEA che rileva una maggior efficacia a fronte di costi minori
viene definita Cost Saving Analysis – CSA.
CA < CB ; EA > EB
I Costi (inputs)
I Costi di un trattamento farmacologico si possono distinguere in:
1− COSTI DIRETTI: costi dovuti a risorse consumate per la somministrazione della terapia
farmacologica e direttamente ad essa correlati.
2- COSTI INDIRETTI: costi dovuti a risorse non prodotte a causa del trattamento
A loro volta i costi DIRETTI possono dividersi in:
1a- COSTI DIRETTI SANITARI
1b- COSTI DIRETTI NON SANITARI
1a- COSTI DIRETTI SANITARI
prezzo dei farmaci
prezzo dei materiali per l'allestimento e la somministrazione
tempo del personale sanitario per l'allestimento e la somministrazione ammortamento di
eventuali apparecchiature
costi di analisi di laboratorio
costi dei trattamenti degli effetti indesiderati
costi dei servizi di supporto direttamente correlati
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Al prezzo dei farmaci vanno sempre aggiunti i costi della loro gestione tecnicoamministrativa che, secondo quanto sostengono gli esperti di logistica sanitaria, è il
13% del prezzo derivato.
Si assume inoltre che il costo del personale negli esami di laboratorio, secondo i dati di
letteratura, può essere mediamente calcolato nel 50% del costo complessivo delle analisi, con
l’esclusione del 13% dei costi di gestione dei materiali di consumo.
1b- COSTI DIRETTI NON SANITARI
costi per prestazioni sociali o hotelieri
costi per spostamenti e viaggi
costi per diete speciali
2- COSTI INDIRETTI
giornate di lavoro perdute dei pazienti e di chi li assiste
mancate opportunità di guadagno
inabilità lavorativa permanente
Generalmente i costi indiretti non sono inseriti nelle CEA e ciò può produrre effetti aberranti:
se l'effetto rilevato non è la mortalità, la morte di un paziente impegna meno costi di un
paziente in trattamento.
3- COSTI INTANGIBILI
Dolore
Stress
Sofferenza
Perdita del tempo libero
Morte
I COSTI inoltre possono essere classificati anche per caratteristiche estrinseche:
a) COSTO MARGINALE (C Mar): costo addizionale per produrre una unità di
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outcome
b) COSTO INCREMENTALE (CI) : differenza tra i costi marginali di vari interventi
alternativi
c) COSTO TOTALE (CT): costo necessario per produrre una data quantità di outcomes
d) COSTO FISSO (CF) : costo che non varia con la quantità di outcomes prodotti (salari,
tariffe, affitti, rate di noleggio,ecc.)
e) COSTO VARIABILE (CV): costo che varia con la quantità di outcomes prodotti (materiali,
cibo, onorari professionali,
tempo)
f) COSTO MEDIO (C Med ): costo medio per unità di outcome
Infine è opportuno accennare al problema dei COSTI GENERALI.
Per costi generali vengono indicati in contabilità quelle risorse utilizzate da molti e differenti
servizi, dipartimenti e programmi, quali,
ad esempio, uffici sanitari (Direzione Sanitaria),
uffici amministrativi, lavanderie centrali, archivi registrazioni mediche, servizi di pulizia,
servizi economali, portinerie, energia elettrica etc.
Quando si devono valutare i costi di un singolo programma è necessario attribuire ai vari
programmi questi costi comuni.
Va detto che non esiste un modo assolutamente univoco e corretto di ripartire tali costi.
L'approccio
più comune è quello dell'analisi
marginale, che
consiste
nell'osservare se questi costi cambiano con l'aggiunta o la sottrazione di uno specifico
programma.
Infine si dice che un costo viene allocato al Reparto, Servizio, Unità Operativa che lo genera,
ed il reparto Servizio, Unità Operativa è detto centro di costo.
Un costo viene imputato all’ambito temporale (mese, anno) in cui si produce.
L' Efficacia (outcome)
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Condizione necessaria perché un trattamento farmacologico sia sottoposto ad una CEA è
quella di possedere una
efficacia clinica (efficacy) documentata.
Efficacia (efficacy): rapporto tra effetti desiderati ed indesiderati in condizioni controllate
(RCT- efficacia ideale)
Efficacia (effectiveness): obiettivi terapeutici effettivamente raggiunti quando l’uso di un
farmaco viene esteso a tutta la popolazione (efficacia epidemiologica).
Efficienza: rapporto tra risorse investite e risultati conseguiti.
Gli esiti (outcome) vengono espressi, come già accennato, in UNITA’ DI MISURA
NATURALI, correlate con gli effetti farmacologici o terapeutici dei farmaci studiati.
Ad esempio:
- mmHg in meno per farmaci antiipertensivi
- durata dell’infezione in giorni (giorni febbrili o scomparsa del patogeno dai liquidi biologici)
- glicemia per gli antidiabetici orali
- patologie secondarie prevenute
- episodi psicotici prevenuti
- infarti evitati
- durata, in generale, dell’effetto terapeutico
- anni di vita guadagnati (LYG-life years gained o YOLS-years of life saved)
- guadagno di sopravvivenza (survival gain)
Identificare con precisione un obiettivo terapeutico, formulandolo in maniera corretta, è
fondamentale per la qualità dello studio e per evitare che le analisi farmacoeconomiche
portino a valutazioni sbagliate sulla possibile gestione delle risorse.
- CEA incrementale
Spesso l’analisi, anziché valutare il rapporto tra i costi e l’efficacia complessivi di due o più
trattamenti che raggiungono il medesimo obiettivo terapeutico, valuta soltanto il rapporto tra
l’incremento dei costi e l’incremento di efficacia. L’analisi si chiama allora “CEA
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incrementale” ed il rapporto tra incremento dei costi ed incremento dell’efficacia prende il
nome di
ICER (Incremental Cost Effectiveness Ratio).
ICER = (CA – CB) / (EA – EB)
Matematicamente rappresenta la pendenza di una retta ed indica l’aumento dei costi per unità
di effetto guadagnato.
A causa della natura delle domande a cui tipicamente risponde, la CEA rappresenta il tipo di
studio che più frequentemente viene realizzato contemporaneamente, o che viene addirittura
incorporato nelle sperimentazioni cliniche controllate (RCT) con benefici per entrambi i tipi di
studi.
Questo percorso, di tipo meramente osservazionale, viene definito “percorso in marcia
avanti”.
Recentemente è stato definito un approccio più interventistico definito “percorso in
marcia indietro” nel quale, attraverso una semplice formula inversa dell' ICER , si ricava il
Costo del trattamento in esame A, come prezzo “suggerito”, oscillante all'interno di una fascia
da un minimo ad un massimo.
Sostenibilità del costo incrementale:
• La conoscenza del valore del costo incrementale è una condizione necessaria ma non
sufficiente.
• Occorre confrontarlo con valori soglia di accettabilità e verificare la disponibilità delle
risorse finanziarie necessarie per far fronte ai costi aggiuntivi che verranno generati dalla sua
utilizzazione.
Il valore soglia può essere definito come valore limite dell’ICER – pesato, oltre il quale la
nuova procedura terapeutica presa in esame presenta costi non sostenibili.
È l’espressione delle preferenze della collettività e del “valore” che essa attribuisce alla salute,
cioè della Disponibilità a Pagare (Willingness To Pay - WTP) per ottenere un dato risultato.
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I Valori-soglia devono essere verificati alla luce della capacità dei singoli Paesi di produrre
risorse, pertanto non possono essere acriticamente trasferiti da un Paese all’altro.
A questo fine è stato proposto un indicatore basato sul Prodotto Interno Lordo (PIL) procapite, nell’ipotesi che non si dovrebbe spendere di più di quanto la Società potrebbe
recuperare grazie alla maggiore sopravvivenza dei beneficiari di un intervento sanitario
(ovvero: costo per anno di vita guadagnato < PIL pro-capite).
Al momento si dispone solo di valori-soglia empiricamente osservati, che possono però essere
considerati come espressione della WTP degli Organismi Regolatori in campo sanitario, dei
singoli Paesi.
ALCUNI VALORI-SOGLIA SUGGERITI NEI VARI PAESI
AUSTRALIA
$AU 42.000 - 76.000 (€ 25.000 - 45.000)
STATI UNITI
$ 50.000 (quasi mai limitanti)
REGNO UNITO
£ 20.000 - 30.000 (N.I.C.E.)
ITALIA
€ 12.000 - 60.000
L'analisi COSTO – UTILITA’ (COST UTILITY ANALYSIS – CUA)
Quando gli interventi modificano sia la quantità che la qualità della sopravvivenza si ricorre ad
una analisi che utilizza delle misure di utilità.
Può essere considerato un particolare tipo di analisi COSTO – EFFICACIA dove gli effetti
rivestono particolari valori per la società o per i singoli pazienti nelle CUA – analisi CostoUtilità – i risultati, anziché essere espressi in unità di misura naturali, sono espressi, come già
detto, in “utilità”, ossia il beneficio che una persona si aspetta di ottenere dal consumo di un
bene o di un servizio. Questo concetto, applicato in campo sanitario, identifica lo stato di
benessere individuale derivante dall’uso di un intervento sanitario o, nel campo specifico
della farmacoeconomia, di una terapia farmacologica.
Il CUA confronta quindi interventi che possono essere diversi in termini di tipologia di esito
poiché ne misura l’utilità (UTILITY).
Per “UTILITY” si intende l’auspicabilità e/o preferenza per un determinato stato di salute e
corrisponde al valore che il soggetto attribuisce al proprio stato di salute.
L’ UTILITY viene valutata interrogando direttamente il paziente con diverse tipologie di
interviste e scale di misurazione delle risposte, e viene espressa con valori che variano da 0 a
1:
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0 (morte o condizione ad essa assimilabile) - 1 (perfetta salute)
L’ UTILITY viene indicata come QUALITA’ DELLA VITA O QoL (QUALITY of LIFE)
QUALITA’ DELLA VITA = stato di benessere composto da:
• abilità nello svolgere le attività quotidiane
• soddisfazione rispetto al livello di funzionamento e controllo della malattia
(Gotay et al., 1992)
Frequentemente l’ UTILITY si esprime in QALY ( Quality-Adjusted Life-Year)
QUALY = Anno di vita pesato per qualità
Il QUALY rappresenta la quantità di vita (cioè i dati di mortalità), prevista per una certa
categoria di pazienti, “aggiustata” per la qualità della vita rilevata (cioè la morbilità) ed il suo
valore si ottiene dal prodotto della la durata di vita, espressa in numero di anni, per il valore
numerico attribuito all' UTILITY.
Esempio di calcolo del QALY:
ATTESA DI VITA (anni)
30
30
QUALITA’ DI VITA
(VALORE DI UTILITY)
1
0,5
QALY
30
15
I QUALYs sono il numero di anni di piena salute che viene ritenuto equivalente al numero di
anni di vita in condizioni reali. Poiché alcuni anni di vita reale sono qualitativamente ad un
livello inferiore a quello degli anni in piena salute,a causa delle malattie o degli effetti
indesiderati dei farmaci, il numero dei QUALYs è più piccolo del numero degli anni di vita.
Pertanto nell’analisi Costo/Utilità l’unità di misura degli outcome è il QALY e si dovrà
individuare il costo specifico per qualy, ovvero per qualy guadagnato.
L'analisi COSTO – MINIMIZZAZIONE (COST MINIMIZATION ANALYSIS – CMA)
CA ≠ CB ; EA = EB
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Concettualmente molto semplici le CMA non offrono grandi elementi di discussione e non
sono gravate dalle numerose controversie che generalmente interessano gli studi di
valutazione economica. Tuttavia la stessa denominazione di COSTO-MINIMIZZAZIONE è
oggetto di dibattito, in quanto secondo alcuni ricercatori questi studi dovrebbero essere
considerati come casi particolari di analisi costo-efficacia in cui non esistono differenze tra i
risultati dei diversi interventi posti a confronto.
Nonostante la semplicità concettuale questo tipo di studio richiede particolari attenzioni:
A) La certezza che gli interventi da confrontare siano realmente identici, producano le
medesime conseguenze e possiedano la stessa efficacia clinica: alcuni degli effetti delle terapie
farmacologiche possono non essere del tutto ovvi.
B) Siano coerenti con il punto di vista adottato dallo studio; quindi, come tutte gli altri tipi di
analisi il punto di vista deve essere esplicitato chiaramente.
C) I costi devono essere valutati con estrema attenzione e da ogni punto di vista compresa la
valutazione degli eventuali costi futuri.
L’ ANALISI DI SENSIBILITA’ è il metodo per rimediare all’incertezza e verificare la
robustezza dei risultati di un’analisi variando quei valori dei parametri stimati in modo incerto.
Questi parametri vengono di solito fatti variare uno alla volta tra due livelli estremi di valori
possibili. Se le conclusioni fondamentali dello studio non vengono modificate i risultati
aumenteranno la propria attendibilità.
L’ ANALISI DI SENSIBILITA’ di uno studio può essere:
• ad una via se la si esegue modificando il valore di una sola variabile,
• a due vie se la si esegue modificando il valore di due variabili
L’ANALISI DI SENSIBILITA’ può essere eseguita:
con metodo statistico, variando l’efficacia del denominatore di un ICER all’interno di un
intervallo di confidenza del 95%, tenendo fissi i costi del numeratore,
con metodo deterministico, ricalcolando l’ICER dopo aver variato uno alla volta
(one-way) o più di uno contemporaneamente (multi-way) i parametri in gioco.
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L’analisi di sensibilita’ e’ indispensabile per tutte le variabili che non sono note con certezza.
Farmacoeconomia e sperimentazioni cliniche
In breve la valutazione economica può essere aggiunta ad uno studio clinico allo scopo di
valutare:
A) Il consumo di risorse: servizi sanitari ed altre risorse (costi e benefici diretti)
B) Le perdite di produttività per malattia o per morte prematura o per entrambe le cause (costi
e benefici indiretti)
C) La qualità della vita o l’utilità
Gli studi di farmacoeconomia possono essere programmati e realizzati in ogni stadio del
processo di sviluppo di un farmaco, dallo stadio della ricerca di base fino alla ricerca
clinica (fase I, II, e III) ed alla sorveglianza post marketing (fase IV). Il costo degli studi
varierà in funzione del piano specifico di ricerca e del livello di ricerca.
Indicazioni registrate Boceprevir e Telaprevir
PRINCIPIO
NOME
FORMULAZIONI
ATTIVO COMMERCIALE
Telaprevir
Incivo®
Boceprevir
Victrelis®
INDICAZIONI REGISTRATE
(come da determinazione AIFA)
Trattamento dell’epatite C cronica di genotipo 1, in
associazione a peginterferone alfa e ribavirina, in
pazienti adulti con epatopatia compensata (compresa la
cp da 375 mg: cirrosi):
- 168 cp (4x42) che siano naive al trattamento;
- 42 cp (1x42) che siano stati precedentemente trattati con
interferone alfa (pegilato o non pegilato) da solo o in
associazione a ribavirina, compresi i pazienti recidivanti,
i partial responder e i null responder
Trattamento dell’infezione da epatite C cronica di
cp da 200 mg: genotipo 1, in associazione con peginterferone alfa e
- 336 cp
ribavirina, in pazienti adulti con malattia epatica
- 84 cp
compensata che non sono stati mai trattati in precedenza
o che non hanno risposto a precedente terapia
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ANALISI DEI COSTI ED IMPATTO DELLA SPESA
Prezzi dei farmaci*
SPECIALITÀ
Incivo® (telaprevir)
168 cp riv (4x42) da
375 mg – uso orale
AIC: 041456017
Incivo® (telaprevir) 42 cp
riv (1x42) da 375
mg – uso orale
AIC: 041456029
Victrelis® (boceprevir)
84 cp rigide da 200 mg
blister – uso orale AIC:
041380027
Victrelis® (boceprevir)
336 cp rigide da 200 mg
blister – uso orale AIC:
041380015
PREZZO AL
PUBBLICO (GU)
PREZZO EX
FACTORY
VIGENTE
SCONTO
NEGOZIATO
PREZZO MASSIMO
ACQUISTO SSN
€13.752,78
€7.520,53
11,36%
€6.666,40
€3.438,20
€1.880,14
11,36%
€1.666,60
€1.117,65
€643,44
6,00%
€604,83
€4.706,64
€2.573,75
6,00%
€2.419,32
* Fonte:
Determinazioni AIFA di Boceprevir GU n. 14/2013 e GU n. 287/2012
Determinazioni AIFA di Telaprevir GU n. 105/2013 e GU n. 287/2012
Costo dei trattamenti con inibitori delle proteasi (Trattamento epatite C cronica)
PRINCIPIO
ATTIVO/SPECIALITÀ
POSOLOGIA
DURATA TERAPIA
COSTO PAZIENTE
Telaprevir (Incivo®)
cp da 375 mg
1125 mg (3 cp) 2 volte die o
750 mg (2 cp) 3 volte die
(6 cp/die)
12 settimane
€19.999,20
Boceprevir (Victrelis®)
cp da 200 mg
160
Pz naive:
min 24 settimane max
800 mg (4 cp) 3 volte die
44 settimane
(12 cp/die)
Pz experienced: min 32
settimane max 44
settimane
€14.515,92
€26.612,52
€19.354,56
€26.612,52
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Il costo medio paziente , per entrambi i farmaci, è stimato intorno a € 20.000.
PRINCIPIO
ATTIVO/SPECIALITÀ
Peginterferon (Pegasys®)
Siringa preriempita 180 mcg
Ribavirina 200mg
POSOLOGIA
DURATA TERAPIA
COSTO PAZIENTE
180 mcg a settimana
48 settimane
€8446,08
800 mg (4 compresse)/die
1000mg (5compresse)/die
1200mg (6 compresse)/die
1400mg (7 compresse)/die
Min 24settimane
Max 44 settimane
€260,88
€478,28
Figura Analisi farmacoeconomica di confronto tra SOF e la triplice terapia con inibitori della proteasi.
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